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  • Trionfi
  • Francesco Petrarca
  • 1374
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  • Indice
  • Triumphus Cupidinis – Il trionfo d'Amore
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Capitolo III
  • Capitolo IV
  • Triumphus Pudicitie – Il trionfo della Pudicizia
  • Triumphus Mortis – Il trionfo della Morte
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Triumphus Fame - il trionfo della Fama
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Capitolo III
  • Triumphus Temporis – Il trionfo del Tempo
  • Triumphus Eternitatis – Il trionfo dell'Eternità
  • Altri progetti
  • Indice
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Capitolo III
  • Capitolo IV
  • Al tempo che rinnova i miei sospiri
  • per la dolce memoria di quel giorno
  • che fu principio a sì lunghi martiri,
  • già il sole al Toro l’uno e l’altro corno
  • 5 scaldava, e la fanciulla di Titone
  • correa gelata al suo usato soggiorno.
  • Amor, gli sdegni, e ’l pianto, e la stagione
  • ricondotto m’aveano al chiuso loco
  • ov’ogni fascio il cor lasso ripone.
  • 10 Ivi fra l’erbe, già del pianger fioco,
  • vinto dal sonno, vidi una gran luce,
  • e dentro, assai dolor con breve gioco,
  • vidi un vittorïoso e sommo duce
  • pur com’un di color che ’n Campidoglio
  • 15 triunfal carro a gran gloria conduce.
  • I’ che gioir di tal vista non soglio
  • per lo secol noioso in ch’i’ mi trovo,
  • voto d’ogni valor, pien d’ogni orgoglio,
  • l’abito in vista sì leggiadro e novo
  • 20 mirai, alzando gli occhi gravi e stanchi,
  • ch’altro diletto che ’mparar non provo:
  • quattro destrier vie più che neve bianchi;
  • sovr’un carro di foco un garzon crudo
  • con arco in man e con saette a’ fianchi;
  • 25 nulla temea, però non maglia o scudo,
  • ma sugli omeri avea sol due grand’ali
  • di color mille, tutto l’altro ignudo;
  • d’intorno innumerabili mortali,
  • parte presi in battaglia e parte occisi,
  • 30 parte feriti di pungenti strali.
  • Vago d’udir novelle, oltra mi misi
  • tanto ch’io fui in esser di quegli uno
  • che per sua man di vita eran divisi.
  • Allor mi strinsi a rimirar s’alcuno
  • 35 riconoscessi ne la folta schiera
  • del re sempre di lagrime digiuno.
  • Nessun vi riconobbi; e s’alcun v’era
  • di mia notizia, avea cangiata vista
  • per morte o per prigion crudele e fera.
  • 40 Un’ombra alquanto men che l’altre trista
  • mi venne incontra e mi chiamò per nome,
  • dicendo: - Or questo per amar s’acquista! -
  • Ond’io meravigliando dissi: - Or come
  • conosci me, ch’io te non riconosca? -
  • 45 Et ei: - Questo m’aven per l’aspre some
  • de’ legami ch’io porto, e l’aer fosca
  • contende agli occhi tuoi; ma vero amico
  • ti son e teco nacqui in terra tosca. -
  • Le sue parole e ’l ragionare antico
  • 50 scoverson quel che ’l viso mi celava;
  • e così n’assidemmo in loco aprico,
  • e cominciò: - Gran tempo è ch’io pensava
  • vederti qui fra noi, ché da’ primi anni
  • tal presagio di te tua vita dava. -
  • 55 - E’ fu ben ver, ma gli amorosi affanni,
  • mi spaventar sì ch’io lasciai la ’mpresa;
  • ma squarciati ne porto il petto e’ panni. -
  • Così diss’io; et ei, quando ebbe intesa
  • la mia risposta, sorridendo disse:
  • 60 - O figliuol mio, qual per te fiamma è accesa! -
  • Io nol intesi allor, ma or sì fisse
  • sue parole mi trovo entro la testa,
  • che mai più saldo in marmo non si scrisse;
  • e per la nova età, ch’ardita e presta
  • 65 fa la mente e la lingua, il dimandai:
  • - Dimmi per cortesia, che gente è questa? -
  • - Di qui a poco tempo tel saprai
  • per te stesso - rispose - e sarai d’elli:
  • tal per te nodo fassi, e tu nol sai;
  • 70 e prima cangerai volto e capelli
  • che ’l nodo di ch’io parlo si discioglia
  • dal collo e da’ tuo’ piedi anco ribelli.
  • Ma per empier la tua giovenil voglia
  • dirò di noi, e ’n prima del maggiore,
  • 75 che così vita e libertà ne spoglia.
  • Questi è colui che ’l mondo chiama Amore:
  • amaro come vedi e vedrai meglio
  • quando fia tuo com’è nostro signore:
  • giovencel mansueto, e fiero veglio:
  • 80 ben sa chi ’l prova, e fi’ a te cosa piana
  • anzi mill’anni: infin ad or ti sveglio.
  • Ei nacque d’ozio e di lascivia umana,
  • nudrito di penser dolci soavi,
  • fatto signor e dio da gente vana.
  • 85 Qual è morto da lui, qual con più gravi
  • leggi mena sua vita aspra et acerba
  • sotto mille catene e mille chiavi.
  • Quel che ’n sì signorile e sì superba
  • vista vien primo è Cesar, che ’n Egitto
  • 90 Cleopatra legò tra’ fiori e l’erba;
  • or di lui si triunfa, et è ben dritto,
  • se vinse il mondo et altri ha vinto lui,
  • che del suo vincitor sia gloria il vitto.
  • L’altro è suo figlio; e pure amò costui
  • 95 più giustamente: egli è Cesare Augusto,
  • che Livia sua, pregando, tolse altrui.
  • Neron è il terzo, dispietato e ’ngiusto;
  • vedilo andar pien d’ira e di disdegno;
  • femina ’l vinse, e par tanto robusto.
  • 100 Vedi ’l buon Marco d’ogni laude degno,
  • pien di filosofia la lingua e ’l petto;
  • ma pur Faustina il fa qui star a segno.
  • Que’ duo pien di paura e di sospetto,
  • l’un è Dionisio e l’altr’è Alessandro;
  • 105 ma quel di suo temer ha degno effetto.
  • L’altro è colui che pianse sotto Antandro
  • la morte di Creusa, e ’l suo amor tolse
  • a que’ che ’l suo figliuol tolse ad Evandro.
  • Udito hai ragionar d’un che non volse
  • 110 consentir al furor de la matrigna
  • e da’ suoi preghi per fuggir si sciolse,
  • ma quella intenzïon casta e benigna
  • l’occise, sì l’amore in odio torse
  • Fedra amante terribile e maligna,
  • 115 et ella ne morio: vendetta forse
  • d’Ippolito, e di Teseo, e d’Adrianna,
  • ch’a morte, tu ’l sai bene, amando corse.
  • Tal biasma altrui che se stesso condanna;
  • ché chi prende diletto di far frode,
  • 120 non si de’ lamentar s’altri lo ’nganna.
  • Vedi ’l famoso, con sua tanta lode,
  • preso menar tra due sorelle morte:
  • l’una di lui, ed ei de l’altra gode.
  • Colui ch’è seco è quel possente e forte
  • 125 Ercole, ch’Amor prese; e l’altro è Achille,
  • ch’ebbe in suo amar assai dogliose sorte.
  • Quello è Demofoon, e quella è Fille;
  • quello è Giasone, e quell’altra è Medea
  • ch’Amor e lui seguio per tante ville;
  • 130 e quanto al padre et al fratel più rea,
  • tanto al suo amante è più turbata e fella,
  • ché del suo amor più degna esser credea.
  • Isifile vien poi, e duolsi anch’ella
  • del barbarico amor che ’l suo l’ha tolto.
  • 135 Poi ven colei ch’ha ’l titol d’esser bella:
  • seco è ’l pastor che male il suo bel volto
  • mirò sì fiso, ond’uscir gran tempeste,
  • e funne il mondo sottosopra vòlto.
  • Odi poi lamentar fra l’altre meste
  • 140 Enone di Parìs, e Menelao
  • d’Elena, et Ermïon chiamare Oreste,
  • e Laodamia il suo Protesilao,
  • et Argia Polinice, assai più fida
  • che l’avara moglier d’Anfïarao.
  • 145 Odi ’l pianto e i sospiri, odi le strida
  • de le misere accese, che li spirti
  • rendero a lui che ’n tal modo li guida.
  • Non poria mai di tutti il nome dirti,
  • che non uomini pur, ma dèi gran parte
  • 150 empion del bosco e degli ombrosi mirti.
  • Vedi Venere bella e con lei Marte,
  • cinto di ferri i piè, le braccia e ’l collo,
  • e Plutone e Proserpina in disparte;
  • vedi Iunon gelosa, e ’l biondo Apollo
  • 155 che solea disprezzar l’etate e l’arco
  • che gli diede in Tessaglia poi tal crollo.
  • Che debb’io dir? In un passo men varco:
  • tutti son qui in prigion gli dèi di Varro;
  • e di lacciuoli innumerabil carco
  • 160 ven catenato Giove innanzi al carro. -
  • Stanco già di mirar, non sazio ancora,
  • or quinci or quindi mi volgea guardando
  • cose ch’a ricordarle è breve l’ora.
  • Giva ’l cor di pensiero in pensier, quando
  • 5 tutto a sé il trasser due ch’a mano a mano
  • passavan dolcemente lagrimando.
  • Mossemi ’l lor leggiadro abito e strano
  • e ’l parlar pellegrin, che m’era oscuro,
  • ma l’interprete mio mel facea piano.
  • 10 Poi che seppi chi eran, più securo
  • m’accostai a lor, ché l’un spirito amico
  • al nostro nome, l’altro era empio e duro.
  • Fecimi al primo: - O Massinissa antico,
  • per lo tuo Scipïone e per costei -
  • 15 cominciai - non t’incresca quel ch’i’ dico. -
  • Mirommi, e disse: - Volentier saprei
  • chi tu se’ innanzi, da poi che sì bene
  • hai spiato ambeduo gli affetti miei. -
  • - L’esser mio - gli risposi - non sostene
  • 20 tanto conoscitor, ché così lunge
  • di poca fiamma gran luce non vene;
  • ma tua fama real per tutto aggiunge,
  • e tal che mai non ti vedrà né vide,
  • con bel nodo d’amor teco congiunge.
  • 25 Or dimmi, se colui in pace vi guide, -
  • e mostrai ’l duca lor - che coppia è questa
  • che mi par delle cose rade e fide? -
  • - La lingua tua al mio nome sì presta,
  • prova - diss’ei - che ’l sappi per te stesso;
  • 30 ma dirò per sfogar l’anima mesta.
  • Avend’io in quel sommo uom tutto ’l cor messo,
  • tanto ch’a Lelio ne dò vanto a pena,
  • ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
  • A lui Fortuna fu sempre serena,
  • 35 ma non già quanto degno era il valore,
  • del qual più d’altro mai l’alma ebbe piena.
  • Poi che l’arme romane a grande onore
  • per l’estremo occidente furo sparse,
  • ivi n’aggiunse e ne congiunse Amore;
  • 40 né mai più dolce fiamma in duo cori arse,
  • né farà, credo. Omè, ma poche notti
  • fur a tanti desir sì brevi e scarse,
  • indarno a marital giogo condotti,
  • ché del nostro furor scuse non false,
  • 45 e i legittimi nodi furon rotti.
  • Quel che sol più che tutto ’l mondo valse
  • ne dipartì con sue sante parole,
  • ché di nostri sospir nulla gli calse;
  • e benché fosse onde mi dolse e dole,
  • 50 pur vidi in lui chiara virtute accesa,
  • ché ’n tutto è orbo chi non vede il sole.
  • Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
  • però di tanto amico un tal consiglio
  • fu quasi un scoglio a l’amorosa impresa.
  • 55 Padre m’era in onore, in amor figlio,
  • fratel negli anni; onde obedir convenne,
  • ma col cor tristo e con turbato ciglio.
  • Così questa mia cara a morte venne,
  • che vedendosi giunta in forza altrui,
  • 60 morir in prima che servir sostenne:
  • et io del dolor mio ministro fui,
  • ché ’l pregator e i preghi eran sì ardenti
  • ch’offesi me per non offender lui,
  • e manda’ le ’l velen con sì dolenti
  • 65 pensier, com’io so bene, et ella il crede,
  • e tu, se tanto o quanto d’amor senti.
  • Pianto fu ’l mio di tanta sposa erede:
  • lei, et ogni mio bene, ogni speranza
  • perder elessi per non perder fede.
  • 70 Ma cerca omai se trovi in questa danza
  • notabil cosa, perché ’l tempo è leve,
  • e più de l’opra che del giorno avanza. -
  • Pien di pietate, e ripensando ’l breve
  • spazio al gran foco di duo tali amanti,
  • 75 pareami al sol aver un cor di neve;
  • quand’io udi’ dir su nel passar avanti:
  • - Costui certo per sé già non mi spiace,
  • ma ferma son d’odiarli tutti quanti. -
  • - Pon - diss’io - il core, o Sofonisba, in pace,
  • 80 ché Cartagine tua per le man nostre
  • tre volte cadde, et a la terza giace. -
  • Et ella: - Altro vogl’io che tu mi mostre:
  • s’Africa pianse, Italia non ne rise:
  • dimandatene pur l’istorie vostre. -
  • 85 A tanto, il nostro e suo amico si mise,
  • sorridendo, con lei nella gran calca
  • e fur da lor le mie luci divise.
  • Come uom che per terren dubio cavalca,
  • che va restando ad ogni passo, e guarda,
  • 90 e ’l pensier de l’andar molto difalca,
  • così l’andata mia dubiosa e tarda
  • facean gli amanti, di che ancor m’aggrada
  • saver quanto ciascun e in qual foco arda.
  • I’ vidi ir a man manca un fuor di strada,
  • 95 a guisa di chi brami e trovi cosa
  • onde poi vergognoso e lieto vada.
  • Donar altrui la sua diletta sposa,
  • o sommo amore e nova cortesia!
  • tal ch’ella stessa lieta e vergognosa
  • 100 parea del cambio; e givansi per via
  • parlando insieme de’ lor dolci affetti,
  • e sospirando il regno di Soria.
  • Trassimi a que’ tre spirti che ristretti
  • eran già per seguire altro cammino,
  • 105 e dissi al primo: - I’ prego che t’aspetti. -
  • Et egli al suon del ragionar latino,
  • turbato in vista, si rattenne un poco;
  • e poi, del mio voler quasi indivino,
  • disse: - Io Seleuco son, questi è Antïoco
  • 110 mio figlio, che gran guerra ebbe con voi;
  • ma ragion contra forza non ha loco.
  • Questa, mia in prima, sua donna fu poi,
  • ché per scamparlo d’amorosa morte
  • gliel diedi, e ’l don fu lecito tra noi.
  • 115 Stratonica è ’l suo nome, e nostra sorte,
  • come vedi, indivisa; e per tal segno
  • si vede il nostro amor tenace e forte,
  • ch’è contenta costei lasciarme il regno,
  • io il mio diletto, e questi la sua vita,
  • 120 per far, vie più che sé, l’un l’altro degno.
  • E se non fosse la discreta aita
  • del fisico gentil, che ben s’accorse,
  • l’età sua in sul fiorir era finita.
  • Tacendo, amando, quasi a morte corse,
  • 125 e l’amar forza, e ’l tacer fu virtute;
  • la mia, vera pietà, ch’a lui soccorse. -
  • Così disse; e come uom che voler mute,
  • col fin de le parole i passi volse,
  • ch’a pena gli potei render salute.
  • 130 Poi che dagli occhi miei l’ombra si tolse,
  • rimasi grave e sospirando andai,
  • ché ’l mio cor dal suo dir non si disciolse
  • infin che mi fu detto: - Troppo stai
  • in un penser a le cose diverse;
  • 135 e ’l tempo ch’è brevissimo ben sai. -
  • Non menò tanti armati in Grecia Serse
  • quant’ivi erano amanti ignudi e presi,
  • tal che l’occhio la vista non sofferse,
  • vari di lingue e vari di paesi,
  • 140 tanto che di mille un non seppi ’l nome,
  • e fanno istoria que’ pochi ch’intesi.
  • Perseo era l’uno, e volsi saper come
  • Andromeda gli piacque in Etiopia,
  • vergine bruna i begli occhi e le chiome;
  • 145 ivi ’l vano amador che la sua propia
  • bellezza desiando fu distrutto,
  • povero sol per troppo averne copia,
  • che divenne un bel fior senz’alcun frutto;
  • e quella che, lui amando, ignuda voce
  • 150 fecesi e ’l corpo un duro sasso asciutto;
  • ivi quell’altro al suo mal sì veloce,
  • Ifi, ch’amando altrui in odio s’ebbe,
  • con più altri dannati a simil croce,
  • gente cui per amar viver increbbe,
  • 155 ove raffigurai alcun moderni
  • ch’a nominar perduta opra sarebbe.
  • Que’ duo che fece Amor compagni eterni,
  • Alcïone e Ceìce, in riva al mare
  • far i lor nidi a’ più soavi verni;
  • 160 lungo costor pensoso Esaco stare
  • cercando Esperia, or sopra un sasso assiso,
  • et or sotto acqua, et or alto volare;
  • e vidi la crudel figlia di Niso
  • fuggir volando, e correr Atalanta,
  • 165 da tre palle d’or vinta e d’un bel viso;
  • e seco Ipomenès che fra cotanta
  • turba d’amanti miseri cursori
  • sol di vittoria si rallegra e vanta.
  • Fra questi fabulosi e vani amori
  • 170 vidi Aci e Galatea, che ’n grembo gli era,
  • e Polifemo farne gran romori;
  • Glauco ondeggiar per entro quella schiera,
  • senza colei cui sola par che pregi,
  • nomando un’altr’amante acerba e fera;
  • 175 Canente e Pico, un già de’ nostri regi,
  • or vago augello, e chi di stato il mosse
  • lasciògli ’l nome e ’l real manto e i fregi.
  • Vidi ’l pianto d’Egeria; invece d’osse
  • Scilla indurarsi in petra aspra et alpestra,
  • 180 che del mar ciciliano infamia fosse;
  • e quella che la penna da man destra,
  • come dogliosa e desperata scriva,
  • e ’l ferro ignudo tien da la sinestra;
  • Pigmalïon con la sua donna viva;
  • 185 e mille che Castalia et Aganippe
  • udir cantar per la sua verde riva;
  • e d’un pomo beffata al fin Cidippe.
  • Era sì pieno il cor di meraviglie
  • ch’i’ stava come l’uom che non pò dire,
  • e tace, e guarda pur ch’altri ’l consiglie,
  • quando l’amico mio: - Che fai? che mire?
  • 5 che pensi? - disse - non sai tu ben ch’io
  • son della turba? e’ mi convien seguire. -
  • - Frate, - risposi - e tu sai l’esser mio,
  • e l’amor del saper che m’ha sì acceso
  • che l’opra è ritardata dal desio. -
  • 10 Et egli: - I’ t’avea già tacendo inteso:
  • tu vuoi udir chi son quest’altri ancora.
  • I’ tel dirò, se ’l dir non è conteso.
  • Vedi quel grande il quale ogni uomo onora;
  • egli è Pompeo, et ha Cornelia seco,
  • 15 che del vil Tolomeo si lagna e plora.
  • L’altro più di lontan, quell’è ’l gran Greco;
  • né vede Egisto e l’empia Clitemestra:
  • or puoi veder Amor s’egli è ben cieco.
  • Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra,
  • 20 vedi Piramo e Tisbe inseme a l’ombra,
  • Leandro in mare et Ero a la finestra.
  • Quel sì pensoso è Ulisse, affabile ombra,
  • che la casta mogliera aspetta e prega,
  • ma Circe, amando, gliel ritene e ’ngombra.
  • 25 L’altro è ’l figliuol d’Amilcare, e nol piega
  • in cotant’anni Italia tutta e Roma;
  • vil feminella in Puglia il prende e lega.
  • Quella che ’l suo signor con breve coma
  • va seguitando, in Ponto fu reina:
  • 30 come in atto servil se stessa doma!
  • L’altra è Porzia, che ’l ferro e ’l foco affina;
  • quell’altra è Giulia, e duolsi del marito
  • ch’a la seconda fiamma più s’inchina.
  • Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito,
  • 35 che non si muta, e d’aver non gli ’ncresce
  • sette e sette anni per Rachel servito:
  • vivace amor che negli affanni cresce!
  • Vedi ’l padre di questo, e vedi l’avo
  • come di sua magion sol con Sara esce.
  • 40 Poi vedi come Amor crudele e pravo
  • vince Davit e sforzalo a far l’opra
  • onde poi pianga in loco oscuro e cavo.
  • Simile nebbia par ch’oscuri e copra
  • del più saggio figliuol la chiara fama
  • 45 e ’l parta in tutto dal Signor di sopra.
  • De l’altro, che ’n un punto ama e disama,
  • vedi Tamar ch’al suo frate Absalone
  • disdegnosa e dolente si richiama.
  • Poco dinanzi a lei vedi Sansone,
  • 50 vie più forte che saggio, che per ciance
  • in grembo a la nemica il capo pone.
  • Vedi qui ben fra quante spade e lance
  • Amor, e ’l sonno, et una vedovetta
  • con bel parlar, con sue polite guance,
  • 55 vince Oloferne; e lei tornar soletta
  • con una ancilla e con l’orribil teschio,
  • Dio ringraziando, a mezza notte, in fretta.
  • Vedi Sichem e ’l suo sangue, ch’è meschio
  • de la circoncisione e de la morte,
  • 60 e ’l padre colto e ’l popolo ad un veschio:
  • questo gli ha fatto il subito amar forte.
  • Vedi Assuero il suo amor in qual modo
  • va medicando a ciò che ’n pace il porte:
  • da l’un si scioglie, e lega a l’altro nodo:
  • 65 cotal ha questa malizia rimedio,
  • come d’asse si trae chiodo con chiodo.
  • Vuo’ veder in un cor diletto e tedio,
  • dolce et amaro? or mira il fero Erode;
  • Amore e crudeltà gli han posto assedio.
  • 70 Vedi com’arde in prima, e poi si rode,
  • tardi pentito di sua feritate,
  • Marïanne chiamando che non l’ode.
  • Vedi tre belle donne innamorate,
  • Procri, Artemisia con Deidamia,
  • 75 et altrettante ardite e scelerate,
  • Semiramìs, Biblì e Mirra ria;
  • come ciascuna par che si vergogni
  • de la sua non concessa e torta via!
  • Ecco quei che le carte empion di sogni,
  • 80 Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,
  • ove conven che ’l vulgo errante agogni.
  • Vedi Ginevra, Isolda e l’altre amanti,
  • e la coppia d’Arimino che ’nseme
  • vanno facendo dolorosi pianti. -
  • 85 Così parlava; et io, come chi teme
  • futuro male e trema anzi la tromba,
  • sentendo già dov’altri anco nol preme,
  • avea color d’uom tratto d’una tomba;
  • quando una giovinetta ebbi dal lato,
  • 90 pura assai più che candida colomba.
  • Ella mi prese; et io, ch’avrei giurato
  • difendermi d’un uom coverto d’arme,
  • con parole e con cenni fui legato.
  • E come ricordar di vero parme,
  • 95 l’amico mio più presso mi si fece,
  • e con un riso, per più doglia darme,
  • dissemi entro l’orecchia: - Ormai ti lece
  • per te stesso parlar con chi ti piace,
  • ché tutti siam macchiati d’una pece. -
  • 100 Io era un di color cui più dispiace
  • de l’altrui ben che del suo mal, vedendo
  • chi m’avea preso in libertate e ’n pace;
  • e, come tardi dopo ’l danno intendo,
  • di sue bellezze mia morte facea,
  • 105 d’amor, di gelosia, d’invidia ardendo.
  • Gli occhi dal suo bel viso non torcea,
  • come uom ch’è infermo e di tal cosa ingordo
  • ch’è dolce al gusto, a la salute è rea.
  • Ad ogni altro piacer cieco era e sordo,
  • 110 seguendo lei per sì dubbiosi passi
  • ch’ i’ tremo ancor qualor me ne ricordo.
  • Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi,
  • e ’l cor pensoso, e solitario albergo
  • fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi;
  • 115 da indi in qua cotante carte aspergo
  • di pensieri e di lagrime e d’inchiostro,
  • tante ne squarcio, e n’apparecchio, e vergo;
  • da indi in qua so che si fa nel chiostro
  • d’Amor, e che si teme, e che si spera,
  • 120 e, chi sa legger, ne la fronte il mostro;
  • e veggio andar quella leggiadra fera
  • non curando di me né di mie pene,
  • di sue vertuti e di mie spoglie altera.
  • Da l’altra parte, s’io discerno bene,
  • 125 questo signor, che tutto ’l mondo sforza,
  • teme di lei, ond’io son fuor di spene;
  • ch’a mia difesa non ho ardir né forza,
  • e quello in ch’io sperava lei lusinga,
  • che me e gli altri crudelmente scorza.
  • 130 Costei non è chi tanto o quanto stringa,
  • così selvaggia e rebellante suole
  • da le ’nsegne d’Amore andar solinga;
  • e veramente è fra le stelle un sole.
  • Un singular suo proprio portamento,
  • 135 suo riso, suoi disdegni e sue parole,
  • le chiome accolte in oro o sparse al vento,
  • gli occhi, ch’accesi d’un celeste lume
  • m’infiamman sì ch’ i’ son d’arder contento...!
  • Chi poria ’l mansueto alto costume
  • 140 aguagliar mai parlando, e la vertute,
  • ov’è ’l mio stil quasi al mar picciol fiume?
  • Nove cose e già mai più non vedute,
  • né da veder già mai più d’una volta,
  • ove tutte le lingue sarien mute.
  • 145 Così preso mi trovo, et ella è sciolta;
  • io prego giorno e notte, o stella iniqua!
  • et ella a pena di mille uno ascolta.
  • Dura legge d’Amor! ma benché obliqua,
  • servar convensi, però ch’ella aggiunge
  • 150 di cielo in terra, universale, antiqua.
  • Or so come da sé ’l cor si disgiunge,
  • e come sa far pace, guerra e tregua,
  • e coprir suo dolor quand’altri il punge;
  • e so come in un punto si dilegua
  • 155 e poi si sparge per le guance il sangue,
  • se paura o vergogna aven che ’l segua;
  • so come sta tra’ fiori ascoso l’angue,
  • come sempre tra due si vegghia e dorme,
  • come senza languir si more e langue;
  • 160 so de la mia nemica cercar l’orme
  • e temer di trovarla, e so in qual guisa
  • l’amante ne l’amato si trasforme;
  • so fra lunghi sospiri e brevi risa
  • stato, voglia, color cangiare spesso;
  • 165 viver, stando dal cor l’alma divisa;
  • so mille volte il dì ingannar me stesso;
  • so, seguendo ’l mio foco ovunque e’ fugge,
  • arder da lunge ed agghiacciar da presso;
  • so come Amor sovra la mente rugge,
  • 170 e come ogni ragione indi discaccia,
  • e so in quante maniere il cor si strugge;
  • so di che poco canape s’allaccia
  • un’anima gentil quand’ella è sola
  • e non v’è chi per lei difesa faccia;
  • 175 so com’Amor saetta e come vola,
  • e so com’or minaccia et or percote,
  • come ruba per forza e come invola,
  • e come sono instabili sue rote,
  • le mani armate, e gli occhi avolti in fasce,
  • 180 sue promesse di fé come son vote,
  • come nell’ossa il suo foco si pasce
  • e ne le vene vive occulta piaga,
  • onde morte e palese incendio nasce.
  • Insomma so che cosa è l’alma vaga,
  • 185 rotto parlar con subito silenzio,
  • che poco dolce molto amaro appaga,
  • di che s’ha il mel temprato con l’assenzio
  • Poscia che mia fortuna in forza altrui
  • m’ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
  • di libertate ov’alcun tempo fui,
  • io, ch’era più salvatico che i cervi,
  • 5 ratto domesticato fui con tutti
  • i miei infelici e miseri conservi;
  • e le fatiche lor vidi e i lor frutti,
  • per che torti sentieri e con qual arte
  • a l’amorosa greggia eran condutti.
  • 10 Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte
  • s’ i’ ne vedessi alcun di chiara fama
  • o per antiche o per moderne carte,
  • vidi colui che sola Euridice ama,
  • lei segue a l’inferno e, per lei morto,
  • 15 con la lingua già fredda anco la chiama.
  • Alceo conobbi, a dir d'Amor sì scorto,
  • Pindaro, Anacreonte, che rimesse
  • ha le sue muse sol d’Amore in porto;
  • Virgilio vidi, e parmi ch’egli avesse
  • 20 compagni d’alto ingegno e da trastullo,
  • di quei che volentier già ’l mondo lesse:
  • l’uno era Ovidio e l’altro era Catullo,
  • l’altro Properzio, che d’amor cantaro
  • fervidamente, e l’altro era Tibullo.
  • 25 Una giovene Greca a paro a paro
  • coi nobili poeti iva cantando,
  • et avea un suo stil soave e raro.
  • Così, or quinci or quindi rimirando,
  • vidi gente ir per una verde piaggia
  • 30 pur d’amor volgarmente ragionando.
  • Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
  • ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
  • che di non esser primo par ch’ ira aggia;
  • ecco i duo Guidi che già fur in prezzo,
  • 35 Onesto Bolognese, e i Ciciliani,
  • che fur già primi e quivi eran da sezzo,
  • Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani
  • come ogni uom vide; e poi v’era un drappello
  • di portamenti e di volgari strani:
  • 40 fra tutti il primo Arnaldo Danïello,
  • gran maestro d’amor, ch’a la sua terra
  • ancor fa onor col suo dir strano e bello;
  • eranvi quei ch’Amor sì leve afferra,
  • l’un Piero e l’altro e ’l men famoso Arnaldo,
  • 45 e quei che fur conquisi con più guerra:
  • i’ dico l’uno e l’altro Raimbaldo
  • che cantò pur Beatrice e Monferrato,
  • e ’l vecchio Pier d’Alvernia con Giraldo,
  • Folco, que’ ch’a Marsilia il nome ha dato
  • 50 et a Genova tolto, et a l’estremo
  • cangiò per miglior patria abito e stato,
  • Giaufrè Rudel, ch’usò la vela e ’l remo
  • a cercar la sua morte, e quel Guiglielmo
  • che per cantare ha ’l fior de’ suoi dì scemo,
  • 55 Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo;
  • e molti altri ne vidi a cui la lingua
  • lancia e spada fu sempre e targia ed elmo.
  • E poi conven che ’l mio dolor distingua,
  • volsimi a’ nostri, e vidi ’l buon Tomasso,
  • 60 ch’ornò Bologna et or Messina impingua.
  • O fugace dolcezza! o viver lasso!
  • Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi,
  • senza ’l qual non sapea mover un passo?
  • dove se’ or, che meco eri pur dianzi?
  • 65 Ben è ’l viver mortal, che sì n’aggrada,
  • sogno d’infermi e fola di romanzi.
  • Poco era fuor de la comune strada,
  • quando Socrate e Lelio vidi in prima:
  • con lor più lunga via conven ch’io vada.
  • 70 O qual coppia d’amici! che né ’n rima
  • poria né ’n prosa ornar assai né ’n versi,
  • se, come dee, virtù nuda si stima.
  • Con questi duo cercai monti diversi,
  • andando tutti tre sempre ad un giogo;
  • 75 a questi le mie piaghe tutte apersi;
  • da costor non mi pò tempo né luogo
  • divider mai, siccome io spero e bramo,
  • infino al cener del funereo rogo;
  • con costor colsi ’l glorïoso ramo,
  • 80 onde forse anzi tempo ornai le tempie
  • in memoria di quella ch’io tanto amo.
  • Ma pur di lei, che ’l cor di pensier m’empie,
  • non potei coglier mai ramo né foglia,
  • sì fur le sue radici acerbe et empie;
  • 85 onde benché talor doler mi soglia
  • com’uom ch’è offeso, quel che con questi occhi
  • vidi m’è fren che mai più non mi doglia:
  • materia di coturni e non di socchi
  • veder preso colui ch’è fatto deo
  • 90 da tardi ingegni rintuzzati e sciocchi:
  • ma prima vo’ seguir che di noi feo,
  • e poi dirò quel che d’altrui sostenne:
  • opra non mia, d’Omero ovver d’Orfeo.
  • Seguimmo il suon delle purpuree penne
  • 95 de’ volanti corsier per mille fosse,
  • fin che nel regno di sua madre venne;
  • né rallentate le catene o scosse,
  • ma straccati per selve e per montagne,
  • tal che nessun sapea ’n qual mondo fosse.
  • 100 Giace oltra ove l’Egeo sospira e piagne
  • un’isoletta delicata e molle
  • più d’altra che ’l sol scalde o che ’l mar bagne;
  • nel mezzo è un ombroso e chiuso colle
  • con sì soavi odor, con sì dolci acque,
  • 105 ch’ogni maschio pensier de l’alma tolle.
  • Questa è la terra che cotanto piacque
  • a Venere, e ’n quel tempo a lei fu sagra
  • che ’l ver nascoso e sconosciuto giacque;
  • et anco è di valor sì nuda e magra,
  • 110 tanto ritien del suo primo esser vile,
  • che par dolce a’ cattivi et a’ buoni agra.
  • Or quivi triunfò il signor gentile
  • di noi e degli altri tutti ch’ ad un laccio
  • presi avea dal mar d’India a quel di Tile:
  • 115 pensieri in grembo e vanitadi in braccio,
  • diletti fuggitivi e ferma noia,
  • rose di verno, a mezza state il ghiaccio,
  • dubbia speme davanti e breve gioia,
  • penitenzia e dolor dopo le spalle:
  • 120 sallo il regno di Roma e quel di Troia.
  • E rimbombava tutta quella valle
  • d’acque e d’augelli, et eran le sue rive
  • bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle;
  • rivi correnti di fontane vive
  • 125 al caldo tempo su per l’erba fresca,
  • e l’ombra spessa, e l’aure dolci estive;
  • poi, quand’è ’l verno e l’aer si rinfresca,
  • tepidi soli, e giuochi, e cibi, et ozio
  • lento, che i semplicetti cori invesca.
  • 130 Era ne la stagion che l’equinozio
  • fa vincitor il giorno, e Progne riede
  • con la sorella al suo dolce negozio.
  • O di nostre fortune instabil fede!
  • In quel loco e ’n quel tempo et in quell’ora
  • 135 che più largo tributo agli occhi chiede,
  • triunfar volse que’ che ’l vulgo adora:
  • e vidi a qual servaggio et a qual morte,
  • a quale strazio va chi s’innamora.
  • Errori e sogni et imagini smorte
  • 140 eran d’intorno a l’arco triunfale,
  • e false opinïoni in su le porte,
  • e lubrico sperar su per le scale,
  • e dannoso guadagno, ed util danno,
  • e gradi ove più scende chi più sale;
  • 145 stanco riposo e riposato affanno,
  • chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
  • perfida lealtate e fido inganno,
  • sollicito furor e ragion pigra:
  • carcer ove si ven per strade aperte,
  • 150 onde per strette a gran pena si migra;
  • ratte scese a l’entrare, a l’uscir erte;
  • dentro, confusïon turbida e mischia
  • di certe doglie e d’allegrezze incerte.
  • Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia,
  • 155 Strongoli o Mongibello in tanta rabbia:
  • poco ama sé chi ’n tal gioco s’arrischia.
  • In così tenebrosa e stretta gabbia
  • rinchiusi fummo, ove le penne usate
  • mutai per tempo e la mia prima labbia;
  • 160 e ’ntanto, pur sognando libertate,
  • l’alma, che ’l gran desio fea pronta e leve,
  • consolai col veder le cose andate.
  • Rimirando er’io fatto al sol di neve
  • tanti spirti e sì chiari in carcer tetro,
  • 165 quasi lunga pittura in tempo breve,
  • che ’l più va inanzi, e l’occhio torna a dietro
  • Quando ad un giogo ed in un tempo quivi
  • dòmita l’alterezza degli dèi
  • e degli uomini vidi al mondo divi,
  • i’ presi esempio de’ lor stati rei,
  • 5 facendo mio profitto l’altrui male
  • in consolar i casi e i dolor mei;
  • ché s’io veggio d’un arco e d’uno strale
  • Febo percosso e ’l giovene d’Abido,
  • l’un detto deo, l’altro uom puro mortale,
  • 10 e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
  • ch’amor pio del suo sposo a morte spinse,
  • non quel d’Enea com’è ’l publico grido,
  • non mi debb’io doler s’altri mi vinse
  • giovene, incauto, disarmato e solo.
  • 15 E se la mia nemica Amor non strinse,
  • non è ancor giusta assai cagion di duolo,
  • ché in abito il rividi ch’io ne piansi,
  • sì tolte gli eran l’ali e ’l gire a volo.
  • Non con altro romor di petto dansi
  • 20 duo leon feri, o duo folgori ardenti
  • che cielo e terra e mar dar loco fansi,
  • ch’i’ vidi Amor con tutti suo’ argomenti
  • mover contra colei di ch’io ragiono,
  • e lei presta assai più che fiamme o venti.
  • 25 Non fan sì grande e sì terribil sòno
  • Etna qualor da Encelado è più scossa,
  • Scilla e Caribdi quando irate sono,
  • che via maggiore in su la prima mossa
  • non fosse del dubbioso e grave assalto,
  • 30 ch’i’ non cre’ che ridir sappia né possa.
  • Ciascun per sé si ritraeva in alto
  • per veder meglio, e l’orror de l’impresa
  • i cori e gli occhi avea fatti di smalto.
  • Quel vincitor che primo era a l’offesa,
  • 35 da man dritta lo stral, da l’altra l’arco,
  • e la corda a l’orecchia avea già stesa.
  • Non corse mai sì levemente al varco
  • d’una fugace cerva un leopardo
  • libero in selva o di catene scarco,
  • 40 che non fosse stato ivi lento e tardo;
  • tanto Amor pronto venne a lei ferire
  • ch’al volto à le faville ond’io tutto ardo.
  • Combattea in me co la pietà il desire,
  • ché dolce m’era sì fatta compagna,
  • 45 duro a vederla in tal modo perire.
  • Ma vertù che da’ buon non si scompagna
  • mostrò a quel punto ben come a gran torto
  • chi abbandona lei d’altrui si lagna,
  • ché già mai schermidor non fu sì accorto
  • 50 a schifar colpo, né nocchier sì presto
  • a volger nave dagli scogli in porto,
  • come uno schermo intrepido et onesto
  • subito ricoverse quel bel viso
  • dal colpo, a chi l’attende, agro e funesto.
  • 55 Io era al fin cogli occhi e col cor fiso,
  • sperando la vittoria ond’esser sòle,
  • e di non esser più da lei diviso.
  • Come chi smisuratamente vole,
  • ch’ha scritte, inanzi ch’a parlar cominci,
  • 60 negli occhi e ne la fronte le parole,
  • volea dir io: - Signor mio, se tu vinci
  • legami con costei, s’io ne son degno;
  • né temer che già mai mi scioglia quinci! -,
  • quand’io ’l vidi pien d’ira e di disdegno
  • 65 sì grave, ch’a ridirlo sarien vinti
  • tutti i maggior, non che ’l mio basso ingegno;
  • ché già in fredda onestate erano estinti
  • i dorati suoi strali accesi in fiamma
  • d’amorosa beltate e ’n piacer tinti.
  • 70 Non ebbe mai di vero valor dramma
  • Camilla e l’altre andar use in battaglia
  • con la sinistra sola intera mamma,
  • non fu sì ardente Cesare in Farsaglia
  • contra ’l genero suo, com’ella fue
  • 75 contra colui ch’ogni lorica smaglia.
  • Armate eran con lei tutte le sue
  • chiare Virtuti (o gloriosa schiera!)
  • e teneansi per mano a due a due.
  • Onestate e Vergogna a la fronte era,
  • 80 nobile par de le vertù divine
  • che fan costei sopra le donne altera;
  • Senno e Modestia a l’altre due confine,
  • Abito con Diletto in mezzo ’l core,
  • Perseveranza e Gloria in su la fine;
  • 85 Bella Accoglienza, Accorgimento fore,
  • Cortesia intorno intorno e Puritate,
  • Timor d’infamia e Desio sol d’onore,
  • Penser canuti in giovenile etate,
  • e, la concordia ch’è sì rara al mondo,
  • 90 v’era con Castità somma Beltate.
  • Tal venia contr’Amore e ’n sì secondo
  • favor del cielo e de le ben nate alme,
  • che de la vista e’ non sofferse il pondo.
  • Mille e mille famose e care salme
  • 95 torre gli vidi, e scuotergli di mano
  • mille vittorïose e chiare palme.
  • Non fu ’l cader di subito sì strano
  • dopo tante vittorie ad Aniballe
  • vinto a la fin dal giovine Romano;
  • 100 non giacque sì smarrito ne la valle
  • di Terebinto quel gran Filisteo
  • a cui tutto Israel dava le spalle,
  • al primo sasso del garzon ebreo;
  • né Ciro in Scizia, ove la vedova orba
  • 105 la gran vendetta e memorabil feo.
  • Com’uom ch’è sano e ’n un momento ammorba,
  • che sbigottisce e duolsi, o colto in atto
  • che vergogna con man dagli occhi forba,
  • cotale era egli, e tanto a peggior patto,
  • 110 che paura e dolor, vergogna et ira
  • eran nel volto suo tutte ad un tratto.
  • Non freme così ’l mar quando s’adira,
  • non Inarime allor che Tifeo piagne,
  • non Mongibel s’Encelado sospira.
  • 115 Passo qui cose glorïose e magne
  • ch’io vidi e dir non oso: a la mia donna
  • vengo et a l’altre sue minor compagne.
  • Ell’avea in dosso, il dì, candida gonna,
  • lo scudo in man che mal vide Medusa.
  • 120 D’un bel dïaspro er’ ivi una colonna,
  • a la qual d’una in mezzo Lete infusa
  • catena di diamante e di topazio,
  • che s’usò fra le donne, oggi non s’usa,
  • legarlo vidi, e farne quello strazio
  • 125 che bastò ben a mille altre vendette;
  • ed io per me ne fui contento e sazio.
  • I’ non poria le sacre e benedette
  • vergini ch’ivi fur chiudere in rima,
  • non Calliope e Clio con l’altre sette;
  • 130 ma d’alquante dirò che ’n su la cima
  • son di vera onestate; infra le quali
  • Lucrezia da man destra era la prima,
  • l’altra Penelopè: queste gli strali
  • avean spezzato e la faretra a lato
  • 135 a quel protervo, e spennachiato l’ali.
  • Verginia appresso e ’l fero padre armato
  • di disdegno e di ferro e di pietate,
  • ch’a sua figlia et a Roma cangiò stato,
  • l’una e l’altra ponendo in libertate;
  • 140 poi le Tedesche che con aspra morte
  • servaron lor barbarica onestate;
  • Judith ebrea, la saggia, casta e forte,
  • e quella Greca che saltò nel mare
  • per morir netta e fuggir dura sorte.
  • 145 Con queste e con certe altre anime chiare
  • triunfar vidi di colui che pria
  • veduto avea del mondo triunfare.
  • Fra l’altre la vestal vergine pia
  • che baldanzosamente corse al Tibro,
  • 150 e per purgarsi d’ogni fama ria
  • portò del fiume al tempio acqua col cribro;
  • poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
  • schiera che del suo nome empie ogni libro;
  • poi vidi, fra le donne pellegrine,
  • 155 quella che per lo suo diletto e fido
  • sposo, non per Enea, volse ire al fine
  • (taccia ’l vulgo ignorante); io dico Dido,
  • cui studio d’onestate a morte spinse,
  • non vano amor com’è ’l publico grido.
  • 160 Al fin vidi una che si chiuse e strinse
  • sovra Arno per servarsi; e non le valse,
  • ché forza altrui il suo bel penser vinse.
  • Era ’l trionfo dove l’onde salse
  • percoton Baia, ch’al tepido verno
  • 165 giuns’e a man destra in terra ferma salse.
  • Indi, fra monte Barbaro et Averno,
  • l’antichissimo albergo di Sibilla
  • lassando, se n’andar dritto a Literno.
  • In così angusta e solitaria villa
  • 170 era il grand’uom che d’Affrica s’appella,
  • perché prima col ferro al vivo aprilla.
  • Qui de l’ostile onor l’alta novella,
  • non scemato cogli occhi, a tutti piacque,
  • e la più casta v’era la più bella.
  • 175 Né ’l trionfo non suo seguire spiacque
  • a lui che, se credenza non è vana,
  • sol per trionfi e per imperi nacque.
  • Così giugnemmo alla città sovrana,
  • nel tempio pria che dedicò Sulpizia
  • 180 per spegner ne la mente fiamma insana.
  • Passammo al tempio poi di Pudicizia,
  • ch’accende in cor gentil oneste voglie,
  • non di gente plebeia ma di patrizia.
  • Ivi spiegò le glorïose spoglie
  • 185 la bella vincitrice, ivi depose
  • le sue vittorïose e sacre foglie;
  • e ’l giovene Toscan che non ascose
  • le belle piaghe che ’l fer non sospetto,
  • del comune nemico in guardia pose
  • 190 con parecchi altri (e fummi ’l nome detto
  • d’alcun di lor, come mia scorta seppe)
  • ch’avean fatto ad Amor chiaro disdetto:
  • fra gli altri vidi Ippolito e Joseppe.
  • Indice
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Quella leggiadra e glorïosa donna,
  • ch’è oggi ignudo spirto e poca terra
  • e fu già di valor alta colonna,
  • tornava con onor da la sua guerra,
  • 5 allegra, avendo vinto il gran nemico,
  • che con suo’ ingegni tutto ’l mondo atterra,
  • non con altr’arme che col cor pudico
  • e d’un bel viso e de’ pensieri schivi,
  • d’un parlar saggio e d’onestate amico.
  • 10 Era miracol novo a veder ivi
  • rotte l’arme d’Amore, arco e saette,
  • e tal morti da lui, tal presi e vivi.
  • La bella donna e le compagne elette,
  • tornando da la nobile vittoria,
  • 15 in un bel drappelletto ivan ristrette.
  • Poche eran, perché rara è vera gloria;
  • ma ciascuna per sé parea ben degna
  • di poema chiarissimo e d’istoria.
  • Era la lor vittorïosa insegna
  • 20 in campo verde un candido ermellino,
  • ch’oro fino e topazi al collo tegna.
  • Non uman veramente, ma divino
  • lor andar era e lor sante parole:
  • beato s’è qual nasce a tal destino.
  • 25 Stelle chiare pareano; in mezzo, un sole
  • che tutte ornava e non togliea lor vista;
  • di rose incoronate e di viole.
  • E come gentil cor onore acquista,
  • così venia quella brigata allegra,
  • 30 quando vidi un’insegna oscura e trista:
  • et una donna involta in veste negra,
  • con un furor qual io non so se mai
  • al tempo de’ giganti fusse a Flegra,
  • si mosse e disse: - O tu, donna, che vai
  • 35 di gioventute e di bellezze altera,
  • e di tua vita il termine non sai,
  • io son colei che sì importuna e fera
  • chiamata son da voi, e sorda e cieca
  • gente a cui si fa notte inanzi sera.
  • 40 Io ho condotto al fin la gente greca
  • e la troiana, a l’ultimo i Romani,
  • con la mia spada la qual punge e seca,
  • e popoli altri barbareschi e strani;
  • e giugnendo quand’altri non m’aspetta,
  • 45 ho interrotti mille penser vani.
  • Or a voi, quando il viver più diletta,
  • drizzo il mio corso inanzi che Fortuna
  • nel vostro dolce qualche amaro metta. -
  • - In costor non hai tu ragione alcuna,
  • 50 ed in me poca; solo in questa spoglia
  • (rispose quella che fu nel mondo una).
  • Altri so che n’avrà più di me doglia,
  • la cui salute dal mio viver pende;
  • a me fia grazia che di qui mi scioglia. -
  • 55 Qual è chi ’n cosa nova gli occhi intende,
  • e vede ond’al principio non s’accorse,
  • di ch’or si meraviglia e si riprende,
  • tal si fe’ quella fera, e poi che ’n forse
  • fu stata un poco: - Ben le riconosco, -
  • 60 disse - e so quando ’l mio dente le morse. -
  • Poi col ciglio men torbido e men fosco
  • disse: - Tu che la bella schiera guidi
  • pur non sentisti mai del mio tosco.
  • Se del consiglio mio punto ti fidi,
  • 65 ché sforzar posso, egli è pur il migliore
  • fuggir vecchiezza e’ suoi molti fastidi.
  • I’ son disposta a farti un tal onore
  • qual altrui far non soglio, e che tu passi
  • senza paura e senz’alcun dolore. -
  • 70 - Come piace al Signor che ’n cielo stassi
  • et indi regge e tempra l’universo,
  • farai di me quel che degli altri fassi. -
  • Così rispose: ed ecco da traverso
  • piena di morti tutta la campagna,
  • 75 che comprender nol pò prosa né verso;
  • da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna
  • el mezzo avea già pieno e le pendici
  • per molti tempi quella turba magna.
  • Ivi eran quei che fur detti felici,
  • 80 pontefici, regnanti, imperadori;
  • or sono ignudi, miseri e mendici.
  • U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori
  • e le gemme e gli scettri e le corone
  • e le mitre e i purpurei colori?
  • 85 Miser chi speme in cosa mortal pone
  • (ma chi non ve la pone?), e se si trova
  • a la fine ingannato è ben ragione.
  • O ciechi, el tanto affaticar che giova?
  • Tutti tornate a la gran madre antica,
  • 90 e ’l vostro nome a pena si ritrova.
  • Pur de le mill’ è un’utile fatica,
  • che non sian tutte vanità palesi?
  • Chi intende a’ vostri studii sì mel dica.
  • Che vale a soggiogar gli altrui paesi
  • 95 e tributarie far le genti strane
  • cogli animi al suo danno sempre accesi?
  • Dopo l’imprese perigliose e vane,
  • e col sangue acquistar terre e tesoro,
  • vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane,
  • 100 e ’l legno e ’l vetro che le gemme e l’oro.
  • Ma per non seguir più sì lungo tema,
  • tempo è ch’io torni al mio primo lavoro.
  • I’ dico che giunta era l’ora estrema
  • di quella breve vita glorïosa,
  • 105 e ’l dubbio passo di che ’l mondo trema,
  • et a vederla un’altra valorosa
  • schiera di donne non dal corpo sciolta,
  • per saper s’esser pò Morte pietosa.
  • Quella bella compagna era ivi accolta
  • 110 pure a vedere e contemplare il fine
  • che far convensi, e non più d’una volta:
  • tutte sue amiche e tutte eran vicine.
  • Allor di quella bionda testa svelse
  • Morte co la sua mano un aureo crine:
  • 115 così del mondo il più bel fiore scelse,
  • non già per odio, ma per dimostrarsi
  • più chiaramente ne le cose eccelse.
  • Quanti lamenti lagrimosi sparsi
  • fur ivi, essendo que’ belli occhi asciutti
  • 120 per ch’io lunga stagion cantai et arsi!
  • E fra tanti sospiri e tanti lutti
  • tacita e sola lieta si sedea,
  • del suo ben viver già cogliendo i frutti.
  • - Vattene in pace, o vera mortal dea! -
  • 125 diceano; e tal fu ben, ma non le valse
  • contra la Morte in sua ragion sì rea.
  • Che fia de l’altre, se questa arse et alse
  • in poche notti e sì cangiò più volte?
  • O umane speranze cieche e false!
  • 130 Se la terra bagnar lagrime molte
  • per la pietà di quella alma gentile,
  • chi ’l vide il sa; tu ’l pensa che l’ascolte.
  • L’ora prima era, il dì sesto d’aprile,
  • che già mi strinse, et or, lasso, mi sciolse:
  • 135 come Fortuna va cangiando stile!
  • Nessun di servitù giammai si dolse,
  • né di morte, quant’io di libertate
  • e de la vita ch’altri non mi tolse.
  • Debito al mondo e debito a l’etate,
  • 140 cacciar me innanzi ch’ero giunto in prima,
  • né a lui torre ancor sua dignitate.
  • Or qual fusse il dolor qui non si stima,
  • ch’a pena oso pensarne, non ch’io sia
  • ardito di parlarne in versi o ’n rima.
  • 145 - Virtù more, bellezza e leggiadria! -
  • le belle donne intorno al casto letto
  • triste diceano - Omai di noi che fia?
  • chi vedrà mai in donna atto perfetto?
  • chi udirà il parlar di saver pieno
  • 150 e ’l canto pien d’angelico diletto? -
  • Lo spirto, per partir di quel bel seno,
  • con tutte sue virtuti, in sé romito,
  • fatto avea in quella parte il ciel sereno.
  • Nessun degli avversari fu sì ardito
  • 155 ch’apparisse già mai con vista oscura
  • fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
  • Poi che deposto il pianto e la paura
  • pur al bel volto era ciascuna intenta,
  • per desperazïon fatta sicura,
  • 160 non come fiamma che per forza è spenta,
  • ma che per sé medesma si consume,
  • se n’andò in pace l’anima contenta,
  • a guisa d’un soave e chiaro lume
  • cui nutrimento a poco a poco manca,
  • 165 tenendo al fine il suo caro costume.
  • Pallida no, ma più che neve bianca
  • che senza venti in un bel colle fiocchi,
  • parea posar come persona stanca.
  • Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
  • 170 sendo lo spirto già da lei diviso,
  • era quel che morir chiaman gli sciocchi:
  • Morte bella parea nel suo bel viso.
  • La notte che seguì l’orribil caso
  • che spense il sole, anzi ’l ripose in cielo,
  • di ch’io son qui come uom cieco rimaso,
  • spargea per l’aere il dolce estivo gelo
  • 5 che con la bianca amica di Titone
  • suol da’ sogni confusi torre il velo,
  • quando donna sembiante a la stagione,
  • di gemme orïentali incoronata,
  • mosse ver me da mille altre corone;
  • 10 e quella man già tanto desiata
  • a me parlando e sospirando porse,
  • onde eterna dolcezza al cor m’è nata:
  • - Riconosci colei che ’n prima torse
  • i passi tuoi dal publico viaggio? -
  • 15 Come ’l cor giovenil di lei s’accorse,
  • così, pensosa, in atto umile e saggio,
  • s’assise, e seder femmi in una riva
  • la qual ombrava un bel lauro ed un faggio.
  • - Come non conosco io l’alma mia diva? -
  • 20 risposi in guisa d’uom che parla e plora
  • - Dimmi pur, prego, s’ tu se’ morta o viva. -
  • - Viva son io, e tu se’ morto ancora, -
  • diss’ella - e sarai sempre, infin che giunga
  • per levarti di terra l’ultima ora.
  • 25 Ma ’l tempo è breve e nostra voglia è lunga;
  • però t’avvisa, e ’l tuo dir stringi e frena,
  • anzi che ’l giorno, già vicin, n’aggiunga. -
  • Et io: - Al fin di questa altra serena
  • ch’ha nome vita, che per prova il sai,
  • 30 deh, dimmi se ’l morir è sì gran pena. -
  • Rispose: - Mentre al vulgo dietro vai
  • et a la opinïon sua cieca e dura,
  • esser felice non puoi tu già mai.
  • La morte è fin d’una pregione oscura
  • 35 a l’anime gentili; a l’altre è noia,
  • ch’hanno posto nel fango ogni lor cura.
  • Et ora il morir mio, che sì t’annoia,
  • ti farebbe allegrar, se tu sentissi
  • la millesima parte di mia gioia. -
  • 40 Così parlava, e gli occhi avea al ciel fissi
  • devotamente; poi mosse in silenzio
  • quelle labbra rosate infin ch’i’ dissi:
  • - Silla, Mario, Neron, Gaio e Mezenzio,
  • fianchi, stomachi e febri ardenti fanno
  • 45 parer la morte amara più ch’assenzio. -
  • - Negar - disse - non posso che l’affanno
  • che va inanzi al morir non doglia forte,
  • e più la tema de l’eterno danno:
  • ma pur che l’alma in Dio si riconforte,
  • 50 e ’l cor che ’n sé medesmo forse è lasso,
  • che altro ch’un sospir breve è la morte?
  • Io aveva già vicin l’ultimo passo,
  • la carne inferma, e l’anima ancor pronta,
  • quando udi’ dir in un son tristo e basso:
  • 55 «O misero colui che’ giorni conta,
  • e pargli l’un mille anni! Indarno vive,
  • ché seco in terra mai non si raffronta;
  • e cerca ’l mare e tutte le sue rive,
  • e sempre un stil, ovunque fusse, tenne:
  • 60 sol di lei pensa, o di lei parla o scrive».
  • Allora in quella parte onde ’l suon venne
  • gli occhi languidi volgo, e veggio quella
  • che amò noi, me sospinse e te ritenne.
  • Riconobbila al volto e a la favella,
  • 65 che spesso ha già ’l mio cor racconsolato,
  • or grave e saggia, allor onesta e bella.
  • E quando io fui nel mio più bello stato,
  • ne l’età mia pia verde, a te più cara,
  • ch’a dire et a pensare a molti ha dato,
  • 70 mi fu la vita poco men ch’amara
  • a rispetto di quella mansueta
  • e dolce morte ch’a’ mortali è rara;
  • ché ’n tutto quel mio passo er’io più lieta
  • che qual d’esilio al dolce albergo riede;
  • 75 se non che mi stringea di te sol pieta. -
  • - Deh, madonna, - diss’io - per quella fede
  • che vi fu, credo, al tempo manifesta,
  • or più nel volto di chi tutto vede,
  • creovvi Amor pensier mai ne la testa
  • 80 d’aver pietà del mio lungo martire,
  • non lasciando vostr’alta impresa onesta?
  • che’ vostri dolci sdegni e le dolci ire,
  • le dolci paci ne’ belli occhi scritte,
  • tenner molti anni in dubbio il mio desire. -
  • 85 A pena ebb’io queste parole ditte,
  • ch’io vidi lampeggiar quel dolce riso
  • ch’un sol fu già di mie virtuti afflitte.
  • Poi disse sospirando: - Mai diviso
  • da te non fu ’l mio cor, né già mai fia;
  • 90 ma temprai la tua fiamma col mio viso,
  • perché a salvar te e me null’altra via
  • era e la nostra giovenetta fama;
  • né per ferza è però madre men pia.
  • Quante volte diss’io meco: «Questi ama,
  • 95 anzi arde: or si conven ch’a ciò provveggia,
  • e mal pò provveder chi teme o brama.
  • Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia».
  • Questo fu quel che ti rivolse e strinse
  • spesso, come caval fren, che vaneggia.
  • 100 Più di mille fïate ira dipinse
  • il volto mio ch’Amor ardeva il core;
  • ma voglia in me ragion già mai non vinse.
  • Poi se vinto ti vidi dal dolore,
  • drizzai in te gli occhi allor soavemente,
  • 105 salvando la tua vita e ’l nostro onore;
  • e se fu passïon troppo possente,
  • e la fronte e la voce a salutarti
  • mossi, et or timorosa et or dolente.
  • Questi fur teco miei ingegni e mie arti:
  • 110 or benigne accoglienze et ora sdegni
  • (tu ’l sai che n’hai cantato in molte parti),
  • ch’i’ vidi gli occhi tuoi talor sì pregni
  • di lagrime, ch’ i’ dissi: «Questi è corso,
  • chi non l’aita, sì ’l conosco ai segni»:
  • 115 allor provvidi d’onesto soccorso;
  • talor ti vidi tali sproni al fianco,
  • ch’ i’ dissi: «Qui conven più duro morso».
  • Così, caldo, vermiglio, freddo e bianco,
  • or tristo, or lieto, infin qui t’ho condutto
  • 120 salvo, ond’io mi rallegro, benché stanco. -
  • Et io: - Madonna, assai fora gran frutto
  • questo d’ogni mia fé, pur ch’ i’ ’l credessi -
  • dissi tremando e non col viso asciutto.
  • - Di poca fede! Or io, se nol sapessi,
  • 125 se non fosse ben ver, perché ’l direi? -
  • rispose, e ’n vista parve s’accendessi.
  • - S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
  • questo mi taccio; pur quel dolce nodo
  • mi piacque assai che intorno al cor avei;
  • 130 e piacemi il bel nome, se vero odo,
  • che lunge e presso col tuo dir m’acquisti;
  • né mai in tuo amor richiesi altro che ’l modo.
  • Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
  • volei mostrarmi quel ch’ i’ vedea sempre,
  • 135 il tuo cor chiuso a tutto ’l mondo apristi.
  • Quinci il mio gelo, onde ancor ti distempre;
  • ché concordia era tal de l’altre cose,
  • qual giunge Amor, pur ch’onestate il tempre.
  • Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
  • 140 almen poi ch’ i’ m’avvidi del tuo foco;
  • ma l’un le palesò, l’altro l’ascose.
  • Tu eri di mercé chiamar già roco,
  • quando tacea, perché vergogna e tema
  • facean molto desir parer sì poco.
  • 145 Non è minor il duol perch’altri il prema,
  • né maggior per andarsi lamentando;
  • per fizïon non cresce il ver né scema.
  • Ma non si ruppe almen ogni vel, quando
  • soli i tuo’ detti, te presente, accolsi,
  • 150 Dir più non osa il nostro amor cantando?
  • Teco era il core, a me gli occhi raccolsi;
  • di ciò, come d’iniqua parte, duolti,
  • se ’l meglio e ’l più ti diedi, e ’l men ti tolsi!
  • né pensi che, perché ti fossin tolti
  • 155 ben mille volte, e più di mille e mille
  • renduti e con pietate a te fur volti.
  • E state foran lor luci tranquille
  • sempre ver te, se non ch’ebbi temenza
  • de le pericolose tue faville.
  • 160 Più ti vo’ dir per non lasciarti senza
  • una conclusïon che a te fia grata
  • forse d’udir in su questa partenza:
  • in tutte l’altre cose assai beata;
  • in una sola a me stessa dispiacqui,
  • 165 che ’n troppo umil terren mi trovai nata.
  • Duolmi ancor veramente ch’ i’ non nacqui
  • almen più presso al tuo fiorito nido;
  • ma assai fu bel paese ond’io ti piacqui,
  • ché potea il cor del qual sol io mi fido,
  • 170 volgersi altrove, a te essendo ignota,
  • ond’io fora men chiara e di men grido. -
  • - Questo no - rispos’io - perché la rota
  • terza del ciel m’alzava a tanto amore,
  • ovunque fusse, stabile et immota! –
  • 175 - Or così sia - diss’ella. - I’ n’ebbi onore
  • ch’ancor mi segue; ma per tuo diletto
  • tu non t’accorgi del fuggir de l’ore.
  • Vedi l’Aurora de l’aurato letto
  • rimenar ai mortali il giorno, e ’l sole
  • 180 già fuor de l’oceano infin al petto.
  • Questa vien per partirne, onde mi dole.
  • S’a dir hai altro, studia d’esser breve,
  • e col tempo dispensa le parole. -
  • - Quant’io soffersi mai, soave e leve -
  • 185 dissi - m’ha fatto il parlar dolce e pio;
  • ma ’l viver senza voi m’è duro e greve.
  • Però saper vorrei, madonna, s’io
  • son per tardi seguirvi, o se per tempo. -
  • Ella, già mossa, disse: - Al creder mio,
  • 190 tu starai in terra senza me gran tempo.
  • Indice
  • Capitolo I
  • Capitolo II
  • Capitolo III
  • Da poi che Morte triunfò nel volto
  • che di me stesso triunfar solea,
  • e fu del nostro mondo il suo sol tolto,
  • partissi quella dispietata e rea,
  • pallida in vista, orribile e superba
  • che ’l lume di beltate spento avea:
  • quando, mirando intorno su per l’erba,
  • vidi da l’altra parte giugner quella
  • che trae l’uom del sepolcro e ’n vita il serba.
  • Quale in sul giorno un’amorosa stella
  • suol venir d’orïente inanzi al sole
  • che s’accompagna volentier con ella,
  • cotal venia; et oh! di quali scole
  • verrà ’l maestro che descriva a pieno
  • quel ch’io vo’ dir in semplici parole?
  • Era d’intorno il ciel tanto sereno,
  • che per tutto ’l desir ch’ardea nel core
  • l’occhio mio non potea non venir meno.
  • Scolpito per le fronti era il valore
  • de l’onorata gente, dov’io scorsi
  • molti di quei che legar vidi Amore.
  • Da man destra, ove gli occhi in prima porsi,
  • la bella donna avea Cesare e Scipio,
  • ma qual più presso a gran pena m’accorsi:
  • l’un di vertute, e non d’Amor mancipio,
  • l’altro d’entrambi. E poi mi fu mostrata,
  • dopo sì glorïoso e bel principio,
  • gente di ferro e di valore armata;
  • siccome in Campidoglio al tempo antico
  • talora o per Via Sacra o per Via Lata,
  • venian tutti in quell’ordine ch’i’ dico,
  • e leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
  • il nome al mondo più di gloria amico.
  • Io era intento al nobile pispiglio,
  • ai volti, agli atti: ed ecco, i primi due,
  • l’un seguiva il nipote e l’altro il figlio,
  • che sol senz’alcun pari al mondo fue;
  • e quei che volser a’ nemici armati
  • chiudere il passo co le membra sue,
  • duo padri da tre figli accompagnati:
  • l’un giva inanzi e due venian dopo,
  • e l’ultimo era il primo fra’ laudati.
  • Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo
  • colui che col consiglio e co la mano
  • a tutta Italia giunse al maggior uopo:
  • di Claudio dico, che notturno e piano,
  • come il Metauro vide, a purgar venne
  • di ria semenza il buon campo romano.
  • Egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
  • et un gran vecchio il secondava appresso,
  • che con arte Anibàle a bada tenne.
  • Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
  • duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
  • un Regol ch’amò Roma e non se stesso,
  • un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
  • con la lor povertà che Mida o Crasso
  • con l’oro onde a virtù furon rebelli;
  • Cincinnato e Serran, che solo un passo
  • senza costor non vanno, e ’l gran Camillo
  • di viver prima che di ben far lasso,
  • perch’a sì alto grado il ciel sortillo
  • che sua virtute chiara il ricondusse
  • onde altrui cieca rabbia dipartillo.
  • Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
  • e viver orbo per amor sofferse
  • de la milizia perché orba non fusse;
  • l’un Decio e l’altro, che col petto aperse
  • le schiere de’ nemici: o fiero voto,
  • che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!
  • Curzio venia con lor, non men devoto,
  • che di sé e de l’arme empié lo speco
  • in mezzo il Foro orribilmente voto;
  • Mummio, Levino, Attilio; et era seco
  • Tito Flamminio che con forza vinse,
  • ma vie più con pietate, il popol greco.
  • Eravi quei che ’l re di Siria cinse
  • d’un magnanimo cerchio, e co la fronte
  • e co la lingua a sua voglia lo strinse;
  • e quel ch’armato, sol, difese un monte,
  • onde poi fu sospinto; e quel che solo
  • contra tutta Toscana tenne un ponte;
  • e quel che in mezzo del nemico stuolo
  • mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
  • sì seco irato che non sentì il duolo;
  • e chi ’n mar prima vincitor apparse
  • contra’ Cartaginesi, e chi lor navi
  • fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
  • Appio conobbi agli occhi, e’ suoi, che gravi
  • furon sempre e molesti a l’umil plebe.
  • Poi vidi un grande con atti soavi,
  • e se non che ’l suo lume a lo stremo ebe,
  • forse era il primo, e certo fu fra noi
  • qual Bacco, Alcid’e Epaminonda a Tebe;
  • ma ’l peggio è viver troppo. E vidi poi
  • quel che da l’esser suo destro e leggero
  • ebbe nome, e fu ’l fior degli anni suoi;
  • e quanto in arme fu crudo e severo,
  • tanto quei che ’l seguia, Corvo, benigno,
  • non so se miglior duce o cavaliero.
  • Poi venia que’ che livido maligno
  • tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
  • nobil Volumnio e d’alta laude digno;
  • Cosso e Filon, Rutilio, e da le spesse
  • luci in disparte tre soli ir vedeva,
  • rotti i membri e smagliate l’arme e fesse:
  • Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
  • que’ tre folgori e tre scogli di guerra,
  • ma l’un rio successor di fama leva;
  • Mario poi, che Jugurta e’ Cimbri atterra
  • e ’l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
  • ch’a l’ingrati troncar a bel studio erra,
  • et il più nobil Fulvio, e solo un Gracco
  • di quel gran nido garrulo inquïeto
  • che fe’ il popol roman più volte stracco,
  • e quel che parve altrui beato e lieto,
  • non dico fu, ché non chiaro si vede
  • un chiuso cor profondo in suo secreto:
  • Metello dico, e suo padre, e suo’ rede,
  • che già di Macedonia e de’ Numidi
  • e di Creta e di Spagna addusser prede.
  • Poscia Vespasïan col figlio vidi,
  • il buono e bello, non già il bello e rio,
  • e ’l buon Nerva, e Traian, principi fidi,
  • Elio Adriano e ’l suo Antonin Pio,
  • bella successïone infino a Marco,
  • ché bono a buono ha natural desio.
  • Mentre che vago oltre cogli occhi varco,
  • vidi il gran fondatore e i regi cinque;
  • l’altro era in terra di mal peso carco,
  • come adiven a chi virtù relinque.
  • Pien d’infinita e nobil meraviglia
  • presa a mirar il buon popol di Marte,
  • ch’al mondo non fu mai simil famiglia,
  • giungea la vista con l’antiche carte
  • ove son gli alti nomi e’ sommi pregi,
  • e sentiv’ al mio dir mancar gran parte;
  • ma disviarmi i pellegrini egregi,
  • Anibal primo, e quel cantato in versi
  • Achille, che di fama ebbe gran fregi,
  • i duo chiari Troiani e’ duo gran Persi,
  • Filippo e ’l figlio, che da Pella agl’lndi
  • correndo vinse paesi diversi.
  • Vidi l’altro Alessandro non lunge indi
  • non già correr così, ch’ebbe altro intoppo
  • (quanto del vero onor, Fortuna, scindi!);
  • i tre Teban ch’ i’ dissi, in un bel groppo;
  • ne l’altro, Aiace, Diomede e Ulisse
  • che desiò del mondo veder troppo;
  • Nestor che tanto seppe e tanto visse;
  • Agamenón e Menelao, che ’n spose
  • poco felici al mondo fer gran risse;
  • Leonida, ch’ a’ suoi lieto propose
  • un duro prandio, una terribil cena,
  • e ’n poca piazza fe’ mirabil cose;
  • et Alcibiade, che sì spesso Atena
  • come fu suo piacer volse e rivolse
  • con dolce lingua e con fronte serena;
  • Milziade che ’l gran gioco a Grecia tolse,
  • e ’l buon figliuol che con pietà perfetta
  • legò sé vivo e ’l padre morto sciolse;
  • Teseo, Temistoclès con questa setta,
  • Aristidès che fu un greco Fabrizio:
  • a tutti fu crudelmente interdetta
  • la patria sepoltura, e l’altrui vizio
  • illustra lor, ché nulla meglio scopre
  • contrari due com ’piccolo interstizio.
  • Focïon va con questi tre di sopre,
  • che di sua terra fu scacciato morto;
  • molto diverso il guidardon da l’opre!
  • Com’io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
  • e ’l buon re Massinissa, e gli era avviso
  • d’esser senza i Roman ricever torto.
  • Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
  • Jero siracusan conobbi, e ’l crudo
  • Amilcare da lor molto diviso.
  • Vidi, qual uscì già del foco, ignudo
  • il re di Lidia, manifesto esempio
  • che poco val contra Fortuna scudo.
  • Vidi Siface pari a simil scempio;
  • Brenno, sotto cui cadde gente molta,
  • e poi cadde ei sotto il delfico tempio.
  • In abito diversa, in popol folta
  • fu quella schiera; e mentre gli occhi alti ergo,
  • vidi una parte tutta in sé raccolta,
  • e quel che volse a Dio far grande albergo
  • per abitar fra gli uomini, era il primo;
  • ma chi fe’ l’opra gli venia da tergo:
  • a lui fu destinato, onde da imo
  • produsse al sommo l’edificio santo,
  • non tal dentro architetto, com’io stimo.
  • Poi quel ch’a Dio familïar fu tanto
  • in grazia, a parlar seco a faccia a faccia,
  • che nessun altro se ne può dar vanto;
  • e quel che, come un animal s’allaccia,
  • co la lingua possente legò ’l sole,
  • per giugner de’ nemici suoi la traccia.
  • O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
  • quanto Dio ha creato aver suggetto,
  • e ’l ciel tener con semplici parole!
  • Poi vidi ’l padre nostro, a cui fu detto
  • ch’uscisse di sua terra e gisse al loco
  • ch’a l’umana salute era già eletto;
  • seco il figlio e ’l nipote, a cui fu il gioco
  • fatto de le due spose; e ’l saggio e casto
  • Joseph dal padre lontanarsi un poco.
  • Poi stendendo la vista quant’io basto,
  • colui vidi oltra il qual occhio non varca,
  • la cui inobedienza ha il mondo guasto.
  • Di qua da lui, chi fece la grande arca,
  • e quei che cominciò poi la gran torre
  • che fu sì di peccato e d’error carca;
  • poi quel buon Juda a cui nessun può torre
  • le sue leggi paterne, invitto e franco
  • com’uom che per giustizia a morte corre.
  • Già era il mio desio presso che stanco,
  • quando mi fece una leggiadra vista
  • più vago di mirar ch’i’ ne fossi anco.
  • I’ vidi alquante donne ad una lista:
  • Antiope ed Oritia armata e bella,
  • Ippolita del figlio afflitta e trista,
  • e Menalippe, e ciascuna sì snella
  • che vincerle fu gloria al grande Alcide:
  • e’ l’una ebbe, e Teseo l’altra sorella;
  • la vedova che sì secura vide
  • morto ’l figliolo, e tal vendetta feo
  • ch’uccise Ciro et or sua fama uccide,
  • però che, udendo ancora il suo fin reo,
  • par che di novo a sua gran colpa moia,
  • tanto quel dì del suo nome perdeo.
  • Poi vidi quella che mal vide Troia,
  • e fra queste una vergine latina
  • ch’in Italia a’ Troian fe’ molta noia.
  • Poi vidi la magnanima reina:
  • con una treccia avolta e l’altra sparsa
  • corse alla babilonica rapina;
  • poi Cleopatra, e l’un’e l’altra er’ arsa
  • d’indegno foco; e vidi in quella tresca
  • Zenobia del suo onor assai più scarsa.
  • Bella era, e ne l’età fiorita e fresca;
  • quanto in più gioventute e ’n più bellezza,
  • tanto par ch’onestà sua laude accresca;
  • nel cor femineo fu sì gran fermezza,
  • che col bel viso e co l’armata coma
  • fece temer chi per natura sprezza:
  • io parlo de l’imperio alto di Roma,
  • che con arme assalìo; ben ch’a l’estremo
  • fusse al nostro trionfo ricca soma.
  • Fra’ nomi che in dir breve ascondo e premo,
  • non fia Judith, la vedovetta ardita,
  • che fe’ il folle amador del capo scemo.
  • Ma Nino ond’ogni istoria umana è ordita,
  • dove lasc’io e ’l suo gran successore
  • che superbia condusse a bestial vita?
  • Belo dove riman, fonte d’errore
  • non per sua colpa? Dov’è Zoroastro,
  • che fu de l’arti magiche inventore?
  • E chi de’ nostri dogi che ’n duro astro
  • passar l’Eufrate fece il mal governo,
  • a l’italiche doglie fiero impiastro?
  • Ov’è ’l gran Mitridate, quello eterno
  • nemico de’ Roman che sì ramingo
  • fuggì dinanzi a lor la state e ’l verno?
  • Molte gran cose in picciol fascio stringo:
  • ov’è un re Arturo, e tre Cesari Augusti,
  • un d’Affrica, un di Spagna, un Lottoringo?
  • Cingean costu’ i suoi dodici robusti;
  • poi venia solo il buon duce Goffrido
  • che fe’ l’impresa santa e’ passi giusti.
  • Questo, di ch’io mi sdegno e ’ndarno grido,
  • fece in Jerusalem co le sue mani
  • il mal guardato e già negletto nido.
  • Gite superbi, o miseri Cristiani,
  • consumando l’un l’altro, e non vi caglia
  • che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!
  • Raro o nessun che ’n alta fama saglia
  • vidi dopo costui, s’io non m’inganno,
  • o per arte di pace o di battaglia.
  • Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
  • vidi verso la fine il Saracino
  • che fece a’ nostri assai vergogna e danno;
  • quel di Lurìa seguiva il Saladino,
  • poi il duca di Lancastro, che pur dianzi
  • era al regno de’ Franchi aspro vicino.
  • Miro, come uom che volentier s’avanzi,
  • s’alcuno ivi vedessi qual egli era
  • altrove agli occhi miei veduto inanzi;
  • e vidi duo che si partir iersera
  • di questa nostra etate e del paese;
  • costor chiudean quella onorata schiera:
  • il buon re cicilian che ’n alto intese
  • e lunge vide e fu veramente Argo;
  • da l’altra parte il mio gran Colonnese,
  • magnanimo, gentil, constante e largo.
  • Io non sapea da tal vista levarme,
  • quand’io udi’: - Pon mente a l’altro lato
  • ché s’acquista ben pregio altro che d’arme. -
  • Volsimi da man manca, e vidi Plato
  • che ’n quella schiera andò più presso al segno
  • al qual aggiunge cui dal Cielo è dato,
  • Aristotele poi, pien d’alto ingegno,
  • Pitagora che primo umilemente
  • filosofia chiamò per nome degno,
  • Socrate e Senofonte, e quello ardente
  • vecchio a cui fur le Muse tanto amiche
  • ch’Argo e Micena e Troia se ne sente;
  • questo cantò gli errori e le fatiche
  • del figliuol di Laerte e d’una diva,
  • primo pintor delle memorie antiche.
  • A man a man con lui cantando giva
  • il Mantovan che di par seco giostra,
  • ed un al cui passar l’erba fioriva:
  • questo è quel Marco Tullio in cui si mostra
  • chiaro quanti eloquenzia ha frutti e fiori;
  • questi son gli occhi de la lingua nostra.
  • Dopo venia Demostene che fori
  • è di speranza omai del primo loco,
  • non ben contento de’ secondi onori;
  • un gran folgór parea tutto di foco:
  • Eschine il dica che ’l poteo sentire
  • quando presso al suo tuon parve già fioco.
  • Io non posso per ordine ridire
  • questo o quel dove mi vedessi o quando,
  • e qual andare inanzi e qual seguire;
  • ché, cose innumerabili pensando
  • e mirando la turba tale e tanta,
  • l’occhio e ’l pensier m’andava disviando.
  • Vidi Solon, di cui fu l’util pianta
  • che, se mal colta è, mal frutto produce,
  • cogli altri sei di che Grecia si vanta.
  • Qui vid’io nostra gente aver per duce
  • Varrone, il terzo gran lume romano,
  • che quando il miri più tanto più luce;
  • Crispo Sallustio, e seco a mano a mano
  • un che già l’ebbe a schifo e ’l vide torto,
  • cioè ’l gran Tito Livio padovano.
  • Mentr’io ’l mirava, subito ebbi scorto
  • quel Plinio veronese suo vicino,
  • a scriver molto, a morir poco accorto.
  • Poi vidi il gran platonico Plotino,
  • che, credendosi in ozio viver salvo,
  • prevento fu dal suo fero destino,
  • il qual seco venia dal materno alvo,
  • e però providenzia ivi non valse;
  • poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo
  • con Pollïon, che ’n tal superbia salse,
  • che contra quel d’Arpino armar le lingue
  • cercando ambeduo fame indegne e false.
  • Tucidide vid’io, che ben distingue
  • i tempi e ’luoghi e l’opere leggiadre
  • e di che sangue qual campo s’impingue;
  • Erodoto di greca istoria padre
  • vidi, e dipinto il nobil geometra
  • di triangoli e tondi e forme quadre;
  • e quel che ’nver di noi divenne petra,
  • Porfirio, che d’acuti silogismi
  • empié la dïalettica faretra
  • facendo contra ’l vero arme i sofismi;
  • e quel di Coo che fe’ vie miglior l’opra,
  • se bene intesi fusser gli aforismi.
  • Apollo et Esculapio gli son sopra,
  • chiusi ch’a pena il viso gli comprende,
  • sì par che i nomi il tempo limi e copra.
  • Un di Pergamo il segue, e in lui pende
  • l’arte guasta fra noi, allor non vile,
  • ma breve e ’scura; e’ la dichiara e stende.
  • Vidi Anasarco intrepido e virile,
  • e Senocrate più saldo ch’un sasso
  • che nulla forza volse ad atto vile;
  • vidi Archimede star col viso basso
  • e Democrito andar tutto pensoso
  • per suo voler di lume e d’oro casso;
  • vidi Ippia, il vecchiarel che già fu oso
  • dir: - Io so tutto, - e poi di nulla certo
  • ma d’ogni cosa Archesilao dubbioso;
  • vidi in suoi detti Eraclito coverto,
  • e Dïogene cinico in suo’ fatti,
  • assai più che non vuol vergogna, aperto;
  • e quel che lieto i suoi campi disfatti
  • vide e deserti, d’altre merci carco,
  • credendo averne invidïosi patti.
  • Ivi era il curïoso Dicearco,
  • ed in suo’ magisteri assai dispari
  • Quintilïano e Seneca e Plutarco.
  • Vidivi alquanti ch’han turbati i mari
  • con venti avversi e con ingegni vaghi,
  • non per saver ma per contender chiari,
  • urtar come leoni, e come draghi
  • colle code avvinghiarsi. Or che è questo,
  • ch’ognun del suo saver par che s’appaghi?
  • Carneade vidi in suo’ studi sì desto
  • che, parlando egli, il vero e ’l falso a pena
  • si discernea, così nel dir fu presto;
  • la lunga vita e la sua larga vena
  • d’ingegno pose in accordar le parti
  • che ’l furor litterato a guerra mena;
  • né ’l poteo far, ché come crebber l’arti
  • crebbe l’invidia, e col savere inseme
  • ne’ cori enfiati i suo’ veneni ha sparti.
  • Contra ’l buon Siro, che l’umana speme
  • alzò ponendo l’anima immortale,
  • s’armò Epicuro, onde sua fama geme,
  • ardito a dir ch’ella non fusse tale;
  • così al lume fu fumoso e lippo
  • co la brigata al suo maestro eguale:
  • di Metrodoro parlo e d’Aristippo.
  • Poi con gran subbio e con mirabil fuso
  • vidi tela sottil ordir Crisippo.
  • Degli Stoici ’l padre, alzato in suso
  • per far chiaro suo dir, vidi, Zenone,
  • mostrar la palma aperta e ’l pugno chiuso;
  • e per fermar sua bella intenzïone,
  • [la sua tela gentil tesser Cleante,]
  • che tira al ver la vaga opinïone.
  • [Qui lascio, e più di lor non dico avante.]
  • De l’aureo albergo co l’aurora inanzi
  • sì ratto usciva ’l sol cinto di raggi,
  • che detto avresti: - e’ si corcò pur dianzi. -
  • Alzato un poco, come fanno i saggi
  • 5 guardoss’intorno, et a se stesso disse:
  • - Che pensi? omai convien che più cura aggi.
  • Ecco, s’un che famoso in terra visse,
  • de la sua fama per morir non esce,
  • che sarà de la legge che ’l Ciel fisse?
  • 10 E se fama mortal morendo cresce,
  • che spegner si devea in breve, veggio
  • nostra eccellenzia al fine; onde m’incresce.
  • Che più s’aspetta? o che puote esser peggio?
  • che più nel ciel ho io che ’n terra un uomo,
  • 15 a cui esser egual per grazia cheggio?
  • Quattro cavai con quanto studio como,
  • pasco nell’oceano e sprono e sferzo,
  • e pur la fama d’un mortal non domo!
  • Ingiuria da corruccio e non da scherzo,
  • 20 avenir questo a me, s’ i’ fossi in cielo
  • non dirò primo, ma secondo, o terzo!
  • Or conven che s’accenda ogni mio zelo,
  • sì ch’al mio volo l’ira addoppi i vanni,
  • ch’io porto invidia agli uomini, e nol celo;
  • 25 de’ quali io veggio alcun dopo mille anni
  • e mille e mille, più chiari che ’n vita,
  • et io m’avanzo di perpetui affanni.
  • Tal son qual era anzi che stabilita
  • fusse la terra, dì e notte rotando
  • 30 per la strada ritonda ch’è infinita. -
  • Poi che questo ebbe detto, disdegnando
  • riprese il corso più veloce assai
  • che falcon d’alto a sua preda volando:
  • più, dico; né pensier poria già mai
  • 35 seguir suo volo, non che lingua o stile,
  • tal che con gran paura il rimirai.
  • Allor tenn’io il viver nostro a vile
  • per la mirabil sua velocitate
  • vie più che inanzi nol tenea gentile;
  • 40 e parvemi terribil vanitate
  • fermare in cose il cor che ’l Tempo preme,
  • che, mentre più le stringi, son passate.
  • Però chi di suo stato cura o teme,
  • proveggia ben, mentr’è l’arbitrio intero,
  • 45 fondare in loco stabile sua speme;
  • ché quant’io vidi il Tempo andar leggero
  • dopo la guida sua che mai non posa,
  • io nol dirò, perché poter non spero.
  • I’ vidi il ghiaccio, e lì stesso la rosa,
  • 50 quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo,
  • che pur udendo par mirabil cosa.
  • Ma chi ben mira col giudizio saldo,
  • vedrà esser così; ché nol vid’ io?
  • di che contra me stesso or mi riscaldo.
  • 55 Segui’ già le speranze e ’l van desio;
  • or ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio
  • ov’io veggio me stesso e ’l fallir mio;
  • e quanto posso al fine m’apparecchio,
  • pensando al breve viver mio, nel quale
  • 60 stamani era un fanciullo et or son vecchio.
  • Che più d’un giorno è la vita mortale?
  • Nubil’e brev’ e freddo e pien di noia,
  • che pò bella parer ma nulla vale.
  • Qui l’umana speranza e qui la gioia,
  • 65 qui’ miseri mortali alzan la testa
  • e nessun sa quanto si viva o moia.
  • Veggio or la fuga del mio viver presta,
  • anzi di tutti, e nel fuggir del sole
  • la ruina del mondo manifesta.
  • 70 Or vi riconfortate in vostre fole,
  • gioveni, e misurate il tempo largo!
  • Ma piaga antiveduta assai men dole.
  • Forse che ’ndarno mie parole spargo;
  • ma io v’annunzio che voi sete offesi
  • 75 da un grave e mortifero letargo,
  • ché volan l’ore, e’ giorni, e gli anni, e’ mesi;
  • insieme, con brevissimo intervallo,
  • tutti avemo a cercar altri paesi.
  • Non fate contra ’l vero al core un callo,
  • 80 come sete usi, anzi volgete gli occhi
  • mentre emendar si pote il vostro fallo;
  • non aspettate che la morte scocchi,
  • come fa la più parte, ché per certo
  • infinita è la schiera degli sciocchi.
  • 85 Poi ch’ i’ ebbi veduto e veggio aperto
  • il volar e ’l fuggir del gran pianeta,
  • ond’io ho danni et inganni assai sofferto,
  • vidi una gente andarsen queta queta,
  • senza temer di Tempo o di sua rabbia,
  • 90 ché gli avea in guardia istorico o poeta.
  • Di lor par che più d’altri invidia s’abbia,
  • che per se stessi son levati a volo
  • uscendo for della comune gabbia.
  • Contra costor colui che splende solo
  • 95 s’apparecchiava con maggiore sforzo
  • e riprendeva un più spedito volo;
  • a’ suoi corsier radoppiato era l’orzo;
  • e la reina di ch’io sopra dissi
  • d’alcun de’ suoi già volea far divorzo.
  • 100 Udi’ dir, non so a chi, ma ’l detto scrissi:
  • - In questi umani, a dir proprio, ligustri,
  • di cieca oblivïon che ’scuri abissi!
  • Volgerà il sol non pure anni ma lustri
  • e secoli, vittor d’ogni cerebro,
  • 105 e vedrà il vaneggiar di questi illustri.
  • Quanti fur chiari tra Peneo ed Ebro
  • che son venuti e verran tosto meno!
  • quanti sul Xanto e quanti in val di Tebro!
  • Un dubbio, iberno, instabile sereno,
  • 110 è vostra fama, e poca nebbia il rompe;
  • e ’l gran tempo a’ gran nomi è gran veneno.
  • Passan vostre grandezze e vostre pompe,
  • passan le signorie, passano i regni;
  • ogni cosa mortal Tempo interrompe,
  • 115 e ritolta a’ men buon, non dà a’ più degni;
  • e non pur quel di fuori il Tempo solve,
  • ma le vostre eloquenzie e’ vostri ingegni.
  • Così fuggendo il mondo seco volve,
  • né mai si posa né s’arresta o torna,
  • 120 finché v’ha ricondotti in poca polve.
  • Or, perché umana gloria ha tante corna,
  • non è mirabil cosa s’a fiaccarle
  • alquanto oltra l’usanza si soggiorna;
  • ma quantunque si pensi il vulgo o parle,
  • 125 se ’l viver vostro non fusse sì breve,
  • tosto vedresti in fumo ritornarle. -
  • Udito questo, perché al ver si deve
  • non contrastar ma dar perfetta fede,
  • vidi ogni nostra gloria al sol di neve;
  • 130 e vidi il Tempo rimenar tal prede
  • de’ nostri nomi, ch’io gli ebbi per nulla,
  • benché la gente ciò non sa né crede:
  • cieca, che sempre al vento si trastulla
  • e pur di false opinïon si pasce,
  • 135 lodando più il morir vecchio che ’n culla.
  • Quanti son già felici morti in fasce!
  • Quanti miseri in ultima vecchiezza!
  • Alcun dice: - Beato chi non nasce. -
  • Ma per la turba a’ grandi errori avezza
  • 140 dopo la lunga età sia ’l nome chiaro:
  • che è questo però che sì s’apprezza?
  • Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro;
  • chiamasi Fama, et è morir secondo;
  • né più che contra ’l primo è alcun riparo.
  • 145 Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo.
  • Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi
  • stabile e ferma, tutto sbigottito
  • mi volsi al cor e dissi: - In che ti fidi? -
  • Rispose: - Nel Signor, che mai fallito
  • 5 non ha promessa a chi si fida in lui;
  • ma ben veggio che ’l mondo m’ha schernito,
  • e sento quel ch’i’ sono e quel ch’i’ fui,
  • e veggio andar, anzi volare il tempo,
  • e doler mi vorrei, né so di cui;
  • 10 ché la colpa è pur mia, che più per tempo
  • deve’ aprir gli occhi, e non tardar al fine,
  • ch’a dir il vero omai troppo m’attempo.
  • Ma tarde non fur mai grazie divine:
  • in quelle spero che ’n me ancor faranno
  • 15 alte operazïoni e pellegrine. -
  • Così detto e risposto: or, se non stanno
  • queste cose che ’l ciel volge e governa,
  • dopo molto voltar che fine avranno?
  • Questo pensava; e mentre più s’interna
  • 20 la mente mia, veder mi parve un mondo
  • novo, in etate immobile ed eterna,
  • e ’l sole e tutto ’l ciel disfar a tondo
  • con le sue stelle, ancor la terra e ’l mare,
  • e rifarne un più bello e più giocondo.
  • 25 Qual meraviglia ebb’io, quando ristare
  • vidi in un punto quel che mai non stette,
  • ma discorrendo suol tutto cangiare!
  • E le tre parti sue vidi ristrette
  • ad una sola, e quella una esser ferma
  • 30 sì che, come solea, più non s’affrette,
  • e quasi in terra d’erbe ignuda et erma,
  • né «fia» né «fu» né «mai» né «inanzi» o «’ndietro»
  • ch’umana vita fanno varia e ’nferma.
  • Passa il penser sì come sole in vetro,
  • 35 anzi più assai, però che nulla il tene:
  • o qual grazia mi fia, se mai l’impetro,
  • ch’i’ veggia ivi presente il sommo bene,
  • non alcun mal, che solo il tempo mesce,
  • e con lui si diparte e con lui vene!
  • 40 Non avrà albergo il sol Tauro né Pesce,
  • per lo cui varïar nostro lavoro
  • or nasce, or more, et or scema, or cresce.
  • Beat’i spirti che nel sommo coro
  • si troveranno o trovano in tal grado
  • 45 che sia in memoria eterna il nome loro!
  • O felice colui che trova il guado
  • di questo alpestro e rapido torrente
  • ch’ha nome vita et a molti è sì a grado!
  • Misera la volgare e cieca gente,
  • 50 che pon qui sue speranze in cose tali
  • che ’l tempo le ne porta sì repente!
  • O veramente sordi, ignudi e frali,
  • poveri d’argomenti e di consiglio,
  • egri del tutto e miseri mortali!
  • 55 Quei che governa il ciel solo col ciglio,
  • che conturba et acqueta gli elementi,
  • al cui saver non pur io non m’appiglio,
  • ma li angeli ne son lieti e contenti
  • di veder de le mille parti l’una,
  • 60 et in ciò stanno desïosi e ’ntenti....
  • O mente vaga, al fin sempre digiuna,
  • a che tanti penseri? Un’ora sgombra
  • quanto in molt’anni a pena si raguna.
  • Quel che l’anima nostra preme e ’ngombra,
  • 65 dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera,
  • tutti in un punto passeran com’ombra;
  • non avrà loco «fu» «sarà» ned «era»,
  • ma «è» solo, in presente, et «ora» et «oggi»,
  • e sola eternità raccolta e ’ntera.
  • 70 Quasi spianati dietro e ’nanzi i poggi
  • ch’occupavan la vista, non fia in cui
  • vostro sperare e rimembrar s’appoggi;
  • la qual varïetà fa spesso altrui
  • vaneggiar sì che ’l viver par un gioco,
  • 75 pensando pur: - che sarò io? che fui? -
  • Non sarà più diviso a poco a poco,
  • ma tutto insieme; e non più state o verno,
  • ma morto il tempo e varïato il loco;
  • e non avranno in man li anni il governo
  • 80 de le fame mortali, anzi chi fia
  • chiaro una volta fia chiaro in eterno.
  • O felici quelle anime che ’n via
  • sono o seranno di venire al fine
  • di ch’io ragiono, quandunque e’ si sia!
  • 85 E tra l’altre leggiadre e pellegrine,
  • beatissima lei che Morte occise
  • assai di qua del natural confine!
  • Parranno allor l’angeliche divise,
  • e l’oneste parole, e i pensier casti
  • 90 che nel cor giovenil Natura mise.
  • Tanti volti, che Morte e ’l Tempo ha guasti,
  • torneranno al suo più fiorito stato;
  • e vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,
  • ond’io a dito ne sarò mostrato:
  • 95 - Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
  • sovra ’l riso d’ogni altro fu beato! -
  • E quella di ch’ancor piangendo canto,
  • avrà gran maraviglia di se stessa,
  • vedendosi fra tutte dar il vanto.
  • 100 Quando ciò fia, nol so; se fu soppressa
  • tanta credenza a’ più fidi compagni,
  • a sì alto segreto chi s’appressa?
  • Credo io che s’avicini, e de’ guadagni
  • veri e de’ falsi si farà ragione,
  • 105 ché tutti fien allor opre d’aragni.
  • Vedrassi quanto in van cura si pone,
  • e quanto indarno s’affatica e suda,
  • come sono ingannate le persone;
  • nessun segreto fia chi copra o chiuda;
  • 110 fia ogni conscïenza, o chiara o fosca,
  • dinanzi a tutto ’l mondo aperta e nuda;
  • e fia chi ragion giudichi e conosca.
  • Ciascun poi vedrem prender suo viaggio
  • come fiera scacciata che s’imbosca;
  • 115 e vedrassi quel poco di paraggio
  • che vi fa ir superbi, e oro, e terreno,
  • esservi stato danno e non vantaggio;
  • e ’n disparte color che sotto ’l freno
  • di modesta fortuna ebbero in uso,
  • 120 senz’altra pompa, di godersi in seno.
  • Questi trionfi, i cinque in terra giuso
  • avem veduto, et a la fine il sesto,
  • Dio permettente, vederem lassuso;
  • e ’l Tempo, a disfar tutto così presto,
  • 125 e Morte in sua ragion cotanto avara,
  • morti inseme seranno e quella e questo.
  • E quei che Fama meritaron chiara,
  • che ’l Tempo spense, e i be’ visi leggiadri
  • che ’mpallidir fe’ ’l Tempo e Morte amara,
  • 130 l’obblivïon, gli aspetti oscuri et adri,
  • più che mai bei tornando, lasceranno
  • a Morte impetuosa, a’ giorni ladri;
  • ne l’età più fiorita e verde avranno
  • con immortal bellezza eterna fama.
  • 135 Ma inanzi a tutte ch’a rifar si vanno,
  • è quella che piangendo il mondo chiama
  • co la mia lingua e co la stanca penna;
  • ma ’l ciel pur di vederla intera brama.
  • A riva un fiume che nasce in Gebenna
  • 140 Amor mi diè per lei sì lunga guerra
  • che la memoria ancora il cor accenna.
  • Felice sasso che ’l bel viso serra!
  • ché, poi ch’avrà ripreso il suo bel velo,
  • se fu beato chi la vide in terra,
  • 145 or che fia dunque a rivederla in cielo?
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