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  • Project Gutenberg's La Divina Commedia di Dante, by Dante Alighieri
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  • Title: La Divina Commedia di Dante
  • Author: Dante Alighieri
  • Posting Date: November 7, 2015 [EBook #1012]
  • Release Date: August, 1997
  • First Posted: September 4, 1997
  • Last Updated: December 8, 2014
  • Language: Italian
  • Character set encoding: UTF-8
  • *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ***
  • Produced by an anonymous Project Gutenberg volunteer. HTML
  • version by Al Haines.
  • LA DIVINA COMMEDIA
  • di Dante Alighieri
  • INFERNO
  • Inferno • Canto I
  • Nel mezzo del cammin di nostra vita
  • mi ritrovai per una selva oscura,
  • ché la diritta via era smarrita.
  • Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
  • esta selva selvaggia e aspra e forte
  • che nel pensier rinova la paura!
  • Tant’ è amara che poco è più morte;
  • ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
  • dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
  • Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
  • tant’ era pien di sonno a quel punto
  • che la verace via abbandonai.
  • Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
  • là dove terminava quella valle
  • che m’avea di paura il cor compunto,
  • guardai in alto e vidi le sue spalle
  • vestite già de’ raggi del pianeta
  • che mena dritto altrui per ogne calle.
  • Allor fu la paura un poco queta,
  • che nel lago del cor m’era durata
  • la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
  • E come quei che con lena affannata,
  • uscito fuor del pelago a la riva,
  • si volge a l’acqua perigliosa e guata,
  • così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
  • si volse a retro a rimirar lo passo
  • che non lasciò già mai persona viva.
  • Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
  • ripresi via per la piaggia diserta,
  • sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
  • Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
  • una lonza leggera e presta molto,
  • che di pel macolato era coverta;
  • e non mi si partia dinanzi al volto,
  • anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
  • ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
  • Temp’ era dal principio del mattino,
  • e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
  • ch’eran con lui quando l’amor divino
  • mosse di prima quelle cose belle;
  • sì ch’a bene sperar m’era cagione
  • di quella fiera a la gaetta pelle
  • l’ora del tempo e la dolce stagione;
  • ma non sì che paura non mi desse
  • la vista che m’apparve d’un leone.
  • Questi parea che contra me venisse
  • con la test’ alta e con rabbiosa fame,
  • sì che parea che l’aere ne tremesse.
  • Ed una lupa, che di tutte brame
  • sembiava carca ne la sua magrezza,
  • e molte genti fé già viver grame,
  • questa mi porse tanto di gravezza
  • con la paura ch’uscia di sua vista,
  • ch’io perdei la speranza de l’altezza.
  • E qual è quei che volontieri acquista,
  • e giugne ’l tempo che perder lo face,
  • che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
  • tal mi fece la bestia sanza pace,
  • che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
  • mi ripigneva là dove ’l sol tace.
  • Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
  • dinanzi a li occhi mi si fu offerto
  • chi per lungo silenzio parea fioco.
  • Quando vidi costui nel gran diserto,
  • «Miserere di me», gridai a lui,
  • «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
  • Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
  • e li parenti miei furon lombardi,
  • mantoani per patrïa ambedui.
  • Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
  • e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
  • nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
  • Poeta fui, e cantai di quel giusto
  • figliuol d’Anchise che venne di Troia,
  • poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
  • Ma tu perché ritorni a tanta noia?
  • perché non sali il dilettoso monte
  • ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
  • «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
  • che spandi di parlar sì largo fiume?»,
  • rispuos’ io lui con vergognosa fronte.
  • «O de li altri poeti onore e lume,
  • vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
  • che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
  • Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
  • tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
  • lo bello stilo che m’ha fatto onore.
  • Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
  • aiutami da lei, famoso saggio,
  • ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
  • «A te convien tenere altro vïaggio»,
  • rispuose, poi che lagrimar mi vide,
  • «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
  • ché questa bestia, per la qual tu gride,
  • non lascia altrui passar per la sua via,
  • ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
  • e ha natura sì malvagia e ria,
  • che mai non empie la bramosa voglia,
  • e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
  • Molti son li animali a cui s’ammoglia,
  • e più saranno ancora, infin che ’l veltro
  • verrà, che la farà morir con doglia.
  • Questi non ciberà terra né peltro,
  • ma sapïenza, amore e virtute,
  • e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
  • Di quella umile Italia fia salute
  • per cui morì la vergine Cammilla,
  • Eurialo e Turno e Niso di ferute.
  • Questi la caccerà per ogne villa,
  • fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
  • là onde ’nvidia prima dipartilla.
  • Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
  • che tu mi segui, e io sarò tua guida,
  • e trarrotti di qui per loco etterno;
  • ove udirai le disperate strida,
  • vedrai li antichi spiriti dolenti,
  • ch’a la seconda morte ciascun grida;
  • e vederai color che son contenti
  • nel foco, perché speran di venire
  • quando che sia a le beate genti.
  • A le quai poi se tu vorrai salire,
  • anima fia a ciò più di me degna:
  • con lei ti lascerò nel mio partire;
  • ché quello imperador che là sù regna,
  • perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
  • non vuol che ’n sua città per me si vegna.
  • In tutte parti impera e quivi regge;
  • quivi è la sua città e l’alto seggio:
  • oh felice colui cu’ ivi elegge!».
  • E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
  • per quello Dio che tu non conoscesti,
  • acciò ch’io fugga questo male e peggio,
  • che tu mi meni là dov’ or dicesti,
  • sì ch’io veggia la porta di san Pietro
  • e color cui tu fai cotanto mesti».
  • Allor si mosse, e io li tenni dietro.
  • Inferno • Canto II
  • Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
  • toglieva li animai che sono in terra
  • da le fatiche loro; e io sol uno
  • m’apparecchiava a sostener la guerra
  • sì del cammino e sì de la pietate,
  • che ritrarrà la mente che non erra.
  • O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
  • o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
  • qui si parrà la tua nobilitate.
  • Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
  • guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
  • prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
  • Tu dici che di Silvïo il parente,
  • corruttibile ancora, ad immortale
  • secolo andò, e fu sensibilmente.
  • Però, se l’avversario d’ogne male
  • cortese i fu, pensando l’alto effetto
  • ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
  • non pare indegno ad omo d’intelletto;
  • ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
  • ne l’empireo ciel per padre eletto:
  • la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
  • fu stabilita per lo loco santo
  • u’ siede il successor del maggior Piero.
  • Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
  • intese cose che furon cagione
  • di sua vittoria e del papale ammanto.
  • Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
  • per recarne conforto a quella fede
  • ch’è principio a la via di salvazione.
  • Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
  • Io non Enëa, io non Paulo sono;
  • me degno a ciò né io né altri ’l crede.
  • Per che, se del venire io m’abbandono,
  • temo che la venuta non sia folle.
  • Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
  • E qual è quei che disvuol ciò che volle
  • e per novi pensier cangia proposta,
  • sì che dal cominciar tutto si tolle,
  • tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
  • perché, pensando, consumai la ’mpresa
  • che fu nel cominciar cotanto tosta.
  • «S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
  • rispuose del magnanimo quell’ ombra,
  • «l’anima tua è da viltade offesa;
  • la qual molte fïate l’omo ingombra
  • sì che d’onrata impresa lo rivolve,
  • come falso veder bestia quand’ ombra.
  • Da questa tema acciò che tu ti solve,
  • dirotti perch’ io venni e quel ch’io ’ntesi
  • nel primo punto che di te mi dolve.
  • Io era tra color che son sospesi,
  • e donna mi chiamò beata e bella,
  • tal che di comandare io la richiesi.
  • Lucevan li occhi suoi più che la stella;
  • e cominciommi a dir soave e piana,
  • con angelica voce, in sua favella:
  • “O anima cortese mantoana,
  • di cui la fama ancor nel mondo dura,
  • e durerà quanto ’l mondo lontana,
  • l’amico mio, e non de la ventura,
  • ne la diserta piaggia è impedito
  • sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;
  • e temo che non sia già sì smarrito,
  • ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
  • per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
  • Or movi, e con la tua parola ornata
  • e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
  • l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
  • I’ son Beatrice che ti faccio andare;
  • vegno del loco ove tornar disio;
  • amor mi mosse, che mi fa parlare.
  • Quando sarò dinanzi al segnor mio,
  • di te mi loderò sovente a lui”.
  • Tacette allora, e poi comincia’ io:
  • “O donna di virtù sola per cui
  • l’umana spezie eccede ogne contento
  • di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
  • tanto m’aggrada il tuo comandamento,
  • che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
  • più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
  • Ma dimmi la cagion che non ti guardi
  • de lo scender qua giuso in questo centro
  • de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.
  • “Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
  • dirotti brievemente”, mi rispuose,
  • “perch’ i’ non temo di venir qua entro.
  • Temer si dee di sole quelle cose
  • c’hanno potenza di fare altrui male;
  • de l’altre no, ché non son paurose.
  • I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
  • che la vostra miseria non mi tange,
  • né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
  • Donna è gentil nel ciel che si compiange
  • di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
  • sì che duro giudicio là sù frange.
  • Questa chiese Lucia in suo dimando
  • e disse:—Or ha bisogno il tuo fedele
  • di te, e io a te lo raccomando—.
  • Lucia, nimica di ciascun crudele,
  • si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
  • che mi sedea con l’antica Rachele.
  • Disse:—Beatrice, loda di Dio vera,
  • ché non soccorri quei che t’amò tanto,
  • ch’uscì per te de la volgare schiera?
  • Non odi tu la pieta del suo pianto,
  • non vedi tu la morte che ’l combatte
  • su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?—.
  • Al mondo non fur mai persone ratte
  • a far lor pro o a fuggir lor danno,
  • com’ io, dopo cotai parole fatte,
  • venni qua giù del mio beato scanno,
  • fidandomi del tuo parlare onesto,
  • ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.
  • Poscia che m’ebbe ragionato questo,
  • li occhi lucenti lagrimando volse,
  • per che mi fece del venir più presto.
  • E venni a te così com’ ella volse:
  • d’inanzi a quella fiera ti levai
  • che del bel monte il corto andar ti tolse.
  • Dunque: che è? perché, perché restai,
  • perché tanta viltà nel core allette,
  • perché ardire e franchezza non hai,
  • poscia che tai tre donne benedette
  • curan di te ne la corte del cielo,
  • e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».
  • Quali fioretti dal notturno gelo
  • chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
  • si drizzan tutti aperti in loro stelo,
  • tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
  • e tanto buono ardire al cor mi corse,
  • ch’i’ cominciai come persona franca:
  • «Oh pietosa colei che mi soccorse!
  • e te cortese ch’ubidisti tosto
  • a le vere parole che ti porse!
  • Tu m’hai con disiderio il cor disposto
  • sì al venir con le parole tue,
  • ch’i’ son tornato nel primo proposto.
  • Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
  • tu duca, tu segnore e tu maestro».
  • Così li dissi; e poi che mosso fue,
  • intrai per lo cammino alto e silvestro.
  • Inferno • Canto III
  • ‘Per me si va ne la città dolente,
  • per me si va ne l’etterno dolore,
  • per me si va tra la perduta gente.
  • Giustizia mosse il mio alto fattore;
  • fecemi la divina podestate,
  • la somma sapïenza e ’l primo amore.
  • Dinanzi a me non fuor cose create
  • se non etterne, e io etterno duro.
  • Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’.
  • Queste parole di colore oscuro
  • vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
  • per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
  • Ed elli a me, come persona accorta:
  • «Qui si convien lasciare ogne sospetto;
  • ogne viltà convien che qui sia morta.
  • Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
  • che tu vedrai le genti dolorose
  • c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
  • E poi che la sua mano a la mia puose
  • con lieto volto, ond’ io mi confortai,
  • mi mise dentro a le segrete cose.
  • Quivi sospiri, pianti e alti guai
  • risonavan per l’aere sanza stelle,
  • per ch’io al cominciar ne lagrimai.
  • Diverse lingue, orribili favelle,
  • parole di dolore, accenti d’ira,
  • voci alte e fioche, e suon di man con elle
  • facevano un tumulto, il qual s’aggira
  • sempre in quell’ aura sanza tempo tinta,
  • come la rena quando turbo spira.
  • E io ch’avea d’error la testa cinta,
  • dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
  • e che gent’ è che par nel duol sì vinta?».
  • Ed elli a me: «Questo misero modo
  • tegnon l’anime triste di coloro
  • che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
  • Mischiate sono a quel cattivo coro
  • de li angeli che non furon ribelli
  • né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
  • Caccianli i ciel per non esser men belli,
  • né lo profondo inferno li riceve,
  • ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
  • E io: «Maestro, che è tanto greve
  • a lor che lamentar li fa sì forte?».
  • Rispuose: «Dicerolti molto breve.
  • Questi non hanno speranza di morte,
  • e la lor cieca vita è tanto bassa,
  • che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
  • Fama di loro il mondo esser non lassa;
  • misericordia e giustizia li sdegna:
  • non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
  • E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
  • che girando correva tanto ratta,
  • che d’ogne posa mi parea indegna;
  • e dietro le venìa sì lunga tratta
  • di gente, ch’i’ non averei creduto
  • che morte tanta n’avesse disfatta.
  • Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
  • vidi e conobbi l’ombra di colui
  • che fece per viltade il gran rifiuto.
  • Incontanente intesi e certo fui
  • che questa era la setta d’i cattivi,
  • a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
  • Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
  • erano ignudi e stimolati molto
  • da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
  • Elle rigavan lor di sangue il volto,
  • che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
  • da fastidiosi vermi era ricolto.
  • E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
  • vidi genti a la riva d’un gran fiume;
  • per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
  • ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
  • le fa di trapassar parer sì pronte,
  • com’ i’ discerno per lo fioco lume».
  • Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
  • quando noi fermerem li nostri passi
  • su la trista riviera d’Acheronte».
  • Allor con li occhi vergognosi e bassi,
  • temendo no ’l mio dir li fosse grave,
  • infino al fiume del parlar mi trassi.
  • Ed ecco verso noi venir per nave
  • un vecchio, bianco per antico pelo,
  • gridando: «Guai a voi, anime prave!
  • Non isperate mai veder lo cielo:
  • i’ vegno per menarvi a l’altra riva
  • ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
  • E tu che se’ costì, anima viva,
  • pàrtiti da cotesti che son morti».
  • Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
  • disse: «Per altra via, per altri porti
  • verrai a piaggia, non qui, per passare:
  • più lieve legno convien che ti porti».
  • E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
  • vuolsi così colà dove si puote
  • ciò che si vuole, e più non dimandare».
  • Quinci fuor quete le lanose gote
  • al nocchier de la livida palude,
  • che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
  • Ma quell’ anime, ch’eran lasse e nude,
  • cangiar colore e dibattero i denti,
  • ratto che ’nteser le parole crude.
  • Bestemmiavano Dio e lor parenti,
  • l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
  • di lor semenza e di lor nascimenti.
  • Poi si ritrasser tutte quante insieme,
  • forte piangendo, a la riva malvagia
  • ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
  • Caron dimonio, con occhi di bragia
  • loro accennando, tutte le raccoglie;
  • batte col remo qualunque s’adagia.
  • Come d’autunno si levan le foglie
  • l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
  • vede a la terra tutte le sue spoglie,
  • similemente il mal seme d’Adamo
  • gittansi di quel lito ad una ad una,
  • per cenni come augel per suo richiamo.
  • Così sen vanno su per l’onda bruna,
  • e avanti che sien di là discese,
  • anche di qua nuova schiera s’auna.
  • «Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
  • «quelli che muoion ne l’ira di Dio
  • tutti convegnon qui d’ogne paese;
  • e pronti sono a trapassar lo rio,
  • ché la divina giustizia li sprona,
  • sì che la tema si volve in disio.
  • Quinci non passa mai anima buona;
  • e però, se Caron di te si lagna,
  • ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
  • Finito questo, la buia campagna
  • tremò sì forte, che de lo spavento
  • la mente di sudore ancor mi bagna.
  • La terra lagrimosa diede vento,
  • che balenò una luce vermiglia
  • la qual mi vinse ciascun sentimento;
  • e caddi come l’uom cui sonno piglia.
  • Inferno • Canto IV
  • Ruppemi l’alto sonno ne la testa
  • un greve truono, sì ch’io mi riscossi
  • come persona ch’è per forza desta;
  • e l’occhio riposato intorno mossi,
  • dritto levato, e fiso riguardai
  • per conoscer lo loco dov’ io fossi.
  • Vero è che ’n su la proda mi trovai
  • de la valle d’abisso dolorosa
  • che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
  • Oscura e profonda era e nebulosa
  • tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
  • io non vi discernea alcuna cosa.
  • «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
  • cominciò il poeta tutto smorto.
  • «Io sarò primo, e tu sarai secondo».
  • E io, che del color mi fui accorto,
  • dissi: «Come verrò, se tu paventi
  • che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
  • Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
  • che son qua giù, nel viso mi dipigne
  • quella pietà che tu per tema senti.
  • Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
  • Così si mise e così mi fé intrare
  • nel primo cerchio che l’abisso cigne.
  • Quivi, secondo che per ascoltare,
  • non avea pianto mai che di sospiri
  • che l’aura etterna facevan tremare;
  • ciò avvenia di duol sanza martìri,
  • ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
  • d’infanti e di femmine e di viri.
  • Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
  • che spiriti son questi che tu vedi?
  • Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
  • ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
  • non basta, perché non ebber battesmo,
  • ch’è porta de la fede che tu credi;
  • e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
  • non adorar debitamente a Dio:
  • e di questi cotai son io medesmo.
  • Per tai difetti, non per altro rio,
  • semo perduti, e sol di tanto offesi
  • che sanza speme vivemo in disio».
  • Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
  • però che gente di molto valore
  • conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
  • «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
  • comincia’ io per voler esser certo
  • di quella fede che vince ogne errore:
  • «uscicci mai alcuno, o per suo merto
  • o per altrui, che poi fosse beato?».
  • E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
  • rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
  • quando ci vidi venire un possente,
  • con segno di vittoria coronato.
  • Trasseci l’ombra del primo parente,
  • d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
  • di Moïsè legista e ubidente;
  • Abraàm patrïarca e Davìd re,
  • Israèl con lo padre e co’ suoi nati
  • e con Rachele, per cui tanto fé,
  • e altri molti, e feceli beati.
  • E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
  • spiriti umani non eran salvati».
  • Non lasciavam l’andar perch’ ei dicessi,
  • ma passavam la selva tuttavia,
  • la selva, dico, di spiriti spessi.
  • Non era lunga ancor la nostra via
  • di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
  • ch’emisperio di tenebre vincia.
  • Di lungi n’eravamo ancora un poco,
  • ma non sì ch’io non discernessi in parte
  • ch’orrevol gente possedea quel loco.
  • «O tu ch’onori scïenzïa e arte,
  • questi chi son c’hanno cotanta onranza,
  • che dal modo de li altri li diparte?».
  • E quelli a me: «L’onrata nominanza
  • che di lor suona sù ne la tua vita,
  • grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
  • Intanto voce fu per me udita:
  • «Onorate l’altissimo poeta;
  • l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
  • Poi che la voce fu restata e queta,
  • vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
  • sembianz’ avevan né trista né lieta.
  • Lo buon maestro cominciò a dire:
  • «Mira colui con quella spada in mano,
  • che vien dinanzi ai tre sì come sire:
  • quelli è Omero poeta sovrano;
  • l’altro è Orazio satiro che vene;
  • Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
  • Però che ciascun meco si convene
  • nel nome che sonò la voce sola,
  • fannomi onore, e di ciò fanno bene».
  • Così vid’ i’ adunar la bella scola
  • di quel segnor de l’altissimo canto
  • che sovra li altri com’ aquila vola.
  • Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
  • volsersi a me con salutevol cenno,
  • e ’l mio maestro sorrise di tanto;
  • e più d’onore ancora assai mi fenno,
  • ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
  • sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
  • Così andammo infino a la lumera,
  • parlando cose che ’l tacere è bello,
  • sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.
  • Venimmo al piè d’un nobile castello,
  • sette volte cerchiato d’alte mura,
  • difeso intorno d’un bel fiumicello.
  • Questo passammo come terra dura;
  • per sette porte intrai con questi savi:
  • giugnemmo in prato di fresca verdura.
  • Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
  • di grande autorità ne’ lor sembianti:
  • parlavan rado, con voci soavi.
  • Traemmoci così da l’un de’ canti,
  • in loco aperto, luminoso e alto,
  • sì che veder si potien tutti quanti.
  • Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
  • mi fuor mostrati li spiriti magni,
  • che del vedere in me stesso m’essalto.
  • I’ vidi Eletra con molti compagni,
  • tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
  • Cesare armato con li occhi grifagni.
  • Vidi Cammilla e la Pantasilea;
  • da l’altra parte vidi ’l re Latino
  • che con Lavina sua figlia sedea.
  • Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
  • Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
  • e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
  • Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
  • vidi ’l maestro di color che sanno
  • seder tra filosofica famiglia.
  • Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
  • quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
  • che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
  • Democrito che ’l mondo a caso pone,
  • Dïogenès, Anassagora e Tale,
  • Empedoclès, Eraclito e Zenone;
  • e vidi il buono accoglitor del quale,
  • Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
  • Tulïo e Lino e Seneca morale;
  • Euclide geomètra e Tolomeo,
  • Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
  • Averoìs, che ’l gran comento feo.
  • Io non posso ritrar di tutti a pieno,
  • però che sì mi caccia il lungo tema,
  • che molte volte al fatto il dir vien meno.
  • La sesta compagnia in due si scema:
  • per altra via mi mena il savio duca,
  • fuor de la queta, ne l’aura che trema.
  • E vegno in parte ove non è che luca.
  • Inferno • Canto V
  • Così discesi del cerchio primaio
  • giù nel secondo, che men loco cinghia
  • e tanto più dolor, che punge a guaio.
  • Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
  • essamina le colpe ne l’intrata;
  • giudica e manda secondo ch’avvinghia.
  • Dico che quando l’anima mal nata
  • li vien dinanzi, tutta si confessa;
  • e quel conoscitor de le peccata
  • vede qual loco d’inferno è da essa;
  • cignesi con la coda tante volte
  • quantunque gradi vuol che giù sia messa.
  • Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
  • vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
  • dicono e odono e poi son giù volte.
  • «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
  • disse Minòs a me quando mi vide,
  • lasciando l’atto di cotanto offizio,
  • «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
  • non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
  • E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
  • Non impedir lo suo fatale andare:
  • vuolsi così colà dove si puote
  • ciò che si vuole, e più non dimandare».
  • Or incomincian le dolenti note
  • a farmisi sentire; or son venuto
  • là dove molto pianto mi percuote.
  • Io venni in loco d’ogne luce muto,
  • che mugghia come fa mar per tempesta,
  • se da contrari venti è combattuto.
  • La bufera infernal, che mai non resta,
  • mena li spirti con la sua rapina;
  • voltando e percotendo li molesta.
  • Quando giungon davanti a la ruina,
  • quivi le strida, il compianto, il lamento;
  • bestemmian quivi la virtù divina.
  • Intesi ch’a così fatto tormento
  • enno dannati i peccator carnali,
  • che la ragion sommettono al talento.
  • E come li stornei ne portan l’ali
  • nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
  • così quel fiato li spiriti mali
  • di qua, di là, di giù, di sù li mena;
  • nulla speranza li conforta mai,
  • non che di posa, ma di minor pena.
  • E come i gru van cantando lor lai,
  • faccendo in aere di sé lunga riga,
  • così vid’ io venir, traendo guai,
  • ombre portate da la detta briga;
  • per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
  • genti che l’aura nera sì gastiga?».
  • «La prima di color di cui novelle
  • tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
  • «fu imperadrice di molte favelle.
  • A vizio di lussuria fu sì rotta,
  • che libito fé licito in sua legge,
  • per tòrre il biasmo in che era condotta.
  • Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
  • che succedette a Nino e fu sua sposa:
  • tenne la terra che ’l Soldan corregge.
  • L’altra è colei che s’ancise amorosa,
  • e ruppe fede al cener di Sicheo;
  • poi è Cleopatràs lussurïosa.
  • Elena vedi, per cui tanto reo
  • tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
  • che con amore al fine combatteo.
  • Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
  • ombre mostrommi e nominommi a dito,
  • ch’amor di nostra vita dipartille.
  • Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
  • nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
  • pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
  • I’ cominciai: «Poeta, volontieri
  • parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
  • e paion sì al vento esser leggeri».
  • Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
  • più presso a noi; e tu allor li priega
  • per quello amor che i mena, ed ei verranno».
  • Sì tosto come il vento a noi li piega,
  • mossi la voce: «O anime affannate,
  • venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
  • Quali colombe dal disio chiamate
  • con l’ali alzate e ferme al dolce nido
  • vegnon per l’aere, dal voler portate;
  • cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
  • a noi venendo per l’aere maligno,
  • sì forte fu l’affettüoso grido.
  • «O animal grazïoso e benigno
  • che visitando vai per l’aere perso
  • noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
  • se fosse amico il re de l’universo,
  • noi pregheremmo lui de la tua pace,
  • poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
  • Di quel che udire e che parlar vi piace,
  • noi udiremo e parleremo a voi,
  • mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
  • Siede la terra dove nata fui
  • su la marina dove ’l Po discende
  • per aver pace co’ seguaci sui.
  • Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
  • prese costui de la bella persona
  • che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
  • Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
  • mi prese del costui piacer sì forte,
  • che, come vedi, ancor non m’abbandona.
  • Amor condusse noi ad una morte.
  • Caina attende chi a vita ci spense».
  • Queste parole da lor ci fuor porte.
  • Quand’ io intesi quell’ anime offense,
  • china’ il viso, e tanto il tenni basso,
  • fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
  • Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
  • quanti dolci pensier, quanto disio
  • menò costoro al doloroso passo!».
  • Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
  • e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
  • a lagrimar mi fanno tristo e pio.
  • Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
  • a che e come concedette amore
  • che conosceste i dubbiosi disiri?».
  • E quella a me: «Nessun maggior dolore
  • che ricordarsi del tempo felice
  • ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
  • Ma s’a conoscer la prima radice
  • del nostro amor tu hai cotanto affetto,
  • dirò come colui che piange e dice.
  • Noi leggiavamo un giorno per diletto
  • di Lancialotto come amor lo strinse;
  • soli eravamo e sanza alcun sospetto.
  • Per più fïate li occhi ci sospinse
  • quella lettura, e scolorocci il viso;
  • ma solo un punto fu quel che ci vinse.
  • Quando leggemmo il disïato riso
  • esser basciato da cotanto amante,
  • questi, che mai da me non fia diviso,
  • la bocca mi basciò tutto tremante.
  • Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
  • quel giorno più non vi leggemmo avante».
  • Mentre che l’uno spirto questo disse,
  • l’altro piangëa; sì che di pietade
  • io venni men così com’ io morisse.
  • E caddi come corpo morto cade.
  • Inferno • Canto VI
  • Al tornar de la mente, che si chiuse
  • dinanzi a la pietà d’i due cognati,
  • che di trestizia tutto mi confuse,
  • novi tormenti e novi tormentati
  • mi veggio intorno, come ch’io mi mova
  • e ch’io mi volga, e come che io guati.
  • Io sono al terzo cerchio, de la piova
  • etterna, maladetta, fredda e greve;
  • regola e qualità mai non l’è nova.
  • Grandine grossa, acqua tinta e neve
  • per l’aere tenebroso si riversa;
  • pute la terra che questo riceve.
  • Cerbero, fiera crudele e diversa,
  • con tre gole caninamente latra
  • sovra la gente che quivi è sommersa.
  • Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
  • e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
  • graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
  • Urlar li fa la pioggia come cani;
  • de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
  • volgonsi spesso i miseri profani.
  • Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
  • le bocche aperse e mostrocci le sanne;
  • non avea membro che tenesse fermo.
  • E ’l duca mio distese le sue spanne,
  • prese la terra, e con piene le pugna
  • la gittò dentro a le bramose canne.
  • Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
  • e si racqueta poi che ’l pasto morde,
  • ché solo a divorarlo intende e pugna,
  • cotai si fecer quelle facce lorde
  • de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
  • l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
  • Noi passavam su per l’ombre che adona
  • la greve pioggia, e ponavam le piante
  • sovra lor vanità che par persona.
  • Elle giacean per terra tutte quante,
  • fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
  • ch’ella ci vide passarsi davante.
  • «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
  • mi disse, «riconoscimi, se sai:
  • tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
  • E io a lui: «L’angoscia che tu hai
  • forse ti tira fuor de la mia mente,
  • sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
  • Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
  • loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
  • che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
  • Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
  • d’invidia sì che già trabocca il sacco,
  • seco mi tenne in la vita serena.
  • Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
  • per la dannosa colpa de la gola,
  • come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
  • E io anima trista non son sola,
  • ché tutte queste a simil pena stanno
  • per simil colpa». E più non fé parola.
  • Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
  • mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
  • ma dimmi, se tu sai, a che verranno
  • li cittadin de la città partita;
  • s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
  • per che l’ha tanta discordia assalita».
  • E quelli a me: «Dopo lunga tencione
  • verranno al sangue, e la parte selvaggia
  • caccerà l’altra con molta offensione.
  • Poi appresso convien che questa caggia
  • infra tre soli, e che l’altra sormonti
  • con la forza di tal che testé piaggia.
  • Alte terrà lungo tempo le fronti,
  • tenendo l’altra sotto gravi pesi,
  • come che di ciò pianga o che n’aonti.
  • Giusti son due, e non vi sono intesi;
  • superbia, invidia e avarizia sono
  • le tre faville c’hanno i cuori accesi».
  • Qui puose fine al lagrimabil suono.
  • E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni
  • e che di più parlar mi facci dono.
  • Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
  • Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
  • e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
  • dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
  • ché gran disio mi stringe di savere
  • se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».
  • E quelli: «Ei son tra l’anime più nere;
  • diverse colpe giù li grava al fondo:
  • se tanto scendi, là i potrai vedere.
  • Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
  • priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
  • più non ti dico e più non ti rispondo».
  • Li diritti occhi torse allora in biechi;
  • guardommi un poco e poi chinò la testa:
  • cadde con essa a par de li altri ciechi.
  • E ’l duca disse a me: «Più non si desta
  • di qua dal suon de l’angelica tromba,
  • quando verrà la nimica podesta:
  • ciascun rivederà la trista tomba,
  • ripiglierà sua carne e sua figura,
  • udirà quel ch’in etterno rimbomba».
  • Sì trapassammo per sozza mistura
  • de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
  • toccando un poco la vita futura;
  • per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
  • crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
  • o fier minori, o saran sì cocenti?».
  • Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
  • che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
  • più senta il bene, e così la doglienza.
  • Tutto che questa gente maladetta
  • in vera perfezion già mai non vada,
  • di là più che di qua essere aspetta».
  • Noi aggirammo a tondo quella strada,
  • parlando più assai ch’i’ non ridico;
  • venimmo al punto dove si digrada:
  • quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
  • Inferno • Canto VII
  • «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
  • cominciò Pluto con la voce chioccia;
  • e quel savio gentil, che tutto seppe,
  • disse per confortarmi: «Non ti noccia
  • la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
  • non ci torrà lo scender questa roccia».
  • Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
  • e disse: «Taci, maladetto lupo!
  • consuma dentro te con la tua rabbia.
  • Non è sanza cagion l’andare al cupo:
  • vuolsi ne l’alto, là dove Michele
  • fé la vendetta del superbo strupo».
  • Quali dal vento le gonfiate vele
  • caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
  • tal cadde a terra la fiera crudele.
  • Così scendemmo ne la quarta lacca,
  • pigliando più de la dolente ripa
  • che ’l mal de l’universo tutto insacca.
  • Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
  • nove travaglie e pene quant’ io viddi?
  • e perché nostra colpa sì ne scipa?
  • Come fa l’onda là sovra Cariddi,
  • che si frange con quella in cui s’intoppa,
  • così convien che qui la gente riddi.
  • Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
  • e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
  • voltando pesi per forza di poppa.
  • Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
  • si rivolgea ciascun, voltando a retro,
  • gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
  • Così tornavan per lo cerchio tetro
  • da ogne mano a l’opposito punto,
  • gridandosi anche loro ontoso metro;
  • poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
  • per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
  • E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
  • dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
  • che gente è questa, e se tutti fuor cherci
  • questi chercuti a la sinistra nostra».
  • Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
  • sì de la mente in la vita primaia,
  • che con misura nullo spendio ferci.
  • Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
  • quando vegnono a’ due punti del cerchio
  • dove colpa contraria li dispaia.
  • Questi fuor cherci, che non han coperchio
  • piloso al capo, e papi e cardinali,
  • in cui usa avarizia il suo soperchio».
  • E io: «Maestro, tra questi cotali
  • dovre’ io ben riconoscere alcuni
  • che furo immondi di cotesti mali».
  • Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
  • la sconoscente vita che i fé sozzi,
  • ad ogne conoscenza or li fa bruni.
  • In etterno verranno a li due cozzi:
  • questi resurgeranno del sepulcro
  • col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
  • Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
  • ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
  • qual ella sia, parole non ci appulcro.
  • Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
  • d’i ben che son commessi a la fortuna,
  • per che l’umana gente si rabbuffa;
  • ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
  • e che già fu, di quest’ anime stanche
  • non poterebbe farne posare una».
  • «Maestro mio», diss’ io, «or mi dì anche:
  • questa fortuna di che tu mi tocche,
  • che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
  • E quelli a me: «Oh creature sciocche,
  • quanta ignoranza è quella che v’offende!
  • Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
  • Colui lo cui saver tutto trascende,
  • fece li cieli e diè lor chi conduce
  • sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
  • distribuendo igualmente la luce.
  • Similemente a li splendor mondani
  • ordinò general ministra e duce
  • che permutasse a tempo li ben vani
  • di gente in gente e d’uno in altro sangue,
  • oltre la difension d’i senni umani;
  • per ch’una gente impera e l’altra langue,
  • seguendo lo giudicio di costei,
  • che è occulto come in erba l’angue.
  • Vostro saver non ha contasto a lei:
  • questa provede, giudica, e persegue
  • suo regno come il loro li altri dèi.
  • Le sue permutazion non hanno triegue:
  • necessità la fa esser veloce;
  • sì spesso vien chi vicenda consegue.
  • Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
  • pur da color che le dovrien dar lode,
  • dandole biasmo a torto e mala voce;
  • ma ella s’è beata e ciò non ode:
  • con l’altre prime creature lieta
  • volve sua spera e beata si gode.
  • Or discendiamo omai a maggior pieta;
  • già ogne stella cade che saliva
  • quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».
  • Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
  • sovr’ una fonte che bolle e riversa
  • per un fossato che da lei deriva.
  • L’acqua era buia assai più che persa;
  • e noi, in compagnia de l’onde bige,
  • intrammo giù per una via diversa.
  • In la palude va c’ha nome Stige
  • questo tristo ruscel, quand’ è disceso
  • al piè de le maligne piagge grige.
  • E io, che di mirare stava inteso,
  • vidi genti fangose in quel pantano,
  • ignude tutte, con sembiante offeso.
  • Queste si percotean non pur con mano,
  • ma con la testa e col petto e coi piedi,
  • troncandosi co’ denti a brano a brano.
  • Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
  • l’anime di color cui vinse l’ira;
  • e anche vo’ che tu per certo credi
  • che sotto l’acqua è gente che sospira,
  • e fanno pullular quest’ acqua al summo,
  • come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
  • Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
  • ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
  • portando dentro accidïoso fummo:
  • or ci attristiam ne la belletta negra”.
  • Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
  • ché dir nol posson con parola integra».
  • Così girammo de la lorda pozza
  • grand’ arco tra la ripa secca e ’l mézzo,
  • con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
  • Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
  • Inferno • Canto VIII
  • Io dico, seguitando, ch’assai prima
  • che noi fossimo al piè de l’alta torre,
  • li occhi nostri n’andar suso a la cima
  • per due fiammette che i vedemmo porre,
  • e un’altra da lungi render cenno,
  • tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
  • E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
  • dissi: «Questo che dice? e che risponde
  • quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
  • Ed elli a me: «Su per le sucide onde
  • già scorgere puoi quello che s’aspetta,
  • se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
  • Corda non pinse mai da sé saetta
  • che sì corresse via per l’aere snella,
  • com’ io vidi una nave piccioletta
  • venir per l’acqua verso noi in quella,
  • sotto ’l governo d’un sol galeoto,
  • che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
  • «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto»,
  • disse lo mio segnore, «a questa volta:
  • più non ci avrai che sol passando il loto».
  • Qual è colui che grande inganno ascolta
  • che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
  • fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
  • Lo duca mio discese ne la barca,
  • e poi mi fece intrare appresso lui;
  • e sol quand’ io fui dentro parve carca.
  • Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
  • segando se ne va l’antica prora
  • de l’acqua più che non suol con altrui.
  • Mentre noi corravam la morta gora,
  • dinanzi mi si fece un pien di fango,
  • e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
  • E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
  • ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
  • Rispuose: «Vedi che son un che piango».
  • E io a lui: «Con piangere e con lutto,
  • spirito maladetto, ti rimani;
  • ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
  • Allor distese al legno ambo le mani;
  • per che ’l maestro accorto lo sospinse,
  • dicendo: «Via costà con li altri cani!».
  • Lo collo poi con le braccia mi cinse;
  • basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
  • benedetta colei che ’n te s’incinse!
  • Quei fu al mondo persona orgogliosa;
  • bontà non è che sua memoria fregi:
  • così s’è l’ombra sua qui furïosa.
  • Quanti si tegnon or là sù gran regi
  • che qui staranno come porci in brago,
  • di sé lasciando orribili dispregi!».
  • E io: «Maestro, molto sarei vago
  • di vederlo attuffare in questa broda
  • prima che noi uscissimo del lago».
  • Ed elli a me: «Avante che la proda
  • ti si lasci veder, tu sarai sazio:
  • di tal disïo convien che tu goda».
  • Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
  • far di costui a le fangose genti,
  • che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
  • Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
  • e ’l fiorentino spirito bizzarro
  • in sé medesmo si volvea co’ denti.
  • Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
  • ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
  • per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
  • Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
  • s’appressa la città c’ha nome Dite,
  • coi gravi cittadin, col grande stuolo».
  • E io: «Maestro, già le sue meschite
  • là entro certe ne la valle cerno,
  • vermiglie come se di foco uscite
  • fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
  • ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
  • come tu vedi in questo basso inferno».
  • Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
  • che vallan quella terra sconsolata:
  • le mura mi parean che ferro fosse.
  • Non sanza prima far grande aggirata,
  • venimmo in parte dove il nocchier forte
  • «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
  • Io vidi più di mille in su le porte
  • da ciel piovuti, che stizzosamente
  • dicean: «Chi è costui che sanza morte
  • va per lo regno de la morta gente?».
  • E ’l savio mio maestro fece segno
  • di voler lor parlar segretamente.
  • Allor chiusero un poco il gran disdegno
  • e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
  • che sì ardito intrò per questo regno.
  • Sol si ritorni per la folle strada:
  • pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
  • che li ha’ iscorta sì buia contrada».
  • Pensa, lettor, se io mi sconfortai
  • nel suon de le parole maladette,
  • ché non credetti ritornarci mai.
  • «O caro duca mio, che più di sette
  • volte m’hai sicurtà renduta e tratto
  • d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
  • non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto;
  • e se ’l passar più oltre ci è negato,
  • ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
  • E quel segnor che lì m’avea menato,
  • mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
  • non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
  • Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
  • conforta e ciba di speranza buona,
  • ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
  • Così sen va, e quivi m’abbandona
  • lo dolce padre, e io rimagno in forse,
  • che sì e no nel capo mi tenciona.
  • Udir non potti quello ch’a lor porse;
  • ma ei non stette là con essi guari,
  • che ciascun dentro a pruova si ricorse.
  • Chiuser le porte que’ nostri avversari
  • nel petto al mio segnor, che fuor rimase
  • e rivolsesi a me con passi rari.
  • Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
  • d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
  • «Chi m’ha negate le dolenti case!».
  • E a me disse: «Tu, perch’ io m’adiri,
  • non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
  • qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
  • Questa lor tracotanza non è nova;
  • ché già l’usaro a men segreta porta,
  • la qual sanza serrame ancor si trova.
  • Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
  • e già di qua da lei discende l’erta,
  • passando per li cerchi sanza scorta,
  • tal che per lui ne fia la terra aperta».
  • Inferno • Canto IX
  • Quel color che viltà di fuor mi pinse
  • veggendo il duca mio tornare in volta,
  • più tosto dentro il suo novo ristrinse.
  • Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;
  • ché l’occhio nol potea menare a lunga
  • per l’aere nero e per la nebbia folta.
  • «Pur a noi converrà vincer la punga»,
  • cominciò el, «se non . . . Tal ne s’offerse.
  • Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
  • I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse
  • lo cominciar con l’altro che poi venne,
  • che fur parole a le prime diverse;
  • ma nondimen paura il suo dir dienne,
  • perch’ io traeva la parola tronca
  • forse a peggior sentenzia che non tenne.
  • «In questo fondo de la trista conca
  • discende mai alcun del primo grado,
  • che sol per pena ha la speranza cionca?».
  • Questa question fec’ io; e quei «Di rado
  • incontra», mi rispuose, «che di noi
  • faccia il cammino alcun per qual io vado.
  • Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
  • congiurato da quella Eritón cruda
  • che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
  • Di poco era di me la carne nuda,
  • ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
  • per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
  • Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
  • e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
  • ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
  • Questa palude che ’l gran puzzo spira
  • cigne dintorno la città dolente,
  • u’ non potemo intrare omai sanz’ ira».
  • E altro disse, ma non l’ho a mente;
  • però che l’occhio m’avea tutto tratto
  • ver’ l’alta torre a la cima rovente,
  • dove in un punto furon dritte ratto
  • tre furïe infernal di sangue tinte,
  • che membra feminine avieno e atto,
  • e con idre verdissime eran cinte;
  • serpentelli e ceraste avien per crine,
  • onde le fiere tempie erano avvinte.
  • E quei, che ben conobbe le meschine
  • de la regina de l’etterno pianto,
  • «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
  • Quest’ è Megera dal sinistro canto;
  • quella che piange dal destro è Aletto;
  • Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
  • Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
  • battiensi a palme e gridavan sì alto,
  • ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
  • «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
  • dicevan tutte riguardando in giuso;
  • «mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».
  • «Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
  • ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
  • nulla sarebbe di tornar mai suso».
  • Così disse ’l maestro; ed elli stessi
  • mi volse, e non si tenne a le mie mani,
  • che con le sue ancor non mi chiudessi.
  • O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
  • mirate la dottrina che s’asconde
  • sotto ’l velame de li versi strani.
  • E già venìa su per le torbide onde
  • un fracasso d’un suon, pien di spavento,
  • per cui tremavano amendue le sponde,
  • non altrimenti fatto che d’un vento
  • impetüoso per li avversi ardori,
  • che fier la selva e sanz’ alcun rattento
  • li rami schianta, abbatte e porta fori;
  • dinanzi polveroso va superbo,
  • e fa fuggir le fiere e li pastori.
  • Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
  • del viso su per quella schiuma antica
  • per indi ove quel fummo è più acerbo».
  • Come le rane innanzi a la nimica
  • biscia per l’acqua si dileguan tutte,
  • fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
  • vid’ io più di mille anime distrutte
  • fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
  • passava Stige con le piante asciutte.
  • Dal volto rimovea quell’ aere grasso,
  • menando la sinistra innanzi spesso;
  • e sol di quell’ angoscia parea lasso.
  • Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
  • e volsimi al maestro; e quei fé segno
  • ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
  • Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
  • Venne a la porta e con una verghetta
  • l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
  • «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
  • cominciò elli in su l’orribil soglia,
  • «ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?
  • Perché recalcitrate a quella voglia
  • a cui non puote il fin mai esser mozzo,
  • e che più volte v’ha cresciuta doglia?
  • Che giova ne le fata dar di cozzo?
  • Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
  • ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
  • Poi si rivolse per la strada lorda,
  • e non fé motto a noi, ma fé sembiante
  • d’omo cui altra cura stringa e morda
  • che quella di colui che li è davante;
  • e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
  • sicuri appresso le parole sante.
  • Dentro li ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
  • e io, ch’avea di riguardar disio
  • la condizion che tal fortezza serra,
  • com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
  • e veggio ad ogne man grande campagna,
  • piena di duolo e di tormento rio.
  • Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
  • sì com’ a Pola, presso del Carnaro
  • ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
  • fanno i sepulcri tutt’ il loco varo,
  • così facevan quivi d’ogne parte,
  • salvo che ’l modo v’era più amaro;
  • ché tra li avelli fiamme erano sparte,
  • per le quali eran sì del tutto accesi,
  • che ferro più non chiede verun’ arte.
  • Tutti li lor coperchi eran sospesi,
  • e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
  • che ben parean di miseri e d’offesi.
  • E io: «Maestro, quai son quelle genti
  • che, seppellite dentro da quell’ arche,
  • si fan sentir coi sospiri dolenti?».
  • E quelli a me: «Qui son li eresïarche
  • con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
  • più che non credi son le tombe carche.
  • Simile qui con simile è sepolto,
  • e i monimenti son più e men caldi».
  • E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
  • passammo tra i martìri e li alti spaldi.
  • Inferno • Canto X
  • Ora sen va per un secreto calle,
  • tra ’l muro de la terra e li martìri,
  • lo mio maestro, e io dopo le spalle.
  • «O virtù somma, che per li empi giri
  • mi volvi», cominciai, «com’ a te piace,
  • parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
  • La gente che per li sepolcri giace
  • potrebbesi veder? già son levati
  • tutt’ i coperchi, e nessun guardia face».
  • E quelli a me: «Tutti saran serrati
  • quando di Iosafàt qui torneranno
  • coi corpi che là sù hanno lasciati.
  • Suo cimitero da questa parte hanno
  • con Epicuro tutti suoi seguaci,
  • che l’anima col corpo morta fanno.
  • Però a la dimanda che mi faci
  • quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
  • e al disio ancor che tu mi taci».
  • E io: «Buon duca, non tegno riposto
  • a te mio cuor se non per dicer poco,
  • e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».
  • «O Tosco che per la città del foco
  • vivo ten vai così parlando onesto,
  • piacciati di restare in questo loco.
  • La tua loquela ti fa manifesto
  • di quella nobil patrïa natio,
  • a la qual forse fui troppo molesto».
  • Subitamente questo suono uscìo
  • d’una de l’arche; però m’accostai,
  • temendo, un poco più al duca mio.
  • Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
  • Vedi là Farinata che s’è dritto:
  • da la cintola in sù tutto ’l vedrai».
  • Io avea già il mio viso nel suo fitto;
  • ed el s’ergea col petto e con la fronte
  • com’ avesse l’inferno a gran dispitto.
  • E l’animose man del duca e pronte
  • mi pinser tra le sepulture a lui,
  • dicendo: «Le parole tue sien conte».
  • Com’ io al piè de la sua tomba fui,
  • guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
  • mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
  • Io ch’era d’ubidir disideroso,
  • non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
  • ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;
  • poi disse: «Fieramente furo avversi
  • a me e a miei primi e a mia parte,
  • sì che per due fïate li dispersi».
  • «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
  • rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata;
  • ma i vostri non appreser ben quell’ arte».
  • Allor surse a la vista scoperchiata
  • un’ombra, lungo questa, infino al mento:
  • credo che s’era in ginocchie levata.
  • Dintorno mi guardò, come talento
  • avesse di veder s’altri era meco;
  • e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
  • piangendo disse: «Se per questo cieco
  • carcere vai per altezza d’ingegno,
  • mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».
  • E io a lui: «Da me stesso non vegno:
  • colui ch’attende là, per qui mi mena
  • forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
  • Le sue parole e ’l modo de la pena
  • m’avean di costui già letto il nome;
  • però fu la risposta così piena.
  • Di sùbito drizzato gridò: «Come?
  • dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?
  • non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
  • Quando s’accorse d’alcuna dimora
  • ch’io facëa dinanzi a la risposta,
  • supin ricadde e più non parve fora.
  • Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
  • restato m’era, non mutò aspetto,
  • né mosse collo, né piegò sua costa;
  • e sé continüando al primo detto,
  • «S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa,
  • ciò mi tormenta più che questo letto.
  • Ma non cinquanta volte fia raccesa
  • la faccia de la donna che qui regge,
  • che tu saprai quanto quell’ arte pesa.
  • E se tu mai nel dolce mondo regge,
  • dimmi: perché quel popolo è sì empio
  • incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?».
  • Ond’ io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
  • che fece l’Arbia colorata in rosso,
  • tal orazion fa far nel nostro tempio».
  • Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
  • «A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
  • sanza cagion con li altri sarei mosso.
  • Ma fu’ io solo, là dove sofferto
  • fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
  • colui che la difesi a viso aperto».
  • «Deh, se riposi mai vostra semenza»,
  • prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
  • che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
  • El par che voi veggiate, se ben odo,
  • dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
  • e nel presente tenete altro modo».
  • «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
  • le cose», disse, «che ne son lontano;
  • cotanto ancor ne splende il sommo duce.
  • Quando s’appressano o son, tutto è vano
  • nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
  • nulla sapem di vostro stato umano.
  • Però comprender puoi che tutta morta
  • fia nostra conoscenza da quel punto
  • che del futuro fia chiusa la porta».
  • Allor, come di mia colpa compunto,
  • dissi: «Or direte dunque a quel caduto
  • che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
  • e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
  • fate i saper che ’l fei perché pensava
  • già ne l’error che m’avete soluto».
  • E già ’l maestro mio mi richiamava;
  • per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
  • che mi dicesse chi con lu’ istava.
  • Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
  • qua dentro è ’l secondo Federico
  • e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».
  • Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
  • poeta volsi i passi, ripensando
  • a quel parlar che mi parea nemico.
  • Elli si mosse; e poi, così andando,
  • mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
  • E io li sodisfeci al suo dimando.
  • «La mente tua conservi quel ch’udito
  • hai contra te», mi comandò quel saggio;
  • «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito:
  • «quando sarai dinanzi al dolce raggio
  • di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
  • da lei saprai di tua vita il vïaggio».
  • Appresso mosse a man sinistra il piede:
  • lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
  • per un sentier ch’a una valle fiede,
  • che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
  • Inferno • Canto XI
  • In su l’estremità d’un’alta ripa
  • che facevan gran pietre rotte in cerchio,
  • venimmo sopra più crudele stipa;
  • e quivi, per l’orribile soperchio
  • del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
  • ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
  • d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
  • che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
  • lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
  • «Lo nostro scender conviene esser tardo,
  • sì che s’ausi un poco in prima il senso
  • al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
  • Così ’l maestro; e io «Alcun compenso»,
  • dissi lui, «trova che ’l tempo non passi
  • perduto». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso».
  • «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
  • cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
  • di grado in grado, come que’ che lassi.
  • Tutti son pien di spirti maladetti;
  • ma perché poi ti basti pur la vista,
  • intendi come e perché son costretti.
  • D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,
  • ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale
  • o con forza o con frode altrui contrista.
  • Ma perché frode è de l’uom proprio male,
  • più spiace a Dio; e però stan di sotto
  • li frodolenti, e più dolor li assale.
  • Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
  • ma perché si fa forza a tre persone,
  • in tre gironi è distinto e costrutto.
  • A Dio, a sé, al prossimo si pòne
  • far forza, dico in loro e in lor cose,
  • come udirai con aperta ragione.
  • Morte per forza e ferute dogliose
  • nel prossimo si danno, e nel suo avere
  • ruine, incendi e tollette dannose;
  • onde omicide e ciascun che mal fiere,
  • guastatori e predon, tutti tormenta
  • lo giron primo per diverse schiere.
  • Puote omo avere in sé man vïolenta
  • e ne’ suoi beni; e però nel secondo
  • giron convien che sanza pro si penta
  • qualunque priva sé del vostro mondo,
  • biscazza e fonde la sua facultade,
  • e piange là dov’ esser de’ giocondo.
  • Puossi far forza ne la deïtade,
  • col cor negando e bestemmiando quella,
  • e spregiando natura e sua bontade;
  • e però lo minor giron suggella
  • del segno suo e Soddoma e Caorsa
  • e chi, spregiando Dio col cor, favella.
  • La frode, ond’ ogne coscïenza è morsa,
  • può l’omo usare in colui che ’n lui fida
  • e in quel che fidanza non imborsa.
  • Questo modo di retro par ch’incida
  • pur lo vinco d’amor che fa natura;
  • onde nel cerchio secondo s’annida
  • ipocresia, lusinghe e chi affattura,
  • falsità, ladroneccio e simonia,
  • ruffian, baratti e simile lordura.
  • Per l’altro modo quell’ amor s’oblia
  • che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
  • di che la fede spezïal si cria;
  • onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto
  • de l’universo in su che Dite siede,
  • qualunque trade in etterno è consunto».
  • E io: «Maestro, assai chiara procede
  • la tua ragione, e assai ben distingue
  • questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.
  • Ma dimmi: quei de la palude pingue,
  • che mena il vento, e che batte la pioggia,
  • e che s’incontran con sì aspre lingue,
  • perché non dentro da la città roggia
  • sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
  • e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
  • Ed elli a me «Perché tanto delira»,
  • disse, «lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
  • o ver la mente dove altrove mira?
  • Non ti rimembra di quelle parole
  • con le quai la tua Etica pertratta
  • le tre disposizion che ’l ciel non vole,
  • incontenenza, malizia e la matta
  • bestialitade? e come incontenenza
  • men Dio offende e men biasimo accatta?
  • Se tu riguardi ben questa sentenza,
  • e rechiti a la mente chi son quelli
  • che sù di fuor sostegnon penitenza,
  • tu vedrai ben perché da questi felli
  • sien dipartiti, e perché men crucciata
  • la divina vendetta li martelli».
  • «O sol che sani ogne vista turbata,
  • tu mi contenti sì quando tu solvi,
  • che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.
  • Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
  • diss’ io, «là dove di’ ch’usura offende
  • la divina bontade, e ’l groppo solvi».
  • «Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
  • nota, non pure in una sola parte,
  • come natura lo suo corso prende
  • dal divino ’ntelletto e da sua arte;
  • e se tu ben la tua Fisica note,
  • tu troverai, non dopo molte carte,
  • che l’arte vostra quella, quanto pote,
  • segue, come ’l maestro fa ’l discente;
  • sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.
  • Da queste due, se tu ti rechi a mente
  • lo Genesì dal principio, convene
  • prender sua vita e avanzar la gente;
  • e perché l’usuriere altra via tene,
  • per sé natura e per la sua seguace
  • dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
  • Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
  • ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
  • e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
  • e ’l balzo via là oltra si dismonta».
  • Inferno • Canto XII
  • Era lo loco ov’ a scender la riva
  • venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
  • tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
  • Qual è quella ruina che nel fianco
  • di qua da Trento l’Adice percosse,
  • o per tremoto o per sostegno manco,
  • che da cima del monte, onde si mosse,
  • al piano è sì la roccia discoscesa,
  • ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
  • cotal di quel burrato era la scesa;
  • e ’n su la punta de la rotta lacca
  • l’infamïa di Creti era distesa
  • che fu concetta ne la falsa vacca;
  • e quando vide noi, sé stesso morse,
  • sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
  • Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
  • tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
  • che sù nel mondo la morte ti porse?
  • Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
  • ammaestrato da la tua sorella,
  • ma vassi per veder le vostre pene».
  • Qual è quel toro che si slaccia in quella
  • c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
  • che gir non sa, ma qua e là saltella,
  • vid’ io lo Minotauro far cotale;
  • e quello accorto gridò: «Corri al varco;
  • mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
  • Così prendemmo via giù per lo scarco
  • di quelle pietre, che spesso moviensi
  • sotto i miei piedi per lo novo carco.
  • Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
  • forse a questa ruina, ch’è guardata
  • da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.
  • Or vo’ che sappi che l’altra fïata
  • ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
  • questa roccia non era ancor cascata.
  • Ma certo poco pria, se ben discerno,
  • che venisse colui che la gran preda
  • levò a Dite del cerchio superno,
  • da tutte parti l’alta valle feda
  • tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
  • sentisse amor, per lo qual è chi creda
  • più volte il mondo in caòsso converso;
  • e in quel punto questa vecchia roccia,
  • qui e altrove, tal fece riverso.
  • Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
  • la riviera del sangue in la qual bolle
  • qual che per vïolenza in altrui noccia».
  • Oh cieca cupidigia e ira folle,
  • che sì ci sproni ne la vita corta,
  • e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
  • Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
  • come quella che tutto ’l piano abbraccia,
  • secondo ch’avea detto la mia scorta;
  • e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
  • corrien centauri, armati di saette,
  • come solien nel mondo andare a caccia.
  • Veggendoci calar, ciascun ristette,
  • e de la schiera tre si dipartiro
  • con archi e asticciuole prima elette;
  • e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
  • venite voi che scendete la costa?
  • Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
  • Lo mio maestro disse: «La risposta
  • farem noi a Chirón costà di presso:
  • mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
  • Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
  • che morì per la bella Deianira,
  • e fé di sé la vendetta elli stesso.
  • E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
  • è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
  • quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
  • Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
  • saettando qual anima si svelle
  • del sangue più che sua colpa sortille».
  • Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
  • Chirón prese uno strale, e con la cocca
  • fece la barba in dietro a le mascelle.
  • Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
  • disse a’ compagni: «Siete voi accorti
  • che quel di retro move ciò ch’el tocca?
  • Così non soglion far li piè d’i morti».
  • E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
  • dove le due nature son consorti,
  • rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
  • mostrar li mi convien la valle buia;
  • necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.
  • Tal si partì da cantare alleluia
  • che mi commise quest’ officio novo:
  • non è ladron, né io anima fuia.
  • Ma per quella virtù per cu’ io movo
  • li passi miei per sì selvaggia strada,
  • danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
  • e che ne mostri là dove si guada,
  • e che porti costui in su la groppa,
  • ché non è spirto che per l’aere vada».
  • Chirón si volse in su la destra poppa,
  • e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
  • e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».
  • Or ci movemmo con la scorta fida
  • lungo la proda del bollor vermiglio,
  • dove i bolliti facieno alte strida.
  • Io vidi gente sotto infino al ciglio;
  • e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
  • che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
  • Quivi si piangon li spietati danni;
  • quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
  • che fé Cicilia aver dolorosi anni.
  • E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
  • è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
  • è Opizzo da Esti, il qual per vero
  • fu spento dal figliastro sù nel mondo».
  • Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
  • «Questi ti sia or primo, e io secondo».
  • Poco più oltre il centauro s’affisse
  • sovr’ una gente che ’nfino a la gola
  • parea che di quel bulicame uscisse.
  • Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
  • dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
  • lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».
  • Poi vidi gente che di fuor del rio
  • tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
  • e di costoro assai riconobb’ io.
  • Così a più a più si facea basso
  • quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
  • e quindi fu del fosso il nostro passo.
  • «Sì come tu da questa parte vedi
  • lo bulicame che sempre si scema»,
  • disse ’l centauro, «voglio che tu credi
  • che da quest’ altra a più a più giù prema
  • lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
  • ove la tirannia convien che gema.
  • La divina giustizia di qua punge
  • quell’ Attila che fu flagello in terra,
  • e Pirro e Sesto; e in etterno munge
  • le lagrime, che col bollor diserra,
  • a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
  • che fecero a le strade tanta guerra».
  • Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.
  • Inferno • Canto XIII
  • Non era ancor di là Nesso arrivato,
  • quando noi ci mettemmo per un bosco
  • che da neun sentiero era segnato.
  • Non fronda verde, ma di color fosco;
  • non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
  • non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
  • Non han sì aspri sterpi né sì folti
  • quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
  • tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
  • Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
  • che cacciar de le Strofade i Troiani
  • con tristo annunzio di futuro danno.
  • Ali hanno late, e colli e visi umani,
  • piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
  • fanno lamenti in su li alberi strani.
  • E ’l buon maestro «Prima che più entre,
  • sappi che se’ nel secondo girone»,
  • mi cominciò a dire, «e sarai mentre
  • che tu verrai ne l’orribil sabbione.
  • Però riguarda ben; sì vederai
  • cose che torrien fede al mio sermone».
  • Io sentia d’ogne parte trarre guai
  • e non vedea persona che ’l facesse;
  • per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
  • Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse
  • che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
  • da gente che per noi si nascondesse.
  • Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
  • qualche fraschetta d’una d’este piante,
  • li pensier c’hai si faran tutti monchi».
  • Allor porsi la mano un poco avante
  • e colsi un ramicel da un gran pruno;
  • e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
  • Da che fatto fu poi di sangue bruno,
  • ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
  • non hai tu spirto di pietade alcuno?
  • Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
  • ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
  • se state fossimo anime di serpi».
  • Come d’un stizzo verde ch’arso sia
  • da l’un de’ capi, che da l’altro geme
  • e cigola per vento che va via,
  • sì de la scheggia rotta usciva insieme
  • parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
  • cadere, e stetti come l’uom che teme.
  • «S’elli avesse potuto creder prima»,
  • rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
  • ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
  • non averebbe in te la man distesa;
  • ma la cosa incredibile mi fece
  • indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
  • Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
  • d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
  • nel mondo sù, dove tornar li lece».
  • E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
  • ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
  • perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi.
  • Io son colui che tenni ambo le chiavi
  • del cor di Federigo, e che le volsi,
  • serrando e diserrando, sì soavi,
  • che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
  • fede portai al glorïoso offizio,
  • tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.
  • La meretrice che mai da l’ospizio
  • di Cesare non torse li occhi putti,
  • morte comune e de le corti vizio,
  • infiammò contra me li animi tutti;
  • e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
  • che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
  • L’animo mio, per disdegnoso gusto,
  • credendo col morir fuggir disdegno,
  • ingiusto fece me contra me giusto.
  • Per le nove radici d’esto legno
  • vi giuro che già mai non ruppi fede
  • al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
  • E se di voi alcun nel mondo riede,
  • conforti la memoria mia, che giace
  • ancor del colpo che ’nvidia le diede».
  • Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
  • disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
  • ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
  • Ond’ ïo a lui: «Domandal tu ancora
  • di quel che credi ch’a me satisfaccia;
  • ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».
  • Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
  • liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
  • spirito incarcerato, ancor ti piaccia
  • di dirne come l’anima si lega
  • in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
  • s’alcuna mai di tai membra si spiega».
  • Allor soffiò il tronco forte, e poi
  • si convertì quel vento in cotal voce:
  • «Brievemente sarà risposto a voi.
  • Quando si parte l’anima feroce
  • dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,
  • Minòs la manda a la settima foce.
  • Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
  • ma là dove fortuna la balestra,
  • quivi germoglia come gran di spelta.
  • Surge in vermena e in pianta silvestra:
  • l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
  • fanno dolore, e al dolor fenestra.
  • Come l’altre verrem per nostre spoglie,
  • ma non però ch’alcuna sen rivesta,
  • ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
  • Qui le strascineremo, e per la mesta
  • selva saranno i nostri corpi appesi,
  • ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».
  • Noi eravamo ancora al tronco attesi,
  • credendo ch’altro ne volesse dire,
  • quando noi fummo d’un romor sorpresi,
  • similemente a colui che venire
  • sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
  • ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
  • Ed ecco due da la sinistra costa,
  • nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
  • che de la selva rompieno ogne rosta.
  • Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
  • E l’altro, cui pareva tardar troppo,
  • gridava: «Lano, sì non furo accorte
  • le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
  • E poi che forse li fallia la lena,
  • di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
  • Di rietro a loro era la selva piena
  • di nere cagne, bramose e correnti
  • come veltri ch’uscisser di catena.
  • In quel che s’appiattò miser li denti,
  • e quel dilaceraro a brano a brano;
  • poi sen portar quelle membra dolenti.
  • Presemi allor la mia scorta per mano,
  • e menommi al cespuglio che piangea
  • per le rotture sanguinenti in vano.
  • «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
  • che t’è giovato di me fare schermo?
  • che colpa ho io de la tua vita rea?».
  • Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,
  • disse: «Chi fosti, che per tante punte
  • soffi con sangue doloroso sermo?».
  • Ed elli a noi: «O anime che giunte
  • siete a veder lo strazio disonesto
  • c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
  • raccoglietele al piè del tristo cesto.
  • I’ fui de la città che nel Batista
  • mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo
  • sempre con l’arte sua la farà trista;
  • e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
  • rimane ancor di lui alcuna vista,
  • que’ cittadin che poi la rifondarno
  • sovra ’l cener che d’Attila rimase,
  • avrebber fatto lavorare indarno.
  • Io fei gibetto a me de le mie case».
  • Inferno • Canto XIV
  • Poi che la carità del natio loco
  • mi strinse, raunai le fronde sparte
  • e rende’le a colui, ch’era già fioco.
  • Indi venimmo al fine ove si parte
  • lo secondo giron dal terzo, e dove
  • si vede di giustizia orribil arte.
  • A ben manifestar le cose nove,
  • dico che arrivammo ad una landa
  • che dal suo letto ogne pianta rimove.
  • La dolorosa selva l’è ghirlanda
  • intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
  • quivi fermammo i passi a randa a randa.
  • Lo spazzo era una rena arida e spessa,
  • non d’altra foggia fatta che colei
  • che fu da’ piè di Caton già soppressa.
  • O vendetta di Dio, quanto tu dei
  • esser temuta da ciascun che legge
  • ciò che fu manifesto a li occhi mei!
  • D’anime nude vidi molte gregge
  • che piangean tutte assai miseramente,
  • e parea posta lor diversa legge.
  • Supin giacea in terra alcuna gente,
  • alcuna si sedea tutta raccolta,
  • e altra andava continüamente.
  • Quella che giva ’ntorno era più molta,
  • e quella men che giacëa al tormento,
  • ma più al duolo avea la lingua sciolta.
  • Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
  • piovean di foco dilatate falde,
  • come di neve in alpe sanza vento.
  • Quali Alessandro in quelle parti calde
  • d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
  • fiamme cadere infino a terra salde,
  • per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
  • con le sue schiere, acciò che lo vapore
  • mei si stingueva mentre ch’era solo:
  • tale scendeva l’etternale ardore;
  • onde la rena s’accendea, com’ esca
  • sotto focile, a doppiar lo dolore.
  • Sanza riposo mai era la tresca
  • de le misere mani, or quindi or quinci
  • escotendo da sé l’arsura fresca.
  • I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
  • tutte le cose, fuor che ’ demon duri
  • ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,
  • chi è quel grande che non par che curi
  • lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
  • sì che la pioggia non par che ’l marturi?».
  • E quel medesmo, che si fu accorto
  • ch’io domandava il mio duca di lui,
  • gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
  • Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
  • crucciato prese la folgore aguta
  • onde l’ultimo dì percosso fui;
  • o s’elli stanchi li altri a muta a muta
  • in Mongibello a la focina negra,
  • chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
  • sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
  • e me saetti con tutta sua forza:
  • non ne potrebbe aver vendetta allegra».
  • Allora il duca mio parlò di forza
  • tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
  • «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
  • la tua superbia, se’ tu più punito;
  • nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
  • sarebbe al tuo furor dolor compito».
  • Poi si rivolse a me con miglior labbia,
  • dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
  • ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
  • Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
  • ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
  • sono al suo petto assai debiti fregi.
  • Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
  • ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
  • ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
  • Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
  • fuor de la selva un picciol fiumicello,
  • lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
  • Quale del Bulicame esce ruscello
  • che parton poi tra lor le peccatrici,
  • tal per la rena giù sen giva quello.
  • Lo fondo suo e ambo le pendici
  • fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;
  • per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.
  • «Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
  • poscia che noi intrammo per la porta
  • lo cui sogliare a nessuno è negato,
  • cosa non fu da li tuoi occhi scorta
  • notabile com’ è ’l presente rio,
  • che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
  • Queste parole fuor del duca mio;
  • per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
  • di cui largito m’avëa il disio.
  • «In mezzo mar siede un paese guasto»,
  • diss’ elli allora, «che s’appella Creta,
  • sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
  • Una montagna v’è che già fu lieta
  • d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
  • or è diserta come cosa vieta.
  • Rëa la scelse già per cuna fida
  • del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
  • quando piangea, vi facea far le grida.
  • Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
  • che tien volte le spalle inver’ Dammiata
  • e Roma guarda come süo speglio.
  • La sua testa è di fin oro formata,
  • e puro argento son le braccia e ’l petto,
  • poi è di rame infino a la forcata;
  • da indi in giuso è tutto ferro eletto,
  • salvo che ’l destro piede è terra cotta;
  • e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.
  • Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
  • d’una fessura che lagrime goccia,
  • le quali, accolte, fóran quella grotta.
  • Lor corso in questa valle si diroccia;
  • fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
  • poi sen van giù per questa stretta doccia,
  • infin, là ove più non si dismonta,
  • fanno Cocito; e qual sia quello stagno
  • tu lo vedrai, però qui non si conta».
  • E io a lui: «Se ’l presente rigagno
  • si diriva così dal nostro mondo,
  • perché ci appar pur a questo vivagno?».
  • Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
  • e tutto che tu sie venuto molto,
  • pur a sinistra, giù calando al fondo,
  • non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
  • per che, se cosa n’apparisce nova,
  • non de’ addur maraviglia al tuo volto».
  • E io ancor: «Maestro, ove si trova
  • Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
  • e l’altro di’ che si fa d’esta piova».
  • «In tutte tue question certo mi piaci»,
  • rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
  • dovea ben solver l’una che tu faci.
  • Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
  • là dove vanno l’anime a lavarsi
  • quando la colpa pentuta è rimossa».
  • Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
  • dal bosco; fa che di retro a me vegne:
  • li margini fan via, che non son arsi,
  • e sopra loro ogne vapor si spegne».
  • Inferno • Canto XV
  • Ora cen porta l’un de’ duri margini;
  • e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
  • sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
  • Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
  • temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
  • fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
  • e quali Padoan lungo la Brenta,
  • per difender lor ville e lor castelli,
  • anzi che Carentana il caldo senta:
  • a tale imagine eran fatti quelli,
  • tutto che né sì alti né sì grossi,
  • qual che si fosse, lo maestro félli.
  • Già eravam da la selva rimossi
  • tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
  • perch’ io in dietro rivolto mi fossi,
  • quando incontrammo d’anime una schiera
  • che venian lungo l’argine, e ciascuna
  • ci riguardava come suol da sera
  • guardare uno altro sotto nuova luna;
  • e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
  • come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
  • Così adocchiato da cotal famiglia,
  • fui conosciuto da un, che mi prese
  • per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
  • E io, quando ’l suo braccio a me distese,
  • ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
  • sì che ’l viso abbrusciato non difese
  • la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
  • e chinando la mano a la sua faccia,
  • rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
  • E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
  • se Brunetto Latino un poco teco
  • ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».
  • I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
  • e se volete che con voi m’asseggia,
  • faròl, se piace a costui che vo seco».
  • «O figliuol», disse, «qual di questa greggia
  • s’arresta punto, giace poi cent’ anni
  • sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.
  • Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
  • e poi rigiugnerò la mia masnada,
  • che va piangendo i suoi etterni danni».
  • Io non osava scender de la strada
  • per andar par di lui; ma ’l capo chino
  • tenea com’ uom che reverente vada.
  • El cominciò: «Qual fortuna o destino
  • anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
  • e chi è questi che mostra ’l cammino?».
  • «Là sù di sopra, in la vita serena»,
  • rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle,
  • avanti che l’età mia fosse piena.
  • Pur ier mattina le volsi le spalle:
  • questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
  • e reducemi a ca per questo calle».
  • Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
  • non puoi fallire a glorïoso porto,
  • se ben m’accorsi ne la vita bella;
  • e s’io non fossi sì per tempo morto,
  • veggendo il cielo a te così benigno,
  • dato t’avrei a l’opera conforto.
  • Ma quello ingrato popolo maligno
  • che discese di Fiesole ab antico,
  • e tiene ancor del monte e del macigno,
  • ti si farà, per tuo ben far, nimico;
  • ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
  • si disconvien fruttare al dolce fico.
  • Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
  • gent’ è avara, invidiosa e superba:
  • dai lor costumi fa che tu ti forbi.
  • La tua fortuna tanto onor ti serba,
  • che l’una parte e l’altra avranno fame
  • di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
  • Faccian le bestie fiesolane strame
  • di lor medesme, e non tocchin la pianta,
  • s’alcuna surge ancora in lor letame,
  • in cui riviva la sementa santa
  • di que’ Roman che vi rimaser quando
  • fu fatto il nido di malizia tanta».
  • «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
  • rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora
  • de l’umana natura posto in bando;
  • ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
  • la cara e buona imagine paterna
  • di voi quando nel mondo ad ora ad ora
  • m’insegnavate come l’uom s’etterna:
  • e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
  • convien che ne la mia lingua si scerna.
  • Ciò che narrate di mio corso scrivo,
  • e serbolo a chiosar con altro testo
  • a donna che saprà, s’a lei arrivo.
  • Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
  • pur che mia coscïenza non mi garra,
  • ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
  • Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
  • però giri Fortuna la sua rota
  • come le piace, e ’l villan la sua marra».
  • Lo mio maestro allora in su la gota
  • destra si volse in dietro e riguardommi;
  • poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
  • Né per tanto di men parlando vommi
  • con ser Brunetto, e dimando chi sono
  • li suoi compagni più noti e più sommi.
  • Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
  • de li altri fia laudabile tacerci,
  • ché ’l tempo saria corto a tanto suono.
  • In somma sappi che tutti fur cherci
  • e litterati grandi e di gran fama,
  • d’un peccato medesmo al mondo lerci.
  • Priscian sen va con quella turba grama,
  • e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
  • s’avessi avuto di tal tigna brama,
  • colui potei che dal servo de’ servi
  • fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
  • dove lasciò li mal protesi nervi.
  • Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
  • più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
  • là surger nuovo fummo del sabbione.
  • Gente vien con la quale esser non deggio.
  • Sieti raccomandato il mio Tesoro,
  • nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
  • Poi si rivolse, e parve di coloro
  • che corrono a Verona il drappo verde
  • per la campagna; e parve di costoro
  • quelli che vince, non colui che perde.
  • Inferno • Canto XVI
  • Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
  • de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
  • simile a quel che l’arnie fanno rombo,
  • quando tre ombre insieme si partiro,
  • correndo, d’una torma che passava
  • sotto la pioggia de l’aspro martiro.
  • Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
  • «Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
  • esser alcun di nostra terra prava».
  • Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
  • ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
  • Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.
  • A le lor grida il mio dottor s’attese;
  • volse ’l viso ver’ me, e «Or aspetta»,
  • disse, «a costor si vuole esser cortese.
  • E se non fosse il foco che saetta
  • la natura del loco, i’ dicerei
  • che meglio stesse a te che a lor la fretta».
  • Ricominciar, come noi restammo, ei
  • l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
  • fenno una rota di sé tutti e trei.
  • Qual sogliono i campion far nudi e unti,
  • avvisando lor presa e lor vantaggio,
  • prima che sien tra lor battuti e punti,
  • così rotando, ciascuno il visaggio
  • drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
  • faceva ai piè continüo vïaggio.
  • E «Se miseria d’esto loco sollo
  • rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
  • cominciò l’uno, «e ’l tinto aspetto e brollo,
  • la fama nostra il tuo animo pieghi
  • a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
  • così sicuro per lo ’nferno freghi.
  • Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
  • tutto che nudo e dipelato vada,
  • fu di grado maggior che tu non credi:
  • nepote fu de la buona Gualdrada;
  • Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
  • fece col senno assai e con la spada.
  • L’altro, ch’appresso me la rena trita,
  • è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
  • nel mondo sù dovria esser gradita.
  • E io, che posto son con loro in croce,
  • Iacopo Rusticucci fui, e certo
  • la fiera moglie più ch’altro mi nuoce».
  • S’i’ fossi stato dal foco coperto,
  • gittato mi sarei tra lor di sotto,
  • e credo che ’l dottor l’avria sofferto;
  • ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
  • vinse paura la mia buona voglia
  • che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
  • Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia
  • la vostra condizion dentro mi fisse,
  • tanta che tardi tutta si dispoglia,
  • tosto che questo mio segnor mi disse
  • parole per le quali i’ mi pensai
  • che qual voi siete, tal gente venisse.
  • Di vostra terra sono, e sempre mai
  • l’ovra di voi e li onorati nomi
  • con affezion ritrassi e ascoltai.
  • Lascio lo fele e vo per dolci pomi
  • promessi a me per lo verace duca;
  • ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».
  • «Se lungamente l’anima conduca
  • le membra tue», rispuose quelli ancora,
  • «e se la fama tua dopo te luca,
  • cortesia e valor dì se dimora
  • ne la nostra città sì come suole,
  • o se del tutto se n’è gita fora;
  • ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
  • con noi per poco e va là coi compagni,
  • assai ne cruccia con le sue parole».
  • «La gente nuova e i sùbiti guadagni
  • orgoglio e dismisura han generata,
  • Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
  • Così gridai con la faccia levata;
  • e i tre, che ciò inteser per risposta,
  • guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.
  • «Se l’altre volte sì poco ti costa»,
  • rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
  • felice te se sì parli a tua posta!
  • Però, se campi d’esti luoghi bui
  • e torni a riveder le belle stelle,
  • quando ti gioverà dicere “I’ fui”,
  • fa che di noi a la gente favelle».
  • Indi rupper la rota, e a fuggirsi
  • ali sembiar le gambe loro isnelle.
  • Un amen non saria possuto dirsi
  • tosto così com’ e’ fuoro spariti;
  • per ch’al maestro parve di partirsi.
  • Io lo seguiva, e poco eravam iti,
  • che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
  • che per parlar saremmo a pena uditi.
  • Come quel fiume c’ha proprio cammino
  • prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
  • da la sinistra costa d’Apennino,
  • che si chiama Acquacheta suso, avante
  • che si divalli giù nel basso letto,
  • e a Forlì di quel nome è vacante,
  • rimbomba là sovra San Benedetto
  • de l’Alpe per cadere ad una scesa
  • ove dovea per mille esser recetto;
  • così, giù d’una ripa discoscesa,
  • trovammo risonar quell’ acqua tinta,
  • sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.
  • Io avea una corda intorno cinta,
  • e con essa pensai alcuna volta
  • prender la lonza a la pelle dipinta.
  • Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
  • sì come ’l duca m’avea comandato,
  • porsila a lui aggroppata e ravvolta.
  • Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
  • e alquanto di lunge da la sponda
  • la gittò giuso in quell’ alto burrato.
  • ‘E’ pur convien che novità risponda’,
  • dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
  • che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.
  • Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
  • presso a color che non veggion pur l’ovra,
  • ma per entro i pensier miran col senno!
  • El disse a me: «Tosto verrà di sovra
  • ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
  • tosto convien ch’al tuo viso si scovra».
  • Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
  • de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
  • però che sanza colpa fa vergogna;
  • ma qui tacer nol posso; e per le note
  • di questa comedìa, lettor, ti giuro,
  • s’elle non sien di lunga grazia vòte,
  • ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
  • venir notando una figura in suso,
  • maravigliosa ad ogne cor sicuro,
  • sì come torna colui che va giuso
  • talora a solver l’àncora ch’aggrappa
  • o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
  • che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
  • Inferno • Canto XVII
  • «Ecco la fiera con la coda aguzza,
  • che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
  • Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».
  • Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
  • e accennolle che venisse a proda,
  • vicino al fin d’i passeggiati marmi.
  • E quella sozza imagine di froda
  • sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
  • ma ’n su la riva non trasse la coda.
  • La faccia sua era faccia d’uom giusto,
  • tanto benigna avea di fuor la pelle,
  • e d’un serpente tutto l’altro fusto;
  • due branche avea pilose insin l’ascelle;
  • lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
  • dipinti avea di nodi e di rotelle.
  • Con più color, sommesse e sovraposte
  • non fer mai drappi Tartari né Turchi,
  • né fuor tai tele per Aragne imposte.
  • Come talvolta stanno a riva i burchi,
  • che parte sono in acqua e parte in terra,
  • e come là tra li Tedeschi lurchi
  • lo bivero s’assetta a far sua guerra,
  • così la fiera pessima si stava
  • su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.
  • Nel vano tutta sua coda guizzava,
  • torcendo in sù la venenosa forca
  • ch’a guisa di scorpion la punta armava.
  • Lo duca disse: «Or convien che si torca
  • la nostra via un poco insino a quella
  • bestia malvagia che colà si corca».
  • Però scendemmo a la destra mammella,
  • e diece passi femmo in su lo stremo,
  • per ben cessar la rena e la fiammella.
  • E quando noi a lei venuti semo,
  • poco più oltre veggio in su la rena
  • gente seder propinqua al loco scemo.
  • Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
  • esperïenza d’esto giron porti»,
  • mi disse, «va, e vedi la lor mena.
  • Li tuoi ragionamenti sian là corti;
  • mentre che torni, parlerò con questa,
  • che ne conceda i suoi omeri forti».
  • Così ancor su per la strema testa
  • di quel settimo cerchio tutto solo
  • andai, dove sedea la gente mesta.
  • Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
  • di qua, di là soccorrien con le mani
  • quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
  • non altrimenti fan di state i cani
  • or col ceffo or col piè, quando son morsi
  • o da pulci o da mosche o da tafani.
  • Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
  • ne’ quali ’l doloroso foco casca,
  • non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
  • che dal collo a ciascun pendea una tasca
  • ch’avea certo colore e certo segno,
  • e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
  • E com’ io riguardando tra lor vegno,
  • in una borsa gialla vidi azzurro
  • che d’un leone avea faccia e contegno.
  • Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
  • vidine un’altra come sangue rossa,
  • mostrando un’oca bianca più che burro.
  • E un che d’una scrofa azzurra e grossa
  • segnato avea lo suo sacchetto bianco,
  • mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
  • Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
  • sappi che ’l mio vicin Vitalïano
  • sederà qui dal mio sinistro fianco.
  • Con questi Fiorentin son padoano:
  • spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
  • gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,
  • che recherà la tasca con tre becchi!”».
  • Qui distorse la bocca e di fuor trasse
  • la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
  • E io, temendo no ’l più star crucciasse
  • lui che di poco star m’avea ’mmonito,
  • torna’mi in dietro da l’anime lasse.
  • Trova’ il duca mio ch’era salito
  • già su la groppa del fiero animale,
  • e disse a me: «Or sie forte e ardito.
  • Omai si scende per sì fatte scale;
  • monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
  • sì che la coda non possa far male».
  • Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
  • de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
  • e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
  • tal divenn’ io a le parole porte;
  • ma vergogna mi fé le sue minacce,
  • che innanzi a buon segnor fa servo forte.
  • I’ m’assettai in su quelle spallacce;
  • sì volli dir, ma la voce non venne
  • com’ io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.
  • Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
  • ad altro forse, tosto ch’i’ montai
  • con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
  • e disse: «Gerïon, moviti omai:
  • le rote larghe, e lo scender sia poco;
  • pensa la nova soma che tu hai».
  • Come la navicella esce di loco
  • in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
  • e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
  • là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
  • e quella tesa, come anguilla, mosse,
  • e con le branche l’aere a sé raccolse.
  • Maggior paura non credo che fosse
  • quando Fetonte abbandonò li freni,
  • per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
  • né quando Icaro misero le reni
  • sentì spennar per la scaldata cera,
  • gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
  • che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
  • ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
  • ogne veduta fuor che de la fera.
  • Ella sen va notando lenta lenta;
  • rota e discende, ma non me n’accorgo
  • se non che al viso e di sotto mi venta.
  • Io sentia già da la man destra il gorgo
  • far sotto noi un orribile scroscio,
  • per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.
  • Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
  • però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
  • ond’ io tremando tutto mi raccoscio.
  • E vidi poi, ché nol vedea davanti,
  • lo scendere e ’l girar per li gran mali
  • che s’appressavan da diversi canti.
  • Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
  • che sanza veder logoro o uccello
  • fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
  • discende lasso onde si move isnello,
  • per cento rote, e da lunge si pone
  • dal suo maestro, disdegnoso e fello;
  • così ne puose al fondo Gerïone
  • al piè al piè de la stagliata rocca,
  • e, discarcate le nostre persone,
  • si dileguò come da corda cocca.
  • Inferno • Canto XVIII
  • Luogo è in inferno detto Malebolge,
  • tutto di pietra di color ferrigno,
  • come la cerchia che dintorno il volge.
  • Nel dritto mezzo del campo maligno
  • vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
  • di cui suo loco dicerò l’ordigno.
  • Quel cinghio che rimane adunque è tondo
  • tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
  • e ha distinto in dieci valli il fondo.
  • Quale, dove per guardia de le mura
  • più e più fossi cingon li castelli,
  • la parte dove son rende figura,
  • tale imagine quivi facean quelli;
  • e come a tai fortezze da’ lor sogli
  • a la ripa di fuor son ponticelli,
  • così da imo de la roccia scogli
  • movien che ricidien li argini e ’ fossi
  • infino al pozzo che i tronca e raccogli.
  • In questo luogo, de la schiena scossi
  • di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
  • tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
  • A la man destra vidi nova pieta,
  • novo tormento e novi frustatori,
  • di che la prima bolgia era repleta.
  • Nel fondo erano ignudi i peccatori;
  • dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
  • di là con noi, ma con passi maggiori,
  • come i Roman per l’essercito molto,
  • l’anno del giubileo, su per lo ponte
  • hanno a passar la gente modo colto,
  • che da l’un lato tutti hanno la fronte
  • verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
  • da l’altra sponda vanno verso ’l monte.
  • Di qua, di là, su per lo sasso tetro
  • vidi demon cornuti con gran ferze,
  • che li battien crudelmente di retro.
  • Ahi come facean lor levar le berze
  • a le prime percosse! già nessuno
  • le seconde aspettava né le terze.
  • Mentr’ io andava, li occhi miei in uno
  • furo scontrati; e io sì tosto dissi:
  • «Già di veder costui non son digiuno».
  • Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
  • e ’l dolce duca meco si ristette,
  • e assentio ch’alquanto in dietro gissi.
  • E quel frustato celar si credette
  • bassando ’l viso; ma poco li valse,
  • ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,
  • se le fazion che porti non son false,
  • Venedico se’ tu Caccianemico.
  • Ma che ti mena a sì pungenti salse?».
  • Ed elli a me: «Mal volontier lo dico;
  • ma sforzami la tua chiara favella,
  • che mi fa sovvenir del mondo antico.
  • I’ fui colui che la Ghisolabella
  • condussi a far la voglia del marchese,
  • come che suoni la sconcia novella.
  • E non pur io qui piango bolognese;
  • anzi n’è questo loco tanto pieno,
  • che tante lingue non son ora apprese
  • a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
  • e se di ciò vuoi fede o testimonio,
  • rècati a mente il nostro avaro seno».
  • Così parlando il percosse un demonio
  • de la sua scurïada, e disse: «Via,
  • ruffian! qui non son femmine da conio».
  • I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
  • poscia con pochi passi divenimmo
  • là ’v’ uno scoglio de la ripa uscia.
  • Assai leggeramente quel salimmo;
  • e vòlti a destra su per la sua scheggia,
  • da quelle cerchie etterne ci partimmo.
  • Quando noi fummo là dov’ el vaneggia
  • di sotto per dar passo a li sferzati,
  • lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia
  • lo viso in te di quest’ altri mal nati,
  • ai quali ancor non vedesti la faccia
  • però che son con noi insieme andati».
  • Del vecchio ponte guardavam la traccia
  • che venìa verso noi da l’altra banda,
  • e che la ferza similmente scaccia.
  • E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
  • mi disse: «Guarda quel grande che vene,
  • e per dolor non par lagrime spanda:
  • quanto aspetto reale ancor ritene!
  • Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
  • li Colchi del monton privati féne.
  • Ello passò per l’isola di Lenno
  • poi che l’ardite femmine spietate
  • tutti li maschi loro a morte dienno.
  • Ivi con segni e con parole ornate
  • Isifile ingannò, la giovinetta
  • che prima avea tutte l’altre ingannate.
  • Lasciolla quivi, gravida, soletta;
  • tal colpa a tal martiro lui condanna;
  • e anche di Medea si fa vendetta.
  • Con lui sen va chi da tal parte inganna;
  • e questo basti de la prima valle
  • sapere e di color che ’n sé assanna».
  • Già eravam là ’ve lo stretto calle
  • con l’argine secondo s’incrocicchia,
  • e fa di quello ad un altr’ arco spalle.
  • Quindi sentimmo gente che si nicchia
  • ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
  • e sé medesma con le palme picchia.
  • Le ripe eran grommate d’una muffa,
  • per l’alito di giù che vi s’appasta,
  • che con li occhi e col naso facea zuffa.
  • Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
  • loco a veder sanza montare al dosso
  • de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.
  • Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
  • vidi gente attuffata in uno sterco
  • che da li uman privadi parea mosso.
  • E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
  • vidi un col capo sì di merda lordo,
  • che non parëa s’era laico o cherco.
  • Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
  • di riguardar più me che li altri brutti?».
  • E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
  • già t’ho veduto coi capelli asciutti,
  • e se’ Alessio Interminei da Lucca:
  • però t’adocchio più che li altri tutti».
  • Ed elli allor, battendosi la zucca:
  • «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
  • ond’ io non ebbi mai la lingua stucca».
  • Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
  • mi disse, «il viso un poco più avante,
  • sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
  • di quella sozza e scapigliata fante
  • che là si graffia con l’unghie merdose,
  • e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
  • Taïde è, la puttana che rispuose
  • al drudo suo quando disse “Ho io grazie
  • grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.
  • E quinci sian le nostre viste sazie».
  • Inferno • Canto XIX
  • O Simon mago, o miseri seguaci
  • che le cose di Dio, che di bontate
  • deon essere spose, e voi rapaci
  • per oro e per argento avolterate,
  • or convien che per voi suoni la tromba,
  • però che ne la terza bolgia state.
  • Già eravamo, a la seguente tomba,
  • montati de lo scoglio in quella parte
  • ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
  • O somma sapïenza, quanta è l’arte
  • che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
  • e quanto giusto tua virtù comparte!
  • Io vidi per le coste e per lo fondo
  • piena la pietra livida di fóri,
  • d’un largo tutti e ciascun era tondo.
  • Non mi parean men ampi né maggiori
  • che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
  • fatti per loco d’i battezzatori;
  • l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
  • rupp’ io per un che dentro v’annegava:
  • e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.
  • Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
  • d’un peccator li piedi e de le gambe
  • infino al grosso, e l’altro dentro stava.
  • Le piante erano a tutti accese intrambe;
  • per che sì forte guizzavan le giunte,
  • che spezzate averien ritorte e strambe.
  • Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
  • muoversi pur su per la strema buccia,
  • tal era lì dai calcagni a le punte.
  • «Chi è colui, maestro, che si cruccia
  • guizzando più che li altri suoi consorti»,
  • diss’ io, «e cui più roggia fiamma succia?».
  • Ed elli a me: «Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
  • là giù per quella ripa che più giace,
  • da lui saprai di sé e de’ suoi torti».
  • E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
  • tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
  • dal tuo volere, e sai quel che si tace».
  • Allor venimmo in su l’argine quarto;
  • volgemmo e discendemmo a mano stanca
  • là giù nel fondo foracchiato e arto.
  • Lo buon maestro ancor de la sua anca
  • non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
  • di quel che si piangeva con la zanca.
  • «O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
  • anima trista come pal commessa»,
  • comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».
  • Io stava come ’l frate che confessa
  • lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
  • richiama lui per che la morte cessa.
  • Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
  • se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
  • Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
  • Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
  • per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
  • la bella donna, e poi di farne strazio?».
  • Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
  • per non intender ciò ch’è lor risposto,
  • quasi scornati, e risponder non sanno.
  • Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
  • “Non son colui, non son colui che credi”»;
  • e io rispuosi come a me fu imposto.
  • Per che lo spirto tutti storse i piedi;
  • poi, sospirando e con voce di pianto,
  • mi disse: «Dunque che a me richiedi?
  • Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
  • che tu abbi però la ripa corsa,
  • sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
  • e veramente fui figliuol de l’orsa,
  • cupido sì per avanzar li orsatti,
  • che sù l’avere e qui me misi in borsa.
  • Di sotto al capo mio son li altri tratti
  • che precedetter me simoneggiando,
  • per le fessure de la pietra piatti.
  • Là giù cascherò io altresì quando
  • verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
  • allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
  • Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
  • e ch’i’ son stato così sottosopra,
  • ch’el non starà piantato coi piè rossi:
  • ché dopo lui verrà di più laida opra,
  • di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
  • tal che convien che lui e me ricuopra.
  • Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
  • ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
  • suo re, così fia lui chi Francia regge».
  • Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
  • ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
  • «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
  • Nostro Segnore in prima da san Pietro
  • ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
  • Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
  • Né Pier né li altri tolsero a Matia
  • oro od argento, quando fu sortito
  • al loco che perdé l’anima ria.
  • Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
  • e guarda ben la mal tolta moneta
  • ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
  • E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
  • la reverenza de le somme chiavi
  • che tu tenesti ne la vita lieta,
  • io userei parole ancor più gravi;
  • ché la vostra avarizia il mondo attrista,
  • calcando i buoni e sollevando i pravi.
  • Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
  • quando colei che siede sopra l’acque
  • puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
  • quella che con le sette teste nacque,
  • e da le diece corna ebbe argomento,
  • fin che virtute al suo marito piacque.
  • Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
  • e che altro è da voi a l’idolatre,
  • se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
  • Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
  • non la tua conversion, ma quella dote
  • che da te prese il primo ricco patre!».
  • E mentr’ io li cantava cotai note,
  • o ira o coscïenza che ’l mordesse,
  • forte spingava con ambo le piote.
  • I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
  • con sì contenta labbia sempre attese
  • lo suon de le parole vere espresse.
  • Però con ambo le braccia mi prese;
  • e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
  • rimontò per la via onde discese.
  • Né si stancò d’avermi a sé distretto,
  • sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
  • che dal quarto al quinto argine è tragetto.
  • Quivi soavemente spuose il carco,
  • soave per lo scoglio sconcio ed erto
  • che sarebbe a le capre duro varco.
  • Indi un altro vallon mi fu scoperto.
  • Inferno • Canto XX
  • Di nova pena mi conven far versi
  • e dar matera al ventesimo canto
  • de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.
  • Io era già disposto tutto quanto
  • a riguardar ne lo scoperto fondo,
  • che si bagnava d’angoscioso pianto;
  • e vidi gente per lo vallon tondo
  • venir, tacendo e lagrimando, al passo
  • che fanno le letane in questo mondo.
  • Come ’l viso mi scese in lor più basso,
  • mirabilmente apparve esser travolto
  • ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
  • ché da le reni era tornato ’l volto,
  • e in dietro venir li convenia,
  • perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
  • Forse per forza già di parlasia
  • si travolse così alcun del tutto;
  • ma io nol vidi, né credo che sia.
  • Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
  • di tua lezione, or pensa per te stesso
  • com’ io potea tener lo viso asciutto,
  • quando la nostra imagine di presso
  • vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
  • le natiche bagnava per lo fesso.
  • Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
  • del duro scoglio, sì che la mia scorta
  • mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
  • Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
  • chi è più scellerato che colui
  • che al giudicio divin passion comporta?
  • Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
  • s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
  • per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,
  • Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
  • E non restò di ruinare a valle
  • fino a Minòs che ciascheduno afferra.
  • Mira c’ha fatto petto de le spalle;
  • perché volle veder troppo davante,
  • di retro guarda e fa retroso calle.
  • Vedi Tiresia, che mutò sembiante
  • quando di maschio femmina divenne,
  • cangiandosi le membra tutte quante;
  • e prima, poi, ribatter li convenne
  • li duo serpenti avvolti, con la verga,
  • che rïavesse le maschili penne.
  • Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
  • che ne’ monti di Luni, dove ronca
  • lo Carrarese che di sotto alberga,
  • ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
  • per sua dimora; onde a guardar le stelle
  • e ’l mar non li era la veduta tronca.
  • E quella che ricuopre le mammelle,
  • che tu non vedi, con le trecce sciolte,
  • e ha di là ogne pilosa pelle,
  • Manto fu, che cercò per terre molte;
  • poscia si puose là dove nacqu’ io;
  • onde un poco mi piace che m’ascolte.
  • Poscia che ’l padre suo di vita uscìo
  • e venne serva la città di Baco,
  • questa gran tempo per lo mondo gio.
  • Suso in Italia bella giace un laco,
  • a piè de l’Alpe che serra Lamagna
  • sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
  • Per mille fonti, credo, e più si bagna
  • tra Garda e Val Camonica e Pennino
  • de l’acqua che nel detto laco stagna.
  • Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
  • pastore e quel di Brescia e ’l veronese
  • segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
  • Siede Peschiera, bello e forte arnese
  • da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
  • ove la riva ’ntorno più discese.
  • Ivi convien che tutto quanto caschi
  • ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
  • e fassi fiume giù per verdi paschi.
  • Tosto che l’acqua a correr mette co,
  • non più Benaco, ma Mencio si chiama
  • fino a Governol, dove cade in Po.
  • Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
  • ne la qual si distende e la ’mpaluda;
  • e suol di state talor essere grama.
  • Quindi passando la vergine cruda
  • vide terra, nel mezzo del pantano,
  • sanza coltura e d’abitanti nuda.
  • Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
  • ristette con suoi servi a far sue arti,
  • e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
  • Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
  • s’accolsero a quel loco, ch’era forte
  • per lo pantan ch’avea da tutte parti.
  • Fer la città sovra quell’ ossa morte;
  • e per colei che ’l loco prima elesse,
  • Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.
  • Già fuor le genti sue dentro più spesse,
  • prima che la mattia da Casalodi
  • da Pinamonte inganno ricevesse.
  • Però t’assenno che, se tu mai odi
  • originar la mia terra altrimenti,
  • la verità nulla menzogna frodi».
  • E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti
  • mi son sì certi e prendon sì mia fede,
  • che li altri mi sarien carboni spenti.
  • Ma dimmi, de la gente che procede,
  • se tu ne vedi alcun degno di nota;
  • ché solo a ciò la mia mente rifiede».
  • Allor mi disse: «Quel che da la gota
  • porge la barba in su le spalle brune,
  • fu—quando Grecia fu di maschi vòta,
  • sì ch’a pena rimaser per le cune—
  • augure, e diede ’l punto con Calcanta
  • in Aulide a tagliar la prima fune.
  • Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
  • l’alta mia tragedìa in alcun loco:
  • ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
  • Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,
  • Michele Scotto fu, che veramente
  • de le magiche frode seppe ’l gioco.
  • Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
  • ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
  • ora vorrebbe, ma tardi si pente.
  • Vedi le triste che lasciaron l’ago,
  • la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
  • fecer malie con erbe e con imago.
  • Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
  • d’amendue li emisperi e tocca l’onda
  • sotto Sobilia Caino e le spine;
  • e già iernotte fu la luna tonda:
  • ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
  • alcuna volta per la selva fonda».
  • Sì mi parlava, e andavamo introcque.
  • Inferno • Canto XXI
  • Così di ponte in ponte, altro parlando
  • che la mia comedìa cantar non cura,
  • venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando
  • restammo per veder l’altra fessura
  • di Malebolge e li altri pianti vani;
  • e vidila mirabilmente oscura.
  • Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
  • bolle l’inverno la tenace pece
  • a rimpalmare i legni lor non sani,
  • ché navicar non ponno—in quella vece
  • chi fa suo legno novo e chi ristoppa
  • le coste a quel che più vïaggi fece;
  • chi ribatte da proda e chi da poppa;
  • altri fa remi e altri volge sarte;
  • chi terzeruolo e artimon rintoppa—:
  • tal, non per foco ma per divin’ arte,
  • bollia là giuso una pegola spessa,
  • che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
  • I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
  • mai che le bolle che ’l bollor levava,
  • e gonfiar tutta, e riseder compressa.
  • Mentr’ io là giù fisamente mirava,
  • lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
  • mi trasse a sé del loco dov’ io stava.
  • Allor mi volsi come l’uom cui tarda
  • di veder quel che li convien fuggire
  • e cui paura sùbita sgagliarda,
  • che, per veder, non indugia ’l partire:
  • e vidi dietro a noi un diavol nero
  • correndo su per lo scoglio venire.
  • Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!
  • e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
  • con l’ali aperte e sovra i piè leggero!
  • L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
  • carcava un peccator con ambo l’anche,
  • e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.
  • Del nostro ponte disse: «O Malebranche,
  • ecco un de li anzïan di Santa Zita!
  • Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
  • a quella terra, che n’è ben fornita:
  • ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
  • del no, per li denar, vi si fa ita».
  • Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
  • si volse; e mai non fu mastino sciolto
  • con tanta fretta a seguitar lo furo.
  • Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
  • ma i demon che del ponte avean coperchio,
  • gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!
  • qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
  • Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
  • non far sopra la pegola soverchio».
  • Poi l’addentar con più di cento raffi,
  • disser: «Coverto convien che qui balli,
  • sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
  • Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
  • fanno attuffare in mezzo la caldaia
  • la carne con li uncin, perché non galli.
  • Lo buon maestro «Acciò che non si paia
  • che tu ci sia», mi disse, «giù t’acquatta
  • dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;
  • e per nulla offension che mi sia fatta,
  • non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
  • perch’ altra volta fui a tal baratta».
  • Poscia passò di là dal co del ponte;
  • e com’ el giunse in su la ripa sesta,
  • mestier li fu d’aver sicura fronte.
  • Con quel furore e con quella tempesta
  • ch’escono i cani a dosso al poverello
  • che di sùbito chiede ove s’arresta,
  • usciron quei di sotto al ponticello,
  • e volser contra lui tutt’ i runcigli;
  • ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
  • Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
  • traggasi avante l’un di voi che m’oda,
  • e poi d’arruncigliarmi si consigli».
  • Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
  • per ch’un si mosse—e li altri stetter fermi—
  • e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
  • «Credi tu, Malacoda, qui vedermi
  • esser venuto», disse ’l mio maestro,
  • «sicuro già da tutti vostri schermi,
  • sanza voler divino e fato destro?
  • Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
  • ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro».
  • Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
  • ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
  • e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
  • E ’l duca mio a me: «O tu che siedi
  • tra li scheggion del ponte quatto quatto,
  • sicuramente omai a me ti riedi».
  • Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
  • e i diavoli si fecer tutti avanti,
  • sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;
  • così vid’ ïo già temer li fanti
  • ch’uscivan patteggiati di Caprona,
  • veggendo sé tra nemici cotanti.
  • I’ m’accostai con tutta la persona
  • lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
  • da la sembianza lor ch’era non buona.
  • Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ’l tocchi»,
  • diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?».
  • E rispondien: «Sì, fa che gliel’ accocchi».
  • Ma quel demonio che tenea sermone
  • col duca mio, si volse tutto presto
  • e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
  • Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
  • iscoglio non si può, però che giace
  • tutto spezzato al fondo l’arco sesto.
  • E se l’andare avante pur vi piace,
  • andatevene su per questa grotta;
  • presso è un altro scoglio che via face.
  • Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta,
  • mille dugento con sessanta sei
  • anni compié che qui la via fu rotta.
  • Io mando verso là di questi miei
  • a riguardar s’alcun se ne sciorina;
  • gite con lor, che non saranno rei».
  • «Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina»,
  • cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
  • e Barbariccia guidi la decina.
  • Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
  • Cirïatto sannuto e Graffiacane
  • e Farfarello e Rubicante pazzo.
  • Cercate ’ntorno le boglienti pane;
  • costor sian salvi infino a l’altro scheggio
  • che tutto intero va sovra le tane».
  • «Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?»,
  • diss’ io, «deh, sanza scorta andianci soli,
  • se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.
  • Se tu se’ sì accorto come suoli,
  • non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
  • e con le ciglia ne minaccian duoli?».
  • Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi;
  • lasciali digrignar pur a lor senno,
  • ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti».
  • Per l’argine sinistro volta dienno;
  • ma prima avea ciascun la lingua stretta
  • coi denti, verso lor duca, per cenno;
  • ed elli avea del cul fatto trombetta.
  • Inferno • Canto XXII
  • Io vidi già cavalier muover campo,
  • e cominciare stormo e far lor mostra,
  • e talvolta partir per loro scampo;
  • corridor vidi per la terra vostra,
  • o Aretini, e vidi gir gualdane,
  • fedir torneamenti e correr giostra;
  • quando con trombe, e quando con campane,
  • con tamburi e con cenni di castella,
  • e con cose nostrali e con istrane;
  • né già con sì diversa cennamella
  • cavalier vidi muover né pedoni,
  • né nave a segno di terra o di stella.
  • Noi andavam con li diece demoni.
  • Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
  • coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
  • Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
  • per veder de la bolgia ogne contegno
  • e de la gente ch’entro v’era incesa.
  • Come i dalfini, quando fanno segno
  • a’ marinar con l’arco de la schiena
  • che s’argomentin di campar lor legno,
  • talor così, ad alleggiar la pena,
  • mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
  • e nascondea in men che non balena.
  • E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
  • stanno i ranocchi pur col muso fuori,
  • sì che celano i piedi e l’altro grosso,
  • sì stavan d’ogne parte i peccatori;
  • ma come s’appressava Barbariccia,
  • così si ritraén sotto i bollori.
  • I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
  • uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
  • ch’una rana rimane e l’altra spiccia;
  • e Graffiacan, che li era più di contra,
  • li arruncigliò le ’mpegolate chiome
  • e trassel sù, che mi parve una lontra.
  • I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
  • sì li notai quando fuorono eletti,
  • e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.
  • «O Rubicante, fa che tu li metti
  • li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
  • gridavan tutti insieme i maladetti.
  • E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi,
  • che tu sappi chi è lo sciagurato
  • venuto a man de li avversari suoi».
  • Lo duca mio li s’accostò allato;
  • domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
  • «I’ fui del regno di Navarra nato.
  • Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
  • che m’avea generato d’un ribaldo,
  • distruggitor di sé e di sue cose.
  • Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
  • quivi mi misi a far baratteria,
  • di ch’io rendo ragione in questo caldo».
  • E Cirïatto, a cui di bocca uscia
  • d’ogne parte una sanna come a porco,
  • li fé sentir come l’una sdruscia.
  • Tra male gatte era venuto ’l sorco;
  • ma Barbariccia il chiuse con le braccia
  • e disse: «State in là, mentr’ io lo ’nforco».
  • E al maestro mio volse la faccia;
  • «Domanda», disse, «ancor, se più disii
  • saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia».
  • Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii
  • conosci tu alcun che sia latino
  • sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii,
  • poco è, da un che fu di là vicino.
  • Così foss’ io ancor con lui coperto,
  • ch’i’ non temerei unghia né uncino!».
  • E Libicocco «Troppo avem sofferto»,
  • disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
  • sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
  • Draghignazzo anco i volle dar di piglio
  • giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
  • si volse intorno intorno con mal piglio.
  • Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,
  • a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
  • domandò ’l duca mio sanza dimoro:
  • «Chi fu colui da cui mala partita
  • di’ che facesti per venire a proda?».
  • Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
  • quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
  • ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
  • e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
  • Danar si tolse e lasciolli di piano,
  • sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
  • barattier fu non picciol, ma sovrano.
  • Usa con esso donno Michel Zanche
  • di Logodoro; e a dir di Sardigna
  • le lingue lor non si sentono stanche.
  • Omè, vedete l’altro che digrigna;
  • i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
  • non s’apparecchi a grattarmi la tigna».
  • E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
  • che stralunava li occhi per fedire,
  • disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!».
  • «Se voi volete vedere o udire»,
  • ricominciò lo spaürato appresso,
  • «Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
  • ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
  • sì ch’ei non teman de le lor vendette;
  • e io, seggendo in questo loco stesso,
  • per un ch’io son, ne farò venir sette
  • quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
  • di fare allor che fori alcun si mette».
  • Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
  • crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia
  • ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!».
  • Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
  • rispuose: «Malizioso son io troppo,
  • quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia».
  • Alichin non si tenne e, di rintoppo
  • a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
  • io non ti verrò dietro di gualoppo,
  • ma batterò sovra la pece l’ali.
  • Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
  • a veder se tu sol più di noi vali».
  • O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
  • ciascun da l’altra costa li occhi volse,
  • quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
  • Lo Navarrese ben suo tempo colse;
  • fermò le piante a terra, e in un punto
  • saltò e dal proposto lor si sciolse.
  • Di che ciascun di colpa fu compunto,
  • ma quei più che cagion fu del difetto;
  • però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».
  • Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
  • non potero avanzar; quelli andò sotto,
  • e quei drizzò volando suso il petto:
  • non altrimenti l’anitra di botto,
  • quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
  • ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
  • Irato Calcabrina de la buffa,
  • volando dietro li tenne, invaghito
  • che quei campasse per aver la zuffa;
  • e come ’l barattier fu disparito,
  • così volse li artigli al suo compagno,
  • e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
  • Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
  • ad artigliar ben lui, e amendue
  • cadder nel mezzo del bogliente stagno.
  • Lo caldo sghermitor sùbito fue;
  • ma però di levarsi era neente,
  • sì avieno inviscate l’ali sue.
  • Barbariccia, con li altri suoi dolente,
  • quattro ne fé volar da l’altra costa
  • con tutt’ i raffi, e assai prestamente
  • di qua, di là discesero a la posta;
  • porser li uncini verso li ’mpaniati,
  • ch’eran già cotti dentro da la crosta.
  • E noi lasciammo lor così ’mpacciati.
  • Inferno • Canto XXIII
  • Taciti, soli, sanza compagnia
  • n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
  • come frati minor vanno per via.
  • Vòlt’ era in su la favola d’Isopo
  • lo mio pensier per la presente rissa,
  • dov’ el parlò de la rana e del topo;
  • ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
  • che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
  • principio e fine con la mente fissa.
  • E come l’un pensier de l’altro scoppia,
  • così nacque di quello un altro poi,
  • che la prima paura mi fé doppia.
  • Io pensava così: ‘Questi per noi
  • sono scherniti con danno e con beffa
  • sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.
  • Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
  • ei ne verranno dietro più crudeli
  • che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.
  • Già mi sentia tutti arricciar li peli
  • de la paura e stava in dietro intento,
  • quand’ io dissi: «Maestro, se non celi
  • te e me tostamente, i’ ho pavento
  • d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
  • io li ’magino sì, che già li sento».
  • E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
  • l’imagine di fuor tua non trarrei
  • più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.
  • Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
  • con simile atto e con simile faccia,
  • sì che d’intrambi un sol consiglio fei.
  • S’elli è che sì la destra costa giaccia,
  • che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
  • noi fuggirem l’imaginata caccia».
  • Già non compié di tal consiglio rendere,
  • ch’io li vidi venir con l’ali tese
  • non molto lungi, per volerne prendere.
  • Lo duca mio di sùbito mi prese,
  • come la madre ch’al romore è desta
  • e vede presso a sé le fiamme accese,
  • che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
  • avendo più di lui che di sé cura,
  • tanto che solo una camiscia vesta;
  • e giù dal collo de la ripa dura
  • supin si diede a la pendente roccia,
  • che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.
  • Non corse mai sì tosto acqua per doccia
  • a volger ruota di molin terragno,
  • quand’ ella più verso le pale approccia,
  • come ’l maestro mio per quel vivagno,
  • portandosene me sovra ’l suo petto,
  • come suo figlio, non come compagno.
  • A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
  • del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
  • sovresso noi; ma non lì era sospetto:
  • ché l’alta provedenza che lor volle
  • porre ministri de la fossa quinta,
  • poder di partirs’ indi a tutti tolle.
  • Là giù trovammo una gente dipinta
  • che giva intorno assai con lenti passi,
  • piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
  • Elli avean cappe con cappucci bassi
  • dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
  • che in Clugnì per li monaci fassi.
  • Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
  • ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
  • che Federigo le mettea di paglia.
  • Oh in etterno faticoso manto!
  • Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
  • con loro insieme, intenti al tristo pianto;
  • ma per lo peso quella gente stanca
  • venìa sì pian, che noi eravam nuovi
  • di compagnia ad ogne mover d’anca.
  • Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
  • alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
  • e li occhi, sì andando, intorno movi».
  • E un che ’ntese la parola tosca,
  • di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
  • voi che correte sì per l’aura fosca!
  • Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
  • Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta,
  • e poi secondo il suo passo procedi».
  • Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
  • de l’animo, col viso, d’esser meco;
  • ma tardavali ’l carco e la via stretta.
  • Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
  • mi rimiraron sanza far parola;
  • poi si volsero in sé, e dicean seco:
  • «Costui par vivo a l’atto de la gola;
  • e s’e’ son morti, per qual privilegio
  • vanno scoperti de la grave stola?».
  • Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
  • de l’ipocriti tristi se’ venuto,
  • dir chi tu se’ non avere in dispregio».
  • E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
  • sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
  • e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
  • Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
  • quant’ i’ veggio dolor giù per le guance?
  • e che pena è in voi che sì sfavilla?».
  • E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
  • son di piombo sì grosse, che li pesi
  • fan così cigolar le lor bilance.
  • Frati godenti fummo, e bolognesi;
  • io Catalano e questi Loderingo
  • nomati, e da tua terra insieme presi
  • come suole esser tolto un uom solingo,
  • per conservar sua pace; e fummo tali,
  • ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».
  • Io cominciai: «O frati, i vostri mali . . . »;
  • ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
  • un, crucifisso in terra con tre pali.
  • Quando mi vide, tutto si distorse,
  • soffiando ne la barba con sospiri;
  • e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
  • mi disse: «Quel confitto che tu miri,
  • consigliò i Farisei che convenia
  • porre un uom per lo popolo a’ martìri.
  • Attraversato è, nudo, ne la via,
  • come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
  • qualunque passa, come pesa, pria.
  • E a tal modo il socero si stenta
  • in questa fossa, e li altri dal concilio
  • che fu per li Giudei mala sementa».
  • Allor vid’ io maravigliar Virgilio
  • sovra colui ch’era disteso in croce
  • tanto vilmente ne l’etterno essilio.
  • Poscia drizzò al frate cotal voce:
  • «Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
  • s’a la man destra giace alcuna foce
  • onde noi amendue possiamo uscirci,
  • sanza costrigner de li angeli neri
  • che vegnan d’esto fondo a dipartirci».
  • Rispuose adunque: «Più che tu non speri
  • s’appressa un sasso che da la gran cerchia
  • si move e varca tutt’ i vallon feri,
  • salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
  • montar potrete su per la ruina,
  • che giace in costa e nel fondo soperchia».
  • Lo duca stette un poco a testa china;
  • poi disse: «Mal contava la bisogna
  • colui che i peccator di qua uncina».
  • E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
  • del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
  • ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna».
  • Appresso il duca a gran passi sen gì,
  • turbato un poco d’ira nel sembiante;
  • ond’ io da li ’ncarcati mi parti’
  • dietro a le poste de le care piante.
  • Inferno • Canto XXIV
  • In quella parte del giovanetto anno
  • che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
  • e già le notti al mezzo dì sen vanno,
  • quando la brina in su la terra assempra
  • l’imagine di sua sorella bianca,
  • ma poco dura a la sua penna tempra,
  • lo villanello a cui la roba manca,
  • si leva, e guarda, e vede la campagna
  • biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,
  • ritorna in casa, e qua e là si lagna,
  • come ’l tapin che non sa che si faccia;
  • poi riede, e la speranza ringavagna,
  • veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
  • in poco d’ora, e prende suo vincastro
  • e fuor le pecorelle a pascer caccia.
  • Così mi fece sbigottir lo mastro
  • quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
  • e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;
  • ché, come noi venimmo al guasto ponte,
  • lo duca a me si volse con quel piglio
  • dolce ch’io vidi prima a piè del monte.
  • Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
  • eletto seco riguardando prima
  • ben la ruina, e diedemi di piglio.
  • E come quei ch’adopera ed estima,
  • che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
  • così, levando me sù ver’ la cima
  • d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
  • dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;
  • ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».
  • Non era via da vestito di cappa,
  • ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
  • potavam sù montar di chiappa in chiappa.
  • E se non fosse che da quel precinto
  • più che da l’altro era la costa corta,
  • non so di lui, ma io sarei ben vinto.
  • Ma perché Malebolge inver’ la porta
  • del bassissimo pozzo tutta pende,
  • lo sito di ciascuna valle porta
  • che l’una costa surge e l’altra scende;
  • noi pur venimmo al fine in su la punta
  • onde l’ultima pietra si scoscende.
  • La lena m’era del polmon sì munta
  • quand’ io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
  • anzi m’assisi ne la prima giunta.
  • «Omai convien che tu così ti spoltre»,
  • disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
  • in fama non si vien, né sotto coltre;
  • sanza la qual chi sua vita consuma,
  • cotal vestigio in terra di sé lascia,
  • qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
  • E però leva sù; vinci l’ambascia
  • con l’animo che vince ogne battaglia,
  • se col suo grave corpo non s’accascia.
  • Più lunga scala convien che si saglia;
  • non basta da costoro esser partito.
  • Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».
  • Leva’mi allor, mostrandomi fornito
  • meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
  • e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».
  • Su per lo scoglio prendemmo la via,
  • ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
  • ed erto più assai che quel di pria.
  • Parlando andava per non parer fievole;
  • onde una voce uscì de l’altro fosso,
  • a parole formar disconvenevole.
  • Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
  • fossi de l’arco già che varca quivi;
  • ma chi parlava ad ire parea mosso.
  • Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
  • non poteano ire al fondo per lo scuro;
  • per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi
  • da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
  • ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,
  • così giù veggio e neente affiguro».
  • «Altra risposta», disse, «non ti rendo
  • se non lo far; ché la dimanda onesta
  • si de’ seguir con l’opera tacendo».
  • Noi discendemmo il ponte da la testa
  • dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
  • e poi mi fu la bolgia manifesta:
  • e vidivi entro terribile stipa
  • di serpenti, e di sì diversa mena
  • che la memoria il sangue ancor mi scipa.
  • Più non si vanti Libia con sua rena;
  • ché se chelidri, iaculi e faree
  • produce, e cencri con anfisibena,
  • né tante pestilenzie né sì ree
  • mostrò già mai con tutta l’Etïopia
  • né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
  • Tra questa cruda e tristissima copia
  • corrëan genti nude e spaventate,
  • sanza sperar pertugio o elitropia:
  • con serpi le man dietro avean legate;
  • quelle ficcavan per le ren la coda
  • e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
  • Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
  • s’avventò un serpente che ’l trafisse
  • là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
  • Né O sì tosto mai né I si scrisse,
  • com’ el s’accese e arse, e cener tutto
  • convenne che cascando divenisse;
  • e poi che fu a terra sì distrutto,
  • la polver si raccolse per sé stessa
  • e ’n quel medesmo ritornò di butto.
  • Così per li gran savi si confessa
  • che la fenice more e poi rinasce,
  • quando al cinquecentesimo anno appressa;
  • erba né biado in sua vita non pasce,
  • ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
  • e nardo e mirra son l’ultime fasce.
  • E qual è quel che cade, e non sa como,
  • per forza di demon ch’a terra il tira,
  • o d’altra oppilazion che lega l’omo,
  • quando si leva, che ’ntorno si mira
  • tutto smarrito de la grande angoscia
  • ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
  • tal era ’l peccator levato poscia.
  • Oh potenza di Dio, quant’ è severa,
  • che cotai colpi per vendetta croscia!
  • Lo duca il domandò poi chi ello era;
  • per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
  • poco tempo è, in questa gola fiera.
  • Vita bestial mi piacque e non umana,
  • sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
  • bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
  • E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
  • e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
  • ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».
  • E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
  • ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
  • e di trista vergogna si dipinse;
  • poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
  • ne la miseria dove tu mi vedi,
  • che quando fui de l’altra vita tolto.
  • Io non posso negar quel che tu chiedi;
  • in giù son messo tanto perch’ io fui
  • ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
  • e falsamente già fu apposto altrui.
  • Ma perché di tal vista tu non godi,
  • se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
  • apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
  • Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
  • poi Fiorenza rinova gente e modi.
  • Tragge Marte vapor di Val di Magra
  • ch’è di torbidi nuvoli involuto;
  • e con tempesta impetüosa e agra
  • sovra Campo Picen fia combattuto;
  • ond’ ei repente spezzerà la nebbia,
  • sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
  • E detto l’ho perché doler ti debbia!».
  • Inferno • Canto XXV
  • Al fine de le sue parole il ladro
  • le mani alzò con amendue le fiche,
  • gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».
  • Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
  • perch’ una li s’avvolse allora al collo,
  • come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;
  • e un’altra a le braccia, e rilegollo,
  • ribadendo sé stessa sì dinanzi,
  • che non potea con esse dare un crollo.
  • Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
  • d’incenerarti sì che più non duri,
  • poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
  • Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri
  • non vidi spirto in Dio tanto superbo,
  • non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
  • El si fuggì che non parlò più verbo;
  • e io vidi un centauro pien di rabbia
  • venir chiamando: «Ov’ è, ov’ è l’acerbo?».
  • Maremma non cred’ io che tante n’abbia,
  • quante bisce elli avea su per la groppa
  • infin ove comincia nostra labbia.
  • Sovra le spalle, dietro da la coppa,
  • con l’ali aperte li giacea un draco;
  • e quello affuoca qualunque s’intoppa.
  • Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
  • che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
  • di sangue fece spesse volte laco.
  • Non va co’ suoi fratei per un cammino,
  • per lo furto che frodolente fece
  • del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
  • onde cessar le sue opere biece
  • sotto la mazza d’Ercule, che forse
  • gliene diè cento, e non sentì le diece».
  • Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
  • e tre spiriti venner sotto noi,
  • de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
  • se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
  • per che nostra novella si ristette,
  • e intendemmo pur ad essi poi.
  • Io non li conoscea; ma ei seguette,
  • come suol seguitar per alcun caso,
  • che l’un nomar un altro convenette,
  • dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
  • per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
  • mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
  • Se tu se’ or, lettore, a creder lento
  • ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
  • ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
  • Com’ io tenea levate in lor le ciglia,
  • e un serpente con sei piè si lancia
  • dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.
  • Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
  • e con li anterïor le braccia prese;
  • poi li addentò e l’una e l’altra guancia;
  • li diretani a le cosce distese,
  • e miseli la coda tra ’mbedue
  • e dietro per le ren sù la ritese.
  • Ellera abbarbicata mai non fue
  • ad alber sì, come l’orribil fiera
  • per l’altrui membra avviticchiò le sue.
  • Poi s’appiccar, come di calda cera
  • fossero stati, e mischiar lor colore,
  • né l’un né l’altro già parea quel ch’era:
  • come procede innanzi da l’ardore,
  • per lo papiro suso, un color bruno
  • che non è nero ancora e ’l bianco more.
  • Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
  • gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
  • Vedi che già non se’ né due né uno».
  • Già eran li due capi un divenuti,
  • quando n’apparver due figure miste
  • in una faccia, ov’ eran due perduti.
  • Fersi le braccia due di quattro liste;
  • le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
  • divenner membra che non fuor mai viste.
  • Ogne primaio aspetto ivi era casso:
  • due e nessun l’imagine perversa
  • parea; e tal sen gio con lento passo.
  • Come ’l ramarro sotto la gran fersa
  • dei dì canicular, cangiando sepe,
  • folgore par se la via attraversa,
  • sì pareva, venendo verso l’epe
  • de li altri due, un serpentello acceso,
  • livido e nero come gran di pepe;
  • e quella parte onde prima è preso
  • nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
  • poi cadde giuso innanzi lui disteso.
  • Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
  • anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
  • pur come sonno o febbre l’assalisse.
  • Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
  • l’un per la piaga e l’altro per la bocca
  • fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.
  • Taccia Lucano ormai là dov’ e’ tocca
  • del misero Sabello e di Nasidio,
  • e attenda a udir quel ch’or si scocca.
  • Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
  • ché se quello in serpente e quella in fonte
  • converte poetando, io non lo ’nvidio;
  • ché due nature mai a fronte a fronte
  • non trasmutò sì ch’amendue le forme
  • a cambiar lor matera fosser pronte.
  • Insieme si rispuosero a tai norme,
  • che ’l serpente la coda in forca fesse,
  • e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.
  • Le gambe con le cosce seco stesse
  • s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
  • non facea segno alcun che si paresse.
  • Togliea la coda fessa la figura
  • che si perdeva là, e la sua pelle
  • si facea molle, e quella di là dura.
  • Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
  • e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
  • tanto allungar quanto accorciavan quelle.
  • Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
  • diventaron lo membro che l’uom cela,
  • e ’l misero del suo n’avea due porti.
  • Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
  • di color novo, e genera ’l pel suso
  • per l’una parte e da l’altra il dipela,
  • l’un si levò e l’altro cadde giuso,
  • non torcendo però le lucerne empie,
  • sotto le quai ciascun cambiava muso.
  • Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
  • e di troppa matera ch’in là venne
  • uscir li orecchi de le gote scempie;
  • ciò che non corse in dietro e si ritenne
  • di quel soverchio, fé naso a la faccia
  • e le labbra ingrossò quanto convenne.
  • Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
  • e li orecchi ritira per la testa
  • come face le corna la lumaccia;
  • e la lingua, ch’avëa unita e presta
  • prima a parlar, si fende, e la forcuta
  • ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.
  • L’anima ch’era fiera divenuta,
  • suffolando si fugge per la valle,
  • e l’altro dietro a lui parlando sputa.
  • Poscia li volse le novelle spalle,
  • e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
  • com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle».
  • Così vid’ io la settima zavorra
  • mutare e trasmutare; e qui mi scusi
  • la novità se fior la penna abborra.
  • E avvegna che li occhi miei confusi
  • fossero alquanto e l’animo smagato,
  • non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
  • ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
  • ed era quel che sol, di tre compagni
  • che venner prima, non era mutato;
  • l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni.
  • Inferno • Canto XXVI
  • Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
  • che per mare e per terra batti l’ali,
  • e per lo ’nferno tuo nome si spande!
  • Tra li ladron trovai cinque cotali
  • tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
  • e tu in grande orranza non ne sali.
  • Ma se presso al mattin del ver si sogna,
  • tu sentirai, di qua da picciol tempo,
  • di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
  • E se già fosse, non saria per tempo.
  • Così foss’ ei, da che pur esser dee!
  • ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
  • Noi ci partimmo, e su per le scalee
  • che n’avea fatto iborni a scender pria,
  • rimontò ’l duca mio e trasse mee;
  • e proseguendo la solinga via,
  • tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
  • lo piè sanza la man non si spedia.
  • Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
  • quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
  • e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
  • perché non corra che virtù nol guidi;
  • sì che, se stella bona o miglior cosa
  • m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
  • Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
  • nel tempo che colui che ’l mondo schiara
  • la faccia sua a noi tien meno ascosa,
  • come la mosca cede a la zanzara,
  • vede lucciole giù per la vallea,
  • forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:
  • di tante fiamme tutta risplendea
  • l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
  • tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
  • E qual colui che si vengiò con li orsi
  • vide ’l carro d’Elia al dipartire,
  • quando i cavalli al cielo erti levorsi,
  • che nol potea sì con li occhi seguire,
  • ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
  • sì come nuvoletta, in sù salire:
  • tal si move ciascuna per la gola
  • del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
  • e ogne fiamma un peccatore invola.
  • Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
  • sì che s’io non avessi un ronchion preso,
  • caduto sarei giù sanz’ esser urto.
  • E ’l duca che mi vide tanto atteso,
  • disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
  • catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
  • «Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
  • son io più certo; ma già m’era avviso
  • che così fosse, e già voleva dirti:
  • chi è ’n quel foco che vien sì diviso
  • di sopra, che par surger de la pira
  • dov’ Eteòcle col fratel fu miso?».
  • Rispuose a me: «Là dentro si martira
  • Ulisse e Dïomede, e così insieme
  • a la vendetta vanno come a l’ira;
  • e dentro da la lor fiamma si geme
  • l’agguato del caval che fé la porta
  • onde uscì de’ Romani il gentil seme.
  • Piangevisi entro l’arte per che, morta,
  • Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
  • e del Palladio pena vi si porta».
  • «S’ei posson dentro da quelle faville
  • parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
  • e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
  • che non mi facci de l’attender niego
  • fin che la fiamma cornuta qua vegna;
  • vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
  • Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
  • di molta loda, e io però l’accetto;
  • ma fa che la tua lingua si sostegna.
  • Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
  • ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
  • perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».
  • Poi che la fiamma fu venuta quivi
  • dove parve al mio duca tempo e loco,
  • in questa forma lui parlare audivi:
  • «O voi che siete due dentro ad un foco,
  • s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
  • s’io meritai di voi assai o poco
  • quando nel mondo li alti versi scrissi,
  • non vi movete; ma l’un di voi dica
  • dove, per lui, perduto a morir gissi».
  • Lo maggior corno de la fiamma antica
  • cominciò a crollarsi mormorando,
  • pur come quella cui vento affatica;
  • indi la cima qua e là menando,
  • come fosse la lingua che parlasse,
  • gittò voce di fuori e disse: «Quando
  • mi diparti’ da Circe, che sottrasse
  • me più d’un anno là presso a Gaeta,
  • prima che sì Enëa la nomasse,
  • né dolcezza di figlio, né la pieta
  • del vecchio padre, né ’l debito amore
  • lo qual dovea Penelopè far lieta,
  • vincer potero dentro a me l’ardore
  • ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
  • e de li vizi umani e del valore;
  • ma misi me per l’alto mare aperto
  • sol con un legno e con quella compagna
  • picciola da la qual non fui diserto.
  • L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
  • fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
  • e l’altre che quel mare intorno bagna.
  • Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
  • quando venimmo a quella foce stretta
  • dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
  • acciò che l’uom più oltre non si metta;
  • da la man destra mi lasciai Sibilia,
  • da l’altra già m’avea lasciata Setta.
  • “O frati”, dissi “che per cento milia
  • perigli siete giunti a l’occidente,
  • a questa tanto picciola vigilia
  • d’i nostri sensi ch’è del rimanente
  • non vogliate negar l’esperïenza,
  • di retro al sol, del mondo sanza gente.
  • Considerate la vostra semenza:
  • fatti non foste a viver come bruti,
  • ma per seguir virtute e canoscenza”.
  • Li miei compagni fec’ io sì aguti,
  • con questa orazion picciola, al cammino,
  • che a pena poscia li avrei ritenuti;
  • e volta nostra poppa nel mattino,
  • de’ remi facemmo ali al folle volo,
  • sempre acquistando dal lato mancino.
  • Tutte le stelle già de l’altro polo
  • vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
  • che non surgëa fuor del marin suolo.
  • Cinque volte racceso e tante casso
  • lo lume era di sotto da la luna,
  • poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
  • quando n’apparve una montagna, bruna
  • per la distanza, e parvemi alta tanto
  • quanto veduta non avëa alcuna.
  • Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
  • ché de la nova terra un turbo nacque
  • e percosse del legno il primo canto.
  • Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
  • a la quarta levar la poppa in suso
  • e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,
  • infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
  • Inferno • Canto XXVII
  • Già era dritta in sù la fiamma e queta
  • per non dir più, e già da noi sen gia
  • con la licenza del dolce poeta,
  • quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
  • ne fece volger li occhi a la sua cima
  • per un confuso suon che fuor n’uscia.
  • Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
  • col pianto di colui, e ciò fu dritto,
  • che l’avea temperato con sua lima,
  • mugghiava con la voce de l’afflitto,
  • sì che, con tutto che fosse di rame,
  • pur el pareva dal dolor trafitto;
  • così, per non aver via né forame
  • dal principio nel foco, in suo linguaggio
  • si convertïan le parole grame.
  • Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
  • su per la punta, dandole quel guizzo
  • che dato avea la lingua in lor passaggio,
  • udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo
  • la voce e che parlavi mo lombardo,
  • dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,
  • perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,
  • non t’incresca restare a parlar meco;
  • vedi che non incresce a me, e ardo!
  • Se tu pur mo in questo mondo cieco
  • caduto se’ di quella dolce terra
  • latina ond’ io mia colpa tutta reco,
  • dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
  • ch’io fui d’i monti là intra Orbino
  • e ’l giogo di che Tever si diserra».
  • Io era in giuso ancora attento e chino,
  • quando il mio duca mi tentò di costa,
  • dicendo: «Parla tu; questi è latino».
  • E io, ch’avea già pronta la risposta,
  • sanza indugio a parlare incominciai:
  • «O anima che se’ là giù nascosta,
  • Romagna tua non è, e non fu mai,
  • sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
  • ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
  • Ravenna sta come stata è molt’ anni:
  • l’aguglia da Polenta la si cova,
  • sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
  • La terra che fé già la lunga prova
  • e di Franceschi sanguinoso mucchio,
  • sotto le branche verdi si ritrova.
  • E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
  • che fecer di Montagna il mal governo,
  • là dove soglion fan d’i denti succhio.
  • Le città di Lamone e di Santerno
  • conduce il lïoncel dal nido bianco,
  • che muta parte da la state al verno.
  • E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
  • così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
  • tra tirannia si vive e stato franco.
  • Ora chi se’, ti priego che ne conte;
  • non esser duro più ch’altri sia stato,
  • se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».
  • Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
  • al modo suo, l’aguta punta mosse
  • di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
  • «S’i’ credesse che mia risposta fosse
  • a persona che mai tornasse al mondo,
  • questa fiamma staria sanza più scosse;
  • ma però che già mai di questo fondo
  • non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
  • sanza tema d’infamia ti rispondo.
  • Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
  • credendomi, sì cinto, fare ammenda;
  • e certo il creder mio venìa intero,
  • se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
  • che mi rimise ne le prime colpe;
  • e come e quare, voglio che m’intenda.
  • Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
  • che la madre mi diè, l’opere mie
  • non furon leonine, ma di volpe.
  • Li accorgimenti e le coperte vie
  • io seppi tutte, e sì menai lor arte,
  • ch’al fine de la terra il suono uscie.
  • Quando mi vidi giunto in quella parte
  • di mia etade ove ciascun dovrebbe
  • calar le vele e raccoglier le sarte,
  • ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
  • e pentuto e confesso mi rendei;
  • ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
  • Lo principe d’i novi Farisei,
  • avendo guerra presso a Laterano,
  • e non con Saracin né con Giudei,
  • ché ciascun suo nimico era cristiano,
  • e nessun era stato a vincer Acri
  • né mercatante in terra di Soldano,
  • né sommo officio né ordini sacri
  • guardò in sé, né in me quel capestro
  • che solea fare i suoi cinti più macri.
  • Ma come Costantin chiese Silvestro
  • d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
  • così mi chiese questi per maestro
  • a guerir de la sua superba febbre;
  • domandommi consiglio, e io tacetti
  • perché le sue parole parver ebbre.
  • E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
  • finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
  • sì come Penestrino in terra getti.
  • Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,
  • come tu sai; però son due le chiavi
  • che ’l mio antecessor non ebbe care”.
  • Allor mi pinser li argomenti gravi
  • là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
  • e dissi: “Padre, da che tu mi lavi
  • di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
  • lunga promessa con l’attender corto
  • ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.
  • Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
  • per me; ma un d’i neri cherubini
  • li disse: “Non portar: non mi far torto.
  • Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
  • perché diede ’l consiglio frodolente,
  • dal quale in qua stato li sono a’ crini;
  • ch’assolver non si può chi non si pente,
  • né pentere e volere insieme puossi
  • per la contradizion che nol consente”.
  • Oh me dolente! come mi riscossi
  • quando mi prese dicendomi: “Forse
  • tu non pensavi ch’io löico fossi!”.
  • A Minòs mi portò; e quelli attorse
  • otto volte la coda al dosso duro;
  • e poi che per gran rabbia la si morse,
  • disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
  • per ch’io là dove vedi son perduto,
  • e sì vestito, andando, mi rancuro».
  • Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
  • la fiamma dolorando si partio,
  • torcendo e dibattendo ’l corno aguto.
  • Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
  • su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
  • che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
  • a quei che scommettendo acquistan carco.
  • Inferno • Canto XXVIII
  • Chi poria mai pur con parole sciolte
  • dicer del sangue e de le piaghe a pieno
  • ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
  • Ogne lingua per certo verria meno
  • per lo nostro sermone e per la mente
  • c’hanno a tanto comprender poco seno.
  • S’el s’aunasse ancor tutta la gente
  • che già, in su la fortunata terra
  • di Puglia, fu del suo sangue dolente
  • per li Troiani e per la lunga guerra
  • che de l’anella fé sì alte spoglie,
  • come Livïo scrive, che non erra,
  • con quella che sentio di colpi doglie
  • per contastare a Ruberto Guiscardo;
  • e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
  • a Ceperan, là dove fu bugiardo
  • ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
  • dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo;
  • e qual forato suo membro e qual mozzo
  • mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
  • il modo de la nona bolgia sozzo.
  • Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
  • com’ io vidi un, così non si pertugia,
  • rotto dal mento infin dove si trulla.
  • Tra le gambe pendevan le minugia;
  • la corata pareva e ’l tristo sacco
  • che merda fa di quel che si trangugia.
  • Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
  • guardommi e con le man s’aperse il petto,
  • dicendo: «Or vedi com’ io mi dilacco!
  • vedi come storpiato è Mäometto!
  • Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
  • fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
  • E tutti li altri che tu vedi qui,
  • seminator di scandalo e di scisma
  • fuor vivi, e però son fessi così.
  • Un diavolo è qua dietro che n’accisma
  • sì crudelmente, al taglio de la spada
  • rimettendo ciascun di questa risma,
  • quand’ avem volta la dolente strada;
  • però che le ferite son richiuse
  • prima ch’altri dinanzi li rivada.
  • Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
  • forse per indugiar d’ire a la pena
  • ch’è giudicata in su le tue accuse?».
  • «Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,
  • rispuose ’l mio maestro, «a tormentarlo;
  • ma per dar lui esperïenza piena,
  • a me, che morto son, convien menarlo
  • per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
  • e quest’ è ver così com’ io ti parlo».
  • Più fuor di cento che, quando l’udiro,
  • s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
  • per maraviglia, oblïando il martiro.
  • «Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
  • tu che forse vedra’ il sole in breve,
  • s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
  • sì di vivanda, che stretta di neve
  • non rechi la vittoria al Noarese,
  • ch’altrimenti acquistar non saria leve».
  • Poi che l’un piè per girsene sospese,
  • Mäometto mi disse esta parola;
  • indi a partirsi in terra lo distese.
  • Un altro, che forata avea la gola
  • e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
  • e non avea mai ch’una orecchia sola,
  • ristato a riguardar per maraviglia
  • con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
  • ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,
  • e disse: «O tu cui colpa non condanna
  • e cu’ io vidi su in terra latina,
  • se troppa simiglianza non m’inganna,
  • rimembriti di Pier da Medicina,
  • se mai torni a veder lo dolce piano
  • che da Vercelli a Marcabò dichina.
  • E fa saper a’ due miglior da Fano,
  • a messer Guido e anco ad Angiolello,
  • che, se l’antiveder qui non è vano,
  • gittati saran fuor di lor vasello
  • e mazzerati presso a la Cattolica
  • per tradimento d’un tiranno fello.
  • Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
  • non vide mai sì gran fallo Nettuno,
  • non da pirate, non da gente argolica.
  • Quel traditor che vede pur con l’uno,
  • e tien la terra che tale qui meco
  • vorrebbe di vedere esser digiuno,
  • farà venirli a parlamento seco;
  • poi farà sì, ch’al vento di Focara
  • non sarà lor mestier voto né preco».
  • E io a lui: «Dimostrami e dichiara,
  • se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
  • chi è colui da la veduta amara».
  • Allor puose la mano a la mascella
  • d’un suo compagno e la bocca li aperse,
  • gridando: «Questi è desso, e non favella.
  • Questi, scacciato, il dubitar sommerse
  • in Cesare, affermando che ’l fornito
  • sempre con danno l’attender sofferse».
  • Oh quanto mi pareva sbigottito
  • con la lingua tagliata ne la strozza
  • Curïo, ch’a dir fu così ardito!
  • E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
  • levando i moncherin per l’aura fosca,
  • sì che ’l sangue facea la faccia sozza,
  • gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,
  • che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,
  • che fu mal seme per la gente tosca».
  • E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
  • per ch’elli, accumulando duol con duolo,
  • sen gio come persona trista e matta.
  • Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
  • e vidi cosa ch’io avrei paura,
  • sanza più prova, di contarla solo;
  • se non che coscïenza m’assicura,
  • la buona compagnia che l’uom francheggia
  • sotto l’asbergo del sentirsi pura.
  • Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
  • un busto sanza capo andar sì come
  • andavan li altri de la trista greggia;
  • e ’l capo tronco tenea per le chiome,
  • pesol con mano a guisa di lanterna:
  • e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
  • Di sé facea a sé stesso lucerna,
  • ed eran due in uno e uno in due;
  • com’ esser può, quei sa che sì governa.
  • Quando diritto al piè del ponte fue,
  • levò ’l braccio alto con tutta la testa
  • per appressarne le parole sue,
  • che fuoro: «Or vedi la pena molesta,
  • tu che, spirando, vai veggendo i morti:
  • vedi s’alcuna è grande come questa.
  • E perché tu di me novella porti,
  • sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
  • che diedi al re giovane i ma’ conforti.
  • Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
  • Achitofèl non fé più d’Absalone
  • e di Davìd coi malvagi punzelli.
  • Perch’ io parti’ così giunte persone,
  • partito porto il mio cerebro, lasso!,
  • dal suo principio ch’è in questo troncone.
  • Così s’osserva in me lo contrapasso».
  • Inferno • Canto XXIX
  • La molta gente e le diverse piaghe
  • avean le luci mie sì inebrïate,
  • che de lo stare a piangere eran vaghe.
  • Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
  • perché la vista tua pur si soffolge
  • là giù tra l’ombre triste smozzicate?
  • Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
  • pensa, se tu annoverar le credi,
  • che miglia ventidue la valle volge.
  • E già la luna è sotto i nostri piedi;
  • lo tempo è poco omai che n’è concesso,
  • e altro è da veder che tu non vedi».
  • «Se tu avessi», rispuos’ io appresso,
  • «atteso a la cagion per ch’io guardava,
  • forse m’avresti ancor lo star dimesso».
  • Parte sen giva, e io retro li andava,
  • lo duca, già faccendo la risposta,
  • e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
  • dov’ io tenea or li occhi sì a posta,
  • credo ch’un spirto del mio sangue pianga
  • la colpa che là giù cotanto costa».
  • Allor disse ’l maestro: «Non si franga
  • lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
  • Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
  • ch’io vidi lui a piè del ponticello
  • mostrarti e minacciar forte col dito,
  • e udi’ ’l nominar Geri del Bello.
  • Tu eri allor sì del tutto impedito
  • sovra colui che già tenne Altaforte,
  • che non guardasti in là, sì fu partito».
  • «O duca mio, la vïolenta morte
  • che non li è vendicata ancor», diss’ io,
  • «per alcun che de l’onta sia consorte,
  • fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
  • sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo:
  • e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».
  • Così parlammo infino al loco primo
  • che de lo scoglio l’altra valle mostra,
  • se più lume vi fosse, tutto ad imo.
  • Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
  • di Malebolge, sì che i suoi conversi
  • potean parere a la veduta nostra,
  • lamenti saettaron me diversi,
  • che di pietà ferrati avean li strali;
  • ond’ io li orecchi con le man copersi.
  • Qual dolor fora, se de li spedali
  • di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
  • e di Maremma e di Sardigna i mali
  • fossero in una fossa tutti ’nsembre,
  • tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
  • qual suol venir de le marcite membre.
  • Noi discendemmo in su l’ultima riva
  • del lungo scoglio, pur da man sinistra;
  • e allor fu la mia vista più viva
  • giù ver’ lo fondo, la ’ve la ministra
  • de l’alto Sire infallibil giustizia
  • punisce i falsador che qui registra.
  • Non credo ch’a veder maggior tristizia
  • fosse in Egina il popol tutto infermo,
  • quando fu l’aere sì pien di malizia,
  • che li animali, infino al picciol vermo,
  • cascaron tutti, e poi le genti antiche,
  • secondo che i poeti hanno per fermo,
  • si ristorar di seme di formiche;
  • ch’era a veder per quella oscura valle
  • languir li spirti per diverse biche.
  • Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
  • l’un de l’altro giacea, e qual carpone
  • si trasmutava per lo tristo calle.
  • Passo passo andavam sanza sermone,
  • guardando e ascoltando li ammalati,
  • che non potean levar le lor persone.
  • Io vidi due sedere a sé poggiati,
  • com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
  • dal capo al piè di schianze macolati;
  • e non vidi già mai menare stregghia
  • a ragazzo aspettato dal segnorso,
  • né a colui che mal volontier vegghia,
  • come ciascun menava spesso il morso
  • de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
  • del pizzicor, che non ha più soccorso;
  • e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
  • come coltel di scardova le scaglie
  • o d’altro pesce che più larghe l’abbia.
  • «O tu che con le dita ti dismaglie»,
  • cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
  • «e che fai d’esse talvolta tanaglie,
  • dinne s’alcun Latino è tra costoro
  • che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
  • etternalmente a cotesto lavoro».
  • «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
  • qui ambedue», rispuose l’un piangendo;
  • «ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».
  • E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
  • con questo vivo giù di balzo in balzo,
  • e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».
  • Allor si ruppe lo comun rincalzo;
  • e tremando ciascuno a me si volse
  • con altri che l’udiron di rimbalzo.
  • Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
  • dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
  • e io incominciai, poscia ch’ei volse:
  • «Se la vostra memoria non s’imboli
  • nel primo mondo da l’umane menti,
  • ma s’ella viva sotto molti soli,
  • ditemi chi voi siete e di che genti;
  • la vostra sconcia e fastidiosa pena
  • di palesarvi a me non vi spaventi».
  • «Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,
  • rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;
  • ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
  • Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
  • “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;
  • e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,
  • volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
  • perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
  • ardere a tal che l’avea per figliuolo.
  • Ma ne l’ultima bolgia de le diece
  • me per l’alchìmia che nel mondo usai
  • dannò Minòs, a cui fallar non lece».
  • E io dissi al poeta: «Or fu già mai
  • gente sì vana come la sanese?
  • Certo non la francesca sì d’assai!».
  • Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
  • rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca
  • che seppe far le temperate spese,
  • e Niccolò che la costuma ricca
  • del garofano prima discoverse
  • ne l’orto dove tal seme s’appicca;
  • e tra’ne la brigata in che disperse
  • Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
  • e l’Abbagliato suo senno proferse.
  • Ma perché sappi chi sì ti seconda
  • contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
  • sì che la faccia mia ben ti risponda:
  • sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
  • che falsai li metalli con l’alchìmia;
  • e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
  • com’ io fui di natura buona scimia».
  • Inferno • Canto XXX
  • Nel tempo che Iunone era crucciata
  • per Semelè contra ’l sangue tebano,
  • come mostrò una e altra fïata,
  • Atamante divenne tanto insano,
  • che veggendo la moglie con due figli
  • andar carcata da ciascuna mano,
  • gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
  • la leonessa e ’ leoncini al varco»;
  • e poi distese i dispietati artigli,
  • prendendo l’un ch’avea nome Learco,
  • e rotollo e percosselo ad un sasso;
  • e quella s’annegò con l’altro carco.
  • E quando la fortuna volse in basso
  • l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
  • sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
  • Ecuba trista, misera e cattiva,
  • poscia che vide Polissena morta,
  • e del suo Polidoro in su la riva
  • del mar si fu la dolorosa accorta,
  • forsennata latrò sì come cane;
  • tanto il dolor le fé la mente torta.
  • Ma né di Tebe furie né troiane
  • si vider mäi in alcun tanto crude,
  • non punger bestie, nonché membra umane,
  • quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
  • che mordendo correvan di quel modo
  • che ’l porco quando del porcil si schiude.
  • L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
  • del collo l’assannò, sì che, tirando,
  • grattar li fece il ventre al fondo sodo.
  • E l’Aretin che rimase, tremando
  • mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
  • e va rabbioso altrui così conciando».
  • «Oh», diss’ io lui, «se l’altro non ti ficchi
  • li denti a dosso, non ti sia fatica
  • a dir chi è, pria che di qui si spicchi».
  • Ed elli a me: «Quell’ è l’anima antica
  • di Mirra scellerata, che divenne
  • al padre, fuor del dritto amore, amica.
  • Questa a peccar con esso così venne,
  • falsificando sé in altrui forma,
  • come l’altro che là sen va, sostenne,
  • per guadagnar la donna de la torma,
  • falsificare in sé Buoso Donati,
  • testando e dando al testamento norma».
  • E poi che i due rabbiosi fuor passati
  • sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
  • rivolsilo a guardar li altri mal nati.
  • Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
  • pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
  • tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
  • La grave idropesì, che sì dispaia
  • le membra con l’omor che mal converte,
  • che ’l viso non risponde a la ventraia,
  • faceva lui tener le labbra aperte
  • come l’etico fa, che per la sete
  • l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.
  • «O voi che sanz’ alcuna pena siete,
  • e non so io perché, nel mondo gramo»,
  • diss’ elli a noi, «guardate e attendete
  • a la miseria del maestro Adamo;
  • io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
  • e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.
  • Li ruscelletti che d’i verdi colli
  • del Casentin discendon giuso in Arno,
  • faccendo i lor canali freddi e molli,
  • sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
  • ché l’imagine lor vie più m’asciuga
  • che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.
  • La rigida giustizia che mi fruga
  • tragge cagion del loco ov’ io peccai
  • a metter più li miei sospiri in fuga.
  • Ivi è Romena, là dov’ io falsai
  • la lega suggellata del Batista;
  • per ch’io il corpo sù arso lasciai.
  • Ma s’io vedessi qui l’anima trista
  • di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
  • per Fonte Branda non darei la vista.
  • Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
  • ombre che vanno intorno dicon vero;
  • ma che mi val, c’ho le membra legate?
  • S’io fossi pur di tanto ancor leggero
  • ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
  • io sarei messo già per lo sentiero,
  • cercando lui tra questa gente sconcia,
  • con tutto ch’ella volge undici miglia,
  • e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
  • Io son per lor tra sì fatta famiglia;
  • e’ m’indussero a batter li fiorini
  • ch’avevan tre carati di mondiglia».
  • E io a lui: «Chi son li due tapini
  • che fumman come man bagnate ’l verno,
  • giacendo stretti a’ tuoi destri confini?».
  • «Qui li trovai—e poi volta non dierno—»,
  • rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
  • e non credo che dieno in sempiterno.
  • L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
  • l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
  • per febbre aguta gittan tanto leppo».
  • E l’un di lor, che si recò a noia
  • forse d’esser nomato sì oscuro,
  • col pugno li percosse l’epa croia.
  • Quella sonò come fosse un tamburo;
  • e mastro Adamo li percosse il volto
  • col braccio suo, che non parve men duro,
  • dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
  • lo muover per le membra che son gravi,
  • ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
  • Ond’ ei rispuose: «Quando tu andavi
  • al fuoco, non l’avei tu così presto;
  • ma sì e più l’avei quando coniavi».
  • E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
  • ma tu non fosti sì ver testimonio
  • là ’ve del ver fosti a Troia richesto».
  • «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
  • disse Sinon; «e son qui per un fallo,
  • e tu per più ch’alcun altro demonio!».
  • «Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
  • rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
  • «e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
  • «E te sia rea la sete onde ti crepa»,
  • disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
  • che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!».
  • Allora il monetier: «Così si squarcia
  • la bocca tua per tuo mal come suole;
  • ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,
  • tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
  • e per leccar lo specchio di Narcisso,
  • non vorresti a ’nvitar molte parole».
  • Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
  • quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira,
  • che per poco che teco non mi risso!».
  • Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
  • volsimi verso lui con tal vergogna,
  • ch’ancor per la memoria mi si gira.
  • Qual è colui che suo dannaggio sogna,
  • che sognando desidera sognare,
  • sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
  • tal mi fec’ io, non possendo parlare,
  • che disïava scusarmi, e scusava
  • me tuttavia, e nol mi credea fare.
  • «Maggior difetto men vergogna lava»,
  • disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato;
  • però d’ogne trestizia ti disgrava.
  • E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
  • se più avvien che fortuna t’accoglia
  • dove sien genti in simigliante piato:
  • ché voler ciò udire è bassa voglia».
  • Inferno • Canto XXXI
  • Una medesma lingua pria mi morse,
  • sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
  • e poi la medicina mi riporse;
  • così od’ io che solea far la lancia
  • d’Achille e del suo padre esser cagione
  • prima di trista e poi di buona mancia.
  • Noi demmo il dosso al misero vallone
  • su per la ripa che ’l cinge dintorno,
  • attraversando sanza alcun sermone.
  • Quiv’ era men che notte e men che giorno,
  • sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
  • ma io senti’ sonare un alto corno,
  • tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
  • che, contra sé la sua via seguitando,
  • dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
  • Dopo la dolorosa rotta, quando
  • Carlo Magno perdé la santa gesta,
  • non sonò sì terribilmente Orlando.
  • Poco portäi in là volta la testa,
  • che me parve veder molte alte torri;
  • ond’ io: «Maestro, dì, che terra è questa?».
  • Ed elli a me: «Però che tu trascorri
  • per le tenebre troppo da la lungi,
  • avvien che poi nel maginare abborri.
  • Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
  • quanto ’l senso s’inganna di lontano;
  • però alquanto più te stesso pungi».
  • Poi caramente mi prese per mano
  • e disse: «Pria che noi siam più avanti,
  • acciò che ’l fatto men ti paia strano,
  • sappi che non son torri, ma giganti,
  • e son nel pozzo intorno da la ripa
  • da l’umbilico in giuso tutti quanti».
  • Come quando la nebbia si dissipa,
  • lo sguardo a poco a poco raffigura
  • ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
  • così forando l’aura grossa e scura,
  • più e più appressando ver’ la sponda,
  • fuggiemi errore e cresciemi paura;
  • però che, come su la cerchia tonda
  • Montereggion di torri si corona,
  • così la proda che ’l pozzo circonda
  • torreggiavan di mezza la persona
  • li orribili giganti, cui minaccia
  • Giove del cielo ancora quando tuona.
  • E io scorgeva già d’alcun la faccia,
  • le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
  • e per le coste giù ambo le braccia.
  • Natura certo, quando lasciò l’arte
  • di sì fatti animali, assai fé bene
  • per tòrre tali essecutori a Marte.
  • E s’ella d’elefanti e di balene
  • non si pente, chi guarda sottilmente,
  • più giusta e più discreta la ne tene;
  • ché dove l’argomento de la mente
  • s’aggiugne al mal volere e a la possa,
  • nessun riparo vi può far la gente.
  • La faccia sua mi parea lunga e grossa
  • come la pina di San Pietro a Roma,
  • e a sua proporzione eran l’altre ossa;
  • sì che la ripa, ch’era perizoma
  • dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
  • di sovra, che di giugnere a la chioma
  • tre Frison s’averien dato mal vanto;
  • però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
  • dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.
  • «Raphèl maì amècche zabì almi»,
  • cominciò a gridar la fiera bocca,
  • cui non si convenia più dolci salmi.
  • E ’l duca mio ver’ lui: «Anima sciocca,
  • tienti col corno, e con quel ti disfoga
  • quand’ ira o altra passïon ti tocca!
  • Cércati al collo, e troverai la soga
  • che ’l tien legato, o anima confusa,
  • e vedi lui che ’l gran petto ti doga».
  • Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
  • questi è Nembrotto per lo cui mal coto
  • pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
  • Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
  • ché così è a lui ciascun linguaggio
  • come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto».
  • Facemmo adunque più lungo vïaggio,
  • vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
  • trovammo l’altro assai più fero e maggio.
  • A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
  • non so io dir, ma el tenea soccinto
  • dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
  • d’una catena che ’l tenea avvinto
  • dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
  • si ravvolgëa infino al giro quinto.
  • «Questo superbo volle esser esperto
  • di sua potenza contra ’l sommo Giove»,
  • disse ’l mio duca, «ond’ elli ha cotal merto.
  • Fïalte ha nome, e fece le gran prove
  • quando i giganti fer paura a’ dèi;
  • le braccia ch’el menò, già mai non move».
  • E io a lui: «S’esser puote, io vorrei
  • che de lo smisurato Brïareo
  • esperïenza avesser li occhi mei».
  • Ond’ ei rispuose: «Tu vedrai Anteo
  • presso di qui che parla ed è disciolto,
  • che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
  • Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
  • ed è legato e fatto come questo,
  • salvo che più feroce par nel volto».
  • Non fu tremoto già tanto rubesto,
  • che scotesse una torre così forte,
  • come Fïalte a scuotersi fu presto.
  • Allor temett’ io più che mai la morte,
  • e non v’era mestier più che la dotta,
  • s’io non avessi viste le ritorte.
  • Noi procedemmo più avante allotta,
  • e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
  • sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
  • «O tu che ne la fortunata valle
  • che fece Scipïon di gloria reda,
  • quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,
  • recasti già mille leon per preda,
  • e che, se fossi stato a l’alta guerra
  • de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
  • ch’avrebber vinto i figli de la terra:
  • mettine giù, e non ten vegna schifo,
  • dove Cocito la freddura serra.
  • Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
  • questi può dar di quel che qui si brama;
  • però ti china e non torcer lo grifo.
  • Ancor ti può nel mondo render fama,
  • ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
  • se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
  • Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
  • le man distese, e prese ’l duca mio,
  • ond’ Ercule sentì già grande stretta.
  • Virgilio, quando prender si sentio,
  • disse a me: «Fatti qua, sì ch’io ti prenda»;
  • poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
  • Qual pare a riguardar la Carisenda
  • sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
  • sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:
  • tal parve Antëo a me che stava a bada
  • di vederlo chinare, e fu tal ora
  • ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
  • Ma lievemente al fondo che divora
  • Lucifero con Giuda, ci sposò;
  • né, sì chinato, lì fece dimora,
  • e come albero in nave si levò.
  • Inferno • Canto XXXII
  • S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
  • come si converrebbe al tristo buco
  • sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
  • io premerei di mio concetto il suco
  • più pienamente; ma perch’ io non l’abbo,
  • non sanza tema a dicer mi conduco;
  • ché non è impresa da pigliare a gabbo
  • discriver fondo a tutto l’universo,
  • né da lingua che chiami mamma o babbo.
  • Ma quelle donne aiutino il mio verso
  • ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
  • sì che dal fatto il dir non sia diverso.
  • Oh sovra tutte mal creata plebe
  • che stai nel loco onde parlare è duro,
  • mei foste state qui pecore o zebe!
  • Come noi fummo giù nel pozzo scuro
  • sotto i piè del gigante assai più bassi,
  • e io mirava ancora a l’alto muro,
  • dicere udi’mi: «Guarda come passi:
  • va sì, che tu non calchi con le piante
  • le teste de’ fratei miseri lassi».
  • Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
  • e sotto i piedi un lago che per gelo
  • avea di vetro e non d’acqua sembiante.
  • Non fece al corso suo sì grosso velo
  • di verno la Danoia in Osterlicchi,
  • né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
  • com’ era quivi; che se Tambernicchi
  • vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
  • non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
  • E come a gracidar si sta la rana
  • col muso fuor de l’acqua, quando sogna
  • di spigolar sovente la villana,
  • livide, insin là dove appar vergogna
  • eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
  • mettendo i denti in nota di cicogna.
  • Ognuna in giù tenea volta la faccia;
  • da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
  • tra lor testimonianza si procaccia.
  • Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto,
  • volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
  • che ’l pel del capo avieno insieme misto.
  • «Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
  • diss’ io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
  • e poi ch’ebber li visi a me eretti,
  • li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
  • gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
  • le lagrime tra essi e riserrolli.
  • Con legno legno spranga mai non cinse
  • forte così; ond’ ei come due becchi
  • cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
  • E un ch’avea perduti ambo li orecchi
  • per la freddura, pur col viso in giùe,
  • disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
  • Se vuoi saper chi son cotesti due,
  • la valle onde Bisenzo si dichina
  • del padre loro Alberto e di lor fue.
  • D’un corpo usciro; e tutta la Caina
  • potrai cercare, e non troverai ombra
  • degna più d’esser fitta in gelatina:
  • non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
  • con esso un colpo per la man d’Artù;
  • non Focaccia; non questi che m’ingombra
  • col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
  • e fu nomato Sassol Mascheroni;
  • se tosco se’, ben sai omai chi fu.
  • E perché non mi metti in più sermoni,
  • sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
  • e aspetto Carlin che mi scagioni».
  • Poscia vid’ io mille visi cagnazzi
  • fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
  • e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
  • E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
  • al quale ogne gravezza si rauna,
  • e io tremava ne l’etterno rezzo;
  • se voler fu o destino o fortuna,
  • non so; ma, passeggiando tra le teste,
  • forte percossi ’l piè nel viso ad una.
  • Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
  • se tu non vieni a crescer la vendetta
  • di Montaperti, perché mi moleste?».
  • E io: «Maestro mio, or qui m’aspetta,
  • sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
  • poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
  • Lo duca stette, e io dissi a colui
  • che bestemmiava duramente ancora:
  • «Qual se’ tu che così rampogni altrui?».
  • «Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
  • percotendo», rispuose, «altrui le gote,
  • sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
  • «Vivo son io, e caro esser ti puote»,
  • fu mia risposta, «se dimandi fama,
  • ch’io metta il nome tuo tra l’altre note».
  • Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
  • Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
  • ché mal sai lusingar per questa lama!».
  • Allor lo presi per la cuticagna
  • e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
  • o che capel qui sù non ti rimagna».
  • Ond’ elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
  • né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti,
  • se mille fiate in sul capo mi tomi».
  • Io avea già i capelli in mano avvolti,
  • e tratti glien’ avea più d’una ciocca,
  • latrando lui con li occhi in giù raccolti,
  • quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
  • non ti basta sonar con le mascelle,
  • se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
  • «Omai», diss’ io, «non vo’ che più favelle,
  • malvagio traditor; ch’a la tua onta
  • io porterò di te vere novelle».
  • «Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
  • ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
  • di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
  • El piange qui l’argento de’ Franceschi:
  • “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
  • là dove i peccatori stanno freschi”.
  • Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,
  • tu hai dallato quel di Beccheria
  • di cui segò Fiorenza la gorgiera.
  • Gianni de’ Soldanier credo che sia
  • più là con Ganellone e Tebaldello,
  • ch’aprì Faenza quando si dormia».
  • Noi eravam partiti già da ello,
  • ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
  • sì che l’un capo a l’altro era cappello;
  • e come ’l pan per fame si manduca,
  • così ’l sovran li denti a l’altro pose
  • là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
  • non altrimenti Tidëo si rose
  • le tempie a Menalippo per disdegno,
  • che quei faceva il teschio e l’altre cose.
  • «O tu che mostri per sì bestial segno
  • odio sovra colui che tu ti mangi,
  • dimmi ’l perché», diss’ io, «per tal convegno,
  • che se tu a ragion di lui ti piangi,
  • sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
  • nel mondo suso ancora io te ne cangi,
  • se quella con ch’io parlo non si secca».
  • Inferno • Canto XXXIII
  • La bocca sollevò dal fiero pasto
  • quel peccator, forbendola a’ capelli
  • del capo ch’elli avea di retro guasto.
  • Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
  • disperato dolor che ’l cor mi preme
  • già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
  • Ma se le mie parole esser dien seme
  • che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
  • parlar e lagrimar vedrai insieme.
  • Io non so chi tu se’ né per che modo
  • venuto se’ qua giù; ma fiorentino
  • mi sembri veramente quand’ io t’odo.
  • Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
  • e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
  • or ti dirò perché i son tal vicino.
  • Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
  • fidandomi di lui, io fossi preso
  • e poscia morto, dir non è mestieri;
  • però quel che non puoi avere inteso,
  • cioè come la morte mia fu cruda,
  • udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
  • Breve pertugio dentro da la Muda,
  • la qual per me ha ’l titol de la fame,
  • e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
  • m’avea mostrato per lo suo forame
  • più lune già, quand’ io feci ’l mal sonno
  • che del futuro mi squarciò ’l velame.
  • Questi pareva a me maestro e donno,
  • cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
  • per che i Pisan veder Lucca non ponno.
  • Con cagne magre, studïose e conte
  • Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
  • s’avea messi dinanzi da la fronte.
  • In picciol corso mi parieno stanchi
  • lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
  • mi parea lor veder fender li fianchi.
  • Quando fui desto innanzi la dimane,
  • pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
  • ch’eran con meco, e dimandar del pane.
  • Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
  • pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
  • e se non piangi, di che pianger suoli?
  • Già eran desti, e l’ora s’appressava
  • che ’l cibo ne solëa essere addotto,
  • e per suo sogno ciascun dubitava;
  • e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
  • a l’orribile torre; ond’ io guardai
  • nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
  • Io non piangëa, sì dentro impetrai:
  • piangevan elli; e Anselmuccio mio
  • disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
  • Perciò non lagrimai né rispuos’ io
  • tutto quel giorno né la notte appresso,
  • infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
  • Come un poco di raggio si fu messo
  • nel doloroso carcere, e io scorsi
  • per quattro visi il mio aspetto stesso,
  • ambo le man per lo dolor mi morsi;
  • ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
  • di manicar, di sùbito levorsi
  • e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
  • se tu mangi di noi: tu ne vestisti
  • queste misere carni, e tu le spoglia”.
  • Queta’mi allor per non farli più tristi;
  • lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
  • ahi dura terra, perché non t’apristi?
  • Poscia che fummo al quarto dì venuti,
  • Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
  • dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
  • Quivi morì; e come tu mi vedi,
  • vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
  • tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi,
  • già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
  • e due dì li chiamai, poi che fur morti.
  • Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».
  • Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti
  • riprese ’l teschio misero co’ denti,
  • che furo a l’osso, come d’un can, forti.
  • Ahi Pisa, vituperio de le genti
  • del bel paese là dove ’l sì suona,
  • poi che i vicini a te punir son lenti,
  • muovasi la Capraia e la Gorgona,
  • e faccian siepe ad Arno in su la foce,
  • sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
  • Che se ’l conte Ugolino aveva voce
  • d’aver tradita te de le castella,
  • non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
  • Innocenti facea l’età novella,
  • novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
  • e li altri due che ’l canto suso appella.
  • Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
  • ruvidamente un’altra gente fascia,
  • non volta in giù, ma tutta riversata.
  • Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
  • e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
  • si volge in entro a far crescer l’ambascia;
  • ché le lagrime prime fanno groppo,
  • e sì come visiere di cristallo,
  • rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
  • E avvegna che, sì come d’un callo,
  • per la freddura ciascun sentimento
  • cessato avesse del mio viso stallo,
  • già mi parea sentire alquanto vento;
  • per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
  • non è qua giù ogne vapore spento?».
  • Ond’ elli a me: «Avaccio sarai dove
  • di ciò ti farà l’occhio la risposta,
  • veggendo la cagion che ’l fiato piove».
  • E un de’ tristi de la fredda crosta
  • gridò a noi: «O anime crudeli
  • tanto che data v’è l’ultima posta,
  • levatemi dal viso i duri veli,
  • sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
  • un poco, pria che ’l pianto si raggeli».
  • Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
  • dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
  • al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
  • Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
  • i’ son quel da le frutta del mal orto,
  • che qui riprendo dattero per figo».
  • «Oh», diss’ io lui, «or se’ tu ancor morto?».
  • Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
  • nel mondo sù, nulla scïenza porto.
  • Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
  • che spesse volte l’anima ci cade
  • innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
  • E perché tu più volentier mi rade
  • le ’nvetrïate lagrime dal volto,
  • sappie che, tosto che l’anima trade
  • come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto
  • da un demonio, che poscia il governa
  • mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
  • Ella ruina in sì fatta cisterna;
  • e forse pare ancor lo corpo suso
  • de l’ombra che di qua dietro mi verna.
  • Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
  • elli è ser Branca Doria, e son più anni
  • poscia passati ch’el fu sì racchiuso».
  • «Io credo», diss’ io lui, «che tu m’inganni;
  • ché Branca Doria non morì unquanche,
  • e mangia e bee e dorme e veste panni».
  • «Nel fosso sù», diss’ el, «de’ Malebranche,
  • là dove bolle la tenace pece,
  • non era ancora giunto Michel Zanche,
  • che questi lasciò il diavolo in sua vece
  • nel corpo suo, ed un suo prossimano
  • che ’l tradimento insieme con lui fece.
  • Ma distendi oggimai in qua la mano;
  • aprimi li occhi». E io non gliel’ apersi;
  • e cortesia fu lui esser villano.
  • Ahi Genovesi, uomini diversi
  • d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
  • perché non siete voi del mondo spersi?
  • Ché col peggiore spirto di Romagna
  • trovai di voi un tal, che per sua opra
  • in anima in Cocito già si bagna,
  • e in corpo par vivo ancor di sopra.
  • Inferno • Canto XXXIV
  • «Vexilla regis prodeunt inferni
  • verso di noi; però dinanzi mira»,
  • disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».
  • Come quando una grossa nebbia spira,
  • o quando l’emisperio nostro annotta,
  • par di lungi un molin che ’l vento gira,
  • veder mi parve un tal dificio allotta;
  • poi per lo vento mi ristrinsi retro
  • al duca mio, ché non lì era altra grotta.
  • Già era, e con paura il metto in metro,
  • là dove l’ombre tutte eran coperte,
  • e trasparien come festuca in vetro.
  • Altre sono a giacere; altre stanno erte,
  • quella col capo e quella con le piante;
  • altra, com’ arco, il volto a’ piè rinverte.
  • Quando noi fummo fatti tanto avante,
  • ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
  • la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
  • d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
  • «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
  • ove convien che di fortezza t’armi».
  • Com’ io divenni allor gelato e fioco,
  • nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
  • però ch’ogne parlar sarebbe poco.
  • Io non mori’ e non rimasi vivo;
  • pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
  • qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
  • Lo ’mperador del doloroso regno
  • da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
  • e più con un gigante io mi convegno,
  • che i giganti non fan con le sue braccia:
  • vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto
  • ch’a così fatta parte si confaccia.
  • S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto,
  • e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
  • ben dee da lui procedere ogne lutto.
  • Oh quanto parve a me gran maraviglia
  • quand’ io vidi tre facce a la sua testa!
  • L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
  • l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa
  • sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
  • e sé giugnieno al loco de la cresta:
  • e la destra parea tra bianca e gialla;
  • la sinistra a vedere era tal, quali
  • vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
  • Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,
  • quanto si convenia a tanto uccello:
  • vele di mar non vid’ io mai cotali.
  • Non avean penne, ma di vispistrello
  • era lor modo; e quelle svolazzava,
  • sì che tre venti si movean da ello:
  • quindi Cocito tutto s’aggelava.
  • Con sei occhi piangëa, e per tre menti
  • gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
  • Da ogne bocca dirompea co’ denti
  • un peccatore, a guisa di maciulla,
  • sì che tre ne facea così dolenti.
  • A quel dinanzi il mordere era nulla
  • verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
  • rimanea de la pelle tutta brulla.
  • «Quell’ anima là sù c’ha maggior pena»,
  • disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
  • che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
  • De li altri due c’hanno il capo di sotto,
  • quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
  • vedi come si storce, e non fa motto!;
  • e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
  • Ma la notte risurge, e oramai
  • è da partir, ché tutto avem veduto».
  • Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai;
  • ed el prese di tempo e loco poste,
  • e quando l’ali fuoro aperte assai,
  • appigliò sé a le vellute coste;
  • di vello in vello giù discese poscia
  • tra ’l folto pelo e le gelate croste.
  • Quando noi fummo là dove la coscia
  • si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
  • lo duca, con fatica e con angoscia,
  • volse la testa ov’ elli avea le zanche,
  • e aggrappossi al pel com’ om che sale,
  • sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.
  • «Attienti ben, ché per cotali scale»,
  • disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso,
  • «conviensi dipartir da tanto male».
  • Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
  • e puose me in su l’orlo a sedere;
  • appresso porse a me l’accorto passo.
  • Io levai li occhi e credetti vedere
  • Lucifero com’ io l’avea lasciato,
  • e vidili le gambe in sù tenere;
  • e s’io divenni allora travagliato,
  • la gente grossa il pensi, che non vede
  • qual è quel punto ch’io avea passato.
  • «Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
  • la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
  • e già il sole a mezza terza riede».
  • Non era camminata di palagio
  • là ’v’ eravam, ma natural burella
  • ch’avea mal suolo e di lume disagio.
  • «Prima ch’io de l’abisso mi divella,
  • maestro mio», diss’ io quando fui dritto,
  • «a trarmi d’erro un poco mi favella:
  • ov’ è la ghiaccia? e questi com’ è fitto
  • sì sottosopra? e come, in sì poc’ ora,
  • da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
  • Ed elli a me: «Tu imagini ancora
  • d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi
  • al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
  • Di là fosti cotanto quant’ io scesi;
  • quand’ io mi volsi, tu passasti ’l punto
  • al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
  • E se’ or sotto l’emisperio giunto
  • ch’è contraposto a quel che la gran secca
  • coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
  • fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
  • tu haï i piedi in su picciola spera
  • che l’altra faccia fa de la Giudecca.
  • Qui è da man, quando di là è sera;
  • e questi, che ne fé scala col pelo,
  • fitto è ancora sì come prim’ era.
  • Da questa parte cadde giù dal cielo;
  • e la terra, che pria di qua si sporse,
  • per paura di lui fé del mar velo,
  • e venne a l’emisperio nostro; e forse
  • per fuggir lui lasciò qui loco vòto
  • quella ch’appar di qua, e sù ricorse».
  • Luogo è là giù da Belzebù remoto
  • tanto quanto la tomba si distende,
  • che non per vista, ma per suono è noto
  • d’un ruscelletto che quivi discende
  • per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
  • col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
  • Lo duca e io per quel cammino ascoso
  • intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
  • e sanza cura aver d’alcun riposo,
  • salimmo sù, el primo e io secondo,
  • tanto ch’i’ vidi de le cose belle
  • che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
  • E quindi uscimmo a riveder le stelle.
  • PURGATORIO
  • Purgatorio • Canto I
  • Per correr miglior acque alza le vele
  • omai la navicella del mio ingegno,
  • che lascia dietro a sé mar sì crudele;
  • e canterò di quel secondo regno
  • dove l’umano spirito si purga
  • e di salire al ciel diventa degno.
  • Ma qui la morta poesì resurga,
  • o sante Muse, poi che vostro sono;
  • e qui Calïopè alquanto surga,
  • seguitando il mio canto con quel suono
  • di cui le Piche misere sentiro
  • lo colpo tal, che disperar perdono.
  • Dolce color d’orïental zaffiro,
  • che s’accoglieva nel sereno aspetto
  • del mezzo, puro infino al primo giro,
  • a li occhi miei ricominciò diletto,
  • tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
  • che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
  • Lo bel pianeto che d’amar conforta
  • faceva tutto rider l’orïente,
  • velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
  • I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
  • a l’altro polo, e vidi quattro stelle
  • non viste mai fuor ch’a la prima gente.
  • Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
  • oh settentrïonal vedovo sito,
  • poi che privato se’ di mirar quelle!
  • Com’ io da loro sguardo fui partito,
  • un poco me volgendo a l ’altro polo,
  • là onde ’l Carro già era sparito,
  • vidi presso di me un veglio solo,
  • degno di tanta reverenza in vista,
  • che più non dee a padre alcun figliuolo.
  • Lunga la barba e di pel bianco mista
  • portava, a’ suoi capelli simigliante,
  • de’ quai cadeva al petto doppia lista.
  • Li raggi de le quattro luci sante
  • fregiavan sì la sua faccia di lume,
  • ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
  • «Chi siete voi che contro al cieco fiume
  • fuggita avete la pregione etterna?»,
  • diss’ el, movendo quelle oneste piume.
  • «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
  • uscendo fuor de la profonda notte
  • che sempre nera fa la valle inferna?
  • Son le leggi d’abisso così rotte?
  • o è mutato in ciel novo consiglio,
  • che, dannati, venite a le mie grotte?».
  • Lo duca mio allor mi diè di piglio,
  • e con parole e con mani e con cenni
  • reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
  • Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
  • donna scese del ciel, per li cui prieghi
  • de la mia compagnia costui sovvenni.
  • Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
  • di nostra condizion com’ ell’ è vera,
  • esser non puote il mio che a te si nieghi.
  • Questi non vide mai l’ultima sera;
  • ma per la sua follia le fu sì presso,
  • che molto poco tempo a volger era.
  • Sì com’ io dissi, fui mandato ad esso
  • per lui campare; e non lì era altra via
  • che questa per la quale i’ mi son messo.
  • Mostrata ho lui tutta la gente ria;
  • e ora intendo mostrar quelli spirti
  • che purgan sé sotto la tua balìa.
  • Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
  • de l’alto scende virtù che m’aiuta
  • conducerlo a vederti e a udirti.
  • Or ti piaccia gradir la sua venuta:
  • libertà va cercando, ch’è sì cara,
  • come sa chi per lei vita rifiuta.
  • Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
  • in Utica la morte, ove lasciasti
  • la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
  • Non son li editti etterni per noi guasti,
  • ché questi vive e Minòs me non lega;
  • ma son del cerchio ove son li occhi casti
  • di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
  • o santo petto, che per tua la tegni:
  • per lo suo amore adunque a noi ti piega.
  • Lasciane andar per li tuoi sette regni;
  • grazie riporterò di te a lei,
  • se d’esser mentovato là giù degni».
  • «Marzïa piacque tanto a li occhi miei
  • mentre ch’i’ fu’ di là», diss’ elli allora,
  • «che quante grazie volse da me, fei.
  • Or che di là dal mal fiume dimora,
  • più muover non mi può, per quella legge
  • che fatta fu quando me n’usci’ fora.
  • Ma se donna del ciel ti move e regge,
  • come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
  • bastisi ben che per lei mi richegge.
  • Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
  • d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
  • sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
  • ché non si converria, l’occhio sorpriso
  • d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
  • ministro, ch’è di quei di paradiso.
  • Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
  • là giù colà dove la batte l’onda,
  • porta di giunchi sovra ’l molle limo:
  • null’ altra pianta che facesse fronda
  • o indurasse, vi puote aver vita,
  • però ch’a le percosse non seconda.
  • Poscia non sia di qua vostra reddita;
  • lo sol vi mosterrà, che surge omai,
  • prendere il monte a più lieve salita».
  • Così sparì; e io sù mi levai
  • sanza parlare, e tutto mi ritrassi
  • al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
  • El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
  • volgianci in dietro, ché di qua dichina
  • questa pianura a’ suoi termini bassi».
  • L’alba vinceva l’ora mattutina
  • che fuggia innanzi, sì che di lontano
  • conobbi il tremolar de la marina.
  • Noi andavam per lo solingo piano
  • com’ om che torna a la perduta strada,
  • che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
  • Quando noi fummo là ’ve la rugiada
  • pugna col sole, per essere in parte
  • dove, ad orezza, poco si dirada,
  • ambo le mani in su l’erbetta sparte
  • soavemente ’l mio maestro pose:
  • ond’ io, che fui accorto di sua arte,
  • porsi ver’ lui le guance lagrimose;
  • ivi mi fece tutto discoverto
  • quel color che l’inferno mi nascose.
  • Venimmo poi in sul lito diserto,
  • che mai non vide navicar sue acque
  • omo, che di tornar sia poscia esperto.
  • Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:
  • oh maraviglia! ché qual elli scelse
  • l’umile pianta, cotal si rinacque
  • subitamente là onde l’avelse.
  • Purgatorio • Canto II
  • Già era ’l sole a l’orizzonte giunto
  • lo cui meridïan cerchio coverchia
  • Ierusalèm col suo più alto punto;
  • e la notte, che opposita a lui cerchia,
  • uscia di Gange fuor con le Bilance,
  • che le caggion di man quando soverchia;
  • sì che le bianche e le vermiglie guance,
  • là dov’ i’ era, de la bella Aurora
  • per troppa etate divenivan rance.
  • Noi eravam lunghesso mare ancora,
  • come gente che pensa a suo cammino,
  • che va col cuore e col corpo dimora.
  • Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
  • per li grossi vapor Marte rosseggia
  • giù nel ponente sovra ’l suol marino,
  • cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
  • un lume per lo mar venir sì ratto,
  • che ’l muover suo nessun volar pareggia.
  • Dal qual com’ io un poco ebbi ritratto
  • l’occhio per domandar lo duca mio,
  • rividil più lucente e maggior fatto.
  • Poi d’ogne lato ad esso m’appario
  • un non sapeva che bianco, e di sotto
  • a poco a poco un altro a lui uscìo.
  • Lo mio maestro ancor non facea motto,
  • mentre che i primi bianchi apparver ali;
  • allor che ben conobbe il galeotto,
  • gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
  • Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
  • omai vedrai di sì fatti officiali.
  • Vedi che sdegna li argomenti umani,
  • sì che remo non vuol, né altro velo
  • che l’ali sue, tra liti sì lontani.
  • Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,
  • trattando l’aere con l’etterne penne,
  • che non si mutan come mortal pelo».
  • Poi, come più e più verso noi venne
  • l’uccel divino, più chiaro appariva:
  • per che l’occhio da presso nol sostenne,
  • ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
  • con un vasello snelletto e leggero,
  • tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.
  • Da poppa stava il celestial nocchiero,
  • tal che faria beato pur descripto;
  • e più di cento spirti entro sediero.
  • ‘In exitu Isräel de Aegypto’
  • cantavan tutti insieme ad una voce
  • con quanto di quel salmo è poscia scripto.
  • Poi fece il segno lor di santa croce;
  • ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia:
  • ed el sen gì, come venne, veloce.
  • La turba che rimase lì, selvaggia
  • parea del loco, rimirando intorno
  • come colui che nove cose assaggia.
  • Da tutte parti saettava il giorno
  • lo sol, ch’avea con le saette conte
  • di mezzo ’l ciel cacciato Capricorno,
  • quando la nova gente alzò la fronte
  • ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
  • mostratene la via di gire al monte».
  • E Virgilio rispuose: «Voi credete
  • forse che siamo esperti d’esto loco;
  • ma noi siam peregrin come voi siete.
  • Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
  • per altra via, che fu sì aspra e forte,
  • che lo salire omai ne parrà gioco».
  • L’anime, che si fuor di me accorte,
  • per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
  • maravigliando diventaro smorte.
  • E come a messagger che porta ulivo
  • tragge la gente per udir novelle,
  • e di calcar nessun si mostra schivo,
  • così al viso mio s’affisar quelle
  • anime fortunate tutte quante,
  • quasi oblïando d’ire a farsi belle.
  • Io vidi una di lor trarresi avante
  • per abbracciarmi con sì grande affetto,
  • che mosse me a far lo somigliante.
  • Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
  • tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
  • e tante mi tornai con esse al petto.
  • Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
  • per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
  • e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
  • Soavemente disse ch’io posasse;
  • allor conobbi chi era, e pregai
  • che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
  • Rispuosemi: «Così com’ io t’amai
  • nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
  • però m’arresto; ma tu perché vai?».
  • «Casella mio, per tornar altra volta
  • là dov’ io son, fo io questo vïaggio»,
  • diss’ io; «ma a te com’ è tanta ora tolta?».
  • Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
  • se quei che leva quando e cui li piace,
  • più volte m’ha negato esto passaggio;
  • ché di giusto voler lo suo si face:
  • veramente da tre mesi elli ha tolto
  • chi ha voluto intrar, con tutta pace.
  • Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto
  • dove l’acqua di Tevero s’insala,
  • benignamente fu’ da lui ricolto.
  • A quella foce ha elli or dritta l’ala,
  • però che sempre quivi si ricoglie
  • qual verso Acheronte non si cala».
  • E io: «Se nuova legge non ti toglie
  • memoria o uso a l’amoroso canto
  • che mi solea quetar tutte mie doglie,
  • di ciò ti piaccia consolare alquanto
  • l’anima mia, che, con la sua persona
  • venendo qui, è affannata tanto!».
  • ‘Amor che ne la mente mi ragiona’
  • cominciò elli allor sì dolcemente,
  • che la dolcezza ancor dentro mi suona.
  • Lo mio maestro e io e quella gente
  • ch’eran con lui parevan sì contenti,
  • come a nessun toccasse altro la mente.
  • Noi eravam tutti fissi e attenti
  • a le sue note; ed ecco il veglio onesto
  • gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
  • qual negligenza, quale stare è questo?
  • Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
  • ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
  • Come quando, cogliendo biado o loglio,
  • li colombi adunati a la pastura,
  • queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,
  • se cosa appare ond’ elli abbian paura,
  • subitamente lasciano star l’esca,
  • perch’ assaliti son da maggior cura;
  • così vid’ io quella masnada fresca
  • lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
  • com’ om che va, né sa dove rïesca;
  • né la nostra partita fu men tosta.
  • Purgatorio • Canto III
  • Avvegna che la subitana fuga
  • dispergesse color per la campagna,
  • rivolti al monte ove ragion ne fruga,
  • i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
  • e come sare’ io sanza lui corso?
  • chi m’avria tratto su per la montagna?
  • El mi parea da sé stesso rimorso:
  • o dignitosa coscïenza e netta,
  • come t’è picciol fallo amaro morso!
  • Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
  • che l’onestade ad ogn’ atto dismaga,
  • la mente mia, che prima era ristretta,
  • lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
  • e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
  • che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.
  • Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
  • rotto m’era dinanzi a la figura,
  • ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.
  • Io mi volsi dallato con paura
  • d’essere abbandonato, quand’ io vidi
  • solo dinanzi a me la terra oscura;
  • e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
  • a dir mi cominciò tutto rivolto;
  • «non credi tu me teco e ch’io ti guidi?
  • Vespero è già colà dov’ è sepolto
  • lo corpo dentro al quale io facea ombra;
  • Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.
  • Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
  • non ti maravigliar più che d’i cieli
  • che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
  • A sofferir tormenti, caldi e geli
  • simili corpi la Virtù dispone
  • che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
  • Matto è chi spera che nostra ragione
  • possa trascorrer la infinita via
  • che tiene una sustanza in tre persone.
  • State contenti, umana gente, al quia;
  • ché, se potuto aveste veder tutto,
  • mestier non era parturir Maria;
  • e disïar vedeste sanza frutto
  • tai che sarebbe lor disio quetato,
  • ch’etternalmente è dato lor per lutto:
  • io dico d’Aristotile e di Plato
  • e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte,
  • e più non disse, e rimase turbato.
  • Noi divenimmo intanto a piè del monte;
  • quivi trovammo la roccia sì erta,
  • che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
  • Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
  • la più rotta ruina è una scala,
  • verso di quella, agevole e aperta.
  • «Or chi sa da qual man la costa cala»,
  • disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
  • «sì che possa salir chi va sanz’ ala?».
  • E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
  • essaminava del cammin la mente,
  • e io mirava suso intorno al sasso,
  • da man sinistra m’apparì una gente
  • d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
  • e non pareva, sì venïan lente.
  • «Leva», diss’ io, «maestro, li occhi tuoi:
  • ecco di qua chi ne darà consiglio,
  • se tu da te medesmo aver nol puoi».
  • Guardò allora, e con libero piglio
  • rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
  • e tu ferma la spene, dolce figlio».
  • Ancora era quel popol di lontano,
  • i’ dico dopo i nostri mille passi,
  • quanto un buon gittator trarria con mano,
  • quando si strinser tutti ai duri massi
  • de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
  • com’ a guardar, chi va dubbiando, stassi.
  • «O ben finiti, o già spiriti eletti»,
  • Virgilio incominciò, «per quella pace
  • ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
  • ditene dove la montagna giace,
  • sì che possibil sia l’andare in suso;
  • ché perder tempo a chi più sa più spiace».
  • Come le pecorelle escon del chiuso
  • a una, a due, a tre, e l’altre stanno
  • timidette atterrando l’occhio e ’l muso;
  • e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
  • addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
  • semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;
  • sì vid’ io muovere a venir la testa
  • di quella mandra fortunata allotta,
  • pudica in faccia e ne l’andare onesta.
  • Come color dinanzi vider rotta
  • la luce in terra dal mio destro canto,
  • sì che l’ombra era da me a la grotta,
  • restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
  • e tutti li altri che venieno appresso,
  • non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.
  • «Sanza vostra domanda io vi confesso
  • che questo è corpo uman che voi vedete;
  • per che ’l lume del sole in terra è fesso.
  • Non vi maravigliate, ma credete
  • che non sanza virtù che da ciel vegna
  • cerchi di soverchiar questa parete».
  • Così ’l maestro; e quella gente degna
  • «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
  • coi dossi de le man faccendo insegna.
  • E un di loro incominciò: «Chiunque
  • tu se’, così andando, volgi ’l viso:
  • pon mente se di là mi vedesti unque».
  • Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
  • biondo era e bello e di gentile aspetto,
  • ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
  • Quand’ io mi fui umilmente disdetto
  • d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
  • e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
  • Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
  • nepote di Costanza imperadrice;
  • ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
  • vadi a mia bella figlia, genitrice
  • de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
  • e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
  • Poscia ch’io ebbi rotta la persona
  • di due punte mortali, io mi rendei,
  • piangendo, a quei che volontier perdona.
  • Orribil furon li peccati miei;
  • ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
  • che prende ciò che si rivolge a lei.
  • Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
  • di me fu messo per Clemente allora,
  • avesse in Dio ben letta questa faccia,
  • l’ossa del corpo mio sarieno ancora
  • in co del ponte presso a Benevento,
  • sotto la guardia de la grave mora.
  • Or le bagna la pioggia e move il vento
  • di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
  • dov’ e’ le trasmutò a lume spento.
  • Per lor maladizion sì non si perde,
  • che non possa tornar, l’etterno amore,
  • mentre che la speranza ha fior del verde.
  • Vero è che quale in contumacia more
  • di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
  • star li convien da questa ripa in fore,
  • per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
  • in sua presunzïon, se tal decreto
  • più corto per buon prieghi non diventa.
  • Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
  • revelando a la mia buona Costanza
  • come m’hai visto, e anco esto divieto;
  • ché qui per quei di là molto s’avanza».
  • Purgatorio • Canto IV
  • Quando per dilettanze o ver per doglie,
  • che alcuna virtù nostra comprenda,
  • l’anima bene ad essa si raccoglie,
  • par ch’a nulla potenza più intenda;
  • e questo è contra quello error che crede
  • ch’un’anima sovr’ altra in noi s’accenda.
  • E però, quando s’ode cosa o vede
  • che tegna forte a sé l’anima volta,
  • vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede;
  • ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
  • e altra è quella c’ha l’anima intera:
  • questa è quasi legata e quella è sciolta.
  • Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
  • udendo quello spirto e ammirando;
  • ché ben cinquanta gradi salito era
  • lo sole, e io non m’era accorto, quando
  • venimmo ove quell’ anime ad una
  • gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».
  • Maggiore aperta molte volte impruna
  • con una forcatella di sue spine
  • l’uom de la villa quando l’uva imbruna,
  • che non era la calla onde salìne
  • lo duca mio, e io appresso, soli,
  • come da noi la schiera si partìne.
  • Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
  • montasi su in Bismantova e ’n Cacume
  • con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
  • dico con l’ale snelle e con le piume
  • del gran disio, di retro a quel condotto
  • che speranza mi dava e facea lume.
  • Noi salavam per entro ’l sasso rotto,
  • e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
  • e piedi e man volea il suol di sotto.
  • Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
  • de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
  • «Maestro mio», diss’ io, «che via faremo?».
  • Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
  • pur su al monte dietro a me acquista,
  • fin che n’appaia alcuna scorta saggia».
  • Lo sommo er’ alto che vincea la vista,
  • e la costa superba più assai
  • che da mezzo quadrante a centro lista.
  • Io era lasso, quando cominciai:
  • «O dolce padre, volgiti, e rimira
  • com’ io rimango sol, se non restai».
  • «Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
  • additandomi un balzo poco in sùe
  • che da quel lato il poggio tutto gira.
  • Sì mi spronaron le parole sue,
  • ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
  • tanto che ’l cinghio sotto i piè mi fue.
  • A seder ci ponemmo ivi ambedui
  • vòlti a levante ond’ eravam saliti,
  • che suole a riguardar giovare altrui.
  • Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
  • poscia li alzai al sole, e ammirava
  • che da sinistra n’eravam feriti.
  • Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
  • stupido tutto al carro de la luce,
  • ove tra noi e Aquilone intrava.
  • Ond’ elli a me: «Se Castore e Poluce
  • fossero in compagnia di quello specchio
  • che sù e giù del suo lume conduce,
  • tu vedresti il Zodïaco rubecchio
  • ancora a l’Orse più stretto rotare,
  • se non uscisse fuor del cammin vecchio.
  • Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
  • dentro raccolto, imagina Sïòn
  • con questo monte in su la terra stare
  • sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
  • e diversi emisperi; onde la strada
  • che mal non seppe carreggiar Fetòn,
  • vedrai come a costui convien che vada
  • da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
  • se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada».
  • «Certo, maestro mio,» diss’ io, «unquanco
  • non vid’ io chiaro sì com’ io discerno
  • là dove mio ingegno parea manco,
  • che ’l mezzo cerchio del moto superno,
  • che si chiama Equatore in alcun’ arte,
  • e che sempre riman tra ’l sole e ’l verno,
  • per la ragion che di’, quinci si parte
  • verso settentrïon, quanto li Ebrei
  • vedevan lui verso la calda parte.
  • Ma se a te piace, volontier saprei
  • quanto avemo ad andar; ché ’l poggio sale
  • più che salir non posson li occhi miei».
  • Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
  • che sempre al cominciar di sotto è grave;
  • e quant’ om più va sù, e men fa male.
  • Però, quand’ ella ti parrà soave
  • tanto, che sù andar ti fia leggero
  • com’ a seconda giù andar per nave,
  • allor sarai al fin d’esto sentiero;
  • quivi di riposar l’affanno aspetta.
  • Più non rispondo, e questo so per vero».
  • E com’ elli ebbe sua parola detta,
  • una voce di presso sonò: «Forse
  • che di sedere in pria avrai distretta!».
  • Al suon di lei ciascun di noi si torse,
  • e vedemmo a mancina un gran petrone,
  • del qual né io né ei prima s’accorse.
  • Là ci traemmo; e ivi eran persone
  • che si stavano a l’ombra dietro al sasso
  • come l’uom per negghienza a star si pone.
  • E un di lor, che mi sembiava lasso,
  • sedeva e abbracciava le ginocchia,
  • tenendo ’l viso giù tra esse basso.
  • «O dolce segnor mio», diss’ io, «adocchia
  • colui che mostra sé più negligente
  • che se pigrizia fosse sua serocchia».
  • Allor si volse a noi e puose mente,
  • movendo ’l viso pur su per la coscia,
  • e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!».
  • Conobbi allor chi era, e quella angoscia
  • che m’avacciava un poco ancor la lena,
  • non m’impedì l’andare a lui; e poscia
  • ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
  • dicendo: «Hai ben veduto come ’l sole
  • da l’omero sinistro il carro mena?».
  • Li atti suoi pigri e le corte parole
  • mosser le labbra mie un poco a riso;
  • poi cominciai: «Belacqua, a me non dole
  • di te omai; ma dimmi: perché assiso
  • quiritto se’? attendi tu iscorta,
  • o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?».
  • Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
  • ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
  • l’angel di Dio che siede in su la porta.
  • Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
  • di fuor da essa, quanto fece in vita,
  • per ch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri,
  • se orazïone in prima non m’aita
  • che surga sù di cuor che in grazia viva;
  • l’altra che val, che ’n ciel non è udita?».
  • E già il poeta innanzi mi saliva,
  • e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è tocco
  • meridïan dal sole e a la riva
  • cuopre la notte già col piè Morrocco».
  • Purgatorio • Canto V
  • Io era già da quell’ ombre partito,
  • e seguitava l’orme del mio duca,
  • quando di retro a me, drizzando ’l dito,
  • una gridò: «Ve’ che non par che luca
  • lo raggio da sinistra a quel di sotto,
  • e come vivo par che si conduca!».
  • Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
  • e vidile guardar per maraviglia
  • pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.
  • «Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
  • disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
  • che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
  • Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
  • sta come torre ferma, che non crolla
  • già mai la cima per soffiar di venti;
  • ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
  • sovra pensier, da sé dilunga il segno,
  • perché la foga l’un de l’altro insolla».
  • Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
  • Dissilo, alquanto del color consperso
  • che fa l’uom di perdon talvolta degno.
  • E ’ntanto per la costa di traverso
  • venivan genti innanzi a noi un poco,
  • cantando ‘Miserere’ a verso a verso.
  • Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
  • per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
  • mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
  • e due di loro, in forma di messaggi,
  • corsero incontr’ a noi e dimandarne:
  • «Di vostra condizion fatene saggi».
  • E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
  • e ritrarre a color che vi mandaro
  • che ’l corpo di costui è vera carne.
  • Se per veder la sua ombra restaro,
  • com’ io avviso, assai è lor risposto:
  • fàccianli onore, ed esser può lor caro».
  • Vapori accesi non vid’ io sì tosto
  • di prima notte mai fender sereno,
  • né, sol calando, nuvole d’agosto,
  • che color non tornasser suso in meno;
  • e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
  • come schiera che scorre sanza freno.
  • «Questa gente che preme a noi è molta,
  • e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
  • «però pur va, e in andando ascolta».
  • «O anima che vai per esser lieta
  • con quelle membra con le quai nascesti»,
  • venian gridando, «un poco il passo queta.
  • Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
  • sì che di lui di là novella porti:
  • deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
  • Noi fummo tutti già per forza morti,
  • e peccatori infino a l’ultima ora;
  • quivi lume del ciel ne fece accorti,
  • sì che, pentendo e perdonando, fora
  • di vita uscimmo a Dio pacificati,
  • che del disio di sé veder n’accora».
  • E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
  • non riconosco alcun; ma s’a voi piace
  • cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
  • voi dite, e io farò per quella pace
  • che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
  • di mondo in mondo cercar mi si face».
  • E uno incominciò: «Ciascun si fida
  • del beneficio tuo sanza giurarlo,
  • pur che ’l voler nonpossa non ricida.
  • Ond’ io, che solo innanzi a li altri parlo,
  • ti priego, se mai vedi quel paese
  • che siede tra Romagna e quel di Carlo,
  • che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
  • in Fano, sì che ben per me s’adori
  • pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.
  • Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
  • ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
  • fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
  • là dov’ io più sicuro esser credea:
  • quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
  • assai più là che dritto non volea.
  • Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
  • quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
  • ancor sarei di là dove si spira.
  • Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
  • m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’ io
  • de le mie vene farsi in terra laco».
  • Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
  • si compia che ti tragge a l’alto monte,
  • con buona pïetate aiuta il mio!
  • Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
  • Giovanna o altri non ha di me cura;
  • per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
  • E io a lui: «Qual forza o qual ventura
  • ti travïò sì fuor di Campaldino,
  • che non si seppe mai tua sepultura?».
  • «Oh!», rispuos’ elli, «a piè del Casentino
  • traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
  • che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
  • Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
  • arriva’ io forato ne la gola,
  • fuggendo a piede e sanguinando il piano.
  • Quivi perdei la vista e la parola;
  • nel nome di Maria fini’, e quivi
  • caddi, e rimase la mia carne sola.
  • Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
  • l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
  • gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
  • Tu te ne porti di costui l’etterno
  • per una lagrimetta che ’l mi toglie;
  • ma io farò de l’altro altro governo!”.
  • Ben sai come ne l’aere si raccoglie
  • quell’ umido vapor che in acqua riede,
  • tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
  • Giunse quel mal voler che pur mal chiede
  • con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
  • per la virtù che sua natura diede.
  • Indi la valle, come ’l dì fu spento,
  • da Pratomagno al gran giogo coperse
  • di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
  • sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
  • la pioggia cadde, e a’ fossati venne
  • di lei ciò che la terra non sofferse;
  • e come ai rivi grandi si convenne,
  • ver’ lo fiume real tanto veloce
  • si ruinò, che nulla la ritenne.
  • Lo corpo mio gelato in su la foce
  • trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
  • ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
  • ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
  • voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
  • poi di sua preda mi coperse e cinse».
  • «Deh, quando tu sarai tornato al mondo
  • e riposato de la lunga via»,
  • seguitò ’l terzo spirito al secondo,
  • «ricorditi di me, che son la Pia;
  • Siena mi fé, disfecemi Maremma:
  • salsi colui che ’nnanellata pria
  • disposando m’avea con la sua gemma».
  • Purgatorio • Canto VI
  • Quando si parte il gioco de la zara,
  • colui che perde si riman dolente,
  • repetendo le volte, e tristo impara;
  • con l’altro se ne va tutta la gente;
  • qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
  • e qual dallato li si reca a mente;
  • el non s’arresta, e questo e quello intende;
  • a cui porge la man, più non fa pressa;
  • e così da la calca si difende.
  • Tal era io in quella turba spessa,
  • volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
  • e promettendo mi sciogliea da essa.
  • Quiv’ era l’Aretin che da le braccia
  • fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
  • e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
  • Quivi pregava con le mani sporte
  • Federigo Novello, e quel da Pisa
  • che fé parer lo buon Marzucco forte.
  • Vidi conte Orso e l’anima divisa
  • dal corpo suo per astio e per inveggia,
  • com’ e’ dicea, non per colpa commisa;
  • Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
  • mentr’ è di qua, la donna di Brabante,
  • sì che però non sia di peggior greggia.
  • Come libero fui da tutte quante
  • quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
  • sì che s’avacci lor divenir sante,
  • io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
  • o luce mia, espresso in alcun testo
  • che decreto del cielo orazion pieghi;
  • e questa gente prega pur di questo:
  • sarebbe dunque loro speme vana,
  • o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?».
  • Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
  • e la speranza di costor non falla,
  • se ben si guarda con la mente sana;
  • ché cima di giudicio non s’avvalla
  • perché foco d’amor compia in un punto
  • ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
  • e là dov’ io fermai cotesto punto,
  • non s’ammendava, per pregar, difetto,
  • perché ’l priego da Dio era disgiunto.
  • Veramente a così alto sospetto
  • non ti fermar, se quella nol ti dice
  • che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.
  • Non so se ’ntendi: io dico di Beatrice;
  • tu la vedrai di sopra, in su la vetta
  • di questo monte, ridere e felice».
  • E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,
  • ché già non m’affatico come dianzi,
  • e vedi omai che ’l poggio l’ombra getta».
  • «Noi anderem con questo giorno innanzi»,
  • rispuose, «quanto più potremo omai;
  • ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi.
  • Prima che sie là sù, tornar vedrai
  • colui che già si cuopre de la costa,
  • sì che ’ suoi raggi tu romper non fai.
  • Ma vedi là un’anima che, posta
  • sola soletta, inverso noi riguarda:
  • quella ne ’nsegnerà la via più tosta».
  • Venimmo a lei: o anima lombarda,
  • come ti stavi altera e disdegnosa
  • e nel mover de li occhi onesta e tarda!
  • Ella non ci dicëa alcuna cosa,
  • ma lasciavane gir, solo sguardando
  • a guisa di leon quando si posa.
  • Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
  • che ne mostrasse la miglior salita;
  • e quella non rispuose al suo dimando,
  • ma di nostro paese e de la vita
  • ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
  • «Mantüa . . . », e l’ombra, tutta in sé romita,
  • surse ver’ lui del loco ove pria stava,
  • dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
  • de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
  • Ahi serva Italia, di dolore ostello,
  • nave sanza nocchiere in gran tempesta,
  • non donna di province, ma bordello!
  • Quell’ anima gentil fu così presta,
  • sol per lo dolce suon de la sua terra,
  • di fare al cittadin suo quivi festa;
  • e ora in te non stanno sanza guerra
  • li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
  • di quei ch’un muro e una fossa serra.
  • Cerca, misera, intorno da le prode
  • le tue marine, e poi ti guarda in seno,
  • s’alcuna parte in te di pace gode.
  • Che val perché ti racconciasse il freno
  • Iustinïano, se la sella è vòta?
  • Sanz’ esso fora la vergogna meno.
  • Ahi gente che dovresti esser devota,
  • e lasciar seder Cesare in la sella,
  • se bene intendi ciò che Dio ti nota,
  • guarda come esta fiera è fatta fella
  • per non esser corretta da li sproni,
  • poi che ponesti mano a la predella.
  • O Alberto tedesco ch’abbandoni
  • costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
  • e dovresti inforcar li suoi arcioni,
  • giusto giudicio da le stelle caggia
  • sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
  • tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
  • Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
  • per cupidigia di costà distretti,
  • che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
  • Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
  • Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
  • color già tristi, e questi con sospetti!
  • Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
  • d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
  • e vedrai Santafior com’ è oscura!
  • Vieni a veder la tua Roma che piagne
  • vedova e sola, e dì e notte chiama:
  • «Cesare mio, perché non m’accompagne?».
  • Vieni a veder la gente quanto s’ama!
  • e se nulla di noi pietà ti move,
  • a vergognar ti vien de la tua fama.
  • E se licito m’è, o sommo Giove
  • che fosti in terra per noi crucifisso,
  • son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
  • O è preparazion che ne l’abisso
  • del tuo consiglio fai per alcun bene
  • in tutto de l’accorger nostro scisso?
  • Ché le città d’Italia tutte piene
  • son di tiranni, e un Marcel diventa
  • ogne villan che parteggiando viene.
  • Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
  • di questa digression che non ti tocca,
  • mercé del popol tuo che si argomenta.
  • Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
  • per non venir sanza consiglio a l’arco;
  • ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
  • Molti rifiutan lo comune incarco;
  • ma il popol tuo solicito risponde
  • sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
  • Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
  • tu ricca, tu con pace e tu con senno!
  • S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
  • Atene e Lacedemona, che fenno
  • l’antiche leggi e furon sì civili,
  • fecero al viver bene un picciol cenno
  • verso di te, che fai tanto sottili
  • provedimenti, ch’a mezzo novembre
  • non giugne quel che tu d’ottobre fili.
  • Quante volte, del tempo che rimembre,
  • legge, moneta, officio e costume
  • hai tu mutato, e rinovate membre!
  • E se ben ti ricordi e vedi lume,
  • vedrai te somigliante a quella inferma
  • che non può trovar posa in su le piume,
  • ma con dar volta suo dolore scherma.
  • Purgatorio • Canto VII
  • Poscia che l’accoglienze oneste e liete
  • furo iterate tre e quattro volte,
  • Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
  • «Anzi che a questo monte fosser volte
  • l’anime degne di salire a Dio,
  • fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.
  • Io son Virgilio; e per null’ altro rio
  • lo ciel perdei che per non aver fé».
  • Così rispuose allora il duca mio.
  • Qual è colui che cosa innanzi sé
  • sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
  • che crede e non, dicendo «Ella è . . . non è . . . »,
  • tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
  • e umilmente ritornò ver’ lui,
  • e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.
  • «O gloria di Latin», disse, «per cui
  • mostrò ciò che potea la lingua nostra,
  • o pregio etterno del loco ond’ io fui,
  • qual merito o qual grazia mi ti mostra?
  • S’io son d’udir le tue parole degno,
  • dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra».
  • «Per tutt’ i cerchi del dolente regno»,
  • rispuose lui, «son io di qua venuto;
  • virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
  • Non per far, ma per non fare ho perduto
  • a veder l’alto Sol che tu disiri
  • e che fu tardi per me conosciuto.
  • Luogo è là giù non tristo di martìri,
  • ma di tenebre solo, ove i lamenti
  • non suonan come guai, ma son sospiri.
  • Quivi sto io coi pargoli innocenti
  • dai denti morsi de la morte avante
  • che fosser da l’umana colpa essenti;
  • quivi sto io con quei che le tre sante
  • virtù non si vestiro, e sanza vizio
  • conobber l’altre e seguir tutte quante.
  • Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
  • dà noi per che venir possiam più tosto
  • là dove purgatorio ha dritto inizio».
  • Rispuose: «Loco certo non c’è posto;
  • licito m’è andar suso e intorno;
  • per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.
  • Ma vedi già come dichina il giorno,
  • e andar sù di notte non si puote;
  • però è buon pensar di bel soggiorno.
  • Anime sono a destra qua remote;
  • se mi consenti, io ti merrò ad esse,
  • e non sanza diletto ti fier note».
  • «Com’ è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
  • salir di notte, fora elli impedito
  • d’altrui, o non sarria ché non potesse?».
  • E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito,
  • dicendo: «Vedi? sola questa riga
  • non varcheresti dopo ’l sol partito:
  • non però ch’altra cosa desse briga,
  • che la notturna tenebra, ad ir suso;
  • quella col nonpoder la voglia intriga.
  • Ben si poria con lei tornare in giuso
  • e passeggiar la costa intorno errando,
  • mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso».
  • Allora il mio segnor, quasi ammirando,
  • «Menane», disse, «dunque là ’ve dici
  • ch’aver si può diletto dimorando».
  • Poco allungati c’eravam di lici,
  • quand’ io m’accorsi che ’l monte era scemo,
  • a guisa che i vallon li sceman quici.
  • «Colà», disse quell’ ombra, «n’anderemo
  • dove la costa face di sé grembo;
  • e là il novo giorno attenderemo».
  • Tra erto e piano era un sentiero schembo,
  • che ne condusse in fianco de la lacca,
  • là dove più ch’a mezzo muore il lembo.
  • Oro e argento fine, cocco e biacca,
  • indaco, legno lucido e sereno,
  • fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,
  • da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno
  • posti, ciascun saria di color vinto,
  • come dal suo maggiore è vinto il meno.
  • Non avea pur natura ivi dipinto,
  • ma di soavità di mille odori
  • vi facea uno incognito e indistinto.
  • ‘Salve, Regina’ in sul verde e ’n su’ fiori
  • quindi seder cantando anime vidi,
  • che per la valle non parean di fuori.
  • «Prima che ’l poco sole omai s’annidi»,
  • cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,
  • «tra color non vogliate ch’io vi guidi.
  • Di questo balzo meglio li atti e ’ volti
  • conoscerete voi di tutti quanti,
  • che ne la lama giù tra essi accolti.
  • Colui che più siede alto e fa sembianti
  • d’aver negletto ciò che far dovea,
  • e che non move bocca a li altrui canti,
  • Rodolfo imperador fu, che potea
  • sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
  • sì che tardi per altri si ricrea.
  • L’altro che ne la vista lui conforta,
  • resse la terra dove l’acqua nasce
  • che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
  • Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
  • fu meglio assai che Vincislao suo figlio
  • barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
  • E quel nasetto che stretto a consiglio
  • par con colui c’ha sì benigno aspetto,
  • morì fuggendo e disfiorando il giglio:
  • guardate là come si batte il petto!
  • L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
  • de la sua palma, sospirando, letto.
  • Padre e suocero son del mal di Francia:
  • sanno la vita sua viziata e lorda,
  • e quindi viene il duol che sì li lancia.
  • Quel che par sì membruto e che s’accorda,
  • cantando, con colui dal maschio naso,
  • d’ogne valor portò cinta la corda;
  • e se re dopo lui fosse rimaso
  • lo giovanetto che retro a lui siede,
  • ben andava il valor di vaso in vaso,
  • che non si puote dir de l’altre rede;
  • Iacomo e Federigo hanno i reami;
  • del retaggio miglior nessun possiede.
  • Rade volte risurge per li rami
  • l’umana probitate; e questo vole
  • quei che la dà, perché da lui si chiami.
  • Anche al nasuto vanno mie parole
  • non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
  • onde Puglia e Proenza già si dole.
  • Tant’ è del seme suo minor la pianta,
  • quanto, più che Beatrice e Margherita,
  • Costanza di marito ancor si vanta.
  • Vedete il re de la semplice vita
  • seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
  • questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.
  • Quel che più basso tra costor s’atterra,
  • guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
  • per cui e Alessandria e la sua guerra
  • fa pianger Monferrato e Canavese».
  • Purgatorio • Canto VIII
  • Era già l’ora che volge il disio
  • ai navicanti e ’ntenerisce il core
  • lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
  • e che lo novo peregrin d’amore
  • punge, se ode squilla di lontano
  • che paia il giorno pianger che si more;
  • quand’ io incominciai a render vano
  • l’udire e a mirare una de l’alme
  • surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
  • Ella giunse e levò ambo le palme,
  • ficcando li occhi verso l’orïente,
  • come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.
  • ‘Te lucis ante’ sì devotamente
  • le uscìo di bocca e con sì dolci note,
  • che fece me a me uscir di mente;
  • e l’altre poi dolcemente e devote
  • seguitar lei per tutto l’inno intero,
  • avendo li occhi a le superne rote.
  • Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
  • ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
  • certo che ’l trapassar dentro è leggero.
  • Io vidi quello essercito gentile
  • tacito poscia riguardare in sùe,
  • quasi aspettando, palido e umìle;
  • e vidi uscir de l’alto e scender giùe
  • due angeli con due spade affocate,
  • tronche e private de le punte sue.
  • Verdi come fogliette pur mo nate
  • erano in veste, che da verdi penne
  • percosse traean dietro e ventilate.
  • L’un poco sovra noi a star si venne,
  • e l’altro scese in l’opposita sponda,
  • sì che la gente in mezzo si contenne.
  • Ben discernëa in lor la testa bionda;
  • ma ne la faccia l’occhio si smarria,
  • come virtù ch’a troppo si confonda.
  • «Ambo vegnon del grembo di Maria»,
  • disse Sordello, «a guardia de la valle,
  • per lo serpente che verrà vie via».
  • Ond’ io, che non sapeva per qual calle,
  • mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
  • tutto gelato, a le fidate spalle.
  • E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
  • tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
  • grazïoso fia lor vedervi assai».
  • Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
  • e fui di sotto, e vidi un che mirava
  • pur me, come conoscer mi volesse.
  • Temp’ era già che l’aere s’annerava,
  • ma non sì che tra li occhi suoi e ’ miei
  • non dichiarisse ciò che pria serrava.
  • Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:
  • giudice Nin gentil, quanto mi piacque
  • quando ti vidi non esser tra ’ rei!
  • Nullo bel salutar tra noi si tacque;
  • poi dimandò: «Quant’ è che tu venisti
  • a piè del monte per le lontane acque?».
  • «Oh!», diss’ io lui, «per entro i luoghi tristi
  • venni stamane, e sono in prima vita,
  • ancor che l’altra, sì andando, acquisti».
  • E come fu la mia risposta udita,
  • Sordello ed elli in dietro si raccolse
  • come gente di sùbito smarrita.
  • L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
  • che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
  • vieni a veder che Dio per grazia volse».
  • Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
  • che tu dei a colui che sì nasconde
  • lo suo primo perché, che non lì è guado,
  • quando sarai di là da le larghe onde,
  • dì a Giovanna mia che per me chiami
  • là dove a li ’nnocenti si risponde.
  • Non credo che la sua madre più m’ami,
  • poscia che trasmutò le bianche bende,
  • le quai convien che, misera!, ancor brami.
  • Per lei assai di lieve si comprende
  • quanto in femmina foco d’amor dura,
  • se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.
  • Non le farà sì bella sepultura
  • la vipera che Melanesi accampa,
  • com’ avria fatto il gallo di Gallura».
  • Così dicea, segnato de la stampa,
  • nel suo aspetto, di quel dritto zelo
  • che misuratamente in core avvampa.
  • Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
  • pur là dove le stelle son più tarde,
  • sì come rota più presso a lo stelo.
  • E ’l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».
  • E io a lui: «A quelle tre facelle
  • di che ’l polo di qua tutto quanto arde».
  • Ond’ elli a me: «Le quattro chiare stelle
  • che vedevi staman, son di là basse,
  • e queste son salite ov’ eran quelle».
  • Com’ ei parlava, e Sordello a sé il trasse
  • dicendo: «Vedi là ’l nostro avversaro»;
  • e drizzò il dito perché ’n là guardasse.
  • Da quella parte onde non ha riparo
  • la picciola vallea, era una biscia,
  • forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
  • Tra l’erba e ’ fior venìa la mala striscia,
  • volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso
  • leccando come bestia che si liscia.
  • Io non vidi, e però dicer non posso,
  • come mosser li astor celestïali;
  • ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.
  • Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
  • fuggì ’l serpente, e li angeli dier volta,
  • suso a le poste rivolando iguali.
  • L’ombra che s’era al giudice raccolta
  • quando chiamò, per tutto quello assalto
  • punto non fu da me guardare sciolta.
  • «Se la lucerna che ti mena in alto
  • truovi nel tuo arbitrio tanta cera
  • quant’ è mestiere infino al sommo smalto»,
  • cominciò ella, «se novella vera
  • di Val di Magra o di parte vicina
  • sai, dillo a me, che già grande là era.
  • Fui chiamato Currado Malaspina;
  • non son l’antico, ma di lui discesi;
  • a’ miei portai l’amor che qui raffina».
  • «Oh!», diss’ io lui, «per li vostri paesi
  • già mai non fui; ma dove si dimora
  • per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
  • La fama che la vostra casa onora,
  • grida i segnori e grida la contrada,
  • sì che ne sa chi non vi fu ancora;
  • e io vi giuro, s’io di sopra vada,
  • che vostra gente onrata non si sfregia
  • del pregio de la borsa e de la spada.
  • Uso e natura sì la privilegia,
  • che, perché il capo reo il mondo torca,
  • sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
  • Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
  • sette volte nel letto che ’l Montone
  • con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
  • che cotesta cortese oppinïone
  • ti fia chiavata in mezzo de la testa
  • con maggior chiovi che d’altrui sermone,
  • se corso di giudicio non s’arresta».
  • Purgatorio • Canto IX
  • La concubina di Titone antico
  • già s’imbiancava al balco d’orïente,
  • fuor de le braccia del suo dolce amico;
  • di gemme la sua fronte era lucente,
  • poste in figura del freddo animale
  • che con la coda percuote la gente;
  • e la notte, de’ passi con che sale,
  • fatti avea due nel loco ov’ eravamo,
  • e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;
  • quand’ io, che meco avea di quel d’Adamo,
  • vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
  • là ’ve già tutti e cinque sedavamo.
  • Ne l’ora che comincia i tristi lai
  • la rondinella presso a la mattina,
  • forse a memoria de’ suo’ primi guai,
  • e che la mente nostra, peregrina
  • più da la carne e men da’ pensier presa,
  • a le sue visïon quasi è divina,
  • in sogno mi parea veder sospesa
  • un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
  • con l’ali aperte e a calare intesa;
  • ed esser mi parea là dove fuoro
  • abbandonati i suoi da Ganimede,
  • quando fu ratto al sommo consistoro.
  • Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
  • pur qui per uso, e forse d’altro loco
  • disdegna di portarne suso in piede’.
  • Poi mi parea che, poi rotata un poco,
  • terribil come folgor discendesse,
  • e me rapisse suso infino al foco.
  • Ivi parea che ella e io ardesse;
  • e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
  • che convenne che ’l sonno si rompesse.
  • Non altrimenti Achille si riscosse,
  • li occhi svegliati rivolgendo in giro
  • e non sappiendo là dove si fosse,
  • quando la madre da Chirón a Schiro
  • trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
  • là onde poi li Greci il dipartiro;
  • che mi scoss’ io, sì come da la faccia
  • mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
  • come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.
  • Dallato m’era solo il mio conforto,
  • e ’l sole er’ alto già più che due ore,
  • e ’l viso m’era a la marina torto.
  • «Non aver tema», disse il mio segnore;
  • «fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
  • non stringer, ma rallarga ogne vigore.
  • Tu se’ omai al purgatorio giunto:
  • vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;
  • vedi l’entrata là ’ve par digiunto.
  • Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
  • quando l’anima tua dentro dormia,
  • sovra li fiori ond’ è là giù addorno
  • venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
  • lasciatemi pigliar costui che dorme;
  • sì l’agevolerò per la sua via”.
  • Sordel rimase e l’altre genti forme;
  • ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
  • sen venne suso; e io per le sue orme.
  • Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
  • li occhi suoi belli quella intrata aperta;
  • poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro».
  • A guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta
  • e che muta in conforto sua paura,
  • poi che la verità li è discoperta,
  • mi cambia’ io; e come sanza cura
  • vide me ’l duca mio, su per lo balzo
  • si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.
  • Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo
  • la mia matera, e però con più arte
  • non ti maravigliar s’io la rincalzo.
  • Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
  • che là dove pareami prima rotto,
  • pur come un fesso che muro diparte,
  • vidi una porta, e tre gradi di sotto
  • per gire ad essa, di color diversi,
  • e un portier ch’ancor non facea motto.
  • E come l’occhio più e più v’apersi,
  • vidil seder sovra ’l grado sovrano,
  • tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
  • e una spada nuda avëa in mano,
  • che reflettëa i raggi sì ver’ noi,
  • ch’io drizzava spesso il viso in vano.
  • «Dite costinci: che volete voi?»,
  • cominciò elli a dire, «ov’ è la scorta?
  • Guardate che ’l venir sù non vi nòi».
  • «Donna del ciel, di queste cose accorta»,
  • rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
  • ne disse: “Andate là: quivi è la porta”».
  • «Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
  • ricominciò il cortese portinaio:
  • «Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».
  • Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
  • bianco marmo era sì pulito e terso,
  • ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
  • Era il secondo tinto più che perso,
  • d’una petrina ruvida e arsiccia,
  • crepata per lo lungo e per traverso.
  • Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
  • porfido mi parea, sì fiammeggiante
  • come sangue che fuor di vena spiccia.
  • Sovra questo tenëa ambo le piante
  • l’angel di Dio sedendo in su la soglia
  • che mi sembiava pietra di diamante.
  • Per li tre gradi sù di buona voglia
  • mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
  • umilemente che ’l serrame scioglia».
  • Divoto mi gittai a’ santi piedi;
  • misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
  • ma tre volte nel petto pria mi diedi.
  • Sette P ne la fronte mi descrisse
  • col punton de la spada, e «Fa che lavi,
  • quando se’ dentro, queste piaghe» disse.
  • Cenere, o terra che secca si cavi,
  • d’un color fora col suo vestimento;
  • e di sotto da quel trasse due chiavi.
  • L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
  • pria con la bianca e poscia con la gialla
  • fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.
  • «Quandunque l’una d’este chiavi falla,
  • che non si volga dritta per la toppa»,
  • diss’ elli a noi, «non s’apre questa calla.
  • Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
  • d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
  • perch’ ella è quella che ’l nodo digroppa.
  • Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
  • anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
  • pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
  • Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
  • dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
  • che di fuor torna chi ’n dietro si guata».
  • E quando fuor ne’ cardini distorti
  • li spigoli di quella regge sacra,
  • che di metallo son sonanti e forti,
  • non rugghiò sì né si mostrò sì acra
  • Tarpëa, come tolto le fu il buono
  • Metello, per che poi rimase macra.
  • Io mi rivolsi attento al primo tuono,
  • e ‘Te Deum laudamus’ mi parea
  • udire in voce mista al dolce suono.
  • Tale imagine a punto mi rendea
  • ciò ch’io udiva, qual prender si suole
  • quando a cantar con organi si stea;
  • ch’or sì or no s’intendon le parole.
  • Purgatorio • Canto X
  • Poi fummo dentro al soglio de la porta
  • che ’l mal amor de l’anime disusa,
  • perché fa parer dritta la via torta,
  • sonando la senti’ esser richiusa;
  • e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
  • qual fora stata al fallo degna scusa?
  • Noi salavam per una pietra fessa,
  • che si moveva e d’una e d’altra parte,
  • sì come l’onda che fugge e s’appressa.
  • «Qui si conviene usare un poco d’arte»,
  • cominciò ’l duca mio, «in accostarsi
  • or quinci, or quindi al lato che si parte».
  • E questo fece i nostri passi scarsi,
  • tanto che pria lo scemo de la luna
  • rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
  • che noi fossimo fuor di quella cruna;
  • ma quando fummo liberi e aperti
  • sù dove il monte in dietro si rauna,
  • ïo stancato e amendue incerti
  • di nostra via, restammo in su un piano
  • solingo più che strade per diserti.
  • Da la sua sponda, ove confina il vano,
  • al piè de l’alta ripa che pur sale,
  • misurrebbe in tre volte un corpo umano;
  • e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
  • or dal sinistro e or dal destro fianco,
  • questa cornice mi parea cotale.
  • Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
  • quand’ io conobbi quella ripa intorno
  • che dritto di salita aveva manco,
  • esser di marmo candido e addorno
  • d’intagli sì, che non pur Policleto,
  • ma la natura lì avrebbe scorno.
  • L’angel che venne in terra col decreto
  • de la molt’ anni lagrimata pace,
  • ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
  • dinanzi a noi pareva sì verace
  • quivi intagliato in un atto soave,
  • che non sembiava imagine che tace.
  • Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
  • perché iv’ era imaginata quella
  • ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
  • e avea in atto impressa esta favella
  • ‘Ecce ancilla Deï’, propriamente
  • come figura in cera si suggella.
  • «Non tener pur ad un loco la mente»,
  • disse ’l dolce maestro, che m’avea
  • da quella parte onde ’l cuore ha la gente.
  • Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
  • di retro da Maria, da quella costa
  • onde m’era colui che mi movea,
  • un’altra storia ne la roccia imposta;
  • per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
  • acciò che fosse a li occhi miei disposta.
  • Era intagliato lì nel marmo stesso
  • lo carro e ’ buoi, traendo l’arca santa,
  • per che si teme officio non commesso.
  • Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
  • partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
  • faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’.
  • Similemente al fummo de li ’ncensi
  • che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
  • e al sì e al no discordi fensi.
  • Lì precedeva al benedetto vaso,
  • trescando alzato, l’umile salmista,
  • e più e men che re era in quel caso.
  • Di contra, effigïata ad una vista
  • d’un gran palazzo, Micòl ammirava
  • sì come donna dispettosa e trista.
  • I’ mossi i piè del loco dov’ io stava,
  • per avvisar da presso un’altra istoria,
  • che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
  • Quiv’ era storïata l’alta gloria
  • del roman principato, il cui valore
  • mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
  • i’ dico di Traiano imperadore;
  • e una vedovella li era al freno,
  • di lagrime atteggiata e di dolore.
  • Intorno a lui parea calcato e pieno
  • di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
  • sovr’ essi in vista al vento si movieno.
  • La miserella intra tutti costoro
  • pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
  • di mio figliuol ch’è morto, ond’ io m’accoro»;
  • ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
  • tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio»,
  • come persona in cui dolor s’affretta,
  • «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’ io,
  • la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
  • a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?»;
  • ond’ elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
  • ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
  • giustizia vuole e pietà mi ritene».
  • Colui che mai non vide cosa nova
  • produsse esto visibile parlare,
  • novello a noi perché qui non si trova.
  • Mentr’ io mi dilettava di guardare
  • l’imagini di tante umilitadi,
  • e per lo fabbro loro a veder care,
  • «Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
  • mormorava il poeta, «molte genti:
  • questi ne ’nvïeranno a li alti gradi».
  • Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti
  • per veder novitadi ond’ e’ son vaghi,
  • volgendosi ver’ lui non furon lenti.
  • Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
  • di buon proponimento per udire
  • come Dio vuol che ’l debito si paghi.
  • Non attender la forma del martìre:
  • pensa la succession; pensa ch’al peggio
  • oltre la gran sentenza non può ire.
  • Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
  • muovere a noi, non mi sembian persone,
  • e non so che, sì nel veder vaneggio».
  • Ed elli a me: «La grave condizione
  • di lor tormento a terra li rannicchia,
  • sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione.
  • Ma guarda fiso là, e disviticchia
  • col viso quel che vien sotto a quei sassi:
  • già scorger puoi come ciascun si picchia».
  • O superbi cristian, miseri lassi,
  • che, de la vista de la mente infermi,
  • fidanza avete ne’ retrosi passi,
  • non v’accorgete voi che noi siam vermi
  • nati a formar l’angelica farfalla,
  • che vola a la giustizia sanza schermi?
  • Di che l’animo vostro in alto galla,
  • poi siete quasi antomata in difetto,
  • sì come vermo in cui formazion falla?
  • Come per sostentar solaio o tetto,
  • per mensola talvolta una figura
  • si vede giugner le ginocchia al petto,
  • la qual fa del non ver vera rancura
  • nascere ’n chi la vede; così fatti
  • vid’ io color, quando puosi ben cura.
  • Vero è che più e meno eran contratti
  • secondo ch’avien più e meno a dosso;
  • e qual più pazïenza avea ne li atti,
  • piangendo parea dicer: ‘Più non posso’.
  • Purgatorio • Canto XI
  • «O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
  • non circunscritto, ma per più amore
  • ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
  • laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
  • da ogne creatura, com’ è degno
  • di render grazie al tuo dolce vapore.
  • Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
  • ché noi ad essa non potem da noi,
  • s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
  • Come del suo voler li angeli tuoi
  • fan sacrificio a te, cantando osanna,
  • così facciano li uomini de’ suoi.
  • Dà oggi a noi la cotidiana manna,
  • sanza la qual per questo aspro diserto
  • a retro va chi più di gir s’affanna.
  • E come noi lo mal ch’avem sofferto
  • perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
  • benigno, e non guardar lo nostro merto.
  • Nostra virtù che di legger s’adona,
  • non spermentar con l’antico avversaro,
  • ma libera da lui che sì la sprona.
  • Quest’ ultima preghiera, segnor caro,
  • già non si fa per noi, ché non bisogna,
  • ma per color che dietro a noi restaro».
  • Così a sé e noi buona ramogna
  • quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
  • simile a quel che talvolta si sogna,
  • disparmente angosciate tutte a tondo
  • e lasse su per la prima cornice,
  • purgando la caligine del mondo.
  • Se di là sempre ben per noi si dice,
  • di qua che dire e far per lor si puote
  • da quei c’hanno al voler buona radice?
  • Ben si de’ loro atar lavar le note
  • che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
  • possano uscire a le stellate ruote.
  • «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
  • tosto, sì che possiate muover l’ala,
  • che secondo il disio vostro vi lievi,
  • mostrate da qual mano inver’ la scala
  • si va più corto; e se c’è più d’un varco,
  • quel ne ’nsegnate che men erto cala;
  • ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
  • de la carne d’Adamo onde si veste,
  • al montar sù, contra sua voglia, è parco».
  • Le lor parole, che rendero a queste
  • che dette avea colui cu’ io seguiva,
  • non fur da cui venisser manifeste;
  • ma fu detto: «A man destra per la riva
  • con noi venite, e troverete il passo
  • possibile a salir persona viva.
  • E s’io non fossi impedito dal sasso
  • che la cervice mia superba doma,
  • onde portar convienmi il viso basso,
  • cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
  • guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
  • e per farlo pietoso a questa soma.
  • Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
  • Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
  • non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
  • L’antico sangue e l’opere leggiadre
  • d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
  • che, non pensando a la comune madre,
  • ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
  • ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
  • e sallo in Campagnatico ogne fante.
  • Io sono Omberto; e non pur a me danno
  • superbia fa, ché tutti miei consorti
  • ha ella tratti seco nel malanno.
  • E qui convien ch’io questo peso porti
  • per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
  • poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti».
  • Ascoltando chinai in giù la faccia;
  • e un di lor, non questi che parlava,
  • si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
  • e videmi e conobbemi e chiamava,
  • tenendo li occhi con fatica fisi
  • a me che tutto chin con loro andava.
  • «Oh!», diss’ io lui, «non se’ tu Oderisi,
  • l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte
  • ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
  • «Frate», diss’ elli, «più ridon le carte
  • che pennelleggia Franco Bolognese;
  • l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
  • Ben non sare’ io stato sì cortese
  • mentre ch’io vissi, per lo gran disio
  • de l’eccellenza ove mio core intese.
  • Di tal superbia qui si paga il fio;
  • e ancor non sarei qui, se non fosse
  • che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
  • Oh vana gloria de l’umane posse!
  • com’ poco verde in su la cima dura,
  • se non è giunta da l’etati grosse!
  • Credette Cimabue ne la pittura
  • tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
  • sì che la fama di colui è scura.
  • Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
  • la gloria de la lingua; e forse è nato
  • chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
  • Non è il mondan romore altro ch’un fiato
  • di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
  • e muta nome perché muta lato.
  • Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
  • da te la carne, che se fossi morto
  • anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,
  • pria che passin mill’ anni? ch’è più corto
  • spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
  • al cerchio che più tardi in cielo è torto.
  • Colui che del cammin sì poco piglia
  • dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
  • e ora a pena in Siena sen pispiglia,
  • ond’ era sire quando fu distrutta
  • la rabbia fiorentina, che superba
  • fu a quel tempo sì com’ ora è putta.
  • La vostra nominanza è color d’erba,
  • che viene e va, e quei la discolora
  • per cui ella esce de la terra acerba».
  • E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
  • bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
  • ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
  • «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
  • ed è qui perché fu presuntüoso
  • a recar Siena tutta a le sue mani.
  • Ito è così e va, sanza riposo,
  • poi che morì; cotal moneta rende
  • a sodisfar chi è di là troppo oso».
  • E io: «Se quello spirito ch’attende,
  • pria che si penta, l’orlo de la vita,
  • qua giù dimora e qua sù non ascende,
  • se buona orazïon lui non aita,
  • prima che passi tempo quanto visse,
  • come fu la venuta lui largita?».
  • «Quando vivea più glorïoso», disse,
  • «liberamente nel Campo di Siena,
  • ogne vergogna diposta, s’affisse;
  • e lì, per trar l’amico suo di pena,
  • ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
  • si condusse a tremar per ogne vena.
  • Più non dirò, e scuro so che parlo;
  • ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
  • faranno sì che tu potrai chiosarlo.
  • Quest’ opera li tolse quei confini».
  • Purgatorio • Canto XII
  • Di pari, come buoi che vanno a giogo,
  • m’andava io con quell’ anima carca,
  • fin che ’l sofferse il dolce pedagogo.
  • Ma quando disse: «Lascia lui e varca;
  • ché qui è buono con l’ali e coi remi,
  • quantunque può, ciascun pinger sua barca»;
  • dritto sì come andar vuolsi rife’mi
  • con la persona, avvegna che i pensieri
  • mi rimanessero e chinati e scemi.
  • Io m’era mosso, e seguia volontieri
  • del mio maestro i passi, e amendue
  • già mostravam com’ eravam leggeri;
  • ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe:
  • buon ti sarà, per tranquillar la via,
  • veder lo letto de le piante tue».
  • Come, perché di lor memoria sia,
  • sovra i sepolti le tombe terragne
  • portan segnato quel ch’elli eran pria,
  • onde lì molte volte si ripiagne
  • per la puntura de la rimembranza,
  • che solo a’ pïi dà de le calcagne;
  • sì vid’ io lì, ma di miglior sembianza
  • secondo l’artificio, figurato
  • quanto per via di fuor del monte avanza.
  • Vedea colui che fu nobil creato
  • più ch’altra creatura, giù dal cielo
  • folgoreggiando scender, da l’un lato.
  • Vedëa Brïareo fitto dal telo
  • celestïal giacer, da l’altra parte,
  • grave a la terra per lo mortal gelo.
  • Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
  • armati ancora, intorno al padre loro,
  • mirar le membra d’i Giganti sparte.
  • Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
  • quasi smarrito, e riguardar le genti
  • che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.
  • O Nïobè, con che occhi dolenti
  • vedea io te segnata in su la strada,
  • tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
  • O Saùl, come in su la propria spada
  • quivi parevi morto in Gelboè,
  • che poi non sentì pioggia né rugiada!
  • O folle Aragne, sì vedea io te
  • già mezza ragna, trista in su li stracci
  • de l’opera che mal per te si fé.
  • O Roboàm, già non par che minacci
  • quivi ’l tuo segno; ma pien di spavento
  • nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.
  • Mostrava ancor lo duro pavimento
  • come Almeon a sua madre fé caro
  • parer lo sventurato addornamento.
  • Mostrava come i figli si gittaro
  • sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
  • e come, morto lui, quivi il lasciaro.
  • Mostrava la ruina e ’l crudo scempio
  • che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
  • «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio».
  • Mostrava come in rotta si fuggiro
  • li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
  • e anche le reliquie del martiro.
  • Vedeva Troia in cenere e in caverne;
  • o Ilïón, come te basso e vile
  • mostrava il segno che lì si discerne!
  • Qual di pennel fu maestro o di stile
  • che ritraesse l’ombre e ’ tratti ch’ivi
  • mirar farieno uno ingegno sottile?
  • Morti li morti e i vivi parean vivi:
  • non vide mei di me chi vide il vero,
  • quant’ io calcai, fin che chinato givi.
  • Or superbite, e via col viso altero,
  • figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
  • sì che veggiate il vostro mal sentero!
  • Più era già per noi del monte vòlto
  • e del cammin del sole assai più speso
  • che non stimava l’animo non sciolto,
  • quando colui che sempre innanzi atteso
  • andava, cominciò: «Drizza la testa;
  • non è più tempo di gir sì sospeso.
  • Vedi colà un angel che s’appresta
  • per venir verso noi; vedi che torna
  • dal servigio del dì l’ancella sesta.
  • Di reverenza il viso e li atti addorna,
  • sì che i diletti lo ’nvïarci in suso;
  • pensa che questo dì mai non raggiorna!».
  • Io era ben del suo ammonir uso
  • pur di non perder tempo, sì che ’n quella
  • materia non potea parlarmi chiuso.
  • A noi venìa la creatura bella,
  • biancovestito e ne la faccia quale
  • par tremolando mattutina stella.
  • Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
  • disse: «Venite: qui son presso i gradi,
  • e agevolemente omai si sale.
  • A questo invito vegnon molto radi:
  • o gente umana, per volar sù nata,
  • perché a poco vento così cadi?».
  • Menocci ove la roccia era tagliata;
  • quivi mi batté l’ali per la fronte;
  • poi mi promise sicura l’andata.
  • Come a man destra, per salire al monte
  • dove siede la chiesa che soggioga
  • la ben guidata sopra Rubaconte,
  • si rompe del montar l’ardita foga
  • per le scalee che si fero ad etade
  • ch’era sicuro il quaderno e la doga;
  • così s’allenta la ripa che cade
  • quivi ben ratta da l’altro girone;
  • ma quinci e quindi l’alta pietra rade.
  • Noi volgendo ivi le nostre persone,
  • ‘Beati pauperes spiritu!’ voci
  • cantaron sì, che nol diria sermone.
  • Ahi quanto son diverse quelle foci
  • da l’infernali! ché quivi per canti
  • s’entra, e là giù per lamenti feroci.
  • Già montavam su per li scaglion santi,
  • ed esser mi parea troppo più lieve
  • che per lo pian non mi parea davanti.
  • Ond’ io: «Maestro, dì, qual cosa greve
  • levata s’è da me, che nulla quasi
  • per me fatica, andando, si riceve?».
  • Rispuose: «Quando i P che son rimasi
  • ancor nel volto tuo presso che stinti,
  • saranno, com’ è l’un, del tutto rasi,
  • fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
  • che non pur non fatica sentiranno,
  • ma fia diletto loro esser sù pinti».
  • Allor fec’ io come color che vanno
  • con cosa in capo non da lor saputa,
  • se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno;
  • per che la mano ad accertar s’aiuta,
  • e cerca e truova e quello officio adempie
  • che non si può fornir per la veduta;
  • e con le dita de la destra scempie
  • trovai pur sei le lettere che ’ncise
  • quel da le chiavi a me sovra le tempie:
  • a che guardando, il mio duca sorrise.
  • Purgatorio • Canto XIII
  • Noi eravamo al sommo de la scala,
  • dove secondamente si risega
  • lo monte che salendo altrui dismala.
  • Ivi così una cornice lega
  • dintorno il poggio, come la primaia;
  • se non che l’arco suo più tosto piega.
  • Ombra non lì è né segno che si paia:
  • parsi la ripa e parsi la via schietta
  • col livido color de la petraia.
  • «Se qui per dimandar gente s’aspetta»,
  • ragionava il poeta, «io temo forse
  • che troppo avrà d’indugio nostra eletta».
  • Poi fisamente al sole li occhi porse;
  • fece del destro lato a muover centro,
  • e la sinistra parte di sé torse.
  • «O dolce lume a cui fidanza i’ entro
  • per lo novo cammin, tu ne conduci»,
  • dicea, «come condur si vuol quinc’ entro.
  • Tu scaldi il mondo, tu sovr’ esso luci;
  • s’altra ragione in contrario non ponta,
  • esser dien sempre li tuoi raggi duci».
  • Quanto di qua per un migliaio si conta,
  • tanto di là eravam noi già iti,
  • con poco tempo, per la voglia pronta;
  • e verso noi volar furon sentiti,
  • non però visti, spiriti parlando
  • a la mensa d’amor cortesi inviti.
  • La prima voce che passò volando
  • ‘Vinum non habent’ altamente disse,
  • e dietro a noi l’andò reïterando.
  • E prima che del tutto non si udisse
  • per allungarsi, un’altra ‘I’ sono Oreste’
  • passò gridando, e anco non s’affisse.
  • «Oh!», diss’ io, «padre, che voci son queste?».
  • E com’ io domandai, ecco la terza
  • dicendo: ‘Amate da cui male aveste’.
  • E ’l buon maestro: «Questo cinghio sferza
  • la colpa de la invidia, e però sono
  • tratte d’amor le corde de la ferza.
  • Lo fren vuol esser del contrario suono;
  • credo che l’udirai, per mio avviso,
  • prima che giunghi al passo del perdono.
  • Ma ficca li occhi per l’aere ben fiso,
  • e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
  • e ciascun è lungo la grotta assiso».
  • Allora più che prima li occhi apersi;
  • guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti
  • al color de la pietra non diversi.
  • E poi che fummo un poco più avanti,
  • udia gridar: ‘Maria, òra per noi’:
  • gridar ‘Michele’ e ‘Pietro’ e ‘Tutti santi’.
  • Non credo che per terra vada ancoi
  • omo sì duro, che non fosse punto
  • per compassion di quel ch’i’ vidi poi;
  • ché, quando fui sì presso di lor giunto,
  • che li atti loro a me venivan certi,
  • per li occhi fui di grave dolor munto.
  • Di vil ciliccio mi parean coperti,
  • e l’un sofferia l’altro con la spalla,
  • e tutti da la ripa eran sofferti.
  • Così li ciechi a cui la roba falla,
  • stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,
  • e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,
  • perché ’n altrui pietà tosto si pogna,
  • non pur per lo sonar de le parole,
  • ma per la vista che non meno agogna.
  • E come a li orbi non approda il sole,
  • così a l’ombre quivi, ond’ io parlo ora,
  • luce del ciel di sé largir non vole;
  • ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
  • e cusce sì, come a sparvier selvaggio
  • si fa però che queto non dimora.
  • A me pareva, andando, fare oltraggio,
  • veggendo altrui, non essendo veduto:
  • per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio.
  • Ben sapev’ ei che volea dir lo muto;
  • e però non attese mia dimanda,
  • ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».
  • Virgilio mi venìa da quella banda
  • de la cornice onde cader si puote,
  • perché da nulla sponda s’inghirlanda;
  • da l’altra parte m’eran le divote
  • ombre, che per l’orribile costura
  • premevan sì, che bagnavan le gote.
  • Volsimi a loro e: «O gente sicura»,
  • incominciai, «di veder l’alto lume
  • che ’l disio vostro solo ha in sua cura,
  • se tosto grazia resolva le schiume
  • di vostra coscïenza sì che chiaro
  • per essa scenda de la mente il fiume,
  • ditemi, ché mi fia grazioso e caro,
  • s’anima è qui tra voi che sia latina;
  • e forse lei sarà buon s’i’ l’apparo».
  • «O frate mio, ciascuna è cittadina
  • d’una vera città; ma tu vuo’ dire
  • che vivesse in Italia peregrina».
  • Questo mi parve per risposta udire
  • più innanzi alquanto che là dov’ io stava,
  • ond’ io mi feci ancor più là sentire.
  • Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava
  • in vista; e se volesse alcun dir ‘Come?’,
  • lo mento a guisa d’orbo in sù levava.
  • «Spirto», diss’ io, «che per salir ti dome,
  • se tu se’ quelli che mi rispondesti,
  • fammiti conto o per luogo o per nome».
  • «Io fui sanese», rispuose, «e con questi
  • altri rimendo qui la vita ria,
  • lagrimando a colui che sé ne presti.
  • Savia non fui, avvegna che Sapìa
  • fossi chiamata, e fui de li altrui danni
  • più lieta assai che di ventura mia.
  • E perché tu non creda ch’io t’inganni,
  • odi s’i’ fui, com’ io ti dico, folle,
  • già discendendo l’arco d’i miei anni.
  • Eran li cittadin miei presso a Colle
  • in campo giunti co’ loro avversari,
  • e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
  • Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
  • passi di fuga; e veggendo la caccia,
  • letizia presi a tutte altre dispari,
  • tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
  • gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
  • come fé ’l merlo per poca bonaccia.
  • Pace volli con Dio in su lo stremo
  • de la mia vita; e ancor non sarebbe
  • lo mio dover per penitenza scemo,
  • se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
  • Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
  • a cui di me per caritate increbbe.
  • Ma tu chi se’, che nostre condizioni
  • vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
  • sì com’ io credo, e spirando ragioni?».
  • «Li occhi», diss’ io, «mi fieno ancor qui tolti,
  • ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
  • fatta per esser con invidia vòlti.
  • Troppa è più la paura ond’ è sospesa
  • l’anima mia del tormento di sotto,
  • che già lo ’ncarco di là giù mi pesa».
  • Ed ella a me: «Chi t’ha dunque condotto
  • qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
  • E io: «Costui ch’è meco e non fa motto.
  • E vivo sono; e però mi richiedi,
  • spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova
  • di là per te ancor li mortai piedi».
  • «Oh, questa è a udir sì cosa nuova»,
  • rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami;
  • però col priego tuo talor mi giova.
  • E cheggioti, per quel che tu più brami,
  • se mai calchi la terra di Toscana,
  • che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.
  • Tu li vedrai tra quella gente vana
  • che spera in Talamone, e perderagli
  • più di speranza ch’a trovar la Diana;
  • ma più vi perderanno li ammiragli».
  • Purgatorio • Canto XIV
  • «Chi è costui che ’l nostro monte cerchia
  • prima che morte li abbia dato il volo,
  • e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
  • «Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
  • domandal tu che più li t’avvicini,
  • e dolcemente, sì che parli, acco’lo».
  • Così due spirti, l’uno a l’altro chini,
  • ragionavan di me ivi a man dritta;
  • poi fer li visi, per dirmi, supini;
  • e disse l’uno: «O anima che fitta
  • nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
  • per carità ne consola e ne ditta
  • onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
  • tanto maravigliar de la tua grazia,
  • quanto vuol cosa che non fu più mai».
  • E io: «Per mezza Toscana si spazia
  • un fiumicel che nasce in Falterona,
  • e cento miglia di corso nol sazia.
  • Di sovr’ esso rech’ io questa persona:
  • dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
  • ché ’l nome mio ancor molto non suona».
  • «Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
  • con lo ’ntelletto», allora mi rispuose
  • quei che diceva pria, «tu parli d’Arno».
  • E l’altro disse lui: «Perché nascose
  • questi il vocabol di quella riviera,
  • pur com’ om fa de l’orribili cose?».
  • E l’ombra che di ciò domandata era,
  • si sdebitò così: «Non so; ma degno
  • ben è che ’l nome di tal valle pèra;
  • ché dal principio suo, ov’ è sì pregno
  • l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro,
  • che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno,
  • infin là ’ve si rende per ristoro
  • di quel che ’l ciel de la marina asciuga,
  • ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro,
  • vertù così per nimica si fuga
  • da tutti come biscia, o per sventura
  • del luogo, o per mal uso che li fruga:
  • ond’ hanno sì mutata lor natura
  • li abitator de la misera valle,
  • che par che Circe li avesse in pastura.
  • Tra brutti porci, più degni di galle
  • che d’altro cibo fatto in uman uso,
  • dirizza prima il suo povero calle.
  • Botoli trova poi, venendo giuso,
  • ringhiosi più che non chiede lor possa,
  • e da lor disdegnosa torce il muso.
  • Vassi caggendo; e quant’ ella più ’ngrossa,
  • tanto più trova di can farsi lupi
  • la maladetta e sventurata fossa.
  • Discesa poi per più pelaghi cupi,
  • trova le volpi sì piene di froda,
  • che non temono ingegno che le occùpi.
  • Né lascerò di dir perch’ altri m’oda;
  • e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
  • di ciò che vero spirto mi disnoda.
  • Io veggio tuo nepote che diventa
  • cacciator di quei lupi in su la riva
  • del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
  • Vende la carne loro essendo viva;
  • poscia li ancide come antica belva;
  • molti di vita e sé di pregio priva.
  • Sanguinoso esce de la trista selva;
  • lasciala tal, che di qui a mille anni
  • ne lo stato primaio non si rinselva».
  • Com’ a l’annunzio di dogliosi danni
  • si turba il viso di colui ch’ascolta,
  • da qual che parte il periglio l’assanni,
  • così vid’ io l’altr’ anima, che volta
  • stava a udir, turbarsi e farsi trista,
  • poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.
  • Lo dir de l’una e de l’altra la vista
  • mi fer voglioso di saper lor nomi,
  • e dimanda ne fei con prieghi mista;
  • per che lo spirto che di pria parlòmi
  • ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca
  • nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.
  • Ma da che Dio in te vuol che traluca
  • tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
  • però sappi ch’io fui Guido del Duca.
  • Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
  • che se veduto avesse uom farsi lieto,
  • visto m’avresti di livore sparso.
  • Di mia semente cotal paglia mieto;
  • o gente umana, perché poni ’l core
  • là ’v’ è mestier di consorte divieto?
  • Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore
  • de la casa da Calboli, ove nullo
  • fatto s’è reda poi del suo valore.
  • E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
  • tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
  • del ben richesto al vero e al trastullo;
  • ché dentro a questi termini è ripieno
  • di venenosi sterpi, sì che tardi
  • per coltivare omai verrebber meno.
  • Ov’ è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
  • Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
  • Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
  • Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
  • quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
  • verga gentil di picciola gramigna?
  • Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
  • quando rimembro, con Guido da Prata,
  • Ugolin d’Azzo che vivette nosco,
  • Federigo Tignoso e sua brigata,
  • la casa Traversara e li Anastagi
  • (e l’una gente e l’altra è diretata),
  • le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
  • che ne ’nvogliava amore e cortesia
  • là dove i cuor son fatti sì malvagi.
  • O Bretinoro, ché non fuggi via,
  • poi che gita se n’è la tua famiglia
  • e molta gente per non esser ria?
  • Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
  • e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
  • che di figliar tai conti più s’impiglia.
  • Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
  • lor sen girà; ma non però che puro
  • già mai rimagna d’essi testimonio.
  • O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
  • è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
  • chi far lo possa, tralignando, scuro.
  • Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
  • troppo di pianger più che di parlare,
  • sì m’ha nostra ragion la mente stretta».
  • Noi sapavam che quell’ anime care
  • ci sentivano andar; però, tacendo,
  • facëan noi del cammin confidare.
  • Poi fummo fatti soli procedendo,
  • folgore parve quando l’aere fende,
  • voce che giunse di contra dicendo:
  • ‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
  • e fuggì come tuon che si dilegua,
  • se sùbito la nuvola scoscende.
  • Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
  • ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
  • che somigliò tonar che tosto segua:
  • «Io sono Aglauro che divenni sasso»;
  • e allor, per ristrignermi al poeta,
  • in destro feci, e non innanzi, il passo.
  • Già era l’aura d’ogne parte queta;
  • ed el mi disse: «Quel fu ’l duro camo
  • che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
  • Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
  • de l’antico avversaro a sé vi tira;
  • e però poco val freno o richiamo.
  • Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
  • mostrandovi le sue bellezze etterne,
  • e l’occhio vostro pur a terra mira;
  • onde vi batte chi tutto discerne».
  • Purgatorio • Canto XV
  • Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
  • e ’l principio del dì par de la spera
  • che sempre a guisa di fanciullo scherza,
  • tanto pareva già inver’ la sera
  • essere al sol del suo corso rimaso;
  • vespero là, e qui mezza notte era.
  • E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
  • perché per noi girato era sì ’l monte,
  • che già dritti andavamo inver’ l’occaso,
  • quand’ io senti’ a me gravar la fronte
  • a lo splendore assai più che di prima,
  • e stupor m’eran le cose non conte;
  • ond’ io levai le mani inver’ la cima
  • de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio,
  • che del soverchio visibile lima.
  • Come quando da l’acqua o da lo specchio
  • salta lo raggio a l’opposita parte,
  • salendo su per lo modo parecchio
  • a quel che scende, e tanto si diparte
  • dal cader de la pietra in igual tratta,
  • sì come mostra esperïenza e arte;
  • così mi parve da luce rifratta
  • quivi dinanzi a me esser percosso;
  • per che a fuggir la mia vista fu ratta.
  • «Che è quel, dolce padre, a che non posso
  • schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
  • diss’ io, «e pare inver’ noi esser mosso?».
  • «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
  • la famiglia del cielo», a me rispuose:
  • «messo è che viene ad invitar ch’om saglia.
  • Tosto sarà ch’a veder queste cose
  • non ti fia grave, ma fieti diletto
  • quanto natura a sentir ti dispuose».
  • Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
  • con lieta voce disse: «Intrate quinci
  • ad un scaleo vie men che li altri eretto».
  • Noi montavam, già partiti di linci,
  • e ‘Beati misericordes!’ fue
  • cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.
  • Lo mio maestro e io soli amendue
  • suso andavamo; e io pensai, andando,
  • prode acquistar ne le parole sue;
  • e dirizza’mi a lui sì dimandando:
  • «Che volse dir lo spirto di Romagna,
  • e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».
  • Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
  • conosce il danno; e però non s’ammiri
  • se ne riprende perché men si piagna.
  • Perché s’appuntano i vostri disiri
  • dove per compagnia parte si scema,
  • invidia move il mantaco a’ sospiri.
  • Ma se l’amor de la spera supprema
  • torcesse in suso il disiderio vostro,
  • non vi sarebbe al petto quella tema;
  • ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
  • tanto possiede più di ben ciascuno,
  • e più di caritate arde in quel chiostro».
  • «Io son d’esser contento più digiuno»,
  • diss’ io, «che se mi fosse pria taciuto,
  • e più di dubbio ne la mente aduno.
  • Com’ esser puote ch’un ben, distributo
  • in più posseditor, faccia più ricchi
  • di sé che se da pochi è posseduto?».
  • Ed elli a me: «Però che tu rificchi
  • la mente pur a le cose terrene,
  • di vera luce tenebre dispicchi.
  • Quello infinito e ineffabil bene
  • che là sù è, così corre ad amore
  • com’ a lucido corpo raggio vene.
  • Tanto si dà quanto trova d’ardore;
  • sì che, quantunque carità si stende,
  • cresce sovr’ essa l’etterno valore.
  • E quanta gente più là sù s’intende,
  • più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
  • e come specchio l’uno a l’altro rende.
  • E se la mia ragion non ti disfama,
  • vedrai Beatrice, ed ella pienamente
  • ti torrà questa e ciascun’ altra brama.
  • Procaccia pur che tosto sieno spente,
  • come son già le due, le cinque piaghe,
  • che si richiudon per esser dolente».
  • Com’ io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
  • vidimi giunto in su l’altro girone,
  • sì che tacer mi fer le luci vaghe.
  • Ivi mi parve in una visïone
  • estatica di sùbito esser tratto,
  • e vedere in un tempio più persone;
  • e una donna, in su l’entrar, con atto
  • dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
  • perché hai tu così verso noi fatto?
  • Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
  • ti cercavamo». E come qui si tacque,
  • ciò che pareva prima, dispario.
  • Indi m’apparve un’altra con quell’ acque
  • giù per le gote che ’l dolor distilla
  • quando di gran dispetto in altrui nacque,
  • e dir: «Se tu se’ sire de la villa
  • del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
  • e onde ogne scïenza disfavilla,
  • vendica te di quelle braccia ardite
  • ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
  • E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
  • risponder lei con viso temperato:
  • «Che farem noi a chi mal ne disira,
  • se quei che ci ama è per noi condannato?»,
  • Poi vidi genti accese in foco d’ira
  • con pietre un giovinetto ancider, forte
  • gridando a sé pur: «Martira, martira!».
  • E lui vedea chinarsi, per la morte
  • che l’aggravava già, inver’ la terra,
  • ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
  • orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
  • che perdonasse a’ suoi persecutori,
  • con quello aspetto che pietà diserra.
  • Quando l’anima mia tornò di fori
  • a le cose che son fuor di lei vere,
  • io riconobbi i miei non falsi errori.
  • Lo duca mio, che mi potea vedere
  • far sì com’ om che dal sonno si slega,
  • disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
  • ma se’ venuto più che mezza lega
  • velando li occhi e con le gambe avvolte,
  • a guisa di cui vino o sonno piega?».
  • «O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
  • io ti dirò», diss’ io, «ciò che m’apparve
  • quando le gambe mi furon sì tolte».
  • Ed ei: «Se tu avessi cento larve
  • sovra la faccia, non mi sarian chiuse
  • le tue cogitazion, quantunque parve.
  • Ciò che vedesti fu perché non scuse
  • d’aprir lo core a l’acque de la pace
  • che da l’etterno fonte son diffuse.
  • Non dimandai “Che hai?” per quel che face
  • chi guarda pur con l’occhio che non vede,
  • quando disanimato il corpo giace;
  • ma dimandai per darti forza al piede:
  • così frugar conviensi i pigri, lenti
  • ad usar lor vigilia quando riede».
  • Noi andavam per lo vespero, attenti
  • oltre quanto potean li occhi allungarsi
  • contra i raggi serotini e lucenti.
  • Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
  • verso di noi come la notte oscuro;
  • né da quello era loco da cansarsi.
  • Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.
  • Purgatorio • Canto XVI
  • Buio d’inferno e di notte privata
  • d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
  • quant’ esser può di nuvol tenebrata,
  • non fece al viso mio sì grosso velo
  • come quel fummo ch’ivi ci coperse,
  • né a sentir di così aspro pelo,
  • che l’occhio stare aperto non sofferse;
  • onde la scorta mia saputa e fida
  • mi s’accostò e l’omero m’offerse.
  • Sì come cieco va dietro a sua guida
  • per non smarrirsi e per non dar di cozzo
  • in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
  • m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
  • ascoltando il mio duca che diceva
  • pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
  • Io sentia voci, e ciascuna pareva
  • pregar per pace e per misericordia
  • l’Agnel di Dio che le peccata leva.
  • Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
  • una parola in tutte era e un modo,
  • sì che parea tra esse ogne concordia.
  • «Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
  • diss’ io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
  • e d’iracundia van solvendo il nodo».
  • «Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
  • e di noi parli pur come se tue
  • partissi ancor lo tempo per calendi?».
  • Così per una voce detto fue;
  • onde ’l maestro mio disse: «Rispondi,
  • e domanda se quinci si va sùe».
  • E io: «O creatura che ti mondi
  • per tornar bella a colui che ti fece,
  • maraviglia udirai, se mi secondi».
  • «Io ti seguiterò quanto mi lece»,
  • rispuose; «e se veder fummo non lascia,
  • l’udir ci terrà giunti in quella vece».
  • Allora incominciai: «Con quella fascia
  • che la morte dissolve men vo suso,
  • e venni qui per l’infernale ambascia.
  • E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
  • tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
  • per modo tutto fuor del moderno uso,
  • non mi celar chi fosti anzi la morte,
  • ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
  • e tue parole fier le nostre scorte».
  • «Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
  • del mondo seppi, e quel valore amai
  • al quale ha or ciascun disteso l’arco.
  • Per montar sù dirittamente vai».
  • Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
  • che per me prieghi quando sù sarai».
  • E io a lui: «Per fede mi ti lego
  • di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
  • dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
  • Prima era scempio, e ora è fatto doppio
  • ne la sentenza tua, che mi fa certo
  • qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.
  • Lo mondo è ben così tutto diserto
  • d’ogne virtute, come tu mi sone,
  • e di malizia gravido e coverto;
  • ma priego che m’addite la cagione,
  • sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
  • ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
  • Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
  • mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
  • lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
  • Voi che vivete ogne cagion recate
  • pur suso al cielo, pur come se tutto
  • movesse seco di necessitate.
  • Se così fosse, in voi fora distrutto
  • libero arbitrio, e non fora giustizia
  • per ben letizia, e per male aver lutto.
  • Lo cielo i vostri movimenti inizia;
  • non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
  • lume v’è dato a bene e a malizia,
  • e libero voler; che, se fatica
  • ne le prime battaglie col ciel dura,
  • poi vince tutto, se ben si notrica.
  • A maggior forza e a miglior natura
  • liberi soggiacete; e quella cria
  • la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
  • Però, se ’l mondo presente disvia,
  • in voi è la cagione, in voi si cheggia;
  • e io te ne sarò or vera spia.
  • Esce di mano a lui che la vagheggia
  • prima che sia, a guisa di fanciulla
  • che piangendo e ridendo pargoleggia,
  • l’anima semplicetta che sa nulla,
  • salvo che, mossa da lieto fattore,
  • volontier torna a ciò che la trastulla.
  • Di picciol bene in pria sente sapore;
  • quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
  • se guida o fren non torce suo amore.
  • Onde convenne legge per fren porre;
  • convenne rege aver, che discernesse
  • de la vera cittade almen la torre.
  • Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
  • Nullo, però che ’l pastor che procede,
  • rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
  • per che la gente, che sua guida vede
  • pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
  • di quel si pasce, e più oltre non chiede.
  • Ben puoi veder che la mala condotta
  • è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
  • e non natura che ’n voi sia corrotta.
  • Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
  • due soli aver, che l’una e l’altra strada
  • facean vedere, e del mondo e di Deo.
  • L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
  • col pasturale, e l’un con l’altro insieme
  • per viva forza mal convien che vada;
  • però che, giunti, l’un l’altro non teme:
  • se non mi credi, pon mente a la spiga,
  • ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.
  • In sul paese ch’Adice e Po riga,
  • solea valore e cortesia trovarsi,
  • prima che Federigo avesse briga;
  • or può sicuramente indi passarsi
  • per qualunque lasciasse, per vergogna
  • di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
  • Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
  • l’antica età la nova, e par lor tardo
  • che Dio a miglior vita li ripogna:
  • Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
  • e Guido da Castel, che mei si noma,
  • francescamente, il semplice Lombardo.
  • Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
  • per confondere in sé due reggimenti,
  • cade nel fango, e sé brutta e la soma».
  • «O Marco mio», diss’ io, «bene argomenti;
  • e or discerno perché dal retaggio
  • li figli di Levì furono essenti.
  • Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
  • di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
  • in rimprovèro del secol selvaggio?».
  • «O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
  • rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
  • par che del buon Gherardo nulla senta.
  • Per altro sopranome io nol conosco,
  • s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
  • Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
  • Vedi l’albor che per lo fummo raia
  • già biancheggiare, e me convien partirmi
  • (l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».
  • Così tornò, e più non volle udirmi.
  • Purgatorio • Canto XVII
  • Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
  • ti colse nebbia per la qual vedessi
  • non altrimenti che per pelle talpe,
  • come, quando i vapori umidi e spessi
  • a diradar cominciansi, la spera
  • del sol debilemente entra per essi;
  • e fia la tua imagine leggera
  • in giugnere a veder com’ io rividi
  • lo sole in pria, che già nel corcar era.
  • Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
  • del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
  • ai raggi morti già ne’ bassi lidi.
  • O imaginativa che ne rube
  • talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
  • perché dintorno suonin mille tube,
  • chi move te, se ’l senso non ti porge?
  • Moveti lume che nel ciel s’informa,
  • per sé o per voler che giù lo scorge.
  • De l’empiezza di lei che mutò forma
  • ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
  • ne l’imagine mia apparve l’orma;
  • e qui fu la mia mente sì ristretta
  • dentro da sé, che di fuor non venìa
  • cosa che fosse allor da lei ricetta.
  • Poi piovve dentro a l’alta fantasia
  • un crucifisso, dispettoso e fero
  • ne la sua vista, e cotal si moria;
  • intorno ad esso era il grande Assüero,
  • Estèr sua sposa e ’l giusto Mardoceo,
  • che fu al dire e al far così intero.
  • E come questa imagine rompeo
  • sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
  • cui manca l’acqua sotto qual si feo,
  • surse in mia visïone una fanciulla
  • piangendo forte, e dicea: «O regina,
  • perché per ira hai voluto esser nulla?
  • Ancisa t’hai per non perder Lavina;
  • or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
  • madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».
  • Come si frange il sonno ove di butto
  • nova luce percuote il viso chiuso,
  • che fratto guizza pria che muoia tutto;
  • così l’imaginar mio cadde giuso
  • tosto che lume il volto mi percosse,
  • maggior assai che quel ch’è in nostro uso.
  • I’ mi volgea per veder ov’ io fosse,
  • quando una voce disse «Qui si monta»,
  • che da ogne altro intento mi rimosse;
  • e fece la mia voglia tanto pronta
  • di riguardar chi era che parlava,
  • che mai non posa, se non si raffronta.
  • Ma come al sol che nostra vista grava
  • e per soverchio sua figura vela,
  • così la mia virtù quivi mancava.
  • «Questo è divino spirito, che ne la
  • via da ir sù ne drizza sanza prego,
  • e col suo lume sé medesmo cela.
  • Sì fa con noi, come l’uom si fa sego;
  • ché quale aspetta prego e l’uopo vede,
  • malignamente già si mette al nego.
  • Or accordiamo a tanto invito il piede;
  • procacciam di salir pria che s’abbui,
  • ché poi non si poria, se ’l dì non riede».
  • Così disse il mio duca, e io con lui
  • volgemmo i nostri passi ad una scala;
  • e tosto ch’io al primo grado fui,
  • senti’mi presso quasi un muover d’ala
  • e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati
  • pacifici, che son sanz’ ira mala!’.
  • Già eran sovra noi tanto levati
  • li ultimi raggi che la notte segue,
  • che le stelle apparivan da più lati.
  • ‘O virtù mia, perché sì ti dilegue?’,
  • fra me stesso dicea, ché mi sentiva
  • la possa de le gambe posta in triegue.
  • Noi eravam dove più non saliva
  • la scala sù, ed eravamo affissi,
  • pur come nave ch’a la piaggia arriva.
  • E io attesi un poco, s’io udissi
  • alcuna cosa nel novo girone;
  • poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
  • «Dolce mio padre, dì, quale offensione
  • si purga qui nel giro dove semo?
  • Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
  • Ed elli a me: «L’amor del bene, scemo
  • del suo dover, quiritta si ristora;
  • qui si ribatte il mal tardato remo.
  • Ma perché più aperto intendi ancora,
  • volgi la mente a me, e prenderai
  • alcun buon frutto di nostra dimora».
  • «Né creator né creatura mai»,
  • cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
  • o naturale o d’animo; e tu ’l sai.
  • Lo naturale è sempre sanza errore,
  • ma l’altro puote errar per malo obietto
  • o per troppo o per poco di vigore.
  • Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
  • e ne’ secondi sé stesso misura,
  • esser non può cagion di mal diletto;
  • ma quando al mal si torce, o con più cura
  • o con men che non dee corre nel bene,
  • contra ’l fattore adovra sua fattura.
  • Quinci comprender puoi ch’esser convene
  • amor sementa in voi d’ogne virtute
  • e d’ogne operazion che merta pene.
  • Or, perché mai non può da la salute
  • amor del suo subietto volger viso,
  • da l’odio proprio son le cose tute;
  • e perché intender non si può diviso,
  • e per sé stante, alcuno esser dal primo,
  • da quello odiare ogne effetto è deciso.
  • Resta, se dividendo bene stimo,
  • che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
  • amor nasce in tre modi in vostro limo.
  • È chi, per esser suo vicin soppresso,
  • spera eccellenza, e sol per questo brama
  • ch’el sia di sua grandezza in basso messo;
  • è chi podere, grazia, onore e fama
  • teme di perder perch’ altri sormonti,
  • onde s’attrista sì che ’l contrario ama;
  • ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
  • sì che si fa de la vendetta ghiotto,
  • e tal convien che ’l male altrui impronti.
  • Questo triforme amor qua giù di sotto
  • si piange: or vo’ che tu de l’altro intende,
  • che corre al ben con ordine corrotto.
  • Ciascun confusamente un bene apprende
  • nel qual si queti l’animo, e disira;
  • per che di giugner lui ciascun contende.
  • Se lento amore a lui veder vi tira
  • o a lui acquistar, questa cornice,
  • dopo giusto penter, ve ne martira.
  • Altro ben è che non fa l’uom felice;
  • non è felicità, non è la buona
  • essenza, d’ogne ben frutto e radice.
  • L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
  • di sovr’ a noi si piange per tre cerchi;
  • ma come tripartito si ragiona,
  • tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
  • Purgatorio • Canto XVIII
  • Posto avea fine al suo ragionamento
  • l’alto dottore, e attento guardava
  • ne la mia vista s’io parea contento;
  • e io, cui nova sete ancor frugava,
  • di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse
  • lo troppo dimandar ch’io fo li grava’.
  • Ma quel padre verace, che s’accorse
  • del timido voler che non s’apriva,
  • parlando, di parlare ardir mi porse.
  • Ond’ io: «Maestro, il mio veder s’avviva
  • sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
  • quanto la tua ragion parta o descriva.
  • Però ti prego, dolce padre caro,
  • che mi dimostri amore, a cui reduci
  • ogne buono operare e ’l suo contraro».
  • «Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci
  • de lo ’ntelletto, e fieti manifesto
  • l’error de’ ciechi che si fanno duci.
  • L’animo, ch’è creato ad amar presto,
  • ad ogne cosa è mobile che piace,
  • tosto che dal piacere in atto è desto.
  • Vostra apprensiva da esser verace
  • tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
  • sì che l’animo ad essa volger face;
  • e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
  • quel piegare è amor, quell’ è natura
  • che per piacer di novo in voi si lega.
  • Poi, come ’l foco movesi in altura
  • per la sua forma ch’è nata a salire
  • là dove più in sua matera dura,
  • così l’animo preso entra in disire,
  • ch’è moto spiritale, e mai non posa
  • fin che la cosa amata il fa gioire.
  • Or ti puote apparer quant’ è nascosa
  • la veritate a la gente ch’avvera
  • ciascun amore in sé laudabil cosa;
  • però che forse appar la sua matera
  • sempre esser buona, ma non ciascun segno
  • è buono, ancor che buona sia la cera».
  • «Le tue parole e ’l mio seguace ingegno»,
  • rispuos’ io lui, «m’hanno amor discoverto,
  • ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;
  • ché, s’amore è di fuori a noi offerto
  • e l’anima non va con altro piede,
  • se dritta o torta va, non è suo merto».
  • Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede,
  • dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
  • pur a Beatrice, ch’è opra di fede.
  • Ogne forma sustanzïal, che setta
  • è da matera ed è con lei unita,
  • specifica vertute ha in sé colletta,
  • la qual sanza operar non è sentita,
  • né si dimostra mai che per effetto,
  • come per verdi fronde in pianta vita.
  • Però, là onde vegna lo ’ntelletto
  • de le prime notizie, omo non sape,
  • e de’ primi appetibili l’affetto,
  • che sono in voi sì come studio in ape
  • di far lo mele; e questa prima voglia
  • merto di lode o di biasmo non cape.
  • Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
  • innata v’è la virtù che consiglia,
  • e de l’assenso de’ tener la soglia.
  • Quest’ è ’l principio là onde si piglia
  • ragion di meritare in voi, secondo
  • che buoni e rei amori accoglie e viglia.
  • Color che ragionando andaro al fondo,
  • s’accorser d’esta innata libertate;
  • però moralità lasciaro al mondo.
  • Onde, poniam che di necessitate
  • surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
  • di ritenerlo è in voi la podestate.
  • La nobile virtù Beatrice intende
  • per lo libero arbitrio, e però guarda
  • che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende».
  • La luna, quasi a mezza notte tarda,
  • facea le stelle a noi parer più rade,
  • fatta com’ un secchion che tuttor arda;
  • e correa contro ’l ciel per quelle strade
  • che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
  • tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.
  • E quell’ ombra gentil per cui si noma
  • Pietola più che villa mantoana,
  • del mio carcar diposta avea la soma;
  • per ch’io, che la ragione aperta e piana
  • sovra le mie quistioni avea ricolta,
  • stava com’ om che sonnolento vana.
  • Ma questa sonnolenza mi fu tolta
  • subitamente da gente che dopo
  • le nostre spalle a noi era già volta.
  • E quale Ismeno già vide e Asopo
  • lungo di sè di notte furia e calca,
  • pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
  • cotal per quel giron suo passo falca,
  • per quel ch’io vidi di color, venendo,
  • cui buon volere e giusto amor cavalca.
  • Tosto fur sovr’ a noi, perché correndo
  • si movea tutta quella turba magna;
  • e due dinanzi gridavan piangendo:
  • «Maria corse con fretta a la montagna;
  • e Cesare, per soggiogare Ilerda,
  • punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
  • «Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda
  • per poco amor», gridavan li altri appresso,
  • «che studio di ben far grazia rinverda».
  • «O gente in cui fervore aguto adesso
  • ricompie forse negligenza e indugio
  • da voi per tepidezza in ben far messo,
  • questi che vive, e certo i’ non vi bugio,
  • vuole andar sù, pur che ’l sol ne riluca;
  • però ne dite ond’ è presso il pertugio».
  • Parole furon queste del mio duca;
  • e un di quelli spirti disse: «Vieni
  • di retro a noi, e troverai la buca.
  • Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
  • che restar non potem; però perdona,
  • se villania nostra giustizia tieni.
  • Io fui abate in San Zeno a Verona
  • sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
  • di cui dolente ancor Milan ragiona.
  • E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
  • che tosto piangerà quel monastero,
  • e tristo fia d’avere avuta possa;
  • perché suo figlio, mal del corpo intero,
  • e de la mente peggio, e che mal nacque,
  • ha posto in loco di suo pastor vero».
  • Io non so se più disse o s’ei si tacque,
  • tant’ era già di là da noi trascorso;
  • ma questo intesi, e ritener mi piacque.
  • E quei che m’era ad ogne uopo soccorso
  • disse: «Volgiti qua: vedine due
  • venir dando a l’accidïa di morso».
  • Di retro a tutti dicean: «Prima fue
  • morta la gente a cui il mar s’aperse,
  • che vedesse Iordan le rede sue.
  • E quella che l’affanno non sofferse
  • fino a la fine col figlio d’Anchise,
  • sé stessa a vita sanza gloria offerse».
  • Poi quando fuor da noi tanto divise
  • quell’ ombre, che veder più non potiersi,
  • novo pensiero dentro a me si mise,
  • del qual più altri nacquero e diversi;
  • e tanto d’uno in altro vaneggiai,
  • che li occhi per vaghezza ricopersi,
  • e ’l pensamento in sogno trasmutai.
  • Purgatorio • Canto XIX
  • Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
  • intepidar più ’l freddo de la luna,
  • vinto da terra, e talor da Saturno
  • —quando i geomanti lor Maggior Fortuna
  • veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
  • surger per via che poco le sta bruna—,
  • mi venne in sogno una femmina balba,
  • ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
  • con le man monche, e di colore scialba.
  • Io la mirava; e come ’l sol conforta
  • le fredde membra che la notte aggrava,
  • così lo sguardo mio le facea scorta
  • la lingua, e poscia tutta la drizzava
  • in poco d’ora, e lo smarrito volto,
  • com’ amor vuol, così le colorava.
  • Poi ch’ell’ avea ’l parlar così disciolto,
  • cominciava a cantar sì, che con pena
  • da lei avrei mio intento rivolto.
  • «Io son», cantava, «io son dolce serena,
  • che ’ marinari in mezzo mar dismago;
  • tanto son di piacere a sentir piena!
  • Io volsi Ulisse del suo cammin vago
  • al canto mio; e qual meco s’ausa,
  • rado sen parte; sì tutto l’appago!».
  • Ancor non era sua bocca richiusa,
  • quand’ una donna apparve santa e presta
  • lunghesso me per far colei confusa.
  • «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
  • fieramente dicea; ed el venìa
  • con li occhi fitti pur in quella onesta.
  • L’altra prendea, e dinanzi l’apria
  • fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
  • quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
  • Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: «Almen tre
  • voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
  • troviam l’aperta per la qual tu entre».
  • Sù mi levai, e tutti eran già pieni
  • de l’alto dì i giron del sacro monte,
  • e andavam col sol novo a le reni.
  • Seguendo lui, portava la mia fronte
  • come colui che l’ha di pensier carca,
  • che fa di sé un mezzo arco di ponte;
  • quand’ io udi’ «Venite; qui si varca»
  • parlare in modo soave e benigno,
  • qual non si sente in questa mortal marca.
  • Con l’ali aperte, che parean di cigno,
  • volseci in sù colui che sì parlonne
  • tra due pareti del duro macigno.
  • Mosse le penne poi e ventilonne,
  • ‘Qui lugent’ affermando esser beati,
  • ch’avran di consolar l’anime donne.
  • «Che hai che pur inver’ la terra guati?»,
  • la guida mia incominciò a dirmi,
  • poco amendue da l’angel sormontati.
  • E io: «Con tanta sospeccion fa irmi
  • novella visïon ch’a sé mi piega,
  • sì ch’io non posso dal pensar partirmi».
  • «Vedesti», disse, «quell’antica strega
  • che sola sovr’ a noi omai si piagne;
  • vedesti come l’uom da lei si slega.
  • Bastiti, e batti a terra le calcagne;
  • li occhi rivolgi al logoro che gira
  • lo rege etterno con le rote magne».
  • Quale ’l falcon, che prima a’ pié si mira,
  • indi si volge al grido e si protende
  • per lo disio del pasto che là il tira,
  • tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende
  • la roccia per dar via a chi va suso,
  • n’andai infin dove ’l cerchiar si prende.
  • Com’ io nel quinto giro fui dischiuso,
  • vidi gente per esso che piangea,
  • giacendo a terra tutta volta in giuso.
  • ‘Adhaesit pavimento anima mea’
  • sentia dir lor con sì alti sospiri,
  • che la parola a pena s’intendea.
  • «O eletti di Dio, li cui soffriri
  • e giustizia e speranza fa men duri,
  • drizzate noi verso li alti saliri».
  • «Se voi venite dal giacer sicuri,
  • e volete trovar la via più tosto,
  • le vostre destre sien sempre di fori».
  • Così pregò ’l poeta, e sì risposto
  • poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io
  • nel parlare avvisai l’altro nascosto,
  • e volsi li occhi a li occhi al segnor mio:
  • ond’ elli m’assentì con lieto cenno
  • ciò che chiedea la vista del disio.
  • Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
  • trassimi sovra quella creatura
  • le cui parole pria notar mi fenno,
  • dicendo: «Spirto in cui pianger matura
  • quel sanza ’l quale a Dio tornar non pòssi,
  • sosta un poco per me tua maggior cura.
  • Chi fosti e perché vòlti avete i dossi
  • al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri
  • cosa di là ond’ io vivendo mossi».
  • Ed elli a me: «Perché i nostri diretri
  • rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
  • scias quod ego fui successor Petri.
  • Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
  • una fiumana bella, e del suo nome
  • lo titol del mio sangue fa sua cima.
  • Un mese e poco più prova’ io come
  • pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
  • che piuma sembran tutte l’altre some.
  • La mia conversïone, omè!, fu tarda;
  • ma, come fatto fui roman pastore,
  • così scopersi la vita bugiarda.
  • Vidi che lì non s’acquetava il core,
  • né più salir potiesi in quella vita;
  • per che di questa in me s’accese amore.
  • Fino a quel punto misera e partita
  • da Dio anima fui, del tutto avara;
  • or, come vedi, qui ne son punita.
  • Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara
  • in purgazion de l’anime converse;
  • e nulla pena il monte ha più amara.
  • Sì come l’occhio nostro non s’aderse
  • in alto, fisso a le cose terrene,
  • così giustizia qui a terra il merse.
  • Come avarizia spense a ciascun bene
  • lo nostro amore, onde operar perdési,
  • così giustizia qui stretti ne tene,
  • ne’ piedi e ne le man legati e presi;
  • e quanto fia piacer del giusto Sire,
  • tanto staremo immobili e distesi».
  • Io m’era inginocchiato e volea dire;
  • ma com’ io cominciai ed el s’accorse,
  • solo ascoltando, del mio reverire,
  • «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
  • E io a lui: «Per vostra dignitate
  • mia coscïenza dritto mi rimorse».
  • «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
  • rispuose; «non errar: conservo sono
  • teco e con li altri ad una podestate.
  • Se mai quel santo evangelico suono
  • che dice ‘Neque nubent’ intendesti,
  • ben puoi veder perch’ io così ragiono.
  • Vattene omai: non vo’ che più t’arresti;
  • ché la tua stanza mio pianger disagia,
  • col qual maturo ciò che tu dicesti.
  • Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
  • buona da sé, pur che la nostra casa
  • non faccia lei per essempro malvagia;
  • e questa sola di là m’è rimasa».
  • Purgatorio • Canto XX
  • Contra miglior voler voler mal pugna;
  • onde contra ’l piacer mio, per piacerli,
  • trassi de l’acqua non sazia la spugna.
  • Mossimi; e ’l duca mio si mosse per li
  • luoghi spediti pur lungo la roccia,
  • come si va per muro stretto a’ merli;
  • ché la gente che fonde a goccia a goccia
  • per li occhi il mal che tutto ’l mondo occupa,
  • da l’altra parte in fuor troppo s’approccia.
  • Maladetta sie tu, antica lupa,
  • che più che tutte l’altre bestie hai preda
  • per la tua fame sanza fine cupa!
  • O ciel, nel cui girar par che si creda
  • le condizion di qua giù trasmutarsi,
  • quando verrà per cui questa disceda?
  • Noi andavam con passi lenti e scarsi,
  • e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
  • pietosamente piangere e lagnarsi;
  • e per ventura udi’ «Dolce Maria!»
  • dinanzi a noi chiamar così nel pianto
  • come fa donna che in parturir sia;
  • e seguitar: «Povera fosti tanto,
  • quanto veder si può per quello ospizio
  • dove sponesti il tuo portato santo».
  • Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
  • con povertà volesti anzi virtute
  • che gran ricchezza posseder con vizio».
  • Queste parole m’eran sì piaciute,
  • ch’io mi trassi oltre per aver contezza
  • di quello spirto onde parean venute.
  • Esso parlava ancor de la larghezza
  • che fece Niccolò a le pulcelle,
  • per condurre ad onor lor giovinezza.
  • «O anima che tanto ben favelle,
  • dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
  • tu queste degne lode rinovelle.
  • Non fia sanza mercé la tua parola,
  • s’io ritorno a compiér lo cammin corto
  • di quella vita ch’al termine vola».
  • Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
  • ch’io attenda di là, ma perché tanta
  • grazia in te luce prima che sie morto.
  • Io fui radice de la mala pianta
  • che la terra cristiana tutta aduggia,
  • sì che buon frutto rado se ne schianta.
  • Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
  • potesser, tosto ne saria vendetta;
  • e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
  • Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
  • di me son nati i Filippi e i Luigi
  • per cui novellamente è Francia retta.
  • Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
  • quando li regi antichi venner meno
  • tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,
  • trova’mi stretto ne le mani il freno
  • del governo del regno, e tanta possa
  • di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,
  • ch’a la corona vedova promossa
  • la testa di mio figlio fu, dal quale
  • cominciar di costor le sacrate ossa.
  • Mentre che la gran dota provenzale
  • al sangue mio non tolse la vergogna,
  • poco valea, ma pur non facea male.
  • Lì cominciò con forza e con menzogna
  • la sua rapina; e poscia, per ammenda,
  • Pontì e Normandia prese e Guascogna.
  • Carlo venne in Italia e, per ammenda,
  • vittima fé di Curradino; e poi
  • ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
  • Tempo vegg’ io, non molto dopo ancoi,
  • che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
  • per far conoscer meglio e sé e ’ suoi.
  • Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
  • con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
  • sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
  • Quindi non terra, ma peccato e onta
  • guadagnerà, per sé tanto più grave,
  • quanto più lieve simil danno conta.
  • L’altro, che già uscì preso di nave,
  • veggio vender sua figlia e patteggiarne
  • come fanno i corsar de l’altre schiave.
  • O avarizia, che puoi tu più farne,
  • poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto,
  • che non si cura de la propria carne?
  • Perché men paia il mal futuro e ’l fatto,
  • veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
  • e nel vicario suo Cristo esser catto.
  • Veggiolo un’altra volta esser deriso;
  • veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
  • e tra vivi ladroni esser anciso.
  • Veggio il novo Pilato sì crudele,
  • che ciò nol sazia, ma sanza decreto
  • portar nel Tempio le cupide vele.
  • O Segnor mio, quando sarò io lieto
  • a veder la vendetta che, nascosa,
  • fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?
  • Ciò ch’io dicea di quell’ unica sposa
  • de lo Spirito Santo e che ti fece
  • verso me volger per alcuna chiosa,
  • tanto è risposto a tutte nostre prece
  • quanto ’l dì dura; ma com’ el s’annotta,
  • contrario suon prendemo in quella vece.
  • Noi repetiam Pigmalïon allotta,
  • cui traditore e ladro e paricida
  • fece la voglia sua de l’oro ghiotta;
  • e la miseria de l’avaro Mida,
  • che seguì a la sua dimanda gorda,
  • per la qual sempre convien che si rida.
  • Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
  • come furò le spoglie, sì che l’ira
  • di Iosüè qui par ch’ancor lo morda.
  • Indi accusiam col marito Saffira;
  • lodiam i calci ch’ebbe Elïodoro;
  • e in infamia tutto ’l monte gira
  • Polinestòr ch’ancise Polidoro;
  • ultimamente ci si grida: “Crasso,
  • dilci, che ’l sai: di che sapore è l’oro?”.
  • Talor parla l’uno alto e l’altro basso,
  • secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona
  • ora a maggiore e ora a minor passo:
  • però al ben che ’l dì ci si ragiona,
  • dianzi non era io sol; ma qui da presso
  • non alzava la voce altra persona».
  • Noi eravam partiti già da esso,
  • e brigavam di soverchiar la strada
  • tanto quanto al poder n’era permesso,
  • quand’ io senti’, come cosa che cada,
  • tremar lo monte; onde mi prese un gelo
  • qual prender suol colui ch’a morte vada.
  • Certo non si scoteo sì forte Delo,
  • pria che Latona in lei facesse ’l nido
  • a parturir li due occhi del cielo.
  • Poi cominciò da tutte parti un grido
  • tal, che ’l maestro inverso me si feo,
  • dicendo: «Non dubbiar, mentr’ io ti guido».
  • ‘Glorïa in excelsis’ tutti ‘Deo’
  • dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
  • onde intender lo grido si poteo.
  • No’ istavamo immobili e sospesi
  • come i pastor che prima udir quel canto,
  • fin che ’l tremar cessò ed el compiési.
  • Poi ripigliammo nostro cammin santo,
  • guardando l’ombre che giacean per terra,
  • tornate già in su l’usato pianto.
  • Nulla ignoranza mai con tanta guerra
  • mi fé desideroso di sapere,
  • se la memoria mia in ciò non erra,
  • quanta pareami allor, pensando, avere;
  • né per la fretta dimandare er’ oso,
  • né per me lì potea cosa vedere:
  • così m’andava timido e pensoso.
  • Purgatorio • Canto XXI
  • La sete natural che mai non sazia
  • se non con l’acqua onde la femminetta
  • samaritana domandò la grazia,
  • mi travagliava, e pungeami la fretta
  • per la ’mpacciata via dietro al mio duca,
  • e condoleami a la giusta vendetta.
  • Ed ecco, sì come ne scrive Luca
  • che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
  • già surto fuor de la sepulcral buca,
  • ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
  • dal piè guardando la turba che giace;
  • né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
  • dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace».
  • Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
  • rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface.
  • Poi cominciò: «Nel beato concilio
  • ti ponga in pace la verace corte
  • che me rilega ne l’etterno essilio».
  • «Come!», diss’ elli, e parte andavam forte:
  • «se voi siete ombre che Dio sù non degni,
  • chi v’ha per la sua scala tanto scorte?».
  • E ’l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni
  • che questi porta e che l’angel profila,
  • ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.
  • Ma perché lei che dì e notte fila
  • non li avea tratta ancora la conocchia
  • che Cloto impone a ciascuno e compila,
  • l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
  • venendo sù, non potea venir sola,
  • però ch’al nostro modo non adocchia.
  • Ond’ io fui tratto fuor de l’ampia gola
  • d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
  • oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.
  • Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
  • diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
  • parve gridare infino a’ suoi piè molli».
  • Sì mi diè, dimandando, per la cruna
  • del mio disio, che pur con la speranza
  • si fece la mia sete men digiuna.
  • Quei cominciò: «Cosa non è che sanza
  • ordine senta la religïone
  • de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
  • Libero è qui da ogne alterazione:
  • di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
  • esser ci puote, e non d’altro, cagione.
  • Per che non pioggia, non grando, non neve,
  • non rugiada, non brina più sù cade
  • che la scaletta di tre gradi breve;
  • nuvole spesse non paion né rade,
  • né coruscar, né figlia di Taumante,
  • che di là cangia sovente contrade;
  • secco vapor non surge più avante
  • ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
  • dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.
  • Trema forse più giù poco o assai;
  • ma per vento che ’n terra si nasconda,
  • non so come, qua sù non tremò mai.
  • Tremaci quando alcuna anima monda
  • sentesi, sì che surga o che si mova
  • per salir sù; e tal grido seconda.
  • De la mondizia sol voler fa prova,
  • che, tutto libero a mutar convento,
  • l’alma sorprende, e di voler le giova.
  • Prima vuol ben, ma non lascia il talento
  • che divina giustizia, contra voglia,
  • come fu al peccar, pone al tormento.
  • E io, che son giaciuto a questa doglia
  • cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
  • libera volontà di miglior soglia:
  • però sentisti il tremoto e li pii
  • spiriti per lo monte render lode
  • a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii».
  • Così ne disse; e però ch’el si gode
  • tanto del ber quant’ è grande la sete,
  • non saprei dir quant’ el mi fece prode.
  • E ’l savio duca: «Omai veggio la rete
  • che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
  • perché ci trema e di che congaudete.
  • Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
  • e perché tanti secoli giaciuto
  • qui se’, ne le parole tue mi cappia».
  • «Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
  • del sommo rege, vendicò le fóra
  • ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto,
  • col nome che più dura e più onora
  • era io di là», rispuose quello spirto,
  • «famoso assai, ma non con fede ancora.
  • Tanto fu dolce mio vocale spirto,
  • che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
  • dove mertai le tempie ornar di mirto.
  • Stazio la gente ancor di là mi noma:
  • cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
  • ma caddi in via con la seconda soma.
  • Al mio ardor fuor seme le faville,
  • che mi scaldar, de la divina fiamma
  • onde sono allumati più di mille;
  • de l’Eneïda dico, la qual mamma
  • fummi, e fummi nutrice, poetando:
  • sanz’ essa non fermai peso di dramma.
  • E per esser vivuto di là quando
  • visse Virgilio, assentirei un sole
  • più che non deggio al mio uscir di bando».
  • Volser Virgilio a me queste parole
  • con viso che, tacendo, disse ‘Taci’;
  • ma non può tutto la virtù che vuole;
  • ché riso e pianto son tanto seguaci
  • a la passion di che ciascun si spicca,
  • che men seguon voler ne’ più veraci.
  • Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
  • per che l’ombra si tacque, e riguardommi
  • ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
  • e «Se tanto labore in bene assommi»,
  • disse, «perché la tua faccia testeso
  • un lampeggiar di riso dimostrommi?».
  • Or son io d’una parte e d’altra preso:
  • l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
  • ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso
  • dal mio maestro, e «Non aver paura»,
  • mi dice, «di parlar; ma parla e digli
  • quel ch’e’ dimanda con cotanta cura».
  • Ond’ io: «Forse che tu ti maravigli,
  • antico spirto, del rider ch’io fei;
  • ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
  • Questi che guida in alto li occhi miei,
  • è quel Virgilio dal qual tu togliesti
  • forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
  • Se cagion altra al mio rider credesti,
  • lasciala per non vera, ed esser credi
  • quelle parole che di lui dicesti».
  • Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
  • al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
  • non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi».
  • Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
  • comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
  • quand’ io dismento nostra vanitate,
  • trattando l’ombre come cosa salda».
  • Purgatorio • Canto XXII
  • Già era l’angel dietro a noi rimaso,
  • l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
  • avendomi dal viso un colpo raso;
  • e quei c’hanno a giustizia lor disiro
  • detto n’avea beati, e le sue voci
  • con ‘sitiunt’, sanz’ altro, ciò forniro.
  • E io più lieve che per l’altre foci
  • m’andava, sì che sanz’ alcun labore
  • seguiva in sù li spiriti veloci;
  • quando Virgilio incominciò: «Amore,
  • acceso di virtù, sempre altro accese,
  • pur che la fiamma sua paresse fore;
  • onde da l’ora che tra noi discese
  • nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
  • che la tua affezion mi fé palese,
  • mia benvoglienza inverso te fu quale
  • più strinse mai di non vista persona,
  • sì ch’or mi parran corte queste scale.
  • Ma dimmi, e come amico mi perdona
  • se troppa sicurtà m’allarga il freno,
  • e come amico omai meco ragiona:
  • come poté trovar dentro al tuo seno
  • loco avarizia, tra cotanto senno
  • di quanto per tua cura fosti pieno?».
  • Queste parole Stazio mover fenno
  • un poco a riso pria; poscia rispuose:
  • «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.
  • Veramente più volte appaion cose
  • che danno a dubitar falsa matera
  • per le vere ragion che son nascose.
  • La tua dimanda tuo creder m’avvera
  • esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,
  • forse per quella cerchia dov’ io era.
  • Or sappi ch’avarizia fu partita
  • troppo da me, e questa dismisura
  • migliaia di lunari hanno punita.
  • E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
  • quand’ io intesi là dove tu chiame,
  • crucciato quasi a l’umana natura:
  • ‘Per che non reggi tu, o sacra fame
  • de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
  • voltando sentirei le giostre grame.
  • Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
  • potean le mani a spendere, e pente’mi
  • così di quel come de li altri mali.
  • Quanti risurgeran coi crini scemi
  • per ignoranza, che di questa pecca
  • toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!
  • E sappie che la colpa che rimbecca
  • per dritta opposizione alcun peccato,
  • con esso insieme qui suo verde secca;
  • però, s’io son tra quella gente stato
  • che piange l’avarizia, per purgarmi,
  • per lo contrario suo m’è incontrato».
  • «Or quando tu cantasti le crude armi
  • de la doppia trestizia di Giocasta»,
  • disse ’l cantor de’ buccolici carmi,
  • «per quello che Clïò teco lì tasta,
  • non par che ti facesse ancor fedele
  • la fede, sanza qual ben far non basta.
  • Se così è, qual sole o quai candele
  • ti stenebraron sì, che tu drizzasti
  • poscia di retro al pescator le vele?».
  • Ed elli a lui: «Tu prima m’invïasti
  • verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
  • e prima appresso Dio m’alluminasti.
  • Facesti come quei che va di notte,
  • che porta il lume dietro e sé non giova,
  • ma dopo sé fa le persone dotte,
  • quando dicesti: ‘Secol si rinova;
  • torna giustizia e primo tempo umano,
  • e progenïe scende da ciel nova’.
  • Per te poeta fui, per te cristiano:
  • ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
  • a colorare stenderò la mano.
  • Già era ’l mondo tutto quanto pregno
  • de la vera credenza, seminata
  • per li messaggi de l’etterno regno;
  • e la parola tua sopra toccata
  • si consonava a’ nuovi predicanti;
  • ond’ io a visitarli presi usata.
  • Vennermi poi parendo tanto santi,
  • che, quando Domizian li perseguette,
  • sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
  • e mentre che di là per me si stette,
  • io li sovvenni, e i lor dritti costumi
  • fer dispregiare a me tutte altre sette.
  • E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi
  • di Tebe poetando, ebb’ io battesmo;
  • ma per paura chiuso cristian fu’mi,
  • lungamente mostrando paganesmo;
  • e questa tepidezza il quarto cerchio
  • cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.
  • Tu dunque, che levato hai il coperchio
  • che m’ascondeva quanto bene io dico,
  • mentre che del salire avem soverchio,
  • dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico,
  • Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
  • dimmi se son dannati, e in qual vico».
  • «Costoro e Persio e io e altri assai»,
  • rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
  • che le Muse lattar più ch’altri mai,
  • nel primo cinghio del carcere cieco;
  • spesse fïate ragioniam del monte
  • che sempre ha le nutrice nostre seco.
  • Euripide v’è nosco e Antifonte,
  • Simonide, Agatone e altri piùe
  • Greci che già di lauro ornar la fronte.
  • Quivi si veggion de le genti tue
  • Antigone, Deïfile e Argia,
  • e Ismene sì trista come fue.
  • Védeisi quella che mostrò Langia;
  • èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
  • e con le suore sue Deïdamia».
  • Tacevansi ambedue già li poeti,
  • di novo attenti a riguardar dintorno,
  • liberi da saliri e da pareti;
  • e già le quattro ancelle eran del giorno
  • rimase a dietro, e la quinta era al temo,
  • drizzando pur in sù l’ardente corno,
  • quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo
  • le destre spalle volger ne convegna,
  • girando il monte come far solemo».
  • Così l’usanza fu lì nostra insegna,
  • e prendemmo la via con men sospetto
  • per l’assentir di quell’ anima degna.
  • Elli givan dinanzi, e io soletto
  • di retro, e ascoltava i lor sermoni,
  • ch’a poetar mi davano intelletto.
  • Ma tosto ruppe le dolci ragioni
  • un alber che trovammo in mezza strada,
  • con pomi a odorar soavi e buoni;
  • e come abete in alto si digrada
  • di ramo in ramo, così quello in giuso,
  • cred’ io, perché persona sù non vada.
  • Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,
  • cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
  • e si spandeva per le foglie suso.
  • Li due poeti a l’alber s’appressaro;
  • e una voce per entro le fronde
  • gridò: «Di questo cibo avrete caro».
  • Poi disse: «Più pensava Maria onde
  • fosser le nozze orrevoli e intere,
  • ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.
  • E le Romane antiche, per lor bere,
  • contente furon d’acqua; e Danïello
  • dispregiò cibo e acquistò savere.
  • Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
  • fé savorose con fame le ghiande,
  • e nettare con sete ogne ruscello.
  • Mele e locuste furon le vivande
  • che nodriro il Batista nel diserto;
  • per ch’elli è glorïoso e tanto grande
  • quanto per lo Vangelio v’è aperto».
  • Purgatorio • Canto XXIII
  • Mentre che li occhi per la fronda verde
  • ficcava ïo sì come far suole
  • chi dietro a li uccellin sua vita perde,
  • lo più che padre mi dicea: «Figliuole,
  • vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto
  • più utilmente compartir si vuole».
  • Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,
  • appresso i savi, che parlavan sìe,
  • che l’andar mi facean di nullo costo.
  • Ed ecco piangere e cantar s’udìe
  • ‘Labïa mëa, Domine’ per modo
  • tal, che diletto e doglia parturìe.
  • «O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?»,
  • comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno
  • forse di lor dover solvendo il nodo».
  • Sì come i peregrin pensosi fanno,
  • giugnendo per cammin gente non nota,
  • che si volgono ad essa e non restanno,
  • così di retro a noi, più tosto mota,
  • venendo e trapassando ci ammirava
  • d’anime turba tacita e devota.
  • Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
  • palida ne la faccia, e tanto scema
  • che da l’ossa la pelle s’informava.
  • Non credo che così a buccia strema
  • Erisittone fosse fatto secco,
  • per digiunar, quando più n’ebbe tema.
  • Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco
  • la gente che perdé Ierusalemme,
  • quando Maria nel figlio diè di becco!’
  • Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
  • chi nel viso de li uomini legge ‘omo’
  • ben avria quivi conosciuta l’emme.
  • Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
  • sì governasse, generando brama,
  • e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
  • Già era in ammirar che sì li affama,
  • per la cagione ancor non manifesta
  • di lor magrezza e di lor trista squama,
  • ed ecco del profondo de la testa
  • volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
  • poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
  • Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
  • ma ne la voce sua mi fu palese
  • ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
  • Questa favilla tutta mi raccese
  • mia conoscenza a la cangiata labbia,
  • e ravvisai la faccia di Forese.
  • «Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
  • che mi scolora», pregava, «la pelle,
  • né a difetto di carne ch’io abbia;
  • ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
  • due anime che là ti fanno scorta;
  • non rimaner che tu non mi favelle!».
  • «La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
  • mi dà di pianger mo non minor doglia»,
  • rispuos’ io lui, «veggendola sì torta.
  • Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
  • non mi far dir mentr’ io mi maraviglio,
  • ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
  • Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
  • cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
  • rimasa dietro ond’ io sì m’assottiglio.
  • Tutta esta gente che piangendo canta
  • per seguitar la gola oltra misura,
  • in fame e ’n sete qui si rifà santa.
  • Di bere e di mangiar n’accende cura
  • l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
  • che si distende su per sua verdura.
  • E non pur una volta, questo spazzo
  • girando, si rinfresca nostra pena:
  • io dico pena, e dovria dir sollazzo,
  • ché quella voglia a li alberi ci mena
  • che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
  • quando ne liberò con la sua vena».
  • E io a lui: «Forese, da quel dì
  • nel qual mutasti mondo a miglior vita,
  • cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
  • Se prima fu la possa in te finita
  • di peccar più, che sovvenisse l’ora
  • del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
  • come se’ tu qua sù venuto ancora?
  • Io ti credea trovar là giù di sotto,
  • dove tempo per tempo si ristora».
  • Ond’ elli a me: «Sì tosto m’ha condotto
  • a ber lo dolce assenzo d’i martìri
  • la Nella mia con suo pianger dirotto.
  • Con suoi prieghi devoti e con sospiri
  • tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
  • e liberato m’ha de li altri giri.
  • Tanto è a Dio più cara e più diletta
  • la vedovella mia, che molto amai,
  • quanto in bene operare è più soletta;
  • ché la Barbagia di Sardigna assai
  • ne le femmine sue più è pudica
  • che la Barbagia dov’ io la lasciai.
  • O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
  • Tempo futuro m’è già nel cospetto,
  • cui non sarà quest’ ora molto antica,
  • nel qual sarà in pergamo interdetto
  • a le sfacciate donne fiorentine
  • l’andar mostrando con le poppe il petto.
  • Quai barbare fuor mai, quai saracine,
  • cui bisognasse, per farle ir coperte,
  • o spiritali o altre discipline?
  • Ma se le svergognate fosser certe
  • di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
  • già per urlare avrian le bocche aperte;
  • ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
  • prima fien triste che le guance impeli
  • colui che mo si consola con nanna.
  • Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
  • vedi che non pur io, ma questa gente
  • tutta rimira là dove ’l sol veli».
  • Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente
  • qual fosti meco, e qual io teco fui,
  • ancor fia grave il memorar presente.
  • Di quella vita mi volse costui
  • che mi va innanzi, l’altr’ ier, quando tonda
  • vi si mostrò la suora di colui»,
  • e ’l sol mostrai; «costui per la profonda
  • notte menato m’ha d’i veri morti
  • con questa vera carne che ’l seconda.
  • Indi m’han tratto sù li suoi conforti,
  • salendo e rigirando la montagna
  • che drizza voi che ’l mondo fece torti.
  • Tanto dice di farmi sua compagna
  • che io sarò là dove fia Beatrice;
  • quivi convien che sanza lui rimagna.
  • Virgilio è questi che così mi dice»,
  • e addita’lo; «e quest’ altro è quell’ ombra
  • per cuï scosse dianzi ogne pendice
  • lo vostro regno, che da sé lo sgombra».
  • Purgatorio • Canto XXIV
  • Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
  • facea, ma ragionando andavam forte,
  • sì come nave pinta da buon vento;
  • e l’ombre, che parean cose rimorte,
  • per le fosse de li occhi ammirazione
  • traean di me, di mio vivere accorte.
  • E io, continüando al mio sermone,
  • dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
  • che non farebbe, per altrui cagione.
  • Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
  • dimmi s’io veggio da notar persona
  • tra questa gente che sì mi riguarda».
  • «La mia sorella, che tra bella e buona
  • non so qual fosse più, trïunfa lieta
  • ne l’alto Olimpo già di sua corona».
  • Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta
  • di nominar ciascun, da ch’è sì munta
  • nostra sembianza via per la dïeta.
  • Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,
  • Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
  • di là da lui più che l’altre trapunta
  • ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
  • dal Torso fu, e purga per digiuno
  • l’anguille di Bolsena e la vernaccia».
  • Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
  • e del nomar parean tutti contenti,
  • sì ch’io però non vidi un atto bruno.
  • Vidi per fame a vòto usar li denti
  • Ubaldin da la Pila e Bonifazio
  • che pasturò col rocco molte genti.
  • Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
  • già di bere a Forlì con men secchezza,
  • e sì fu tal, che non si sentì sazio.
  • Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
  • più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
  • che più parea di me aver contezza.
  • El mormorava; e non so che «Gentucca»
  • sentiv’ io là, ov’ el sentia la piaga
  • de la giustizia che sì li pilucca.
  • «O anima», diss’ io, «che par sì vaga
  • di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
  • e te e me col tuo parlare appaga».
  • «Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
  • cominciò el, «che ti farà piacere
  • la mia città, come ch’om la riprenda.
  • Tu te n’andrai con questo antivedere:
  • se nel mio mormorar prendesti errore,
  • dichiareranti ancor le cose vere.
  • Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
  • trasse le nove rime, cominciando
  • ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».
  • E io a lui: «I’ mi son un che, quando
  • Amor mi spira, noto, e a quel modo
  • ch’e’ ditta dentro vo significando».
  • «O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
  • che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
  • di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
  • Io veggio ben come le vostre penne
  • di retro al dittator sen vanno strette,
  • che de le nostre certo non avvenne;
  • e qual più a gradire oltre si mette,
  • non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
  • e, quasi contentato, si tacette.
  • Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
  • alcuna volta in aere fanno schiera,
  • poi volan più a fretta e vanno in filo,
  • così tutta la gente che lì era,
  • volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
  • e per magrezza e per voler leggera.
  • E come l’uom che di trottare è lasso,
  • lascia andar li compagni, e sì passeggia
  • fin che si sfoghi l’affollar del casso,
  • sì lasciò trapassar la santa greggia
  • Forese, e dietro meco sen veniva,
  • dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?».
  • «Non so», rispuos’ io lui, «quant’ io mi viva;
  • ma già non fïa il tornar mio tantosto,
  • ch’io non sia col voler prima a la riva;
  • però che ’l loco u’ fui a viver posto,
  • di giorno in giorno più di ben si spolpa,
  • e a trista ruina par disposto».
  • «Or va», diss’ el; «che quei che più n’ha colpa,
  • vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto
  • inver’ la valle ove mai non si scolpa.
  • La bestia ad ogne passo va più ratto,
  • crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
  • e lascia il corpo vilmente disfatto.
  • Non hanno molto a volger quelle ruote»,
  • e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
  • ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote.
  • Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
  • in questo regno, sì ch’io perdo troppo
  • venendo teco sì a paro a paro».
  • Qual esce alcuna volta di gualoppo
  • lo cavalier di schiera che cavalchi,
  • e va per farsi onor del primo intoppo,
  • tal si partì da noi con maggior valchi;
  • e io rimasi in via con esso i due
  • che fuor del mondo sì gran marescalchi.
  • E quando innanzi a noi intrato fue,
  • che li occhi miei si fero a lui seguaci,
  • come la mente a le parole sue,
  • parvermi i rami gravidi e vivaci
  • d’un altro pomo, e non molto lontani
  • per esser pur allora vòlto in laci.
  • Vidi gente sott’ esso alzar le mani
  • e gridar non so che verso le fronde,
  • quasi bramosi fantolini e vani
  • che pregano, e ’l pregato non risponde,
  • ma, per fare esser ben la voglia acuta,
  • tien alto lor disio e nol nasconde.
  • Poi si partì sì come ricreduta;
  • e noi venimmo al grande arbore adesso,
  • che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
  • «Trapassate oltre sanza farvi presso:
  • legno è più sù che fu morso da Eva,
  • e questa pianta si levò da esso».
  • Sì tra le frasche non so chi diceva;
  • per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
  • oltre andavam dal lato che si leva.
  • «Ricordivi», dicea, «d’i maladetti
  • nei nuvoli formati, che, satolli,
  • Tesëo combatter co’ doppi petti;
  • e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
  • per che no i volle Gedeon compagni,
  • quando inver’ Madïan discese i colli».
  • Sì accostati a l’un d’i due vivagni
  • passammo, udendo colpe de la gola
  • seguite già da miseri guadagni.
  • Poi, rallargati per la strada sola,
  • ben mille passi e più ci portar oltre,
  • contemplando ciascun sanza parola.
  • «Che andate pensando sì voi sol tre?».
  • sùbita voce disse; ond’ io mi scossi
  • come fan bestie spaventate e poltre.
  • Drizzai la testa per veder chi fossi;
  • e già mai non si videro in fornace
  • vetri o metalli sì lucenti e rossi,
  • com’ io vidi un che dicea: «S’a voi piace
  • montare in sù, qui si convien dar volta;
  • quinci si va chi vuole andar per pace».
  • L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
  • per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
  • com’ om che va secondo ch’elli ascolta.
  • E quale, annunziatrice de li albori,
  • l’aura di maggio movesi e olezza,
  • tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;
  • tal mi senti’ un vento dar per mezza
  • la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
  • che fé sentir d’ambrosïa l’orezza.
  • E senti’ dir: «Beati cui alluma
  • tanto di grazia, che l’amor del gusto
  • nel petto lor troppo disir non fuma,
  • esurïendo sempre quanto è giusto!».
  • Purgatorio • Canto XXV
  • Ora era onde ’l salir non volea storpio;
  • ché ’l sole avëa il cerchio di merigge
  • lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
  • per che, come fa l’uom che non s’affigge
  • ma vassi a la via sua, che che li appaia,
  • se di bisogno stimolo il trafigge,
  • così intrammo noi per la callaia,
  • uno innanzi altro prendendo la scala
  • che per artezza i salitor dispaia.
  • E quale il cicognin che leva l’ala
  • per voglia di volare, e non s’attenta
  • d’abbandonar lo nido, e giù la cala;
  • tal era io con voglia accesa e spenta
  • di dimandar, venendo infino a l’atto
  • che fa colui ch’a dicer s’argomenta.
  • Non lasciò, per l’andar che fosse ratto,
  • lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca
  • l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto».
  • Allor sicuramente apri’ la bocca
  • e cominciai: «Come si può far magro
  • là dove l’uopo di nodrir non tocca?».
  • «Se t’ammentassi come Meleagro
  • si consumò al consumar d’un stizzo,
  • non fora», disse, «a te questo sì agro;
  • e se pensassi come, al vostro guizzo,
  • guizza dentro a lo specchio vostra image,
  • ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
  • Ma perché dentro a tuo voler t’adage,
  • ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
  • che sia or sanator de le tue piage».
  • «Se la veduta etterna li dislego»,
  • rispuose Stazio, «là dove tu sie,
  • discolpi me non potert’ io far nego».
  • Poi cominciò: «Se le parole mie,
  • figlio, la mente tua guarda e riceve,
  • lume ti fiero al come che tu die.
  • Sangue perfetto, che poi non si beve
  • da l’assetate vene, e si rimane
  • quasi alimento che di mensa leve,
  • prende nel core a tutte membra umane
  • virtute informativa, come quello
  • ch’a farsi quelle per le vene vane.
  • Ancor digesto, scende ov’ è più bello
  • tacer che dire; e quindi poscia geme
  • sovr’ altrui sangue in natural vasello.
  • Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
  • l’un disposto a patire, e l’altro a fare
  • per lo perfetto loco onde si preme;
  • e, giunto lui, comincia ad operare
  • coagulando prima, e poi avviva
  • ciò che per sua matera fé constare.
  • Anima fatta la virtute attiva
  • qual d’una pianta, in tanto differente,
  • che questa è in via e quella è già a riva,
  • tanto ovra poi, che già si move e sente,
  • come spungo marino; e indi imprende
  • ad organar le posse ond’ è semente.
  • Or si spiega, figliuolo, or si distende
  • la virtù ch’è dal cor del generante,
  • dove natura a tutte membra intende.
  • Ma come d’animal divegna fante,
  • non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
  • che più savio di te fé già errante,
  • sì che per sua dottrina fé disgiunto
  • da l’anima il possibile intelletto,
  • perché da lui non vide organo assunto.
  • Apri a la verità che viene il petto;
  • e sappi che, sì tosto come al feto
  • l’articular del cerebro è perfetto,
  • lo motor primo a lui si volge lieto
  • sovra tant’ arte di natura, e spira
  • spirito novo, di vertù repleto,
  • che ciò che trova attivo quivi, tira
  • in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,
  • che vive e sente e sé in sé rigira.
  • E perché meno ammiri la parola,
  • guarda il calor del sole che si fa vino,
  • giunto a l’omor che de la vite cola.
  • Quando Làchesis non ha più del lino,
  • solvesi da la carne, e in virtute
  • ne porta seco e l’umano e ’l divino:
  • l’altre potenze tutte quante mute;
  • memoria, intelligenza e volontade
  • in atto molto più che prima agute.
  • Sanza restarsi, per sé stessa cade
  • mirabilmente a l’una de le rive;
  • quivi conosce prima le sue strade.
  • Tosto che loco lì la circunscrive,
  • la virtù formativa raggia intorno
  • così e quanto ne le membra vive.
  • E come l’aere, quand’ è ben pïorno,
  • per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
  • di diversi color diventa addorno;
  • così l’aere vicin quivi si mette
  • e in quella forma ch’è in lui suggella
  • virtüalmente l’alma che ristette;
  • e simigliante poi a la fiammella
  • che segue il foco là ’vunque si muta,
  • segue lo spirto sua forma novella.
  • Però che quindi ha poscia sua paruta,
  • è chiamata ombra; e quindi organa poi
  • ciascun sentire infino a la veduta.
  • Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
  • quindi facciam le lagrime e ’ sospiri
  • che per lo monte aver sentiti puoi.
  • Secondo che ci affliggono i disiri
  • e li altri affetti, l’ombra si figura;
  • e quest’ è la cagion di che tu miri».
  • E già venuto a l’ultima tortura
  • s’era per noi, e vòlto a la man destra,
  • ed eravamo attenti ad altra cura.
  • Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
  • e la cornice spira fiato in suso
  • che la reflette e via da lei sequestra;
  • ond’ ir ne convenia dal lato schiuso
  • ad uno ad uno; e io temëa ’l foco
  • quinci, e quindi temeva cader giuso.
  • Lo duca mio dicea: «Per questo loco
  • si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
  • però ch’errar potrebbesi per poco».
  • ‘Summae Deus clementïae’ nel seno
  • al grande ardore allora udi’ cantando,
  • che di volger mi fé caler non meno;
  • e vidi spirti per la fiamma andando;
  • per ch’io guardava a loro e a’ miei passi
  • compartendo la vista a quando a quando.
  • Appresso il fine ch’a quell’ inno fassi,
  • gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;
  • indi ricominciavan l’inno bassi.
  • Finitolo, anco gridavano: «Al bosco
  • si tenne Diana, ed Elice caccionne
  • che di Venere avea sentito il tòsco».
  • Indi al cantar tornavano; indi donne
  • gridavano e mariti che fuor casti
  • come virtute e matrimonio imponne.
  • E questo modo credo che lor basti
  • per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:
  • con tal cura conviene e con tai pasti
  • che la piaga da sezzo si ricuscia.
  • Purgatorio • Canto XXVI
  • Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
  • ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
  • diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»;
  • feriami il sole in su l’omero destro,
  • che già, raggiando, tutto l’occidente
  • mutava in bianco aspetto di cilestro;
  • e io facea con l’ombra più rovente
  • parer la fiamma; e pur a tanto indizio
  • vidi molt’ ombre, andando, poner mente.
  • Questa fu la cagion che diede inizio
  • loro a parlar di me; e cominciarsi
  • a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
  • poi verso me, quanto potëan farsi,
  • certi si fero, sempre con riguardo
  • di non uscir dove non fosser arsi.
  • «O tu che vai, non per esser più tardo,
  • ma forse reverente, a li altri dopo,
  • rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
  • Né solo a me la tua risposta è uopo;
  • ché tutti questi n’hanno maggior sete
  • che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
  • Dinne com’ è che fai di te parete
  • al sol, pur come tu non fossi ancora
  • di morte intrato dentro da la rete».
  • Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
  • già manifesto, s’io non fossi atteso
  • ad altra novità ch’apparve allora;
  • ché per lo mezzo del cammino acceso
  • venne gente col viso incontro a questa,
  • la qual mi fece a rimirar sospeso.
  • Lì veggio d’ogne parte farsi presta
  • ciascun’ ombra e basciarsi una con una
  • sanza restar, contente a brieve festa;
  • così per entro loro schiera bruna
  • s’ammusa l’una con l’altra formica,
  • forse a spïar lor via e lor fortuna.
  • Tosto che parton l’accoglienza amica,
  • prima che ’l primo passo lì trascorra,
  • sopragridar ciascuna s’affatica:
  • la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
  • e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife,
  • perché ’l torello a sua lussuria corra».
  • Poi, come grue ch’a le montagne Rife
  • volasser parte, e parte inver’ l’arene,
  • queste del gel, quelle del sole schife,
  • l’una gente sen va, l’altra sen vene;
  • e tornan, lagrimando, a’ primi canti
  • e al gridar che più lor si convene;
  • e raccostansi a me, come davanti,
  • essi medesmi che m’avean pregato,
  • attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
  • Io, che due volte avea visto lor grato,
  • incominciai: «O anime sicure
  • d’aver, quando che sia, di pace stato,
  • non son rimase acerbe né mature
  • le membra mie di là, ma son qui meco
  • col sangue suo e con le sue giunture.
  • Quinci sù vo per non esser più cieco;
  • donna è di sopra che m’acquista grazia,
  • per che ’l mortal per vostro mondo reco.
  • Ma se la vostra maggior voglia sazia
  • tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
  • ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
  • ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
  • chi siete voi, e chi è quella turba
  • che se ne va di retro a’ vostri terghi».
  • Non altrimenti stupido si turba
  • lo montanaro, e rimirando ammuta,
  • quando rozzo e salvatico s’inurba,
  • che ciascun’ ombra fece in sua paruta;
  • ma poi che furon di stupore scarche,
  • lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
  • «Beato te, che de le nostre marche»,
  • ricominciò colei che pria m’inchiese,
  • «per morir meglio, esperïenza imbarche!
  • La gente che non vien con noi, offese
  • di ciò per che già Cesar, trïunfando,
  • “Regina” contra sé chiamar s’intese:
  • però si parton “Soddoma” gridando,
  • rimproverando a sé com’ hai udito,
  • e aiutan l’arsura vergognando.
  • Nostro peccato fu ermafrodito;
  • ma perché non servammo umana legge,
  • seguendo come bestie l’appetito,
  • in obbrobrio di noi, per noi si legge,
  • quando partinci, il nome di colei
  • che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
  • Or sai nostri atti e di che fummo rei:
  • se forse a nome vuo’ saper chi semo,
  • tempo non è di dire, e non saprei.
  • Farotti ben di me volere scemo:
  • son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
  • per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
  • Quali ne la tristizia di Ligurgo
  • si fer due figli a riveder la madre,
  • tal mi fec’ io, ma non a tanto insurgo,
  • quand’ io odo nomar sé stesso il padre
  • mio e de li altri miei miglior che mai
  • rime d’amore usar dolci e leggiadre;
  • e sanza udire e dir pensoso andai
  • lunga fïata rimirando lui,
  • né, per lo foco, in là più m’appressai.
  • Poi che di riguardar pasciuto fui,
  • tutto m’offersi pronto al suo servigio
  • con l’affermar che fa credere altrui.
  • Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
  • per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
  • che Letè nol può tòrre né far bigio.
  • Ma se le tue parole or ver giuraro,
  • dimmi che è cagion per che dimostri
  • nel dire e nel guardar d’avermi caro».
  • E io a lui: «Li dolci detti vostri,
  • che, quanto durerà l’uso moderno,
  • faranno cari ancora i loro incostri».
  • «O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
  • col dito», e additò un spirto innanzi,
  • «fu miglior fabbro del parlar materno.
  • Versi d’amore e prose di romanzi
  • soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
  • che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
  • A voce più ch’al ver drizzan li volti,
  • e così ferman sua oppinïone
  • prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
  • Così fer molti antichi di Guittone,
  • di grido in grido pur lui dando pregio,
  • fin che l’ha vinto il ver con più persone.
  • Or se tu hai sì ampio privilegio,
  • che licito ti sia l’andare al chiostro
  • nel quale è Cristo abate del collegio,
  • falli per me un dir d’un paternostro,
  • quanto bisogna a noi di questo mondo,
  • dove poter peccar non è più nostro».
  • Poi, forse per dar luogo altrui secondo
  • che presso avea, disparve per lo foco,
  • come per l’acqua il pesce andando al fondo.
  • Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
  • e dissi ch’al suo nome il mio disire
  • apparecchiava grazïoso loco.
  • El cominciò liberamente a dire:
  • «Tan m’abellis vostre cortes deman,
  • qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
  • Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
  • consiros vei la passada folor,
  • e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
  • Ara vos prec, per aquella valor
  • que vos guida al som de l’escalina,
  • sovenha vos a temps de ma dolor!».
  • Poi s’ascose nel foco che li affina.
  • Purgatorio • Canto XXVII
  • Sì come quando i primi raggi vibra
  • là dove il suo fattor lo sangue sparse,
  • cadendo Ibero sotto l’alta Libra,
  • e l’onde in Gange da nona rïarse,
  • sì stava il sole; onde ’l giorno sen giva,
  • come l’angel di Dio lieto ci apparse.
  • Fuor de la fiamma stava in su la riva,
  • e cantava ‘Beati mundo corde!’
  • in voce assai più che la nostra viva.
  • Poscia «Più non si va, se pria non morde,
  • anime sante, il foco: intrate in esso,
  • e al cantar di là non siate sorde»,
  • ci disse come noi li fummo presso;
  • per ch’io divenni tal, quando lo ’ntesi,
  • qual è colui che ne la fossa è messo.
  • In su le man commesse mi protesi,
  • guardando il foco e imaginando forte
  • umani corpi già veduti accesi.
  • Volsersi verso me le buone scorte;
  • e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
  • qui può esser tormento, ma non morte.
  • Ricorditi, ricorditi! E se io
  • sovresso Gerïon ti guidai salvo,
  • che farò ora presso più a Dio?
  • Credi per certo che se dentro a l’alvo
  • di questa fiamma stessi ben mille anni,
  • non ti potrebbe far d’un capel calvo.
  • E se tu forse credi ch’io t’inganni,
  • fatti ver’ lei, e fatti far credenza
  • con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.
  • Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
  • volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
  • E io pur fermo e contra coscïenza.
  • Quando mi vide star pur fermo e duro,
  • turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
  • tra Bëatrice e te è questo muro».
  • Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
  • Piramo in su la morte, e riguardolla,
  • allor che ’l gelso diventò vermiglio;
  • così, la mia durezza fatta solla,
  • mi volsi al savio duca, udendo il nome
  • che ne la mente sempre mi rampolla.
  • Ond’ ei crollò la fronte e disse: «Come!
  • volenci star di qua?»; indi sorrise
  • come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.
  • Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
  • pregando Stazio che venisse retro,
  • che pria per lunga strada ci divise.
  • Sì com’ fui dentro, in un bogliente vetro
  • gittato mi sarei per rinfrescarmi,
  • tant’ era ivi lo ’ncendio sanza metro.
  • Lo dolce padre mio, per confortarmi,
  • pur di Beatrice ragionando andava,
  • dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
  • Guidavaci una voce che cantava
  • di là; e noi, attenti pur a lei,
  • venimmo fuor là ove si montava.
  • ‘Venite, benedicti Patris mei’,
  • sonò dentro a un lume che lì era,
  • tal che mi vinse e guardar nol potei.
  • «Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
  • non v’arrestate, ma studiate il passo,
  • mentre che l’occidente non si annera».
  • Dritta salia la via per entro ’l sasso
  • verso tal parte ch’io toglieva i raggi
  • dinanzi a me del sol ch’era già basso.
  • E di pochi scaglion levammo i saggi,
  • che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,
  • sentimmo dietro e io e li miei saggi.
  • E pria che ’n tutte le sue parti immense
  • fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,
  • e notte avesse tutte sue dispense,
  • ciascun di noi d’un grado fece letto;
  • ché la natura del monte ci affranse
  • la possa del salir più e ’l diletto.
  • Quali si stanno ruminando manse
  • le capre, state rapide e proterve
  • sovra le cime avante che sien pranse,
  • tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,
  • guardate dal pastor, che ’n su la verga
  • poggiato s’è e lor di posa serve;
  • e quale il mandrïan che fori alberga,
  • lungo il pecuglio suo queto pernotta,
  • guardando perché fiera non lo sperga;
  • tali eravamo tutti e tre allotta,
  • io come capra, ed ei come pastori,
  • fasciati quinci e quindi d’alta grotta.
  • Poco parer potea lì del di fori;
  • ma, per quel poco, vedea io le stelle
  • di lor solere e più chiare e maggiori.
  • Sì ruminando e sì mirando in quelle,
  • mi prese il sonno; il sonno che sovente,
  • anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.
  • Ne l’ora, credo, che de l’orïente
  • prima raggiò nel monte Citerea,
  • che di foco d’amor par sempre ardente,
  • giovane e bella in sogno mi parea
  • donna vedere andar per una landa
  • cogliendo fiori; e cantando dicea:
  • «Sappia qualunque il mio nome dimanda
  • ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
  • le belle mani a farmi una ghirlanda.
  • Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
  • ma mia suora Rachel mai non si smaga
  • dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
  • Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga
  • com’ io de l’addornarmi con le mani;
  • lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».
  • E già per li splendori antelucani,
  • che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
  • quanto, tornando, albergan men lontani,
  • le tenebre fuggian da tutti lati,
  • e ’l sonno mio con esse; ond’ io leva’mi,
  • veggendo i gran maestri già levati.
  • «Quel dolce pome che per tanti rami
  • cercando va la cura de’ mortali,
  • oggi porrà in pace le tue fami».
  • Virgilio inverso me queste cotali
  • parole usò; e mai non furo strenne
  • che fosser di piacere a queste iguali.
  • Tanto voler sopra voler mi venne
  • de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi
  • al volo mi sentia crescer le penne.
  • Come la scala tutta sotto noi
  • fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
  • in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
  • e disse: «Il temporal foco e l’etterno
  • veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
  • dov’ io per me più oltre non discerno.
  • Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
  • lo tuo piacere omai prendi per duce;
  • fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
  • Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
  • vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
  • che qui la terra sol da sé produce.
  • Mentre che vegnan lieti li occhi belli
  • che, lagrimando, a te venir mi fenno,
  • seder ti puoi e puoi andar tra elli.
  • Non aspettar mio dir più né mio cenno;
  • libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
  • e fallo fora non fare a suo senno:
  • per ch’io te sovra te corono e mitrio».
  • Purgatorio • Canto XXVIII
  • Vago già di cercar dentro e dintorno
  • la divina foresta spessa e viva,
  • ch’a li occhi temperava il novo giorno,
  • sanza più aspettar, lasciai la riva,
  • prendendo la campagna lento lento
  • su per lo suol che d’ogne parte auliva.
  • Un’aura dolce, sanza mutamento
  • avere in sé, mi feria per la fronte
  • non di più colpo che soave vento;
  • per cui le fronde, tremolando, pronte
  • tutte quante piegavano a la parte
  • u’ la prim’ ombra gitta il santo monte;
  • non però dal loro esser dritto sparte
  • tanto, che li augelletti per le cime
  • lasciasser d’operare ogne lor arte;
  • ma con piena letizia l’ore prime,
  • cantando, ricevieno intra le foglie,
  • che tenevan bordone a le sue rime,
  • tal qual di ramo in ramo si raccoglie
  • per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
  • quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie.
  • Già m’avean trasportato i lenti passi
  • dentro a la selva antica tanto, ch’io
  • non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi;
  • ed ecco più andar mi tolse un rio,
  • che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
  • piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
  • Tutte l’acque che son di qua più monde,
  • parrieno avere in sé mistura alcuna
  • verso di quella, che nulla nasconde,
  • avvegna che si mova bruna bruna
  • sotto l’ombra perpetüa, che mai
  • raggiar non lascia sole ivi né luna.
  • Coi piè ristetti e con li occhi passai
  • di là dal fiumicello, per mirare
  • la gran varïazion d’i freschi mai;
  • e là m’apparve, sì com’ elli appare
  • subitamente cosa che disvia
  • per maraviglia tutto altro pensare,
  • una donna soletta che si gia
  • e cantando e scegliendo fior da fiore
  • ond’ era pinta tutta la sua via.
  • «Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
  • ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
  • che soglion esser testimon del core,
  • vegnati in voglia di trarreti avanti»,
  • diss’ io a lei, «verso questa rivera,
  • tanto ch’io possa intender che tu canti.
  • Tu mi fai rimembrar dove e qual era
  • Proserpina nel tempo che perdette
  • la madre lei, ed ella primavera».
  • Come si volge, con le piante strette
  • a terra e intra sé, donna che balli,
  • e piede innanzi piede a pena mette,
  • volsesi in su i vermigli e in su i gialli
  • fioretti verso me, non altrimenti
  • che vergine che li occhi onesti avvalli;
  • e fece i prieghi miei esser contenti,
  • sì appressando sé, che ’l dolce suono
  • veniva a me co’ suoi intendimenti.
  • Tosto che fu là dove l’erbe sono
  • bagnate già da l’onde del bel fiume,
  • di levar li occhi suoi mi fece dono.
  • Non credo che splendesse tanto lume
  • sotto le ciglia a Venere, trafitta
  • dal figlio fuor di tutto suo costume.
  • Ella ridea da l’altra riva dritta,
  • trattando più color con le sue mani,
  • che l’alta terra sanza seme gitta.
  • Tre passi ci facea il fiume lontani;
  • ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
  • ancora freno a tutti orgogli umani,
  • più odio da Leandro non sofferse
  • per mareggiare intra Sesto e Abido,
  • che quel da me perch’ allor non s’aperse.
  • «Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido»,
  • cominciò ella, «in questo luogo eletto
  • a l’umana natura per suo nido,
  • maravigliando tienvi alcun sospetto;
  • ma luce rende il salmo Delectasti,
  • che puote disnebbiar vostro intelletto.
  • E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
  • dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
  • ad ogne tua question tanto che basti».
  • «L’acqua», diss’ io, «e ’l suon de la foresta
  • impugnan dentro a me novella fede
  • di cosa ch’io udi’ contraria a questa».
  • Ond’ ella: «Io dicerò come procede
  • per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
  • e purgherò la nebbia che ti fiede.
  • Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
  • fé l’uom buono e a bene, e questo loco
  • diede per arr’ a lui d’etterna pace.
  • Per sua difalta qui dimorò poco;
  • per sua difalta in pianto e in affanno
  • cambiò onesto riso e dolce gioco.
  • Perché ’l turbar che sotto da sé fanno
  • l’essalazion de l’acqua e de la terra,
  • che quanto posson dietro al calor vanno,
  • a l’uomo non facesse alcuna guerra,
  • questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
  • e libero n’è d’indi ove si serra.
  • Or perché in circuito tutto quanto
  • l’aere si volge con la prima volta,
  • se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,
  • in questa altezza ch’è tutta disciolta
  • ne l’aere vivo, tal moto percuote,
  • e fa sonar la selva perch’ è folta;
  • e la percossa pianta tanto puote,
  • che de la sua virtute l’aura impregna
  • e quella poi, girando, intorno scuote;
  • e l’altra terra, secondo ch’è degna
  • per sé e per suo ciel, concepe e figlia
  • di diverse virtù diverse legna.
  • Non parrebbe di là poi maraviglia,
  • udito questo, quando alcuna pianta
  • sanza seme palese vi s’appiglia.
  • E saper dei che la campagna santa
  • dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
  • e frutto ha in sé che di là non si schianta.
  • L’acqua che vedi non surge di vena
  • che ristori vapor che gel converta,
  • come fiume ch’acquista e perde lena;
  • ma esce di fontana salda e certa,
  • che tanto dal voler di Dio riprende,
  • quant’ ella versa da due parti aperta.
  • Da questa parte con virtù discende
  • che toglie altrui memoria del peccato;
  • da l’altra d’ogne ben fatto la rende.
  • Quinci Letè; così da l’altro lato
  • Eünoè si chiama, e non adopra
  • se quinci e quindi pria non è gustato:
  • a tutti altri sapori esto è di sopra.
  • E avvegna ch’assai possa esser sazia
  • la sete tua perch’ io più non ti scuopra,
  • darotti un corollario ancor per grazia;
  • né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
  • se oltre promession teco si spazia.
  • Quelli ch’anticamente poetaro
  • l’età de l’oro e suo stato felice,
  • forse in Parnaso esto loco sognaro.
  • Qui fu innocente l’umana radice;
  • qui primavera sempre e ogne frutto;
  • nettare è questo di che ciascun dice».
  • Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
  • a’ miei poeti, e vidi che con riso
  • udito avëan l’ultimo costrutto;
  • poi a la bella donna torna’ il viso.
  • Purgatorio • Canto XXIX
  • Cantando come donna innamorata,
  • continüò col fin di sue parole:
  • ‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.
  • E come ninfe che si givan sole
  • per le salvatiche ombre, disïando
  • qual di veder, qual di fuggir lo sole,
  • allor si mosse contra ’l fiume, andando
  • su per la riva; e io pari di lei,
  • picciol passo con picciol seguitando.
  • Non eran cento tra ’ suoi passi e ’ miei,
  • quando le ripe igualmente dier volta,
  • per modo ch’a levante mi rendei.
  • Né ancor fu così nostra via molta,
  • quando la donna tutta a me si torse,
  • dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».
  • Ed ecco un lustro sùbito trascorse
  • da tutte parti per la gran foresta,
  • tal che di balenar mi mise in forse.
  • Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
  • e quel, durando, più e più splendeva,
  • nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.
  • E una melodia dolce correva
  • per l’aere luminoso; onde buon zelo
  • mi fé riprender l’ardimento d’Eva,
  • che là dove ubidia la terra e ’l cielo,
  • femmina, sola e pur testé formata,
  • non sofferse di star sotto alcun velo;
  • sotto ’l qual se divota fosse stata,
  • avrei quelle ineffabili delizie
  • sentite prima e più lunga fïata.
  • Mentr’ io m’andava tra tante primizie
  • de l’etterno piacer tutto sospeso,
  • e disïoso ancora a più letizie,
  • dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
  • ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
  • e ’l dolce suon per canti era già inteso.
  • O sacrosante Vergini, se fami,
  • freddi o vigilie mai per voi soffersi,
  • cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.
  • Or convien che Elicona per me versi,
  • e Uranìe m’aiuti col suo coro
  • forti cose a pensar mettere in versi.
  • Poco più oltre, sette alberi d’oro
  • falsava nel parere il lungo tratto
  • del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;
  • ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
  • che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
  • non perdea per distanza alcun suo atto,
  • la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
  • sì com’ elli eran candelabri apprese,
  • e ne le voci del cantare ‘Osanna’.
  • Di sopra fiammeggiava il bello arnese
  • più chiaro assai che luna per sereno
  • di mezza notte nel suo mezzo mese.
  • Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
  • al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
  • con vista carca di stupor non meno.
  • Indi rendei l’aspetto a l’alte cose
  • che si movieno incontr’ a noi sì tardi,
  • che foran vinte da novelle spose.
  • La donna mi sgridò: «Perché pur ardi
  • sì ne l’affetto de le vive luci,
  • e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
  • Genti vid’ io allor, come a lor duci,
  • venire appresso, vestite di bianco;
  • e tal candor di qua già mai non fuci.
  • L’acqua imprendëa dal sinistro fianco,
  • e rendea me la mia sinistra costa,
  • s’io riguardava in lei, come specchio anco.
  • Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
  • che solo il fiume mi facea distante,
  • per veder meglio ai passi diedi sosta,
  • e vidi le fiammelle andar davante,
  • lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
  • e di tratti pennelli avean sembiante;
  • sì che lì sopra rimanea distinto
  • di sette liste, tutte in quei colori
  • onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.
  • Questi ostendali in dietro eran maggiori
  • che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
  • diece passi distavan quei di fori.
  • Sotto così bel ciel com’ io diviso,
  • ventiquattro seniori, a due a due,
  • coronati venien di fiordaliso.
  • Tutti cantavan: «Benedicta tue
  • ne le figlie d’Adamo, e benedette
  • sieno in etterno le bellezze tue!».
  • Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
  • a rimpetto di me da l’altra sponda
  • libere fuor da quelle genti elette,
  • sì come luce luce in ciel seconda,
  • vennero appresso lor quattro animali,
  • coronati ciascun di verde fronda.
  • Ognuno era pennuto di sei ali;
  • le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
  • se fosser vivi, sarebber cotali.
  • A descriver lor forme più non spargo
  • rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
  • tanto ch’a questa non posso esser largo;
  • ma leggi Ezechïel, che li dipigne
  • come li vide da la fredda parte
  • venir con vento e con nube e con igne;
  • e quali i troverai ne le sue carte,
  • tali eran quivi, salvo ch’a le penne
  • Giovanni è meco e da lui si diparte.
  • Lo spazio dentro a lor quattro contenne
  • un carro, in su due rote, trïunfale,
  • ch’al collo d’un grifon tirato venne.
  • Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
  • tra la mezzana e le tre e tre liste,
  • sì ch’a nulla, fendendo, facea male.
  • Tanto salivan che non eran viste;
  • le membra d’oro avea quant’ era uccello,
  • e bianche l’altre, di vermiglio miste.
  • Non che Roma di carro così bello
  • rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
  • ma quel del Sol saria pover con ello;
  • quel del Sol che, svïando, fu combusto
  • per l’orazion de la Terra devota,
  • quando fu Giove arcanamente giusto.
  • Tre donne in giro da la destra rota
  • venian danzando; l’una tanto rossa
  • ch’a pena fora dentro al foco nota;
  • l’altr’ era come se le carni e l’ossa
  • fossero state di smeraldo fatte;
  • la terza parea neve testé mossa;
  • e or parëan da la bianca tratte,
  • or da la rossa; e dal canto di questa
  • l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.
  • Da la sinistra quattro facean festa,
  • in porpore vestite, dietro al modo
  • d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
  • Appresso tutto il pertrattato nodo
  • vidi due vecchi in abito dispari,
  • ma pari in atto e onesto e sodo.
  • L’un si mostrava alcun de’ famigliari
  • di quel sommo Ipocràte che natura
  • a li animali fé ch’ell’ ha più cari;
  • mostrava l’altro la contraria cura
  • con una spada lucida e aguta,
  • tal che di qua dal rio mi fé paura.
  • Poi vidi quattro in umile paruta;
  • e di retro da tutti un vecchio solo
  • venir, dormendo, con la faccia arguta.
  • E questi sette col primaio stuolo
  • erano abitüati, ma di gigli
  • dintorno al capo non facëan brolo,
  • anzi di rose e d’altri fior vermigli;
  • giurato avria poco lontano aspetto
  • che tutti ardesser di sopra da’ cigli.
  • E quando il carro a me fu a rimpetto,
  • un tuon s’udì, e quelle genti degne
  • parvero aver l’andar più interdetto,
  • fermandosi ivi con le prime insegne.
  • Purgatorio • Canto XXX
  • Quando il settentrïon del primo cielo,
  • che né occaso mai seppe né orto
  • né d’altra nebbia che di colpa velo,
  • e che faceva lì ciascun accorto
  • di suo dover, come ’l più basso face
  • qual temon gira per venire a porto,
  • fermo s’affisse: la gente verace,
  • venuta prima tra ’l grifone ed esso,
  • al carro volse sé come a sua pace;
  • e un di loro, quasi da ciel messo,
  • ‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando
  • gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
  • Quali i beati al novissimo bando
  • surgeran presti ognun di sua caverna,
  • la revestita voce alleluiando,
  • cotali in su la divina basterna
  • si levar cento, ad vocem tanti senis,
  • ministri e messaggier di vita etterna.
  • Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
  • e fior gittando e di sopra e dintorno,
  • ‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’.
  • Io vidi già nel cominciar del giorno
  • la parte orïental tutta rosata,
  • e l’altro ciel di bel sereno addorno;
  • e la faccia del sol nascere ombrata,
  • sì che per temperanza di vapori
  • l’occhio la sostenea lunga fïata:
  • così dentro una nuvola di fiori
  • che da le mani angeliche saliva
  • e ricadeva in giù dentro e di fori,
  • sovra candido vel cinta d’uliva
  • donna m’apparve, sotto verde manto
  • vestita di color di fiamma viva.
  • E lo spirito mio, che già cotanto
  • tempo era stato ch’a la sua presenza
  • non era di stupor, tremando, affranto,
  • sanza de li occhi aver più conoscenza,
  • per occulta virtù che da lei mosse,
  • d’antico amor sentì la gran potenza.
  • Tosto che ne la vista mi percosse
  • l’alta virtù che già m’avea trafitto
  • prima ch’io fuor di püerizia fosse,
  • volsimi a la sinistra col respitto
  • col quale il fantolin corre a la mamma
  • quando ha paura o quando elli è afflitto,
  • per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
  • di sangue m’è rimaso che non tremi:
  • conosco i segni de l’antica fiamma’.
  • Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
  • di sé, Virgilio dolcissimo patre,
  • Virgilio a cui per mia salute die’mi;
  • né quantunque perdeo l’antica matre,
  • valse a le guance nette di rugiada,
  • che, lagrimando, non tornasser atre.
  • «Dante, perché Virgilio se ne vada,
  • non pianger anco, non piangere ancora;
  • ché pianger ti conven per altra spada».
  • Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
  • viene a veder la gente che ministra
  • per li altri legni, e a ben far l’incora;
  • in su la sponda del carro sinistra,
  • quando mi volsi al suon del nome mio,
  • che di necessità qui si registra,
  • vidi la donna che pria m’appario
  • velata sotto l’angelica festa,
  • drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
  • Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
  • cerchiato de le fronde di Minerva,
  • non la lasciasse parer manifesta,
  • regalmente ne l’atto ancor proterva
  • continüò come colui che dice
  • e ’l più caldo parlar dietro reserva:
  • «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
  • Come degnasti d’accedere al monte?
  • non sapei tu che qui è l’uom felice?».
  • Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
  • ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
  • tanta vergogna mi gravò la fronte.
  • Così la madre al figlio par superba,
  • com’ ella parve a me; perché d’amaro
  • sente il sapor de la pietade acerba.
  • Ella si tacque; e li angeli cantaro
  • di sùbito ‘In te, Domine, speravi’;
  • ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.
  • Sì come neve tra le vive travi
  • per lo dosso d’Italia si congela,
  • soffiata e stretta da li venti schiavi,
  • poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
  • pur che la terra che perde ombra spiri,
  • sì che par foco fonder la candela;
  • così fui sanza lagrime e sospiri
  • anzi ’l cantar di quei che notan sempre
  • dietro a le note de li etterni giri;
  • ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
  • lor compatire a me, par che se detto
  • avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
  • lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
  • spirito e acqua fessi, e con angoscia
  • de la bocca e de li occhi uscì del petto.
  • Ella, pur ferma in su la detta coscia
  • del carro stando, a le sustanze pie
  • volse le sue parole così poscia:
  • «Voi vigilate ne l’etterno die,
  • sì che notte né sonno a voi non fura
  • passo che faccia il secol per sue vie;
  • onde la mia risposta è con più cura
  • che m’intenda colui che di là piagne,
  • perché sia colpa e duol d’una misura.
  • Non pur per ovra de le rote magne,
  • che drizzan ciascun seme ad alcun fine
  • secondo che le stelle son compagne,
  • ma per larghezza di grazie divine,
  • che sì alti vapori hanno a lor piova,
  • che nostre viste là non van vicine,
  • questi fu tal ne la sua vita nova
  • virtüalmente, ch’ogne abito destro
  • fatto averebbe in lui mirabil prova.
  • Ma tanto più maligno e più silvestro
  • si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
  • quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.
  • Alcun tempo il sostenni col mio volto:
  • mostrando li occhi giovanetti a lui,
  • meco il menava in dritta parte vòlto.
  • Sì tosto come in su la soglia fui
  • di mia seconda etade e mutai vita,
  • questi si tolse a me, e diessi altrui.
  • Quando di carne a spirto era salita,
  • e bellezza e virtù cresciuta m’era,
  • fu’ io a lui men cara e men gradita;
  • e volse i passi suoi per via non vera,
  • imagini di ben seguendo false,
  • che nulla promession rendono intera.
  • Né l’impetrare ispirazion mi valse,
  • con le quali e in sogno e altrimenti
  • lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
  • Tanto giù cadde, che tutti argomenti
  • a la salute sua eran già corti,
  • fuor che mostrarli le perdute genti.
  • Per questo visitai l’uscio d’i morti,
  • e a colui che l’ha qua sù condotto,
  • li prieghi miei, piangendo, furon porti.
  • Alto fato di Dio sarebbe rotto,
  • se Letè si passasse e tal vivanda
  • fosse gustata sanza alcuno scotto
  • di pentimento che lagrime spanda».
  • Purgatorio • Canto XXXI
  • «O tu che se’ di là dal fiume sacro»,
  • volgendo suo parlare a me per punta,
  • che pur per taglio m’era paruto acro,
  • ricominciò, seguendo sanza cunta,
  • «dì, dì se questo è vero: a tanta accusa
  • tua confession conviene esser congiunta».
  • Era la mia virtù tanto confusa,
  • che la voce si mosse, e pria si spense
  • che da li organi suoi fosse dischiusa.
  • Poco sofferse; poi disse: «Che pense?
  • Rispondi a me; ché le memorie triste
  • in te non sono ancor da l’acqua offense».
  • Confusione e paura insieme miste
  • mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
  • al quale intender fuor mestier le viste.
  • Come balestro frange, quando scocca
  • da troppa tesa, la sua corda e l’arco,
  • e con men foga l’asta il segno tocca,
  • sì scoppia’ io sottesso grave carco,
  • fuori sgorgando lagrime e sospiri,
  • e la voce allentò per lo suo varco.
  • Ond’ ella a me: «Per entro i mie’ disiri,
  • che ti menavano ad amar lo bene
  • di là dal qual non è a che s’aspiri,
  • quai fossi attraversati o quai catene
  • trovasti, per che del passare innanzi
  • dovessiti così spogliar la spene?
  • E quali agevolezze o quali avanzi
  • ne la fronte de li altri si mostraro,
  • per che dovessi lor passeggiare anzi?».
  • Dopo la tratta d’un sospiro amaro,
  • a pena ebbi la voce che rispuose,
  • e le labbra a fatica la formaro.
  • Piangendo dissi: «Le presenti cose
  • col falso lor piacer volser miei passi,
  • tosto che ’l vostro viso si nascose».
  • Ed ella: «Se tacessi o se negassi
  • ciò che confessi, non fora men nota
  • la colpa tua: da tal giudice sassi!
  • Ma quando scoppia de la propria gota
  • l’accusa del peccato, in nostra corte
  • rivolge sé contra ’l taglio la rota.
  • Tuttavia, perché mo vergogna porte
  • del tuo errore, e perché altra volta,
  • udendo le serene, sie più forte,
  • pon giù il seme del piangere e ascolta:
  • sì udirai come in contraria parte
  • mover dovieti mia carne sepolta.
  • Mai non t’appresentò natura o arte
  • piacer, quanto le belle membra in ch’io
  • rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;
  • e se ’l sommo piacer sì ti fallio
  • per la mia morte, qual cosa mortale
  • dovea poi trarre te nel suo disio?
  • Ben ti dovevi, per lo primo strale
  • de le cose fallaci, levar suso
  • di retro a me che non era più tale.
  • Non ti dovea gravar le penne in giuso,
  • ad aspettar più colpo, o pargoletta
  • o altra novità con sì breve uso.
  • Novo augelletto due o tre aspetta;
  • ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
  • rete si spiega indarno o si saetta».
  • Quali fanciulli, vergognando, muti
  • con li occhi a terra stannosi, ascoltando
  • e sé riconoscendo e ripentuti,
  • tal mi stav’ io; ed ella disse: «Quando
  • per udir se’ dolente, alza la barba,
  • e prenderai più doglia riguardando».
  • Con men di resistenza si dibarba
  • robusto cerro, o vero al nostral vento
  • o vero a quel de la terra di Iarba,
  • ch’io non levai al suo comando il mento;
  • e quando per la barba il viso chiese,
  • ben conobbi il velen de l’argomento.
  • E come la mia faccia si distese,
  • posarsi quelle prime creature
  • da loro aspersïon l’occhio comprese;
  • e le mie luci, ancor poco sicure,
  • vider Beatrice volta in su la fiera
  • ch’è sola una persona in due nature.
  • Sotto ’l suo velo e oltre la rivera
  • vincer pariemi più sé stessa antica,
  • vincer che l’altre qui, quand’ ella c’era.
  • Di penter sì mi punse ivi l’ortica,
  • che di tutte altre cose qual mi torse
  • più nel suo amor, più mi si fé nemica.
  • Tanta riconoscenza il cor mi morse,
  • ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
  • salsi colei che la cagion mi porse.
  • Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
  • la donna ch’io avea trovata sola
  • sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
  • Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
  • e tirandosi me dietro sen giva
  • sovresso l’acqua lieve come scola.
  • Quando fui presso a la beata riva,
  • ‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
  • che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
  • La bella donna ne le braccia aprissi;
  • abbracciommi la testa e mi sommerse
  • ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
  • Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
  • dentro a la danza de le quattro belle;
  • e ciascuna del braccio mi coperse.
  • «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
  • pria che Beatrice discendesse al mondo,
  • fummo ordinate a lei per sue ancelle.
  • Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
  • lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
  • le tre di là, che miran più profondo».
  • Così cantando cominciaro; e poi
  • al petto del grifon seco menarmi,
  • ove Beatrice stava volta a noi.
  • Disser: «Fa che le viste non risparmi;
  • posto t’avem dinanzi a li smeraldi
  • ond’ Amor già ti trasse le sue armi».
  • Mille disiri più che fiamma caldi
  • strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
  • che pur sopra ’l grifone stavan saldi.
  • Come in lo specchio il sol, non altrimenti
  • la doppia fiera dentro vi raggiava,
  • or con altri, or con altri reggimenti.
  • Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
  • quando vedea la cosa in sé star queta,
  • e ne l’idolo suo si trasmutava.
  • Mentre che piena di stupore e lieta
  • l’anima mia gustava di quel cibo
  • che, saziando di sé, di sé asseta,
  • sé dimostrando di più alto tribo
  • ne li atti, l’altre tre si fero avanti,
  • danzando al loro angelico caribo.
  • «Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi»,
  • era la sua canzone, «al tuo fedele
  • che, per vederti, ha mossi passi tanti!
  • Per grazia fa noi grazia che disvele
  • a lui la bocca tua, sì che discerna
  • la seconda bellezza che tu cele».
  • O isplendor di viva luce etterna,
  • chi palido si fece sotto l’ombra
  • sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
  • che non paresse aver la mente ingombra,
  • tentando a render te qual tu paresti
  • là dove armonizzando il ciel t’adombra,
  • quando ne l’aere aperto ti solvesti?
  • Purgatorio • Canto XXXII
  • Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
  • a disbramarsi la decenne sete,
  • che li altri sensi m’eran tutti spenti.
  • Ed essi quinci e quindi avien parete
  • di non caler—così lo santo riso
  • a sé traéli con l’antica rete!—;
  • quando per forza mi fu vòlto il viso
  • ver’ la sinistra mia da quelle dee,
  • perch’ io udi’ da loro un «Troppo fiso!»;
  • e la disposizion ch’a veder èe
  • ne li occhi pur testé dal sol percossi,
  • sanza la vista alquanto esser mi fée.
  • Ma poi ch’al poco il viso riformossi
  • (e dico ‘al poco’ per rispetto al molto
  • sensibile onde a forza mi rimossi),
  • vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
  • lo glorïoso essercito, e tornarsi
  • col sole e con le sette fiamme al volto.
  • Come sotto li scudi per salvarsi
  • volgesi schiera, e sé gira col segno,
  • prima che possa tutta in sé mutarsi;
  • quella milizia del celeste regno
  • che procedeva, tutta trapassonne
  • pria che piegasse il carro il primo legno.
  • Indi a le rote si tornar le donne,
  • e ’l grifon mosse il benedetto carco
  • sì, che però nulla penna crollonne.
  • La bella donna che mi trasse al varco
  • e Stazio e io seguitavam la rota
  • che fé l’orbita sua con minore arco.
  • Sì passeggiando l’alta selva vòta,
  • colpa di quella ch’al serpente crese,
  • temprava i passi un’angelica nota.
  • Forse in tre voli tanto spazio prese
  • disfrenata saetta, quanto eramo
  • rimossi, quando Bëatrice scese.
  • Io senti’ mormorare a tutti «Adamo»;
  • poi cerchiaro una pianta dispogliata
  • di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.
  • La coma sua, che tanto si dilata
  • più quanto più è sù, fora da l’Indi
  • ne’ boschi lor per altezza ammirata.
  • «Beato se’, grifon, che non discindi
  • col becco d’esto legno dolce al gusto,
  • poscia che mal si torce il ventre quindi».
  • Così dintorno a l’albero robusto
  • gridaron li altri; e l’animal binato:
  • «Sì si conserva il seme d’ogne giusto».
  • E vòlto al temo ch’elli avea tirato,
  • trasselo al piè de la vedova frasca,
  • e quel di lei a lei lasciò legato.
  • Come le nostre piante, quando casca
  • giù la gran luce mischiata con quella
  • che raggia dietro a la celeste lasca,
  • turgide fansi, e poi si rinovella
  • di suo color ciascuna, pria che ’l sole
  • giunga li suoi corsier sotto altra stella;
  • men che di rose e più che di vïole
  • colore aprendo, s’innovò la pianta,
  • che prima avea le ramora sì sole.
  • Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
  • l’inno che quella gente allor cantaro,
  • né la nota soffersi tutta quanta.
  • S’io potessi ritrar come assonnaro
  • li occhi spietati udendo di Siringa,
  • li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
  • come pintor che con essempro pinga,
  • disegnerei com’ io m’addormentai;
  • ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.
  • Però trascorro a quando mi svegliai,
  • e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
  • del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».
  • Quali a veder de’ fioretti del melo
  • che del suo pome li angeli fa ghiotti
  • e perpetüe nozze fa nel cielo,
  • Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
  • e vinti, ritornaro a la parola
  • da la qual furon maggior sonni rotti,
  • e videro scemata loro scuola
  • così di Moïsè come d’Elia,
  • e al maestro suo cangiata stola;
  • tal torna’ io, e vidi quella pia
  • sovra me starsi che conducitrice
  • fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.
  • E tutto in dubbio dissi: «Ov’ è Beatrice?».
  • Ond’ ella: «Vedi lei sotto la fronda
  • nova sedere in su la sua radice.
  • Vedi la compagnia che la circonda:
  • li altri dopo ’l grifon sen vanno suso
  • con più dolce canzone e più profonda».
  • E se più fu lo suo parlar diffuso,
  • non so, però che già ne li occhi m’era
  • quella ch’ad altro intender m’avea chiuso.
  • Sola sedeasi in su la terra vera,
  • come guardia lasciata lì del plaustro
  • che legar vidi a la biforme fera.
  • In cerchio le facevan di sé claustro
  • le sette ninfe, con quei lumi in mano
  • che son sicuri d’Aquilone e d’Austro.
  • «Qui sarai tu poco tempo silvano;
  • e sarai meco sanza fine cive
  • di quella Roma onde Cristo è romano.
  • Però, in pro del mondo che mal vive,
  • al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
  • ritornato di là, fa che tu scrive».
  • Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi
  • d’i suoi comandamenti era divoto,
  • la mente e li occhi ov’ ella volle diedi.
  • Non scese mai con sì veloce moto
  • foco di spessa nube, quando piove
  • da quel confine che più va remoto,
  • com’ io vidi calar l’uccel di Giove
  • per l’alber giù, rompendo de la scorza,
  • non che d’i fiori e de le foglie nove;
  • e ferì ’l carro di tutta sua forza;
  • ond’ el piegò come nave in fortuna,
  • vinta da l’onda, or da poggia, or da orza.
  • Poscia vidi avventarsi ne la cuna
  • del trïunfal veiculo una volpe
  • che d’ogne pasto buon parea digiuna;
  • ma, riprendendo lei di laide colpe,
  • la donna mia la volse in tanta futa
  • quanto sofferser l’ossa sanza polpe.
  • Poscia per indi ond’ era pria venuta,
  • l’aguglia vidi scender giù ne l’arca
  • del carro e lasciar lei di sé pennuta;
  • e qual esce di cuor che si rammarca,
  • tal voce uscì del cielo e cotal disse:
  • «O navicella mia, com’ mal se’ carca!».
  • Poi parve a me che la terra s’aprisse
  • tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
  • che per lo carro sù la coda fisse;
  • e come vespa che ritragge l’ago,
  • a sé traendo la coda maligna,
  • trasse del fondo, e gissen vago vago.
  • Quel che rimase, come da gramigna
  • vivace terra, da la piuma, offerta
  • forse con intenzion sana e benigna,
  • si ricoperse, e funne ricoperta
  • e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
  • che più tiene un sospir la bocca aperta.
  • Trasformato così ’l dificio santo
  • mise fuor teste per le parti sue,
  • tre sovra ’l temo e una in ciascun canto.
  • Le prime eran cornute come bue,
  • ma le quattro un sol corno avean per fronte:
  • simile mostro visto ancor non fue.
  • Sicura, quasi rocca in alto monte,
  • seder sovresso una puttana sciolta
  • m’apparve con le ciglia intorno pronte;
  • e come perché non li fosse tolta,
  • vidi di costa a lei dritto un gigante;
  • e basciavansi insieme alcuna volta.
  • Ma perché l’occhio cupido e vagante
  • a me rivolse, quel feroce drudo
  • la flagellò dal capo infin le piante;
  • poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
  • disciolse il mostro, e trassel per la selva,
  • tanto che sol di lei mi fece scudo
  • a la puttana e a la nova belva.
  • Purgatorio • Canto XXXIII
  • ‘Deus, venerunt gentes’, alternando
  • or tre or quattro dolce salmodia,
  • le donne incominciaro, e lagrimando;
  • e Bëatrice, sospirosa e pia,
  • quelle ascoltava sì fatta, che poco
  • più a la croce si cambiò Maria.
  • Ma poi che l’altre vergini dier loco
  • a lei di dir, levata dritta in pè,
  • rispuose, colorata come foco:
  • ‘Modicum, et non videbitis me;
  • et iterum, sorelle mie dilette,
  • modicum, et vos videbitis me’.
  • Poi le si mise innanzi tutte e sette,
  • e dopo sé, solo accennando, mosse
  • me e la donna e ’l savio che ristette.
  • Così sen giva; e non credo che fosse
  • lo decimo suo passo in terra posto,
  • quando con li occhi li occhi mi percosse;
  • e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
  • mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
  • ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
  • Sì com’ io fui, com’ io dovëa, seco,
  • dissemi: «Frate, perché non t’attenti
  • a domandarmi omai venendo meco?».
  • Come a color che troppo reverenti
  • dinanzi a suo maggior parlando sono,
  • che non traggon la voce viva ai denti,
  • avvenne a me, che sanza intero suono
  • incominciai: «Madonna, mia bisogna
  • voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».
  • Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
  • voglio che tu omai ti disviluppe,
  • sì che non parli più com’ om che sogna.
  • Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
  • fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
  • che vendetta di Dio non teme suppe.
  • Non sarà tutto tempo sanza reda
  • l’aguglia che lasciò le penne al carro,
  • per che divenne mostro e poscia preda;
  • ch’io veggio certamente, e però il narro,
  • a darne tempo già stelle propinque,
  • secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,
  • nel quale un cinquecento diece e cinque,
  • messo di Dio, anciderà la fuia
  • con quel gigante che con lei delinque.
  • E forse che la mia narrazion buia,
  • qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
  • perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia;
  • ma tosto fier li fatti le Naiade,
  • che solveranno questo enigma forte
  • sanza danno di pecore o di biade.
  • Tu nota; e sì come da me son porte,
  • così queste parole segna a’ vivi
  • del viver ch’è un correre a la morte.
  • E aggi a mente, quando tu le scrivi,
  • di non celar qual hai vista la pianta
  • ch’è or due volte dirubata quivi.
  • Qualunque ruba quella o quella schianta,
  • con bestemmia di fatto offende a Dio,
  • che solo a l’uso suo la creò santa.
  • Per morder quella, in pena e in disio
  • cinquemilia anni e più l’anima prima
  • bramò colui che ’l morso in sé punio.
  • Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
  • per singular cagione esser eccelsa
  • lei tanto e sì travolta ne la cima.
  • E se stati non fossero acqua d’Elsa
  • li pensier vani intorno a la tua mente,
  • e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
  • per tante circostanze solamente
  • la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
  • conosceresti a l’arbor moralmente.
  • Ma perch’ io veggio te ne lo ’ntelletto
  • fatto di pietra e, impetrato, tinto,
  • sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
  • voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
  • che ’l te ne porti dentro a te per quello
  • che si reca il bordon di palma cinto».
  • E io: «Sì come cera da suggello,
  • che la figura impressa non trasmuta,
  • segnato è or da voi lo mio cervello.
  • Ma perché tanto sovra mia veduta
  • vostra parola disïata vola,
  • che più la perde quanto più s’aiuta?».
  • «Perché conoschi», disse, «quella scuola
  • c’hai seguitata, e veggi sua dottrina
  • come può seguitar la mia parola;
  • e veggi vostra via da la divina
  • distar cotanto, quanto si discorda
  • da terra il ciel che più alto festina».
  • Ond’ io rispuosi lei: «Non mi ricorda
  • ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
  • né honne coscïenza che rimorda».
  • «E se tu ricordar non te ne puoi»,
  • sorridendo rispuose, «or ti rammenta
  • come bevesti di Letè ancoi;
  • e se dal fummo foco s’argomenta,
  • cotesta oblivïon chiaro conchiude
  • colpa ne la tua voglia altrove attenta.
  • Veramente oramai saranno nude
  • le mie parole, quanto converrassi
  • quelle scovrire a la tua vista rude».
  • E più corusco e con più lenti passi
  • teneva il sole il cerchio di merigge,
  • che qua e là, come li aspetti, fassi,
  • quando s’affisser, sì come s’affigge
  • chi va dinanzi a gente per iscorta
  • se trova novitate o sue vestigge,
  • le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
  • qual sotto foglie verdi e rami nigri
  • sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.
  • Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
  • veder mi parve uscir d’una fontana,
  • e, quasi amici, dipartirsi pigri.
  • «O luce, o gloria de la gente umana,
  • che acqua è questa che qui si dispiega
  • da un principio e sé da sé lontana?».
  • Per cotal priego detto mi fu: «Priega
  • Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
  • come fa chi da colpa si dislega,
  • la bella donna: «Questo e altre cose
  • dette li son per me; e son sicura
  • che l’acqua di Letè non gliel nascose».
  • E Bëatrice: «Forse maggior cura,
  • che spesse volte la memoria priva,
  • fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.
  • Ma vedi Eünoè che là diriva:
  • menalo ad esso, e come tu se’ usa,
  • la tramortita sua virtù ravviva».
  • Come anima gentil, che non fa scusa,
  • ma fa sua voglia de la voglia altrui
  • tosto che è per segno fuor dischiusa;
  • così, poi che da essa preso fui,
  • la bella donna mossesi, e a Stazio
  • donnescamente disse: «Vien con lui».
  • S’io avessi, lettor, più lungo spazio
  • da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
  • lo dolce ber che mai non m’avria sazio;
  • ma perché piene son tutte le carte
  • ordite a questa cantica seconda,
  • non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
  • Io ritornai da la santissima onda
  • rifatto sì come piante novelle
  • rinovellate di novella fronda,
  • puro e disposto a salire a le stelle.
  • PARADISO
  • Paradiso • Canto I
  • La gloria di colui che tutto move
  • per l’universo penetra, e risplende
  • in una parte più e meno altrove.
  • Nel ciel che più de la sua luce prende
  • fu’ io, e vidi cose che ridire
  • né sa né può chi di là sù discende;
  • perché appressando sé al suo disire,
  • nostro intelletto si profonda tanto,
  • che dietro la memoria non può ire.
  • Veramente quant’ io del regno santo
  • ne la mia mente potei far tesoro,
  • sarà ora materia del mio canto.
  • O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
  • fammi del tuo valor sì fatto vaso,
  • come dimandi a dar l’amato alloro.
  • Infino a qui l’un giogo di Parnaso
  • assai mi fu; ma or con amendue
  • m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
  • Entra nel petto mio, e spira tue
  • sì come quando Marsïa traesti
  • de la vagina de le membra sue.
  • O divina virtù, se mi ti presti
  • tanto che l’ombra del beato regno
  • segnata nel mio capo io manifesti,
  • vedra’mi al piè del tuo diletto legno
  • venire, e coronarmi de le foglie
  • che la materia e tu mi farai degno.
  • Sì rade volte, padre, se ne coglie
  • per trïunfare o cesare o poeta,
  • colpa e vergogna de l’umane voglie,
  • che parturir letizia in su la lieta
  • delfica deïtà dovria la fronda
  • peneia, quando alcun di sé asseta.
  • Poca favilla gran fiamma seconda:
  • forse di retro a me con miglior voci
  • si pregherà perché Cirra risponda.
  • Surge ai mortali per diverse foci
  • la lucerna del mondo; ma da quella
  • che quattro cerchi giugne con tre croci,
  • con miglior corso e con migliore stella
  • esce congiunta, e la mondana cera
  • più a suo modo tempera e suggella.
  • Fatto avea di là mane e di qua sera
  • tal foce, e quasi tutto era là bianco
  • quello emisperio, e l’altra parte nera,
  • quando Beatrice in sul sinistro fianco
  • vidi rivolta e riguardar nel sole:
  • aguglia sì non li s’affisse unquanco.
  • E sì come secondo raggio suole
  • uscir del primo e risalire in suso,
  • pur come pelegrin che tornar vuole,
  • così de l’atto suo, per li occhi infuso
  • ne l’imagine mia, il mio si fece,
  • e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.
  • Molto è licito là, che qui non lece
  • a le nostre virtù, mercé del loco
  • fatto per proprio de l’umana spece.
  • Io nol soffersi molto, né sì poco,
  • ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
  • com’ ferro che bogliente esce del foco;
  • e di sùbito parve giorno a giorno
  • essere aggiunto, come quei che puote
  • avesse il ciel d’un altro sole addorno.
  • Beatrice tutta ne l’etterne rote
  • fissa con li occhi stava; e io in lei
  • le luci fissi, di là sù rimote.
  • Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
  • qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
  • che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
  • Trasumanar significar per verba
  • non si poria; però l’essemplo basti
  • a cui esperïenza grazia serba.
  • S’i’ era sol di me quel che creasti
  • novellamente, amor che ’l ciel governi,
  • tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
  • Quando la rota che tu sempiterni
  • desiderato, a sé mi fece atteso
  • con l’armonia che temperi e discerni,
  • parvemi tanto allor del cielo acceso
  • de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
  • lago non fece alcun tanto disteso.
  • La novità del suono e ’l grande lume
  • di lor cagion m’accesero un disio
  • mai non sentito di cotanto acume.
  • Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
  • a quïetarmi l’animo commosso,
  • pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
  • e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
  • col falso imaginar, sì che non vedi
  • ciò che vedresti se l’avessi scosso.
  • Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
  • ma folgore, fuggendo il proprio sito,
  • non corse come tu ch’ad esso riedi».
  • S’io fui del primo dubbio disvestito
  • per le sorrise parolette brevi,
  • dentro ad un nuovo più fu’ inretito
  • e dissi: «Già contento requïevi
  • di grande ammirazion; ma ora ammiro
  • com’ io trascenda questi corpi levi».
  • Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
  • li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
  • che madre fa sovra figlio deliro,
  • e cominciò: «Le cose tutte quante
  • hanno ordine tra loro, e questo è forma
  • che l’universo a Dio fa simigliante.
  • Qui veggion l’alte creature l’orma
  • de l’etterno valore, il qual è fine
  • al quale è fatta la toccata norma.
  • Ne l’ordine ch’io dico sono accline
  • tutte nature, per diverse sorti,
  • più al principio loro e men vicine;
  • onde si muovono a diversi porti
  • per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
  • con istinto a lei dato che la porti.
  • Questi ne porta il foco inver’ la luna;
  • questi ne’ cor mortali è permotore;
  • questi la terra in sé stringe e aduna;
  • né pur le creature che son fore
  • d’intelligenza quest’ arco saetta,
  • ma quelle c’hanno intelletto e amore.
  • La provedenza, che cotanto assetta,
  • del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
  • nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;
  • e ora lì, come a sito decreto,
  • cen porta la virtù di quella corda
  • che ciò che scocca drizza in segno lieto.
  • Vero è che, come forma non s’accorda
  • molte fïate a l’intenzion de l’arte,
  • perch’ a risponder la materia è sorda,
  • così da questo corso si diparte
  • talor la creatura, c’ha podere
  • di piegar, così pinta, in altra parte;
  • e sì come veder si può cadere
  • foco di nube, sì l’impeto primo
  • l’atterra torto da falso piacere.
  • Non dei più ammirar, se bene stimo,
  • lo tuo salir, se non come d’un rivo
  • se d’alto monte scende giuso ad imo.
  • Maraviglia sarebbe in te se, privo
  • d’impedimento, giù ti fossi assiso,
  • com’ a terra quïete in foco vivo».
  • Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
  • Paradiso • Canto II
  • O voi che siete in piccioletta barca,
  • desiderosi d’ascoltar, seguiti
  • dietro al mio legno che cantando varca,
  • tornate a riveder li vostri liti:
  • non vi mettete in pelago, ché forse,
  • perdendo me, rimarreste smarriti.
  • L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
  • Minerva spira, e conducemi Appollo,
  • e nove Muse mi dimostran l’Orse.
  • Voialtri pochi che drizzaste il collo
  • per tempo al pan de li angeli, del quale
  • vivesi qui ma non sen vien satollo,
  • metter potete ben per l’alto sale
  • vostro navigio, servando mio solco
  • dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
  • Que’ glorïosi che passaro al Colco
  • non s’ammiraron come voi farete,
  • quando Iasón vider fatto bifolco.
  • La concreata e perpetüa sete
  • del deïforme regno cen portava
  • veloci quasi come ’l ciel vedete.
  • Beatrice in suso, e io in lei guardava;
  • e forse in tanto in quanto un quadrel posa
  • e vola e da la noce si dischiava,
  • giunto mi vidi ove mirabil cosa
  • mi torse il viso a sé; e però quella
  • cui non potea mia cura essere ascosa,
  • volta ver’ me, sì lieta come bella,
  • «Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
  • «che n’ha congiunti con la prima stella».
  • Parev’ a me che nube ne coprisse
  • lucida, spessa, solida e pulita,
  • quasi adamante che lo sol ferisse.
  • Per entro sé l’etterna margarita
  • ne ricevette, com’ acqua recepe
  • raggio di luce permanendo unita.
  • S’io era corpo, e qui non si concepe
  • com’ una dimensione altra patio,
  • ch’esser convien se corpo in corpo repe,
  • accender ne dovria più il disio
  • di veder quella essenza in che si vede
  • come nostra natura e Dio s’unio.
  • Lì si vedrà ciò che tenem per fede,
  • non dimostrato, ma fia per sé noto
  • a guisa del ver primo che l’uom crede.
  • Io rispuosi: «Madonna, sì devoto
  • com’ esser posso più, ringrazio lui
  • lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.
  • Ma ditemi: che son li segni bui
  • di questo corpo, che là giuso in terra
  • fan di Cain favoleggiare altrui?».
  • Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra
  • l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali
  • dove chiave di senso non diserra,
  • certo non ti dovrien punger li strali
  • d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi
  • vedi che la ragione ha corte l’ali.
  • Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».
  • E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso
  • credo che fanno i corpi rari e densi».
  • Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
  • nel falso il creder tuo, se bene ascolti
  • l’argomentar ch’io li farò avverso.
  • La spera ottava vi dimostra molti
  • lumi, li quali e nel quale e nel quanto
  • notar si posson di diversi volti.
  • Se raro e denso ciò facesser tanto,
  • una sola virtù sarebbe in tutti,
  • più e men distributa e altrettanto.
  • Virtù diverse esser convegnon frutti
  • di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
  • seguiterieno a tua ragion distrutti.
  • Ancor, se raro fosse di quel bruno
  • cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
  • fora di sua materia sì digiuno
  • esto pianeto, o, sì come comparte
  • lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
  • nel suo volume cangerebbe carte.
  • Se ’l primo fosse, fora manifesto
  • ne l’eclissi del sol, per trasparere
  • lo lume come in altro raro ingesto.
  • Questo non è: però è da vedere
  • de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
  • falsificato fia lo tuo parere.
  • S’elli è che questo raro non trapassi,
  • esser conviene un termine da onde
  • lo suo contrario più passar non lassi;
  • e indi l’altrui raggio si rifonde
  • così come color torna per vetro
  • lo qual di retro a sé piombo nasconde.
  • Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
  • ivi lo raggio più che in altre parti,
  • per esser lì refratto più a retro.
  • Da questa instanza può deliberarti
  • esperïenza, se già mai la provi,
  • ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.
  • Tre specchi prenderai; e i due rimovi
  • da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
  • tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
  • Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
  • ti stea un lume che i tre specchi accenda
  • e torni a te da tutti ripercosso.
  • Ben che nel quanto tanto non si stenda
  • la vista più lontana, lì vedrai
  • come convien ch’igualmente risplenda.
  • Or, come ai colpi de li caldi rai
  • de la neve riman nudo il suggetto
  • e dal colore e dal freddo primai,
  • così rimaso te ne l’intelletto
  • voglio informar di luce sì vivace,
  • che ti tremolerà nel suo aspetto.
  • Dentro dal ciel de la divina pace
  • si gira un corpo ne la cui virtute
  • l’esser di tutto suo contento giace.
  • Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
  • quell’ esser parte per diverse essenze,
  • da lui distratte e da lui contenute.
  • Li altri giron per varie differenze
  • le distinzion che dentro da sé hanno
  • dispongono a lor fini e lor semenze.
  • Questi organi del mondo così vanno,
  • come tu vedi omai, di grado in grado,
  • che di sù prendono e di sotto fanno.
  • Riguarda bene omai sì com’ io vado
  • per questo loco al vero che disiri,
  • sì che poi sappi sol tener lo guado.
  • Lo moto e la virtù d’i santi giri,
  • come dal fabbro l’arte del martello,
  • da’ beati motor convien che spiri;
  • e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
  • de la mente profonda che lui volve
  • prende l’image e fassene suggello.
  • E come l’alma dentro a vostra polve
  • per differenti membra e conformate
  • a diverse potenze si risolve,
  • così l’intelligenza sua bontate
  • multiplicata per le stelle spiega,
  • girando sé sovra sua unitate.
  • Virtù diversa fa diversa lega
  • col prezïoso corpo ch’ella avviva,
  • nel qual, sì come vita in voi, si lega.
  • Per la natura lieta onde deriva,
  • la virtù mista per lo corpo luce
  • come letizia per pupilla viva.
  • Da essa vien ciò che da luce a luce
  • par differente, non da denso e raro;
  • essa è formal principio che produce,
  • conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».
  • Paradiso • Canto III
  • Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
  • di bella verità m’avea scoverto,
  • provando e riprovando, il dolce aspetto;
  • e io, per confessar corretto e certo
  • me stesso, tanto quanto si convenne
  • leva’ il capo a proferer più erto;
  • ma visïone apparve che ritenne
  • a sé me tanto stretto, per vedersi,
  • che di mia confession non mi sovvenne.
  • Quali per vetri trasparenti e tersi,
  • o ver per acque nitide e tranquille,
  • non sì profonde che i fondi sien persi,
  • tornan d’i nostri visi le postille
  • debili sì, che perla in bianca fronte
  • non vien men forte a le nostre pupille;
  • tali vid’ io più facce a parlar pronte;
  • per ch’io dentro a l’error contrario corsi
  • a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.
  • Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
  • quelle stimando specchiati sembianti,
  • per veder di cui fosser, li occhi torsi;
  • e nulla vidi, e ritorsili avanti
  • dritti nel lume de la dolce guida,
  • che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
  • «Non ti maravigliar perch’ io sorrida»,
  • mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
  • poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,
  • ma te rivolve, come suole, a vòto:
  • vere sustanze son ciò che tu vedi,
  • qui rilegate per manco di voto.
  • Però parla con esse e odi e credi;
  • ché la verace luce che le appaga
  • da sé non lascia lor torcer li piedi».
  • E io a l’ombra che parea più vaga
  • di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
  • quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:
  • «O ben creato spirito, che a’ rai
  • di vita etterna la dolcezza senti
  • che, non gustata, non s’intende mai,
  • grazïoso mi fia se mi contenti
  • del nome tuo e de la vostra sorte».
  • Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:
  • «La nostra carità non serra porte
  • a giusta voglia, se non come quella
  • che vuol simile a sé tutta sua corte.
  • I’ fui nel mondo vergine sorella;
  • e se la mente tua ben sé riguarda,
  • non mi ti celerà l’esser più bella,
  • ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
  • che, posta qui con questi altri beati,
  • beata sono in la spera più tarda.
  • Li nostri affetti, che solo infiammati
  • son nel piacer de lo Spirito Santo,
  • letizian del suo ordine formati.
  • E questa sorte che par giù cotanto,
  • però n’è data, perché fuor negletti
  • li nostri voti, e vòti in alcun canto».
  • Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
  • vostri risplende non so che divino
  • che vi trasmuta da’ primi concetti:
  • però non fui a rimembrar festino;
  • ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
  • sì che raffigurar m’è più latino.
  • Ma dimmi: voi che siete qui felici,
  • disiderate voi più alto loco
  • per più vedere e per più farvi amici?».
  • Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
  • da indi mi rispuose tanto lieta,
  • ch’arder parea d’amor nel primo foco:
  • «Frate, la nostra volontà quïeta
  • virtù di carità, che fa volerne
  • sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
  • Se disïassimo esser più superne,
  • foran discordi li nostri disiri
  • dal voler di colui che qui ne cerne;
  • che vedrai non capere in questi giri,
  • s’essere in carità è qui necesse,
  • e se la sua natura ben rimiri.
  • Anzi è formale ad esto beato esse
  • tenersi dentro a la divina voglia,
  • per ch’una fansi nostre voglie stesse;
  • sì che, come noi sem di soglia in soglia
  • per questo regno, a tutto il regno piace
  • com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
  • E ’n la sua volontade è nostra pace:
  • ell’ è quel mare al qual tutto si move
  • ciò ch’ella crïa o che natura face».
  • Chiaro mi fu allor come ogne dove
  • in cielo è paradiso, etsi la grazia
  • del sommo ben d’un modo non vi piove.
  • Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
  • e d’un altro rimane ancor la gola,
  • che quel si chere e di quel si ringrazia,
  • così fec’ io con atto e con parola,
  • per apprender da lei qual fu la tela
  • onde non trasse infino a co la spuola.
  • «Perfetta vita e alto merto inciela
  • donna più sù», mi disse, «a la cui norma
  • nel vostro mondo giù si veste e vela,
  • perché fino al morir si vegghi e dorma
  • con quello sposo ch’ogne voto accetta
  • che caritate a suo piacer conforma.
  • Dal mondo, per seguirla, giovinetta
  • fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
  • e promisi la via de la sua setta.
  • Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
  • fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
  • Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
  • E quest’ altro splendor che ti si mostra
  • da la mia destra parte e che s’accende
  • di tutto il lume de la spera nostra,
  • ciò ch’io dico di me, di sé intende;
  • sorella fu, e così le fu tolta
  • di capo l’ombra de le sacre bende.
  • Ma poi che pur al mondo fu rivolta
  • contra suo grado e contra buona usanza,
  • non fu dal vel del cor già mai disciolta.
  • Quest’ è la luce de la gran Costanza
  • che del secondo vento di Soave
  • generò ’l terzo e l’ultima possanza».
  • Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
  • Maria’ cantando, e cantando vanio
  • come per acqua cupa cosa grave.
  • La vista mia, che tanto lei seguio
  • quanto possibil fu, poi che la perse,
  • volsesi al segno di maggior disio,
  • e a Beatrice tutta si converse;
  • ma quella folgorò nel mïo sguardo
  • sì che da prima il viso non sofferse;
  • e ciò mi fece a dimandar più tardo.
  • Paradiso • Canto IV
  • Intra due cibi, distanti e moventi
  • d’un modo, prima si morria di fame,
  • che liber’ omo l’un recasse ai denti;
  • sì si starebbe un agno intra due brame
  • di fieri lupi, igualmente temendo;
  • sì si starebbe un cane intra due dame:
  • per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
  • da li miei dubbi d’un modo sospinto,
  • poi ch’era necessario, né commendo.
  • Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
  • m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
  • più caldo assai che per parlar distinto.
  • Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
  • Nabuccodonosor levando d’ira,
  • che l’avea fatto ingiustamente fello;
  • e disse: «Io veggio ben come ti tira
  • uno e altro disio, sì che tua cura
  • sé stessa lega sì che fuor non spira.
  • Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
  • la vïolenza altrui per qual ragione
  • di meritar mi scema la misura?”.
  • Ancor di dubitar ti dà cagione
  • parer tornarsi l’anime a le stelle,
  • secondo la sentenza di Platone.
  • Queste son le question che nel tuo velle
  • pontano igualmente; e però pria
  • tratterò quella che più ha di felle.
  • D’i Serafin colui che più s’india,
  • Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
  • che prender vuoli, io dico, non Maria,
  • non hanno in altro cielo i loro scanni
  • che questi spirti che mo t’appariro,
  • né hanno a l’esser lor più o meno anni;
  • ma tutti fanno bello il primo giro,
  • e differentemente han dolce vita
  • per sentir più e men l’etterno spiro.
  • Qui si mostraro, non perché sortita
  • sia questa spera lor, ma per far segno
  • de la celestïal c’ha men salita.
  • Così parlar conviensi al vostro ingegno,
  • però che solo da sensato apprende
  • ciò che fa poscia d’intelletto degno.
  • Per questo la Scrittura condescende
  • a vostra facultate, e piedi e mano
  • attribuisce a Dio e altro intende;
  • e Santa Chiesa con aspetto umano
  • Gabrïel e Michel vi rappresenta,
  • e l’altro che Tobia rifece sano.
  • Quel che Timeo de l’anime argomenta
  • non è simile a ciò che qui si vede,
  • però che, come dice, par che senta.
  • Dice che l’alma a la sua stella riede,
  • credendo quella quindi esser decisa
  • quando natura per forma la diede;
  • e forse sua sentenza è d’altra guisa
  • che la voce non suona, ed esser puote
  • con intenzion da non esser derisa.
  • S’elli intende tornare a queste ruote
  • l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
  • in alcun vero suo arco percuote.
  • Questo principio, male inteso, torse
  • già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
  • Mercurio e Marte a nominar trascorse.
  • L’altra dubitazion che ti commove
  • ha men velen, però che sua malizia
  • non ti poria menar da me altrove.
  • Parere ingiusta la nostra giustizia
  • ne li occhi d’i mortali, è argomento
  • di fede e non d’eretica nequizia.
  • Ma perché puote vostro accorgimento
  • ben penetrare a questa veritate,
  • come disiri, ti farò contento.
  • Se vïolenza è quando quel che pate
  • nïente conferisce a quel che sforza,
  • non fuor quest’ alme per essa scusate:
  • ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
  • ma fa come natura face in foco,
  • se mille volte vïolenza il torza.
  • Per che, s’ella si piega assai o poco,
  • segue la forza; e così queste fero
  • possendo rifuggir nel santo loco.
  • Se fosse stato lor volere intero,
  • come tenne Lorenzo in su la grada,
  • e fece Muzio a la sua man severo,
  • così l’avria ripinte per la strada
  • ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
  • ma così salda voglia è troppo rada.
  • E per queste parole, se ricolte
  • l’hai come dei, è l’argomento casso
  • che t’avria fatto noia ancor più volte.
  • Ma or ti s’attraversa un altro passo
  • dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
  • non usciresti: pria saresti lasso.
  • Io t’ho per certo ne la mente messo
  • ch’alma beata non poria mentire,
  • però ch’è sempre al primo vero appresso;
  • e poi potesti da Piccarda udire
  • che l’affezion del vel Costanza tenne;
  • sì ch’ella par qui meco contradire.
  • Molte fïate già, frate, addivenne
  • che, per fuggir periglio, contra grato
  • si fé di quel che far non si convenne;
  • come Almeone, che, di ciò pregato
  • dal padre suo, la propria madre spense,
  • per non perder pietà si fé spietato.
  • A questo punto voglio che tu pense
  • che la forza al voler si mischia, e fanno
  • sì che scusar non si posson l’offense.
  • Voglia assoluta non consente al danno;
  • ma consentevi in tanto in quanto teme,
  • se si ritrae, cadere in più affanno.
  • Però, quando Piccarda quello spreme,
  • de la voglia assoluta intende, e io
  • de l’altra; sì che ver diciamo insieme».
  • Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
  • ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
  • tal puose in pace uno e altro disio.
  • «O amanza del primo amante, o diva»,
  • diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda
  • e scalda sì, che più e più m’avviva,
  • non è l’affezion mia tanto profonda,
  • che basti a render voi grazia per grazia;
  • ma quei che vede e puote a ciò risponda.
  • Io veggio ben che già mai non si sazia
  • nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
  • di fuor dal qual nessun vero si spazia.
  • Posasi in esso, come fera in lustra,
  • tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
  • se non, ciascun disio sarebbe frustra.
  • Nasce per quello, a guisa di rampollo,
  • a piè del vero il dubbio; ed è natura
  • ch’al sommo pinge noi di collo in collo.
  • Questo m’invita, questo m’assicura
  • con reverenza, donna, a dimandarvi
  • d’un’altra verità che m’è oscura.
  • Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
  • ai voti manchi sì con altri beni,
  • ch’a la vostra statera non sien parvi».
  • Beatrice mi guardò con li occhi pieni
  • di faville d’amor così divini,
  • che, vinta, mia virtute diè le reni,
  • e quasi mi perdei con li occhi chini.
  • Paradiso • Canto V
  • «S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
  • di là dal modo che ’n terra si vede,
  • sì che del viso tuo vinco il valore,
  • non ti maravigliar, ché ciò procede
  • da perfetto veder, che, come apprende,
  • così nel bene appreso move il piede.
  • Io veggio ben sì come già resplende
  • ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
  • che, vista, sola e sempre amore accende;
  • e s’altra cosa vostro amor seduce,
  • non è se non di quella alcun vestigio,
  • mal conosciuto, che quivi traluce.
  • Tu vuo’ saper se con altro servigio,
  • per manco voto, si può render tanto
  • che l’anima sicuri di letigio».
  • Sì cominciò Beatrice questo canto;
  • e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
  • continüò così ’l processo santo:
  • «Lo maggior don che Dio per sua larghezza
  • fesse creando, e a la sua bontate
  • più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
  • fu de la volontà la libertate;
  • di che le creature intelligenti,
  • e tutte e sole, fuoro e son dotate.
  • Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
  • l’alto valor del voto, s’è sì fatto
  • che Dio consenta quando tu consenti;
  • ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
  • vittima fassi di questo tesoro,
  • tal quale io dico; e fassi col suo atto.
  • Dunque che render puossi per ristoro?
  • Se credi bene usar quel c’hai offerto,
  • di maltolletto vuo’ far buon lavoro.
  • Tu se’ omai del maggior punto certo;
  • ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
  • che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,
  • convienti ancor sedere un poco a mensa,
  • però che ’l cibo rigido c’hai preso,
  • richiede ancora aiuto a tua dispensa.
  • Apri la mente a quel ch’io ti paleso
  • e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
  • sanza lo ritenere, avere inteso.
  • Due cose si convegnono a l’essenza
  • di questo sacrificio: l’una è quella
  • di che si fa; l’altr’ è la convenenza.
  • Quest’ ultima già mai non si cancella
  • se non servata; e intorno di lei
  • sì preciso di sopra si favella:
  • però necessitato fu a li Ebrei
  • pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
  • sì permutasse, come saver dei.
  • L’altra, che per materia t’è aperta,
  • puote ben esser tal, che non si falla
  • se con altra materia si converta.
  • Ma non trasmuti carco a la sua spalla
  • per suo arbitrio alcun, sanza la volta
  • e de la chiave bianca e de la gialla;
  • e ogne permutanza credi stolta,
  • se la cosa dimessa in la sorpresa
  • come ’l quattro nel sei non è raccolta.
  • Però qualunque cosa tanto pesa
  • per suo valor che tragga ogne bilancia,
  • sodisfar non si può con altra spesa.
  • Non prendan li mortali il voto a ciancia;
  • siate fedeli, e a ciò far non bieci,
  • come Ieptè a la sua prima mancia;
  • cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
  • che, servando, far peggio; e così stolto
  • ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,
  • onde pianse Efigènia il suo bel volto,
  • e fé pianger di sé i folli e i savi
  • ch’udir parlar di così fatto cólto.
  • Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
  • non siate come penna ad ogne vento,
  • e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.
  • Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
  • e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
  • questo vi basti a vostro salvamento.
  • Se mala cupidigia altro vi grida,
  • uomini siate, e non pecore matte,
  • sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!
  • Non fate com’ agnel che lascia il latte
  • de la sua madre, e semplice e lascivo
  • seco medesmo a suo piacer combatte!».
  • Così Beatrice a me com’ ïo scrivo;
  • poi si rivolse tutta disïante
  • a quella parte ove ’l mondo è più vivo.
  • Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
  • puoser silenzio al mio cupido ingegno,
  • che già nuove questioni avea davante;
  • e sì come saetta che nel segno
  • percuote pria che sia la corda queta,
  • così corremmo nel secondo regno.
  • Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
  • come nel lume di quel ciel si mise,
  • che più lucente se ne fé ’l pianeta.
  • E se la stella si cambiò e rise,
  • qual mi fec’ io che pur da mia natura
  • trasmutabile son per tutte guise!
  • Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
  • traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
  • per modo che lo stimin lor pastura,
  • sì vid’ io ben più di mille splendori
  • trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
  • «Ecco chi crescerà li nostri amori».
  • E sì come ciascuno a noi venìa,
  • vedeasi l’ombra piena di letizia
  • nel folgór chiaro che di lei uscia.
  • Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
  • non procedesse, come tu avresti
  • di più savere angosciosa carizia;
  • e per te vederai come da questi
  • m’era in disio d’udir lor condizioni,
  • sì come a li occhi mi fur manifesti.
  • «O bene nato a cui veder li troni
  • del trïunfo etternal concede grazia
  • prima che la milizia s’abbandoni,
  • del lume che per tutto il ciel si spazia
  • noi semo accesi; e però, se disii
  • di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».
  • Così da un di quelli spirti pii
  • detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
  • sicuramente, e credi come a dii».
  • «Io veggio ben sì come tu t’annidi
  • nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
  • perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
  • ma non so chi tu se’, né perché aggi,
  • anima degna, il grado de la spera
  • che si vela a’ mortai con altrui raggi».
  • Questo diss’ io diritto a la lumera
  • che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
  • lucente più assai di quel ch’ell’ era.
  • Sì come il sol che si cela elli stessi
  • per troppa luce, come ’l caldo ha róse
  • le temperanze d’i vapori spessi,
  • per più letizia sì mi si nascose
  • dentro al suo raggio la figura santa;
  • e così chiusa chiusa mi rispuose
  • nel modo che ’l seguente canto canta.
  • Paradiso • Canto VI
  • «Poscia che Costantin l’aquila volse
  • contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
  • dietro a l’antico che Lavina tolse,
  • cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
  • ne lo stremo d’Europa si ritenne,
  • vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
  • e sotto l’ombra de le sacre penne
  • governò ’l mondo lì di mano in mano,
  • e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
  • Cesare fui e son Iustinïano,
  • che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
  • d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.
  • E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
  • una natura in Cristo esser, non piùe,
  • credea, e di tal fede era contento;
  • ma ’l benedetto Agapito, che fue
  • sommo pastore, a la fede sincera
  • mi dirizzò con le parole sue.
  • Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
  • vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
  • ogni contradizione e falsa e vera.
  • Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
  • a Dio per grazia piacque di spirarmi
  • l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
  • e al mio Belisar commendai l’armi,
  • cui la destra del ciel fu sì congiunta,
  • che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
  • Or qui a la question prima s’appunta
  • la mia risposta; ma sua condizione
  • mi stringe a seguitare alcuna giunta,
  • perché tu veggi con quanta ragione
  • si move contr’ al sacrosanto segno
  • e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.
  • Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
  • di reverenza; e cominciò da l’ora
  • che Pallante morì per darli regno.
  • Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
  • per trecento anni e oltre, infino al fine
  • che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
  • E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
  • al dolor di Lucrezia in sette regi,
  • vincendo intorno le genti vicine.
  • Sai quel ch’el fé portato da li egregi
  • Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
  • incontro a li altri principi e collegi;
  • onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
  • negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
  • ebber la fama che volontier mirro.
  • Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
  • che di retro ad Anibale passaro
  • l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
  • Sott’ esso giovanetti trïunfaro
  • Scipïone e Pompeo; e a quel colle
  • sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
  • Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
  • redur lo mondo a suo modo sereno,
  • Cesare per voler di Roma il tolle.
  • E quel che fé da Varo infino a Reno,
  • Isara vide ed Era e vide Senna
  • e ogne valle onde Rodano è pieno.
  • Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
  • e saltò Rubicon, fu di tal volo,
  • che nol seguiteria lingua né penna.
  • Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
  • poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
  • sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
  • Antandro e Simeonta, onde si mosse,
  • rivide e là dov’ Ettore si cuba;
  • e mal per Tolomeo poscia si scosse.
  • Da indi scese folgorando a Iuba;
  • onde si volse nel vostro occidente,
  • ove sentia la pompeana tuba.
  • Di quel che fé col baiulo seguente,
  • Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
  • e Modena e Perugia fu dolente.
  • Piangene ancor la trista Cleopatra,
  • che, fuggendoli innanzi, dal colubro
  • la morte prese subitana e atra.
  • Con costui corse infino al lito rubro;
  • con costui puose il mondo in tanta pace,
  • che fu serrato a Giano il suo delubro.
  • Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
  • fatto avea prima e poi era fatturo
  • per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
  • diventa in apparenza poco e scuro,
  • se in mano al terzo Cesare si mira
  • con occhio chiaro e con affetto puro;
  • ché la viva giustizia che mi spira,
  • li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
  • gloria di far vendetta a la sua ira.
  • Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
  • poscia con Tito a far vendetta corse
  • de la vendetta del peccato antico.
  • E quando il dente longobardo morse
  • la Santa Chiesa, sotto le sue ali
  • Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
  • Omai puoi giudicar di quei cotali
  • ch’io accusai di sopra e di lor falli,
  • che son cagion di tutti vostri mali.
  • L’uno al pubblico segno i gigli gialli
  • oppone, e l’altro appropria quello a parte,
  • sì ch’è forte a veder chi più si falli.
  • Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
  • sott’ altro segno, ché mal segue quello
  • sempre chi la giustizia e lui diparte;
  • e non l’abbatta esto Carlo novello
  • coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
  • ch’a più alto leon trasser lo vello.
  • Molte fïate già pianser li figli
  • per la colpa del padre, e non si creda
  • che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!
  • Questa picciola stella si correda
  • d’i buoni spirti che son stati attivi
  • perché onore e fama li succeda:
  • e quando li disiri poggian quivi,
  • sì disvïando, pur convien che i raggi
  • del vero amore in sù poggin men vivi.
  • Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
  • col merto è parte di nostra letizia,
  • perché non li vedem minor né maggi.
  • Quindi addolcisce la viva giustizia
  • in noi l’affetto sì, che non si puote
  • torcer già mai ad alcuna nequizia.
  • Diverse voci fanno dolci note;
  • così diversi scanni in nostra vita
  • rendon dolce armonia tra queste rote.
  • E dentro a la presente margarita
  • luce la luce di Romeo, di cui
  • fu l’ovra grande e bella mal gradita.
  • Ma i Provenzai che fecer contra lui
  • non hanno riso; e però mal cammina
  • qual si fa danno del ben fare altrui.
  • Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
  • Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
  • Romeo, persona umìle e peregrina.
  • E poi il mosser le parole biece
  • a dimandar ragione a questo giusto,
  • che li assegnò sette e cinque per diece,
  • indi partissi povero e vetusto;
  • e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
  • mendicando sua vita a frusto a frusto,
  • assai lo loda, e più lo loderebbe».
  • Paradiso • Canto VII
  • «Osanna, sanctus Deus sabaòth,
  • superillustrans claritate tua
  • felices ignes horum malacòth!».
  • Così, volgendosi a la nota sua,
  • fu viso a me cantare essa sustanza,
  • sopra la qual doppio lume s’addua;
  • ed essa e l’altre mossero a sua danza,
  • e quasi velocissime faville
  • mi si velar di sùbita distanza.
  • Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
  • fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
  • che mi diseta con le dolci stille’.
  • Ma quella reverenza che s’indonna
  • di tutto me, pur per Be e per ice,
  • mi richinava come l’uom ch’assonna.
  • Poco sofferse me cotal Beatrice
  • e cominciò, raggiandomi d’un riso
  • tal, che nel foco faria l’uom felice:
  • «Secondo mio infallibile avviso,
  • come giusta vendetta giustamente
  • punita fosse, t’ha in pensier miso;
  • ma io ti solverò tosto la mente;
  • e tu ascolta, ché le mie parole
  • di gran sentenza ti faran presente.
  • Per non soffrire a la virtù che vole
  • freno a suo prode, quell’ uom che non nacque,
  • dannando sé, dannò tutta sua prole;
  • onde l’umana specie inferma giacque
  • giù per secoli molti in grande errore,
  • fin ch’al Verbo di Dio discender piacque
  • u’ la natura, che dal suo fattore
  • s’era allungata, unì a sé in persona
  • con l’atto sol del suo etterno amore.
  • Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
  • questa natura al suo fattore unita,
  • qual fu creata, fu sincera e buona;
  • ma per sé stessa pur fu ella sbandita
  • di paradiso, però che si torse
  • da via di verità e da sua vita.
  • La pena dunque che la croce porse
  • s’a la natura assunta si misura,
  • nulla già mai sì giustamente morse;
  • e così nulla fu di tanta ingiura,
  • guardando a la persona che sofferse,
  • in che era contratta tal natura.
  • Però d’un atto uscir cose diverse:
  • ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
  • per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.
  • Non ti dee oramai parer più forte,
  • quando si dice che giusta vendetta
  • poscia vengiata fu da giusta corte.
  • Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
  • di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
  • del qual con gran disio solver s’aspetta.
  • Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
  • ma perché Dio volesse, m’è occulto,
  • a nostra redenzion pur questo modo”.
  • Questo decreto, frate, sta sepulto
  • a li occhi di ciascuno il cui ingegno
  • ne la fiamma d’amor non è adulto.
  • Veramente, però ch’a questo segno
  • molto si mira e poco si discerne,
  • dirò perché tal modo fu più degno.
  • La divina bontà, che da sé sperne
  • ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
  • sì che dispiega le bellezze etterne.
  • Ciò che da lei sanza mezzo distilla
  • non ha poi fine, perché non si move
  • la sua imprenta quand’ ella sigilla.
  • Ciò che da essa sanza mezzo piove
  • libero è tutto, perché non soggiace
  • a la virtute de le cose nove.
  • Più l’è conforme, e però più le piace;
  • ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
  • ne la più somigliante è più vivace.
  • Di tutte queste dote s’avvantaggia
  • l’umana creatura, e s’una manca,
  • di sua nobilità convien che caggia.
  • Solo il peccato è quel che la disfranca
  • e falla dissimìle al sommo bene,
  • per che del lume suo poco s’imbianca;
  • e in sua dignità mai non rivene,
  • se non rïempie, dove colpa vòta,
  • contra mal dilettar con giuste pene.
  • Vostra natura, quando peccò tota
  • nel seme suo, da queste dignitadi,
  • come di paradiso, fu remota;
  • né ricovrar potiensi, se tu badi
  • ben sottilmente, per alcuna via,
  • sanza passar per un di questi guadi:
  • o che Dio solo per sua cortesia
  • dimesso avesse, o che l’uom per sé isso
  • avesse sodisfatto a sua follia.
  • Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
  • de l’etterno consiglio, quanto puoi
  • al mio parlar distrettamente fisso.
  • Non potea l’uomo ne’ termini suoi
  • mai sodisfar, per non potere ir giuso
  • con umiltate obedïendo poi,
  • quanto disobediendo intese ir suso;
  • e questa è la cagion per che l’uom fue
  • da poter sodisfar per sé dischiuso.
  • Dunque a Dio convenia con le vie sue
  • riparar l’omo a sua intera vita,
  • dico con l’una, o ver con amendue.
  • Ma perché l’ovra tanto è più gradita
  • da l’operante, quanto più appresenta
  • de la bontà del core ond’ ell’ è uscita,
  • la divina bontà che ’l mondo imprenta,
  • di proceder per tutte le sue vie,
  • a rilevarvi suso, fu contenta.
  • Né tra l’ultima notte e ’l primo die
  • sì alto o sì magnifico processo,
  • o per l’una o per l’altra, fu o fie:
  • ché più largo fu Dio a dar sé stesso
  • per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
  • che s’elli avesse sol da sé dimesso;
  • e tutti li altri modi erano scarsi
  • a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio
  • non fosse umilïato ad incarnarsi.
  • Or per empierti bene ogne disio,
  • ritorno a dichiararti in alcun loco,
  • perché tu veggi lì così com’ io.
  • Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,
  • l’aere e la terra e tutte lor misture
  • venire a corruzione, e durar poco;
  • e queste cose pur furon creature;
  • per che, se ciò ch’è detto è stato vero,
  • esser dovrien da corruzion sicure”.
  • Li angeli, frate, e ’l paese sincero
  • nel qual tu se’, dir si posson creati,
  • sì come sono, in loro essere intero;
  • ma li alimenti che tu hai nomati
  • e quelle cose che di lor si fanno
  • da creata virtù sono informati.
  • Creata fu la materia ch’elli hanno;
  • creata fu la virtù informante
  • in queste stelle che ’ntorno a lor vanno.
  • L’anima d’ogne bruto e de le piante
  • di complession potenzïata tira
  • lo raggio e ’l moto de le luci sante;
  • ma vostra vita sanza mezzo spira
  • la somma beninanza, e la innamora
  • di sé sì che poi sempre la disira.
  • E quinci puoi argomentare ancora
  • vostra resurrezion, se tu ripensi
  • come l’umana carne fessi allora
  • che li primi parenti intrambo fensi».
  • Paradiso • Canto VIII
  • Solea creder lo mondo in suo periclo
  • che la bella Ciprigna il folle amore
  • raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
  • per che non pur a lei faceano onore
  • di sacrificio e di votivo grido
  • le genti antiche ne l’antico errore;
  • ma Dïone onoravano e Cupido,
  • quella per madre sua, questo per figlio,
  • e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;
  • e da costei ond’ io principio piglio
  • pigliavano il vocabol de la stella
  • che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.
  • Io non m’accorsi del salire in ella;
  • ma d’esservi entro mi fé assai fede
  • la donna mia ch’i’ vidi far più bella.
  • E come in fiamma favilla si vede,
  • e come in voce voce si discerne,
  • quand’ una è ferma e altra va e riede,
  • vid’ io in essa luce altre lucerne
  • muoversi in giro più e men correnti,
  • al modo, credo, di lor viste interne.
  • Di fredda nube non disceser venti,
  • o visibili o no, tanto festini,
  • che non paressero impediti e lenti
  • a chi avesse quei lumi divini
  • veduti a noi venir, lasciando il giro
  • pria cominciato in li alti Serafini;
  • e dentro a quei che più innanzi appariro
  • sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi
  • di rïudir non fui sanza disiro.
  • Indi si fece l’un più presso a noi
  • e solo incominciò: «Tutti sem presti
  • al tuo piacer, perché di noi ti gioi.
  • Noi ci volgiam coi principi celesti
  • d’un giro e d’un girare e d’una sete,
  • ai quali tu del mondo già dicesti:
  • ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’;
  • e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
  • non fia men dolce un poco di quïete».
  • Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
  • a la mia donna reverenti, ed essa
  • fatti li avea di sé contenti e certi,
  • rivolsersi a la luce che promessa
  • tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
  • la voce mia di grande affetto impressa.
  • E quanta e quale vid’ io lei far piùe
  • per allegrezza nova che s’accrebbe,
  • quando parlai, a l’allegrezze sue!
  • Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
  • giù poco tempo; e se più fosse stato,
  • molto sarà di mal, che non sarebbe.
  • La mia letizia mi ti tien celato
  • che mi raggia dintorno e mi nasconde
  • quasi animal di sua seta fasciato.
  • Assai m’amasti, e avesti ben onde;
  • che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
  • di mio amor più oltre che le fronde.
  • Quella sinistra riva che si lava
  • di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
  • per suo segnore a tempo m’aspettava,
  • e quel corno d’Ausonia che s’imborga
  • di Bari e di Gaeta e di Catona,
  • da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
  • Fulgeami già in fronte la corona
  • di quella terra che ’l Danubio riga
  • poi che le ripe tedesche abbandona.
  • E la bella Trinacria, che caliga
  • tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
  • che riceve da Euro maggior briga,
  • non per Tifeo ma per nascente solfo,
  • attesi avrebbe li suoi regi ancora,
  • nati per me di Carlo e di Ridolfo,
  • se mala segnoria, che sempre accora
  • li popoli suggetti, non avesse
  • mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.
  • E se mio frate questo antivedesse,
  • l’avara povertà di Catalogna
  • già fuggeria, perché non li offendesse;
  • ché veramente proveder bisogna
  • per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
  • carcata più d’incarco non si pogna.
  • La sua natura, che di larga parca
  • discese, avria mestier di tal milizia
  • che non curasse di mettere in arca».
  • «Però ch’i’ credo che l’alta letizia
  • che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
  • là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,
  • per te si veggia come la vegg’ io,
  • grata m’è più; e anco quest’ ho caro
  • perché ’l discerni rimirando in Dio.
  • Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
  • poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
  • com’ esser può, di dolce seme, amaro».
  • Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
  • mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
  • terrai lo viso come tien lo dosso.
  • Lo ben che tutto il regno che tu scandi
  • volge e contenta, fa esser virtute
  • sua provedenza in questi corpi grandi.
  • E non pur le nature provedute
  • sono in la mente ch’è da sé perfetta,
  • ma esse insieme con la lor salute:
  • per che quantunque quest’ arco saetta
  • disposto cade a proveduto fine,
  • sì come cosa in suo segno diretta.
  • Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
  • producerebbe sì li suoi effetti,
  • che non sarebbero arti, ma ruine;
  • e ciò esser non può, se li ’ntelletti
  • che muovon queste stelle non son manchi,
  • e manco il primo, che non li ha perfetti.
  • Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
  • E io: «Non già; ché impossibil veggio
  • che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».
  • Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
  • per l’omo in terra, se non fosse cive?».
  • «Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».
  • «E puot’ elli esser, se giù non si vive
  • diversamente per diversi offici?
  • Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».
  • Sì venne deducendo infino a quici;
  • poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
  • convien di vostri effetti le radici:
  • per ch’un nasce Solone e altro Serse,
  • altro Melchisedèch e altro quello
  • che, volando per l’aere, il figlio perse.
  • La circular natura, ch’è suggello
  • a la cera mortal, fa ben sua arte,
  • ma non distingue l’un da l’altro ostello.
  • Quinci addivien ch’Esaù si diparte
  • per seme da Iacòb; e vien Quirino
  • da sì vil padre, che si rende a Marte.
  • Natura generata il suo cammino
  • simil farebbe sempre a’ generanti,
  • se non vincesse il proveder divino.
  • Or quel che t’era dietro t’è davanti:
  • ma perché sappi che di te mi giova,
  • un corollario voglio che t’ammanti.
  • Sempre natura, se fortuna trova
  • discorde a sé, com’ ogne altra semente
  • fuor di sua regïon, fa mala prova.
  • E se ’l mondo là giù ponesse mente
  • al fondamento che natura pone,
  • seguendo lui, avria buona la gente.
  • Ma voi torcete a la religïone
  • tal che fia nato a cignersi la spada,
  • e fate re di tal ch’è da sermone;
  • onde la traccia vostra è fuor di strada».
  • Paradiso • Canto IX
  • Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
  • m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
  • che ricever dovea la sua semenza;
  • ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
  • sì ch’io non posso dir se non che pianto
  • giusto verrà di retro ai vostri danni.
  • E già la vita di quel lume santo
  • rivolta s’era al Sol che la rïempie
  • come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.
  • Ahi anime ingannate e fatture empie,
  • che da sì fatto ben torcete i cuori,
  • drizzando in vanità le vostre tempie!
  • Ed ecco un altro di quelli splendori
  • ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
  • significava nel chiarir di fori.
  • Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi
  • sovra me, come pria, di caro assenso
  • al mio disio certificato fermi.
  • «Deh, metti al mio voler tosto compenso,
  • beato spirto», dissi, «e fammi prova
  • ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».
  • Onde la luce che m’era ancor nova,
  • del suo profondo, ond’ ella pria cantava,
  • seguette come a cui di ben far giova:
  • «In quella parte de la terra prava
  • italica che siede tra Rïalto
  • e le fontane di Brenta e di Piava,
  • si leva un colle, e non surge molt’ alto,
  • là onde scese già una facella
  • che fece a la contrada un grande assalto.
  • D’una radice nacqui e io ed ella:
  • Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
  • perché mi vinse il lume d’esta stella;
  • ma lietamente a me medesma indulgo
  • la cagion di mia sorte, e non mi noia;
  • che parria forse forte al vostro vulgo.
  • Di questa luculenta e cara gioia
  • del nostro cielo che più m’è propinqua,
  • grande fama rimase; e pria che moia,
  • questo centesimo anno ancor s’incinqua:
  • vedi se far si dee l’omo eccellente,
  • sì ch’altra vita la prima relinqua.
  • E ciò non pensa la turba presente
  • che Tagliamento e Adice richiude,
  • né per esser battuta ancor si pente;
  • ma tosto fia che Padova al palude
  • cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
  • per essere al dover le genti crude;
  • e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
  • tal signoreggia e va con la testa alta,
  • che già per lui carpir si fa la ragna.
  • Piangerà Feltro ancora la difalta
  • de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
  • sì, che per simil non s’entrò in malta.
  • Troppo sarebbe larga la bigoncia
  • che ricevesse il sangue ferrarese,
  • e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,
  • che donerà questo prete cortese
  • per mostrarsi di parte; e cotai doni
  • conformi fieno al viver del paese.
  • Sù sono specchi, voi dicete Troni,
  • onde refulge a noi Dio giudicante;
  • sì che questi parlar ne paion buoni».
  • Qui si tacette; e fecemi sembiante
  • che fosse ad altro volta, per la rota
  • in che si mise com’ era davante.
  • L’altra letizia, che m’era già nota
  • per cara cosa, mi si fece in vista
  • qual fin balasso in che lo sol percuota.
  • Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
  • sì come riso qui; ma giù s’abbuia
  • l’ombra di fuor, come la mente è trista.
  • «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
  • diss’ io, «beato spirto, sì che nulla
  • voglia di sé a te puot’ esser fuia.
  • Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
  • sempre col canto di quei fuochi pii
  • che di sei ali facen la coculla,
  • perché non satisface a’ miei disii?
  • Già non attendere’ io tua dimanda,
  • s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
  • «La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
  • incominciaro allor le sue parole,
  • «fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
  • tra ’ discordanti liti contra ’l sole
  • tanto sen va, che fa meridïano
  • là dove l’orizzonte pria far suole.
  • Di quella valle fu’ io litorano
  • tra Ebro e Macra, che per cammin corto
  • parte lo Genovese dal Toscano.
  • Ad un occaso quasi e ad un orto
  • Buggea siede e la terra ond’ io fui,
  • che fé del sangue suo già caldo il porto.
  • Folco mi disse quella gente a cui
  • fu noto il nome mio; e questo cielo
  • di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui;
  • ché più non arse la figlia di Belo,
  • noiando e a Sicheo e a Creusa,
  • di me, infin che si convenne al pelo;
  • né quella Rodopëa che delusa
  • fu da Demofoonte, né Alcide
  • quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
  • Non però qui si pente, ma si ride,
  • non de la colpa, ch’a mente non torna,
  • ma del valor ch’ordinò e provide.
  • Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
  • cotanto affetto, e discernesi ’l bene
  • per che ’l mondo di sù quel di giù torna.
  • Ma perché tutte le tue voglie piene
  • ten porti che son nate in questa spera,
  • proceder ancor oltre mi convene.
  • Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
  • che qui appresso me così scintilla
  • come raggio di sole in acqua mera.
  • Or sappi che là entro si tranquilla
  • Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
  • di lei nel sommo grado si sigilla.
  • Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
  • che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma
  • del trïunfo di Cristo fu assunta.
  • Ben si convenne lei lasciar per palma
  • in alcun cielo de l’alta vittoria
  • che s’acquistò con l’una e l’altra palma,
  • perch’ ella favorò la prima gloria
  • di Iosüè in su la Terra Santa,
  • che poco tocca al papa la memoria.
  • La tua città, che di colui è pianta
  • che pria volse le spalle al suo fattore
  • e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
  • produce e spande il maladetto fiore
  • c’ha disvïate le pecore e li agni,
  • però che fatto ha lupo del pastore.
  • Per questo l’Evangelio e i dottor magni
  • son derelitti, e solo ai Decretali
  • si studia, sì che pare a’ lor vivagni.
  • A questo intende il papa e ’ cardinali;
  • non vanno i lor pensieri a Nazarette,
  • là dove Gabrïello aperse l’ali.
  • Ma Vaticano e l’altre parti elette
  • di Roma che son state cimitero
  • a la milizia che Pietro seguette,
  • tosto libere fien de l’avoltero».
  • Paradiso • Canto X
  • Guardando nel suo Figlio con l’Amore
  • che l’uno e l’altro etternalmente spira,
  • lo primo e ineffabile Valore
  • quanto per mente e per loco si gira
  • con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
  • sanza gustar di lui chi ciò rimira.
  • Leva dunque, lettore, a l’alte rote
  • meco la vista, dritto a quella parte
  • dove l’un moto e l’altro si percuote;
  • e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
  • di quel maestro che dentro a sé l’ama,
  • tanto che mai da lei l’occhio non parte.
  • Vedi come da indi si dirama
  • l’oblico cerchio che i pianeti porta,
  • per sodisfare al mondo che li chiama.
  • Che se la strada lor non fosse torta,
  • molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
  • e quasi ogne potenza qua giù morta;
  • e se dal dritto più o men lontano
  • fosse ’l partire, assai sarebbe manco
  • e giù e sù de l’ordine mondano.
  • Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
  • dietro pensando a ciò che si preliba,
  • s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
  • Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
  • ché a sé torce tutta la mia cura
  • quella materia ond’ io son fatto scriba.
  • Lo ministro maggior de la natura,
  • che del valor del ciel lo mondo imprenta
  • e col suo lume il tempo ne misura,
  • con quella parte che sù si rammenta
  • congiunto, si girava per le spire
  • in che più tosto ognora s’appresenta;
  • e io era con lui; ma del salire
  • non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge,
  • anzi ’l primo pensier, del suo venire.
  • È Bëatrice quella che sì scorge
  • di bene in meglio, sì subitamente
  • che l’atto suo per tempo non si sporge.
  • Quant’ esser convenia da sé lucente
  • quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi,
  • non per color, ma per lume parvente!
  • Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
  • sì nol direi che mai s’imaginasse;
  • ma creder puossi e di veder si brami.
  • E se le fantasie nostre son basse
  • a tanta altezza, non è maraviglia;
  • ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.
  • Tal era quivi la quarta famiglia
  • de l’alto Padre, che sempre la sazia,
  • mostrando come spira e come figlia.
  • E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
  • ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
  • sensibil t’ha levato per sua grazia».
  • Cor di mortal non fu mai sì digesto
  • a divozione e a rendersi a Dio
  • con tutto ’l suo gradir cotanto presto,
  • come a quelle parole mi fec’ io;
  • e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
  • che Bëatrice eclissò ne l’oblio.
  • Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
  • che lo splendor de li occhi suoi ridenti
  • mia mente unita in più cose divise.
  • Io vidi più folgór vivi e vincenti
  • far di noi centro e di sé far corona,
  • più dolci in voce che in vista lucenti:
  • così cinger la figlia di Latona
  • vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
  • sì che ritenga il fil che fa la zona.
  • Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
  • si trovan molte gioie care e belle
  • tanto che non si posson trar del regno;
  • e ’l canto di quei lumi era di quelle;
  • chi non s’impenna sì che là sù voli,
  • dal muto aspetti quindi le novelle.
  • Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
  • si fuor girati intorno a noi tre volte,
  • come stelle vicine a’ fermi poli,
  • donne mi parver, non da ballo sciolte,
  • ma che s’arrestin tacite, ascoltando
  • fin che le nove note hanno ricolte.
  • E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
  • lo raggio de la grazia, onde s’accende
  • verace amore e che poi cresce amando,
  • multiplicato in te tanto resplende,
  • che ti conduce su per quella scala
  • u’ sanza risalir nessun discende;
  • qual ti negasse il vin de la sua fiala
  • per la tua sete, in libertà non fora
  • se non com’ acqua ch’al mar non si cala.
  • Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
  • questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
  • la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
  • Io fui de li agni de la santa greggia
  • che Domenico mena per cammino
  • u’ ben s’impingua se non si vaneggia.
  • Questi che m’è a destra più vicino,
  • frate e maestro fummi, ed esso Alberto
  • è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.
  • Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
  • di retro al mio parlar ten vien col viso
  • girando su per lo beato serto.
  • Quell’ altro fiammeggiare esce del riso
  • di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
  • aiutò sì che piace in paradiso.
  • L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
  • quel Pietro fu che con la poverella
  • offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
  • La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
  • spira di tale amor, che tutto ’l mondo
  • là giù ne gola di saper novella:
  • entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
  • saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
  • a veder tanto non surse il secondo.
  • Appresso vedi il lume di quel cero
  • che giù in carne più a dentro vide
  • l’angelica natura e ’l ministero.
  • Ne l’altra piccioletta luce ride
  • quello avvocato de’ tempi cristiani
  • del cui latino Augustin si provide.
  • Or se tu l’occhio de la mente trani
  • di luce in luce dietro a le mie lode,
  • già de l’ottava con sete rimani.
  • Per vedere ogne ben dentro vi gode
  • l’anima santa che ’l mondo fallace
  • fa manifesto a chi di lei ben ode.
  • Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
  • giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
  • e da essilio venne a questa pace.
  • Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
  • d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
  • che a considerar fu più che viro.
  • Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
  • è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
  • gravi a morir li parve venir tardo:
  • essa è la luce etterna di Sigieri,
  • che, leggendo nel Vico de li Strami,
  • silogizzò invidïosi veri».
  • Indi, come orologio che ne chiami
  • ne l’ora che la sposa di Dio surge
  • a mattinar lo sposo perché l’ami,
  • che l’una parte e l’altra tira e urge,
  • tin tin sonando con sì dolce nota,
  • che ’l ben disposto spirto d’amor turge;
  • così vid’ ïo la gloriosa rota
  • muoversi e render voce a voce in tempra
  • e in dolcezza ch’esser non pò nota
  • se non colà dove gioir s’insempra.
  • Paradiso • Canto XI
  • O insensata cura de’ mortali,
  • quanto son difettivi silogismi
  • quei che ti fanno in basso batter l’ali!
  • Chi dietro a iura e chi ad amforismi
  • sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
  • e chi regnar per forza o per sofismi,
  • e chi rubare e chi civil negozio,
  • chi nel diletto de la carne involto
  • s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
  • quando, da tutte queste cose sciolto,
  • con Bëatrice m’era suso in cielo
  • cotanto glorïosamente accolto.
  • Poi che ciascuno fu tornato ne lo
  • punto del cerchio in che avanti s’era,
  • fermossi, come a candellier candelo.
  • E io senti’ dentro a quella lumera
  • che pria m’avea parlato, sorridendo
  • incominciar, faccendosi più mera:
  • «Così com’ io del suo raggio resplendo,
  • sì, riguardando ne la luce etterna,
  • li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
  • Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
  • in sì aperta e ’n sì distesa lingua
  • lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,
  • ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
  • e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
  • e qui è uopo che ben si distingua.
  • La provedenza, che governa il mondo
  • con quel consiglio nel quale ogne aspetto
  • creato è vinto pria che vada al fondo,
  • però che andasse ver’ lo suo diletto
  • la sposa di colui ch’ad alte grida
  • disposò lei col sangue benedetto,
  • in sé sicura e anche a lui più fida,
  • due principi ordinò in suo favore,
  • che quinci e quindi le fosser per guida.
  • L’un fu tutto serafico in ardore;
  • l’altro per sapïenza in terra fue
  • di cherubica luce uno splendore.
  • De l’un dirò, però che d’amendue
  • si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
  • perch’ ad un fine fur l’opere sue.
  • Intra Tupino e l’acqua che discende
  • del colle eletto dal beato Ubaldo,
  • fertile costa d’alto monte pende,
  • onde Perugia sente freddo e caldo
  • da Porta Sole; e di rietro le piange
  • per grave giogo Nocera con Gualdo.
  • Di questa costa, là dov’ ella frange
  • più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
  • come fa questo talvolta di Gange.
  • Però chi d’esso loco fa parole,
  • non dica Ascesi, ché direbbe corto,
  • ma Orïente, se proprio dir vuole.
  • Non era ancor molto lontan da l’orto,
  • ch’el cominciò a far sentir la terra
  • de la sua gran virtute alcun conforto;
  • ché per tal donna, giovinetto, in guerra
  • del padre corse, a cui, come a la morte,
  • la porta del piacer nessun diserra;
  • e dinanzi a la sua spirital corte
  • et coram patre le si fece unito;
  • poscia di dì in dì l’amò più forte.
  • Questa, privata del primo marito,
  • millecent’ anni e più dispetta e scura
  • fino a costui si stette sanza invito;
  • né valse udir che la trovò sicura
  • con Amiclate, al suon de la sua voce,
  • colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
  • né valse esser costante né feroce,
  • sì che, dove Maria rimase giuso,
  • ella con Cristo pianse in su la croce.
  • Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
  • Francesco e Povertà per questi amanti
  • prendi oramai nel mio parlar diffuso.
  • La lor concordia e i lor lieti sembianti,
  • amore e maraviglia e dolce sguardo
  • facieno esser cagion di pensier santi;
  • tanto che ’l venerabile Bernardo
  • si scalzò prima, e dietro a tanta pace
  • corse e, correndo, li parve esser tardo.
  • Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
  • Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
  • dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
  • Indi sen va quel padre e quel maestro
  • con la sua donna e con quella famiglia
  • che già legava l’umile capestro.
  • Né li gravò viltà di cuor le ciglia
  • per esser fi’ di Pietro Bernardone,
  • né per parer dispetto a maraviglia;
  • ma regalmente sua dura intenzione
  • ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
  • primo sigillo a sua religïone.
  • Poi che la gente poverella crebbe
  • dietro a costui, la cui mirabil vita
  • meglio in gloria del ciel si canterebbe,
  • di seconda corona redimita
  • fu per Onorio da l’Etterno Spiro
  • la santa voglia d’esto archimandrita.
  • E poi che, per la sete del martiro,
  • ne la presenza del Soldan superba
  • predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
  • e per trovare a conversione acerba
  • troppo la gente e per non stare indarno,
  • redissi al frutto de l’italica erba,
  • nel crudo sasso intra Tevero e Arno
  • da Cristo prese l’ultimo sigillo,
  • che le sue membra due anni portarno.
  • Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
  • piacque di trarlo suso a la mercede
  • ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
  • a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
  • raccomandò la donna sua più cara,
  • e comandò che l’amassero a fede;
  • e del suo grembo l’anima preclara
  • mover si volle, tornando al suo regno,
  • e al suo corpo non volle altra bara.
  • Pensa oramai qual fu colui che degno
  • collega fu a mantener la barca
  • di Pietro in alto mar per dritto segno;
  • e questo fu il nostro patrïarca;
  • per che qual segue lui, com’ el comanda,
  • discerner puoi che buone merce carca.
  • Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
  • è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
  • che per diversi salti non si spanda;
  • e quanto le sue pecore remote
  • e vagabunde più da esso vanno,
  • più tornano a l’ovil di latte vòte.
  • Ben son di quelle che temono ’l danno
  • e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
  • che le cappe fornisce poco panno.
  • Or, se le mie parole non son fioche,
  • se la tua audïenza è stata attenta,
  • se ciò ch’è detto a la mente revoche,
  • in parte fia la tua voglia contenta,
  • perché vedrai la pianta onde si scheggia,
  • e vedra’ il corrègger che argomenta
  • “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».
  • Paradiso • Canto XII
  • Sì tosto come l’ultima parola
  • la benedetta fiamma per dir tolse,
  • a rotar cominciò la santa mola;
  • e nel suo giro tutta non si volse
  • prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
  • e moto a moto e canto a canto colse;
  • canto che tanto vince nostre muse,
  • nostre serene in quelle dolci tube,
  • quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.
  • Come si volgon per tenera nube
  • due archi paralelli e concolori,
  • quando Iunone a sua ancella iube,
  • nascendo di quel d’entro quel di fori,
  • a guisa del parlar di quella vaga
  • ch’amor consunse come sol vapori,
  • e fanno qui la gente esser presaga,
  • per lo patto che Dio con Noè puose,
  • del mondo che già mai più non s’allaga:
  • così di quelle sempiterne rose
  • volgiensi circa noi le due ghirlande,
  • e sì l’estrema a l’intima rispuose.
  • Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
  • sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
  • luce con luce gaudïose e blande,
  • insieme a punto e a voler quetarsi,
  • pur come li occhi ch’al piacer che i move
  • conviene insieme chiudere e levarsi;
  • del cor de l’una de le luci nove
  • si mosse voce, che l’ago a la stella
  • parer mi fece in volgermi al suo dove;
  • e cominciò: «L’amor che mi fa bella
  • mi tragge a ragionar de l’altro duca
  • per cui del mio sì ben ci si favella.
  • Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
  • sì che, com’ elli ad una militaro,
  • così la gloria loro insieme luca.
  • L’essercito di Cristo, che sì caro
  • costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
  • si movea tardo, sospeccioso e raro,
  • quando lo ’mperador che sempre regna
  • provide a la milizia, ch’era in forse,
  • per sola grazia, non per esser degna;
  • e, come è detto, a sua sposa soccorse
  • con due campioni, al cui fare, al cui dire
  • lo popol disvïato si raccorse.
  • In quella parte ove surge ad aprire
  • Zefiro dolce le novelle fronde
  • di che si vede Europa rivestire,
  • non molto lungi al percuoter de l’onde
  • dietro a le quali, per la lunga foga,
  • lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
  • siede la fortunata Calaroga
  • sotto la protezion del grande scudo
  • in che soggiace il leone e soggioga:
  • dentro vi nacque l’amoroso drudo
  • de la fede cristiana, il santo atleta
  • benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;
  • e come fu creata, fu repleta
  • sì la sua mente di viva vertute
  • che, ne la madre, lei fece profeta.
  • Poi che le sponsalizie fuor compiute
  • al sacro fonte intra lui e la Fede,
  • u’ si dotar di mutüa salute,
  • la donna che per lui l’assenso diede,
  • vide nel sonno il mirabile frutto
  • ch’uscir dovea di lui e de le rede;
  • e perché fosse qual era in costrutto,
  • quinci si mosse spirito a nomarlo
  • del possessivo di cui era tutto.
  • Domenico fu detto; e io ne parlo
  • sì come de l’agricola che Cristo
  • elesse a l’orto suo per aiutarlo.
  • Ben parve messo e famigliar di Cristo:
  • che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
  • fu al primo consiglio che diè Cristo.
  • Spesse fïate fu tacito e desto
  • trovato in terra da la sua nutrice,
  • come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.
  • Oh padre suo veramente Felice!
  • oh madre sua veramente Giovanna,
  • se, interpretata, val come si dice!
  • Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
  • di retro ad Ostïense e a Taddeo,
  • ma per amor de la verace manna
  • in picciol tempo gran dottor si feo;
  • tal che si mise a circüir la vigna
  • che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
  • E a la sedia che fu già benigna
  • più a’ poveri giusti, non per lei,
  • ma per colui che siede, che traligna,
  • non dispensare o due o tre per sei,
  • non la fortuna di prima vacante,
  • non decimas, quae sunt pauperum Dei,
  • addimandò, ma contro al mondo errante
  • licenza di combatter per lo seme
  • del qual ti fascian ventiquattro piante.
  • Poi, con dottrina e con volere insieme,
  • con l’officio appostolico si mosse
  • quasi torrente ch’alta vena preme;
  • e ne li sterpi eretici percosse
  • l’impeto suo, più vivamente quivi
  • dove le resistenze eran più grosse.
  • Di lui si fecer poi diversi rivi
  • onde l’orto catolico si riga,
  • sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
  • Se tal fu l’una rota de la biga
  • in che la Santa Chiesa si difese
  • e vinse in campo la sua civil briga,
  • ben ti dovrebbe assai esser palese
  • l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
  • dinanzi al mio venir fu sì cortese.
  • Ma l’orbita che fé la parte somma
  • di sua circunferenza, è derelitta,
  • sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.
  • La sua famiglia, che si mosse dritta
  • coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
  • che quel dinanzi a quel di retro gitta;
  • e tosto si vedrà de la ricolta
  • de la mala coltura, quando il loglio
  • si lagnerà che l’arca li sia tolta.
  • Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
  • nostro volume, ancor troveria carta
  • u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;
  • ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
  • là onde vegnon tali a la scrittura,
  • ch’uno la fugge e altro la coarta.
  • Io son la vita di Bonaventura
  • da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
  • sempre pospuosi la sinistra cura.
  • Illuminato e Augustin son quici,
  • che fuor de’ primi scalzi poverelli
  • che nel capestro a Dio si fero amici.
  • Ugo da San Vittore è qui con elli,
  • e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
  • lo qual giù luce in dodici libelli;
  • Natàn profeta e ’l metropolitano
  • Crisostomo e Anselmo e quel Donato
  • ch’a la prim’ arte degnò porre mano.
  • Rabano è qui, e lucemi dallato
  • il calavrese abate Giovacchino
  • di spirito profetico dotato.
  • Ad inveggiar cotanto paladino
  • mi mosse l’infiammata cortesia
  • di fra Tommaso e ’l discreto latino;
  • e mosse meco questa compagnia».
  • Paradiso • Canto XIII
  • Imagini, chi bene intender cupe
  • quel ch’i’ or vidi—e ritegna l’image,
  • mentre ch’io dico, come ferma rupe—,
  • quindici stelle che ’n diverse plage
  • lo ciel avvivan di tanto sereno
  • che soperchia de l’aere ogne compage;
  • imagini quel carro a cu’ il seno
  • basta del nostro cielo e notte e giorno,
  • sì ch’al volger del temo non vien meno;
  • imagini la bocca di quel corno
  • che si comincia in punta de lo stelo
  • a cui la prima rota va dintorno,
  • aver fatto di sé due segni in cielo,
  • qual fece la figliuola di Minoi
  • allora che sentì di morte il gelo;
  • e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
  • e amendue girarsi per maniera
  • che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;
  • e avrà quasi l’ombra de la vera
  • costellazione e de la doppia danza
  • che circulava il punto dov’ io era:
  • poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
  • quanto di là dal mover de la Chiana
  • si move il ciel che tutti li altri avanza.
  • Lì si cantò non Bacco, non Peana,
  • ma tre persone in divina natura,
  • e in una persona essa e l’umana.
  • Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
  • e attesersi a noi quei santi lumi,
  • felicitando sé di cura in cura.
  • Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
  • poscia la luce in che mirabil vita
  • del poverel di Dio narrata fumi,
  • e disse: «Quando l’una paglia è trita,
  • quando la sua semenza è già riposta,
  • a batter l’altra dolce amor m’invita.
  • Tu credi che nel petto onde la costa
  • si trasse per formar la bella guancia
  • il cui palato a tutto ’l mondo costa,
  • e in quel che, forato da la lancia,
  • e prima e poscia tanto sodisfece,
  • che d’ogne colpa vince la bilancia,
  • quantunque a la natura umana lece
  • aver di lume, tutto fosse infuso
  • da quel valor che l’uno e l’altro fece;
  • e però miri a ciò ch’io dissi suso,
  • quando narrai che non ebbe ’l secondo
  • lo ben che ne la quinta luce è chiuso.
  • Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
  • e vedräi il tuo credere e ’l mio dire
  • nel vero farsi come centro in tondo.
  • Ciò che non more e ciò che può morire
  • non è se non splendor di quella idea
  • che partorisce, amando, il nostro Sire;
  • ché quella viva luce che sì mea
  • dal suo lucente, che non si disuna
  • da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,
  • per sua bontate il suo raggiare aduna,
  • quasi specchiato, in nove sussistenze,
  • etternalmente rimanendosi una.
  • Quindi discende a l’ultime potenze
  • giù d’atto in atto, tanto divenendo,
  • che più non fa che brevi contingenze;
  • e queste contingenze essere intendo
  • le cose generate, che produce
  • con seme e sanza seme il ciel movendo.
  • La cera di costoro e chi la duce
  • non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
  • idëale poi più e men traluce.
  • Ond’ elli avvien ch’un medesimo legno,
  • secondo specie, meglio e peggio frutta;
  • e voi nascete con diverso ingegno.
  • Se fosse a punto la cera dedutta
  • e fosse il cielo in sua virtù supprema,
  • la luce del suggel parrebbe tutta;
  • ma la natura la dà sempre scema,
  • similemente operando a l’artista
  • ch’a l’abito de l’arte ha man che trema.
  • Però se ’l caldo amor la chiara vista
  • de la prima virtù dispone e segna,
  • tutta la perfezion quivi s’acquista.
  • Così fu fatta già la terra degna
  • di tutta l’animal perfezïone;
  • così fu fatta la Vergine pregna;
  • sì ch’io commendo tua oppinïone,
  • che l’umana natura mai non fue
  • né fia qual fu in quelle due persone.
  • Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
  • ‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
  • comincerebber le parole tue.
  • Ma perché paia ben ciò che non pare,
  • pensa chi era, e la cagion che ’l mosse,
  • quando fu detto “Chiedi”, a dimandare.
  • Non ho parlato sì, che tu non posse
  • ben veder ch’el fu re, che chiese senno
  • acciò che re sufficïente fosse;
  • non per sapere il numero in che enno
  • li motor di qua sù, o se necesse
  • con contingente mai necesse fenno;
  • non si est dare primum motum esse,
  • o se del mezzo cerchio far si puote
  • trïangol sì ch’un retto non avesse.
  • Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
  • regal prudenza è quel vedere impari
  • in che lo stral di mia intenzion percuote;
  • e se al “surse” drizzi li occhi chiari,
  • vedrai aver solamente respetto
  • ai regi, che son molti, e ’ buon son rari.
  • Con questa distinzion prendi ’l mio detto;
  • e così puote star con quel che credi
  • del primo padre e del nostro Diletto.
  • E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
  • per farti mover lento com’ uom lasso
  • e al sì e al no che tu non vedi:
  • ché quelli è tra li stolti bene a basso,
  • che sanza distinzione afferma e nega
  • ne l’un così come ne l’altro passo;
  • perch’ elli ’ncontra che più volte piega
  • l’oppinïon corrente in falsa parte,
  • e poi l’affetto l’intelletto lega.
  • Vie più che ’ndarno da riva si parte,
  • perché non torna tal qual e’ si move,
  • chi pesca per lo vero e non ha l’arte.
  • E di ciò sono al mondo aperte prove
  • Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
  • li quali andaro e non sapëan dove;
  • sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
  • che furon come spade a le Scritture
  • in render torti li diritti volti.
  • Non sien le genti, ancor, troppo sicure
  • a giudicar, sì come quei che stima
  • le biade in campo pria che sien mature;
  • ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima
  • lo prun mostrarsi rigido e feroce,
  • poscia portar la rosa in su la cima;
  • e legno vidi già dritto e veloce
  • correr lo mar per tutto suo cammino,
  • perire al fine a l’intrar de la foce.
  • Non creda donna Berta e ser Martino,
  • per vedere un furare, altro offerere,
  • vederli dentro al consiglio divino;
  • ché quel può surgere, e quel può cadere».
  • Paradiso • Canto XIV
  • Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
  • movesi l’acqua in un ritondo vaso,
  • secondo ch’è percosso fuori o dentro:
  • ne la mia mente fé sùbito caso
  • questo ch’io dico, sì come si tacque
  • la glorïosa vita di Tommaso,
  • per la similitudine che nacque
  • del suo parlare e di quel di Beatrice,
  • a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:
  • «A costui fa mestieri, e nol vi dice
  • né con la voce né pensando ancora,
  • d’un altro vero andare a la radice.
  • Diteli se la luce onde s’infiora
  • vostra sustanza, rimarrà con voi
  • etternalmente sì com’ ell’ è ora;
  • e se rimane, dite come, poi
  • che sarete visibili rifatti,
  • esser porà ch’al veder non vi nòi».
  • Come, da più letizia pinti e tratti,
  • a la fïata quei che vanno a rota
  • levan la voce e rallegrano li atti,
  • così, a l’orazion pronta e divota,
  • li santi cerchi mostrar nova gioia
  • nel torneare e ne la mira nota.
  • Qual si lamenta perché qui si moia
  • per viver colà sù, non vide quive
  • lo refrigerio de l’etterna ploia.
  • Quell’ uno e due e tre che sempre vive
  • e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
  • non circunscritto, e tutto circunscrive,
  • tre volte era cantato da ciascuno
  • di quelli spirti con tal melodia,
  • ch’ad ogne merto saria giusto muno.
  • E io udi’ ne la luce più dia
  • del minor cerchio una voce modesta,
  • forse qual fu da l’angelo a Maria,
  • risponder: «Quanto fia lunga la festa
  • di paradiso, tanto il nostro amore
  • si raggerà dintorno cotal vesta.
  • La sua chiarezza séguita l’ardore;
  • l’ardor la visïone, e quella è tanta,
  • quant’ ha di grazia sovra suo valore.
  • Come la carne glorïosa e santa
  • fia rivestita, la nostra persona
  • più grata fia per esser tutta quanta;
  • per che s’accrescerà ciò che ne dona
  • di gratüito lume il sommo bene,
  • lume ch’a lui veder ne condiziona;
  • onde la visïon crescer convene,
  • crescer l’ardor che di quella s’accende,
  • crescer lo raggio che da esso vene.
  • Ma sì come carbon che fiamma rende,
  • e per vivo candor quella soverchia,
  • sì che la sua parvenza si difende;
  • così questo folgór che già ne cerchia
  • fia vinto in apparenza da la carne
  • che tutto dì la terra ricoperchia;
  • né potrà tanta luce affaticarne:
  • ché li organi del corpo saran forti
  • a tutto ciò che potrà dilettarne».
  • Tanto mi parver sùbiti e accorti
  • e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
  • che ben mostrar disio d’i corpi morti:
  • forse non pur per lor, ma per le mamme,
  • per li padri e per li altri che fuor cari
  • anzi che fosser sempiterne fiamme.
  • Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
  • nascere un lustro sopra quel che v’era,
  • per guisa d’orizzonte che rischiari.
  • E sì come al salir di prima sera
  • comincian per lo ciel nove parvenze,
  • sì che la vista pare e non par vera,
  • parvemi lì novelle sussistenze
  • cominciare a vedere, e fare un giro
  • di fuor da l’altre due circunferenze.
  • Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
  • come si fece sùbito e candente
  • a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!
  • Ma Bëatrice sì bella e ridente
  • mi si mostrò, che tra quelle vedute
  • si vuol lasciar che non seguir la mente.
  • Quindi ripreser li occhi miei virtute
  • a rilevarsi; e vidimi translato
  • sol con mia donna in più alta salute.
  • Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
  • per l’affocato riso de la stella,
  • che mi parea più roggio che l’usato.
  • Con tutto ’l core e con quella favella
  • ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
  • qual conveniesi a la grazia novella.
  • E non er’ anco del mio petto essausto
  • l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
  • esso litare stato accetto e fausto;
  • ché con tanto lucore e tanto robbi
  • m’apparvero splendor dentro a due raggi,
  • ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».
  • Come distinta da minori e maggi
  • lumi biancheggia tra ’ poli del mondo
  • Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
  • sì costellati facean nel profondo
  • Marte quei raggi il venerabil segno
  • che fan giunture di quadranti in tondo.
  • Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
  • ché quella croce lampeggiava Cristo,
  • sì ch’io non so trovare essempro degno;
  • ma chi prende sua croce e segue Cristo,
  • ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
  • vedendo in quell’ albor balenar Cristo.
  • Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
  • si movien lumi, scintillando forte
  • nel congiugnersi insieme e nel trapasso:
  • così si veggion qui diritte e torte,
  • veloci e tarde, rinovando vista,
  • le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,
  • moversi per lo raggio onde si lista
  • talvolta l’ombra che, per sua difesa,
  • la gente con ingegno e arte acquista.
  • E come giga e arpa, in tempra tesa
  • di molte corde, fa dolce tintinno
  • a tal da cui la nota non è intesa,
  • così da’ lumi che lì m’apparinno
  • s’accogliea per la croce una melode
  • che mi rapiva, sanza intender l’inno.
  • Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
  • però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
  • come a colui che non intende e ode.
  • Ïo m’innamorava tanto quinci,
  • che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
  • che mi legasse con sì dolci vinci.
  • Forse la mia parola par troppo osa,
  • posponendo il piacer de li occhi belli,
  • ne’ quai mirando mio disio ha posa;
  • ma chi s’avvede che i vivi suggelli
  • d’ogne bellezza più fanno più suso,
  • e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,
  • escusar puommi di quel ch’io m’accuso
  • per escusarmi, e vedermi dir vero:
  • ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,
  • perché si fa, montando, più sincero.
  • Paradiso • Canto XV
  • Benigna volontade in che si liqua
  • sempre l’amor che drittamente spira,
  • come cupidità fa ne la iniqua,
  • silenzio puose a quella dolce lira,
  • e fece quïetar le sante corde
  • che la destra del cielo allenta e tira.
  • Come saranno a’ giusti preghi sorde
  • quelle sustanze che, per darmi voglia
  • ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?
  • Bene è che sanza termine si doglia
  • chi, per amor di cosa che non duri
  • etternalmente, quello amor si spoglia.
  • Quale per li seren tranquilli e puri
  • discorre ad ora ad or sùbito foco,
  • movendo li occhi che stavan sicuri,
  • e pare stella che tramuti loco,
  • se non che da la parte ond’ e’ s’accende
  • nulla sen perde, ed esso dura poco:
  • tale dal corno che ’n destro si stende
  • a piè di quella croce corse un astro
  • de la costellazion che lì resplende;
  • né si partì la gemma dal suo nastro,
  • ma per la lista radïal trascorse,
  • che parve foco dietro ad alabastro.
  • Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
  • se fede merta nostra maggior musa,
  • quando in Eliso del figlio s’accorse.
  • «O sanguis meus, o superinfusa
  • gratïa Deï, sicut tibi cui
  • bis unquam celi ianüa reclusa?».
  • Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
  • poscia rivolsi a la mia donna il viso,
  • e quinci e quindi stupefatto fui;
  • ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
  • tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
  • de la mia gloria e del mio paradiso.
  • Indi, a udire e a veder giocondo,
  • giunse lo spirto al suo principio cose,
  • ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
  • né per elezïon mi si nascose,
  • ma per necessità, ché ’l suo concetto
  • al segno d’i mortal si soprapuose.
  • E quando l’arco de l’ardente affetto
  • fu sì sfogato, che ’l parlar discese
  • inver’ lo segno del nostro intelletto,
  • la prima cosa che per me s’intese,
  • «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
  • che nel mio seme se’ tanto cortese!».
  • E seguì: «Grato e lontano digiuno,
  • tratto leggendo del magno volume
  • du’ non si muta mai bianco né bruno,
  • solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
  • in ch’io ti parlo, mercè di colei
  • ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
  • Tu credi che a me tuo pensier mei
  • da quel ch’è primo, così come raia
  • da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;
  • e però ch’io mi sia e perch’ io paia
  • più gaudïoso a te, non mi domandi,
  • che alcun altro in questa turba gaia.
  • Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
  • di questa vita miran ne lo speglio
  • in che, prima che pensi, il pensier pandi;
  • ma perché ’l sacro amore in che io veglio
  • con perpetüa vista e che m’asseta
  • di dolce disïar, s’adempia meglio,
  • la voce tua sicura, balda e lieta
  • suoni la volontà, suoni ’l disio,
  • a che la mia risposta è già decreta!».
  • Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
  • pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
  • che fece crescer l’ali al voler mio.
  • Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
  • come la prima equalità v’apparse,
  • d’un peso per ciascun di voi si fenno,
  • però che ’l sol che v’allumò e arse,
  • col caldo e con la luce è sì iguali,
  • che tutte simiglianze sono scarse.
  • Ma voglia e argomento ne’ mortali,
  • per la cagion ch’a voi è manifesta,
  • diversamente son pennuti in ali;
  • ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
  • disagguaglianza, e però non ringrazio
  • se non col core a la paterna festa.
  • Ben supplico io a te, vivo topazio
  • che questa gioia prezïosa ingemmi,
  • perché mi facci del tuo nome sazio».
  • «O fronda mia in che io compiacemmi
  • pur aspettando, io fui la tua radice»:
  • cotal principio, rispondendo, femmi.
  • Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
  • tua cognazione e che cent’ anni e piùe
  • girato ha ’l monte in la prima cornice,
  • mio figlio fu e tuo bisavol fue:
  • ben si convien che la lunga fatica
  • tu li raccorci con l’opere tue.
  • Fiorenza dentro da la cerchia antica,
  • ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
  • si stava in pace, sobria e pudica.
  • Non avea catenella, non corona,
  • non gonne contigiate, non cintura
  • che fosse a veder più che la persona.
  • Non faceva, nascendo, ancor paura
  • la figlia al padre, che ’l tempo e la dote
  • non fuggien quinci e quindi la misura.
  • Non avea case di famiglia vòte;
  • non v’era giunto ancor Sardanapalo
  • a mostrar ciò che ’n camera si puote.
  • Non era vinto ancora Montemalo
  • dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
  • nel montar sù, così sarà nel calo.
  • Bellincion Berti vid’ io andar cinto
  • di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
  • la donna sua sanza ’l viso dipinto;
  • e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
  • esser contenti a la pelle scoperta,
  • e le sue donne al fuso e al pennecchio.
  • Oh fortunate! ciascuna era certa
  • de la sua sepultura, e ancor nulla
  • era per Francia nel letto diserta.
  • L’una vegghiava a studio de la culla,
  • e, consolando, usava l’idïoma
  • che prima i padri e le madri trastulla;
  • l’altra, traendo a la rocca la chioma,
  • favoleggiava con la sua famiglia
  • d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
  • Saria tenuta allor tal maraviglia
  • una Cianghella, un Lapo Salterello,
  • qual or saria Cincinnato e Corniglia.
  • A così riposato, a così bello
  • viver di cittadini, a così fida
  • cittadinanza, a così dolce ostello,
  • Maria mi diè, chiamata in alte grida;
  • e ne l’antico vostro Batisteo
  • insieme fui cristiano e Cacciaguida.
  • Moronto fu mio frate ed Eliseo;
  • mia donna venne a me di val di Pado,
  • e quindi il sopranome tuo si feo.
  • Poi seguitai lo ’mperador Currado;
  • ed el mi cinse de la sua milizia,
  • tanto per bene ovrar li venni in grado.
  • Dietro li andai incontro a la nequizia
  • di quella legge il cui popolo usurpa,
  • per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
  • Quivi fu’ io da quella gente turpa
  • disviluppato dal mondo fallace,
  • lo cui amor molt’ anime deturpa;
  • e venni dal martiro a questa pace».
  • Paradiso • Canto XVI
  • O poca nostra nobiltà di sangue,
  • se glorïar di te la gente fai
  • qua giù dove l’affetto nostro langue,
  • mirabil cosa non mi sarà mai:
  • ché là dove appetito non si torce,
  • dico nel cielo, io me ne gloriai.
  • Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
  • sì che, se non s’appon di dì in die,
  • lo tempo va dintorno con le force.
  • Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,
  • in che la sua famiglia men persevra,
  • ricominciaron le parole mie;
  • onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
  • ridendo, parve quella che tossio
  • al primo fallo scritto di Ginevra.
  • Io cominciai: «Voi siete il padre mio;
  • voi mi date a parlar tutta baldezza;
  • voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.
  • Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
  • la mente mia, che di sé fa letizia
  • perché può sostener che non si spezza.
  • Ditemi dunque, cara mia primizia,
  • quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
  • che si segnaro in vostra püerizia;
  • ditemi de l’ovil di San Giovanni
  • quanto era allora, e chi eran le genti
  • tra esso degne di più alti scanni».
  • Come s’avviva a lo spirar d’i venti
  • carbone in fiamma, così vid’ io quella
  • luce risplendere a’ miei blandimenti;
  • e come a li occhi miei si fé più bella,
  • così con voce più dolce e soave,
  • ma non con questa moderna favella,
  • dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’
  • al parto in che mia madre, ch’è or santa,
  • s’allevïò di me ond’ era grave,
  • al suo Leon cinquecento cinquanta
  • e trenta fiate venne questo foco
  • a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
  • Li antichi miei e io nacqui nel loco
  • dove si truova pria l’ultimo sesto
  • da quei che corre il vostro annüal gioco.
  • Basti d’i miei maggiori udirne questo:
  • chi ei si fosser e onde venner quivi,
  • più è tacer che ragionare onesto.
  • Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
  • da poter arme tra Marte e ’l Batista,
  • eran il quinto di quei ch’or son vivi.
  • Ma la cittadinanza, ch’è or mista
  • di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
  • pura vediesi ne l’ultimo artista.
  • Oh quanto fora meglio esser vicine
  • quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
  • e a Trespiano aver vostro confine,
  • che averle dentro e sostener lo puzzo
  • del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
  • che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
  • Se la gente ch’al mondo più traligna
  • non fosse stata a Cesare noverca,
  • ma come madre a suo figlio benigna,
  • tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
  • che si sarebbe vòlto a Simifonti,
  • là dove andava l’avolo a la cerca;
  • sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
  • sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
  • e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
  • Sempre la confusion de le persone
  • principio fu del mal de la cittade,
  • come del vostro il cibo che s’appone;
  • e cieco toro più avaccio cade
  • che cieco agnello; e molte volte taglia
  • più e meglio una che le cinque spade.
  • Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
  • come sono ite, e come se ne vanno
  • di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
  • udir come le schiatte si disfanno
  • non ti parrà nova cosa né forte,
  • poscia che le cittadi termine hanno.
  • Le vostre cose tutte hanno lor morte,
  • sì come voi; ma celasi in alcuna
  • che dura molto, e le vite son corte.
  • E come ’l volger del ciel de la luna
  • cuopre e discuopre i liti sanza posa,
  • così fa di Fiorenza la Fortuna:
  • per che non dee parer mirabil cosa
  • ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
  • onde è la fama nel tempo nascosa.
  • Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
  • Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
  • già nel calare, illustri cittadini;
  • e vidi così grandi come antichi,
  • con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
  • e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
  • Sovra la porta ch’al presente è carca
  • di nova fellonia di tanto peso
  • che tosto fia iattura de la barca,
  • erano i Ravignani, ond’ è disceso
  • il conte Guido e qualunque del nome
  • de l’alto Bellincione ha poscia preso.
  • Quel de la Pressa sapeva già come
  • regger si vuole, e avea Galigaio
  • dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.
  • Grand’ era già la colonna del Vaio,
  • Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
  • e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.
  • Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
  • era già grande, e già eran tratti
  • a le curule Sizii e Arrigucci.
  • Oh quali io vidi quei che son disfatti
  • per lor superbia! e le palle de l’oro
  • fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.
  • Così facieno i padri di coloro
  • che, sempre che la vostra chiesa vaca,
  • si fanno grassi stando a consistoro.
  • L’oltracotata schiatta che s’indraca
  • dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
  • o ver la borsa, com’ agnel si placa,
  • già venìa sù, ma di picciola gente;
  • sì che non piacque ad Ubertin Donato
  • che poï il suocero il fé lor parente.
  • Già era ’l Caponsacco nel mercato
  • disceso giù da Fiesole, e già era
  • buon cittadino Giuda e Infangato.
  • Io dirò cosa incredibile e vera:
  • nel picciol cerchio s’entrava per porta
  • che si nomava da quei de la Pera.
  • Ciascun che de la bella insegna porta
  • del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
  • la festa di Tommaso riconforta,
  • da esso ebbe milizia e privilegio;
  • avvegna che con popol si rauni
  • oggi colui che la fascia col fregio.
  • Già eran Gualterotti e Importuni;
  • e ancor saria Borgo più quïeto,
  • se di novi vicin fosser digiuni.
  • La casa di che nacque il vostro fleto,
  • per lo giusto disdegno che v’ha morti
  • e puose fine al vostro viver lieto,
  • era onorata, essa e suoi consorti:
  • o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
  • le nozze süe per li altrui conforti!
  • Molti sarebber lieti, che son tristi,
  • se Dio t’avesse conceduto ad Ema
  • la prima volta ch’a città venisti.
  • Ma conveniesi a quella pietra scema
  • che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
  • vittima ne la sua pace postrema.
  • Con queste genti, e con altre con esse,
  • vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
  • che non avea cagione onde piangesse.
  • Con queste genti vid’io glorïoso
  • e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
  • non era ad asta mai posto a ritroso,
  • né per divisïon fatto vermiglio».
  • Paradiso • Canto XVII
  • Qual venne a Climenè, per accertarsi
  • di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
  • quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
  • tal era io, e tal era sentito
  • e da Beatrice e da la santa lampa
  • che pria per me avea mutato sito.
  • Per che mia donna «Manda fuor la vampa
  • del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
  • segnata bene de la interna stampa:
  • non perché nostra conoscenza cresca
  • per tuo parlare, ma perché t’ausi
  • a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».
  • «O cara piota mia che sì t’insusi,
  • che, come veggion le terrene menti
  • non capere in trïangol due ottusi,
  • così vedi le cose contingenti
  • anzi che sieno in sé, mirando il punto
  • a cui tutti li tempi son presenti;
  • mentre ch’io era a Virgilio congiunto
  • su per lo monte che l’anime cura
  • e discendendo nel mondo defunto,
  • dette mi fuor di mia vita futura
  • parole gravi, avvegna ch’io mi senta
  • ben tetragono ai colpi di ventura;
  • per che la voglia mia saria contenta
  • d’intender qual fortuna mi s’appressa:
  • ché saetta previsa vien più lenta».
  • Così diss’ io a quella luce stessa
  • che pria m’avea parlato; e come volle
  • Beatrice, fu la mia voglia confessa.
  • Né per ambage, in che la gente folle
  • già s’inviscava pria che fosse anciso
  • l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
  • ma per chiare parole e con preciso
  • latin rispuose quello amor paterno,
  • chiuso e parvente del suo proprio riso:
  • «La contingenza, che fuor del quaderno
  • de la vostra matera non si stende,
  • tutta è dipinta nel cospetto etterno;
  • necessità però quindi non prende
  • se non come dal viso in che si specchia
  • nave che per torrente giù discende.
  • Da indi, sì come viene ad orecchia
  • dolce armonia da organo, mi viene
  • a vista il tempo che ti s’apparecchia.
  • Qual si partio Ipolito d’Atene
  • per la spietata e perfida noverca,
  • tal di Fiorenza partir ti convene.
  • Questo si vuole e questo già si cerca,
  • e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
  • là dove Cristo tutto dì si merca.
  • La colpa seguirà la parte offensa
  • in grido, come suol; ma la vendetta
  • fia testimonio al ver che la dispensa.
  • Tu lascerai ogne cosa diletta
  • più caramente; e questo è quello strale
  • che l’arco de lo essilio pria saetta.
  • Tu proverai sì come sa di sale
  • lo pane altrui, e come è duro calle
  • lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.
  • E quel che più ti graverà le spalle,
  • sarà la compagnia malvagia e scempia
  • con la qual tu cadrai in questa valle;
  • che tutta ingrata, tutta matta ed empia
  • si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
  • ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
  • Di sua bestialitate il suo processo
  • farà la prova; sì ch’a te fia bello
  • averti fatta parte per te stesso.
  • Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
  • sarà la cortesia del gran Lombardo
  • che ’n su la scala porta il santo uccello;
  • ch’in te avrà sì benigno riguardo,
  • che del fare e del chieder, tra voi due,
  • fia primo quel che tra li altri è più tardo.
  • Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
  • nascendo, sì da questa stella forte,
  • che notabili fier l’opere sue.
  • Non se ne son le genti ancora accorte
  • per la novella età, ché pur nove anni
  • son queste rote intorno di lui torte;
  • ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
  • parran faville de la sua virtute
  • in non curar d’argento né d’affanni.
  • Le sue magnificenze conosciute
  • saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
  • non ne potran tener le lingue mute.
  • A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
  • per lui fia trasmutata molta gente,
  • cambiando condizion ricchi e mendici;
  • e portera’ne scritto ne la mente
  • di lui, e nol dirai»; e disse cose
  • incredibili a quei che fier presente.
  • Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
  • di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
  • che dietro a pochi giri son nascose.
  • Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
  • poscia che s’infutura la tua vita
  • vie più là che ’l punir di lor perfidie».
  • Poi che, tacendo, si mostrò spedita
  • l’anima santa di metter la trama
  • in quella tela ch’io le porsi ordita,
  • io cominciai, come colui che brama,
  • dubitando, consiglio da persona
  • che vede e vuol dirittamente e ama:
  • «Ben veggio, padre mio, sì come sprona
  • lo tempo verso me, per colpo darmi
  • tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
  • per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
  • sì che, se loco m’è tolto più caro,
  • io non perdessi li altri per miei carmi.
  • Giù per lo mondo sanza fine amaro,
  • e per lo monte del cui bel cacume
  • li occhi de la mia donna mi levaro,
  • e poscia per lo ciel, di lume in lume,
  • ho io appreso quel che s’io ridico,
  • a molti fia sapor di forte agrume;
  • e s’io al vero son timido amico,
  • temo di perder viver tra coloro
  • che questo tempo chiameranno antico».
  • La luce in che rideva il mio tesoro
  • ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
  • quale a raggio di sole specchio d’oro;
  • indi rispuose: «Coscïenza fusca
  • o de la propria o de l’altrui vergogna
  • pur sentirà la tua parola brusca.
  • Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
  • tutta tua visïon fa manifesta;
  • e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
  • Ché se la voce tua sarà molesta
  • nel primo gusto, vital nodrimento
  • lascerà poi, quando sarà digesta.
  • Questo tuo grido farà come vento,
  • che le più alte cime più percuote;
  • e ciò non fa d’onor poco argomento.
  • Però ti son mostrate in queste rote,
  • nel monte e ne la valle dolorosa
  • pur l’anime che son di fama note,
  • che l’animo di quel ch’ode, non posa
  • né ferma fede per essempro ch’aia
  • la sua radice incognita e ascosa,
  • né per altro argomento che non paia».
  • Paradiso • Canto XVIII
  • Già si godeva solo del suo verbo
  • quello specchio beato, e io gustava
  • lo mio, temprando col dolce l’acerbo;
  • e quella donna ch’a Dio mi menava
  • disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono
  • presso a colui ch’ogne torto disgrava».
  • Io mi rivolsi a l’amoroso suono
  • del mio conforto; e qual io allor vidi
  • ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:
  • non perch’ io pur del mio parlar diffidi,
  • ma per la mente che non può redire
  • sovra sé tanto, s’altri non la guidi.
  • Tanto poss’ io di quel punto ridire,
  • che, rimirando lei, lo mio affetto
  • libero fu da ogne altro disire,
  • fin che ’l piacere etterno, che diretto
  • raggiava in Bëatrice, dal bel viso
  • mi contentava col secondo aspetto.
  • Vincendo me col lume d’un sorriso,
  • ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
  • ché non pur ne’ miei occhi è paradiso».
  • Come si vede qui alcuna volta
  • l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
  • che da lui sia tutta l’anima tolta,
  • così nel fiammeggiar del folgór santo,
  • a ch’io mi volsi, conobbi la voglia
  • in lui di ragionarmi ancora alquanto.
  • El cominciò: «In questa quinta soglia
  • de l’albero che vive de la cima
  • e frutta sempre e mai non perde foglia,
  • spiriti son beati, che giù, prima
  • che venissero al ciel, fuor di gran voce,
  • sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.
  • Però mira ne’ corni de la croce:
  • quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
  • che fa in nube il suo foco veloce».
  • Io vidi per la croce un lume tratto
  • dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
  • né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.
  • E al nome de l’alto Macabeo
  • vidi moversi un altro roteando,
  • e letizia era ferza del paleo.
  • Così per Carlo Magno e per Orlando
  • due ne seguì lo mio attento sguardo,
  • com’ occhio segue suo falcon volando.
  • Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
  • e ’l duca Gottifredi la mia vista
  • per quella croce, e Ruberto Guiscardo.
  • Indi, tra l’altre luci mota e mista,
  • mostrommi l’alma che m’avea parlato
  • qual era tra i cantor del cielo artista.
  • Io mi rivolsi dal mio destro lato
  • per vedere in Beatrice il mio dovere,
  • o per parlare o per atto, segnato;
  • e vidi le sue luci tanto mere,
  • tanto gioconde, che la sua sembianza
  • vinceva li altri e l’ultimo solere.
  • E come, per sentir più dilettanza
  • bene operando, l’uom di giorno in giorno
  • s’accorge che la sua virtute avanza,
  • sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
  • col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
  • veggendo quel miracol più addorno.
  • E qual è ’l trasmutare in picciol varco
  • di tempo in bianca donna, quando ’l volto
  • suo si discarchi di vergogna il carco,
  • tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
  • per lo candor de la temprata stella
  • sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.
  • Io vidi in quella giovïal facella
  • lo sfavillar de l’amor che lì era
  • segnare a li occhi miei nostra favella.
  • E come augelli surti di rivera,
  • quasi congratulando a lor pasture,
  • fanno di sé or tonda or altra schiera,
  • sì dentro ai lumi sante creature
  • volitando cantavano, e faciensi
  • or D, or I, or L in sue figure.
  • Prima, cantando, a sua nota moviensi;
  • poi, diventando l’un di questi segni,
  • un poco s’arrestavano e taciensi.
  • O diva Pegasëa che li ’ngegni
  • fai glorïosi e rendili longevi,
  • ed essi teco le cittadi e ’ regni,
  • illustrami di te, sì ch’io rilevi
  • le lor figure com’ io l’ho concette:
  • paia tua possa in questi versi brevi!
  • Mostrarsi dunque in cinque volte sette
  • vocali e consonanti; e io notai
  • le parti sì, come mi parver dette.
  • ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
  • fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
  • ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
  • Poscia ne l’emme del vocabol quinto
  • rimasero ordinate; sì che Giove
  • pareva argento lì d’oro distinto.
  • E vidi scendere altre luci dove
  • era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
  • cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
  • Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
  • surgono innumerabili faville,
  • onde li stolti sogliono agurarsi,
  • resurger parver quindi più di mille
  • luci e salir, qual assai e qual poco,
  • sì come ’l sol che l’accende sortille;
  • e quïetata ciascuna in suo loco,
  • la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
  • rappresentare a quel distinto foco.
  • Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
  • ma esso guida, e da lui si rammenta
  • quella virtù ch’è forma per li nidi.
  • L’altra bëatitudo, che contenta
  • pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
  • con poco moto seguitò la ’mprenta.
  • O dolce stella, quali e quante gemme
  • mi dimostraro che nostra giustizia
  • effetto sia del ciel che tu ingemme!
  • Per ch’io prego la mente in che s’inizia
  • tuo moto e tua virtute, che rimiri
  • ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;
  • sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
  • del comperare e vender dentro al templo
  • che si murò di segni e di martìri.
  • O milizia del ciel cu’ io contemplo,
  • adora per color che sono in terra
  • tutti svïati dietro al malo essemplo!
  • Già si solea con le spade far guerra;
  • ma or si fa togliendo or qui or quivi
  • lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.
  • Ma tu che sol per cancellare scrivi,
  • pensa che Pietro e Paulo, che moriro
  • per la vigna che guasti, ancor son vivi.
  • Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro
  • sì a colui che volle viver solo
  • e che per salti fu tratto al martiro,
  • ch’io non conosco il pescator né Polo».
  • Paradiso • Canto XIX
  • Parea dinanzi a me con l’ali aperte
  • la bella image che nel dolce frui
  • liete facevan l’anime conserte;
  • parea ciascuna rubinetto in cui
  • raggio di sole ardesse sì acceso,
  • che ne’ miei occhi rifrangesse lui.
  • E quel che mi convien ritrar testeso,
  • non portò voce mai, né scrisse incostro,
  • né fu per fantasia già mai compreso;
  • ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
  • e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
  • quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.
  • E cominciò: «Per esser giusto e pio
  • son io qui essaltato a quella gloria
  • che non si lascia vincere a disio;
  • e in terra lasciai la mia memoria
  • sì fatta, che le genti lì malvage
  • commendan lei, ma non seguon la storia».
  • Così un sol calor di molte brage
  • si fa sentir, come di molti amori
  • usciva solo un suon di quella image.
  • Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
  • de l’etterna letizia, che pur uno
  • parer mi fate tutti vostri odori,
  • solvetemi, spirando, il gran digiuno
  • che lungamente m’ha tenuto in fame,
  • non trovandoli in terra cibo alcuno.
  • Ben so io che, se ’n cielo altro reame
  • la divina giustizia fa suo specchio,
  • che ’l vostro non l’apprende con velame.
  • Sapete come attento io m’apparecchio
  • ad ascoltar; sapete qual è quello
  • dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».
  • Quasi falcone ch’esce del cappello,
  • move la testa e con l’ali si plaude,
  • voglia mostrando e faccendosi bello,
  • vid’ io farsi quel segno, che di laude
  • de la divina grazia era contesto,
  • con canti quai si sa chi là sù gaude.
  • Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
  • a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
  • distinse tanto occulto e manifesto,
  • non poté suo valor sì fare impresso
  • in tutto l’universo, che ’l suo verbo
  • non rimanesse in infinito eccesso.
  • E ciò fa certo che ’l primo superbo,
  • che fu la somma d’ogne creatura,
  • per non aspettar lume, cadde acerbo;
  • e quinci appar ch’ogne minor natura
  • è corto recettacolo a quel bene
  • che non ha fine e sé con sé misura.
  • Dunque vostra veduta, che convene
  • esser alcun de’ raggi de la mente
  • di che tutte le cose son ripiene,
  • non pò da sua natura esser possente
  • tanto, che suo principio discerna
  • molto di là da quel che l’è parvente.
  • Però ne la giustizia sempiterna
  • la vista che riceve il vostro mondo,
  • com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
  • che, ben che da la proda veggia il fondo,
  • in pelago nol vede; e nondimeno
  • èli, ma cela lui l’esser profondo.
  • Lume non è, se non vien dal sereno
  • che non si turba mai; anzi è tenèbra
  • od ombra de la carne o suo veleno.
  • Assai t’è mo aperta la latebra
  • che t’ascondeva la giustizia viva,
  • di che facei question cotanto crebra;
  • ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
  • de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
  • di Cristo né chi legga né chi scriva;
  • e tutti suoi voleri e atti buoni
  • sono, quanto ragione umana vede,
  • sanza peccato in vita o in sermoni.
  • Muore non battezzato e sanza fede:
  • ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
  • ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.
  • Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
  • per giudicar di lungi mille miglia
  • con la veduta corta d’una spanna?
  • Certo a colui che meco s’assottiglia,
  • se la Scrittura sovra voi non fosse,
  • da dubitar sarebbe a maraviglia.
  • Oh terreni animali! oh menti grosse!
  • La prima volontà, ch’è da sé buona,
  • da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
  • Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
  • nullo creato bene a sé la tira,
  • ma essa, radïando, lui cagiona».
  • Quale sovresso il nido si rigira
  • poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
  • e come quel ch’è pasto la rimira;
  • cotal si fece, e sì leväi i cigli,
  • la benedetta imagine, che l’ali
  • movea sospinte da tanti consigli.
  • Roteando cantava, e dicea: «Quali
  • son le mie note a te, che non le ’ntendi,
  • tal è il giudicio etterno a voi mortali».
  • Poi si quetaro quei lucenti incendi
  • de lo Spirito Santo ancor nel segno
  • che fé i Romani al mondo reverendi,
  • esso ricominciò: «A questo regno
  • non salì mai chi non credette ’n Cristo,
  • né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
  • Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
  • che saranno in giudicio assai men prope
  • a lui, che tal che non conosce Cristo;
  • e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
  • quando si partiranno i due collegi,
  • l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.
  • Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
  • come vedranno quel volume aperto
  • nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
  • Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
  • quella che tosto moverà la penna,
  • per che ’l regno di Praga fia diserto.
  • Lì si vedrà il duol che sovra Senna
  • induce, falseggiando la moneta,
  • quel che morrà di colpo di cotenna.
  • Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
  • che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
  • sì che non può soffrir dentro a sua meta.
  • Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
  • di quel di Spagna e di quel di Boemme,
  • che mai valor non conobbe né volle.
  • Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
  • segnata con un i la sua bontate,
  • quando ’l contrario segnerà un emme.
  • Vedrassi l’avarizia e la viltate
  • di quei che guarda l’isola del foco,
  • ove Anchise finì la lunga etate;
  • e a dare ad intender quanto è poco,
  • la sua scrittura fian lettere mozze,
  • che noteranno molto in parvo loco.
  • E parranno a ciascun l’opere sozze
  • del barba e del fratel, che tanto egregia
  • nazione e due corone han fatte bozze.
  • E quel di Portogallo e di Norvegia
  • lì si conosceranno, e quel di Rascia
  • che male ha visto il conio di Vinegia.
  • Oh beata Ungheria, se non si lascia
  • più malmenare! e beata Navarra,
  • se s’armasse del monte che la fascia!
  • E creder de’ ciascun che già, per arra
  • di questo, Niccosïa e Famagosta
  • per la lor bestia si lamenti e garra,
  • che dal fianco de l’altre non si scosta».
  • Paradiso • Canto XX
  • Quando colui che tutto ’l mondo alluma
  • de l’emisperio nostro sì discende,
  • che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
  • lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
  • subitamente si rifà parvente
  • per molte luci, in che una risplende;
  • e questo atto del ciel mi venne a mente,
  • come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
  • nel benedetto rostro fu tacente;
  • però che tutte quelle vive luci,
  • vie più lucendo, cominciaron canti
  • da mia memoria labili e caduci.
  • O dolce amor che di riso t’ammanti,
  • quanto parevi ardente in que’ flailli,
  • ch’avieno spirto sol di pensier santi!
  • Poscia che i cari e lucidi lapilli
  • ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
  • puoser silenzio a li angelici squilli,
  • udir mi parve un mormorar di fiume
  • che scende chiaro giù di pietra in pietra,
  • mostrando l’ubertà del suo cacume.
  • E come suono al collo de la cetra
  • prende sua forma, e sì com’ al pertugio
  • de la sampogna vento che penètra,
  • così, rimosso d’aspettare indugio,
  • quel mormorar de l’aguglia salissi
  • su per lo collo, come fosse bugio.
  • Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
  • per lo suo becco in forma di parole,
  • quali aspettava il core ov’ io le scrissi.
  • «La parte in me che vede e pate il sole
  • ne l’aguglie mortali», incominciommi,
  • «or fisamente riguardar si vole,
  • perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
  • quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
  • e’ di tutti lor gradi son li sommi.
  • Colui che luce in mezzo per pupilla,
  • fu il cantor de lo Spirito Santo,
  • che l’arca traslatò di villa in villa:
  • ora conosce il merto del suo canto,
  • in quanto effetto fu del suo consiglio,
  • per lo remunerar ch’è altrettanto.
  • Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
  • colui che più al becco mi s’accosta,
  • la vedovella consolò del figlio:
  • ora conosce quanto caro costa
  • non seguir Cristo, per l’esperïenza
  • di questa dolce vita e de l’opposta.
  • E quel che segue in la circunferenza
  • di che ragiono, per l’arco superno,
  • morte indugiò per vera penitenza:
  • ora conosce che ’l giudicio etterno
  • non si trasmuta, quando degno preco
  • fa crastino là giù de l’odïerno.
  • L’altro che segue, con le leggi e meco,
  • sotto buona intenzion che fé mal frutto,
  • per cedere al pastor si fece greco:
  • ora conosce come il mal dedutto
  • dal suo bene operar non li è nocivo,
  • avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
  • E quel che vedi ne l’arco declivo,
  • Guiglielmo fu, cui quella terra plora
  • che piagne Carlo e Federigo vivo:
  • ora conosce come s’innamora
  • lo ciel del giusto rege, e al sembiante
  • del suo fulgore il fa vedere ancora.
  • Chi crederebbe giù nel mondo errante
  • che Rifëo Troiano in questo tondo
  • fosse la quinta de le luci sante?
  • Ora conosce assai di quel che ’l mondo
  • veder non può de la divina grazia,
  • ben che sua vista non discerna il fondo».
  • Quale allodetta che ’n aere si spazia
  • prima cantando, e poi tace contenta
  • de l’ultima dolcezza che la sazia,
  • tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
  • de l’etterno piacere, al cui disio
  • ciascuna cosa qual ell’ è diventa.
  • E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
  • lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
  • tempo aspettar tacendo non patio,
  • ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
  • mi pinse con la forza del suo peso:
  • per ch’io di coruscar vidi gran feste.
  • Poi appresso, con l’occhio più acceso,
  • lo benedetto segno mi rispuose
  • per non tenermi in ammirar sospeso:
  • «Io veggio che tu credi queste cose
  • perch’ io le dico, ma non vedi come;
  • sì che, se son credute, sono ascose.
  • Fai come quei che la cosa per nome
  • apprende ben, ma la sua quiditate
  • veder non può se altri non la prome.
  • Regnum celorum vïolenza pate
  • da caldo amore e da viva speranza,
  • che vince la divina volontate:
  • non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
  • ma vince lei perché vuole esser vinta,
  • e, vinta, vince con sua beninanza.
  • La prima vita del ciglio e la quinta
  • ti fa maravigliar, perché ne vedi
  • la regïon de li angeli dipinta.
  • D’i corpi suoi non uscir, come credi,
  • Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
  • quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.
  • Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
  • già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
  • e ciò di viva spene fu mercede:
  • di viva spene, che mise la possa
  • ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
  • sì che potesse sua voglia esser mossa.
  • L’anima glorïosa onde si parla,
  • tornata ne la carne, in che fu poco,
  • credette in lui che potëa aiutarla;
  • e credendo s’accese in tanto foco
  • di vero amor, ch’a la morte seconda
  • fu degna di venire a questo gioco.
  • L’altra, per grazia che da sì profonda
  • fontana stilla, che mai creatura
  • non pinse l’occhio infino a la prima onda,
  • tutto suo amor là giù pose a drittura:
  • per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
  • l’occhio a la nostra redenzion futura;
  • ond’ ei credette in quella, e non sofferse
  • da indi il puzzo più del paganesmo;
  • e riprendiene le genti perverse.
  • Quelle tre donne li fur per battesmo
  • che tu vedesti da la destra rota,
  • dinanzi al battezzar più d’un millesmo.
  • O predestinazion, quanto remota
  • è la radice tua da quelli aspetti
  • che la prima cagion non veggion tota!
  • E voi, mortali, tenetevi stretti
  • a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
  • non conosciamo ancor tutti li eletti;
  • ed ènne dolce così fatto scemo,
  • perché il ben nostro in questo ben s’affina,
  • che quel che vole Iddio, e noi volemo».
  • Così da quella imagine divina,
  • per farmi chiara la mia corta vista,
  • data mi fu soave medicina.
  • E come a buon cantor buon citarista
  • fa seguitar lo guizzo de la corda,
  • in che più di piacer lo canto acquista,
  • sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
  • ch’io vidi le due luci benedette,
  • pur come batter d’occhi si concorda,
  • con le parole mover le fiammette.
  • Paradiso • Canto XXI
  • Già eran li occhi miei rifissi al volto
  • de la mia donna, e l’animo con essi,
  • e da ogne altro intento s’era tolto.
  • E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
  • mi cominciò, «tu ti faresti quale
  • fu Semelè quando di cener fessi:
  • ché la bellezza mia, che per le scale
  • de l’etterno palazzo più s’accende,
  • com’ hai veduto, quanto più si sale,
  • se non si temperasse, tanto splende,
  • che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
  • sarebbe fronda che trono scoscende.
  • Noi sem levati al settimo splendore,
  • che sotto ’l petto del Leone ardente
  • raggia mo misto giù del suo valore.
  • Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
  • e fa di quelli specchi a la figura
  • che ’n questo specchio ti sarà parvente».
  • Qual savesse qual era la pastura
  • del viso mio ne l’aspetto beato
  • quand’ io mi trasmutai ad altra cura,
  • conoscerebbe quanto m’era a grato
  • ubidire a la mia celeste scorta,
  • contrapesando l’un con l’altro lato.
  • Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
  • cerchiando il mondo, del suo caro duce
  • sotto cui giacque ogne malizia morta,
  • di color d’oro in che raggio traluce
  • vid’ io uno scaleo eretto in suso
  • tanto, che nol seguiva la mia luce.
  • Vidi anche per li gradi scender giuso
  • tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
  • che par nel ciel, quindi fosse diffuso.
  • E come, per lo natural costume,
  • le pole insieme, al cominciar del giorno,
  • si movono a scaldar le fredde piume;
  • poi altre vanno via sanza ritorno,
  • altre rivolgon sé onde son mosse,
  • e altre roteando fan soggiorno;
  • tal modo parve me che quivi fosse
  • in quello sfavillar che ’nsieme venne,
  • sì come in certo grado si percosse.
  • E quel che presso più ci si ritenne,
  • si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
  • ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.
  • Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando
  • del dire e del tacer, si sta; ond’ io,
  • contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando’.
  • Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
  • nel veder di colui che tutto vede,
  • mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».
  • E io incominciai: «La mia mercede
  • non mi fa degno de la tua risposta;
  • ma per colei che ’l chieder mi concede,
  • vita beata che ti stai nascosta
  • dentro a la tua letizia, fammi nota
  • la cagion che sì presso mi t’ha posta;
  • e dì perché si tace in questa rota
  • la dolce sinfonia di paradiso,
  • che giù per l’altre suona sì divota».
  • «Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
  • rispuose a me; «onde qui non si canta
  • per quel che Bëatrice non ha riso.
  • Giù per li gradi de la scala santa
  • discesi tanto sol per farti festa
  • col dire e con la luce che mi ammanta;
  • né più amor mi fece esser più presta,
  • ché più e tanto amor quinci sù ferve,
  • sì come il fiammeggiar ti manifesta.
  • Ma l’alta carità, che ci fa serve
  • pronte al consiglio che ’l mondo governa,
  • sorteggia qui sì come tu osserve».
  • «Io veggio ben», diss’ io, «sacra lucerna,
  • come libero amore in questa corte
  • basta a seguir la provedenza etterna;
  • ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
  • perché predestinata fosti sola
  • a questo officio tra le tue consorte».
  • Né venni prima a l’ultima parola,
  • che del suo mezzo fece il lume centro,
  • girando sé come veloce mola;
  • poi rispuose l’amor che v’era dentro:
  • «Luce divina sopra me s’appunta,
  • penetrando per questa in ch’io m’inventro,
  • la cui virtù, col mio veder congiunta,
  • mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
  • la somma essenza de la quale è munta.
  • Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
  • per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
  • la chiarità de la fiamma pareggio.
  • Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,
  • quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,
  • a la dimanda tua non satisfara,
  • però che sì s’innoltra ne lo abisso
  • de l’etterno statuto quel che chiedi,
  • che da ogne creata vista è scisso.
  • E al mondo mortal, quando tu riedi,
  • questo rapporta, sì che non presumma
  • a tanto segno più mover li piedi.
  • La mente, che qui luce, in terra fumma;
  • onde riguarda come può là giùe
  • quel che non pote perché ’l ciel l’assumma».
  • Sì mi prescrisser le parole sue,
  • ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
  • a dimandarla umilmente chi fue.
  • «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
  • e non molto distanti a la tua patria,
  • tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
  • e fanno un gibbo che si chiama Catria,
  • di sotto al quale è consecrato un ermo,
  • che suole esser disposto a sola latria».
  • Così ricominciommi il terzo sermo;
  • e poi, continüando, disse: «Quivi
  • al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
  • che pur con cibi di liquor d’ulivi
  • lievemente passava caldi e geli,
  • contento ne’ pensier contemplativi.
  • Render solea quel chiostro a questi cieli
  • fertilemente; e ora è fatto vano,
  • sì che tosto convien che si riveli.
  • In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
  • e Pietro Peccator fu’ ne la casa
  • di Nostra Donna in sul lito adriano.
  • Poca vita mortal m’era rimasa,
  • quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
  • che pur di male in peggio si travasa.
  • Venne Cefàs e venne il gran vasello
  • de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
  • prendendo il cibo da qualunque ostello.
  • Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
  • li moderni pastori e chi li meni,
  • tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
  • Cuopron d’i manti loro i palafreni,
  • sì che due bestie van sott’ una pelle:
  • oh pazïenza che tanto sostieni!».
  • A questa voce vid’ io più fiammelle
  • di grado in grado scendere e girarsi,
  • e ogne giro le facea più belle.
  • Dintorno a questa vennero e fermarsi,
  • e fero un grido di sì alto suono,
  • che non potrebbe qui assomigliarsi;
  • né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.
  • Paradiso • Canto XXII
  • Oppresso di stupore, a la mia guida
  • mi volsi, come parvol che ricorre
  • sempre colà dove più si confida;
  • e quella, come madre che soccorre
  • sùbito al figlio palido e anelo
  • con la sua voce, che ’l suol ben disporre,
  • mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
  • e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
  • e ciò che ci si fa vien da buon zelo?
  • Come t’avrebbe trasmutato il canto,
  • e io ridendo, mo pensar lo puoi,
  • poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;
  • nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi,
  • già ti sarebbe nota la vendetta
  • che tu vedrai innanzi che tu muoi.
  • La spada di qua sù non taglia in fretta
  • né tardo, ma’ ch’al parer di colui
  • che disïando o temendo l’aspetta.
  • Ma rivolgiti omai inverso altrui;
  • ch’assai illustri spiriti vedrai,
  • se com’ io dico l’aspetto redui».
  • Come a lei piacque, li occhi ritornai,
  • e vidi cento sperule che ’nsieme
  • più s’abbellivan con mutüi rai.
  • Io stava come quei che ’n sé repreme
  • la punta del disio, e non s’attenta
  • di domandar, sì del troppo si teme;
  • e la maggiore e la più luculenta
  • di quelle margherite innanzi fessi,
  • per far di sé la mia voglia contenta.
  • Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
  • com’ io la carità che tra noi arde,
  • li tuoi concetti sarebbero espressi.
  • Ma perché tu, aspettando, non tarde
  • a l’alto fine, io ti farò risposta
  • pur al pensier, da che sì ti riguarde.
  • Quel monte a cui Cassino è ne la costa
  • fu frequentato già in su la cima
  • da la gente ingannata e mal disposta;
  • e quel son io che sù vi portai prima
  • lo nome di colui che ’n terra addusse
  • la verità che tanto ci soblima;
  • e tanta grazia sopra me relusse,
  • ch’io ritrassi le ville circunstanti
  • da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.
  • Questi altri fuochi tutti contemplanti
  • uomini fuoro, accesi di quel caldo
  • che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.
  • Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
  • qui son li frati miei che dentro ai chiostri
  • fermar li piedi e tennero il cor saldo».
  • E io a lui: «L’affetto che dimostri
  • meco parlando, e la buona sembianza
  • ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
  • così m’ha dilatata mia fidanza,
  • come ’l sol fa la rosa quando aperta
  • tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.
  • Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
  • s’io posso prender tanta grazia, ch’io
  • ti veggia con imagine scoverta».
  • Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio
  • s’adempierà in su l’ultima spera,
  • ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.
  • Ivi è perfetta, matura e intera
  • ciascuna disïanza; in quella sola
  • è ogne parte là ove sempr’ era,
  • perché non è in loco e non s’impola;
  • e nostra scala infino ad essa varca,
  • onde così dal viso ti s’invola.
  • Infin là sù la vide il patriarca
  • Iacobbe porger la superna parte,
  • quando li apparve d’angeli sì carca.
  • Ma, per salirla, mo nessun diparte
  • da terra i piedi, e la regola mia
  • rimasa è per danno de le carte.
  • Le mura che solieno esser badia
  • fatte sono spelonche, e le cocolle
  • sacca son piene di farina ria.
  • Ma grave usura tanto non si tolle
  • contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
  • che fa il cor de’ monaci sì folle;
  • ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
  • è de la gente che per Dio dimanda;
  • non di parenti né d’altro più brutto.
  • La carne d’i mortali è tanto blanda,
  • che giù non basta buon cominciamento
  • dal nascer de la quercia al far la ghianda.
  • Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
  • e io con orazione e con digiuno,
  • e Francesco umilmente il suo convento;
  • e se guardi ’l principio di ciascuno,
  • poscia riguardi là dov’ è trascorso,
  • tu vederai del bianco fatto bruno.
  • Veramente Iordan vòlto retrorso
  • più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
  • mirabile a veder che qui ’l soccorso».
  • Così mi disse, e indi si raccolse
  • al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
  • poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.
  • La dolce donna dietro a lor mi pinse
  • con un sol cenno su per quella scala,
  • sì sua virtù la mia natura vinse;
  • né mai qua giù dove si monta e cala
  • naturalmente, fu sì ratto moto
  • ch’agguagliar si potesse a la mia ala.
  • S’io torni mai, lettore, a quel divoto
  • trïunfo per lo quale io piango spesso
  • le mie peccata e ’l petto mi percuoto,
  • tu non avresti in tanto tratto e messo
  • nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
  • che segue il Tauro e fui dentro da esso.
  • O glorïose stelle, o lume pregno
  • di gran virtù, dal quale io riconosco
  • tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
  • con voi nasceva e s’ascondeva vosco
  • quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
  • quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;
  • e poi, quando mi fu grazia largita
  • d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
  • la vostra regïon mi fu sortita.
  • A voi divotamente ora sospira
  • l’anima mia, per acquistar virtute
  • al passo forte che a sé la tira.
  • «Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
  • cominciò Bëatrice, «che tu dei
  • aver le luci tue chiare e acute;
  • e però, prima che tu più t’inlei,
  • rimira in giù, e vedi quanto mondo
  • sotto li piedi già esser ti fei;
  • sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
  • s’appresenti a la turba trïunfante
  • che lieta vien per questo etera tondo».
  • Col viso ritornai per tutte quante
  • le sette spere, e vidi questo globo
  • tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
  • e quel consiglio per migliore approbo
  • che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
  • chiamar si puote veramente probo.
  • Vidi la figlia di Latona incensa
  • sanza quell’ ombra che mi fu cagione
  • per che già la credetti rara e densa.
  • L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
  • quivi sostenni, e vidi com’ si move
  • circa e vicino a lui Maia e Dïone.
  • Quindi m’apparve il temperar di Giove
  • tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
  • il varïar che fanno di lor dove;
  • e tutti e sette mi si dimostraro
  • quanto son grandi e quanto son veloci
  • e come sono in distante riparo.
  • L’aiuola che ci fa tanto feroci,
  • volgendom’ io con li etterni Gemelli,
  • tutta m’apparve da’ colli a le foci;
  • poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
  • Paradiso • Canto XXIII
  • Come l’augello, intra l’amate fronde,
  • posato al nido de’ suoi dolci nati
  • la notte che le cose ci nasconde,
  • che, per veder li aspetti disïati
  • e per trovar lo cibo onde li pasca,
  • in che gravi labor li sono aggrati,
  • previene il tempo in su aperta frasca,
  • e con ardente affetto il sole aspetta,
  • fiso guardando pur che l’alba nasca;
  • così la donna mïa stava eretta
  • e attenta, rivolta inver’ la plaga
  • sotto la quale il sol mostra men fretta:
  • sì che, veggendola io sospesa e vaga,
  • fecimi qual è quei che disïando
  • altro vorria, e sperando s’appaga.
  • Ma poco fu tra uno e altro quando,
  • del mio attender, dico, e del vedere
  • lo ciel venir più e più rischiarando;
  • e Bëatrice disse: «Ecco le schiere
  • del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto
  • ricolto del girar di queste spere!».
  • Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,
  • e li occhi avea di letizia sì pieni,
  • che passarmen convien sanza costrutto.
  • Quale ne’ plenilunïi sereni
  • Trivïa ride tra le ninfe etterne
  • che dipingon lo ciel per tutti i seni,
  • vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
  • un sol che tutte quante l’accendea,
  • come fa ’l nostro le viste superne;
  • e per la viva luce trasparea
  • la lucente sustanza tanto chiara
  • nel viso mio, che non la sostenea.
  • Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
  • Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
  • è virtù da cui nulla si ripara.
  • Quivi è la sapïenza e la possanza
  • ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
  • onde fu già sì lunga disïanza».
  • Come foco di nube si diserra
  • per dilatarsi sì che non vi cape,
  • e fuor di sua natura in giù s’atterra,
  • la mente mia così, tra quelle dape
  • fatta più grande, di sé stessa uscìo,
  • e che si fesse rimembrar non sape.
  • «Apri li occhi e riguarda qual son io;
  • tu hai vedute cose, che possente
  • se’ fatto a sostener lo riso mio».
  • Io era come quei che si risente
  • di visïone oblita e che s’ingegna
  • indarno di ridurlasi a la mente,
  • quand’ io udi’ questa proferta, degna
  • di tanto grato, che mai non si stingue
  • del libro che ’l preterito rassegna.
  • Se mo sonasser tutte quelle lingue
  • che Polimnïa con le suore fero
  • del latte lor dolcissimo più pingue,
  • per aiutarmi, al millesmo del vero
  • non si verria, cantando il santo riso
  • e quanto il santo aspetto facea mero;
  • e così, figurando il paradiso,
  • convien saltar lo sacrato poema,
  • come chi trova suo cammin riciso.
  • Ma chi pensasse il ponderoso tema
  • e l’omero mortal che se ne carca,
  • nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
  • non è pareggio da picciola barca
  • quel che fendendo va l’ardita prora,
  • né da nocchier ch’a sé medesmo parca.
  • «Perché la faccia mia sì t’innamora,
  • che tu non ti rivolgi al bel giardino
  • che sotto i raggi di Cristo s’infiora?
  • Quivi è la rosa in che ’l verbo divino
  • carne si fece; quivi son li gigli
  • al cui odor si prese il buon cammino».
  • Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli
  • tutto era pronto, ancora mi rendei
  • a la battaglia de’ debili cigli.
  • Come a raggio di sol, che puro mei
  • per fratta nube, già prato di fiori
  • vider, coverti d’ombra, li occhi miei;
  • vid’ io così più turbe di splendori,
  • folgorate di sù da raggi ardenti,
  • sanza veder principio di folgóri.
  • O benigna vertù che sì li ’mprenti,
  • sù t’essaltasti, per largirmi loco
  • a li occhi lì che non t’eran possenti.
  • Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
  • e mane e sera, tutto mi ristrinse
  • l’animo ad avvisar lo maggior foco;
  • e come ambo le luci mi dipinse
  • il quale e il quanto de la viva stella
  • che là sù vince come qua giù vinse,
  • per entro il cielo scese una facella,
  • formata in cerchio a guisa di corona,
  • e cinsela e girossi intorno ad ella.
  • Qualunque melodia più dolce suona
  • qua giù e più a sé l’anima tira,
  • parrebbe nube che squarciata tona,
  • comparata al sonar di quella lira
  • onde si coronava il bel zaffiro
  • del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
  • «Io sono amore angelico, che giro
  • l’alta letizia che spira del ventre
  • che fu albergo del nostro disiro;
  • e girerommi, donna del ciel, mentre
  • che seguirai tuo figlio, e farai dia
  • più la spera suprema perché lì entre».
  • Così la circulata melodia
  • si sigillava, e tutti li altri lumi
  • facean sonare il nome di Maria.
  • Lo real manto di tutti i volumi
  • del mondo, che più ferve e più s’avviva
  • ne l’alito di Dio e nei costumi,
  • avea sopra di noi l’interna riva
  • tanto distante, che la sua parvenza,
  • là dov’ io era, ancor non appariva:
  • però non ebber li occhi miei potenza
  • di seguitar la coronata fiamma
  • che si levò appresso sua semenza.
  • E come fantolin che ’nver’ la mamma
  • tende le braccia, poi che ’l latte prese,
  • per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;
  • ciascun di quei candori in sù si stese
  • con la sua cima, sì che l’alto affetto
  • ch’elli avieno a Maria mi fu palese.
  • Indi rimaser lì nel mio cospetto,
  • ‘Regina celi’ cantando sì dolce,
  • che mai da me non si partì ’l diletto.
  • Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
  • in quelle arche ricchissime che fuoro
  • a seminar qua giù buone bobolce!
  • Quivi si vive e gode del tesoro
  • che s’acquistò piangendo ne lo essilio
  • di Babillòn, ove si lasciò l’oro.
  • Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
  • di Dio e di Maria, di sua vittoria,
  • e con l’antico e col novo concilio,
  • colui che tien le chiavi di tal gloria.
  • Paradiso • Canto XXIV
  • «O sodalizio eletto a la gran cena
  • del benedetto Agnello, il qual vi ciba
  • sì, che la vostra voglia è sempre piena,
  • se per grazia di Dio questi preliba
  • di quel che cade de la vostra mensa,
  • prima che morte tempo li prescriba,
  • ponete mente a l’affezione immensa
  • e roratelo alquanto: voi bevete
  • sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa».
  • Così Beatrice; e quelle anime liete
  • si fero spere sopra fissi poli,
  • fiammando, a volte, a guisa di comete.
  • E come cerchi in tempra d’orïuoli
  • si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
  • quïeto pare, e l’ultimo che voli;
  • così quelle carole, differente-
  • mente danzando, de la sua ricchezza
  • mi facieno stimar, veloci e lente.
  • Di quella ch’io notai di più carezza
  • vid’ ïo uscire un foco sì felice,
  • che nullo vi lasciò di più chiarezza;
  • e tre fïate intorno di Beatrice
  • si volse con un canto tanto divo,
  • che la mia fantasia nol mi ridice.
  • Però salta la penna e non lo scrivo:
  • ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
  • non che ’l parlare, è troppo color vivo.
  • «O santa suora mia che sì ne prieghe
  • divota, per lo tuo ardente affetto
  • da quella bella spera mi disleghe».
  • Poscia fermato, il foco benedetto
  • a la mia donna dirizzò lo spiro,
  • che favellò così com’ i’ ho detto.
  • Ed ella: «O luce etterna del gran viro
  • a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
  • ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
  • tenta costui di punti lievi e gravi,
  • come ti piace, intorno de la fede,
  • per la qual tu su per lo mare andavi.
  • S’elli ama bene e bene spera e crede,
  • non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
  • dov’ ogne cosa dipinta si vede;
  • ma perché questo regno ha fatto civi
  • per la verace fede, a glorïarla,
  • di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».
  • Sì come il baccialier s’arma e non parla
  • fin che ’l maestro la question propone,
  • per approvarla, non per terminarla,
  • così m’armava io d’ogne ragione
  • mentre ch’ella dicea, per esser presto
  • a tal querente e a tal professione.
  • «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
  • fede che è?». Ond’ io levai la fronte
  • in quella luce onde spirava questo;
  • poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
  • sembianze femmi perch’ ïo spandessi
  • l’acqua di fuor del mio interno fonte.
  • «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
  • comincia’ io, «da l’alto primipilo,
  • faccia li miei concetti bene espressi».
  • E seguitai: «Come ’l verace stilo
  • ne scrisse, padre, del tuo caro frate
  • che mise teco Roma nel buon filo,
  • fede è sustanza di cose sperate
  • e argomento de le non parventi;
  • e questa pare a me sua quiditate».
  • Allora udi’: «Dirittamente senti,
  • se bene intendi perché la ripuose
  • tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
  • E io appresso: «Le profonde cose
  • che mi largiscon qui la lor parvenza,
  • a li occhi di là giù son sì ascose,
  • che l’esser loro v’è in sola credenza,
  • sopra la qual si fonda l’alta spene;
  • e però di sustanza prende intenza.
  • E da questa credenza ci convene
  • silogizzar, sanz’ avere altra vista:
  • però intenza d’argomento tene».
  • Allora udi’: «Se quantunque s’acquista
  • giù per dottrina, fosse così ’nteso,
  • non lì avria loco ingegno di sofista».
  • Così spirò di quello amore acceso;
  • indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
  • d’esta moneta già la lega e ’l peso;
  • ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
  • Ond’ io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
  • che nel suo conio nulla mi s’inforsa».
  • Appresso uscì de la luce profonda
  • che lì splendeva: «Questa cara gioia
  • sopra la quale ogne virtù si fonda,
  • onde ti venne?». E io: «La larga ploia
  • de lo Spirito Santo, ch’è diffusa
  • in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia,
  • è silogismo che la m’ha conchiusa
  • acutamente sì, che ’nverso d’ella
  • ogne dimostrazion mi pare ottusa».
  • Io udi’ poi: «L’antica e la novella
  • proposizion che così ti conchiude,
  • perché l’hai tu per divina favella?».
  • E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
  • son l’opere seguite, a che natura
  • non scalda ferro mai né batte incude».
  • Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
  • che quell’ opere fosser? Quel medesmo
  • che vuol provarsi, non altri, il ti giura».
  • «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
  • diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
  • è tal, che li altri non sono il centesmo:
  • ché tu intrasti povero e digiuno
  • in campo, a seminar la buona pianta
  • che fu già vite e ora è fatta pruno».
  • Finito questo, l’alta corte santa
  • risonò per le spere un ‘Dio laudamo’
  • ne la melode che là sù si canta.
  • E quel baron che sì di ramo in ramo,
  • essaminando, già tratto m’avea,
  • che a l’ultime fronde appressavamo,
  • ricominciò: «La Grazia, che donnea
  • con la tua mente, la bocca t’aperse
  • infino a qui come aprir si dovea,
  • sì ch’io approvo ciò che fuori emerse;
  • ma or convien espremer quel che credi,
  • e onde a la credenza tua s’offerse».
  • «O santo padre, e spirito che vedi
  • ciò che credesti sì, che tu vincesti
  • ver’ lo sepulcro più giovani piedi»,
  • comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti
  • la forma qui del pronto creder mio,
  • e anche la cagion di lui chiedesti.
  • E io rispondo: Io credo in uno Dio
  • solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
  • non moto, con amore e con disio;
  • e a tal creder non ho io pur prove
  • fisice e metafisice, ma dalmi
  • anche la verità che quinci piove
  • per Moïsè, per profeti e per salmi,
  • per l’Evangelio e per voi che scriveste
  • poi che l’ardente Spirto vi fé almi;
  • e credo in tre persone etterne, e queste
  • credo una essenza sì una e sì trina,
  • che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’.
  • De la profonda condizion divina
  • ch’io tocco mo, la mente mi sigilla
  • più volte l’evangelica dottrina.
  • Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla
  • che si dilata in fiamma poi vivace,
  • e come stella in cielo in me scintilla».
  • Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace,
  • da indi abbraccia il servo, gratulando
  • per la novella, tosto ch’el si tace;
  • così, benedicendomi cantando,
  • tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
  • l’appostolico lume al cui comando
  • io avea detto: sì nel dir li piacqui!
  • Paradiso • Canto XXV
  • Se mai continga che ’l poema sacro
  • al quale ha posto mano e cielo e terra,
  • sì che m’ha fatto per molti anni macro,
  • vinca la crudeltà che fuor mi serra
  • del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
  • nimico ai lupi che li danno guerra;
  • con altra voce omai, con altro vello
  • ritornerò poeta, e in sul fonte
  • del mio battesmo prenderò ’l cappello;
  • però che ne la fede, che fa conte
  • l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
  • Pietro per lei sì mi girò la fronte.
  • Indi si mosse un lume verso noi
  • di quella spera ond’ uscì la primizia
  • che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
  • e la mia donna, piena di letizia,
  • mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
  • per cui là giù si vicita Galizia».
  • Sì come quando il colombo si pone
  • presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
  • girando e mormorando, l’affezione;
  • così vid’ ïo l’un da l’altro grande
  • principe glorïoso essere accolto,
  • laudando il cibo che là sù li prande.
  • Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
  • tacito coram me ciascun s’affisse,
  • ignito sì che vincëa ’l mio volto.
  • Ridendo allora Bëatrice disse:
  • «Inclita vita per cui la larghezza
  • de la nostra basilica si scrisse,
  • fa risonar la spene in questa altezza:
  • tu sai, che tante fiate la figuri,
  • quante Iesù ai tre fé più carezza».
  • «Leva la testa e fa che t’assicuri:
  • che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
  • convien ch’ai nostri raggi si maturi».
  • Questo conforto del foco secondo
  • mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
  • che li ’ncurvaron pria col troppo pondo.
  • «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
  • lo nostro Imperadore, anzi la morte,
  • ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
  • sì che, veduto il ver di questa corte,
  • la spene, che là giù bene innamora,
  • in te e in altrui di ciò conforte,
  • di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora
  • la mente tua, e dì onde a te venne».
  • Così seguì ’l secondo lume ancora.
  • E quella pïa che guidò le penne
  • de le mie ali a così alto volo,
  • a la risposta così mi prevenne:
  • «La Chiesa militante alcun figliuolo
  • non ha con più speranza, com’ è scritto
  • nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
  • però li è conceduto che d’Egitto
  • vegna in Ierusalemme per vedere,
  • anzi che ’l militar li sia prescritto.
  • Li altri due punti, che non per sapere
  • son dimandati, ma perch’ ei rapporti
  • quanto questa virtù t’è in piacere,
  • a lui lasc’ io, ché non li saran forti
  • né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
  • e la grazia di Dio ciò li comporti».
  • Come discente ch’a dottor seconda
  • pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
  • perché la sua bontà si disasconda,
  • «Spene», diss’ io, «è uno attender certo
  • de la gloria futura, il qual produce
  • grazia divina e precedente merto.
  • Da molte stelle mi vien questa luce;
  • ma quei la distillò nel mio cor pria
  • che fu sommo cantor del sommo duce.
  • ‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
  • dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
  • e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
  • Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
  • ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
  • e in altrui vostra pioggia repluo».
  • Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
  • di quello incendio tremolava un lampo
  • sùbito e spesso a guisa di baleno.
  • Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo
  • ancor ver’ la virtù che mi seguette
  • infin la palma e a l’uscir del campo,
  • vuol ch’io respiri a te che ti dilette
  • di lei; ed emmi a grato che tu diche
  • quello che la speranza ti ’mpromette».
  • E io: «Le nove e le scritture antiche
  • pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
  • de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.
  • Dice Isaia che ciascuna vestita
  • ne la sua terra fia di doppia vesta:
  • e la sua terra è questa dolce vita;
  • e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
  • là dove tratta de le bianche stole,
  • questa revelazion ci manifesta».
  • E prima, appresso al fin d’este parole,
  • ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
  • a che rispuoser tutte le carole.
  • Poscia tra esse un lume si schiarì
  • sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
  • l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.
  • E come surge e va ed entra in ballo
  • vergine lieta, sol per fare onore
  • a la novizia, non per alcun fallo,
  • così vid’ io lo schiarato splendore
  • venire a’ due che si volgieno a nota
  • qual conveniesi al loro ardente amore.
  • Misesi lì nel canto e ne la rota;
  • e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
  • pur come sposa tacita e immota.
  • «Questi è colui che giacque sopra ’l petto
  • del nostro pellicano, e questi fue
  • di su la croce al grande officio eletto».
  • La donna mia così; né però piùe
  • mosser la vista sua di stare attenta
  • poscia che prima le parole sue.
  • Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
  • di vedere eclissar lo sole un poco,
  • che, per veder, non vedente diventa;
  • tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
  • mentre che detto fu: «Perché t’abbagli
  • per veder cosa che qui non ha loco?
  • In terra è terra il mio corpo, e saragli
  • tanto con li altri, che ’l numero nostro
  • con l’etterno proposito s’agguagli.
  • Con le due stole nel beato chiostro
  • son le due luci sole che saliro;
  • e questo apporterai nel mondo vostro».
  • A questa voce l’infiammato giro
  • si quïetò con esso il dolce mischio
  • che si facea nel suon del trino spiro,
  • sì come, per cessar fatica o rischio,
  • li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
  • tutti si posano al sonar d’un fischio.
  • Ahi quanto ne la mente mi commossi,
  • quando mi volsi per veder Beatrice,
  • per non poter veder, benché io fossi
  • presso di lei, e nel mondo felice!
  • Paradiso • Canto XXVI
  • Mentr’ io dubbiava per lo viso spento,
  • de la fulgida fiamma che lo spense
  • uscì un spiro che mi fece attento,
  • dicendo: «Intanto che tu ti risense
  • de la vista che haï in me consunta,
  • ben è che ragionando la compense.
  • Comincia dunque; e dì ove s’appunta
  • l’anima tua, e fa ragion che sia
  • la vista in te smarrita e non defunta:
  • perché la donna che per questa dia
  • regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
  • la virtù ch’ebbe la man d’Anania».
  • Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo
  • vegna remedio a li occhi, che fuor porte
  • quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo.
  • Lo ben che fa contenta questa corte,
  • Alfa e O è di quanta scrittura
  • mi legge Amore o lievemente o forte».
  • Quella medesma voce che paura
  • tolta m’avea del sùbito abbarbaglio,
  • di ragionare ancor mi mise in cura;
  • e disse: «Certo a più angusto vaglio
  • ti conviene schiarar: dicer convienti
  • chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio».
  • E io: «Per filosofici argomenti
  • e per autorità che quinci scende
  • cotale amor convien che in me si ’mprenti:
  • ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
  • così accende amore, e tanto maggio
  • quanto più di bontate in sé comprende.
  • Dunque a l’essenza ov’ è tanto avvantaggio,
  • che ciascun ben che fuor di lei si trova
  • altro non è ch’un lume di suo raggio,
  • più che in altra convien che si mova
  • la mente, amando, di ciascun che cerne
  • il vero in che si fonda questa prova.
  • Tal vero a l’intelletto mïo sterne
  • colui che mi dimostra il primo amore
  • di tutte le sustanze sempiterne.
  • Sternel la voce del verace autore,
  • che dice a Moïsè, di sé parlando:
  • ‘Io ti farò vedere ogne valore’.
  • Sternilmi tu ancora, incominciando
  • l’alto preconio che grida l’arcano
  • di qui là giù sovra ogne altro bando».
  • E io udi’: «Per intelletto umano
  • e per autoritadi a lui concorde
  • d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.
  • Ma dì ancor se tu senti altre corde
  • tirarti verso lui, sì che tu suone
  • con quanti denti questo amor ti morde».
  • Non fu latente la santa intenzione
  • de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
  • dove volea menar mia professione.
  • Però ricominciai: «Tutti quei morsi
  • che posson far lo cor volgere a Dio,
  • a la mia caritate son concorsi:
  • ché l’essere del mondo e l’esser mio,
  • la morte ch’el sostenne perch’ io viva,
  • e quel che spera ogne fedel com’ io,
  • con la predetta conoscenza viva,
  • tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
  • e del diritto m’han posto a la riva.
  • Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
  • de l’ortolano etterno, am’ io cotanto
  • quanto da lui a lor di bene è porto».
  • Sì com’ io tacqui, un dolcissimo canto
  • risonò per lo cielo, e la mia donna
  • dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».
  • E come a lume acuto si disonna
  • per lo spirto visivo che ricorre
  • a lo splendor che va di gonna in gonna,
  • e lo svegliato ciò che vede aborre,
  • sì nescïa è la sùbita vigilia
  • fin che la stimativa non soccorre;
  • così de li occhi miei ogne quisquilia
  • fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
  • che rifulgea da più di mille milia:
  • onde mei che dinanzi vidi poi;
  • e quasi stupefatto domandai
  • d’un quarto lume ch’io vidi tra noi.
  • E la mia donna: «Dentro da quei rai
  • vagheggia il suo fattor l’anima prima
  • che la prima virtù creasse mai».
  • Come la fronda che flette la cima
  • nel transito del vento, e poi si leva
  • per la propria virtù che la soblima,
  • fec’ io in tanto in quant’ ella diceva,
  • stupendo, e poi mi rifece sicuro
  • un disio di parlare ond’ ïo ardeva.
  • E cominciai: «O pomo che maturo
  • solo prodotto fosti, o padre antico
  • a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
  • divoto quanto posso a te supplìco
  • perché mi parli: tu vedi mia voglia,
  • e per udirti tosto non la dico».
  • Talvolta un animal coverto broglia,
  • sì che l’affetto convien che si paia
  • per lo seguir che face a lui la ’nvoglia;
  • e similmente l’anima primaia
  • mi facea trasparer per la coverta
  • quant’ ella a compiacermi venìa gaia.
  • Indi spirò: «Sanz’ essermi proferta
  • da te, la voglia tua discerno meglio
  • che tu qualunque cosa t’è più certa;
  • perch’ io la veggio nel verace speglio
  • che fa di sé pareglio a l’altre cose,
  • e nulla face lui di sé pareglio.
  • Tu vuogli udir quant’ è che Dio mi puose
  • ne l’eccelso giardino, ove costei
  • a così lunga scala ti dispuose,
  • e quanto fu diletto a li occhi miei,
  • e la propria cagion del gran disdegno,
  • e l’idïoma ch’usai e che fei.
  • Or, figluol mio, non il gustar del legno
  • fu per sé la cagion di tanto essilio,
  • ma solamente il trapassar del segno.
  • Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
  • quattromilia trecento e due volumi
  • di sol desiderai questo concilio;
  • e vidi lui tornare a tutt’ i lumi
  • de la sua strada novecento trenta
  • fïate, mentre ch’ïo in terra fu’mi.
  • La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
  • innanzi che a l’ovra inconsummabile
  • fosse la gente di Nembròt attenta:
  • ché nullo effetto mai razïonabile,
  • per lo piacere uman che rinovella
  • seguendo il cielo, sempre fu durabile.
  • Opera naturale è ch’uom favella;
  • ma così o così, natura lascia
  • poi fare a voi secondo che v’abbella.
  • Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
  • I s’appellava in terra il sommo bene
  • onde vien la letizia che mi fascia;
  • e El si chiamò poi: e ciò convene,
  • ché l’uso d’i mortali è come fronda
  • in ramo, che sen va e altra vene.
  • Nel monte che si leva più da l’onda,
  • fu’ io, con vita pura e disonesta,
  • da la prim’ ora a quella che seconda,
  • come ’l sol muta quadra, l’ora sesta».
  • Paradiso • Canto XXVII
  • ‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
  • cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso,
  • sì che m’inebrïava il dolce canto.
  • Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
  • de l’universo; per che mia ebbrezza
  • intrava per l’udire e per lo viso.
  • Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
  • oh vita intègra d’amore e di pace!
  • oh sanza brama sicura ricchezza!
  • Dinanzi a li occhi miei le quattro face
  • stavano accese, e quella che pria venne
  • incominciò a farsi più vivace,
  • e tal ne la sembianza sua divenne,
  • qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte
  • fossero augelli e cambiassersi penne.
  • La provedenza, che quivi comparte
  • vice e officio, nel beato coro
  • silenzio posto avea da ogne parte,
  • quand’ ïo udi’: «Se io mi trascoloro,
  • non ti maravigliar, ché, dicend’ io,
  • vedrai trascolorar tutti costoro.
  • Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
  • il luogo mio, il luogo mio, che vaca
  • ne la presenza del Figliuol di Dio,
  • fatt’ ha del cimitero mio cloaca
  • del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
  • che cadde di qua sù, là giù si placa».
  • Di quel color che per lo sole avverso
  • nube dipigne da sera e da mane,
  • vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso.
  • E come donna onesta che permane
  • di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
  • pur ascoltando, timida si fane,
  • così Beatrice trasmutò sembianza;
  • e tale eclissi credo che ’n ciel fue
  • quando patì la supprema possanza.
  • Poi procedetter le parole sue
  • con voce tanto da sé trasmutata,
  • che la sembianza non si mutò piùe:
  • «Non fu la sposa di Cristo allevata
  • del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
  • per essere ad acquisto d’oro usata;
  • ma per acquisto d’esto viver lieto
  • e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
  • sparser lo sangue dopo molto fleto.
  • Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
  • d’i nostri successor parte sedesse,
  • parte da l’altra del popol cristiano;
  • né che le chiavi che mi fuor concesse,
  • divenisser signaculo in vessillo
  • che contra battezzati combattesse;
  • né ch’io fossi figura di sigillo
  • a privilegi venduti e mendaci,
  • ond’ io sovente arrosso e disfavillo.
  • In vesta di pastor lupi rapaci
  • si veggion di qua sù per tutti i paschi:
  • o difesa di Dio, perché pur giaci?
  • Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
  • s’apparecchian di bere: o buon principio,
  • a che vil fine convien che tu caschi!
  • Ma l’alta provedenza, che con Scipio
  • difese a Roma la gloria del mondo,
  • soccorrà tosto, sì com’ io concipio;
  • e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
  • ancor giù tornerai, apri la bocca,
  • e non asconder quel ch’io non ascondo».
  • Sì come di vapor gelati fiocca
  • in giuso l’aere nostro, quando ’l corno
  • de la capra del ciel col sol si tocca,
  • in sù vid’ io così l’etera addorno
  • farsi e fioccar di vapor trïunfanti
  • che fatto avien con noi quivi soggiorno.
  • Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
  • e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto,
  • li tolse il trapassar del più avanti.
  • Onde la donna, che mi vide assolto
  • de l’attendere in sù, mi disse: «Adima
  • il viso e guarda come tu se’ vòlto».
  • Da l’ora ch’ïo avea guardato prima
  • i’ vidi mosso me per tutto l’arco
  • che fa dal mezzo al fine il primo clima;
  • sì ch’io vedea di là da Gade il varco
  • folle d’Ulisse, e di qua presso il lito
  • nel qual si fece Europa dolce carco.
  • E più mi fora discoverto il sito
  • di questa aiuola; ma ’l sol procedea
  • sotto i mie’ piedi un segno e più partito.
  • La mente innamorata, che donnea
  • con la mia donna sempre, di ridure
  • ad essa li occhi più che mai ardea;
  • e se natura o arte fé pasture
  • da pigliare occhi, per aver la mente,
  • in carne umana o ne le sue pitture,
  • tutte adunate, parrebber nïente
  • ver’ lo piacer divin che mi refulse,
  • quando mi volsi al suo viso ridente.
  • E la virtù che lo sguardo m’indulse,
  • del bel nido di Leda mi divelse,
  • e nel ciel velocissimo m’impulse.
  • Le parti sue vivissime ed eccelse
  • sì uniforme son, ch’i’ non so dire
  • qual Bëatrice per loco mi scelse.
  • Ma ella, che vedëa ’l mio disire,
  • incominciò, ridendo tanto lieta,
  • che Dio parea nel suo volto gioire:
  • «La natura del mondo, che quïeta
  • il mezzo e tutto l’altro intorno move,
  • quinci comincia come da sua meta;
  • e questo cielo non ha altro dove
  • che la mente divina, in che s’accende
  • l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove.
  • Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
  • sì come questo li altri; e quel precinto
  • colui che ’l cinge solamente intende.
  • Non è suo moto per altro distinto,
  • ma li altri son mensurati da questo,
  • sì come diece da mezzo e da quinto;
  • e come il tempo tegna in cotal testo
  • le sue radici e ne li altri le fronde,
  • omai a te può esser manifesto.
  • Oh cupidigia che i mortali affonde
  • sì sotto te, che nessuno ha podere
  • di trarre li occhi fuor de le tue onde!
  • Ben fiorisce ne li uomini il volere;
  • ma la pioggia continüa converte
  • in bozzacchioni le sosine vere.
  • Fede e innocenza son reperte
  • solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
  • pria fugge che le guance sian coperte.
  • Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
  • che poi divora, con la lingua sciolta,
  • qualunque cibo per qualunque luna;
  • e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
  • la madre sua, che, con loquela intera,
  • disïa poi di vederla sepolta.
  • Così si fa la pelle bianca nera
  • nel primo aspetto de la bella figlia
  • di quel ch’apporta mane e lascia sera.
  • Tu, perché non ti facci maraviglia,
  • pensa che ’n terra non è chi governi;
  • onde sì svïa l’umana famiglia.
  • Ma prima che gennaio tutto si sverni
  • per la centesma ch’è là giù negletta,
  • raggeran sì questi cerchi superni,
  • che la fortuna che tanto s’aspetta,
  • le poppe volgerà u’ son le prore,
  • sì che la classe correrà diretta;
  • e vero frutto verrà dopo ’l fiore».
  • Paradiso • Canto XXVIII
  • Poscia che ’ncontro a la vita presente
  • d’i miseri mortali aperse ’l vero
  • quella che ’mparadisa la mia mente,
  • come in lo specchio fiamma di doppiero
  • vede colui che se n’alluma retro,
  • prima che l’abbia in vista o in pensiero,
  • e sé rivolge per veder se ’l vetro
  • li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
  • con esso come nota con suo metro;
  • così la mia memoria si ricorda
  • ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
  • onde a pigliarmi fece Amor la corda.
  • E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
  • li miei da ciò che pare in quel volume,
  • quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
  • un punto vidi che raggiava lume
  • acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
  • chiuder conviensi per lo forte acume;
  • e quale stella par quinci più poca,
  • parrebbe luna, locata con esso
  • come stella con stella si collòca.
  • Forse cotanto quanto pare appresso
  • alo cigner la luce che ’l dipigne
  • quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,
  • distante intorno al punto un cerchio d’igne
  • si girava sì ratto, ch’avria vinto
  • quel moto che più tosto il mondo cigne;
  • e questo era d’un altro circumcinto,
  • e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
  • dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
  • Sopra seguiva il settimo sì sparto
  • già di larghezza, che ’l messo di Iuno
  • intero a contenerlo sarebbe arto.
  • Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
  • più tardo si movea, secondo ch’era
  • in numero distante più da l’uno;
  • e quello avea la fiamma più sincera
  • cui men distava la favilla pura,
  • credo, però che più di lei s’invera.
  • La donna mia, che mi vedëa in cura
  • forte sospeso, disse: «Da quel punto
  • depende il cielo e tutta la natura.
  • Mira quel cerchio che più li è congiunto;
  • e sappi che ’l suo muovere è sì tosto
  • per l’affocato amore ond’ elli è punto».
  • E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto
  • con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
  • sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto;
  • ma nel mondo sensibile si puote
  • veder le volte tanto più divine,
  • quant’ elle son dal centro più remote.
  • Onde, se ’l mio disir dee aver fine
  • in questo miro e angelico templo
  • che solo amore e luce ha per confine,
  • udir convienmi ancor come l’essemplo
  • e l’essemplare non vanno d’un modo,
  • ché io per me indarno a ciò contemplo».
  • «Se li tuoi diti non sono a tal nodo
  • sufficïenti, non è maraviglia:
  • tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
  • Così la donna mia; poi disse: «Piglia
  • quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
  • e intorno da esso t’assottiglia.
  • Li cerchi corporai sono ampi e arti
  • secondo il più e ’l men de la virtute
  • che si distende per tutte lor parti.
  • Maggior bontà vuol far maggior salute;
  • maggior salute maggior corpo cape,
  • s’elli ha le parti igualmente compiute.
  • Dunque costui che tutto quanto rape
  • l’altro universo seco, corrisponde
  • al cerchio che più ama e che più sape:
  • per che, se tu a la virtù circonde
  • la tua misura, non a la parvenza
  • de le sustanze che t’appaion tonde,
  • tu vederai mirabil consequenza
  • di maggio a più e di minore a meno,
  • in ciascun cielo, a süa intelligenza».
  • Come rimane splendido e sereno
  • l’emisperio de l’aere, quando soffia
  • Borea da quella guancia ond’ è più leno,
  • per che si purga e risolve la roffia
  • che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride
  • con le bellezze d’ogne sua paroffia;
  • così fec’ïo, poi che mi provide
  • la donna mia del suo risponder chiaro,
  • e come stella in cielo il ver si vide.
  • E poi che le parole sue restaro,
  • non altrimenti ferro disfavilla
  • che bolle, come i cerchi sfavillaro.
  • L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
  • ed eran tante, che ’l numero loro
  • più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.
  • Io sentiva osannar di coro in coro
  • al punto fisso che li tiene a li ubi,
  • e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.
  • E quella che vedëa i pensier dubi
  • ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
  • t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
  • Così veloci seguono i suoi vimi,
  • per somigliarsi al punto quanto ponno;
  • e posson quanto a veder son soblimi.
  • Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
  • si chiaman Troni del divino aspetto,
  • per che ’l primo ternaro terminonno;
  • e dei saper che tutti hanno diletto
  • quanto la sua veduta si profonda
  • nel vero in che si queta ogne intelletto.
  • Quinci si può veder come si fonda
  • l’esser beato ne l’atto che vede,
  • non in quel ch’ama, che poscia seconda;
  • e del vedere è misura mercede,
  • che grazia partorisce e buona voglia:
  • così di grado in grado si procede.
  • L’altro ternaro, che così germoglia
  • in questa primavera sempiterna
  • che notturno Arïete non dispoglia,
  • perpetüalemente ‘Osanna’ sberna
  • con tre melode, che suonano in tree
  • ordini di letizia onde s’interna.
  • In essa gerarcia son l’altre dee:
  • prima Dominazioni, e poi Virtudi;
  • l’ordine terzo di Podestadi èe.
  • Poscia ne’ due penultimi tripudi
  • Principati e Arcangeli si girano;
  • l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
  • Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
  • e di giù vincon sì, che verso Dio
  • tutti tirati sono e tutti tirano.
  • E Dïonisio con tanto disio
  • a contemplar questi ordini si mise,
  • che li nomò e distinse com’ io.
  • Ma Gregorio da lui poi si divise;
  • onde, sì tosto come li occhi aperse
  • in questo ciel, di sé medesmo rise.
  • E se tanto secreto ver proferse
  • mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
  • ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse
  • con altro assai del ver di questi giri».
  • Paradiso • Canto XXIX
  • Quando ambedue li figli di Latona,
  • coperti del Montone e de la Libra,
  • fanno de l’orizzonte insieme zona,
  • quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
  • infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
  • cambiando l’emisperio, si dilibra,
  • tanto, col volto di riso dipinto,
  • si tacque Bëatrice, riguardando
  • fiso nel punto che m’avëa vinto.
  • Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
  • quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto
  • là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.
  • Non per aver a sé di bene acquisto,
  • ch’esser non può, ma perché suo splendore
  • potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
  • in sua etternità di tempo fore,
  • fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
  • s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
  • Né prima quasi torpente si giacque;
  • ché né prima né poscia procedette
  • lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.
  • Forma e materia, congiunte e purette,
  • usciro ad esser che non avia fallo,
  • come d’arco tricordo tre saette.
  • E come in vetro, in ambra o in cristallo
  • raggio resplende sì, che dal venire
  • a l’esser tutto non è intervallo,
  • così ’l triforme effetto del suo sire
  • ne l’esser suo raggiò insieme tutto
  • sanza distinzïone in essordire.
  • Concreato fu ordine e costrutto
  • a le sustanze; e quelle furon cima
  • nel mondo in che puro atto fu produtto;
  • pura potenza tenne la parte ima;
  • nel mezzo strinse potenza con atto
  • tal vime, che già mai non si divima.
  • Ieronimo vi scrisse lungo tratto
  • di secoli de li angeli creati
  • anzi che l’altro mondo fosse fatto;
  • ma questo vero è scritto in molti lati
  • da li scrittor de lo Spirito Santo,
  • e tu te n’avvedrai se bene agguati;
  • e anche la ragione il vede alquanto,
  • che non concederebbe che ’ motori
  • sanza sua perfezion fosser cotanto.
  • Or sai tu dove e quando questi amori
  • furon creati e come: sì che spenti
  • nel tuo disïo già son tre ardori.
  • Né giugneriesi, numerando, al venti
  • sì tosto, come de li angeli parte
  • turbò il suggetto d’i vostri alimenti.
  • L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
  • che tu discerni, con tanto diletto,
  • che mai da circüir non si diparte.
  • Principio del cader fu il maladetto
  • superbir di colui che tu vedesti
  • da tutti i pesi del mondo costretto.
  • Quelli che vedi qui furon modesti
  • a riconoscer sé da la bontate
  • che li avea fatti a tanto intender presti:
  • per che le viste lor furo essaltate
  • con grazia illuminante e con lor merto,
  • si c’hanno ferma e piena volontate;
  • e non voglio che dubbi, ma sia certo,
  • che ricever la grazia è meritorio
  • secondo che l’affetto l’è aperto.
  • Omai dintorno a questo consistorio
  • puoi contemplare assai, se le parole
  • mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.
  • Ma perché ’n terra per le vostre scole
  • si legge che l’angelica natura
  • è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,
  • ancor dirò, perché tu veggi pura
  • la verità che là giù si confonde,
  • equivocando in sì fatta lettura.
  • Queste sustanze, poi che fur gioconde
  • de la faccia di Dio, non volser viso
  • da essa, da cui nulla si nasconde:
  • però non hanno vedere interciso
  • da novo obietto, e però non bisogna
  • rememorar per concetto diviso;
  • sì che là giù, non dormendo, si sogna,
  • credendo e non credendo dicer vero;
  • ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.
  • Voi non andate giù per un sentiero
  • filosofando: tanto vi trasporta
  • l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!
  • E ancor questo qua sù si comporta
  • con men disdegno che quando è posposta
  • la divina Scrittura o quando è torta.
  • Non vi si pensa quanto sangue costa
  • seminarla nel mondo e quanto piace
  • chi umilmente con essa s’accosta.
  • Per apparer ciascun s’ingegna e face
  • sue invenzioni; e quelle son trascorse
  • da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.
  • Un dice che la luna si ritorse
  • ne la passion di Cristo e s’interpuose,
  • per che ’l lume del sol giù non si porse;
  • e mente, ché la luce si nascose
  • da sé: però a li Spani e a l’Indi
  • come a’ Giudei tale eclissi rispuose.
  • Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
  • quante sì fatte favole per anno
  • in pergamo si gridan quinci e quindi:
  • sì che le pecorelle, che non sanno,
  • tornan del pasco pasciute di vento,
  • e non le scusa non veder lo danno.
  • Non disse Cristo al suo primo convento:
  • ‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
  • ma diede lor verace fondamento;
  • e quel tanto sonò ne le sue guance,
  • sì ch’a pugnar per accender la fede
  • de l’Evangelio fero scudo e lance.
  • Ora si va con motti e con iscede
  • a predicare, e pur che ben si rida,
  • gonfia il cappuccio e più non si richiede.
  • Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
  • che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
  • la perdonanza di ch’el si confida:
  • per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
  • che, sanza prova d’alcun testimonio,
  • ad ogne promession si correrebbe.
  • Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio,
  • e altri assai che sono ancor più porci,
  • pagando di moneta sanza conio.
  • Ma perché siam digressi assai, ritorci
  • li occhi oramai verso la dritta strada,
  • sì che la via col tempo si raccorci.
  • Questa natura sì oltre s’ingrada
  • in numero, che mai non fu loquela
  • né concetto mortal che tanto vada;
  • e se tu guardi quel che si revela
  • per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
  • determinato numero si cela.
  • La prima luce, che tutta la raia,
  • per tanti modi in essa si recepe,
  • quanti son li splendori a chi s’appaia.
  • Onde, però che a l’atto che concepe
  • segue l’affetto, d’amar la dolcezza
  • diversamente in essa ferve e tepe.
  • Vedi l’eccelso omai e la larghezza
  • de l’etterno valor, poscia che tanti
  • speculi fatti s’ha in che si spezza,
  • uno manendo in sé come davanti».
  • Paradiso • Canto XXX
  • Forse semilia miglia di lontano
  • ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
  • china già l’ombra quasi al letto piano,
  • quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
  • comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
  • perde il parere infino a questo fondo;
  • e come vien la chiarissima ancella
  • del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
  • di vista in vista infino a la più bella.
  • Non altrimenti il trïunfo che lude
  • sempre dintorno al punto che mi vinse,
  • parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
  • a poco a poco al mio veder si stinse:
  • per che tornar con li occhi a Bëatrice
  • nulla vedere e amor mi costrinse.
  • Se quanto infino a qui di lei si dice
  • fosse conchiuso tutto in una loda,
  • poca sarebbe a fornir questa vice.
  • La bellezza ch’io vidi si trasmoda
  • non pur di là da noi, ma certo io credo
  • che solo il suo fattor tutta la goda.
  • Da questo passo vinto mi concedo
  • più che già mai da punto di suo tema
  • soprato fosse comico o tragedo:
  • ché, come sole in viso che più trema,
  • così lo rimembrar del dolce riso
  • la mente mia da me medesmo scema.
  • Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
  • in questa vita, infino a questa vista,
  • non m’è il seguire al mio cantar preciso;
  • ma or convien che mio seguir desista
  • più dietro a sua bellezza, poetando,
  • come a l’ultimo suo ciascuno artista.
  • Cotal qual io lascio a maggior bando
  • che quel de la mia tuba, che deduce
  • l’ardüa sua matera terminando,
  • con atto e voce di spedito duce
  • ricominciò: «Noi siamo usciti fore
  • del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
  • luce intellettüal, piena d’amore;
  • amor di vero ben, pien di letizia;
  • letizia che trascende ogne dolzore.
  • Qui vederai l’una e l’altra milizia
  • di paradiso, e l’una in quelli aspetti
  • che tu vedrai a l’ultima giustizia».
  • Come sùbito lampo che discetti
  • li spiriti visivi, sì che priva
  • da l’atto l’occhio di più forti obietti,
  • così mi circunfulse luce viva,
  • e lasciommi fasciato di tal velo
  • del suo fulgor, che nulla m’appariva.
  • «Sempre l’amor che queta questo cielo
  • accoglie in sé con sì fatta salute,
  • per far disposto a sua fiamma il candelo».
  • Non fur più tosto dentro a me venute
  • queste parole brievi, ch’io compresi
  • me sormontar di sopr’ a mia virtute;
  • e di novella vista mi raccesi
  • tale, che nulla luce è tanto mera,
  • che li occhi miei non si fosser difesi;
  • e vidi lume in forma di rivera
  • fulvido di fulgore, intra due rive
  • dipinte di mirabil primavera.
  • Di tal fiumana uscian faville vive,
  • e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
  • quasi rubin che oro circunscrive;
  • poi, come inebrïate da li odori,
  • riprofondavan sé nel miro gurge,
  • e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
  • «L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
  • d’aver notizia di ciò che tu vei,
  • tanto mi piace più quanto più turge;
  • ma di quest’ acqua convien che tu bei
  • prima che tanta sete in te si sazi»:
  • così mi disse il sol de li occhi miei.
  • Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
  • ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
  • son di lor vero umbriferi prefazi.
  • Non che da sé sian queste cose acerbe;
  • ma è difetto da la parte tua,
  • che non hai viste ancor tanto superbe».
  • Non è fantin che sì sùbito rua
  • col volto verso il latte, se si svegli
  • molto tardato da l’usanza sua,
  • come fec’ io, per far migliori spegli
  • ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
  • che si deriva perché vi s’immegli;
  • e sì come di lei bevve la gronda
  • de le palpebre mie, così mi parve
  • di sua lunghezza divenuta tonda.
  • Poi, come gente stata sotto larve,
  • che pare altro che prima, se si sveste
  • la sembianza non süa in che disparve,
  • così mi si cambiaro in maggior feste
  • li fiori e le faville, sì ch’io vidi
  • ambo le corti del ciel manifeste.
  • O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
  • l’alto trïunfo del regno verace,
  • dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
  • Lume è là sù che visibile face
  • lo creatore a quella creatura
  • che solo in lui vedere ha la sua pace.
  • E’ si distende in circular figura,
  • in tanto che la sua circunferenza
  • sarebbe al sol troppo larga cintura.
  • Fassi di raggio tutta sua parvenza
  • reflesso al sommo del mobile primo,
  • che prende quindi vivere e potenza.
  • E come clivo in acqua di suo imo
  • si specchia, quasi per vedersi addorno,
  • quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
  • sì, soprastando al lume intorno intorno,
  • vidi specchiarsi in più di mille soglie
  • quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
  • E se l’infimo grado in sé raccoglie
  • sì grande lume, quanta è la larghezza
  • di questa rosa ne l’estreme foglie!
  • La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
  • non si smarriva, ma tutto prendeva
  • il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
  • Presso e lontano, lì, né pon né leva:
  • ché dove Dio sanza mezzo governa,
  • la legge natural nulla rileva.
  • Nel giallo de la rosa sempiterna,
  • che si digrada e dilata e redole
  • odor di lode al sol che sempre verna,
  • qual è colui che tace e dicer vole,
  • mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
  • quanto è ’l convento de le bianche stole!
  • Vedi nostra città quant’ ella gira;
  • vedi li nostri scanni sì ripieni,
  • che poca gente più ci si disira.
  • E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
  • per la corona che già v’è sù posta,
  • prima che tu a queste nozze ceni,
  • sederà l’alma, che fia giù agosta,
  • de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
  • verrà in prima ch’ella sia disposta.
  • La cieca cupidigia che v’ammalia
  • simili fatti v’ha al fantolino
  • che muor per fame e caccia via la balia.
  • E fia prefetto nel foro divino
  • allora tal, che palese e coverto
  • non anderà con lui per un cammino.
  • Ma poco poi sarà da Dio sofferto
  • nel santo officio; ch’el sarà detruso
  • là dove Simon mago è per suo merto,
  • e farà quel d’Alagna intrar più giuso».
  • Paradiso • Canto XXXI
  • In forma dunque di candida rosa
  • mi si mostrava la milizia santa
  • che nel suo sangue Cristo fece sposa;
  • ma l’altra, che volando vede e canta
  • la gloria di colui che la ’nnamora
  • e la bontà che la fece cotanta,
  • sì come schiera d’ape che s’infiora
  • una fïata e una si ritorna
  • là dove suo laboro s’insapora,
  • nel gran fior discendeva che s’addorna
  • di tante foglie, e quindi risaliva
  • là dove ’l süo amor sempre soggiorna.
  • Le facce tutte avean di fiamma viva
  • e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
  • che nulla neve a quel termine arriva.
  • Quando scendean nel fior, di banco in banco
  • porgevan de la pace e de l’ardore
  • ch’elli acquistavan ventilando il fianco.
  • Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore
  • di tanta moltitudine volante
  • impediva la vista e lo splendore:
  • ché la luce divina è penetrante
  • per l’universo secondo ch’è degno,
  • sì che nulla le puote essere ostante.
  • Questo sicuro e gaudïoso regno,
  • frequente in gente antica e in novella,
  • viso e amore avea tutto ad un segno.
  • O trina luce che ’n unica stella
  • scintillando a lor vista, sì li appaga!
  • guarda qua giuso a la nostra procella!
  • Se i barbari, venendo da tal plaga
  • che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
  • rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,
  • veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
  • stupefaciensi, quando Laterano
  • a le cose mortali andò di sopra;
  • ïo, che al divino da l’umano,
  • a l’etterno dal tempo era venuto,
  • e di Fiorenza in popol giusto e sano,
  • di che stupor dovea esser compiuto!
  • Certo tra esso e ’l gaudio mi facea
  • libito non udire e starmi muto.
  • E quasi peregrin che si ricrea
  • nel tempio del suo voto riguardando,
  • e spera già ridir com’ ello stea,
  • su per la viva luce passeggiando,
  • menava ïo li occhi per li gradi,
  • mo sù, mo giù e mo recirculando.
  • Vedëa visi a carità süadi,
  • d’altrui lume fregiati e di suo riso,
  • e atti ornati di tutte onestadi.
  • La forma general di paradiso
  • già tutta mïo sguardo avea compresa,
  • in nulla parte ancor fermato fiso;
  • e volgeami con voglia rïaccesa
  • per domandar la mia donna di cose
  • di che la mente mia era sospesa.
  • Uno intendëa, e altro mi rispuose:
  • credea veder Beatrice e vidi un sene
  • vestito con le genti glorïose.
  • Diffuso era per li occhi e per le gene
  • di benigna letizia, in atto pio
  • quale a tenero padre si convene.
  • E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
  • Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
  • mosse Beatrice me del loco mio;
  • e se riguardi sù nel terzo giro
  • dal sommo grado, tu la rivedrai
  • nel trono che suoi merti le sortiro».
  • Sanza risponder, li occhi sù levai,
  • e vidi lei che si facea corona
  • reflettendo da sé li etterni rai.
  • Da quella regïon che più sù tona
  • occhio mortale alcun tanto non dista,
  • qualunque in mare più giù s’abbandona,
  • quanto lì da Beatrice la mia vista;
  • ma nulla mi facea, ché süa effige
  • non discendëa a me per mezzo mista.
  • «O donna in cui la mia speranza vige,
  • e che soffristi per la mia salute
  • in inferno lasciar le tue vestige,
  • di tante cose quant’ i’ ho vedute,
  • dal tuo podere e da la tua bontate
  • riconosco la grazia e la virtute.
  • Tu m’hai di servo tratto a libertate
  • per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
  • che di ciò fare avei la potestate.
  • La tua magnificenza in me custodi,
  • sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
  • piacente a te dal corpo si disnodi».
  • Così orai; e quella, sì lontana
  • come parea, sorrise e riguardommi;
  • poi si tornò a l’etterna fontana.
  • E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi
  • perfettamente», disse, «il tuo cammino,
  • a che priego e amor santo mandommi,
  • vola con li occhi per questo giardino;
  • ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
  • più al montar per lo raggio divino.
  • E la regina del cielo, ond’ ïo ardo
  • tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
  • però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».
  • Qual è colui che forse di Croazia
  • viene a veder la Veronica nostra,
  • che per l’antica fame non sen sazia,
  • ma dice nel pensier, fin che si mostra:
  • ‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
  • or fu sì fatta la sembianza vostra?’;
  • tal era io mirando la vivace
  • carità di colui che ’n questo mondo,
  • contemplando, gustò di quella pace.
  • «Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo»,
  • cominciò elli, «non ti sarà noto,
  • tenendo li occhi pur qua giù al fondo;
  • ma guarda i cerchi infino al più remoto,
  • tanto che veggi seder la regina
  • cui questo regno è suddito e devoto».
  • Io levai li occhi; e come da mattina
  • la parte orïental de l’orizzonte
  • soverchia quella dove ’l sol declina,
  • così, quasi di valle andando a monte
  • con li occhi, vidi parte ne lo stremo
  • vincer di lume tutta l’altra fronte.
  • E come quivi ove s’aspetta il temo
  • che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
  • e quinci e quindi il lume si fa scemo,
  • così quella pacifica oriafiamma
  • nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
  • per igual modo allentava la fiamma;
  • e a quel mezzo, con le penne sparte,
  • vid’ io più di mille angeli festanti,
  • ciascun distinto di fulgore e d’arte.
  • Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
  • ridere una bellezza, che letizia
  • era ne li occhi a tutti li altri santi;
  • e s’io avessi in dir tanta divizia
  • quanta ad imaginar, non ardirei
  • lo minimo tentar di sua delizia.
  • Bernardo, come vide li occhi miei
  • nel caldo suo caler fissi e attenti,
  • li suoi con tanto affetto volse a lei,
  • che ’ miei di rimirar fé più ardenti.
  • Paradiso • Canto XXXII
  • Affetto al suo piacer, quel contemplante
  • libero officio di dottore assunse,
  • e cominciò queste parole sante:
  • «La piaga che Maria richiuse e unse,
  • quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
  • è colei che l’aperse e che la punse.
  • Ne l’ordine che fanno i terzi sedi,
  • siede Rachel di sotto da costei
  • con Bëatrice, sì come tu vedi.
  • Sarra e Rebecca, Iudìt e colei
  • che fu bisava al cantor che per doglia
  • del fallo disse ‘Miserere mei’,
  • puoi tu veder così di soglia in soglia
  • giù digradar, com’ io ch’a proprio nome
  • vo per la rosa giù di foglia in foglia.
  • E dal settimo grado in giù, sì come
  • infino ad esso, succedono Ebree,
  • dirimendo del fior tutte le chiome;
  • perché, secondo lo sguardo che fée
  • la fede in Cristo, queste sono il muro
  • a che si parton le sacre scalee.
  • Da questa parte onde ’l fiore è maturo
  • di tutte le sue foglie, sono assisi
  • quei che credettero in Cristo venturo;
  • da l’altra parte onde sono intercisi
  • di vòti i semicirculi, si stanno
  • quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.
  • E come quinci il glorïoso scanno
  • de la donna del cielo e li altri scanni
  • di sotto lui cotanta cerna fanno,
  • così di contra quel del gran Giovanni,
  • che sempre santo ’l diserto e ’l martiro
  • sofferse, e poi l’inferno da due anni;
  • e sotto lui così cerner sortiro
  • Francesco, Benedetto e Augustino
  • e altri fin qua giù di giro in giro.
  • Or mira l’alto proveder divino:
  • ché l’uno e l’altro aspetto de la fede
  • igualmente empierà questo giardino.
  • E sappi che dal grado in giù che fiede
  • a mezzo il tratto le due discrezioni,
  • per nullo proprio merito si siede,
  • ma per l’altrui, con certe condizioni:
  • ché tutti questi son spiriti ascolti
  • prima ch’avesser vere elezïoni.
  • Ben te ne puoi accorger per li volti
  • e anche per le voci püerili,
  • se tu li guardi bene e se li ascolti.
  • Or dubbi tu e dubitando sili;
  • ma io discioglierò ’l forte legame
  • in che ti stringon li pensier sottili.
  • Dentro a l’ampiezza di questo reame
  • casüal punto non puote aver sito,
  • se non come tristizia o sete o fame:
  • ché per etterna legge è stabilito
  • quantunque vedi, sì che giustamente
  • ci si risponde da l’anello al dito;
  • e però questa festinata gente
  • a vera vita non è sine causa
  • intra sé qui più e meno eccellente.
  • Lo rege per cui questo regno pausa
  • in tanto amore e in tanto diletto,
  • che nulla volontà è di più ausa,
  • le menti tutte nel suo lieto aspetto
  • creando, a suo piacer di grazia dota
  • diversamente; e qui basti l’effetto.
  • E ciò espresso e chiaro vi si nota
  • ne la Scrittura santa in quei gemelli
  • che ne la madre ebber l’ira commota.
  • Però, secondo il color d’i capelli,
  • di cotal grazia l’altissimo lume
  • degnamente convien che s’incappelli.
  • Dunque, sanza mercé di lor costume,
  • locati son per gradi differenti,
  • sol differendo nel primiero acume.
  • Bastavasi ne’ secoli recenti
  • con l’innocenza, per aver salute,
  • solamente la fede d’i parenti;
  • poi che le prime etadi fuor compiute,
  • convenne ai maschi a l’innocenti penne
  • per circuncidere acquistar virtute;
  • ma poi che ’l tempo de la grazia venne,
  • sanza battesmo perfetto di Cristo
  • tale innocenza là giù si ritenne.
  • Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
  • più si somiglia, ché la sua chiarezza
  • sola ti può disporre a veder Cristo».
  • Io vidi sopra lei tanta allegrezza
  • piover, portata ne le menti sante
  • create a trasvolar per quella altezza,
  • che quantunque io avea visto davante,
  • di tanta ammirazion non mi sospese,
  • né mi mostrò di Dio tanto sembiante;
  • e quello amor che primo lì discese,
  • cantando ‘Ave, Maria, gratïa plena’,
  • dinanzi a lei le sue ali distese.
  • Rispuose a la divina cantilena
  • da tutte parti la beata corte,
  • sì ch’ogne vista sen fé più serena.
  • «O santo padre, che per me comporte
  • l’esser qua giù, lasciando il dolce loco
  • nel qual tu siedi per etterna sorte,
  • qual è quell’ angel che con tanto gioco
  • guarda ne li occhi la nostra regina,
  • innamorato sì che par di foco?».
  • Così ricorsi ancora a la dottrina
  • di colui ch’abbelliva di Maria,
  • come del sole stella mattutina.
  • Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria
  • quant’ esser puote in angelo e in alma,
  • tutta è in lui; e sì volem che sia,
  • perch’ elli è quelli che portò la palma
  • giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio
  • carcar si volse de la nostra salma.
  • Ma vieni omai con li occhi sì com’ io
  • andrò parlando, e nota i gran patrici
  • di questo imperio giustissimo e pio.
  • Quei due che seggon là sù più felici
  • per esser propinquissimi ad Agusta,
  • son d’esta rosa quasi due radici:
  • colui che da sinistra le s’aggiusta
  • è il padre per lo cui ardito gusto
  • l’umana specie tanto amaro gusta;
  • dal destro vedi quel padre vetusto
  • di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
  • raccomandò di questo fior venusto.
  • E quei che vide tutti i tempi gravi,
  • pria che morisse, de la bella sposa
  • che s’acquistò con la lancia e coi clavi,
  • siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
  • quel duca sotto cui visse di manna
  • la gente ingrata, mobile e retrosa.
  • Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,
  • tanto contenta di mirar sua figlia,
  • che non move occhio per cantare osanna;
  • e contro al maggior padre di famiglia
  • siede Lucia, che mosse la tua donna
  • quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
  • Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
  • qui farem punto, come buon sartore
  • che com’ elli ha del panno fa la gonna;
  • e drizzeremo li occhi al primo amore,
  • sì che, guardando verso lui, penètri
  • quant’ è possibil per lo suo fulgore.
  • Veramente, ne forse tu t’arretri
  • movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
  • orando grazia conven che s’impetri
  • grazia da quella che puote aiutarti;
  • e tu mi seguirai con l’affezione,
  • sì che dal dicer mio lo cor non parti».
  • E cominciò questa santa orazione:
  • Paradiso • Canto XXXIII
  • «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
  • umile e alta più che creatura,
  • termine fisso d’etterno consiglio,
  • tu se’ colei che l’umana natura
  • nobilitasti sì, che ’l suo fattore
  • non disdegnò di farsi sua fattura.
  • Nel ventre tuo si raccese l’amore,
  • per lo cui caldo ne l’etterna pace
  • così è germinato questo fiore.
  • Qui se’ a noi meridïana face
  • di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
  • se’ di speranza fontana vivace.
  • Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
  • che qual vuol grazia e a te non ricorre,
  • sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
  • La tua benignità non pur soccorre
  • a chi domanda, ma molte fïate
  • liberamente al dimandar precorre.
  • In te misericordia, in te pietate,
  • in te magnificenza, in te s’aduna
  • quantunque in creatura è di bontate.
  • Or questi, che da l’infima lacuna
  • de l’universo infin qui ha vedute
  • le vite spiritali ad una ad una,
  • supplica a te, per grazia, di virtute
  • tanto, che possa con li occhi levarsi
  • più alto verso l’ultima salute.
  • E io, che mai per mio veder non arsi
  • più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
  • ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
  • perché tu ogne nube li disleghi
  • di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
  • sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
  • Ancor ti priego, regina, che puoi
  • ciò che tu vuoli, che conservi sani,
  • dopo tanto veder, li affetti suoi.
  • Vinca tua guardia i movimenti umani:
  • vedi Beatrice con quanti beati
  • per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
  • Li occhi da Dio diletti e venerati,
  • fissi ne l’orator, ne dimostraro
  • quanto i devoti prieghi le son grati;
  • indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
  • nel qual non si dee creder che s’invii
  • per creatura l’occhio tanto chiaro.
  • E io ch’al fine di tutt’ i disii
  • appropinquava, sì com’ io dovea,
  • l’ardor del desiderio in me finii.
  • Bernardo m’accennava, e sorridea,
  • perch’ io guardassi suso; ma io era
  • già per me stesso tal qual ei volea:
  • ché la mia vista, venendo sincera,
  • e più e più intrava per lo raggio
  • de l’alta luce che da sé è vera.
  • Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
  • che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
  • e cede la memoria a tanto oltraggio.
  • Qual è colüi che sognando vede,
  • che dopo ’l sogno la passione impressa
  • rimane, e l’altro a la mente non riede,
  • cotal son io, ché quasi tutta cessa
  • mia visïone, e ancor mi distilla
  • nel core il dolce che nacque da essa.
  • Così la neve al sol si disigilla;
  • così al vento ne le foglie levi
  • si perdea la sentenza di Sibilla.
  • O somma luce che tanto ti levi
  • da’ concetti mortali, a la mia mente
  • ripresta un poco di quel che parevi,
  • e fa la lingua mia tanto possente,
  • ch’una favilla sol de la tua gloria
  • possa lasciare a la futura gente;
  • ché, per tornare alquanto a mia memoria
  • e per sonare un poco in questi versi,
  • più si conceperà di tua vittoria.
  • Io credo, per l’acume ch’io soffersi
  • del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
  • se li occhi miei da lui fossero aversi.
  • E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
  • per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
  • l’aspetto mio col valore infinito.
  • Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
  • ficcar lo viso per la luce etterna,
  • tanto che la veduta vi consunsi!
  • Nel suo profondo vidi che s’interna,
  • legato con amore in un volume,
  • ciò che per l’universo si squaderna:
  • sustanze e accidenti e lor costume
  • quasi conflati insieme, per tal modo
  • che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
  • La forma universal di questo nodo
  • credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
  • dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
  • Un punto solo m’è maggior letargo
  • che venticinque secoli a la ’mpresa
  • che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
  • Così la mente mia, tutta sospesa,
  • mirava fissa, immobile e attenta,
  • e sempre di mirar faceasi accesa.
  • A quella luce cotal si diventa,
  • che volgersi da lei per altro aspetto
  • è impossibil che mai si consenta;
  • però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
  • tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
  • è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
  • Omai sarà più corta mia favella,
  • pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
  • che bagni ancor la lingua a la mammella.
  • Non perché più ch’un semplice sembiante
  • fosse nel vivo lume ch’io mirava,
  • che tal è sempre qual s’era davante;
  • ma per la vista che s’avvalorava
  • in me guardando, una sola parvenza,
  • mutandom’ io, a me si travagliava.
  • Ne la profonda e chiara sussistenza
  • de l’alto lume parvermi tre giri
  • di tre colori e d’una contenenza;
  • e l’un da l’altro come iri da iri
  • parea reflesso, e ’l terzo parea foco
  • che quinci e quindi igualmente si spiri.
  • Oh quanto è corto il dire e come fioco
  • al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
  • è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.
  • O luce etterna che sola in te sidi,
  • sola t’intendi, e da te intelletta
  • e intendente te ami e arridi!
  • Quella circulazion che sì concetta
  • pareva in te come lume reflesso,
  • da li occhi miei alquanto circunspetta,
  • dentro da sé, del suo colore stesso,
  • mi parve pinta de la nostra effige:
  • per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
  • Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
  • per misurar lo cerchio, e non ritrova,
  • pensando, quel principio ond’ elli indige,
  • tal era io a quella vista nova:
  • veder voleva come si convenne
  • l’imago al cerchio e come vi s’indova;
  • ma non eran da ciò le proprie penne:
  • se non che la mia mente fu percossa
  • da un fulgore in che sua voglia venne.
  • A l’alta fantasia qui mancò possa;
  • ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
  • sì come rota ch’igualmente è mossa,
  • l’amor che move il sole e l’altre stelle.
  • - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
  • TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI
  • TABLE OF SPECIAL CHARACTERS
  • à = a grave
  • è = e grave
  • ì = i grave
  • ò = o grave
  • ù = u grave
  • é = e acute
  • ó = o acute
  • ä = a uml
  • ë = e uml
  • ï = i uml
  • ö = o uml
  • ü = u uml
  • È = E grave
  • Ë = E uml
  • Ï = I uml
  • « = left angle quotation mark
  • » = right angle quotation mark
  • “ = left double quotation mark
  • ” = right double quotation mark
  • ‘ = left single quotation mark
  • ’ = right single quotation mark
  • — = em dash
  • • = middot
  • . . . = ellipsis
  • End of Project Gutenberg's La Divina Commedia di Dante, by Dante Alighieri
  • *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ***
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