- La Teseide
- Giovanni Boccaccio
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- LA
- Teseide
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- NUOVAMENTE CORRETTA SU I TESTI A PENNA
- Firenze
- PER IG. MOUTIER
- 1831.
- Indice
- Frontespizio del vol. IX
- Frontespizio
- Avvertimento
- La Teseide
- A Fiammetta
- Argomento
- Libro primo
- Libro secondo
- Libro terzo
- Libro quarto
- Libro quinto
- Libro sesto
- Libro settimo
- Libro ottavo
- Libro nono
- Libro decimo
- Libro undecimo
- Libro duodecimo
- Sonetto alle Muse
- Risposta delle Muse
- OPERE
- VOLGARI
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- CORRETTE SU I TESTI A PENNA
- * * *
- EDIZIONE PRIMA
- * * *
- VOL. IX.
- FIRENZE
- PER IG. MOUTIER
- MDCCCXXXI.
- Col benigno Sovrano rescritto del dì 9 Giugno 1826, fu conceduta ad Ignazio Moutier la privativa per anni otto della stampa delle Opere volgari di Giovanni Boccaccio.
- IMPRESSO CON I TORCHI
- DELLA
- STAMPERIA MAGHERI
- LA
- Teseide
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- NUOVAMENTE CORRETTA SU I TESTI A PENNA
- Firenze
- PER IG. MOUTIER
- 1831.
- AVVERTIMENTO
- * * *
- Nel riprodurre la Teseide del Boccaccio nuovamente emendata su i manoscritti, e con grandissima diligenza ridotta a sincera lezione, premetto un breve cenno per istruire il lettore del sistema da me osservato per ottenere lo scopo prefissomi. È noto generalmente quanto rare siano l’antiche edizioni di questo poema, giacchè un piccolissimo numero di esemplari adornano poche delle più cospicue biblioteche d’Europa. Da questa loro rarità ne è derivato che pochissimo è stata conosciuta questa poetica fatica del Boccaccio, e pochi studiosi della lingua italiana ebbero tutto l’agio che si conviene a sì fatti studii per conoscere i pregi dei quali abbonda la Teseide del Boccaccio. Benchè sia omai fuori di controversia il principio, che gli scrittori del trecento, e specialmente i toscani, siano i veri fondamenti di nostra lingua, pure vi son sempre, come vi sono stati, dei caldi oppositori di questa massima, ma ciò prova evidentemente che il vero ha sempre delle persone che hanno interesse di combatterlo. Fra i principali scrittori di questo secolo primeggia il Boccaccio, ma non si legge dai più che il suo Decamerone, e v’ha chi ignora che molte altre opere vadano adorne di tanto nome. Ridestatosi col cadere dello scorso secolo l’amore per lo studio degli antichi classici nostri, una critica più ragionata e sottile ne facilitò la pratica nel secolo in cui siamo con accurate edizioni, benchè io sia lungi dall’affermare che quel molto che è stato fatto non risenta forse di troppo dei vecchi pregiudizii e dei nuovi. La mania di riprodurre nelle stampe le storpiature e gli errori degli antichi codici, fa un singolar contrasto con il condannabile principio di coloro che vorrebbero che le antiche scritture fossero riprodotte con l’acconciatura elegante dello scriver moderno, sostituendo cioè alle antiche voci e modi di dire fuori d’uso, le voci e le forme dell’odierna scrittura.
- Io stimo che non siavi proprietà più legittima delle pruduzioni d’ingegno, ed esser perciò reprensibile chiunque attenti all’opere altrui, riproducendole espressamente alterate dal modo col quale furon dettate dal suo autore. E se questo diritto vien reclamato dagli scrittori viventi, con molto maggior ragione dovrebbesi rispettare nelle scritture degli antichi, e principalmente in quelle che sono fondamento e norma di nostra lingua, unico comun patrimonio della nostra bella penisola.
- È tempo omai che gli editori degli antichi classici si convincano, che il più retto e vero principio da tenersi nelle nuove ristampe è quello che ha per unico scopo di riprodurre l’opera altrui nella forma originale con la quale fu dettata, consultando sempre a preferenza i manoscritti che più si approssimano al tempo in cui fiorì lo scrittore, e voler piuttosto conservare qualche periodo duro, o intralciato, e anche scorretto, che aggiungere o variare cosa alcuna a proprio capriccio. Questo religioso sistema di inserire nella stampa le voci tutte come furono dettate originalmente, non è applicabile al modo col quale si trovano scritte, giacchè ognun sa che gli antichi non conoscevano l’ortografia, e i nostri buoni scrittori toscani pronunziavano bene, ma scrivevano male, e lo stesso vediamo tuttora accadere delle persone men culte: onde è chiaro convenire che è dovere del diligente editore di addirizzare quelle voci che si trovano erroneamente scritte, e di soccorrere la scrittura col miglior sistema ortografico, che sarà sempre quello i cui segni agevolano l’intelligenza del testo.
- Non mi occuperò a fare una storia delle antiche e rarissime edizioni della Teseide del Boccaccio per amore di brevità, ma parlerò soltanto dell’ultima eseguita in Milano per il Silvestri nel 1819. Questa edizione fu fatta seguendo esclusivamente la lezione di un codice già appartenuto al conte Camposampiero, il quale ne aveva tratta copia, e confrontatala con altro testo a penna del Sec. XIV. derivante da Ravenna, e con l’edizione di Ferrara del 1475. Questa copia del Camposampiero fu offerta all’editore Silvestri dal dottissimo Sig. Ab. Daniel Francesconi, bibliotecario dell’I.R. Università di Padova, e l’editore si accinse a stamparla, deliberando, com’egli dice, di corredarla delle varie lezioni dell’edizioni e de’ testi a penna, ma l’opera riuscendo di troppa mole, fece la risoluzione di darla finalmente fuori tale quale stava nella copia del codice Camposampiero. Ma disgraziatamente non si avvide che questa copia era una madre tanto sconcia e deforme, che non doveva produrre se non un aborto, e così appunto riuscì la di lui sospirata edizione. Se lo stampatore avesse tratto partito dalle varianti che gli erano state comunicate avrebbe fatto certamente opera migliore, poichè è evidente che il codice Camposampiero è infedele; benchè io abbia sempre un forte dubbio nell’animo che mi spinge a credere, che la copia che servì per la stampa fosse fatta da mano o poco fedele, o poco pratica dell’antica scrittura. Di fatto sono tante e tali le alterazioni che s’incontrano nell’edizione del Silvestri confrontandola con gli antichi codici della Teseide, che io oserei credere che molti sbagli siano derivati da una troppo ardita pratica dell’editore di variare a proprio talento ciò che gli poteva sembrare o duro o errato, e forse anche l’imperizia o la poca cura nel leggere il codice, piuttosto che attribuirli tutti all’antico emanuense. E ciò sia detto per non denigrare alla fama di cui gode il codice Camposampiero, che io non conosco che per l’edizione del Silvestri: ma per confermare col fatto quanto di sopra ho asserito, basterà, io credo, di porre sotto gli occhi del diligente lettore una nota delle principali varianti che s’incontrano fra l’edizione milanese e la presente.1
- Non esistendo nessun codice autografo della Teseide, bisognava ricorrere ai più antichi e corretti, fra quelli che potevansi consultare con agio e facilità. Due principalmente furono da me prescelti per guida all’emendazione della Teseide, ambidue appartenenti alla doviziosissima libreria Riccardiana di questa città, il cui bibliotecario, Sig. Dottore Luigi Rigoli, amantissimo com’egli è di nostra lingua, non solo ne permette il libero studio, ma con amichevoli e gentili maniere ne conforta all’impresa. Il primo segnato di N. 1057, è un codice cartaceo in foglio scritto a due colonne, con le iniziali e titoli in rosso; nel principio si legge: Inchomincia Illibro chiamato Teseida conpilato per messere Giovanni Bochacci poeta fiorentino. Prosa. Copiato dimano di Giovanni Tolosini. Cominciato a dì vi di Giennaio 1411. E in fine: Finito a dì 31 di Giennaio 1411. È composto di pagine 92 numerate. L’altro è un codice cartaceo in foglio segnato di N. 1056, e benchè il suo copiatore non fosse toscano, come appare dalle frequenti storpiature delle voci, pure il testo proviene da fonte molto autorevole. Vi sono alcune note nel margine della mano medesima che scrisse il testo, le quali vertono intorno a nozioni mitologiche: ve ne sono pure altre di mano di Anton Maria Salvini, benchè in scarso numero e assai laconiche, e meramente filologiche. Mancano a questo codice le due prime pagine, e comincia dall’Ottava 18 del libro I. E quando parve tempo al buon Teseo etc. Contiene tutto intero il poema del Boccaccio, ma la pagina 127, che è l’ultima della Teseide, è strappata più su che alla metà, perchè alla pagina a tergo ne seguiva un altro breve componimento del Boccaccio intitolato la Ruffianella, che occupava le pagine 128 e 129, che una mal nata opinione stimò dover mutilare. Di questa più che erotica composizione del Boccaccio se ne leggono soltanto i primi tredici versi, col titolo: Detto di messer Giovanni Boccacci. La scrittura è del secolo XV poco inoltrato. Di molta utilità mi sono stati altri codici MS., e particolarmente altri due riccardiani, uno segnato di N. 1058, cartaceo in foglio di pagine 149, del secolo XV inoltrato, e l’altro N. 2733 cartaceo in foglio a due colonne, con iniziali rosse e turchine, scritto da Fruosino di Cece da Verrazzano essendo castellano in Pisa nel 1481, come in fine si legge. Il testo di questo MS. è sufficientemente corretto, e contiene inoltre altre poesie di diversi.
- Tutti i codici da me riscontrati non hanno l’ottava 47 del libro IX di questa edizione, che però non ho voluto torre, trovandola nell’edizione milanese: al contrario tutti contengono l’ottava 44 dello stesso libro, la quale manca nell’edizione predetta.
- Benchè io abbia impiegato all’emendazione della Teseide tutta la maggior possibile diligenza, e non dubiti punto dell’autorità dei codici dei quali mi son valso, pure son ben lontano dalla convinzione di aver fatto un lavoro perfetto, perchè lo credo impossibile. Posso per altro assicurare gli studiosi di nostra lingua, che se la Teseide da me riprodotta non sarà scrupolosamente parlando quale uscì dalla penna dell’autore, se ne avvicinerà però tanto, quanto lo permettevano i buoni e autorevoli manoscritti dei quali ho fatto uso, preferendo sempre la lezione migliore.
- * * *
- ↑ Libro I. Ottava 4. Verso 2. L’Edizione milanese del 1819 legge — Forse verrà, con messione ancora. E i codici leggono: Forse verrà, com’io spero ancora. L. I. O. 13. V. 1. A questo i Greci assai ispessamente. E i codici: A questo scotto i Greci assai sovente. L. I. O. 26. V. 5. Sopra di noi a voler dar moleste. Molesta per molestia, non mai usato, che io sappia, da nessuno scrittore, mentre i MSS. hanno: Sopra di noi, avendoci moleste. L’Ottava 29 del libro primo, che nell’edizione milanese è un impasto di controsensi, è riportata nella sua ingenua lezione: eccone il confronto.
- L’Edizione milanese.
- Nè vi metta paura, nè coscienza
- D’aver peccato negli uomini vostri,
- Chè morte a lor la loro sconoscenza
- Eccitò in petto dentro ai cori nostri:
- Ched e’ non si stimar di qual semenza
- Che lor nascemmo, ma come da mostri,
- Da cerri, o ver da grotte partorite
- Eravamo da lor poco gradite.
- E i Codici.
- Nè vi metta paura coscïenza
- D’aver peccato negli uomini vostri,
- Chè morte loro la lor sconoscenza
- Licita impetrò nelli cori nostri:
- Chè non stimavan che d’egual semenza
- Che lor nascessim, ma come da mostri,
- Da querce, ovver da grotte partorite
- Eravam poco qui da lor gradite.
- E L. I. O. 31. V. 7. Che un non può che un, sia chi che sia. Dubito assai che il codice Camposampiero legga così, quelli da me veduti leggono: Che niun può più che un uom chi ch’e’ si sia.
- Veggasi l’Ottava 38. del libro stesso in cui vi sono importanti correzioni. E L. I. O. 40. V. 8. che invece di Leandro si leggeva all’entrar E all’Ottava 42. in cui si leggeva lugne invece di lunge, e acuda per aguzza, che muove al riso. E ottava 47. L’armata di Teseo vide calare i MONTI di un castello, invece di ponti. E O. 50. V. 6. legni invece d’ingegni. O. 55. Il povero Glauco cangiato in Giove, e tutta questa ottava è da confrontarsi. O. 60. v. 4. il verbo litare che vale sacrificare, usato da Dante e da altri antichi, e che trovasi ripetuto all’Ott. 89. del libro decimo della Teseide, fu trasformato in donare. O. 61. v. 61. E la forza che in voi tanto fioriva, Che molli donne vi faccian fuggire? E deve leggersi: È la forza di voi tanto cattiva Che molli donne vi faccian fuggire? E. O. 63. Fuggitevi di qui vituperate, Po’ Marte non a voi, donne s’avviene, E delle vostre armi vi spogliate, E lasciate vestille a chi conviene. È Teseo che sgrida i suoi. Sembrerà assai strano l’avere appropriato un adiettivo femminino ai soldati greci, ed ecco come deve leggersi: Fuggitevi di qui vituperati, Poi Marte più che a voi, donne, sovviene, E delli vostri arnesi dispogliati Li lasciate vestire a chi conviene. O. 77. v. 6. Pervenghiamo, idiotismo giammai usato dai buoni trecentisti, invece di perveniamo, o pervegnamo. O. 90. v, 3. 4. Emergenti così invece di Emergenti casi. O. 94. v. 6. Gravando invece di Predando. O. 96. v. 3. Cerco in luogo di Cerchio. Le Ottave 99. 100 vedine il confronto. O. 106. v. 2. Pensier spermentati in vano, invece di pensiero ritrovato vano. O. 115. v. 8. Chiedendo comuno (ed è bravo chi l’intende) invece di Chiedendo con mano, O. 116. v. 5. È la regina delle Amazoni che parla. Non sare’ stato ardito Teseo giammai passare al nostro porto; Ma perchè non ci son, (i mariti) non ci ha ascoltate, Come vedete, e ci tiene assediate. E deve leggersi: non sarie stato ardito Teseo mai d’appressarsi al nostro porto: Ma perchè non ci sono e’ ci ha assaltate. Come vedete, e ancora assedïate. L’O. 123. oltre ad essere infedelissima, legge Madonna (e notisi che il discorso è indirizzato a due madonne) invece di Omai donne. O. 127. v. 7. Appreser possessione, non mai usato, invece di preser possessione. O. 132. Vedasi al confronto come era stata malmenata; per vezzo il sesto verso ha un piede di buona misura. O. 138. Le Amazoni lietamente sposate ai cavalieri di Teseo, e dopo il tedio della loro lunga vedovanza, è cosa ridicola il leggere che Le donne non sapevan che si fare, Ristorando il bel tempo ch’han perduto Mentre nel regno uom non era suto. Non era difficile, credo, l’accorgersi che dovevano ben sapere che si fare, e di fatto il Boccaccio aveva scritto. E le donne sapeano or che si fare, Sè ristorando del tempo perduto etc. E questo basti per non tediar di soverchio. Chiunque per altro voglia esercitare la sua pazienza istituendo un più esteso confronto fra l’edizione milanese e la presente, lo prego a prender di mira principalmente le ottave qui sotto notate. Libro II. Ottava 1. 2. 5. 8. 11. 17. 20 21. 22. 26 28. 29. 30. 35. 46. 47. 49. 53. 57. 61. 65. 70. 73. 74. 75. 87. 97. 98. 99. Libro III. Ottava 5. 7. 10. 13. 17. 25. 31. 32. 33. 40. 50. 62. 66. 76. 84. Libro IV Ottava 1. 2. 8. 13. 14.17. 31. 35. 37. 41. 44. 45. 61. 63. 66. 68. 72. 80. 81. Libro V. Ottava 6. 13. 21. 22. 24. 25. 26. 46. 48. 51. 55. 61. 64. 67. 69. 71.75. 76. 79, 89. 97. 99. 103. Libro VI. Ottava 10. 11. 14. 20. 24. 25. 28. 29. 30. 32. 34. 40. 47. 54. 56. 57. 62. 69. 79. Libro VII. Ottava 1. 4. 12. 14. 15. 23. 24 30. 33. 34. 43. 45. 49. 57. 58. 65. 66. 72. 73. 74. 75. 80. 82. 87. 94. 98. 100. 106. 107. 109. 110. 116, 118. 124. 127. 129. 131. 135. 137. 141. 142. 143. Libro VIII. Ottava 1. 4. 5. 6. 8. 12. 13. 14. 17. 26. 27. 31. 34. 35. 42. 45. 47. 48. 52. 53. 57. 63.64. 65. 69. 70. 71. 73. 77. 78. 81. 84. 87. 95.96, 106. 114. 120. 127. Libro IX. Ottava 5. 6. 19. 24. 30. 35. (L’Ottava 44. manca nell’Edizione milanese) 51, che è la 50 nell’Ediz. di Milano, e così di seguito fino alla fine del nono libro. 58. 69. Libro X. Ottava 7. 15. 18. 39. 48. 55. 67. 98. 102. 105. Libro XI. Ottava, 4. 12. 13. 17. 35. 49. 54. 63. 68. 69. 90. Libro XII. Ottava 7. 14. 17. 36. 72. 79.
- Note
- A FIAMMETTA
- GIOVANNI BOCCACCIO
- DA CERTALDO
- * * *
- Comechè a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dove io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m’è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel Donna, la piacevole immagine della vostra intera bellezza; la quale, più possente che ’l mio proponimento, di sè e di Amore, giovane di anni e di senno, mi fece soggetto: e quella quante volte mi venne con intero animo contemplando, piuttosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero. E che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo; perocchè ella con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando, non so con che ascosa soavità, l’afflitto cuore, gli fa quasi le sue continove amaritudini obliare, e in quello di sè medesimo genera un pensiero umilissimo, il quale mi dice: questa è quella Fiammetta, la luce de’ cui begli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de’ nostri ferventi disii. O quanto allora me a me togliendo di mente, parendomi essere ne’ primi tempi, li quali, io non immerito, ora conosco essere stati felici, sento consolazione. E certo se non fossono le pronte sollecitudini, delle quali la nimica fortuna m’ha circondato, che non una volta ma mille in ogni piccolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abbracciando morre’ mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere: il quale, ancorachè voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non mi abbandona. Nè possono nè potranno le cose avverse, nè il vostro turbato aspetto spegnere nell’animo quella fiamma, la quale, mediante la vostra bellezza, esso vi accese; anzi essa più fervente che mai con isperanza verdissima vi nutrica. Sono adunque del numero de’ suoi soggetti com’io solea. Vero è che dove bene avventurato già fui, ora infelicissimo mi ritrovo, siccome voi volete, di tanto solamente appagato, che torre non mi potete ch’io non mi tenga pur vostro, e ch’io non v’ami; postochè voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate: e tanto mi hanno, oltre a questo, le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince, e merita uomo guiderdone. La qual cosa non so se a me averrà; ma come che seguire me ne debbia, nè da sè mi vedrà diviso umiltade, nè fedele servire stanco giammai. E acciocchè l’opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne’ dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d’udire, e talvolta di leggere una e altra storia, e massimamente le amorose, siccome quella che tutta ardeva nel fuoco nel quale io ardo (e questo forse faciavate, acciocchè i tediosi tempi con ozio non fossono cagione di pensieri più nocevoli); come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta del suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che piacciono, previene: trovata una antichissima storia, e al più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d’amore, e sì per coloro de’ quali dice che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e in rima acciocchè più dilettasse, e massimamente a voi, che già con sommo titolo le mie rime esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu dell’altre più gravi, desiderando di piacervi, ho ridotta. E ch’ella da me per voi sia compilata, due cose fra le altre il manifestano. L’una si è, che ciò che sotto il nome dell’uno de’ due amanti e della giovine amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me, e voi a me di voi (se non mentiste) potrete conoscere essere stato fatto, e detto in parte. Quale de’ due si sia non discopro, chè so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossono, il voler bene coprire ciò che non è onesto manifestare, da noi due infuori, e ’l volere la storia seguire, ne sono cagione: ed oltre a ciò dovete sapere che solo il bomero aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e quale fosse innanzi, e quale sia stata poi la vita mia, che più non mi voleste per vostro, discernere. L’altra si è il non aver cessata nè storia, nè favella, nè chiuso parlare in altra guisa; conciossiacosachè le donne siccome poco intelligenti ne sogliono essere schife: ma perocchè per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell’altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere; e acciocchè l’opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, desiderando di disporre con affezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l’avessono disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l’opera vi pongo la contenenza.
- Dico adunque, che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani Arcita e Palemone, come innamorati di Emilia Amazzone per lei combattessono, posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare d’onde la donna fosse, e come ad Atene venisse, e chi fossero essi, e come quivi venissero similemente: laonde, siccome promesso v’ho, alla loro storia due se ne pongono; e primamente, dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ippolita reina delle Amazzoni, e la cagione di essa e la vittoria seguíta discrivo: procedendo oltre, come Teseo prese Ippolita per isposa, e con lei insieme Emilia sua sorella trionfando ne menò ad Atene: quivi, acciocchè onde e come i due amanti venissono sia aperto, un’altra battaglia e la felice vittoria della quale seguíta, fatta da Teseo co’ Tebani, premessa la cagione, si disegna; e come appare, i due giovani presi in quella, parte del trionfo di Teseo, vennono in Atene, dove e come da lui imprigionati furono, e come e in quel tempo di Emilia s’innamorassono, procedendo si legge. Pervenendo poi da questo alla liberazione fatta di Arcita, a’ preghi di Peritóo, e al pellegrinaggio suo ad Egina, e alla sua vita, e alla tornata di esso sconosciuto ad Atene, e al suo dimorare con Teseo. Quindi scrivendo quale Palemone rimanesse, e come a lui la tornata di Arcita sotto cambiato nome si discoprisse, e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare egli uscisse della prigione, e la battaglia per lui fatta nel bosco; mostrando appresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo riconosciuti fossero, manifestandosi essi medesimi; e quello che Teseo con loro componesse, e la loro tornata in Atene: dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l’avvenimento di molti principi a una futura battaglia, e i sacrificii fatti da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia, e chi vincesse; e dopo a tutte queste cose l’infortunio di Arcita, e il suo trionfo, la liberazione di Palemone, le sponsalizie di Emilia, e la morte di Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l’onore publico fattogli da Teseo e dagli altri greci principi a seppellirlo, ed il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furono poste; e ultimamente come Emilia fosse conceduta a Palemone, e le sue nozze, e de’ principi la partita finendo si trova.
- Le quali cose se tutte insieme, e ciascuna per sè, o nobilissima Donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere; e quindi la mia affezione discernendo, il preso orgoglio lasciare, e lasciato potrete la mia miseria in desiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossono le dette cose, e vincesse la vostra alterezza la mia umiltà, in questo una cosa sola per supremo dono addomando, che dando ad essa luogo, il presente piccolo libretto, poco presente alla vostra grandezza, ma grande alla piccolezza mia, tegnate. Questo, se ’l fate, alcuna volta ne’ miei affanni sarà di refrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani, nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più preghi, se quella grazia, la quale io ebbi già in voi, non se ne fosse andata. Ma perocchè io del niego dubito con ragione, non volendo che a quell’uno che di sopra ho fatto, e che spero, siccome giusto, di ottenere, gli altri nocessero, e senza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio; ultimamente pregando colui che mi vi diede, allorachè io primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m’ha tolta.
- * * *
- ARGOMENTO
- GENERALE DI TUTTA L’OPERA
- * * *
- Nel primo vince Teseo le Amazzone,
- Nel secondo Creonte cortamente;
- Nel terzo Amore, Arcita e Palemone
- Occupa. Il quarto mostra la dolente
- Vita d’Arcita uscito di prigione:
- Il quinto la battaglia virilmente
- Da Penteo fatta col suo compagnone:
- E ’l sesto poi convoca molta gente
- Alla battaglia: il settimo gli arrena:
- L’ottavo l’un di lor fa vincitore:
- Il nono mostra il trionfo e la pena
- Di Arcita, e l’altro il suo mortal dolore:
- E l’undecimo Arcita al rogo mena:
- L’ultimo Emilia dona all’amadore.
- LA TESEIDE
- LIBRO PRIMO
- * * *
- ARGOMENTO
- La prima parte di questo libretto
- A chi ’l riguarda mostra apertamente
- La cagion che Teseo fece fervente
- A vengiar delle Amazzone il difetto:
- E come el fosse in Scitïa provetto
- Col suo navilio e con l’armata gente,
- E come il suo discender primamente
- Gli fosse dalle Amazzone interdetto;
- Mostrando appresso come discendesse
- Per viva forza; e come combattendo
- Con quelle donne poscia le vincesse,
- L’assedio poi alla città ponendo;
- E come a patti Ippolita si desse,
- Con pace lui per marito prendendo.
- 1
- O Sorelle Castalie, che nel monte
- Elicona contente dimorate
- D’intorno al sacro gorgoneo fonte,
- Sottesso l’ombra delle frondi amate
- Da Febo, delle quali ancor la fronte
- Spero d’ornarmi sol che ’l concediate,
- Le sante orecchie a’ miei preghi porgete,
- E quegli udite come voi dovete.
- 2
- E’ m’è venuta voglia con pietosa
- Rima di scriver una storia antica,
- Tanto negli anni riposta e nascosa,
- Che latino autor non par ne dica,
- Per quel ch’i’ senta, in libro alcuna cosa.
- Dunque sì fate che la mia fatica
- Sia grazïosa a chi ne fia lettore,
- O in altra maniera ascoltatore.
- 3
- Siate presenti, o Marte rubicondo,
- Nelle tue armi rigido e feroce,
- E tu, Madre d’Amor, col tuo giocondo
- E lieto aspetto, e ’l tuo Figliuol veloce
- Co’ dardi suoi possenti in ogni mondo;
- E sostenete la mano e la voce
- Di me, che intendo i vostri effetti dire
- Con poco bene e pien d’assai martíre.
- 4
- E voi, nel cui cospetto il dir presente
- Forse verrà, com’io spero ancora,
- Quant’io più posso prego umilemente,
- Per quel signor ch’e’ gentili innamora,
- Che attendiate con intera mente:
- Voi udirete com’egli scolora
- Ne’ casi avversi ciascun suo seguace,
- E come dopo affanno e’ doni pace.
- 5
- E questo con assai chiara ragione
- Comprenderete, udendo raccontare
- D’Arcita i fatti e del buon Palemone,
- Di real sangue nati, come appare,
- E amenduni Tebani, e a quistione,
- Parenti essendo, per superchio amare
- Emilia bella, vennero, Amazzona,
- D’onde l’un d’essi perdè la persona.
- 6
- Al tempo che Egeo re d’Atene era,
- Fur donne in Scitia crude e dispiatate
- Alle qua’ forse parea cosa fera
- Esser da’ maschi lor signoreggiate;
- Perchè adunate con sentenza altera
- Diliberar non esser soggiogate,
- Ma di voler per lor la signoria,
- E trovar modo a fornir lor follia.
- 7
- E come fér le nipoti di Belo
- Nel tempo cheto agli novelli sposi,
- Così costor ciascuna col suo telo
- Da’ maschi suoi gli spirti sanguinosi
- Cacciò, lasciando lor di mortal gelo
- Tututti freddi in modi dispettosi:
- E in cotal modo libere si fero,
- Benchè poi mantenersi non potero.
- 8
- Recato adunque co’ ferri ad effetto
- Lor mal voler, voller maestra e duce
- Che correggesse ciascun lor difetto,
- Ed a ben viver desse forma e luce.
- Nè a tal voglia dier lungo rispetto,
- Ma delle donne che ’l loco produce
- Elesser per reina in la lor terra
- Ippolita gentil mastra di guerra.
- 9
- La quale ancora che femmina fosse,
- E di bellezza piena oltra misura,
- Prese la signoria, e si rimosse
- Da sè ciascuna femminil paura;
- Ed in tal guisa ordinò le sue posse,
- Che ’l regno suo e sè fece sicura;
- Nè di vicine genti avea dottanza,
- Sì si fidava nella sua possanza.
- 10
- Regnando adunque animosa costei,
- Alle sue donne fe’ comandamento,
- Che Greci, o Traci, Egizii o Sabei,
- Nè uomin altri alcun nel tenimento
- Entrar lasciasson, s’elle avean di lei
- La grazia cara, ma ciascuno spento
- Di vita fosse che vi si accostasse,
- Se subito il terren non isgombrasse.
- 11
- Se per ventura lì fosser venute
- Femmine di qual parte si volesse,
- Da lor benignamente ricevute
- Comandò fosser, e se a lor piacesse
- D’esser con loro insieme, ritenute
- Dovesson esser, sicchè si riempiesse
- Il loco di color ch’ivi morieno
- Di quelle che d’altronde lì venieno.
- 12
- Sotto tal legge più anni quel regno
- Stette, ed i porti furon ben guardati:
- Sicchè non vi venía nave nè legno,
- O da fortuna o da altro menati
- Che fosser lì, che non lasciasser pegno
- Oltra al piacer di loro, e malmenati
- Lor conveniva del luogo fuggire,
- Se non volevan miseri morire.
- 13
- A questo scotto i Greci assai sovente
- Incappavan per lor disavventura:
- Perchè a Teseo il lor signor possente
- Duca di Atene spesso con rancura
- Eran porti richiami di tal gente,
- E di lor crudeltade a dismisura:
- Ond’egli in sè di ciò forte crucciato
- Propose di purgar cotal peccato.
- 14
- Marte tornava allora sanguinoso
- Dal bosco, dentro al qual guidata avea
- Con tristo agurio del re furïoso
- Di Tebe l’aspra schiera, e si tenea
- Lo scudo di Tideo, il qual pomposo
- Della vittoria, siccome potea,
- Ad una quercia l’aveva appiccato
- Cotal qual era, a Marte consagrato.
- 15
- E in cotal guisa in Tracia ritornando,
- Si fe’ sentire al crucciato Teseo,
- In lui di sè un fier caldo lasciando.
- E col suo carro avanti procedeo,
- Dovunque e’ giva lo cielo infiammando;
- Poi nelle valli del monte Rifeo
- Ne’ templi suoi posando si raffisse,
- Sperando ben che ciò che fu avvenisse.
- 16
- Quinci Teseo magnanimo chiamare
- Li baron greci fe’ , e a lor propose
- Ch’egli intendea voler vendicare
- La crudeltà e l’opere noiose
- Amazzoni donne, ed a ciò fare
- Richiese lor, nelle cui virtuose
- Opere si fidava: e ciascun tosto
- Rispose, sè al suo piacer disposto.
- 17
- Commossi adunque i popoli d’intorno,
- Qual per dovere e qual per amistate,
- Tutti in Atene in un nomato giorno
- Si ragunar con quella quantitate
- Ch’ognun potea, e senza far soggiorno,
- Sopra le navi già apparecchiate
- Cavalli ed arme ciascun caricava
- Con ciò che a fare oste bisognava.
- 18
- E quando e’ parve tempo al buon Teseo
- Di navicar, veggendol chiaro e bello,
- Tutta la gente sua raccoglier feo
- Con debito dover; siccome quello
- Che altravolta il buon partito e ’l reo
- Del mar provato aveva, e piano e fello,
- E nel mar col suo stuol tutto si trasse,
- Vento aspettando ch’al gir gl’invitasse.
- 19
- Essendo a tal partito sopra l’onde
- La greca gente bene apparecchiata,
- La notte che le cose ci nasconde
- Aveva l’aria tututta occupata:
- Onde alcun dorme, e tal guarda e risponde,
- E così infino alla stella levata;
- La qual sì tosto com’ella appario,
- L’ammiraglio dell’oste si sentio.
- 20
- A riguardare il ciel col viso alzato
- Tutto si diede, e quindi fe’ chiamare
- I marinai, dicendo: egli è levato
- Prospero vento, onde mi par d’andare
- A nostra via: e però sia spiegato
- Ciaschedun vel senza più dimorare.
- Ed e’ fu fatto il suo comandamento,
- E quindi si partir con util vento.
- 21
- Ma la corrente fama, che trasporta
- Con più veloce corso ch’altra cosa
- Qualunque opera fatta dritta o torta,
- Senza mai dare alli suoi passi posa,
- Cotal novella tosto la rapporta
- Ad Ippolita bella e grazïosa,
- E in pensiero la pon di sua difesa,
- Di mal talento e di furore accesa.
- 22
- Ma poichè l’ira alquanto fu affreddata,
- Con utile consiglio, immantinente
- Di volersi difendere avvisata,
- Fece chiamar ciascuna di presente
- Donna che nel suo regno era pregiata,
- E tutte a sè venisser tostamente:
- Alle qua’ poi in pubblico consiglio
- A parlar cominciò con cotal piglio.
- 23
- Perciocchè voi in questo vostro regno
- Coronata m’avete, e’ s’appartiene
- A me di porre e la forza e lo ’ngegno
- Per la salute vostra, e si conviene,
- Senza passar di mio dovere il segno,
- Nel prestar guiderdone e porger pene:
- Ond’io, a ciò sollecita, chiamate
- V’ho perchè voi a me con voi atiate.
- 24
- Non vede il sol, che senza dimorare
- D’intorno sempre ci si gira, in terra
- Donne quanto voi siete da pregiare;
- Le qua’, se in ciò il mio parer non erra,
- Per voler viril animo mostrare
- Contro a Cupido avete preso guerra:
- E quel ch’all’altre più piace fuggite,
- Uomini fatte, non femmine ardite.
- 25
- E che questo sia vero assai aperto
- Non ha gran tempo ancora il dimostraste,
- Allor ch’Amor nè paura nè merto
- Non vi ritenne, che voi non mandaste
- A compimento il vostro pensier certo
- Quando da servitù vi liberaste:
- Nell’arme sempre esercitate poi
- Cacciando ogni atto femminil da voi.
- 26
- Ma se mai viril animo teneste,
- Ora bisogno fa, per quel ch’io senta;
- Perciocchè voi, siccom’io, intendeste
- Che ’l gran Teseo di venir s’argomenta
- Sopra di noi avendoci moleste,
- Perchè nostro piacer non si contenta
- Di quel che l’altre, ciò è soggiacere
- Agli uomini, facendo il lor volere.
- 27
- Al suo inimicarci altra cagione
- Veder non so, nè credo voi veggiate;
- Perocchè mai alcuna offensione
- Ver lui non commettemmo, onde assaltate
- Dovessim essere: e questa ragione
- Assai è vôta di degna onestate;
- Perocchè non fa mal quel che s’aiuta
- Per aver libertà, se l’ha perduta.
- 28
- Ma qual che siasi la cagion che il mova,
- A noi il difender resta solamente,
- Sicchè non vinca per forza la prova:
- Laond’io vi richieggio umilemente
- E prego, se in cotal vita vi giova
- Di viver qual noi tegnamo al presente,
- Che l’animo, lo ingegno ed ogni possa
- Mettiate contro a chi guerra ci ha mossa.
- 29
- Nè vi metta paura coscïenza
- D’aver peccato negli uomini vostri,
- Chè morte loro la lor sconoscenza
- Licita impetrò nelli cori nostri:
- Che non stimavan che d’egual semenza
- Che lor nascessim, ma come da mostri,
- Da querce ovver da grotte partorite,
- Eravam poco qui da lor gradite.
- 30
- Essi tenevan l’altezze e gli onori
- Senza participarle a noi giammai,
- Le quali eravam degne di maggiori
- Che alcun di loro, a dir lo vero, assai:
- Perchè di ciò gl’iddii superïori
- Rison che noi facemmo; e sempre mai
- Ci avranno per miglior, l’altre schernendo,
- Che per viltà si van sottomettendo.
- 31
- Nè vi spaventi il nome di costoro,
- Perchè sien Greci, che non son guerniti
- Di forza divisata da coloro
- Che nel passato fur vostri mariti:
- Se fiere vi mostrate verso loro,
- E’ non saranno verso voi arditi:
- Chè niun può più che un uom chi ch’e’ si sia sia;
- Perciò da voi cacciate codardia.
- 32
- Non risparmiate qui, donne, il valore,
- Non risparmiate l’arme non l’ardire,
- Non risparmiate il morire ad onore,
- Considerate ciò che può seguire
- Dall’esser vigorose, o con timore:
- Voi non avrete avale a far morire
- Padre o figliuol che vi faccia pietose,
- Ma inimiche genti a voi odiose.
- 33
- Ritorni in voi aval quella fierezza
- Che in quella notte fu quando ciascuna
- Mai non usata usò crudele asprezza
- Ne’ padri e ne’ figliuoi: nè sia nessuna
- Che qui, se degl’iddii la forza apprezza,
- Stea per aver nosco egual fortuna,
- Usi pietà; altrove che qui morta
- I’ la comando in ogni donna accorta.
- 34
- Benchè forse gl’iddii non ne saranno
- Contrarii, per la nostra gran ragione:
- Anzi se giusti son n’aiuteranno,
- Dimenticando quel, se fu offensione:
- E se atarci forse non vorranno,
- Il danno suppliran nostre persone
- Contro a colui che si muove a gran torto
- Per navicare in verso il nostro porto.
- 35
- E acciocchè non ponga in più parole
- Il tempo, il qual ne bisogna al presente,
- A ciascheduna che libertà vuole
- Ricordo e prego ch’ella sia valente:
- Ed a qual morte per libertà duole,
- Dipartasi da noi immantinente:
- Noi varrem molto me’ senza colei.
- E così detto, si tacque costei.
- 36
- Grande fu tra le donne il favellare,
- Quasi pendendo tutte in tal sentenza,
- Di dover pure a Teseo dimostrare
- Quanta e qual fosse la lor gran potenza,
- Sed egli ardisse a’ lor porti appressare:
- Perchè senza null’altra resistenza
- Sè offerse ciascuna in fino a morte
- Alla reina vigorosa e forte.
- 37
- Ippolita poi le profferte intese,
- Senza dimora i porti fe’ guernire,
- E le miglior del regno alle difese
- Senza nessun indugio fece gire;
- Ed in tal guisa armò il suo paese,
- Ch’assai sicura poteva dormire,
- Se soperchio di gente oltre pensata
- Non fosse, come fu, su quello entrata.
- 38
- Nè altrimenti il cinghiar ch’ha sentiti
- Nel bosco i can fremire e i cacciatori,
- I denti batte, e rugghia, e gli spediti
- Sentieri usa a salute; e pe’ romori
- Ch’egli ha ’n qua e ’n là, in su e in giù uditi
- Non sa quai vie per lui si sien migliori,
- Ma ora in giù ed ora in su correndo,
- Sino al bisogno incerto va fuggendo.
- 39
- Così facea costei per lo suo regno,
- In dubbio da qual parte quivi vegna
- Teseo, o con che arte ovvero ingegno:
- Onde gire a ciascuna non isdegna,
- Nè di pregar che ciascheduna al segno
- Di quel ch’ha imposto ben ferma si tegna:
- Perocchè se a tal punto son vincenti,
- Più non cal lor curar mai d’altre genti.
- 40
- L’alto duca Teseo con tempo eletto
- Al suo viaggio lieto navicava;
- Passando pria Macron sanza interdetto,
- Ad Andro le sue prode dirizzava:
- Il qual lasciato con sommo diletto
- Pervenne a Tenedos, e quel lasciava
- Entrando poi nel mar, che all’abideo
- Leandro fu soave e poscia reo.
- 41
- E oltre quel cammin che Frisso tenne
- Allor che la sorella cadde in mare
- Servò fin ch’al Bisanzio poi pervenne:
- Quivi fatta sua gente rinfrescare,
- Per piccola stagion vi si ritenne:
- E come del mar Tanas ad entrare
- Incominciò, così delle donzelle
- Le terre vide grazïose e belle.
- 42
- E come lioncel cui fame punge,
- Il qual più fier diventa e più ardito
- Come la preda conosce da lunge,
- Vibrando i crin con ardente appetito,
- E l’unghie e’ denti aguzza, in fin l’aggiunge:
- Cotal Teseo rimirando spedito
- Il regno di color, divenne fiero,
- Volonteroso a fare il suo pensiero.
- 43
- Esso mandò solenni avvisatori
- A discerner la più leggiera scesa,
- I qua’ mirando d’intorno e di fuori
- Le rive tutte colla mente intesa,
- Tornarono avvisati da’ migliori
- Dove discender con minore offesa
- Potessero, e al duca il raccontaro,
- E in quella parte lo stuol dirizzaro.
- 44
- Quindi Teseo per due de’ suoi baroni
- Significare ad Ippolita feo
- La sua venuta, e ancora le cagioni:
- E oltre a questo sì le concedeo
- Termine a poter fare eccezïoni
- Ne’ patti fatti a lei, se per men reo
- Consiglio forse le fosse piaciuta
- La pace pria che fosse combattuta.
- 45
- Ma di que’ patti ch’egli dimandava
- Da lei neuno ne fu accettato;
- Anzi di lui assai si rammarcava
- Pur di quel tanto ch’aveva operato;
- Riprendendol di ciò che s’impacciava
- Fuori del regno suo nell’altrui stato:
- Ma che, s’ella potesse, ancor pentere
- Nel farà tosto, e ciò l’era in calere.
- 46
- Tornaron que’ con sì fatta risposta,
- Qual fu lor data, senza star niente,
- E a Teseo davanti l’han disposta,
- Il quale l’udì mal pazientemente,
- Dicendo: poco a questa donna costa
- Così rispondere, ma certamente
- I’ la trarrò d’error, se ’l cor non erra:
- Quinci gridò: Signori, ogni uomo a terra.
- 47
- A questa voce i legni fur tirati
- Quasi in sul lito, e volendo smontare,
- Già le scale poneano; quando alzati
- Gli occhi ad un bel castel vicino al mare
- Sopr’una montagnetta, onde calati
- I ponti, gente vidono avvallare
- Ben a cavallo armati, e in sulla rena
- In prima fur che ’l vedessono appena.
- 48
- E quasi presi d’ogni parte i passi,
- Con archi in mano or qua or là correndo,
- Traendo le saette de’ turcassi
- Con viva forza givan difendendo
- Tagliate fatte avanti, e di gran sassi
- I balzi a grosse schiere provvedendo;
- Arpalice era questa che ’l faceva,
- A cui commesso Ippolita l’aveva.
- 49
- Il gran Teseo magnifico barone
- Poichè co’ suoi alle terre pervenne,
- Vedendole guernite, per ragione
- Per savie donne in l’animo le tenne:
- Ed alquanto mutato d’opinione,
- Fra mar lo stuolo suo fermo ritenne;
- Poi fe’ ciascun de’ suoi apparecchiare,
- Diliberando pur volervi entrare.
- 50
- Poichè ciascun fu bene apparecchiato,
- In verso ’l porto si tiraro i legni
- Per scendere nel luogo divisato;
- Si fero avanti li baron più degni,
- E in quel modo ch’avieno ordinato
- Gittaro in terra scale e altri ingegni:
- Ma troppo fu più forte lor la scesa,
- Che non fu ’l dilivrar cotale impresa.
- 51
- Egli eran quasi colle poppe in terra
- Degli lor legni i Greci tutti quanti,
- E con ogni artificio utile a guerra
- Arditamente si traeano avanti:
- Ma bene era risposto, se non erra
- La mente mia, a lor da tutti i canti;
- Perocchè quelle donne saettando
- Forte, li giano ognora danneggiando.
- 52
- Esse gittavan fuoco spessamente
- Sopra l’armate navi, il quale acceso
- Molto offendeva i Greci; e similmente
- Con artifizii e pietre di gran peso,
- Che rompevan le navi di presente
- Dove giugnean se non era difeso:
- E oltre a questo, pece, olio e sapone
- Sopra lo stuol gittavano a fusone.
- 53
- Battaglia manual nulla non v’era,
- Perciocchè ancora non avien potuto
- Prendere i Greci di quella rivera
- Parte nessuna; e ’l conforto e l’aiuto
- Del buon Teseo per niente gli era;
- Anzi pareva ciaschedun perduto,
- Di quelle donne mirando le schiere
- Crescere ognora e diventar più fiere.
- 54
- Di dardi, di saette e di quadrella
- Non fo menzion, che ’l ciel n’era coperto,
- Ed occupata tutta l’aria bella,
- Gittando l’uno all’altro; e per lo certo
- Battaglia non fu mai sì dura e fella,
- Nè in alcuna mai tanto sofferto:
- Molti ve ne fediea le donne accorte,
- Benchè di loro alcune fosser morte.
- 55
- Grandi eran quivi le grida e ’l romore
- Che le donne facieno e i marinari,
- Tal che Nettuno e Glauco mai maggiore
- Sentito non l’aveano: i duoli amari
- Ch’a’ marinar fediti giano al core
- Eran cagion di molto, perchè rari
- Ve n’eran che nel capo, o nel costato,
- O in altra parte non fosse piagato.
- 56
- Il sangue lor vedevan sopra l’onde
- Con trista schiuma molto rosseggiare;
- E male a’ Greci l’avviso risponde,
- Poichè così si veggon malmenare:
- E qual più core aveva or si nasconde,
- Temendo delle donne il saettare;
- Perciocchè ell’eran di cotal mestiere
- Più ch’altre somme, vigorose e fiere.
- 57
- Teseo, che d’altra parte riguardava
- La falsa punta della greca gente,
- Di rabbia tutto in sè si consumava,
- Maladicendo il duro convenente,
- E d’ultima vergogna dubitava,
- E quasi uscia per doglia della mente;
- Perchè sdegnoso al cielo il viso volto,
- Così parlò, alto gridando molto.
- 58
- O fiero Marte, o dispettoso Iddio,
- Nimico alle nostre arme, i’ mi vergogno
- D’aprirti con parole il mio disio:
- E certo prego per cotal bisogno
- Non averai nè sacrifizio pio;
- Ma senza te la vittoria che agogno
- Farò d’avere, o l’alma sanguinosa
- Ad Acheronte n’andrà dolorosa.
- 59
- Opera omai in male i tuoi rossori,
- E contro a me le femmine fa’ forti
- Con quell’arte che in Flegra i successori
- D’Anteo vincesti; e fa’ che le conforti.
- Quanto tu sai, e spargi i tuoi vapori
- Sopra gli miei, che or fosser già morti:
- Perocchè sol mi credo me’ valere
- Ched io non fo con tutto il lor potere.
- 60
- E tu, Minerva, che il sommo loco
- Tra gl’iddii tieni in la nostra cittate,
- Non aspettar da me altar nè foco,
- Nè ch’io ti liti bestie in quantitate,
- Nè che per te io adorni alcuno gioco
- In onor fatto di tua maestate:
- Aiuta pure a queste le qua’ sono
- Teco d’un sesso, e me lascia in bandono.
- 61
- Poi si rivolse a’ suoi con vista viva,
- Con peggior piglio, e incominciò a dire:
- Ah vituperio della gente achiva!
- Ov’è fuggito il vostro grand’ardire?
- È la forza di voi tanto cattiva
- Che molli donne vi faccian fuggire?
- Tornate adunque nelle vostre case,
- E qua le donne vengan là rimase.
- 62
- Il chiaro Apollo, il cielo, e il salso mare
- Fien testimonii eterni ed immortali
- Del vostro vile e tristo adoperare;
- E porterà la fama i vostri mali
- Con perpetuo nome, e voi mostrare
- Farà a dito a gente diseguali,
- Dicendo: vedi i cavalier dolenti,
- Che vinti fur dall’amazzonee genti.
- 63
- Fuggitevi di qui, vituperati,
- Poi Marte più che voi donne sovviene,
- E delli vostri arnesi dispogliati
- Li lasciate vestire a chi conviene:
- Or non era migliore che onorati
- Di morte aveste sostenute pene,
- Che con vergogna indietro rinculare,
- Ed a donzelle lasciarvi cacciare?
- 64
- Entri nell’armi adunque chi n’è degno,
- L’altro le lasci che non vuole onore,
- Morte pigliando per fuggire sdegno;
- Ed a cui piace più con disonore
- Vita, che pregio, non segua ’l mio segno,
- Vivasi quanto vuol senza valore:
- Ch’io sarò troppo più solo onorato,
- Ch’essendo da cotali accompagnato.
- 65
- O che avreste voi fatto se avversi
- Vi fossero i Centauri addosso usciti?
- Ed i Lapiti popoli diversi,
- Turba dolente, uomini scherniti?
- Credo nel mar vi sareste sommersi,
- Poichè per donne vi siete fuggiti:
- Or vi tornate e fate nuovo duca,
- E Marte me siccome vuol conduca.
- 66
- E questo detto, sotto l’armi chiuso
- Tirar fe’ la sua nave in ver lo lito,
- E senza scala por ne saltò giuso,
- Nè si curò perchè fosse fedito
- Da molte parti, ma siccome uso
- Di tal mestier, più si mostrava ardito,
- Sè riparando e di sopra e d’intorno,
- E fuor dell’acqua uscì senza soggiorno.
- 67
- Non altrimenti si gittano in mare
- I marinai, il cui legno già rotto
- Per la fortuna sentono affondare,
- E chi più può, senza agli altri far motto
- Briga notando di voler campare;
- Che i Greci si gittar, tutti di botto,
- Dietro a Teseo nell’acqua lui vedendo,
- Nè ben nè male al suo dir rispondendo.
- 68
- E sì gli avea vergogna speronati
- Colle parole del fiero Teseo,
- Ch’egli eran presti ed arditi tornati:
- Perchè ciascun com più tosto poteo,
- Così com’eran tututti bagnati,
- E tai fediti, al suo duca si feo
- Vicino, e fero in sul lito una schiera
- Subitamente assai possente e fiera.
- 69
- Fatta la schiera tal quale poteano
- Nel marin lito, ov’essi eran discesi,
- Perciocchè bene i luoghi non sapeano,
- Nè seco avevan tutti i loro arnesi,
- Al lor poter le donne sosteneano
- D’alto vigor ne’ loro animi accesi,
- Disposti a far gran cose in poca d’ora,
- Purchè le donne lì faccian dimora.
- 70
- Le donne in su’ cavalli forti e snelli
- Givano armate in abito dispari,
- E que’ correan come volanti uccelli,
- Facendo spesso i loro colpi amari
- Sentire a’ Greci, che ne’ campi belli
- Eran discesi a piè non avia guari,
- Or qua or là correndo, e ritornando,
- Ispesso e rado i Greci molestando.
- 71
- Così pugnavano alla morte loro,
- Poichè potuto non avien la scesa
- Colle lor forze vietare a coloro,
- Li qua’ sentendo ognor crescer l’offesa,
- Chieser di poter gir senza dimoro
- Al duca lor ver quelle in lor difesa:
- E poi a piè in fra le donne entraro,
- Ed a combatter fieri incominciaro.
- 72
- E fedirono allora arditamente,
- Siccome que’ che ben lo sapien fare;
- Ed a’ lor colpi non valea niente
- Di quelle donne il presto riparare:
- E se non fosse ch’eran poca gente,
- A rispetto del lor moltiplicare,
- Tosto le arebbon del campo cacciate,
- O morte tutte, o ver prese e legate.
- 73
- Ma il numero di lor ch’era infinito
- Ognora la battaglia rinfrescava;
- Questo contra Teseo fiero ed ardito
- Il campo lungamente sostentava:
- Ed esso senza riposo e spedito
- Ferendo, or qua or là correndo andava;
- Ed ammirar di sè ciascun facea,
- Che in quello stormo mirar lo potea.
- 74
- Nè altrimenti in fra le pecorelle
- Si ficca il lupo per fame rabbioso,
- Col morso strangolando or queste or quelle,
- Fin ch’ha saziato il suo disio goloso,
- Che facesse Teseo fra le donzelle,
- A piè colla sua spada furïoso,
- Coperto dello scudo ognor ferendo,
- Or questa or quella misera uccidendo.
- 75
- Così Teseo fieramente andando
- Co’ suoi compagni in fra le donne ardite,
- Molte ne gien per terra scavallando,
- E morte quali, e quali altre fedite
- Lasciando per lo campo: indi montando
- Sopr’a’ cava’, che a redine sbandite
- Le lor lasciate donne si fuggieno
- Or qua or là così come potieno.
- 76
- E già di lor gran parte eran montati
- Per tal procaccio sopra i buon destrieri,
- E tutti in sè di ciò riconfortati
- Contra color ferivan volentieri,
- Ed esse, lor vedendo inanimati
- Più ch’al principio non erano e fieri,
- Temendo cominciarono a voltare,
- E ’l campo a’ Greci del tutto a lasciare.
- 77
- Fuggiensi adunque nel castello tutte,
- E dietro ad esse la duchessa loro,
- E sopra l’alte mura fur ridutte
- Armate senza fare alcun dimoro;
- Fra lor dicendo: noi sarem distrutte
- Se alle man pervegnamo di costoro;
- E la sconfitta lor quasi non suta,
- A ben guardar si dier la lor tenuta.
- 78
- Era la terra forte e ben murata
- Da ogni parte, e dentro ben guernita
- Per sostenere assedio ogni fïata
- Lunga stagion ch’ella fosse assalita:
- Però ciascuna dentro bene armata
- Non temeva nè morte nè fedita:
- Chiuse le porte, al riparo intendieno,
- E quasi i Greci niente temieno.
- 79
- Come Teseo le vidde fuggire,
- In un raccolse tutta la sua gente,
- E comandò che le lasciasser gire.
- Poi fe’ cercare il campo prestamente,
- E fece i corpi morti seppellire:
- E le fedite assai benignamente
- Lasciò andar, senza ingiuria nessuna,
- Là dove piacque di gire a ciascuna.
- 80
- E in cotal guisa avendo preso il lito
- Colla sua gente, malgrado di quelle,
- In su un piccol poggio fu salito
- Dirimpetto al castel delle donzelle,
- E comandò che quel fosse guernito,
- Sicchè resister si potesse ad elle
- Senza battaglia, in fin che scaricate
- Fosser le navi, e le genti posate.
- 81
- I Greci prestamente scaricaro
- Tutte le navi degli arnesi loro,
- E altri in breve il poggetto afforzaro
- Quanto poterno senz’alcun dimoro:
- Nè dì nè notte mai non si posaro,
- Che forte fu a contastar con loro:
- Ben fer le donne loro ingombro assai,
- Che d’assalirli non ristetter mai.
- 82
- Poscia che i Greci furono afforzati
- Sì che le donne niente temieno,
- E’ legni loro in mar furon tirati,
- Per corseggiar d’intorno ove potieno,
- Ed i fediti furon medicati,
- E quegli ancor che ’l mar temuto avieno
- Posati fur, parve a Teseo che stare
- Quivi porria più nuocer che giovare.
- 83
- Ed esso ancor con sollecita cura,
- Ch’al suo più presto spaccio più pensava,
- Immaginò, che se intorno alle mura
- Di quella terra il suo campo fermava,
- E’ potrebbe avvenir peravventura
- Che senza utile il tempo trapassava;
- Perocchè, quando pure e’ succedesse,
- Poco avria fatto perchè lor vincesse.
- 84
- E tornandogli a mente come Alcide
- All’Idra, che de’ suoi danni crescea,
- Avea la vita tolta, seco vide
- Che là dov’era Ippolita dovea
- Sua prova far; perchè se lei conquide,
- Più contasto nessun non vi sapea:
- E per cotal pensiero il campo mosse
- Per gir colà dove Ippolita fosse.
- 85
- Corse la fama per tutto ’l paese
- Della sconfitta fatta tostamente;
- Perchè ciascuna sè alle difese
- Si metteva di sè velocemente:
- Ma quella cui tal cosa più offese
- Ippolita è da creder certamente;
- La qual, poichè così la cosa andare
- Vide, propose di volersi atare.
- 86
- Nè fu stordita per quella sciagura;
- Ma le sue donne a sè chiamò, dicendo:
- A ciascuna conviene esser sicura,
- Non dico in campo Teseo combattendo,
- Ma nel difender ben le nostre mura,
- Le quali ad assalir vien come intendo:
- Perocchè non potrà lunga stagione
- Dimorar qui per nulla condizione.
- 87
- Noi siam di ciò ch’al vivere è mestiere
- Fornite bene, e la terra è sì forte,
- Che non è così ardito cavaliere,
- (Se al guardar vorremo essere accorte)
- Che appressar ci si possa, che pentere
- Non ne facciam, forse con trista morte:
- Quando ci fieno stati, e’ vederanno
- Il nostro ardir, per vinti se n’andranno.
- 88
- Dunque se mai amaste libertade,
- Se vi fu caro mai il mio onore,
- Ora mostrate vostra nobiltade,
- Ora si scuopra l’ardire e ’l valore
- Ver chi s’appressa alla nostra cittade
- Per voler noi di quella trarne fore:
- Eterna fama ora acquistar potete,
- Se ben contra Teseo vi difendete.
- 89
- E questo detto niente interpose,
- Ma ciò che seco aveva divisato,
- Fece, dando ordine a tutte le cose;
- Per le mura ponendo in ogni lato
- A guardia savie donne e valorose,
- Facendo ancora ognun altro apparato
- Che a tal cosa bisogna, sempre andando
- Or questa or quella sempre confortando.
- 90
- E per salute ancor delle sue genti
- Gran doni a’ templi poi fece portare,
- Gl’iddii pregando che negli emergenti
- Casi dovesser lor pietosi atare,
- Quinci adoprando tutti gli argomenti
- Ch’a sua difesa potevan giovare:
- E guernita così, come poteo,
- Colle sue donne aspettava Teseo.
- 91
- Poichè Teseo si fu di quel loco
- Partito, onde le donne avea cacciate;
- Alla città sen venne in tempo poco,
- Dove Ippolita e molte erano armate:
- Ei giurò per Vulcano iddio del fuoco
- Di non partirsi mai, se conquistate
- Da lui non fosser per forza o per patti
- Prima egli e’ suoi vi sarebbon disfatti.
- 92
- E fe’ tender trabacche e padiglioni,
- Ed afforzar suo campo di steccati,
- A’ cavalier dicendo e a’ pedoni
- Ch’essi facessero e tende e frascati;
- E che di lor nessun giammai ragioni
- Di ritornare a’ suoi liti lasciati,
- Se Ippolita pria non si vinceva
- Così come con lor proposto aveva.
- 93
- E fe’ rizzar trabocchi e manganelle,
- E torri per combattere alle mura;
- E fe’ far gatti, ed alle mura belle
- Spesso faceva con essi paura;
- E con battaglia spesso le donzelle
- Assaliva con sua gente sicura;
- Ma di tal cor guernite le trovava,
- Che poco assalto o altro gli giovava.
- 94
- Egli stette più mesi a tal berzaglio,
- E poco v’acquistò, anzi niente,
- Fuor che paura e onta con travaglio,
- Perchè le donne dentro assai sovente
- Di morte si metteano a repentaglio
- Predando sopra loro arditamente:
- Cotanto s’eran già assicurate,
- Per non potere esser soperchiate.
- 95
- Di ciò era Teseo assai crucciato,
- E nel pensiero sempre gía cercando
- Come potesse abbatter loro stato;
- Un dì n’avvenne ch’egli cavalcando
- Alla terra d’intorno, fu avvisato
- Ch’ella si arebbe sotterra cavando:
- E perchè avea maestri di tal’arti,
- Cavar la fe’ da una delle parti.
- 96
- Quando la donna del cavare intese,
- Dubbiò, e tosto di mura novelle
- Un cerchio dentro più stretto comprese,
- Il qual fer tosto e donne e damigelle:
- Appresso inchiostro e carta tosto prese,
- E colle mani dilicate e belle
- Una lettera scrisse, e trovar feo
- Due savie donne, e mandolle a Teseo.
- 97
- Eran le donne belle e di gran cuore,
- Con compagnia leggiadra e disarmate,
- Vestite in drappi di molto valore;
- Le qua’ giunte nel campo fur menate
- Da’ maggior Greci davanti al signore,
- Le quali assai da lui prima onorate
- La lettera gli diero, e la risposta
- Addomandaron grazïosa e tosta.
- 98
- Teseo la prese assai benignamente,
- E innanzi a sè chiamati i suoi baroni
- Insieme con molt’altra buona gente,
- Disse: signori, le donne amazzoni
- Questa lettera mandan veramente;
- Però l’udite, e con belle ragioni
- Lor si risponda: e poi la fece aprire,
- E legger sì che ognun potesse udire.
- 99
- La lettera era di cotal tenore:
- A te Teseo alto duca d’Atene
- Ippolita regina di valore
- Salute, se a te dir si conviene,
- E accrescimento sempre di tuo onore,
- Senza mancar di quel che m’appartiene,
- E pace con ciascuno, ed ancor meco,
- Che ho ragion di aver guerra con teco.
- 100
- I’ ho veduta la tua gente forte
- Ne’ porti miei con isforzata mano;
- Tal che sarebbe paura di morte
- Data a qualunque popol più sovrano
- Fuor ch’alle donne mie di guerra scorte
- Più ch’altra gente che al mondo siano,
- Le qua’ di que’ cacciasti assai superbo,
- Delle qua’ meco una parte ne serbo.
- 101
- E poi venuto se’ ad assediarmi
- Come nimica d’ogni tuo piacere,
- E più volte provate hai le tue armi
- Alle mie mura, e ancora potere
- Da quelle non avesti di cacciarmi,
- Perchè, per adempier lo reo volere
- Ch’hai contro a me, la terra fai cavare,
- Per poi potermi senza arme pigliare.
- 102
- Certo di ciò la cagion non conosco,
- Ch’io non t’offesi mai, nè son Medea
- Che per invidia ti voglia dar tosco:
- Anzi la tua virtù sì mi piacea,
- Quando si ragionava talor nosco,
- E di vederti gran disio avea,
- E ancora disiava tua contezza,
- Tanto gradiva tua somma prodezza.
- 103
- Ma di ciò veggio contrario l’effetto,
- Considerando la tua nuova impresa;
- Pensando che non ci abbia alcun difetto
- Commesso, e sia subitamente offesa,
- Senza aver io di te alcun sospetto:
- Di che nel core non poco mi pesa.
- E non men forse per la tua virtute,
- Ch’io faccia per la mia propria salute.
- 104
- Tu non hai fatto come cavaliere
- Che contro a par piglia debita guerra:
- Ma come disleal uom barattiere
- Subitamente assalisti mia terra,
- E come vile e cattivo guerriere
- Mai non pensasti, se ’l mio cor non erra,
- Che ’l guerreggiar con donne e aver vittoria
- Del vincitore è più biasmo che gloria.
- 105
- Ben ti dovresti di ciò vergognare,
- Se figliuol se’ com’ di’ del buono Egeo;
- Nè ti dovresti con arme appressare
- Alle mia mura. E già se ne penteo
- Chi ha volute mie forze provare;
- Perocchè mal sembiante mai non feo
- Nessuna ancora delle mie donzelle,
- Che tutte sono ardite prodi e snelle.
- 106
- Ma poscia che le mie forze provate,
- E il tuo pensiero hai ritrovato vano,
- Diverse vie hai sotterra trovate
- Per avermi prigione a salva mano:
- Ma non sarà così in veritate;
- Chè già ci è preso il rimedio sovrano,
- E di combattere in oscura parte,
- Non è di buon guerrier mestier nè arte.
- 107
- Dunque mi lascia in pace per tuo onore,
- Senza voler più tua fama guastare,
- Che ti perdono ciascun disonore
- Che fatto m’hai, o mi volessi fare:
- E se nol fai, con forze e con dolore
- I’ ti farò la mia terra sgombrare:
- Nè qui mi troverai qual festi al lito,
- Perch’io ti giucherò d’altro partito.
- 108
- Quando Teseo la lettera ebbe udita,
- A’ suoi baroni e’ disse sorridendo:
- Beato a me che campato ho la vita
- Mercè di questa donna, che ammonendo
- Mi manda, acciocchè mia fama fiorita
- Tra le genti dimori, me vivendo.
- Poi si rivolse a quelle donne, e disse:
- Tosto risposto fia a chi ne scrisse.
- 109
- In cotal guisa fe’ scrivere allora:
- Ippolita reina alta e possente,
- La quale il popol femminile onora,
- Teseo duca d’Atene e la sua gente,
- Salute tal qual ti bisogna ora,
- Cioè la grazia mia veracemente:
- Una tua lettera e messi vedemo,
- Per questa ad essa così rispondemo.
- 110
- Chi ’l nostro popolo uccide e discaccia
- Delle sue terre, a noi fa villania:
- Però se adoperiam le nostre braccia
- In far vendetta, grande onor ci fia;
- Nè viltà nulla i nostri cuori impaccia
- Se sottoterra cerchiam di far via
- Per lo tuo orgoglio volere abbassare,
- Ma facciam quel che buon guerrier dee fare.
- 111
- Cioè prendere vantaggio, acciocchè i suoi
- Più salvi sieno, e vincasi il nimico;
- E tosto ci vedrai ne’ cerchi tuoi
- Della città, nè mica come amico,
- Se non t’arrendi tostamente a noi,
- Uccidendo e tagliando: ond’io ti dico
- Che ’l mio comando facci, ed avrai pace;
- Chè in altra maniera non mi piace.
- 112
- E poi ch’egli ebbe scritte e suggellate
- Le lettere, donolle alle donzelle,
- Le quali avanti avea molto onorate:
- Ed a caval salito poi con quelle,
- E tutte le sue forze a lor mostrate,
- E similmente alle cave con elle
- Entrò, e fece lor chiaro vedere
- Le mura puntellate per cadere.
- 113
- Poi disse loro: o messaggere care,
- Alla reina vostra tornerete:
- E in verità potrete raccontare
- Ciò che apertamente qui vedete;
- Sicchè le piaccia di non farmi fare
- Asprezza contro a quantunque voi siete,
- E contro a lei, la qual mi par valente;
- Ch’io ne sarei poi più di voi dolente.
- 114
- Le damigelle allor preson commiato,
- Dicendo: signor nostro, volentieri:
- E nella terra per occulto lato
- Si ritornar, non per mastri sentieri:
- Ed alla donna lor tutto contato
- Ciò ch’han veduto in fra que’ cavalieri:
- Poi le lettere hanno presentate,
- Le qua’ fur lette tosto ed ascoltate.
- 115
- Poichè di quelle Ippolita il tenore
- Ebbe compreso, e ’l dir delle donzelle,
- Nel cor sentì grandissimo dolore,
- E similmente sentir quante quelle
- Ch’eran presenti ch’avesson valore,
- Pensose assai e nell’aspetto felle:
- Ma dopo alquanto Ippolita chiedendo
- Con mano udirsi, cominciò dicendo:
- 116
- Chiaro vedete, donne, a qual partito
- Ci hanno gl’iddii recate, e non a torto;
- Se di ciascuna fosse qui ’l marito,
- Fratel, figliuolo, o padre, che fu morto
- Da tutte noi, non sarie stato ardito
- Teseo mai d’appressarsi al nostro porto;
- Ma perchè non ci sono e’ ci ha assaltate,
- Come vedete, e ancora assediate.
- 117
- Venere giustamente a noi crucciata
- Col suo amico Marte il favoreggia;
- E tanta forza a lui hanno donata
- Che contro a nostro grado signoreggia:
- D’intorno a noi ha la citta assediata,
- E come vuole ognora ne danneggia,
- Perocchè vie più che noi è forte;
- Se noi non ci arrendiam, minaccia morte.
- 118
- Però a noi bisogna di pigliare
- De’ due partiti l’un subitamente:
- O contro a lui ancora riprovare
- Le forze nostre in campo virilmente,
- O a lui, poichè ci vuol, ci vogliam dare:
- Perocchè qui più tenerci niente
- Noi non possiam; chè, come voi sapete,
- Le mura in terra tosto vederete.
- 119
- E ’l dir che noi con esso combattiamo
- Mi par che sia assai folle pensiero;
- Perciocchè tutte quante conosciamo
- La gente sua, e lui ardito e fiero:
- E se ancora ben ci ricordiamo,
- E con noi stesse vogliam dire il vero,
- Noi lo provammo, non è molto ancora,
- Di che noi ci pentemmo in poca d’ora.
- 120
- E oltre a questo egli ha seco l’aiuto
- Degli alti iddii, che noi han per nimiche;
- E noi l’abbiamo assai chiaro veduto,
- Che orazion, vigilie, nè fatiche,
- Forza di corpo o atto provveduto
- Campar non ci ha potuto, che mendiche
- Della sua grazia esser non ci convenga,
- Se noi vogliam che ’n vita ci sostenga.
- 121
- Però terrei consiglio assai migliore
- Renderci a lui, che del valor mondano,
- Per quel ch’i’ senta, egli ha il pregio e l’onore;
- Ed è, a chi s’umilia, umile e piano:
- E già non ci sarà a disonore,
- Se vinte siam da uomo sì sovrano:
- Perciò che ogni uom per femmine ci tiene
- Come noi siamo, e lui duca d’Atene.
- 122
- Tacquesi qui: ma un grande mormorio
- In fra le donne surse, lei udita:
- L’una reputa buono, e l’altra rio
- Cotal consiglio; ma nessuna ardita
- È di dir contra e d’aprir suo disio:
- Perchè cotal sentenza diffinita
- Per le più sagge fu, che si mandasse
- Chi con Teseo per lor patti trattasse.
- 123
- Poichè cotal sentenza fu fermata,
- Ippolita due donne fe’ venire,
- Polista e Dinastora, e informata
- Ebbe ciascuna di ciò ch’hanno a dire:
- E poichè libertà loro ebbe data
- Quanta ne bisognava a ciò fornire,
- Disse: omai donne a vostra posta andate,
- Ma senza pace qui non ritornate.
- 124
- Fur costoro a Teseo, ed e’ con esse;
- E dopo lungo d’una e d’altra cosa
- Parlar, fermarsi, che esso prendesse
- Ippolita per sua eterna sposa,
- E che la terra per lui si reggesse
- Sotto le leggi della valorosa
- Ippolita reina: ed accordarsi
- Con molti altri più patti, e ritornarsi.
- 125
- Ippolita era a maraviglia bella,
- E di valore accesa nel coraggio:
- Ella sembrava mattutina stella,
- O fresca rosa del mese di maggio;
- Giovane assai, e ancora pulcella,
- Ricca d’avere, e di real legnaggio,
- Savia e ben costumata, e per natura
- Nell’arme ardita e fiera oltre misura.
- 126
- A cui le donne da Teseo venute,
- Ed a molte altre i patti raccontaro;
- Recando a tutte da Teseo salute,
- Il che fu alle più grazioso e caro:
- E poi che fur le parole compiute,
- Le donne l’armi di botto lasciaro:
- Ed ella comandò, per suo amore,
- Che a Teseo e a’ suoi sia fatto onore.
- 127
- Poscia che furono i patti fermati,
- Teseo co’ suoi montati in su’ destrieri,
- E’ più di loro essendo disarmati,
- A piccol passo i lieti cavalieri
- Senza contasto in la città menati,
- Nella qual ricevuti volentieri
- Umili d’essa preser possessione
- Senza fare ad alcuna offensione.
- 128
- Incontro venne sopra un bel destriere
- Al suo Teseo Ippolita reina,
- E più bella che rosa di verziere
- Con lei veniva una chiara fantina,
- Emilia chiamata al mio parere,
- D’Ippolita sorella piccolina;
- E dopo lor molte altre ne venieno
- Ornate e belle quanto più potieno.
- 129
- E ’n cotal guisa con solenne onore
- Ricevetter Teseo e la sua gente;
- Nè fu guari di lì lontano Amore,
- Ma co’ suoi dardi molto prestamente,
- E molti ancora ne ferì nel core:
- E se n’andaron molto lietamente
- Fin al palagio, e quivi dismontaro,
- E in su quello Teseo accompagnaro.
- 130
- Egli era bello, e d’ogni parte ornato
- Di drappi d’oro e d’altri cari arnesi
- Per ogni cosa ricco e bene agiato:
- Ma Teseo gli occhi non teneva attesi
- A ciò guardar, ma ’l viso dilicato
- D’Ippolita mirando, con accesi
- Sospir dicea: costei trapassa Elena,
- Cui io furai d’ogni bellezza piena.
- 131
- Egli avea già nel cor quella saetta,
- La qual Cupido suole aver più cara;
- E seco nella mente si diletta,
- D’aver per cotal donna tanto amara
- Fatica sostenuta; e lieto aspetta
- D’avere in braccio quella stella chiara:
- Parendogli colei assai più degno
- Acquisto che tututto l’altro regno.
- 132
- Le donne avieno cambiati sembianti
- Ponendo in terra l’armi rugginose,
- E tornate eran quali eran davanti
- Belle, leggiadre, fresche e grazïose;
- Ed ora in lieti motti e ’n dolci canti
- Mutate avien le voci rigogliose:
- E’ passi avevan piccioli tornati,
- Che pria nell’armi grandi erano stati.
- 133
- E la vergogna, la qual discacciata
- Avean la notte orribile, uccidendo
- I lor mariti, loro era tornata
- Ne’ freschi visi, gli uomini veggendo:
- E sì era del tutto trasmutata
- La real corte, a quel che prima essendo
- Senz’uomini le femmine parea,
- Che appena alcuna di loro il credea.
- 134
- Ripresi adunque i lasciati ornamenti,
- Di Citerea il tempio fero aprire,
- Serrato ne’ lor primi mutamenti;
- Qui fe’ Teseo Ippolita venire,
- E dati i sagrifizii riverenti
- A Venere, sposò con gran disire,
- Ippolita, l’aiuto d’Imeneo
- Chiamando, quivi il gran baron Teseo.
- 135
- Molte altre donne a’ greci cavalieri
- Si sposarono allora lietamente,
- E per signor gli preson volentieri,
- Come avean gli altri avuti primamente.
- Con giuramenti santissimi e veri
- Lor promettendo che al lor vivente
- Nella prima follia non tornerieno,
- E che lor cari sempre mai averieno.
- 136
- Tra l’altre belle vedove e donzelle
- Che fossono in quel loco, una ve n’era
- Che di bellezza passava le belle,
- Come la rosa i fior di primavera:
- La qual Teseo veggendola tra quelle,
- Fe’ prestamente domandar chi era:
- Detto gli fu, sorella alla reina,
- Emilia nominata la fantina.
- 137
- Piacque a Teseo la bella donzelletta,
- Non meno ch’alcun’altra che vi fosse:
- E ancor che gli paresse giovinetta,
- Nella sua mente già determinosse
- Che ad Acate sua cosa distretta
- Per moglie la darà: quindi si mosse,
- E al palazzo reale ritornaro,
- Dove pien di letizia ognun trovaro.
- 138
- Le nozze furon grandi e liete molto,
- E più tempo durò il festeggiare,
- E ciascun dalla sua fu ben raccolto,
- Ed a tutti pareva bene stare,
- Perchè fortuna avea cambiato volto:
- E le donne sapeano or che si fare
- Sè ristorando del tempo perduto
- Mentre nel regno uom non era suto.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO SECONDO
- * * *
- ARGOMENTO
- Questo secondo mostra il ritornare
- Che fe’ Teseo di Scitïa vincente,
- E delle Greche il tristo lagrimare,
- Col prego insieme d’Evanes dolente;
- Pel qual senza del carro dismontare,
- Con piccola orazione alla sua gente
- Persuadendo, si mosse ad andare
- Contro a Creon di Tebe re possente;
- E come in campo vinto, a lui la vita
- Tolse, ed a’ corpi fe’ dar sepoltura,
- Avendo Tebe alle donne largita:
- E poi fediti per loro sciagura,
- Presi da lui Palemone ed Arcita
- Mostra, mettendo poi loro in chiusura.
- 1
- Il sole avea due volte dissolute
- Le nevi agli alti poggi, ed altrettante
- Zefiro aveva le frondi rendute
- Ed i be’ fiori alle spogliate piante,
- Poichè d’Atene s’eran dipartute
- Le greche navi, Africo spirante,
- Da cui Teseo co’ suoi furon portati
- Negli scizii porti conquistati;
- 2
- Quand’esso colla sua novella sposa
- In lieta vita e dolce dimorava
- Senza pensiero d’alcun’altra cosa,
- Ed appena di Atene si curava:
- Ma il piacere divin più glorïosa
- Vittoria assai che quella gli serbava:
- Onde gli fe’ nuova vision vedere,
- Perchè del ritornar gli fu in calere.
- 3
- Nel dolce tempo che il ciel fa belle
- Le valli e’ monti d’erbette e di fiori,
- E le piante riveste di novelle
- Fronde, sopra le quali i loro amori
- Cantan gli uccelli; e le gaie donzelle
- Di Ceterea più sentono gli ardori,
- Era Teseo dal dolce amor distretto
- In un giardin pensando a suo diletto.
- 4
- Nel qual da una parte solo stando,
- Gli parve seco con viso cruccioso
- Per man tener Peritoo ragionando,
- Dicendo a lui: Che fai tu ozïoso
- Con Ippolita in Scitia dimorando
- Sotto Amore offuscando il tuo famoso
- Nome? Perchè in Grecia oramai
- Non torni, ove più gloria avrai assai?
- 5
- Èssi da te quell’animo gentile,
- Che ancor simile ad Ercol promettea
- Di farti, dipartito? Se’ tu vile
- Tornato nella tua età primea?
- E stando nella turba femminile,
- La tua prodezza, la qual già sapea
- Ciaschedun regno, è qui messa in oblio
- D’Ippolita nel grembo e nel disio?
- 6
- A cui Teseo volendo dar risposta,
- Ed iscusar la sua lunga dimora,
- Subito agli occhi suoi si fu nascosta
- La immagine di quel che parlav’ora:
- Perchè dubbioso col passo si scosta
- Dal loco ov’era, a sè mirando ancora
- D’intorno, per vedere se el vedea
- Colui che quivi parlato gli avea.
- 7
- Ma poichè la paura loco diede
- All’animal virtù, si ruppe il velo
- Dell’ignoranza, e con intera fede,
- Che non lì Peritoo, ma che del cielo
- Da qualche deità, la qual provvede
- All’onor suo con caritevol zelo,
- Era venuto cotal ragionare:
- Onde pensò ad Atene ritornare.
- 8
- Ad Ippolita dunque il suo volere
- Con donnesco parlar fe’ manifesto;
- La qual rispose, ad ogni suo piacere
- Essere apperecchiata e anche a questo:
- Ond’egli allor, che a lui fu in piacere,
- Il suo navilio fe’ preparar presto,
- E poi dispose del regno lo stato,
- Per modo che alle donne fu a grato.
- 9
- E fatto questo, entrò senza dimoro
- In mare, e insieme Ippolita reina;
- E tra più donne ne menar con loro
- La bella Emilia, stella mattutina.
- Quindi spirando tra Borea e Coro
- Ottimo vento, da quella marina
- Li tolse, lor portando in verso Atene
- Il più del tempo colle vele piene.
- 10
- Ma Marte il quale i popoli lernei
- Con furïoso corso avea commossi
- Sopra i Tebani, e miseri trofei
- Donati avea de’ principi percossi
- Più volte già, e de’ Greci plebei
- Ritenuti tal volta, e tal riscossi
- Con asta sanguinosa fieramente,
- Trista avea fatta l’una e l’altra gente:
- 11
- Perciocchè dopo Anfiarao, Tideo
- Stato era ucciso, e ’l buono Ippomedone,
- E similmente il bel Partenopeo,
- E più Teban, de’ qua’ non fo menzione,
- Innanzi e dopo al fiero Capaneo,
- E dietro a tutti in doloroso agone,
- Eteocle e Polinice ognun fedito
- Morti, ed Adrasto ad Argo era fuggito.
- 12
- Onde il misero regno era rimaso
- Voto di gente, e pien d’ogni dolore;
- Ma in picciol’ora da Creonte invaso
- Fu, che di quello si fe’ re e signore,
- Con tristo augurio, e ’n doloroso caso
- Recò insieme il regno suo e l’onore,
- Per fiera crudeltà da lui usata,
- Mai da null’altro davanti pensata.
- 13
- Esso con fiero core i Greci odiando,
- Poichè fur morti, in lor l’odio servava,
- Perch’egli avea con gravissimo bando
- Vietato a chi sua grazia disiava,
- Che a nullo corpo morto, quivi stando,
- Fuoco si desse, e imputridir lasciava
- Lor sozzamente senza sepoltura,
- Qual delle fiere pria non fu pastura.
- 14
- Onde le donne argoliche, le quali
- Venien dolenti a far lo stremo ufizio
- Con somma maestà di tutti i mali,
- Anzi giugnesson quivi, ebbero indizio
- Dell’editto crudele; e però, tali
- Quali eran triste di tal malefizio,
- Proposer colle lagrime piegare
- Teseo a tale ingiuria vendicare.
- 15
- E quindi i passi a Atene dirizzaro
- Atate dal dolor nella fatica;
- Ed a quella venute, con amaro
- Segno mostrar la fortuna nimica:
- Gli Ateniesi si maravigliaro
- Di quella turba d’ogni ben mendica,
- E domandaron di ciò la cagione,
- Perchè venute e di qual regïone.
- 16
- I qua’ poscia che udir la nobiltate
- Di quelle donne e la cagion del pianto,
- Con tenerezza ne preson pietate
- Di veder loro in tormento cotanto:
- E gli alti cittadini apparecchiate
- Profferser loro case d’ogni canto
- Fin che Teseo in Atene tornava,
- Che d’ora in ora in essa si aspettava.
- 17
- Esse non vollon da nessuno onore,
- Ma solo il tempio cercar di Clemenza.
- E in quello con gravissimo dolore
- Stanche e lasse fecion risedenza,
- Aspettando con lagrime il signore,
- Assai crucciose della sua assenza.
- E le donne ateniesi in compagnia
- Di loro stetter quivi tuttavia.
- 18
- Teseo con vento fresco al suo viaggio
- Contento ritornava in verso Atene,
- Con gran partita del suo baronaggio
- E con colei che ’l suo cuor guida e tene,
- Ippolita reina; e ’l suo passaggio
- Tosto fornito fu e senza pene:
- Nè prima giunto fu alla marina,
- Che in Atene si seppe la mattina.
- 19
- Gli Ateniesi, che lui pure attendieno
- Con gran disio, per la sua ritornata
- Mirabil festa preparata avieno,
- La qual fu incontanente cominciata,
- Secondo il lor poter (che assai potieno):
- Fu la lor terra tutta quanta ornata
- Di drappi ad oro e d’altri paramenti,
- Con infiniti canti ed istromenti.
- 20
- Quanto le donne allor fosser ornate,
- Ne’ teatri ne’ templi ed a’ balconi,
- E per le vie mostrando lor beltate,
- Nol potrieno spiegare i miei sermoni:
- La lor presenza tal solennitate
- Facea maggior per diverse ragioni:
- E ’n breve in ogni parte si cantava,
- E con somma allegrezza si festava.
- 21
- Gli alti suoi cittadini apparecchiare
- Gli fero un carro ricco e trionfale,
- Il qual gli fèr là dov’era menare:
- Nè altro ne fu mai a quello eguale
- Veduto per alcuno; ed apprestare
- Gli fer con esso vesta imperiale,
- E corona d’allor, significante
- Che per vittoria venía trionfante.
- 22
- Teseo adunque come fu smontato
- Di mare in terra, in sul carro salio,
- Degli ornamenti reali addobbato,
- E sopra quello appresso il suo disio
- Ippolita gli stette dall’un lato,
- Dall’altro Emilia fu, al parer mio;
- Poi l’altre donne, e i cavalier con loro
- A cavallo il seguir senza dimoro.
- 23
- In diverse brigate festeggiando,
- A cavallo ed a piè erano andati
- Gli Ateniesi in vêr di lui cantando
- Di varii vestimenti divisati,
- Con infiniti suoni ognun festando,
- E con esso in Atene rientrati,
- Diritto andò al tempio di Pallade
- A riverir di lei la deitade.
- 24
- Quivi con riverenza offerse molto,
- E le sue armi ed altre conquistate:
- E poi per altra via il carro volto,
- Alquanto circuendo la cittate
- Con infinito d’uomini tumolto,
- Dovunque gía con grida eran lodate
- L’opere sue magnifiche, e con gloria
- Le dicean degne d’eterna memoria.
- 25
- E mentre ch’egli in cotal guisa giva,
- Per avventura dinanzi al pietoso
- Tempio passò, nel qual era l’achiva
- Turba di donne in abito doglioso,
- Le quali, udendo che quivi veniva,
- Sì si levaron con atto furioso,
- Con alte grida, pianto e gran romore
- Pararsi innanzi al carro del signore.
- 26
- Chi son costor che a’ nostri lieti avventi
- Co’ crini sparti battendosi il petto,
- Di squallor piene in atri vestimenti,
- Tutte piangendo? come se ’n dispetto
- Avesson la mia gloria, all’altre genti,
- Siccome io vedo, cagion di diletto?
- Disse Teseo stupefatto stando:
- A cui una rispose lagrimando:
- 27
- Signor, non ammirar l’abito tristo
- Che innanzi a tutte ci fa dispettose,
- Nè creder pianger noi del tuo acquisto,
- Nè d’alcuno tuo onor esser crucciose:
- Benchè l’averti in cotal gloria visto
- Pe’ nostri danni ne faccia animose
- A pianger più, che non facemmo forse
- Essendo pur dal primo dolor morse.
- 28
- Dunque chi siete? disse a lor Teseo,
- E perchè sì nella pubblica festa
- Sole piangete? Allora oltre si feo
- Evanes più che nessun’altra mesta,
- Dicendo: sposa fui di Capaneo,
- E qualunque altra che tu vedi in questa
- Turba, di re fu madre, o moglie, o suora,
- O figlia, ed aprirotti che ci accora.
- 29
- La perfida nequizia del tiranno
- Figliuol di Edippo contro a Polinice
- Suo unico fratello, e ’l fiero inganno
- Del regno, degli Argivi l’infelice
- Esercito tirò a suo gran danno,
- Che è maggiore assai che non si dice,
- Davanti a Tebe, dove trista sorte
- Ciascun alto baron tolto ha con morte.
- 30
- E dove noi invano speravamo
- Con quell’onor vedergli ritornare
- Alle lor terre ch’aval te veggiamo
- Nel tuo laureato trionfare;
- Nell’abito dolente in che noi siamo
- A seppellirgli ci convenne andare:
- Ma l’aspra tirannia di quel ch’ha preso
- Il regno dietro a lor, ciò n’ha difeso.
- 31
- Il perfido Creonte, a cui più dura
- L’odio che a’ morti non fece la vita,
- A’ greci corpi niega sepoltura,
- Crudeltà credo mai più non udita;
- E di qua l’ombre alla palude oscura
- Di Stigia ci ritiene; onde infinita
- Doglia ci assal tra gli altri nostri mali,
- Sentendoli mangiare agli animali.
- 32
- Pietose adunque a questo estremo onore
- Voler donar, d’Acaia ci movemmo:
- Ma come a noi contato fu il tenore
- Di tal’editto, i passi qua volgemmo,
- E porger prego a te, caro signore,
- Di tal’oltraggio con noi proponemmo,
- Il qual l’abito nostro per noi doni
- A te in prima e poi a’ tuoi baroni.
- 33
- S’alto valor, come crediam, dimora
- In te, a questo punto sii pietoso:
- Tu ne averai alto merito ancora;
- E oltre a ciò, ciò che uom virtuoso
- De’ far farai; se altri da te infuora
- Far lo volesse, en dovresti cruccioso
- Essere, ed impedirlo, acciocchè avessi
- La gloria tu di punir tali eccessi.
- 34
- Deh se l’abito nostro e ’l lagrimare
- Non ti muovon; nè preghi nè ragione
- A far che ’l pio ufizio possiam fare,
- Muovati almen la trista condizione
- Di que’ che già fur re, non gli lasciare
- Nella futura fama in dirisione;
- E’ furon teco già d’un sangue nati,
- E come te ancor Greci chiamati.
- 35
- Le lagrime non eran mai mancate,
- Perchè parlasse, agli occhi di costei,
- Ma sempre in quantità multiplicate,
- E ’l simil era all’altre dietro a lei,
- Le’ quai con forza avien messa pietate
- In ciaschedun di que’ baroni achei:
- Perchè con seco ognun forte dannava
- La crudeltà la qual Creonte usava.
- 36
- Teseo attento le parole dette
- Ricogliea tutte, l’abito mirando
- Di quelle donne, e benchè lor neglette
- Vedesse, chiaro assai seco estimando,
- La maestà nascosa conoscette,
- E grave duol nel cuor gli venne quando
- Udì de’ re la morte, e dopo alquanto
- Così rispose al doloroso canto.
- 37
- L’abito scuro, e ’l piangere angoscioso,
- E ’l voi conoscer pe’ vostri maggiori;
- Il ricordarmi il vostro esser pomposo,
- Gli agi e’ diletti e’ regni e’ servitori,
- E de’ re vostri il regnar glorïoso
- Hanno trovato ne’ miei sommi onori
- A’ vostri preghi luogo, e la mutata
- Fortuna trista di lieta tornata.
- 38
- Io vorrei ben nel primo loro stato
- Ed in vita li vostri re tornare,
- Com’io credo poter far che sia dato
- Onor di sepoltura a cui donare
- Vi piacerà: e l’orgoglio abbassato
- Di colui fia che ciò vi vuol negare.
- Però se al male avuto può conforto
- Porger vendetta, per me vi fia porto.
- 39
- Fortificate gli animi dolenti
- Con isperanza buona, ch’io vi giuro
- Prima che io e i miei baron possenti
- Ci riposiam d’Atene dentro al muro,
- Di ciò faremo interi esperimenti,
- Ed io son già di vittoria sicuro:
- Non tanto avendo in mia forza fidanza,
- Quanto mi dà di Creon la fallanza.
- 40
- E detto questo, con benigno aspetto
- Si rivolse ad Ippolita dicendo:
- Ben hai udito, donna, ciò che han detto
- Queste donne reali a noi piangendo:
- Pregoti adunque non ti sia dispetto
- Se al presente a lor giustizia intendo;
- Dismonta, e col mio padre ti starai
- Finchè tornato me qui vederai.
- 41
- A cui così Ippolita rispose:
- Caro signor, benchè io sia Amazzona,
- Io non son sì crudel, che cota’ cose
- Volentier non mettessi la persona
- Per vendicarle, sì son dispettose:
- S’è vero ciò che delle donne suona
- Il tristo ragionar, sol ch’io credesse
- Che in ciò il mio portar arme ti piacesse.
- 42
- Però, signor, secondo il tuo piacere
- Opera omai, e s’egli è di tal fretta,
- Qual’elle dicon, non soprassedere;
- Va’, e fa’ quello che al tuo onore aspetta;
- Che ciò m’è più ch’altra cosa in calere.
- E questo detto, in tra la turba eletta
- Di molte donne che l’accompagnaro,
- Ella ed Emilia del carro smontaro.
- 43
- Poi che Teseo le donne ebbe smontate
- Del carro suo, tenendo il viso fitto
- Nella miseria delle sconsolate,
- Da intima pietà nel cor trafitto,
- Sopra il carro si volse alle pregiate
- Schiere de’ suoi senza niun rispitto,
- E con boce alta e di furore acceso
- Parlò sì che da tutti fu inteso.
- 44
- Tant’è nel mondo ciascun valoroso,
- Quanto virtù gli piace adoperare:
- Dunque ciascun di vivere ozïoso
- Si guardi se in fama vuol montare:
- E noi, acciocchè stato glorïoso
- In tra’ mondan potessimo acquistare,
- Venimmo al mondo, e non per esser tristi
- Come bruti animali in tra lor misti.
- 45
- Adunque cari e buon commilitoni,
- Che meco in tante perigliose cose
- Istati siete in dubbie condizioni,
- Per far le vostre memorie famose
- Alle future nuove nazïoni,
- Ora gli cori alle opere gloriose
- Vi prego disponiate, nè vi caglia
- Prender riposo d’avuta battaglia.
- 46
- Udito avete tutti, siccome io,
- Ciò che le donne vi dicon presenti:
- Certo ciascun ne dovrebbe esser pio,
- E al vengiar dovereste esser ferventi:
- Chè l’aspre nimistà e il disio
- Del nuocer debbon ciaschedune genti
- Lasciare, ed obliar poi l’uom ch’è morto:
- Ma Creonte fa a’ morti nuovo torto.
- 47
- Andiamo a lui adunque, il fier Creonte
- Umil facciam colle spade tornare,
- Sì ch’egli lasci l’ombre ad Acheronte,
- Poi sien sepolti i corpi, trapassare.
- Noi non andiamo, acciò ch’a Demofonte
- Rimanga, regno altrui a usurpare,
- Ma a ragione a rilevar sua gloria,
- Per che gl’iddii ci doneran vittoria.
- 48
- E’ non fu più lasciato avanti dire,
- Che un rumor surse che ’l cielo toccava:
- Tutti siam presti di voler morire
- D’intorno a te; e già molto ci grava
- Che in ver Creonte non prendiamo a gire,
- Poi ch’opera commette così prava:
- E voi vedrete nell’operar nostro,
- Signor, se ci fie caro l’onor vostro.
- 49
- Teseo adunque, senza rivedere
- Il vecchio padre o parente od amico,
- Uscì d’Atene, e non gli fu in calere
- D’Ippolita l’amor dolce e pudico,
- Nè alcun altro riposo, per potere
- Gloria acquistar sopra degno nimico:
- E come egli era entrato nella terra,
- Così ne uscì alla novella guerra.
- 50
- Le insegne che ancora ripiegate
- Non eran, si rizzaro prestamente:
- E’ cavalier colle schiere ordinate
- Dietro alla sua ciascuno acconciamente
- Ne givano, e le donne sconsolate
- Lor procedean, di ciò molto contente:
- E dopo giorno alcun giunsono a Tebe,
- E fermar campo in sulle triste glebe,
- 51
- Sentì Teseo l’aere corrotto
- Pe’ corpi ch’eran senza sepoltura:
- Onde mandò a Creonte di botto
- Ched e’ lasciasse aver de’ morti cura,
- E si apprestasse, senza più dir motto,
- Alla battaglia dispietata e dura.
- I messi andaro e fecion l’ambasciata,
- A qua’ Creon cotal risposta ha data:
- 52
- Dite a Teseo ch’io sono apparecchiato
- Della battaglia, ch’egli averà a fare
- Con franco popol tutto bene armato:
- E non si creda qui donne trovare,
- Siccome in altra parte, egli è errato:
- E però venga qual’ora gli pare,
- Che i corpi fuoco non avranno, ed esso
- Giacer farò con loro assai d’appresso.
- 53
- Il buon Teseo la risposta intese
- Superba assai, della quale e’ si rise:
- E al piano campo con li suoi discese,
- Ed in tre parti tutti i suoi divise,
- E fece loro il lor affar palese;
- E poi davanti a tutti egli si mise,
- E bene acconcio ne gì ’n ver Creonte,
- Che con sua gente gli era uscito a fronte.
- 54
- Allora trombe, nacchere e tamburi
- Sonaron forte d’una e d’altra parte;
- Fremivano i cavalli, ed i securi
- Cavalier tutti gridavano: o Marte,
- Or si parranno gli tuoi colpi duri;
- Or si conoscerà la tua grand’arte:
- Allora lance e saette pungenti
- Cominciarsi a gittar fra le due genti.
- 55
- I cavalieri insieme si scontraro
- Con tal romore e con sì gran tempesta,
- Che insino al ciel le boci risonaro;
- E colle lance ciaschedun s’infesta
- Di vender bene il romper quelle caro:
- Poi colle spade battaglia molesta
- Incominciar, dove molti moriro
- Nel primo assalto che ’nsieme fediro.
- 56
- E ’l buon Teseo sopra un alto destriere,
- Con una mazza in man pel campo adava
- Ferendo forte ciascun cavaliere,
- Ed abbattendo cui egli scontrava,
- E spesso confortava le sue schiere;
- Col suo ben far tutti gli rincorava,
- Porgendo armi sovente a chi l’avesse
- Perdute, e rimontando chi cadesse.
- 57
- E ben vedea chi con tremante mano
- Moveva i ferri, e chi arditamente
- Sopra i nimici suo valor sovrano
- Combattendo mostrava, e chi niente
- Pigro operava dimorando invano;
- Gli qua’ sgridando spregiava vilmente:
- Lodando gli altri, e per nome chiamando
- Or questo or quello gli gía confortando.
- 58
- Dall’altra parte il simile facea
- Creonte, come ardito conduttore;
- E quasi in sè del nimico credea
- Senza alcun fallo farsi vincitore:
- L’un contro l’altro ben si difendea
- Arditamente e con sommo valore:
- Ma sì andando insieme si scontraro
- Creonte e ’l buon Teseo, e sì gridaro.
- 59
- Corsonsi addosso li duo cavalieri,
- Chiusi nell’armi, e valorosamente
- Si cominciaro a fedire i guerrieri,
- Com’uomini che s’odian mortalmente,
- E come que’ che avrebbon volentieri
- L’un l’altro a morte dato certamente:
- E già pe’ colpi tutte magagnate
- S’avevan l’armi, e le carni tagliate.
- 60
- Teseo di cruccio tutto quanto ardea
- Vedendo di Creonte il gran durare,
- E fra sè stesso fremendo dicea:
- Demmi costui alla fine menare?
- Poi tutte in sè sue forze raccogliea,
- E furïoso li si lascia andare
- Addosso a lui, e per tal forza il fere,
- Che lo gittò per morto del destriere.
- 61
- Teseo allora del caval discese,
- Dicendo: o fier tiranno, or’è venuto
- Il dì che ’l tuo mal viver tanto attese:
- Ora sarà tuo fallo conosciuto,
- Or fien punite le già fatte offese
- Da te, or fia ’l tuo viver compiuto,
- E le tue armi i’ sagrerò a Marte,
- Benigno iddio a me in ogni parte.
- 62
- I corpi contro a’ quai fosti spietato
- Arsi saranno, e ’l tuo regno distrutto,
- E ’l nome tuo di memoria privato;
- Ed alle donne, a cui cagion di lutto
- Fosti, sarà il tuo corpo donato,
- Ch’esse ne facciano il lor piacer tutto;
- Così la tua superbia fia abbattuta,
- Che a rispondermi fu cotanto arguta.
- 63
- Non spaventar le parole Creonte
- Perchè abbattuto si vedesse in terra,
- Nè sembianza mutò l’ardita fronte,
- Nè mitigossi nel cor la sua guerra;
- Anzi più fiero e con parole pronte
- Aspra risposta parlando disserra
- A quel che sopra ’l petto fier gli stava,
- E col suo ferro morte gli apprestava;
- 64
- Dicendo a lui: fanne il tuo piacere
- Perchè io muoia, avanti che vittoria
- Io veggia a te ed a tua gente avere:
- Che l’alma mia almeno alcuna gloria
- Ne porterà con seco nel parere;
- E segnato terrà nella memoria
- Che ’n dubbio i tuoi e i miei lasciò d’onore:
- E credo che i miei hanno il migliore.
- 65
- Questo ne porterò agl’infernali
- Iddii quasi contento: e se e’ fia
- Il corpo mio donato agli animali,
- Senz’altro fuoco, ciò l’alma disia:
- Però che parte degli miei gran mali
- Di qua della riviera oscura e ria,
- La qual vuoi far passare a’ greci morti,
- Io celerò, se non fia chi men porti.
- 66
- Or fa’ omai quel che t’è più a grato,
- Ch’io non men curo: e tacque: ed intrattanto
- L’avie Teseo già tutto disarmato:
- E quasi tutto del sangue e del pianto
- Il vide il duca del viso cambiato,
- E già era freddato tutto quanto:
- Però conobbe l’anima dolente
- Esser partita del corpo spiacente.
- 67
- Il quale e’ lasciò quivi, e risalio
- Sopra ’l destriere e fra’ suoi ritornossi;
- E tutto quanto ardendo nel disio
- D’aver vittoria, focoso ficcossi
- Tra gli nimici, e ’l primo che fedio
- Alli suoi piedi morto coricossi:
- E ’l simil fece a’ più degli altri fare;
- Per che nessun l’ardiva ad aspettare.
- 68
- E’ suoi facevan nell’armi gran cose
- Contra i nemici, gran forza mostrando,
- E per lo campo le genti orgogliose
- Uccidendo, ferendo e scavallando
- Andavan, pur pensando alle pietose
- Donne che avien vedute lagrimando:
- Talchè non gli potien più sofferire
- I Teban, salvo chi volìe morire.
- 69
- E d’altra parte già saputo avieno
- Del lor signor la morte dolorosa;
- Perchè che farsi tra lor non sapieno:
- Laonde in fuga trista ed angosciosa,
- Siccome gente che più non potieno,
- Si volson tutti, che nessun non osa
- Volgersi indietro ed insieme aspettarsi,
- Tanto di presso vedien seguitarsi.
- 70
- I miseri cacciati non fuggiro
- Nella città, per quivi aver riparo,
- Ma per li monti ogigii se ne giro,
- Chi per lo bosco ove Tideo assediaro,
- E qua’ su Citeron se ne saliro;
- Altri ne’ cavi monti si appiattaro:
- Ed in tal guisa con grave dolore
- Tutti fuggir davanti al vincitore.
- 71
- Questo veggendo i cittadin tebani,
- Le donne e’ vecchi e’ piccoli figliuoli
- Rimasi in quella miseri profani,
- Di quella usciron facendo gran duoli,
- Li suo’ seguendo per luoghi silvani:
- E così tristi per diversi stuoli
- Lasciar di Bacco e di Ercole la terra
- Nelle man di Teseo in tanta guerra.
- 72
- Al buon Teseo non piacque seguitare
- Que’ che fuggian; ma tosto se ne gio
- In ver la terra, alla qual nell’entrare
- Nessun incontro con arme gli uscio:
- Passato adunque dentro, ad ammirare
- Cominciò i templi di qualunque iddio,
- Le antiche rocche di Cadmo cercando,
- E l’altre cose mire riguardando.
- 73
- E poich’egli ebbe vedute le cose
- Magnifiche, ciascun quelle guardante,
- Se ne uscì fuori, ed alle sue vogliose
- Genti di rubar quella rimirante
- Licenzia diede: è ver che loro impose
- Che tutte salve sian le cose sante
- Degli tebani iddii: per che cercata
- Fu tosto tutta e per tutto rubata.
- 74
- Teseo sè vedendo vincitore,
- Sopra Asopo il suo campo fece porre;
- E de’ vincenti chetato il romore,
- Del campo il corpo di Creon fe’ torre,
- E con esequie degne grande onore
- Li fe’, e fe’ la cenere riporre
- Dentro ad un’urna, e poscia di Lieo
- Nel tempio in Tebe collocar la feo.
- 75
- Dicendo: i’ voglio ch’all’ombre infernali
- Possi di me miglior testimonianza
- Render, che quegli eccelsi e gran reali,
- A qua’ negavi con grande arroganza
- Gli ultimi onori e’ fuochi funerali,
- Di te non posson per la tua fallanza:
- E questo fatto, a sè fece chiamare
- Le greche donne, e lor prese a parlare.
- 76
- Donne, gl’iddii alla vostra ragione
- Hanno prestata debita vittoria,
- E però con dovuta oblazïone
- Tenuti siam d’esaltar la lor gloria;
- Però mettete ad asseguizione,
- Ciò che de’ vostri faceste memoria:
- Date alli vostri re l’uficio pio,
- Secondo che avete nel disio.
- 77
- E questo fatto, la terra prendete
- Che cagion fu di morte a’ vostri regi,
- E sì ne fate ciò che voi volete,
- Come di nido di tutti i dispregi:
- Sicuramente in quella andar potete,
- Che alcun non è che al gir vi privilegi.
- Le donne quasi liete il ringraziaro,
- E quindi a fare il lor uficio andaro.
- 78
- Esse giron nel campo doloroso,
- Dove gli argivi re morti giacieno;
- E benchè fosse a lor fatto noioso,
- Per lo fiato ch’e’ corpi già rendieno,
- Non fu però a lor punto gravoso
- Cercar pe’ morti que’ ch’elle volieno,
- In qua in là, or questo or quel volgendo,
- Il suo ognuna intra’ molti caendo.
- 79
- Il quale in prima non avien trovato,
- Che, dopo molto pianto, mille volte
- Non si restavan sì l’avien baciato,
- Usando ne’ lor pianti voci molte,
- Qua’ soglion far le donne in cotal piato:
- Quindi de’ corpi le parti raccolte,
- Prima ne’ fiumi gli bagnavan tutti,
- Po’ gli ponieno sopra i roghi strutti.
- 80
- E sopra lor carissimi ornamenti,
- Quali a ciascun di lor si confacea,
- Armi, corone, scettri e vestimenti
- Di quelle donne ciascuna ponea:
- E dietro a tutti, con pianti dolenti,
- Ne’ roghi ornati fuoco si mettea,
- Dicendo versi di maniere assai
- Appartenenti tutti a tristi guai.
- 81
- E ’n cotal guisa la turba piagnente
- Con fuochi i morti corpi consumaro;
- E poi le cener diligentemente
- Dentro dell’urne con dolore amaro,
- Che avien portate, miser di presente,
- E per portarle ad Argo le serbaro:
- Ma prima giro in Tebe; e non potendo
- Altra vendetta far, la giro ardendo.
- 82
- Quindi a Teseo tornata una di loro
- Incominciò: valoroso signore,
- Della vendetta ch’hai fatta, e ristoro
- Del nostro incomprensibile dolore,
- Grazia ti rendan gl’iddii, e coloro
- Ch’hanno od avranno mai di ciò valore:
- E noi in ciò ch’è in femmina potere,
- L’onestà salva, siamo al tuo piacere.
- 83
- L’eccelsa gloria de’ nostri reali,
- Che morti sono in questo tristo loco,
- Cui noi aspettavam con trionfali
- Solennità, per doloroso foco
- Avem tornati in cenere, le quali
- Qui ristrette in vaselli assai poco
- Ce ne portiamo. Tu riman con Dio,
- Il quale adempia ciascun tuo disio.
- 84
- Così sen giro. Ma Teseo cercare
- Fatto avea ’l campo, e ciaschedun fedito,
- Che fu trovato, fatto medicare,
- Ed ogni morto aveva seppellito:
- E quindi a sè avea fatto recare
- Ciò che avien guadagnato, e quel partito
- Secondo i merti fra’ suo’ cavalieri
- Liberamente il diede volentieri.
- 85
- Mentre li Greci i lor givan cercando,
- E rovistando il campo sanguinoso,
- E’ corpi sottosopra rivoltando,
- Per avventura, un caso assai pietoso,
- Due giovani fediti dolorando
- Quivi trovaron senza alcun riposo;
- E ciaschedun la morte domandava,
- Tanto dolor del lor mal gli aggravava.
- 86
- E’ non eran da sè guari lontani,
- Armati ancora tutti, ed a giacere;
- I qua’ come coloro, alle cui mani
- Pervenner prima, udendo il lor dolere
- Li vider, si pensar che de’ sovrani
- Esser dovieno: e ciò fecer vedere
- Le lucenti arme e ’l loro altiero aspetto,
- Che Dio, nell’ira, lor facea dispetto.
- 87
- E’ s’appressaro ad essi umilemente,
- Quasi già certi di lor condizione:
- Nè disarmargli come l’altra gente
- Nimica avien fatto, e che ’n prigione
- Avevan messi; e poi benignamente
- Recatilisi in braccio, con ragione
- Gli ripigliaron del disperar loro,
- E menargli a Teseo senza dimoro.
- 88
- I qua’ Teseo come gli ebbe veduti
- D’alto affar gli stimò, lor dimandando,
- Se del sangue di Cadmo e’ fosser suti:
- E l’un di loro altiero al suo dimando
- Rispose: in casa sua nati e cresciuti
- Fummo, e de’ suoi nipoti siamo; e quando
- Creon contro di te l’empie armi prese,
- Fummo per lui co’ nostri a sue difese.
- 89
- Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno
- Real che avien costor, ma non seguio
- Però l’effetto a cotal ira degno,
- Ma verso lor più ne divenne pio,
- E siccome de’ suoi, con ogn’ingegno
- Fe’ sì che tutte lor piaghe guario:
- E poi con gli altri in prigion gli ritenne,
- Lor riservando al trionfo solenne.
- 90
- Poichè parve a Teseo di ritornare,
- Distrutta Tebe, e data sepoltura
- A cui vi fu da dovergliele dare,
- Raccolti i suoi con diligente cura,
- In ver d’Atene si mise ad andare;
- Nè prima fur vicini alle sue mura,
- Che ciò ch’all’altra festa era mancato,
- A quel punto trovaro ristorato.
- 91
- Gli Ateniesi un carro gli menaro
- Più ricco assai che ’l primo, e tutti quanti
- Generalmente in verso lui andaro
- Con allegrezza e con solenni canti,
- E di vittoria doppia il commendaro;
- E in cotal guisa andandogli davanti,
- Entrarono in Atene; e quivi Egeo
- Suo vecchio padre incontro gli si feo.
- 92
- Esso davanti al suo carro fe’ gire
- Arcita e Palemon presi baroni,
- A’ qua’ facea tutti gli altri seguire,
- Ch’avie ne’ campi presi per prigioni;
- E dietro al carro faceva venire
- Di preda onusti i suoi commilitoni;
- Il carro d’ogni lato era ripieno
- Di donne assai che gran festa facieno.
- 93
- A così alto e magnifico onore
- Teseo veggendo Ippolita reina
- Gli venne in petto, il suo alto valore
- Mostrando più che mai quella mattina;
- La quale ei vide con allegro core,
- Ed Emilia con lei rosa di spina,
- Con altre donne assai e cavalieri,
- I quali ora nomar non fa mestieri.
- 94
- A cotal festa e sì lieto sembiante
- Fu Teseo ricevuto ed onorato
- Da tutti i suoi, e così trionfante,
- Quasi per tutto con gioia menato:
- Come al tempio di Marte fu davante,
- Quivi gli piacque che fosse arrestato
- Il carro suo, ed in terra discese,
- E in quello entrò a tututti palese.
- 95
- Lì si fe’ dare l’armi che a Creonte
- Avie nel campo teban dispogliate,
- Ed a Marte l’offerse, e dalla fronte
- Con man le frondi di Penea levate
- Diè similmente, e con parole pronte,
- Delle vittorie da lui acquistate
- Grazie rendendo a Marte copïose,
- Offerendogli vittime pietose.
- 96
- Quindi usci poi, e al mastro palagio
- Tornò accompagnato dal suo padre:
- E prendendosi festa, giuoco ed agio,
- Alla reina le cose leggiadre
- Narrava, che avie fatte, e ’l suo disagio:
- Spesso assalito dalle luci ladre
- Di quella donna, che ’l mirava fiso;
- Perch’esser gli pareva in paradiso.
- 97
- Riposato più giorni in lieta vita
- Il buon Teseo, si fe’ innanzi venire
- Il teban Palemone e ’l bello Arcita,
- E ciascun vide molto da gradire,
- E nell’aspetto di sembianza ardita;
- Perchè pensò di fargli ambo morire,
- Dubbiando che se andare gli lasciasse,
- Non forse ancora molto gli noiasse.
- 98
- Poi fra sè disse: i’ fare’ gran peccato,
- Nullo di loro essendo traditore:
- Ed in sè stesso fu diliberato
- Che gli terrà prigion per lo migliore:
- E tosto al prigioniere ha comandato
- Che ben gli guardi e faccia loro onore:
- Così da lui Arcita e Palemone
- Dannati furo ad eterna prigione.
- 99
- Li prigion tutti furon carcerati,
- E dati a guardia a chi ’l sapea ben fare:
- E questi due furon riserbati,
- Per farli alquanto più ad agio stare,
- Perchè di sangue reale eran nati,
- E felli dentro al palagio abitare,
- E così in una camera tenere,
- Facendo lor servire a lor piacere.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO TERZO
- * * *
- ARGOMENTO
- Nel terzo dona a Marte alcuna posa
- L’autore, e descrive come Amore
- D’Emilia bella più fresca che rosa
- A’ duo prigion con gli suo dardi il core
- Ferendo, egli accendesse in amorosa
- Fiamma, mostrando poi l’aspro dolore
- Del soperchio disio, all’animosa
- Voglia di far sentire il lor valore:
- E poi pregando il figliuol d’Issione
- Il gran Teseo, suo amico caro,
- Arcita fa trar fuori di prigione.
- E mostra i patti che con lui fermaro,
- E poi preso congè da Palemone
- Da Atene il mostra uscir con duolo amaro.
- 1
- Poichè alquanto il furor di Giunone
- Fu per Tebe distrutta temperato,
- Marte nella sua fredda regïone
- Colle sue furie insieme s’è tornato.
- Perchè omai con più lungo sermone
- Sarà da me di Cupido cantato,
- E delle sue battaglie: il quale i’ prego
- Che sia presente a ciò che di lui spiego,
- 2
- Ponga ne’ versi miei la sua potenza
- Quale la pose ne’ cor de’ Tebani
- Imprigionati, sicchè differenza
- Non sia da essi agli lor atti insani;
- Li qua’ lontani a degna sofferenza
- Venir gli fece in ultimo alle mani:
- In guisa che a ciascuno fu discaro,
- E all’uno fu di morte caso amaro.
- 3
- In cotal guisa adunque imprigionati
- I due Tebani, in suprema tristizia,
- E quasi più che ad altro a piagner dati,
- Del tutto d’ogni futura letizia
- Dover aver giammai più disperati,
- Maledicean sovente la malizia
- Dell’infortunio loro, e ’l tempo e l’ora
- Che al mondo vennon bestemmiando ancora.
- 4
- Morte chiamando seco spessamente
- Che gli uccidesse se fosse valuto:
- Ed in istato cotanto dolente
- Presso che l’anno avevan già compiuto;
- Quando per Vener nel suo ciel lucente
- D’altri sospir per lor fu provveduto:
- Nè prima fu cotal pensiero eletto,
- Che al proposto seguitò l’effetto.
- 5
- Febo salendo con li suoi cavalli,
- Del ciel teneva l’umile animale
- Che Europa portò senza intervalli
- Là dove il nome suo dimora avale;
- E con lui insieme grazïosi stalli
- Venus facea de’ passi con che sale:
- Perchè rideva il cielo tutto quanto,
- D’Amon che ’n pesce dimorava intanto
- 6
- Da questa lieta vista delle stelle
- Prendea la terra grazïosi effetti,
- E rivestiva le sue parti belle
- Di nuove erbette e di vaghi fioretti;
- E le sue braccia le piante novelle
- Avean di fronde rivestite, e stretti
- Eran dal tempo gli alberi a fiorire
- Ed a far frutto, e ’l mondo rimbellire.
- 7
- E gli uccelletti ancora i loro amori
- Incominciato avien tutti a cantare,
- Giulivi e gai nelle fronde e fiori;
- E gli animali nol potean celare,
- Anzi ’l mostravan con sembianti fuori;
- E’ giovinetti lieti, che ad amare
- Eran disposti, sentivan nel core
- Fervente più che mai crescere amore.
- 8
- Quando la bella Emilia giovinetta,
- A ciò tirata da propria natura,
- Non che d’amore alcun fosse costretta,
- Ogni mattina venuta ad un’ora
- In un giardin se n’entrava soletta,
- Ch’allato alla sua camera dimora
- Faceva, e in giubba e scalza gía cantando
- Amorose canzon, sè diportando.
- 9
- E questa vita più giorni tenendo
- La giovinetta semplicetta e bella,
- Colla candida man talor cogliendo
- D’in sulla spina la rosa novella,
- E poi con quella più fior congiugnendo
- Al biondo capo facie ghirlandella:
- Avvenne cosa nuova una mattina
- Per la bellezza di questa fantina.
- 10
- Un bel mattin ch’ella si fu levata,
- E’ biondi crini avvolti alla sua testa,
- Discese nel giardin com’era usata;
- Quivi cantando e facendosi festa,
- Con molti fior sull’erbetta assettata
- Faceva sua ghirlanda lieta e presta,
- Sempre cantando be’ versi d’amore
- Con angelica voce e lieto core.
- 11
- Al suon di quella voce grazïoso
- Arcita si levò, ch’era in prigione
- Allato allato al giardino amoroso,
- Senza nïente dire a Palemone;
- Ed una finestretta disioso
- Aprì, per meglio udir quella canzone;
- E per vedere ancor chi la cantasse,
- Tra’ ferri il capo fuori alquanto trasse.
- 12
- Egli era ancora alquanto il dì scuretto,
- Che l’orizzonte in parte il sol tenea,
- Ma non sì ch’egli con l’occhio ristretto
- Non iscorgesse ciò che lì facea
- La giovinetta, con sommo diletto,
- La quale ancora non si discernea:
- E rimirando lei fisa nel viso,
- Disse fra sè: questa è di paradiso.
- 13
- E ritornato dentro pianamente,
- Disse: o Palemon, vieni a vedere
- Venere qui discesa veramente:
- Non l’odi tu cantar? Deh se in calere
- Punto ti son, deh vien qua prestamente:
- I’ credo certo che ti fie ’n piacere
- Qua giù veder l’angelica bellezza,
- A noi discesa della somma altezza.
- 14
- Levossì Palemon, che già l’udiva
- Con più dolcezza che quel non credea,
- E con lui insieme alla finestra giva,
- Cheti amenduni, per veder la Dea:
- La qual come la vide, in boce viva
- Disse: per certo questa è Citerea:
- Io non vidi giammai sì bella cosa
- Tanto piacente nè sì grazïosa.
- 15
- Mentre costoro sospesi, ed attenti
- Gli occhi, e gli orecchi pur verso colei
- Fisi tenendo, facevan contenti,
- Forte maravigliandosi di lei;
- E del perduto tempo in lor dolenti,
- Passato pria senza veder costei,
- Arcita disse a Palemon: discerni
- Tu ciò ch’i’ veggio ne’ begli occhi eterni?
- 16
- Che è egli? rispose Palemone.
- Arcita disse: i’ veggio in lor colui
- Che già per Dafne il padre di Fetone
- Fedì, se pur non erro, ed in man dui
- Strali dorati tiene, e già l’un pone
- Sopra la corda, e non rimira altrui
- Che me: non so se forse e’ gli dispiace
- Ch’i’ miri questa che tanto mi piace.
- 17
- Certo, rispose Palemone allora,
- Il veggio; ma non so se ha saettato
- L’uno, che non ha più ch’uno in man ora.
- Arcita disse: se el m’ha piagato,
- In guisa tal che di dolor m’accora,
- Se io non son da quella dea atato.
- Allora Palemon tutto stordito
- Gridò: omè! che l’altro m’ha fedito.
- 18
- A quell’omè la giovinetta bella
- Si volse destra in su la poppa manca;
- Nè prima altrove che alla finestrella
- Le corson gli occhi; onde la faccia bianca
- Per vergogna arrossò, non sapend’ella
- Chi si fosson color: poi fatta franca,
- Co’ fiori colti in piè si fu levata,
- E per andarsen via si fu inviata.
- 19
- Nè fu nel girsen via senza pensiero
- Di quell’omè, e benchè giovinetta
- Fosse, più che non chiede amore intero,
- Pur seco intese ciò che quello affetta:
- E parendole pur ciò saper vero
- D’esser piaciuta; seco si diletta,
- E più se ne tien bella, e più s’adorna
- Qualora poi a quel giardin ritorna.
- 20
- Ritornarono dentro i duo scudieri
- Poscia che vidono Emilia partita;
- E stati alquanto con nuovi pensieri,
- Pria cominciò così a dire Arcita:
- I’ non so che nel cor quel fiero arcieri
- M’ha saettato, che mi to’ la vita,
- E sentomi fallire a poco a poco,
- Acceso, lasso, non so in che foco.
- 21
- E’ non mi si diparte della mente
- L’immagine di quella creatura;
- Nè ho pensier d’altra cosa niente,
- Sì m’è fitta nel cor la sua figura,
- E sì mi sta nell’anima piacente,
- Che mi riputerei somma ventura
- S’i’ le piacessi com’ella mi piace:
- E senza ciò non credo aver mai pace.
- 22
- Palemon disse: il simile m’avviene
- Che tu racconti, e mai più nol provai
- Perocchè sento al cor novelle pene,
- Tal che non credo si sentisson mai:
- E veramente credo che ci tiene
- Quel signore in balía, che già assai
- Volte udii ricordare, cioè Amore,
- Ladro sottil di ciascun gentil core.
- 23
- E dicoti che già sua prigionia
- M’è grave più che quella di Teseo:
- Già più d’affanno nella mente mia
- Sento, che non credea che questo iddeo
- Donar potesse: e gran nostra follia
- A quella finestretta far ci feo,
- Quando colei cantava, tanto vaga,
- Che già per lei di morte il cor si smaga.
- 24
- Io mi sento di lei preso e legato,
- Nè per me trovo nessuna speranza;
- Anzi mi veggio qui imprigionato,
- Ed ispogliato d’ogni mia possanza.
- Dunque che posso far che le sia grato?
- Nulla: ma ne morrò senza fallanza:
- Ed or volesse Iddio ch’io fossi morto,
- Questo mi fora sommo e gran conforto.
- 25
- O quanto ne sarieno a tal fedita
- Gli argomenti esculapii buoni e sani,
- Il qual dicien che tornerebbe in vita
- Con erbe i lacerati corpi umani!
- Ma che dich’io? Poichè Apollo, sentita
- Cotal saetta, che i succhi mondani
- Tutti conobbe, non seppe vedere
- Medela a sè che potesse valere?
- 26
- Così ragionan li due nuovi amanti,
- E l’un l’altro conforta nel parlare:
- Nè san se quella è Dea ne’ regni santi
- Che sia qua giù venuta ad abitare,
- O se donna mondana: e li suoi canti
- E le bellezze la fan dubitare:
- Perchè ignoranti di chi gli ha sì presi,
- Molto si dolgon dal dolore offesi.
- 27
- Non escon delle sicule caverne,
- Allora ch’Eolo l’apre, sì furenti,
- Ora le basse ed ora le superne
- Parti cercando, gli rabbiosi venti,
- Che costor delle parti più interne
- Producean fuor sospiri assai cocenti,
- Ma con piccole voci, perchè ancora
- Era la piaga fresca che gli accora.
- 28
- Continovando adunque il gir costei
- Sola tal volta, e tale a compagnia
- Nel bel giardino a diporto di lei,
- Nascosamente gli occhi tuttavia
- Drizzava alla finestra, ove gli omei
- Prima di Palemone udito a via:
- Non che a ciò Amor la costringesse,
- Ma per vedere s’altri la vedesse.
- 29
- E se ella vedeva riguardarsi,
- Quasi di ciò non si fosse avveduta,
- Cantando cominciava a dilettarsi
- In voce dilettevole ed arguta:
- E su per l’erbe cogli passi scarsi
- Fra gli arbuscelli d’umiltà vestuta
- Donnescamente giva, e s’ingegnava
- Di più piacere a chi la riguardava.
- 30
- Nè la recava a ciò pensier d’amore
- Che ella avesse, ma la vanitate,
- Chè innato è alle femmine nel core
- Di fare altrui veder la lor biltate;
- E quasi ignude d’ogn’altro valore,
- Contente son di quella esser lodate:
- E di piacer per quella sè ingegnando,
- Pigliano altrui, sè libere servando.
- 31
- Li due novelli amanti ogni mattino,
- Nell’apparir primiero dell’aurora,
- Levati rimiravan nel giardino,
- Per vedere se in quel venuta ancora
- Fosse colei il cui viso divino
- Oltre a ogni misura gl’innamora:
- Nè di quel loco si potien levare,
- Mentre lei nel giardin vedieno stare.
- 32
- Essi credevan, mirandola bene,
- Saziar l’ardente sete del disio,
- E minor far le lor gravose pene:
- Ed essi più del valoroso iddio
- Cupido si strigneano le catene:
- Ed or con lento aspetto ed or con pio
- Si dimostravan, rimirando quella,
- Sol per piacere a lei, quanto a lor ella.
- 33
- E come avvien che ’l dente del serpente
- Più lede altrui con piccola morsura,
- Sè dilatando poi subitamente,
- Offusca il membro della sua mistura
- Poi l’uno all’altro successivamente,
- In fin che ’l corpo tutto quanto scura:
- Così costoro di dì in dì mirando,
- D’amor il fuoco gieno aumentando.
- 34
- E sì per tutto l’avevan raccolto,
- Che ad ogni altro pensier dato avien loco,
- Ed a ciascun già si parea nel volto,
- Per le vigilie lunghe, e per lo poco
- Cibo ched e’ prendean, ma di ciò molto
- Davan la colpa all’allegrezza e al giuoco
- Ch’aver solieno, e ora eran prigioni,
- Così coprendo le vere cagioni.
- 35
- E da’ sospiri già al lagrimare
- Era a venuti; e se non fosse stato
- Che ’l loro amor non volien palesare,
- Sovente avrien per angoscia gridato.
- E così sa Amore adoperare
- A cui più per servigio è obbligato:
- Colui lo sa che talvolta fu preso
- Da lui, e da cotal dolore offeso.
- 36
- Era a costor della memoria uscita
- L’antica Tebe e ’l loro alto legnaggio,
- E similmente se n’era partita
- L’infelicità loro e ’l lor dannaggio
- Che aveano ricevuto, e la lor vita
- Ch’era cattiva, e ’l lor grande retaggio:
- E dove queste cose esser solieno
- Emilia solamente vi tenieno.
- 37
- Nè era lor troppo sommo disire
- Che Teseo gli traesse di prigione,
- Pensando che a lor converrebbe ire
- In esilio in qualch’altra regione;
- Nè più potrebbon vedere nè udire
- Il fior di tutte le donne amazzone:
- Ver’è ch’uscir di lì per sommo bene
- Desideravano, e starsi in Atene.
- 38
- Così costor, da amore affaticati,
- Vedendo quella donna, il loro ardore
- Più lieve sostenean; po’ ritornati,
- Partita lei, nel lor primo furore,
- In lor conforto versi misurati
- Sovente componean, l’alto valore
- Di lei cantando; e per cotale effetto
- Ne’ lor mali sentieno alcun diletto.
- 39
- E non sapendo ben chi ella fosse
- Ancora, un dì il lor fante chiamaro,
- Al quale Arcita tai parole mosse:
- Deh dimmi per Amore, amico caro,
- Sa’ tu chi sia colei che dimostrosse
- L’altrieri a noi cantando tanto chiaro
- In quel giardino? O l’ha’ tu mai veduta
- In altra parte, o è dal ciel venuta?
- 40
- E ’l valletto rispose prestamente:
- Quest’è Emilia suora alla reina,
- Più ch’altra che nel mondo sia piacente:
- La quale, perch’è ancor molto fantina,
- Al giardin se ne vien sicuramente
- Senza fallir giammai ogni mattina:
- E canta me’ che mai cantasse Apollo:
- Ed io l’ho già udita e però sollo.
- 41
- Disson fra lor costoro: e’ dice il vero,
- Ella è ben essa che ci ha tolto il core,
- Ed a lei vôlto ogni nostro pensiero;
- Per cui ciascun di noi è albergatore
- Di pianti e di sospiri, e di sè vero
- Tormento ha fatto e d’ogn’altro dolore:
- Con tanta forza si fa disiare
- Colla bellezza che di lei appare.
- 42
- Così gli due amanti con sospiri
- Vivevan tutto il giorno discontenti:
- E vegnente il mattino i lor martiri
- Aveano sosta, infin gli occhi lucenti
- Vedean d’Emilia, che gli lor disiri
- Ciaschedun’ora facea più ferventi:
- E così visson mentre fu la state
- Con doglia insieme e con soavitate.
- 43
- Ma poichè al mondo tolse la bellezza
- Libra, che avea, donata ad Ariete,
- Gli due amanti perder la dolcezza
- Che quetava la lor focosa sete;
- Ciò è vedere la somma vaghezza
- Che d’amor gli teneva nella rete:
- Donde rimason dolorosi forte,
- Chiamando giorno e notte sempre morte.
- 44
- Il tempo aveva cambiato sembiante,
- E l’aere piangea tutto guazzoso,
- Sì ch’eran l’erbe spogliate e le piante,
- E ’l popol d’Eolo correa tempestoso
- Or qua or là nel tristo mondo errante;
- Perchè Emilia col viso amoroso,
- Lasciati li giardin, sempre si stava
- In camera, e del tempo non curava.
- 45
- Allor tornaro li martirii e’ pianti,
- Gli aspri tormenti e le noie angosciose
- In doppio a ciaschedun de’ due amanti:
- E’ non vedevan, non udivan cose
- Che lor piacesson: così tutti quanti
- Si consumavano in pene dogliose;
- E disperar ciascuno si voleva,
- Ma pur in fine se ne riteneva.
- 46
- Grandi erano i sospiri ed il tormento
- Di ciascheduno; e l’esser prigionati
- Vie più che mai faceva discontento
- Ciascun di loro, a tal punto recati:
- Ed ogni giorno lor pareva cento
- Che fosson morti, o quindi liberati:
- E per lo solo e unico conforto
- Emilïa chiamavan loro diporto.
- 47
- In questo tempo un nobil giovinetto,
- Chiamato Peritoo, venne a vedere
- Teseo suo caro amico, e con diletto
- Un dì si poson parlando a sedere:
- E ragionando, a Teseo venne detto
- De’ due Tebani, i qua’ facea tenere
- Imprigionati, Arcita e Palemone,
- Ciaschedun grande e nobile barone.
- 48
- Allora Peritoo prese a pregare
- Che gli dovesse far veder costoro:
- Perchè Teseo per lor fece mandare,
- E gli fece venir senza dimoro:
- Essi eran belli e di nobile affare,
- E ben parea la gentilezza loro
- Nella forma e nell’abito che avieno,
- Posto che alquanto scoloriti sieno.
- 49
- Era Palemon grande e ben membruto,
- Brunetto alquanto e nell’aspetto lieto,
- Con dolce sguardo, e nel parlare arguto,
- E ne’ sembianti umíle e mansueto
- Poichè fu innamorato divenuto:
- D’alto intelletto e d’operar segreto;
- Di pel rossetto ed assai grazïoso,
- Di moto grave e di ardire copioso.
- 50
- Arcita era assai grande, ma sottile,
- Non di soperchio, e di sembianza lieta,
- Bianco e vermiglio com’ rosa d’aprile;
- E’ cape’ biondi e crespi, e mansueta
- Struttura aveva ed abito gentile:
- Gli occhi avea belli e guardatura queta:
- Ma gran coraggio nel parlar mostrava,
- E destro e vispo assai a chi ’l mirava.
- 51
- Conobbe Peritoo nel lor venire
- Arcita, e ’ncontro gli si fu levato,
- Ed abbracciollo, e cominciógli a dire:
- O caro amico, come se’ tu stato
- Qui tanto senza farlomi sentire?
- Che l’uscir di prigion t’avrei impetrato:
- Malgrado n’abbi tu, che ti sta bene
- L’aver avute queste e maggior pene.
- 52
- Poi si volse a Teseo suo caro amico,
- Dicendo: se giammai per mio amore
- Nulla facesti, quel ch’ora ti dico
- Ti prego facci, dolce mio signore,
- Che questo Arcita, mio compagno antico,
- Facci che di pregione egli esca fuore,
- I’ ten sarò tutto tempo tenuto,
- Ed egli in ciò che per te fia voluto.
- 53
- Teseo rispose: dolce amico caro,
- Ciò che tu mi domandi sarà fatto;
- Ma odi come, e non ti sia discaro:
- Il trarrò di pregion con questo patto,
- Che nel mio regno non faccia riparo,
- Nè ci venga giammai per nessun atto:
- Ch’i’ l’ho disfatto e tenuto pregione,
- Perchè a dritto di lui ho sospezione.
- 54
- S’i’ ce l’ prendessi gli farò tagliare
- La testa senza fallo immantenente:
- Però, se vuole tal patto pigliare,
- Vada dove gli piace di presente,
- Per lo tuo amor che lo mi fai lasciare,
- Che altrimenti mai, al suo vivente,
- Uscito non saria di prigionia,
- Ben lo ti giuro per la fede mia.
- 55
- Peritoo disse: e io voglio che ’l faccia;
- E te ringrazio di cotanto dono.
- E tosto i ferri da’ piè gli dislaccia,
- E libero lui lascia in abbandono.
- Arcita s’inginocchia, e sì lo abbraccia,
- Dicendo: Peritoo, dovunque i’ sono
- Son tutto tuo, e ciò ch’io posso fare,
- Sol che ti piaccia a me di comandare.
- 56
- Poi se n’andò davanti al gran Teseo,
- Ginocchion disse: nobile signore,
- Se per me cosa incontro a te si feo
- Giammai, perdona a me per lo tuo onore,
- Ch’altro per me nel ver non si poteo:
- Il danno che m’hai fatto e ’l disonore
- Io te ’l perdono, e ti ringrazio assai
- Di questa grazia ch’aval fatta m’hai.
- 57
- Ed in che parte me ne debba gire
- Son tutto tuo, quanto ti fia in piacere:
- Non men che vita avrò caro il morire
- Per te, purchè ci sia il tuo volere:
- A così grande e fervente disire
- Mi pinge Amor che m’ha nel suo potere:
- Ed a te ed a’ tuoi sì obbligato,
- Ch’io sarò sempre tuo in ogni lato.
- 58
- Teseo cotal parlar non intendea
- Donde venisse, ma semplicemente
- Di puro cor le parole prendea;
- E però fe’ venir subitamente
- Nobili doni, e disse, gli piacea
- Che, oltre a quel ch’era a lor convenente,
- E’ prendesse que’ doni e gli portasse,
- E del patto e di que’ si ricordasse.
- 59
- Arcita, a cui niente avie lasciato
- La misera fortuna, bisognoso
- Ebbe i don di Teseo non poco a grato:
- E poscia con un atto assai pietoso,
- Piangendo, da Teseo prese commiato,
- E del palagio discese doglioso,
- Pensando al suo esilio, che ’l doveva
- Privar di veder ciò che gli piaceva.
- 60
- Ma Palemon vedendo queste cose
- Quasi nel cor moriva di dolore
- Per la fortuna sua, che più noiose
- Cose serbava al suo misero core,
- E pel compagno suo, al qual gioiose
- Credea novelle del comune amore:
- E quasi prese nuova gelosia
- Di quel che ancora non avea in balia
- 61
- Esso fu rimenato alla prigione,
- E Peritoo se ne gì con Arcita,
- E disse: caro amico e compagnone,
- La voglia di Teseo tu l’hai udita;
- Benchè ’l tempo sia duro e la stagione,
- E’ si pur vuol pensar della partita:
- Ben me ne pesa, e sappi, s’i’ potessi,
- Non vorrei mai da me ti dividessi.
- 62
- E sì ti donerò arme e destrieri
- Di gran valore belle e ben fornite
- Per te ed anco per li tuoi scudieri,
- E poi dove vi piace ve ne gite:
- Tu se’ di nobil sangue e buon guerrieri,
- Nato di genti valenti ed ardite,
- E non potrai fallire ad alto stato,
- Dove che arrivi e’ ti sarà donato.
- 63
- Arcita gli rispose lagrimando,
- E ringraziollo del profferto onore:
- E poi gli disse: bell’amico, quando
- La mia partita è a grado al signore,
- I’ la farò, ma sempre lamentando
- Andrò la mia fortuna con dolore;
- Poi ch’ho perduto ciò che al mondo avea,
- E’ converrà che d’altrui servo stea.
- 64
- E certo non conosco a cui servire
- Con maggior fede e con minor fatica
- Io possa ch’a Teseo, che del morire
- Mi tolse, preso alla mia terra antica:
- Ma po’ non vuol, conviemmi intorno gire:
- Non so che farmi, e vie men ch’i’ mi dica:
- Or fussi io qui rimaso per servente
- Di chi si fosse, i’ non diria niente.
- 65
- Non sai tu Peritoo come l’andare
- Attorno per lo mondo pien d’affanni
- M’è conceduto? E’ ti dee ricordare
- Che trapassati ancor non son due anni
- Che sei gran re per lo nostro operare
- Fur morti a Tebe, e grandissimi danni
- N’ebbon gli Argivi e popoli altri assai,
- Perchè odiati sarem sempre mai.
- 66
- E oltre a ciò gl’iddii ci sono avversi,
- Come tu sai; antica nimistate
- Serva Giunon ver noi, e die’ perversi
- Mali a color che passar questa etate;
- E noi ancor perseguendo ha sommersi,
- Come tu vedi, in infelicitate
- Strema: Ercole nè Bacco ci aiuta:
- Perch’io tengo mia vita per perduta.
- 67
- Queste parole facea dire amore;
- Ma Peritoo non le conoscea,
- Siccome quel che non sapea l’ardore
- Che per Emilia dentro l’accendea;
- E però pur con purità di core
- Lui confortava, e spesso gli dicea:
- Deh non pensar che ti fallin gl’iddii,
- Che tu non abbi ancor quel che disii.
- 68
- Molti altri regni ci ha, dove potrai
- Miglior fortuna attender pienamente:
- Così com’io, e tu udito l’hai,
- Che di qui rimaner saria niente
- Il ragionare, ed a me parve assai
- Ricever, quando già liberamente
- Ti trassi di prigion: sie valoroso,
- Che Dio non mancò mai a virtudioso.
- 69
- Poscia che Arcita, doppio ragionando
- Con Peritoo, sentì che ’l rimanere
- Non avea loco, in sè stette pensando;
- E tornandogli a mente che vedere
- Emilia non potrebbe, essendo in bando,
- Quasi vicino fu a dir di volere
- Innanzi la prigion che tale esilio:
- Con amor cospirando in tal consilio.
- 70
- Ma la ragion, che subita pervenne
- Alla volontà folle di costui,
- Con tre buoni argomenti appena il tenne;
- Dicendo: se tu di’ questo ad altrui
- E’ non fia detto, amore il ci ritenne;
- Ma, non credendo sè valer per lui,
- Donato s’è a questa gran viltate,
- Prima ch’abbia voluta libertate.
- 71
- Ed oltre a questo, se’ di prigion fora,
- E molte cose potranno avvenire
- Che in istato ti porranno ancora:
- E se ’n palese non potrai venire
- In questa terra, come vorresti ora,
- Forse altro tempo ci potrai reddire;
- E se non in palese, almen nascoso,
- Tanto che veggi il bel viso amoroso.
- 72
- E se e’ fosse tanta tua ventura
- Che in altro regno ella si maritasse,
- Non ti sarebbe soperchia sciagura
- Se tu in prigione allora ti trovasse?
- Il che se avviene, con sollecita cura
- Esser potrai dovunque ella n’andasse:
- E posto che sua grazia non acquisti,
- Almeno la vedranno gli occhi tristi.
- 73
- Questi consigli distolsero Arcita
- Dal suo sconcio e reo intendimento;
- E confortossi l’anima invilita
- In ciò sperando; e preso il guernimento
- Da Peritoo profferto fe’ partita,
- Sè offerendo al suo comandamento
- Dove che fosse, e sè raccomandando,
- Co’ suo’ scudier se ne gì sospirando.
- 74
- Da Peritoo partito, se ne gío
- Dove era Palemone imprigionato,
- E sì gli disse: caro amico mio,
- Da le conviene ch’io prenda commiato,
- E ch’io mi parta, contra ’l mio disio,
- Siccome fuor bandito e discacciato:
- E non ci credo ritornar giammai;
- Ond’io morrommi in dolorosi guai.
- 75
- Io me ne vo, o caro compagnone,
- Con redine a fortuna abbandonate:
- E vorria innanzi certo esta prigione,
- Che isbandito usar mia libertate.
- Almen vedrei alla nuova stagione
- Colei che ha il mio core in potestate:
- Chè mai, partito, vederla non spero:
- Sicchè morrò di doglia; e questo è vero.
- 76
- Io lascio l’alma qui innamorata,
- E fuor di me vagabondo piangendo
- Men vo, nè so là dove l’adirata
- Fortuna mi porrà così languendo:
- Perch’io ti prego, se alcuna fiata
- Vedi colei per cui io ardo e incendo,
- Che tu le raccomandi pianamente
- Quel che morendo va per lei dolente.
- 77
- Mentre in tal guisa favellava Arcita,
- Palemon sempre lagrimava forte,
- Dicendo: tristo, lassa la mia vita
- Perchè non mi confonde tosto morte?
- Acciocchè prima della tua partita
- Fosse finita la mia trista sorte:
- Chè senza te in doglioso tormento
- Rimango, lasso, tristo ed iscontento.
- 78
- Ma s’ tu se’ savio siccome tu suoli,
- Dei di fortuna assai bene sperare,
- Ed alquanto mancar delli tuo’ duoli,
- Pensando che puoi molto adoperare,
- Libero come se’ di quel che vuoli;
- Là dove a me conviene ozioso stare:
- Tu vederai andando molte cose
- Che alleggieranno tue pene noiose.
- 79
- Ma io, che sol rimango, a poco a poco
- Verrò mancando come cera ardente;
- E benchè tal fiata mi dia gioco
- Il riguardare il bel viso piacente,
- Tutto mi fia un accendere più foco,
- Come a me più non dimora presente:
- Ond’io non so omai quel ch’io mi faccia,
- E par che ’l core in corpo mi si sfaccia.
- 80
- Così piangean con amari sospiri
- Li duo compagni forte innamorati,
- E parean divenuti due disiri
- Di pianger forte, sì eran bagnati;
- Perchè, tra lor crescendo i lor martiri,
- Da’ lor valletti furon rilevati,
- E delle lor follie forte ripresi,
- Nel mostrarsi d’amor cotanto accesi.
- 81
- Allora i due compagni si levaro
- Per le parole de’ loro scudieri,
- Ed amenduni stretti s’abbracciaro
- Di buon amore e di cuor volentieri,
- E poi appresso in bocca si baciaro,
- E più che prima nel lagrimar fieri,
- Con rotta voce si dissono addio:
- E così Arcita quindi si partio.
- 82
- Nulla restava a far più ad Arcita
- Se non di girsen via, e già montato
- Era a caval per far sua dipartita,
- Fra sè dicendo: o lasso sventurato,
- Tanto fosse a Dio cara la mia vita,
- Che solo un poco il viso dilicato
- Di Emilia vedessi anzi il partire;
- Poi men dolente me ne potrei gire.
- 83
- Passò i cieli allor quella preghiera,
- E seguì tosto d’Arcita l’effetto;
- Che quel giglio novel di primavera
- Sopra un balcone appoggiata col petto
- Sen venne a star con una cameriera,
- Mirando il grazïoso giovinetto
- Che in esilio dolente se n’andava,
- E compassione alquanto gli portava.
- 84
- Ma esso dopo il prego alzò il viso,
- Incerto del futuro, e vide allora
- L’angelico piacer di paradiso:
- Per che disse con seco: omai se fuora
- Di qui mi to’, fortuna, egli m’è avviso
- Non poter male avere: e quindi ancora
- La riguardò, dicendo: anima mia,
- Piangendo senza te me ne vo via.
- 85
- E così detto, per fornir la imposta
- Fattagli da Teseo, a cavalcare
- Incominciò; ma dolente si scosta
- Dal suo disio: il qual quanto mirare
- Potè, il mirò, pigliando talor sosta,
- Vista facendo di sè racconciare:
- Ma non avendo più luogo lo stallo,
- Uscì piangendo d’Atene a cavallo.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO QUARTO
- * * *
- ARGOMENTO
- Dimostra il quarto dipartito Arcita
- Con grieve tempo il suo rammaricare,
- Mutato il nome, per sicura vita;
- E di Beozia a Corinto l’andare;
- E quindi appresso la sua dipartita,
- E in Micena poscia l’arrivare,
- Dove con Menelao con ismarrita
- Mente si pose per famiglio a stare.
- Quindi ad Egina a Peleo se ne vene;
- E con lui non potendo lungamente
- Durar, non conosciuto entrò in Atene:
- E di Teseo divenuto servente,
- Quindi dimostra la vita che tene,
- Facendol noto a Panfil primamente.
- 1
- Quanto può fare il tempo più guazzoso,
- Cotanto o più il faceva Orione,
- Molto nel cielo allora poderoso,
- Colle Pleiade in sua operazione:
- Ed Eolo d’altra parte più ventoso
- Il faceva che mai, quella stagione
- Ch’uscì d’Atene il doloroso Arcita
- Senza speranza mai di far reddita.
- 2
- Grand’era l’acqua, il vento e ’l balenare
- Quel dì ch’Arcita si partì d’Atene,
- Dal termine costretto dell’andare,
- Posto che ’l dove e’ non sapesse bene:
- Ma non pertanto sol per soddisfare
- A Peritoo (avendo ancora spene
- Del ritornar), dolente a capo chino
- In ver Beozia prese il suo cammino.
- 3
- Poco era Arcita d’Atene partuto,
- Quand’egli a’ suoi scudieri: amici cari
- Io non intendo d’esser conosciuto
- Mentre che duran questi tempi amari:
- Perocchè forse, se fosse saputo
- Là dove fossi, i’ non viverei guari;
- E però non Arcita, ma Penteo
- Mi nominate in questo tempo reo.
- 4
- E poi col tempo iniquo cavalcando
- Lo innamorato Arcita, si voltava
- Ispesse volte la città mirando;
- E quindi lei veduta sospirava,
- Seco sovente così ragionando:
- Deh quanto puote amor! poichè mi grava
- Partir del loco ch’io dovrei odiare,
- Se degnamente volessi operare.
- 5
- E quinci alla cagion che a ciò ’l traeva,
- Ciò era Emilia bella e grazïosa,
- Subitamente l’animo volgeva;
- Onde con voce alquanto più pietosa,
- Fra sè parlando, misero diceva:
- O nobile donzella, ed amorosa
- Più ch’altra fosse mai, esempio degno
- Delle bellezze dell’eterno regno;
- 6
- Dove, partendom’io contra volere,
- Posto che tu giammai non fosti mia,
- Essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere?
- Perchè non m’era la prigion men ria,
- Potendo alcuna volta te vedere,
- Ch’avere il mondo tutto in mia balia
- Senza di te, cui io più che me amo,
- Nè altra cosa ch’al mondo sia bramo?
- 7
- Deh se io fossi in la mia libertate
- Dimorato in Atene tanto, ch’io
- Un poco pur la tua novella etate
- Avessi, oimè, accesa del disio
- Del quale io ardo, credo, in veritate,
- Che sentirei il lungo esilio mio
- Con men dolor, sentendo que’ sospiri
- In te per me ch’i’ ho per te, e’ disiri.
- 8
- Ma tu appena non conosci amore,
- Non che tu m’ami, e però non ti cale
- Del mio intollerabile dolore;
- Nè puoi compassione al mio gran male
- Portare: e ciò che dammi duol maggiore,
- E con asprezza più il core assale,
- È che mi par vederti maritata
- Ad uom che mai non t’avrà più amata.
- 9
- E così ’l mio fedele e buon servire
- Sarà perduto, ed angosciosamente
- Lontan da te mi converrà morire:
- Deh or foss’io pur certo solamente
- Che per tal morte tu dovessi dire,
- Certo costui mi amò ben fedelmente;
- E’ me ne incresce: poi dove ch’i’ gissi,
- Altro che ben non credo ch’io sentissi.
- 10
- O lasso a me, or che vo io cercando
- Ne’ sospir dispietati ed angosciosi,
- Che vanno ognora in me multiplicando,
- Ciò ch’essere non può? O tenebrosi
- Regni di Dite, se alcun tormentando
- In voi tenete, dite che si posi,
- Poichè vivendo i’ son colui che porto
- Sol, pene più che altro vivo o morto.
- 11
- Poi ad Amor le sue voci volgea
- Con troppo più orribile favella,
- Dolendosi di lui; poscia dicea:
- Oimè, Fortuna dispietata e fella,
- Che t’ho io fatto che sì mi se’ rea?
- O morte trista vien che ’l cor t’appella:
- Congiungi me col tuo colpo feroce
- Co’ miei passati nell’infernal foce.
- 12
- Così piangendo con seco Penteo,
- Più doloroso assai che non appare,
- Il dì seguente del regno d’Egeo
- Uscì co’ suoi, e cominciò ad entrare
- In quel che già felice assai poteo,
- Cioè in Beozia; e dopo alquanto andare,
- Parnaso avendo dietro a sè lasciato,
- Alla distrutta Tebe fu arrivato.
- 13
- E vide tutta quella regïone
- Esser diserta allora d’abitanti:
- Perch’egli cominciò: o Anfione,
- Se tu, intanto che co’ dolci canti
- Della tua lira, tocca con ragione
- Per chiuder Tebe, i monti circustanti
- Chiamasti, avessi immaginato questo,
- Forse ti sarie stato il suon molesto.
- 14
- Dove son ora le case eminenti
- Del nostro primo Cadmo? E dove sono,
- O Semele, le camere piacenti
- Per te a quel che dal più alto trono
- Governa il cielo, e per le qua’ le genti
- Tebane mai non meritar perdono
- Da Giuno? E quelle dove son d’Alcmena
- Che doppia notte volle a farsi piena?
- 15
- Ove di Dionisio appaion ora,
- Misero a me, gli trionfi indiani?
- E dove son gli eccelsi segni ancora
- De’ popoli silvestri lidiani?
- Nessuno qui al presente ne dimora:
- Li re son morti, e voi tristi Tebani
- Dispersi gite, e in cenere è tornato
- Quel che di noi fu già tanto lodato.
- 16
- Ov’è lo spesso popol, ov’è Laio,
- Dov’è Edippo dolente ove i figliuoli?
- Ogni cosa distrutta ha il foco graio;
- E per multiplicar li nostri duoli
- Coa vergogna, le femmine il primaio
- Vi accesero. O Giunon, dunque che vuoli
- Del nostro miser sangue più omai?
- Non ti pare aver fatto ancora assai?
- 17
- Piccola forza omai al tuo furore
- Finire ha luogo, ch’io e Palemone:
- Nè altri più del sangue di Agenore
- Rimasi siamo: ed egli è in prigione,
- Ed io in tristo esilio; nè peggiore
- Stato potresti donarci o Giunone,
- Fuor se ci uccidi; e questo per conforto
- Disidera ciascun d’esser già morto.
- 18
- E detto ciò, con ira sospirando,
- Da quella torse il viso disdegnoso,
- Co’ suoi scudieri ver Corinto andando;
- Nella qual giunto, assai piccol riposo
- Fece, ma ver Micena cavalcando,
- In essa, quasi fuor di sè, pensoso
- Pervenne quivi, e così sconosciuto,
- A servir Menelao fu ricevuto.
- 19
- Egli era ancora molto giovinetto,
- Siccome barba non aver mostrava;
- Bello era assai e di gentile aspetto,
- Ed a gran pena quel ch’era celava:
- Ben l’avie fatto alquanto palidetto
- L’amorosa fatica ch’e’ portava;
- Ma non così che molto non piacesse
- A chiunque era quel che lui vedesse.
- 20
- Egli era già vicin d’un anno stato
- Con Menelao in gran doglia e tormento:
- Nè mai, benchè n’avesse domandato
- Celatamente del suo intendimento,
- Nessuna cosa non avea spiato:
- Perchè ad Egina gli venne in talento
- D’andar, là dove regnava Peleo,
- E concedendol Menelao, il feo.
- 21
- Quivi sperava di poter udire
- D’Emilïa novelle tal fiata;
- Questa sola cagion nel fece gire:
- Egli avea già la forma sì mutata,
- Che di sè cosa non sentì mai dire;
- Sicchè a fidanza colla sua brigata
- Prese il cammino e gissene ad Egina,
- Là dove giunse la terza mattina.
- 22
- Quivi in maniera di pover valletto,
- Non degli suoi maggior, ma compagnone,
- Al servigio del re, senza sospetto,
- Fu ricevuto, e messo in commessione;
- Ed obbedendo a ciò che gli era detto,
- Sì fece a modo che un vil garzone,
- Acciocch’egli potesse ivi durare,
- Fin che fortuna lo volesse atare.
- 23
- Quivi sovente con seco piangea
- La sua fortuna e la sua trista vita,
- E spesse volte con sospir dicea:
- O doglioso più ch’altro e tristo Arcita!
- Se’ fatto fante, là dove solea
- Esser tua casa di fanti fornita:
- Così fortuna insieme e povertate
- T’ha concio, e il voler tua libertate.
- 24
- Per liber esser, più servo che mai
- Se’ divenuto, misero, dolente:
- A real sangue che vitupero hai
- Sed e’ mi conoscesse questa gente!
- Certo per mio peccar nol meritai,
- Ma di Creonte la spietata mente
- Di questo, lasso a me, cagione è stato
- Ed ancor dello stare impregionato.
- 25
- Così, senza nell’animo riposo
- Aver giammai, in doglia sempre stava;
- E l’essere già stato glorïoso
- Vie più che gli altri danni il tormentava:
- E vorria innanzi sempre bisognoso
- Essere stato, e ’n vita trista e prava,
- Che aver avuto tal fiata bene,
- Ed ora sostener gravose pene.
- 26
- E benchè di più cose e’ fosse afflitto,
- E che di viver gli giovasse poco,
- Sopra d’ogn’altra doglia era trafitto
- Da amor nel core, e non trovava loco;
- E giorno e notte senza alcun rispitto
- Sospir gettava caldi come foco;
- E lagrimando sovente doleasi,
- E ben nel viso il suo dolor pareasi.
- 27
- Egli era tutto quanto divenuto
- Sì magro, che assai agevolmente
- Ciascun suo osso si sarie veduto:
- Nè credo che Erisitone altrimente
- Fosse nel viso, ch’era egli, paruto,
- Nel tempo della sua fame dolente:
- E non pur solamente pallid’era,
- Ma la sua pelle parea quasi nera.
- 28
- E nella testa appena si vedieno
- Gli occhi dolenti, e le guance lanute
- Di folto pelo e nuovo comparieno;
- E le sue ciglia pilose ed agute
- A riguardare orribile il facieno,
- Le chiome tutte rigide ed irsute:
- E sì era del tutto trasmutato,
- Che nullo non l’avria raffigurato.
- 29
- La voce similmente era fuggita,
- Ed ancora la forza corporale:
- Perchè a tutti una cosa ora reddita
- Qua sù di sopra dal chiostro infernale
- Parea, piuttosto ch’altra stata in vita:
- Nè la cagion, onde venía tal male,
- Nessun da lui giammai saputo avea,
- Ma una per un’altra ne dicea.
- 30
- Come d’Atene lì nessun venia,
- Onestamente, e con savio parlare,
- Di molte cose domandandol pria,
- D’Emilia trascorrea nel ragionare:
- E domandava s’ella fosse o fia
- Nelli tempi vicin per maritare,
- E d’altre cose circustanti molte;
- Benchè ciò gli avvenisse rade volte.
- 31
- Ma li dolenti fati, i qua’ tirando
- Gian d’una in altra miseria costui,
- Vegnendosi il suo fine appropinquando
- Con poca festa rallegravan lui,
- Diversamente l’opere menando
- Quando per esso e quando per altrui,
- Finchè al veduto termine pervenne,
- Dove si ruppe ’l fil che ’n vita il tenne.
- 32
- Per avventura un dì, com’era usato,
- Penteo soletto alla marina gio,
- E ’n verso Atene col viso voltato
- Mirava fisamente e con disio;
- E quasi il vento ch’indi era spirato,
- Più ch’altro gli pareva mite e pio,
- Ei ricevendol, dicea seco stesso:
- Questo fu ad Emilia molto presso.
- 33
- E mentre che ’n tal guisa dimorava,
- Una barchetta dentro al porto entrare
- Vide: laonde ad essa s’appressava,
- E cominciò di loro a domandare
- D’onde venieno; ed un che ’n essa stava,
- Disse: d’Atene, e là crediam tornare
- Assai di corto; s’ tu vorrai venire,
- Qui su potrai con esso noi salire.
- 34
- A cotal voce sospirò Penteo:
- Poi tratto quel da parte, pianamente
- Il domandò che era di Teseo,
- E di più cose diligentemente:
- Alle qua’ tutte que’ gli soddisfeo:
- E poi della reina ultimamente,
- E della bella Emilia domandando,
- Così rispose quegli al suo domando:
- 35
- Qualunque iddea nel cielo è più bella,
- Nel cospetto di lei parrebbe oscura;
- Ella è più chiara che alcuna stella,
- Nè dicesi che mai bella figura
- Fosse veduta tanto com’è quella:
- Ver è che per la sua disavventura
- L’altr’ieri morì Acate, a cui sposa
- Esser doveva quella fresca rosa.
- 36
- Ed altre cose molte più gli disse,
- Le qua’ mison Penteo in gran pensiero,
- E ’l tramortito amor quasi rivisse,
- E il disio più focoso e più fiero
- Parve subitamente divenisse;
- Nè ciò gli parve a sostener leggiero:
- E ’n sè conobbe che in tal disiare
- Non potrebbe or come già fe’ durare.
- 37
- E’ si sentiva sì venuto meno,
- Che appena si poteva sostenere;
- Onde se quelle pene che ’l cocieno
- Non mitigasse d’Emilia il vedere,
- Assai in breve lui ucciderieno:
- Perchè diliberò pur di volere
- In ogni modo ritornare a Atene,
- Ad alleggiare o a finir sue pene.
- 38
- Fra sè dicendo: i’ son sì trasmutato
- Da quel ch’esser solea, che conosciuto
- I’ non sarò, e vivrò consolato,
- Me ristorando del male ch’ho avuto,
- Vedendo il bell’aspetto ove fu nato
- Il disio che mi tiene ed ha tenuto:
- E s’al servigio di Teseo potessi
- Esser, non so che poi più mi chiedessi.
- 39
- Se forse è sì crudel la mia ventura
- Ch’i’ sia riconosciuto, e’ m’è il morire
- Più grazïoso che vita sì dura
- Com’io fo, e sempre mai languire:
- E poi su tal proposta si assicura,
- E si dispon del tutto a ciò seguire;
- E mill’anni gli par che quello sia,
- Tanto vedere Emilia egli disia.
- 40
- E’ non tardò di mettere ad effetto
- Cotal pensiero, anzi commiato prese,
- E in ver di quella navicò soletto,
- E in pochi giorni lì giunto discese
- In maniera di povero valletto,
- E in Atene con tema si mese:
- E acciò ch’egli Emilia vedesse,
- Stette più dì nè fu chi ’l conoscesse.
- 41
- Quando s’avvide ben ch’era del tutto
- Fuor delle menti di tutte persone,
- E che l’angoscia e ’l doloroso lutto
- Or gli tornava in consolazione;
- Disse fra sè: ancor sentirò frutto
- Della mia lunga tribulazione:
- E la fortuna, a me stata nemica,
- Sott’altro aspetto mi fia forse amica.
- 42
- Quindi agli eccelsi templi se ne gio
- Del grande Apollo, e innanzi alle sue are
- S’inginocchiò, e con sembiante pio
- Volendo quivi i suoi preghi donare,
- Subito molto pianto lo impedio,
- Venutogli da nuovo ammemorare
- Quel ch’e’ già fu, e quel che ora egli era:
- Poi cominciò in sì fatta maniera.
- 43
- O luminoso Iddio che tutto vedi,
- E ’l cielo e ’l mondo e l’acque parimente,
- E con luce continova procedi,
- Tal che tenébra non t’è resistente,
- E sì tra noi col tuo girar provvedi,
- Ched e’ ci nasce e vive ogni semente,
- Volgi ver me il tuo occhio pietoso,
- E a questa volta mi sia grazioso.
- 44
- A me non legne, nè fuoco nè incenso,
- Non degno armento alla tua deitate,
- Non lauree corone ed or pur censo
- Mi fosse a soddisfar necessitate;
- E quinci vien che con giusto compenso
- Non son da me le tue are onorate:
- E tu tel vedi, che di ciò ingannare
- Non ti potrei perch’io ’l volessi fare.
- 45
- Di lagrime, di affanni e di sospiri,
- D’ogni infortunio e povertate intera
- Son io fornito, e ancor di disiri
- D’amor, vie più che bisogno non m’era:
- Di questo a te, che l’universo giri,
- Vo sagrifizio con nuova maniera:
- Prendigli per accetti, i’ te ne priego,
- Ed al mio domandar non metter niego.
- 46
- Siccome te alcuna volta Amore
- Costrinse il chiaro cielo abbandonare,
- E lungo Anfriso in forma di pastore
- Del grande Admeto gli armenti guardare,
- Così or me il possente signore
- Qui in Atene ha fatto ritornare,
- Contra al mandato che mi fe’ Teseo
- Allora ch’a Peritoo mi rendeo.
- 47
- E benchè angoscia trasformato m’abbia
- Il nuovo nome, di ciò ch’io solea
- Altra volta esser la smarrita labbia
- Prego mi serbi, o nuova in me la crea:
- Sotto la qual coverta la mia rabbia
- Vedendo Emilia, contento mi stea:
- Ed a servir Teseo sia ricevuto,
- Senza mai esser lì riconosciuto.
- 48
- Se ciò mi fai, ed io sia rivestito
- Giammai del mio, siccome tu se’ degno
- T’onorerò. Ed egli fu esaudito
- D’ogni suo prego, e conobbene segno:
- Perchè del tempio tosto dipartito,
- A fornir sua intenzion pose l’ingegno:
- Poi si pensò come fatto venisse
- Ch’esser potesse che Teseo servisse.
- 49
- Com’egli avea con seco immaginato,
- Così l’immaginar seguì l’effetto;
- E s’egli avesse a lingua domandato,
- Non gli sarie sì ben venuto detto;
- Perocch’e’ fu con Teseo allogato,
- Nè fu dell’esser suo preso sospetto,
- Nè domandato fu chi fosse o d’onde,
- Così le cose gli andaron seconde.
- 50
- E’ non fu prima a tal partito giunto,
- Che ’l suo aspetto un pochetto più chiaro
- Si fe’, che pria parea così compunto;
- E dipartissi il suo dolore amaro
- Il qual l’avea col lagrimar consunto,
- E le sue membra forza ripigliaro;
- Ma tutte altre allegrezze furon nulla
- A petto a quando e’ vide la fanciulla.
- 51
- Teseo facendo una mirabil festa,
- Tra le altre donne Emilia fe’ venire;
- La qual più ch’altra leggiadra ed onesta,
- Piacevol, bella e molto da gradire,
- Ornata assai in una verde vesta;
- Tal che di sè a ciascun faceva dire
- Lode maravigliose, e tal dicea
- Che veramente ell’era Citerea.
- 52
- Ma oltre a tutti gli altri con disio
- La rimirava più lieto Penteo,
- Dicendo seco: o Giove, sommo iddio,
- Sed e’ mi fa omai morir Teseo,
- Alli tuoi regni me ne verrò io,
- Omai non mi può nuocer tempo reo,
- E di buon cuor perdono alla fortuna,
- Se mai di mal mi fece cosa alcuna.
- 53
- Poich’ella mi ha condotto a cotal porto,
- Che veggio il chiaro viso di colei
- Ch’è sommo mio diletto e mio conforto,
- Fuggan da me gli sospiri e gli omei,
- Fugga il disio che aveva d’esser morto;
- Siemi ben sommo il rimirar costei:
- Questo mi basti: e sì dicendo, fiso
- Sempre mirava l’angelico viso.
- 54
- Maggior letizia non credo sentisse
- Allor Tereo, quando gli fu concesso
- Per Pandion che Filomena gisse
- Alla sua suora in Tracia con esso,
- Che or Penteo: ma come che avvenisse,
- Essendogli ella non molto di cesso,
- In ver di lui alquanto gli occhi alzati,
- Ebbe li suoi di botto affigurati.
- 55
- Mirabil cosa a dir quella d’amore:
- Che rade volte è che la cosa amata,
- Quantunque ell’abbia mal abile il core
- D’esser per tal oggetto innamorata,
- Pur nella mente porta l’amadore:
- E quantunque ella si mostri adirata,
- Non le dispiaccia, e se non ama altrui,
- Poco o assai convien ch’ami colui.
- 56
- Era, com’è già detto, giovinetta
- Emilia, tanto ch’ella non sentia
- Quanto nel core amor punge e diletta,
- Allor che prima Arcita n’andò via
- Lei rimirando, come su si detta;
- Il quale ancor che la fortuna ria
- Così deforme l’avesse renduto,
- Da essa sola fu riconosciuto.
- 57
- Ella nol vide prima, che ridendo
- Con seco disse: questi è quell’Arcita
- Il quale vidi dipartir piangendo:
- Ah misera dolente la sua vita!
- Che fa egli qui, o che va e’ caendo?
- Non conosce e’ che se fosse sentita
- La sua venuta da Teseo, morire
- Gli converrebbe, od in prigion reddire?
- 58
- Ver è che tanto fu discreta e saggia,
- Che mai di ciò non parlò a nessuno,
- Ed a lui fa sembianti che non l’aggia
- Giammai veduto più in luogo alcuno:
- Ma ben si maraviglia quale spiaggia
- Di bianco l’abbia fatto così bruno
- E dimagrato, che par pur la fame
- Nel suo aspetto, e pien di tutte brame.
- 59
- Incominciò il nobile Penteo,
- Ammaestrato da fervente amore,
- Sì a servir sollecito Teseo,
- Ed a ciascun degli altri, per onore,
- Che egli in tutto suo segreto il feo,
- Amando lui più ch’altro servitore,
- E simile l’amava la regina
- Di buon amore, ed anco la fantina.
- 60
- E benchè la fortuna l’aiutasse,
- E fosse a lui benigna ritornata,
- Mai dal diritto senno lui non trasse,
- Nè ’l fece folleggiare una fïata:
- E posto che ferventemente amasse,
- Sempre teneva sua voglia celata,
- Tanto che alcun non se n’accorse mai,
- Benchè facesse per amore assai.
- 61
- Siccome i’ dico, saviamente amava,
- Nè si lasciava a voglia trasportare,
- Ed a luogo ed a tempo rimirava
- Emilia bella, e ben lo sapia fare;
- Ed ella savia talor se n’andava
- Mostrando non saper che fosse amare:
- Ma pur l’età già era innanzi tanto
- Ch’ella di ciò ne conosceva alquanto.
- 62
- Esso cantava e faceva gran festa,
- Faceva prove e vestia riccamente,
- E di ghirlande la sua bionda testa
- Ornava e facea bella assai sovente,
- E in fatti d’arme facea manifesta
- La sua virtù, che assai era possente:
- Ma duol sentiva, in quanto esso credea
- Emilia non sentir per cui ’l facea.
- 63
- Ed e’ non gliele ardiva a discoprire,
- Ed isperava e non sapea in che cosa,
- Donde sentiva sovente martire:
- Ma per celar la sua voglia amorosa,
- E per lasciar li sospir fuori uscire,
- Che facean troppo l’anima angosciosa,
- Avie in usanza talvolta soletto
- D’andarsene a dormire in un boschetto.
- 64
- E questo aveva in costume di fare
- Nel tempo caldo, ch’era fresco il loco,
- Ed era sì rimoto dell’andare
- Di ciaschedun, che ben poteva il foco
- D’amor con voci fuor lasciare andare,
- Ed a sua posta lungamente e poco:
- E non era lontan dalla cittate
- Più di tre miglia giuste e misurate.
- 65
- Egli era bello, e d’alberi novelli
- Tutto fronzuto e di nuova verdura,
- Ed era lieto di canti d’uccelli,
- Di chiare fonti fresche a dismisura,
- Che sopra l’erbe facevan ruscelli
- Freddi e nemici d’ogni gran calura:
- Conigli, cervi, lepri e cavriuoli
- Vi si prendean co’ cani e co’ lacciuoli.
- 66
- Com’io dico, in quello assai sovente,
- Quando con arme e quando senza, gire
- Penteo usava, e ’n su l’erba recente
- Sotto un bel pino si ponea a dormire;
- A ciò invitato dall’acqua corrente
- Che mormorava: ma del suo disire
- Focoso, prima che s’addormentasse,
- Con Amor convenia si lamentasse;
- 67
- E così cominciava egli a parlare:
- I' non pensava, Amor, che tu potessi
- Tanto in un cuor d’un uomo adoperare,
- Ch’al piacer d’una donna sì ’l traessi
- Ch’ogni altra cosa il facessi obliare,
- E ’n potenza di lei tutto ’l ponessi;
- Come hai tu posto tutto quanto il mio,
- Che altro che servirla non disio.
- 68
- Ma tu m’hai fatto in alcun caso torto;
- Perocch’io amo, e non son punto amato:
- Ond’io non spero mai d’aver conforto,
- Ed hammi sì tutto l’ardir levato,
- Che dir non so, e tu te ne se’ accorto,
- Perchè troppo m’hai posto in alto stato,
- A quel che a mia fortuna si conviene,
- Ch’io non son ricco d’altro che di pene.
- 69
- Deh quanto mi saria stata più cara
- La morte, che aspettar la sua saetta!
- Oh quanto dicer può che l’abbia amara
- Qualunque è quel che dolente l’aspetta;
- Perocchè in essa poco ben ripara,
- A rispetto del male ch’ella getta:
- E però s’io mi dolgo n’ho ragione,
- Vedendo me legato in tua prigione.
- 70
- Ma tu se’ tanto e tal, caro signore,
- Ch’ogni mia doglia puoi volgere in pace,
- Facendo ch’ella me senta nel cuore,
- Qual’ella dentro al mio sentir si face:
- Ed io, siccome umíle servidore,
- Ti prego il facci, Amore, se ti piace:
- Deh chi sarà di me poi più contento,
- Se per me prova quel che per lei sento?
- 71
- Io viverò tutto tempo gioioso,
- Nè biasmerò giammai tua signoria:
- Io ti farò sagrificio pietoso,
- Signor mio caro, della vita mia,
- E sempre il tuo onore in grazioso
- Verso da me lieto cantato fia:
- Adunque fallo, se di me ti cale,
- Ch’io mi consumo per soverchio male.
- 72
- Questo ripete spesso, con sospiri
- Chiamando Emilia, e nel dir sì contenta;
- E quasi in mezzo delli suol martiri
- Istanco tutto quivi si addormenta;
- E mentre il ciel co’ suoi eterni giri
- L’aere tien di vera luce spenta,
- Si stava, e sempre si svegliava allora
- Che da Titon partita vien l’Aurora.
- 73
- Allor sentendo cantar Filomena,
- Che si fa lieta del morto Tereo,
- Si drizza, e ’l polo con vista serena
- Mirato un pezzo lauda Penteo
- La man di Giove d’ogni grazia piena,
- Che lavoro sì grande e bello feo:
- Poi ad Emilia il suo pensier voltava,
- Vedendo Citerea che si levava,
- 74
- Mostrando innanzi al Sol la sua chiarezza,
- Alla qual gli occhi d’Emilia lucenti
- Assomigliava e la mira bellezza:
- E gli augelletti del giorno contenti
- Davan cantando in su’ rami dolcezza:
- Perchè a Penteo i pensier più cocenti
- Si facevan ogni ora, e più a quelli
- Davan gli orecchi, sì li parean belli.
- 75
- E quando aveva gran pezza ascoltato,
- Mirava in verso il cielo, e sì dicea:
- O chiaro Febo, per cui luminato
- È tutto ’l mondo, e tu, piacente Iddea,
- Del cui valor m’ha ’l tuo figliuol piagato
- Vie troppo più che io non mi credea,
- Mettete in me sì del vostro valore,
- Che io non pera per soverchio amore,
- 76
- Deh date al mio amor fine piacente,
- Sì ch’io non mora per fedele amare:
- Per giovinezza Emilia non sente
- Che cosa sia ancora innamorare;
- Nè come piace conosce niente,
- Se ad Amor non gliel fate mostrare:
- Ed io non l’oso più fare assentire
- Tant’è la mia paura del morire.
- 77
- E così vivo in speranza dubbiosa,
- E ’l mio adoperare è senza frutto:
- Perch’io ti prego, o Venere amorosa,
- Entrale in core omai; e me, che tutto
- Son senza fallo suo, fa’ che pietosa
- Senta sì che si termini il mio lutto:
- E tu, Febo, la fa’ tanto discreta,
- Che la mia voglia in sè ritenga cheta.
- 78
- E queste e altre più parole ancora
- Metteva in nota lo giovine amante:
- Ma dopo che vedea chiara l’aurora,
- E le stelle partite tutte quante,
- Senza far quivi più lunga dimora,
- Ad Atene tornava assai festante,
- Ed alla zambra del signor n’andava,
- Per lui servir, se nulla bisognava.
- 79
- Questa maniera teneva Penteo
- Molto sovente fuor d’ogni paura;
- Ed a grado servendo il buon Teseo,
- Di suo amore ognora avie più cura;
- Ma poco ne avanzava; e questo reo
- Gli parea molto: onde di sua ventura
- Una mattina con grieve parlare
- Così si cominciò a rammarcare.
- 80
- O misera Fortuna, de’ viventi
- Quanto dai moti spessi alle tue cose!
- E come abbassi li sangui e le genti,
- E quando vuogli ancora graziose
- Le vilissime fai, e non consenti
- Di leggi avere in sè maravigliose:
- Siccome uom vede in me, che son verace
- Esempio del girar che fai fallace.
- 81
- Di real sangue, lasso, generato
- Venni nel mondo, e d’ogni pena ostello,
- E con gran cura in ricchezze allevato
- Nella città di Bacco, tapinello
- Vissi: e con gioia venni in grande stato,
- Senza pensar al tuo operar fello:
- Poi per altrui peccato, e non per mio,
- La gioia e il regno e ’l sangue mio perio.
- 82
- E fui del campo per morto doglioso
- Ferito, tolto e recato a Teseo,
- Il qual siccome signor poderoso,
- Come gli piacque imprigionar mi feo:
- Quivi, per farmi peggio, l’amoroso
- Dardo mi entrò nel cor focoso e reo
- Per la bellezza d’Emilia piacente,
- Che mai di me non si curò niente.
- 83
- E cominciai di nuovo a sospirare
- Per tal cagione, ed a sostener pene,
- Nè mi pareva assai avere a fare
- Di sostener di Teseo le catene;
- Delle qua’ Peritoo mi fe’ cacciare,
- Onde convenne partirmi d’Atene,
- Credendo aver mio affare migliorato,
- E di gran lunga il trovai peggiorato.
- 84
- Ch’io mi ritrovai pover pellegrino
- Del regno mio cacciato, e per amore
- Gir sospirando a guisa di tapino;
- E là dove altra volta fui signore,
- Servo divenni, per lo gran dichino
- Della fortuna; e non potendo il core
- Più sofferir, da Peleo fe’ partita,
- Penteo essendo tornato d’Arcita.
- 85
- E sì d’Emilia strinse la bellezza,
- Che di Teseo cacciai via la paura;
- E qui mi misi per la mia mattezza
- A ritornare con mente sicura,
- Essendo suo nimico, alla sua altezza
- Divenni servidor con somma cura;
- Sì ch’io Emilia vedessi sovente,
- Colei ch’è donna mia veracemente.
- 86
- Ed essa, oimè, del mio grave tormento
- Nulla si cura, nè pensa este cose;
- Sicchè io servo vie peggio che al vento,
- E stonne sempre in pene dolorose:
- Ed or mi avesser sol fatto contento
- D’un bel guardarmi le luci amorose,
- Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci,
- Ch’oguor con nuovo fuoco e più mi cuoci.
- 87
- Di tanto sol seconda mi se’ stata
- Che ’l nome mio hai ben tenuto cheto,
- Ed haimi ancor tanta grazia donata,
- Che al servir m’hai fatto mansueto,
- E di Teseo la grazia mi hai prestata,
- Di che io son venuto molto lieto:
- Ma tutto è nulla, s’Emilia non fai
- Che come io l’amo conosca oramai.
- 88
- Io ardo e incendo per lei tutto quanto,
- Nè dì nè notte non posso aver posa,
- Ma mi consumo in sospiri ed in pianto,
- Nè mi può confortare alcuna cosa,
- Se non Emilia, cui io amo tanto,
- Mostrandomi la sua faccia amorosa,
- Dalla qual morto, lei mirando vita
- Riprendo, tanto speranza m’aita.
- 89
- Così di sopra dall’erbe e da’ fiori
- Penteo la sua fortuna biasimava
- Un bel mattino al venir degli albori;
- Allorchè per ventura indi passava
- Panfilo, ch’era l’un de’ servidori
- Di Palemone, e intanto ascoltava
- Dello scudiere il gran rammarichio
- Di sua fortuna, ed anche del disio.
- 90
- E fra sè stesso si fu ricordato
- Chi fosse Arcita, ed udì che Penteo
- Nel suo rammaricar s’era chiamato,
- Per che tantosto lo riconosceo;
- E molto seco s’è maravigliato,
- Com’egli avea la grazia di Teseo:
- Non disse nulla, ma ver la prigione
- Se ne tornò, per dirlo a Palemone.
- 91
- Ma il giovane Penteo di ciò ignorante,
- Come fu ora in Atene sen venne:
- E con allegro viso e con festante
- Al luogo ov’era il suo signor pervenne,
- Col qual di molte cose ragionante,
- Siccome egli era usato si ritenne:
- Poi partito da lui gì a sapere
- S’Emilia un poco potesse vedere.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO QUINTO
- * * *
- ARGOMENTO
- Marte che troppo s’era riposato,
- Entrato in Palemon nuovo sospetto,
- Il suo compagno udendo ritornato,
- Dimostra il quinto, a lui entrar nel petto:
- Quindi dichiara l’ingegno trovato
- A sprigionarlo dal savio valletto:
- Poi dal medico suo il mostra armato,
- E lui orante conduce al boschetto.
- Poscia le lor carezze, e ’l quistionare
- D’ognun voler Emilia, e ’l fiero Marte
- Può chiaro assai chi più legge trovare.
- Quindi venendo Emilia d’una parte,
- Vedendo lor, Teseo fece chiamare,
- Il qual con patti lor già noti sparte.
- 1
- Rimase Palemon, partito Arcita,
- Com’è già detto di sopra, in prigione,
- E poco cara aveva la sua vita,
- Tanto sentiva più sconsolazione
- Ch’altro; e simíle per la dipartita,
- La qual già fatta avea ’l suo compagnone;
- E ’l tempo suo in lagrime e in sospiri
- Tutto spendeva pien d’aspri martíri.
- 2
- In parte paurosa gelosia
- Lo stimola che Arcita dell’amore
- D’Emilia forse rivestito fia,
- Per suo sollecitar, di pregion fuore;
- E quinci pensa che Arcita si sia
- Dileguato del mondo per timore
- Dell’aspra morte, che Teseo dicea
- Di dargli s’egli giunger lo potea.
- 3
- Poi d’altra parte lo stringeva assai
- Amor più che l’usato, e disiare
- Gli facea ciò che a lui non parea mai
- Possibil di potere approssimare:
- Speranza d’altra parte li suoi guai
- Faceva alquanto più lieve passare:
- Così di cose varie si gravava
- Dentro al pensiero, e simil si allegrava.
- 4
- E pur portava nel core speranza
- Che di pregion quando che sia uscirebbe,
- Della qual fuor, l’amor della su’ amanza,
- Senza alcun fallo, crede, acquistarebbe:
- E quasi gli parea senza fallanza
- Ch’ancor nel mondo per sua la terrebbe;
- Ed in tal guisa sua vita menando
- Viveva in doglia, e in gioia talor stando.
- 5
- Al qual Panfil tornando del boschetto
- Venne in prigione, e d’una parte il trasse:
- E ragionando con esso soletto,
- Molto ’l pregò che non si sconfortasse:
- E poi gli disse, senza alcun difetto,
- Come conobbe Arcita, e ciò che trasse
- Del suo parlare; e ch’e’ servia Teseo,
- E faciesi per nome dir Penteo.
- 6
- Maravigliossi Palemone assai,
- E disse: Panfil, guarda non errassi,
- Che io non credo che Arcita mai
- Nè tu nè altri per qua lo scontrassi:
- Rispose Panfil: certo sì scontrai,
- Ed egli ancora nel boschetto stassi:
- E benchè molto sia trasfigurato,
- È pure d’esso, tanto l’ho mirato.
- 7
- Palemon disse allora: grande amore
- E poco senno cel fa dimorare,
- Chè se venisse all’orecchie al signore,
- Il mondo tutto nol potria campare:
- O sommo Giove, quanto l’amadore
- Al suo disio si lascia tirare,
- E quanti ingegni s’usan per venire
- All’amoroso fin di tal disire!
- 8
- Poi disse: Panfil, guarda che non sia
- Sentito da nessun ciò che m’hai detto:
- Che posto ch’egli a me per gelosia
- Senza colpa di lui mi sia sospetto;
- Per uscir di prigione, in fede mia,
- Io non vorrei ch’egli avesse difetto:
- Se gl’iddii l’aman più che me non fanno,
- Abbiasi il pro, e mio si sia il danno.
- 9
- Poi cominciò a pensar fortemente
- Sopra l’affar d’Arcita innamorato;
- E crede che d’Emilia veramente
- Il lieto amore egli abbia guadagnato:
- E poscia dice: oimè lasso, dolente,
- In che mal punto nel mondo fu’ nato?
- Ch’io amo, e sto in prigione, e altri face
- Quel ch’io facendo poria sentir pace.
- 10
- Ed or mi fosse un poco di speranza
- Riraasa, o mi venisse dell’uscire
- Di questo loco, mi crederrei, sanza
- La doglia che io ho, gioia sentire;
- Ed ancora la mia somma intendanza
- Senza alcun fallo crederrei fornire:
- Ma sì m’è gran nimica la fortuna,
- Ch’i’ n’uscirò quando starà la luna.
- 11
- E s’io di quinci uscissi per ventura,
- D’Arcita converria che io sapesse,
- Su buon cavallo con forte armadura,
- Quel che tra lui e me esser dovesse
- Dell’amor della nobil creatura,
- Che mi fa sentir pene così spesse:
- E fermamente ella mi rimarrebbe,
- O sopra il campo l’un di noi morrebbe.
- 12
- Ma come avrei ardire contro a lui,
- Che per uscirci giammai non tentai?
- Ed el non cura lo star con colui
- Ch’è suo nimico per vederla, e mai
- Non ha posato di servire altrui
- Per servir lei? Ed io per trarre guai
- Ho speso il tempo, ove dovea piuttosto
- Voler morir che tanto star nascosto.
- 13
- E siccome Tesifone, chiamata
- Dal cieco Edippo nell’oscura parte,
- Dov’egli lunga notte avea menata,
- A’ due frate’ del regno con sua arte
- Mise l’arsura; così in lui è entrata
- Con quel velen che ’l suo valor comparte
- D’Emilia aver, dicendo: signoria
- Nè amore sta bene in compagnia.
- 14
- E subito così cambiò ’l pensiero,
- E chiamò Panfil di cui si fidava,
- E disse: amico mio, sappi per vero
- Che troppo qui lo dimorar mi grava:
- E però fa’ che il mio disire intero
- Venga, se puoi, sì ch’io di questa prava
- Prigion mi parta, e possa conquistare
- Per arme Emilia, se e’ si può fare.
- 15
- Questo pensier di nuovo m’è venuto,
- E senza fallo il metterò ad effetto;
- E se e’ fia per ventura saputo,
- Prima che sia con l’opera perfetto,
- Da me si dica che sia proceduto
- Ciò che farai: ched e’ mi fia diletto
- Morire anzi che stare in tal tormento,
- Perocch’io fo il dì ben morti cento.
- 16
- Panfil rispose: caro signor mio,
- Morir per voi a me sarebbe vita:
- E però penserò sì ch’al disio
- Di voi dar possa l’opera compita:
- Avvegnane che puote omai, che s’io
- Ne dovessi morir, darovvi uscita
- Di questo luogo: onde vi confortate,
- E di cor lieto alquanto v’aspettate.
- 17
- Egli usci fuori e gío in luogo solo,
- E ’n fra sè stesso cominciò a pensare:
- Prima gli venne nel pensiero il volo
- Che Dedal fe’ con Icar per campare;
- Ma nol vide possibil; poi d’imbolo
- S’immaginò lui di prigion cavare;
- Ma non gli parve via ben ben sicura,
- Però non se ne mise in avventura.
- 18
- Similemente pensò per danari
- Voler corromper le guardie vegghianti,
- Sentendo loro in generale avari;
- Ma mal pareagli a fidarsi di tanti,
- Quanti di nuovo lì venian vicari
- Senza lunga dimora essere stanti:
- E in breve non vedea di poter fare
- Ciò che intendea colle guardie trattare.
- 19
- Ma pur gli venne un modo in pensamento,
- Che in fra gli altri gli parve migliore;
- E dopo molto disaminamento
- Il si fermò con ordine nel core;
- Pensando che il suo intendimento
- Saria fornito e quel del suo signore,
- Al qual n’andò là dov’era prigione,
- E così cominciò a Palemone.
- 20
- E’ non è guar che qui venne Alimeto
- Di medicina maestro sovrano,
- Uom d’alto senno e di vita quieto,
- E so che desso fu nostro Tebano:
- E puogli l’uom ben dire ogni segreto,
- E da lui prender buon consiglio e sano:
- Questi ei fornirà il nostro fatto,
- Per mio avviso; e udite in che atto.
- 21
- Che voi vi infingerete esser malato,
- In sul mutar che le guardie si fanno:
- Ed io avraggio bene lui informato,
- Ed avvisato dello nostro inganno,
- E incontanente a voi l’avrò menato,
- Perchè de’ curi voi del vostro affanno:
- Ei vestirà gli panni miei, e voi,
- Siccome mastro, vi vestite i suoi.
- 22
- E senza fare alcun dimostramento
- Con lui fuor ve n’uscite baldanzoso,
- E me lasciate qui senza pavento
- In vostro loco, e dite ch’io riposo;
- Essi non fien di tanto avvedimento,
- Che vi conoscan se voi uscite oso:
- Poi se Arcita volete soletto,
- Voi ’l troverete nel lieto boschetto.
- 23
- Tu hai ben detto, disse Palemone;
- Però metti ad effetto queste cose.
- Ammalato si fece alla stagione
- Che Panfilo con lui insieme pose,
- E Panfil senza far dimostrazione
- Ad Alimeto il loro affar dispose:
- Egli era a Palemon fedele amico:
- Disse: i’ son presto, e farol com’io dico.
- 24
- Panfilo allor si cominciò a dolere,
- Con que’ ch’avean Palemone a guardare,
- Del suo signore infermo: ed a sedere
- Con lor si pose, e fe’ vino arrecare
- A gran dovizia, e cominciaro a bere,
- Perocchè non l’avevano a pagare;
- Senz’ordine nessun n’hanno cioncato,
- Tanto che ognun s’è bene inebriato.
- 25
- Allora Panfil fe’ ’l mastro venire,
- Il qual vi venne molto lietamente,
- E tosto de’ suoi panni il fe’ vestire,
- E Palemone ancor similemente
- Di que’ del mastro fece rifornire;
- E senza più dimorarvi niente
- Palemon fatto medico assai lieto
- Fuor di prigione uscì con Alimeto.
- 26
- Le guardie allora incontro gli si fanno
- E del prigion domandan come stava;
- Ed e’ con fermo viso, dell’inganno
- Che Panfil fatto aveva ben s’addava,
- E’ disse: certo egli ha assai affanno,
- Ma al presente alquanto si posava:
- Però il lasciate questa notte stare,
- Domattina il verrò a ricercare.
- 27
- Lasciato adunque il suo buon servidore
- Palemon in prigion, col suo maestro
- Andossene all’ostiere, e di buon cuore,
- Dimenticato già ’l tempo sinestro,
- Dormì alquanto, e già vegnenti l’ore
- Vicino al giorno su si levò destro:
- Fessi dar arme e buon cavallo ancora,
- Cominciossi ad armar senza dimora.
- 28
- Alimeto sapeva il convenente,
- Siccome Palemon gli avea contato;
- Perch’egli ’l lasciò fare, e prestamente
- Ben l’aiutò, perocchè n’era usato,
- E quegli uscì d’Atene di presente,
- Ed in verso il boschetto s’è avviato
- Là dove Arcita allora si dormia,
- Sicuro sì come faceva in pria.
- 29
- Cheto era il tempo, e la notte le stelle
- Tutte mostrava ancora per lo cielo:
- E ’l gran Chiron Aschiro avea con quelle
- Che vanno seco il pianeta che ’l gelo
- Conforta, il quale le sue corna belle
- Coperte aveva col lucente velo;
- E quasi piena ov’è Zenit facea,
- E ’l ciel nel mezzo cerchio rilucea.
- 30
- Inver la qual, poi l’ebbe rimirata
- Alquanto, Palemon cominciò a dire:
- O di Latona prole inargentata,
- Ch’or meni i passi miei senza fallire,
- Colla tua luce meco accompagnata,
- Piacciati alquanto li miei preghi udire;
- E come in questo se’ ver me pietosa,
- Così mi sii nell’altro grazïosa.
- 31
- Io vado tratto da quella fortezza
- D’amor che trasse Pluto a innamorarsi
- Sopra Tifeo della tua gran bellezza,
- Allor che tu ne’ prati con iscarsi
- Passi ten givi, alla tua giovinezza
- Cogliendo fiori per li campi sparsi;
- Acciocchè per battaglia possa avere
- L’amor di quella sol che m’è in calere.
- 32
- Guida li passi miei, come facesti
- Più volte in mar di Leandro i lacerti;
- E sì col padre tuo fa’ che mi presti
- Quella virtù che fa gli uomini esperti;
- E come tu del lume tuo mi vesti,
- Così da’ colpi i membri fa’ coperti
- Che mi darà l’avversaro potente,
- Sicchè di lui ne rimanga vincente.
- 33
- Mentre ched e’ così dicendo andava,
- Giunse nel bosco per gli alberi ombroso,
- E con intero sguardo in quel cercava,
- Acciocchè Arcita trovasse amoroso:
- E mentre in dubbio fortuna il portava,
- S’avvenne sopra ’l prato, ove riposo
- Prendeva Arcita, ch’ancora dormiva,
- E Palemoa vegnente non sentiva.
- 34
- E poichè fu di sopra alla rivera
- Sotto al bel pino in su le fresche erbette,
- Che aveva lì prodotte primavera,
- Vide dormire Arcita; onde ristette,
- Ed appressato quasi dov’egli era,
- Il rimirava, ed a ciò molto stette,
- E sì nel viso gli parve mutato,
- Che non l’avrebbe mai raffigurato.
- 35
- Ma Febea che chiara ancor lucea,
- Co’ raggi suoi il viso gli scopria,
- Sicchè aperto Palemon vedea,
- Perchè ’l risomigliarlo gli fuggia;
- Ma poichè alquanto mirato l’avea,
- In sè la sua effigie risentia:
- Perchè disse fra sè: esso è per certo,
- Nè ’l può celar la barba end’è coverto.
- 36
- E nol voleva mica risvegliare,
- Tanto pareva a lui ched e’ dormisse
- Soavemente, ma si pose a stare
- Allato a lui, e così fra sè disse:
- O bell’amico molto da lodare,
- Se al presente tu ti risentisse
- Tosto credo fra noi si finirebbe
- Qual di noi due per donna Emilia avrebbe.
- 37
- In questo il giorno a fare era già presso,
- Ed a cantar gli uccelli han cominciato:
- Perchè Penteo risentendosi adesso,
- In piè si fu prestamente levato,
- Ver Palemone, che venía vers’esso,
- Con maraviglia tosto s’è voltato,
- E disse: cavalier, che vai cercando
- Per questo bosco sì armato andando?
- 38
- A cui tosto rispose Palemone:
- Cosa del mondo null’altra cercava,
- Se non di trovar te, o compagnone;
- Questo voleva, e questo disiava,
- E però son uscito di prigione:
- E poi benignamente il salutava:
- Penteo gli rispose al suo saluto,
- E tostamente l’ha riconosciuto.
- 39
- E insieme si fer festa di buon cuore,
- E li loro accidenti si narraro:
- Ma Palemon, che tutto ardea d’amore,
- Disse: or m’ascolta, dolce amico caro,
- Io son sì forte preso dal valore
- D’Emilia bella col visaggio chiaro,
- Ched io non trovo dì nè notte loco,
- Anzi sempre ardo in amoroso foco.
- 40
- E tu so ch’ancor l’ami similmente;
- Ma più che d’uno ella esser non poria:
- Perch’io ti prego molto caramente
- Che tu consenta che ella sia mia:
- E’ mi dà il cor di far sì fattamente,
- Se questo fai, che quel che ne disia
- Di lei il mio cor n’avrà senza tardanza:
- Lasciala dunque a me sol per amanza.
- 41
- Quando Penteo queste parole intese,
- Tutto si tinse, e divenne fellone,
- E d’ira tutto dentro il cor s’accese,
- E poi rispose, e disse: o Palemone,
- E’ ti può esser certo assai palese
- Ch’i’ ho messa mia vita a condizione
- Sol per potere ad Emilia servire,
- Cui amo tanto, ch’i’ nol potre’ dire.
- 42
- Però ti prego, se t’è la mia vita
- Niente cara, che quel che dimandi
- Tu il conceda al tuo parente Arcita,
- Il qual s’è messo a pericoli grandi
- Per procacciar di lei gioia compita:
- E tu il sai sed e’ sono ammirandi,
- Che uditi gli hai raccontandotegl’io,
- Fa’ dunque, caro amico, il mio disio.
- 43
- Palemon disse allor: veracemente
- Questa non è l’amistà ch’io credea
- Aver di te, poi sì palesemente
- Un don mi nieghi il quale i’ ti chiedea.
- Ma io ti giuro per l’onnipotente
- Giove del cielo, e per Venere iddea,
- Che prima che di qui facciam partenza
- Co’ ferri partirem tal differenza.
- 44
- Però t’acconcia come me’ ti piace
- Dell’armi omai, e tua ragion difendi,
- Che di tal guerra non sarà mai pace,
- Poi quel di ch’io ti prego mi contendi:
- E ’l core in corpo tutto mi si sface,
- Perchè tu peni, e del campo non prendi
- Contra di me, che vincere o morire
- Per la mia donna porto nel disire.
- 45
- A cui Penteo disse: o cavaliere,
- Perchè vuoi porre te e me in periglio
- Forse di morte? e’ non ti fa mestiere:
- Deh noi possiam pigliar miglior consiglio;
- Che ciascun si procacci a suo potere
- D’aver l’amor del grazioso giglio,
- Ed a cui lo concede la fortuna,
- Colui se l’abbia senza briga alcuna.
- 46
- Tu sai che io son quiritta sbandito,
- E tu hai rotta a Teseo la prigione:
- Però se ’l nostro affar fosse sentito,
- Non ci bisogneria far più ragione
- D’Emilia bella col viso chiarito,
- Ma saremmo di morte a condizione;
- E però piano amiamo intramendui,
- Infin che faccia Giove altro di nui.
- 47
- Forse le cose avranno mutamento,
- E potremo tornare in nostro stato,
- Ed io partirmi, e tu esser contento,
- Come fui io da Teseo ricettato;
- E così alleggiarsi il tuo tormento,
- O quell’amor mancar che m’ha infiammato;
- E solo Emilia a te si rimarrebbe,
- Ch’essere in questo punto non potrebbe.
- 48
- Palemon più di ciò non volle udire,
- Anzi gli disse tosto: vedi, Arcita,
- Se io dovessi qui oggi morire,
- Tra noi conviene ch’ella sia partita:
- Chi me’ saprà della spada ferire,
- A lui rimanga e la donna e la vita;
- Se tu mi fai per forza ricredente,
- Mai più non l’amerò veracemente.
- 49
- Deh, disse Arcita, questo a dir che viene?
- Pognam che tu quiritta m’abbi morto,
- Che farai tu? avrai tu minor pene?
- Che ben te ne verrà, o che conforto?
- Io pur conosco ch’egli ti convene
- In prigion ritornare, o pel più corto
- Caramin che tu potrai fuggirten via:
- Emilia poi che utile ti fia?
- 50
- E pognam pur che tu fossi in amore
- A Teseo com’io sono, è tua credenza
- Che le volesse te dar per signore?
- Tu se’ ingannato; egli ha più alta intenza:
- I’ sono stato e son suo servidore
- Quant’esser posso, e sto sempre in temenza,
- Dove che sia, pur di rimirarla:
- E tu come ardirai di domandarla?
- 51
- E se io qui con fè ti promettessi
- Di non amarla, credi tu che fare
- Con tutto il mio ingegno io lo potessi?
- Certo piuttosto senza mai mangiare
- Crederei viver, che d’amarla stessi:
- E amore non si può così cacciare
- Come tu credi: e poco ama chi posa,
- Per impromessa, d’amare una cosa.
- 52
- Dunque che vuoi pur far? Combatteremo,
- E colle spade in man farem le parti
- Di quella cosa che noi non avemo:
- Deh perchè lasci tu così abbagliarti
- Al tuo folle consiglio? Oimè che temo
- L’impedimento tuo, se non ti parti
- Prima che ’l giorno sia: nè sicur sono,
- S’i’ son riconosciuto, di perdono.
- 53
- Di mia salute, disse Palemone,
- Non aver tu pensier: del tutto, avanti
- Ch’io mi parta, la nostra quistione
- Si finirà; sicchè l’un de’ due amanti
- Solo d’amarla fia in possessione;
- I consigli che desti ho tutti quanti
- Esaminati meco, e son contento
- Più di morir che di vita in tormento.
- 54
- Se tu fai quel ch’io dico, gelosia,
- S’altro non me ne segue, avendo fede
- In te come in amico, anderà via:
- Se nel tempo di ciò ben mi procede,
- Renderò grazie alla fortuna mia:
- Dunque t’appresta, che il mio cor crede
- Vittoria aver, se non vuogli altrimente
- In ciò far cosa che mi sia piacente.
- 55
- Allora disse Penteo sospirando:
- Oimè ch’io sento l’ira degl’iddii
- Li quali ancor ne vanno minacciando
- Contrarii tutti agli nostri disii:
- E la fortuna ci ha qui lusingando
- Menati con effetti lieti e pii,
- E non Amor, a voler che muoiamo
- Per le man nostre, come noi sogliamo.
- 56
- Oimè che m’era assai maravigliosa
- Cosa a pensar che Giunon ci lasciasse
- Nostra vita menare in tanta posa,
- E come i nostri noi non stimolasse,
- De’ quali alcun giammai a gloriosa
- Morte non venne che li commendasse:
- Ond’io mi posso assai rammaricare
- Vedendo noi a simil fin recare.
- 57
- I primi nostri, che nacquer dei denti
- Seminati da Cadmo, d’Agenore
- Figliuoi, ver loro fur tanto nocenti,
- Che senza riguardar fraterno amore
- S’uccisero fra loro, e i can mordenti
- Atteone sbranaron lor signore:
- Ed Attamante i suoi figliuoli uccise,
- Tal Tesifone in lui fiera si mise.
- 58
- Latona uccise i figli d’Anfione
- A Niobe intorno, madre pur dolente:
- E la spietata nimica Giunone
- Arder Semele fe’ miseramente:
- E qual d’Agave e delle sue persone
- Fosse la rabbia, se ’l sa tutta gente,
- E simile d’Edippo, il quale il padre
- Uccise, e prese per moglie la madre.
- 59
- Qua’ fosser poi fra loro i due fratelli
- D’Edippo nati non cal raccontare;
- Il fuoco fe’ testimonianza d’elli,
- Nel qual fur messi dopo il lor mal fare;
- E ’l misero Creonte dopo quelli
- Molto non s’ebbe di Bacco a lodare;
- Or resta sopra noi, ch’ultimi siamo
- Del teban sangue, insieme ci uccidiamo,
- 60
- Ed e’ mi piace, poi che t’è in piacere,
- Che pure infra noi due battaglia sia:
- I’ sarò presto a fare il tuo volere;
- Ma pria mi lascia addobbar l’arme mia,
- E ripigliare lo mio buon destriere,
- Quindi farem tutto ciò che disia
- La mente folle che sì ti consiglia;
- Piangasi il danno a cui di ciò mal piglia.
- 61
- Isnellamente Penteo si fu armato,
- Se forse alcuna cosa gli mancava,
- Ed ebbe tosto il caval ripigliato,
- E destramente sopra vi montava,
- E in verso Palemon si fu voltato,
- Che fiero e tutto ardente l’aspettava,
- E sì gli disse: omai, come ti piace,
- Prendi con meco o vuo’ guerra, o vuo’ pace.
- 62
- Ma siemi il ciel, che queste cose vede,
- Ver testimonio, e Apollo surgente,
- E i Fauni e le Driade (e si crede
- Che in questo loco alcun ne sia presente),
- E le stelle ch’io veggio faccian fede
- Com’io son del combattere dolente,
- E Priàpo con esse, li cui prati
- Ci apparecchiam di fare insanguinati,
- 63
- Non mi si possa mai rimproverare
- Ch’io sia cagion di battaglia con teco;
- Tu mossa l’hai, e tu pur la vuo’ fare,
- E pace schifi di voler con meco:
- Sallosi Iddio ch’i’ non porria lasciare
- Mai d’amar quella ch’ha il mio cor seco,
- Ma così amando volentier vorrei
- Con teco pace, e presto a ciò sarei.
- 64
- Dette queste parole, nulla cosa
- Rispose Palemon, ma innanzi al petto
- Lo scudo si recò, quindi l’ascosa
- Spada del foder trasse, e ’l viso eretto
- In ver Penteo con voce orgogliosa
- Disse: or si parrà chi più diletto
- Avrà d’amare Emilia; a cui Penteo:
- Tu di’ il vero; e in ver di lui si feo.
- 65
- E’ non aveano lance i cavalieri,
- E però insiem giostrare non potero,
- Ma cogli sproni punsero i destrieri,
- E colle spade in man presso si féro
- L’un verso l’altro, e sì si scontrar fieri,
- Che maraviglia fu, a dir lo vero:
- E sì de’ petti i cavai si fediro,
- Che rinculando a forza in terra giro.
- 66
- Ma non per tanto il valoroso Arcita
- Su l’elmo colla spada a Palemone
- Diede un tal colpo, ch’appena la vita
- Gli rimanesse fu sua opinione:
- E ben credette alla prima ferita
- Che terminata fosse lor quistione:
- Ma poichè sotto ’l buon destrier caduto
- Si vidde, su si levò senza aiuto.
- 67
- E Palemon nel cader del cavallo
- Percosse il capo sopra ’l verde prato,
- Il che accrebbe il gran mal senza fallo
- Ch’aveva, per lo colpo a lui donato
- Dal buon Penteo: perchè di quello stallo
- Non si moveva, anzi parea passato
- Di questa vita, ed a giacer si stava,
- E ’l buon Penteo ardito l’aspettava.
- 68
- Ma poi ched egli il vide pur giacere,
- Disse fra sè: che potrebbe esser questo?
- E senza indugio lui gì a vedere,
- E trovol che non era ancora desto
- Dello spasmo profondo, e ’n suo parere
- Disse: mort’è, che troppo gli fu infesto
- Il colpo della mia spada tagliente:
- Di ch’io sarò tutto tempo dolente.
- 69
- Egli ’l tirava degli arcion di fuori
- Soavemente, e l’elmo gli traeva,
- E in su l’erbetta fresca e sopra i fiori
- Teneramente a giacere lo poneva,
- E poi con man delli freschi liquori
- Dal vicin rivo a suo poter prendeva,
- E ’l viso gli bagnava, acciocchè esso
- Se fosse vivo si sentisse adesso.
- 70
- Ma Palemone ancor non si sentia:
- Per che Penteo piangeva doloroso,
- Dicendo: lassa oimè la vita mia!
- Morto è il mio compagno valoroso:
- Ma di ciò testimon Febo mi sia
- Che io non fui di ciò volonteroso,
- Nè mai battaglia con lui disiai:
- Oimè dolente, perchè mai amai?
- 71
- S’io questa donna non avessi amata,
- Com’io facea di tutto mio cuore,
- Questa battaglia non sarebbe stata:
- Ma per difender il leale amore
- Che io porto a Emilia, è incontrata
- L’aspra giornata piena di dolore:
- Or foss’io morto il giorno ch’a Teseo
- Prima tornai, nominato Penteo.
- 72
- In questo punto tornò Palemone
- In sua memoria, e in piè si fu levato,
- Che altro non avea che stordigione,
- Per lo gran colpo, in sè di mal provato:
- E come ardito e franco il buon campione
- Davanti al petto lo scudo recato,
- Si vide presso che forte piangeva
- Il buon Penteo, a cui così diceva:
- 73
- Leva su, cavalier, che io non sono
- Ancora vinto, perchè sia abbattuto:
- E se della tua spada il grieve tuono
- Mi spaventò, in me son rivenuto:
- E non creder però aver perdono
- Da me perchè pietoso t’ho veduto:
- E’ ti convien con forza e con valore
- Combatter meco d’Emilia l’amore.
- 74
- Maravigliossi allor Penteo assai,
- E dentro al cor nascose la sua ira,
- E disse: Palemon, gran ragion hai
- Di mal volere a chi per te sospira;
- Ma d’altra foggia ti farò omai:
- Però come tu vuo’ così ti gira,
- Prendi come ti piace ogni vantaggio,
- Chè di te vincere ho fermo coraggio.
- 75
- Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte,
- E Venere ed Emilia insiememente,
- Ed imprometton doni, e d’altra parte
- Ciascun si reca dentro alla sua mente
- La nobiltà, l’ardire e la molta arte
- Delle battaglie, e ’l ferir prestamente:
- E l’uno in ver dell’altro de’ baroni
- S’andarono a fedir come dragoni.
- 76
- Gli scudi in braccio, e le spade impugnate,
- Sopra l’erbette l’un l’altro ferendo,
- Senza aver più l’un dell’altro pietate,
- Si gieno i due baroni, e ricoprendo,
- Tutte l’armi s’avevano spezzate,
- Per la lunga battaglia contendendo;
- E poco s’era ancora conosciuto
- Che alcun vantaggio fra lor fosse suto.
- 77
- Ma come noi veggiam venire in ora
- Cosa che in mill’anni non avviene,
- Così n’avvenne veramente allora
- Che Teseo con Emilia d’Atene
- Uscir con molti in compagnia di fuora,
- E qual di loro uccello, e qual can tiene,
- E nel boschetto entraro, alcun cornando,
- Alcun compagni ed alcun can chiamando.
- 78
- E cominciar la caccia a lor diletto,
- E ciascun già siccome gli piacea
- In qua in là per lo folto boschetto,
- E chi uccelli e chi bestie prendea:
- E in tal guisa, senza alcun sospetto,
- Con un falcone in braccio procedea,
- Per pervenire alla chiara rivera,
- Emilia, ove per lei tal battaglia era.
- 79
- Ell’era sopra un bianco palafreno,
- Con can d’intorno ed un corno d’allato
- Aveva, ed alla man contraria il freno;
- Dietro alle spalle un arco avea legato,
- Ed un turcasso di saette pieno,
- Che era d’oro tutto lavorato:
- E ghirlandetta di fronde novelle
- Copriva le sue treccie bionde e belle.
- 80
- E sopravvenne lì subitamente,
- E s’arrestò vedendo i cavalieri;
- Ma conosciuta fu immantinente
- Da ciaschedun delli due buon guerrieri:
- Gli qua’ però non ristetton niente,
- Ma ne divenner più forti e più fieri,
- Sì si raccese in ciaschedun l’ardore
- Della donzella, che amavan di core.
- 81
- Ella si stava quasi che stordita,
- Nè giva avanti nè indietro tornava;
- E sì per maraviglia era invilita,
- Ch’ella non si moveva e non parlava:
- Ma poi ch’alquanto fu in sè reddita,
- Della sua gente a sè quivi chiamava,
- E similmente ancor chiamar vi feo
- A veder la battaglia il gran Teseo.
- 82
- Il quale assai di maraviglia prese
- Chi fosson questi due che combatteano;
- Ed a mirarli lungamente intese,
- E stima ben che gran mal si voleano,
- Quando considerava ben l’offese
- Che essi insieme tra lor si faceano:
- Ma poi ch’egli ebbe assai ciascun mirato,
- Cavalcò oltre e lor si fu appressato.
- 83
- Poi disse loro: o cavalier, se Marte
- Doni vittoria a cui più la disia,
- Ciascun di voi si tragga d’una parte;
- E s’egli è in voi alcuna cortesia,
- Mi dite chi voi siete, e chi in tal parte
- A battaglia v’induce tanto ria,
- Secondo ne mostrate nel ferire
- Che fate l’un ver l’altro da morire.
- 84
- Li cavalier quando vider Teseo,
- E lui udirò a lor così parlare,
- Ciascuno indietro volentier si feo,
- E vorrebbono avere a cominciare
- Quella battaglia: ma il buon Penteo
- Prima così rispose al domandare:
- Noi siam due cavalier che per amore
- Colle spade proviam nostro valore.
- 85
- Disse Teseo: deh ditemi chi siete?
- A cui Penteo: noi ’l farem volentieri,
- Se voi, caro signor, ne promettete
- La pace vostra, se a noi fia mestieri.
- A cui Teseo rispose: voi l’avete,
- Perchè vi veggio sì pro’ cavalieri,
- E combattete ancor per tal cagione,
- Che offendervi saria contro ragione.
- 86
- Allora que’ rispose prestamente:
- Io sono il vostro Penteo che vi parlo,
- Il qual con questo cavalier valente,
- Per troppo amor volendo soperchiarlo,
- Battaglia fo, ed e’ me similmente
- Vuol soperchiar, perch’io accompagnarlo
- Voglio ad amare; e chi e’ sia colui,
- E’ vel dirà, che sallo me’ che altrui.
- 87
- A Palemon pareva male stare,
- Ma non pertanto e’ cacciò la paura,
- E disse: sire, io non posso celare
- Chi io mi sia, ed ancor m’assicura
- Vostra virtù, che non vorrete usare
- La vostra forza contro alla mia pura
- Mente, che per amor fuor di prigione
- Uscii, e sono il vostro Palemone.
- 88
- Teseo udendo nominar costoro,
- Prima sdegnò, poi ringraziolli assai
- Che s’eran nominati, e disse loro:
- Deh non vi spiaccia, ditemi ora mai
- Come Cupido collo stral dell’oro
- Amendun vi ferì di pari guai,
- Conciò sia cosa che l’un vien da Egina,
- L’altro fu preso a Tebe la meschina.
- 89
- E se licito m’è ch’io sappia ancora
- Chi sia la donna vi prego il diciate:
- Sospirò Palemone, e disse allora
- Come le cose tutte erano andate:
- E ciò Teseo vie più che l’altre accora
- Che prima gli erano state contate,
- E disse: Amor v’ha dato grande ardire,
- Poi non curate per lui il morire.
- 90
- A cui Palemon disse: alto signore,
- Saputo hai ciò che vuogli interamente:
- Ed a contarlo m’ha dato valore
- Desiderio di morte certamente,
- La qual mi finirà l’aspro dolore
- Che sempre offende la mia trista mente;
- Ed io che son di tua prigion fuggito
- Ho d’esser morto molto ben servito.
- 91
- Allor Teseo: non piaccia a Dio che sia
- Ciò che dimandi, benchè meritato
- L’aggiate per la vostra gran follia:
- Che l’un contra ’l mandato è ritornato,
- E l’altro ha rotto la mia prigionia:
- Sì ch’io non ne saria mai biasimato
- Se lo facessi, nè faria fallanza,
- Ma serverei l’antica e buona usanza.
- 92
- Ma perchè già innamorato fui,
- E per amor sovente folleggiai,
- M’è caro molto il perdonare altrui,
- Perch’io perdono più volte acquistai,
- Non per mio operar, ma per colui
- Pietà, a cui la figlia già furai:
- Però sicuri di perdono state,
- Vincerà ’l fallo la mia gran pietate.
- 93
- Ma non fia assoluto il perdonare,
- Ch’io ci porrò piacevol condizione;
- La qual prometterete voi di fare,
- Se io perdono a vostra falligione.
- Essi ’l promisero, ed e’ fe’ giurare
- Lor d’osservarla senza offensïone;
- E félli insieme far pace solenne,
- Poi in questo modo con lor si convenne.
- 94
- E cominciò: belli signori, io avea
- La giovinetta, la quale voi amate,
- Meco guardata, e donar la credea
- Per vera sposa al piacevole Acate
- Nostro cugin; ma la fortuna rea
- Con morte ha queste cose via levate,
- Ed ella s’è rimasa senza sposo,
- Come vedete, col viso amoroso.
- 95
- Dunque conviene a me pensar d’altrui,
- Perchè l’età di lei omai ’l richiede.
- Nè io non so pensar ben bene a cui
- I’ la mi dea, che con più ferma fede
- L’ami ed onori che farà un di vui
- Se sì l’amate come il mio cor crede;
- Ma non la può di voi aver ciascuno,
- Però convien ch’ella rimanga all’uno.
- 96
- All’un di voi sarà bene investita,
- Perocchè siete di sangue reale,
- E di nobile affare e d’alta vita,
- Ed ella similmente è altrettale,
- Ed è sorella alla reina ardita
- Che meco è stata serva imperiale:
- Per la qual cosa sdegnar non dovete
- Per moglie lei, se aver la potete.
- 97
- Ma per cessar da voi ogni quistione,
- Coll’arme indosso vi convien provare
- Nel modo che dirò: che Palemone
- Cento compagni farà di trovare
- Quali e’ potrà a sua elezïone,
- E a te simíle converrà di fare;
- Poi a battaglia nel teatro nostro
- Sarete insieme col seguito vostro.
- 98
- Chi l’altra parte caccerà di fuore
- Per forza d’arme, marito le fia;
- L’altro di lei privato dell’onore,
- E a quel giudicio converrà che stia
- Che la donna vorrà, al cui valore
- Commesso da quest’ora innanzi sia:
- E termine vi sia a ciò donato
- D’un anno intero: e così fu fermato.
- 99
- Siccome per mal sol pallida fassi
- Candida rosa, o per Noto spirante;
- Che poi venendo Zeffiro rifassi,
- O per la fresca aurora levante,
- E glorïosa in su li pruni stassi
- Bella come talvolta fu davante,
- Così costor diventaro, raccolto
- Il parlar di Teseo, lor caro molto.
- 100
- E risposono a lui umilemente:
- Signore, a tanta grazia, quanta fai
- A ciaschedun di noi, nessun possente
- A ciò guidardonar sarebbe mai,
- Ma que’ che ’l cielo e ’l mondo parimente
- Governa ti contenti, siccome hai
- Noi contentati dell’alto perdono
- Del nostro fallo, il qual ci è sommo dono.
- 101
- Noi siam disposti ad ogni tuo piacere,
- E penserem di mettere ad effetto
- Quel che n’hai comandato a tuo volere:
- Poi cominciaron mirabil diletto,
- Vedendo ciò che più era ’n calere
- Sicura dimorar nel lor cospetto,
- La qual gli rimirava vergognosa,
- E delle lor fedite assai pietosa.
- 102
- A cui disse Teseo: giovin donzella,
- Vedi tu quanto per te faccia amore,
- Perchè tu se’ più che alcun’altra bella?
- Ben tel dei riputar sovrano onore:
- Ed oltre a ciò, isposa se’ novella
- Dell’un de’ due di cotanto valore.
- Nulla rispose Emilia, ma cambiossi
- Tutta nel viso, tanto vergognossi.
- 103
- Febo era già a mezzo il ciel salito
- Nell’animal che tenne Garamante
- Allor che Giove di Creti partito
- In Africa passava ad Atalante,
- Quando a ciascun di loro assai ferito
- Le piaghe si stagnavan tutte quante;
- Ma ’l tempo caldo mosse a dir Teseo,
- Medicheratti alla città Penteo.
- 104
- E poi gli fe’ sopra i cava’ salire
- Con tutte l’armi, ed in mezzo di loro
- Emilia bella, di grazia, fe’ gire:
- Di che tanto contenti eran costoro,
- Che lingua alcuna nol potrebbe dire;
- E poco gli occhi lor facean dimoro,
- Che non mirasser lei assai celato,
- Finchè per loro in Atene fu entrato.
- 105
- Quivi con festa al palagio maggiore
- Disceser tutti, e Teseo disarmare
- Fe’ i tebani baron di gran valore,
- E dolcemente li fece curare,
- E più ancora lor fece d’onore,
- Che gli fe’ dentro al palagio abitare,
- E render lor castella e possessioni,
- Quante n’avean pria che fosser prigioni.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO SESTO
- * * *
- ARGOMENTO
- Il sesto libro nel cominciamento
- Li due teban baron pacificati
- Dimostra, e il loro ricco portamento,
- E le feste e i conviti dilicati:
- Appresso a ciò dichiara il lieto avvento
- In Atene di molti convitati
- Baroni, acciocchè ognun n’avesse cento:
- Tra molti eletti, arditi e più pregiati:
- Ed in che modo e abiti ciascuno,
- E di qual parte in Atene venuti
- Descrive, ed oltre a ciò siccome ognuno
- E tutti insieme fosson ricevuti:
- De’ quai, veduta Emilïa, nessuno
- Biasima lor se e’ ne son perduti.
- 1
- L’alta ministra del mondo Fortuna
- Con volubile modo permutando
- Di questo in quello più volte ciascuna
- Cosa, togliendo e talora donando,
- Or mostrandosi chiara ed ora bruna,
- Secondo le parea e come e quando,
- Avea co’ suoi effetti a’ due Tebani
- Mostrato ciò che può ne’ ben mondani.
- 2
- Poichè con lei lieta furon nati
- Ed allevati, e già mutato il viso
- Avea quando nel campo fur pigliati,
- Indi da lor ciascun suo ben diviso
- Avendo, gli lasciò isconsolati:
- Di prigion fuori d’ogni lieto avviso
- Poi l’un ne trasse, e quasi a lieta vita
- L’avea recato, e questi fu Arcita.
- 3
- L’altro che poi, com’ella volle, fuore
- Se n’era uscito, ancor mise ella in esso,
- Con matto immaginare, un tal furore,
- Che sè al primo quasi ebbe rimesso
- D’acquistata salute in gran dolore:
- Alla qual cosa essendo assai appresso,
- E ben credendo ciò, com’ella volse,
- Teseo perdonò loro e gli raccolse.
- 4
- Nè solamente gli mise speranza
- Di posseder quel che ciascuno amava;
- Ma oltre a ciò, senza alcuna mancanza,
- Quel che ciascuno in pria signoreggiava,
- Come detto è, rendè: sicchè abbondanza
- Ebber dove ognun prima mendicava:
- Così da morte, o ver da ria prigione
- Condusse loro in tale esaltazione.
- 5
- Deh chi fia quel che dica che i mondani
- Provvedimenti a’ moti di costei
- Possan mai porger argomenti sani?
- Se non fosse mal detto, io dicerei
- Certo che fosser tutti quanti vani
- Mirando questo, e ciò che ancor di lei
- Si legge e ode, e vede ognora aperto,
- Benchè ne sia, come ciò fa, coperto.
- 6
- Costoro insieme tenner buona pace,
- E l’amistà antica raffermaro,
- E quel che l’un voleva all’altro piace,
- Ed il contrario era così discaro:
- La rea loro fortuna ora si tace,
- Fuggito è ’l tempo d’ogni parte amaro:
- Ma pure amore gli tenea ristretti
- Vie più che mai, con tutti i lor diletti.
- 7
- Essi avean di lor terre grande entrata,
- Perchè essi spendeano largamente:
- Ogni persona da loro onorata
- Era in Atene grazïosamente,
- E sì gran cortesia da loro usata,
- Che sen maravigliava tutta gente:
- Onde gli amavan tutti i cittadini
- Quantunque egli eran grandi e piccolini.
- 8
- Altro che suoni, canti ed allegrezza
- Nelle lor case non si sentia mai.
- E ben mostravan la lor gentilezza,
- A chi prender volea davano assai:
- Cani, falconi e astor di gran prodezza
- Usavano a diletto; nè giammai
- Erano in casa senza forestieri,
- Conti, baroni, donne e cavalieri.
- 9
- Vestivan robe per molto oro care,
- Con gran destrier, cavalli e palafreni,
- E nulla si lasciavano a donare,
- Sì eran d’ogni gran larghezza pieni:
- Facendo giostre con grande armeggiare
- Con lor brigate ne’ giorni sereni;
- E ciascun s’ingegnava di piacere
- Più ad Emilia giusto il suo potere.
- 10
- E benchè fosse la festa e ’l diletto
- Ched e’ facevan ciascun giorno, cento
- Pareva lor che ’l dì che aveva detto
- Teseo venisse, acciocchè di tormento
- Uscissono o con gioia o con dispetto:
- E ciascheduno aveva intendimento
- Di vincer l’altro senza alcun fallire,
- E se perdesse, perdendo morire.
- 11
- E per non aspettar l’ultimo giorno
- Ch’esser dovea tra loro la battaglia,
- Ciaschedun manda messaggi d’attorno,
- E d’invitare amici si travaglia:
- E d’altra parte, per essere adorno,
- Ciascun fa paramenti di gran vaglia
- Per sè ornare, e per donare a’ sui,
- Che ’l giorno porteranno arme con lui.
- 12
- E in breve tempo si furon forniti
- D’armi lucenti e forti a ogni prova,
- E di cavalli feroci ed arditi,
- Grandi alli greci, a veder cosa nuova:
- E ciascheduno in sè gli più spediti
- Fatti di guerra pensando ritrova,
- Per non venir disavveduti a fare
- Cosa che a danno lor possa tornare;
- 13
- In questo mezzo il giorno si appressava
- Che dato avea Teseo a’ cavalieri;
- Onde ciascuno i suoi sollecitava
- Ched e’ venisson, ch’egli era mestieri:
- Perchè ad Atene assai gente abbondava
- D’ogni paese, e per tutti i sentieri,
- Chi ad Arcita, e chi a Palemone
- Venia, per vinta dar la lor quistione.
- 14
- Il primo venne ancora lagrimoso
- Per la morte di Ofelte, a ner vestito,
- Il re Licurgo forte e poderoso,
- Di senno grande, e di coraggio ardito,
- E menò seco popol valoroso
- Del regno suo, pure il più fiorito;
- E ad Arcita s’offerse in aiuto,
- Per cui era di nomea venuto.
- 15
- Venne d’Egina lì lo re Peleo.
- Giovane ancora e di sommo valore;
- E seco quella gente che si feo
- Di seme di formica, in le triste ore
- Che Eaco lo suo popol perdeo,
- Menò con pompa grande e con onore:
- Bianco, e vermiglio e chiaro nel visaggio
- Più che non fu giammai rosa di maggio.
- 16
- Vestito era il buon re in drappo d’oro,
- Chiaro per molte pietre e rilucente,
- E sopra un destrier grande e di pel soro
- Era fra tutti i suoi più eminente:
- Ed un turcasso ricco per lavoro,
- Pien di saette ciascuna pungente,
- Dal destro lato, e dal manco pendea
- D’arcadia un arco forte ch’egli avea.
- 17
- I biondi crini e ’l collo e’ biancheggianti
- Omeri ricoprian cadendo stesi;
- La sella e ’l freno d’oro eran micanti,
- E similmente tutti gli altri arnesi:
- E’ suoi gli gien d’intorno tutti quanti
- D’alta prodezza e sommo ardire accesi;
- E ’n mano avea, qual a lui si convenne,
- Una termodontiaca bipenne.
- 18
- Così gli piacque nella terra entrare,
- Alla vista del qual ciaschedun trasse;
- Nè di mirarlo si potien saziare,
- Nè vi fu alcuno il dì che nol lodasse:
- Oh quante donne allor fe’ sospirare,
- Ed è credibil che ne innamorasse,
- Se gentilezza e biltate han potere
- Di fare a donna gentiluom piacere.
- 19
- Cefal d’Eolo figliuol seguì costui,
- Seguillo Folco, e seguil Telamone,
- Argeo ed Epidaurio gì con lui,
- Flegias di Pisa, di Sicionia Alcone;
- Ed altri molti nobili, di cui
- La spenta fama oggi non fa menzione,
- Vi furo, i quai si de’ creder che onore
- V’acquistar molto per lo lor valore.
- 20
- Di Nisa di gran boschi copïosa
- Tra gli urli dionei Niso vi venne,
- E con sembianza lieta e valorosa
- Con bella gente di Alcatoe ne venne,
- Armati tutti in arme luminosa,
- Con quell’arnese che a lor si convenne:
- Guardando quel cappel dal qual tenea
- La signoria delle terre ch’avea.
- 21
- Sopra d’un carro da quattro gran tori
- Tirato dall’Inachia Agamennone
- Vi venne, accompagnato da plusori,
- Armato tutto a guisa di barone,
- Sè già degno mostrando degli onori
- Ch’ebbe da’ Greci nella ossidione
- A Troia fatta, nel sembiante arguto,
- Con nera barba, grande e ben membruto.
- 22
- Non armi chiare, non mantel lodato,
- Non pettinati crin, non ornamenti
- D’oro o di pietre aveva, ma legato
- D’orso un velluto cuoio con lucenti
- Unghioni al collo, il quale d’ogni lato
- Ricoprien l’armi tutte rugginenti;
- E qualunque ’l vedea, diceva d’esso,
- Que’ vinceria con qualunque fia messo.
- 23
- Di dietro a lui, in abito dispari,
- Menelao sen veniva giovinetto,
- Vestito in drappi belli e molto cari,
- Piacevol bello e gentil nell’aspetto,
- Senz’alcun arme, e’ crin com’oro chiari
- Zeffiro ventilava, e giuso al petto
- La barba bionda com’oro cadea
- Lodata da chiunque la vedea.
- 24
- Egli era sopra a un gran caval ferrante,
- Reggendo il freno grave per molto oro,
- Con un mantel ch’al collo ventilante
- Dai circustanti s’udiva sonoro:
- E se Venere fosse senza amante,
- Ch’ella prendesse lui credon coloro
- Che lui vedean: così la sua bellezza
- Lodavano, e ’l valore e la destrezza.
- 25
- Costui seguiva il nobile Castore
- E ’l suo fratel Polluce tutti armati;
- E ben mostravan che di gran valore
- Gli avesse il Cigno lor padre dotati;
- I qua’ ne’ loro scudi, per onore,
- Aveano il come e ’l quando generati
- Fur con ingegno dalla bella Leda,
- Allor che ella fu del Cigno preda.
- 26
- Seguian costor più uomini lernei,
- Armati tutti e fieri ne’ sembianti,
- Nobili misti insieme co’ plebei,
- E qual giva di dietro e qual davanti,
- In forme tai che dir non le saprei,
- Sì eran divisati tutti quanti:
- E con onor nella cittade entraro,
- Ed al real palazzo dismontaro.
- 27
- Nel cuoio del leon nemeo velluto
- Recossi Cromi corintio vestito,
- Ch’era già al padre suo stato veduto,
- Da cui il giel mortale ave sentito,
- Con un bastone grande e noderuto,
- E di tutte l’altre armi ben guernito,
- Sopra Strimon caval di Diomede,
- D’uomini mangiator, come si crede.
- 28
- Non altrimenti la testa menando,
- Che faccia il toro poi che è ammazzato,
- E senza alcun riposo ognor ringhiando
- Giva, di suon tal chente fu ascoltato:
- Talvolta gía come i cani abbaiando
- Si fer sentir di Scilla nel turbato
- Mare, in quell’ora ch’Eolo irato spira
- Il vento che quel loco più martira.
- 29
- Con esso di Etolia molta gente
- Si venne ancora tutta ben guernita:
- Ippodamo vi fu similemente
- Figliuolo di Eomonia pulita,
- Con quello sforzo d’onde era possente,
- A mostrar la grandezza di sua vita,
- Sopra un caval calidonio coverto
- Di drappi sirii, ben ne’ campi esperto.
- 30
- Di Pilos venne il giovane Nestore,
- Figliuolo di Neleo, la cui etate
- Nelle vermiglie guance il primo fiore
- Mostrava, poco ancora seminate
- Di crespo pel che d’oro avie colore,
- Il qual multiplicava sua biltate:
- Costui ornò il padre in guisa tale,
- Che d’ornamento a lui non vi fu uguale.
- 31
- Natura ornato l’avea di bellezza
- Quanto giovane donna disiare
- Potè giammai, e poi di gentilezza
- Di real sangue; nè potea celare
- L’ardito cuor ch’aveva, e la prodezza
- Con disio sommo di bene operare:
- E la fortuna co’ ben ch’ella dona
- Più gli fu larga ch’ad altra persona.
- 32
- Costui armato, il ferro sotto argento
- Quant’era in piastre tutto nascondea,
- Ma della maglia il molto guernimento
- Tutto fu d’oro quantunque ne avea,
- Di ricche pietre assai fu l’ornamento,
- Che ad arnese tal si richiedea:
- E sì lucea, che ’n ogni parte oscura
- Luce avrie data come giorno pura.
- 33
- E su un gran caval di pel morello,
- Senza riposo tuttavia fremendo,
- Cavalcava Nestor leggiadro e bello,
- Un gran baston di ferro in man tenendo:
- E siccome falcon, che di cappello
- Esce, si andava tutto plaudendo,
- Da molti cavalieri d’ogni lato
- Molto nobilemente accompagnato:
- 34
- Nella terra de’ Cecropi festando
- In cotal guisa se n’entrò Nestore;
- Di che ciascun si gía maravigliando,
- Facendo a lui giusto il potere onore;
- Ed e’ che ben sapeva dimostrando
- Andava a tutti il suo sommo valore:
- A tutti onor facea, fin che pervenne
- Ove Teseo cogli altri lui ritenne.
- 35
- Evandro nato su nell’alto colle
- Cillenio di Carmenta, e di colui
- Che l’anime da’ corpi morti tolle,
- In ozio star con li popoli sui
- Nella steril Nonacria non volle;
- Ma per mostrar la sua potenza altrui,
- Essendo ancora prospero e regnante,
- Con molti suoi baron giunse festante.
- 36
- Egli era su tessalico destriere
- Co’ suoi insieme andando baldanzoso;
- Ed era armato d’armi forti e fiere,
- E un cuoio, per mantel, d’orso piloso
- Libistrico, le cui unghie già nere
- Sott’oro eran nascose luminoso,
- E de’ suoi molti avean tal copritura,
- E di leone alcun la pelle dura.
- 37
- Altri avean pelli di tori lunati,
- Tutte di chiari lembi circuite;
- Alquanti v’eran in cinghiar fasciati,
- Nullo n’aveva con armi pulite:
- E così insieme tutti divisati
- Circuivano Evandro, come udite:
- Il qual dall’una man saette aveva,
- Dall’altra un arco ed il caval reggeva.
- 38
- A cui dal lato pendeva sinestro
- Uno scudo assai rozzo per lavoro,
- Nel qual pareasi Atlantide silvestro
- Fatto, Argo ingannar col suo sonoro
- Nuovo strumento, e lui uccider destro
- Vi si vedeva ancor senza dimoro:
- Eravi ancor quando divenne Geta
- Per far del padre la volontà cheta.
- 39
- Eravi ancor ciò che per Erse fece,
- Ed altre opre di lui v’eran distinte,
- Le qua’ per brevità qui dir non lece:
- Ma pur tra l’altre da parte dipinte
- L’opere sue già fatte dritte o biece:
- Eran le braccia sue al collo avvinte
- Di Carmenta, di cui Evandro nacque
- Nel tempo ch’ella ’n Cilleno a lui piacque.
- 40
- In cotal guisa co’ suoi rugginoso
- Dell’arme e del sudor venne in Atene:
- E benchè bel non paia, valoroso
- Chiunque il vede veramente il tene;
- E fe’ , del modo suo non borïoso
- Ma umíle, parlare a tutti bene:
- Ben s’ammiraron della condizione
- Chiunque il vide a sì fatto barone.
- 41
- Vennevi Peritoo, che dalla madre
- Ancor le guance senza pelo avea:
- Questi con veste di drappi leggiadre
- Di biltà tutto nel viso splendea
- Bianco vermiglio, e colle luci ladre
- Chi rimirava con amor prendea:
- E biondo assai vie più che fila d’oro,
- Incoronato di frondi d’alloro.
- 42
- Nè crede alcun che sì bel fosse Adone
- Di Cinira, da Vener tanto amato,
- Quanto era Peritoo, ancor garzone,
- Morbido nell’aspetto e dilicato:
- Costui montato sopra un gran roncione
- Del seme di Nettuno procreato,
- Venne ad Atene, e incontro gli si feo
- Il suo amico con festa Teseo.
- 43
- E benchè fosse molto conosciuto
- Peritoo in Atene, nondimeno
- Sì era egli volentier veduto:
- Perchè ciaschedun luogo n’era pieno
- Del popol ch’era a lui veder venuto;
- Tanto che appena il loco non capieno:
- Così col suo Teseo sen venne adagio,
- E con lui dismontò nel suo palagio.
- 44
- Il duca di Naricia giovinetto
- Ancora molto vi mandò Laerte,
- Da cui gli fur con paternale affetto
- Le armi lucenti primamente offerte,
- Le quali e’ prese con sommo diletto,
- E assai pargli ogni poco che esperte
- Le abbia: e con seco menò Diomede,
- Cui sempre amò con amichevol fede.
- 45
- Poi di Sidonia ancor Pigmaleone
- Vi venne, e fuvvi con seco Sicheo,
- Che poi fu sposo dell’alta Didone;
- E’ da fenicii nobili si feo
- Seguire, a guisa di sommo barone:
- E cogli suoi insieme da Teseo
- Fu onorato magnificamente
- E ricevuto molto caramente.
- 46
- Quivi nell’arme con solenne stuolo
- Il glorioso re della Dittea
- Isola, già d’Europa figliuolo,
- Vi venne, che ancora non avea
- Del suo bell’Androgeo sentito il duolo,
- E in su la riva d’Atene Lernea
- Discese, e fe’ coll’ancore fermare
- Le navi che ’l dovevano aspettare.
- 47
- Di dietro a cui discese Radamante,
- Fratel di lui, e Sarpedone appresso,
- E le lor genti ancora tutte quante:
- Quivi era un carro orrevole per esso,
- Sopra del qual montò, e messo avante
- La gente sua, non però molto cesso,
- Inverso Atene prese il cammin tosto,
- Siccome avea nella mente disposto.
- 48
- Il manco lato uno scudo gli armava,
- Nel qual vedeansi i regni di Nereo;
- E come Giove in que’ toro notava,
- Carico di Europa, onde nasceo:
- E i liti v’eran dove e’ la posava
- Soavemente nel regno Ditteo;
- E similmente la casside bella
- Tutta lucea della paterna stella.
- 49
- Erano i campi, gli argini e le strade,
- Le porti de’ palagi e li balconi,
- Comecchè fosson ed ispesse o rade,
- Piene di donne tutte e di baroni,
- Per veder di Minos la dignitade,
- E’ vecchi antichi e’ giovani garzoni
- Tutti venuti v’erano a mirare
- Il gran baron nella lor terra entrare,
- 50
- Il qual v’entrò con molto grande onore,
- E più vidde ciascun, che non credea
- Vedere, di lui d’altezza e di valore:
- E fuvvi assai che poi non disson rea,
- Nè biasimaron il focoso amore
- Di Scilla, allor che ognaltro la dicea
- Degna di morte, per lo padre ucciso,
- Sen rimembrando qual l’aveano viso.
- 51
- Vennevi ancora Encelado bistone
- A dimostrar della sua gran prodezza
- Con nobil compagnia d’ogni ragione,
- Audaci erano e pien d’ogni fierezza
- D’intorno a lui, che sopra un gran roncione
- Chiara mostrava la sua adornezza:
- E fu da tutti in Atene veduto
- Con lieto viso assai ben ricevuto.
- 52
- E benchè molti de’ liti d’Alfeo
- Venisser quivi a volere onorarsi,
- Non volle rimanere Ida Piseo:
- Ma per alquanto quivi dimostrarsi,
- Pensando al suo valore il quale il feo
- Nelli giuochi olimpiaci pregiarsi,
- Che coronato fu, e’ in compagnia
- Gente menò di somma valenzía.
- 53
- Questi era tanto nel corso leggiere,
- Veloce e presto, che nulla saetta
- Dal partico Cidone o altro arciere
- Mandata fu da nervo con tal fretta,
- Che lenta non paresse, e che di riere
- Non gli fosse rimasa per dispetta;
- E tanto e sì tal fïata correa,
- Che agli occhi de’ miranti si togliea.
- 54
- Questi saria nel fortunoso mare,
- Qualora e’ più in ver lo ciel crucciato
- Istende i suoi marosi col gridare,
- Correndo con asciutte piante andato:
- Non gli sarie paruto grave affare
- L’esser trascorso, senza aver guastato
- Alcuna spiga, sopra li tremanti
- Campi spigati e al vento sonanti.
- 55
- Ed oltre a questi ancor vi venne Admeto,
- Lucendo di reale adornamento,
- Di mezza etade, e nell’aspetto lieto,
- Il quale in uno scudo d’ariento
- In forma di pastore umíle e queto
- D’oro portava Febo, che l’armento
- Di lui ne’ verdi boschi pasturava,
- Ed in Anfrisio poi l’abbeverava.
- 56
- Questi fra’ suoi Feresi cavalcando,
- Di verde quercia inghirlandato giva,
- Il quale dal castalio somigliando
- Gregge, fremendo aizzato fremiva,
- Or qua or là co’ piedi il suol pestando,
- Ferendo chi appresso gli veniva:
- Ed Irin gli menava avanti addestro
- Tutto coverto uno scudier sinestro.
- 57
- E così cogli amici se ne venne
- Fino in Atene in atto baldanzoso:
- Quivi al palagio di Teseo si tenne
- Il caval fiero e di andare animoso:
- Là dove fu, siccome si convenne,
- Ben ricevuto assai dal valoroso
- Teseo, il qual l’aveva per amico,
- Non or di nuovo, ma già per antico.
- 58
- Di Beozia vi venne molta gente,
- Quali ad Arcita, e quali a Palemone,
- Perocchè lì ciascuno era possente,
- E ne’ popoli avea giurisdizione;
- Onde ciascuno in tal punto fervente
- A far servigio di sua suggezione
- Venne ad Atene senza dimorare,
- Armati bene e belli a riguardare.
- 59
- Quivi i Dircei per tema di Teseo
- Fuggiti già, le spilonche lasciate,
- Chi venne a Palemone, e chi a Penteo;
- Tra qua’ le genti fur che son bagnate
- Dalle spumanti ripe d’Ismeneo:
- E quelle ch’a Citeron soggiogate
- Sono, e a’ monti Ogigii tutti quanti,
- O vicini o d’Elicona abitanti.
- 60
- E quelli, i quali Asopo troppo altero
- Contro agl’iddii per Egina furata
- Veggono spesso torbido ’n sentiero,
- Vi furon tutti, gente ben armata,
- E ’l popol d’Antedone tutto intero
- Con altri molti di quella contrata;
- Contenti assai de’ signor riavuti,
- Li qua’ credean del tutto aver perduti.
- 61
- Avrebbe quivi Cefiso mandato
- Narciso, se non fosse ch’egli in fiore
- Già ne’ campi tespiani mutato
- Era, per troppo a sè avere amore:
- Spesso dal padre fu ’l lito bagnato,
- Siccom’io credo, per troppo dolore
- D’aver perduto in la sua fanciullezza
- Il caro figlio per troppa bellezza.
- 62
- E Leandro era già stato raccolto
- Dalla sua Ero, nel lito di Sesto,
- Sospinto dal delfin, con tristo volto,
- E di lagrime pieno amare e mesto,
- E da lei pianto con sospiri molto;
- Il non esservi adunque fu per questo:
- Nè i suoi vi gir, perchè perduto avieno
- Il lor signor, cui seguitar dovieno.
- 63
- Sarebbevi Erisiton Triopeo
- Similemente a combatter venuto,
- Ma per la debolezza non poteo,
- Già magro e senza forza divenuto,
- Per l’albero, lo quale e’ tagliar feo,
- Che era stato a Cerer conceduto:
- Rimase adunque, e non vi potè gire,
- Ma gli convenne di fame morire.
- 64
- Fur altri assai e popoli e contrade,
- Tanti che ben non gli saprei contare,
- Sì gli nasconde in sè la lunga etade:
- Nè gli vi fece bisogno menare,
- Ma de’ signori ’l voler nobiltade
- Ciascun colle sue genti dimostrare;
- E vaghi d’acquistar fama ed onore
- Ciascun, secondo fosse il suo valore.
- 65
- Qualunque fur de’ possenti signori,
- Re, duca, prence, o altri d’onor degno,
- O qual si fosser piccoli o maggiori,
- Che di Teseo venisse ancor nel regno,
- E’ fur con sommi e lietissimi onori
- Ricevuti, e ciascun con tutto ingegno:
- E per sè prima gli onorava Egeo,
- E poi con lieto volto il buon Teseo.
- 66
- Ippolita reina lietamente
- Quanti ne venner tutti ricevette
- Con alta festa e grazïosamente:
- Nè la giovane Emilïa si stette,
- Ma quanto più potea similemente,
- Bella tenuta da chi la vedette,
- Tanto a tututti si mostrava lieta,
- E d’ogni grazia piena e mansueta.
- 67
- Nè furon folli Arcita e Palemone
- Tenuti da chi seppe i fatti loro,
- Se l’un s’era fuggito di prigione,
- E l’altro, oltre al mandato, a far dimoro
- Nella vietata bella regïone,
- Per acquistar così fatto tesoro:
- Nè s’ammiraron se non voller loco
- Dar l’uno all’altro all’amoroso foco.
- 68
- E ben fu giudicato che ’l suo amore
- Fosse troppo più caro da comprare,
- Che pria non fu di Tebe esser signore,
- O di quantunque cigne il verde mare;
- E che bene investito era il valore
- Di tanti prodi, quanti ragunare
- Avie fatti fortuna, a dar sentenza
- Ultima con loro armi a tale intenza.
- 69
- Se gli alti regi furono onorati
- Da Palemone e dal gentile Arcita
- Non cal ch’io narri, chè uomini nati
- Non si crede che mai in questa vita
- Fossono con servigi lieti e grati
- Veduti come questi, a’ qua’ fornita
- Era ogni voglia, sol che essi dire
- Volesson ciò che non potien sentire.
- 70
- Alti conviti e doni a’ regi degni
- S’usavan quivi, e sol d’amor parlare,
- E’ vizii si biasmavano e gli sdegni:
- Giovenil giuochi, e sovente armeggiare
- Il più del tempo occupavan gl’ingegni,
- O ’n giardini con donne festeggiare
- Lieti v’erano i grandi ed i minori,
- E adagiati da fini amadori.
- 71
- E certo poichè Pallade quistione
- Con Nettuno ebbe a nomar la cittade,
- Gente adunata d’alta condizione
- Nè tanta, nè di sì gran nobiltade
- Non s’era vista per nulla stagione:
- Perchè Teseo in somma dignitade
- Il si teneva, e ’n fra l’altre sue cose
- Più degne di memoria questa pose.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO SETTIMO
- * * *
- ARGOMENTO
- Dimostra il libro settimo il parlare
- Che fe’ Teseo a’ principi adunati:
- E dopo quello assai aperto appare
- Quali essi fosser da ciascun de’ lati
- De’ due Tebani; e poscia il loro orare:
- Quindi le cose degl’Iddii pregati
- Disegna, appresso lor facendo andare
- U’ di milizia furono adornati.
- Ed al teatro quindi li conduce
- Per vie diverse, dove gli Ateniesi
- Già eran tutti quanti, e la lor luce
- Emilia miran, ma nel viso accesi:
- I suoi conforta e prega ciascun duce
- Ad aspettare il segno poscia attesi.
- 1
- Mentre che la fortuna sì menava
- In Atene le cose in allegrezza,
- Il giorno dato alli duo s’appressava:
- Perchè con lieta e gran piacevolezza
- Teseo li duci, li quali onorava,
- Ragunò insieme tutti, e la grandezza
- Del teatro mostrò loro, ed appresso
- Tutti s’affissono a seder con esso.
- 2
- Stette Teseo con li venuti regi
- Baldanzoso nel teatro eminente,
- Col quale insieme gli baroni egregi
- Furon, alquanto più umilemente;
- E tutti gli altri popoli e collegi
- Nel pian sedetton intentivamente,
- Sicchè Teseo potessero udire,
- Che ’n piè levato così prese a dire.
- 3
- Signori, i’ credo che ciascun sentito
- Abbia perchè tra gli Teban quistione
- Tale sia nata, ed ancora il partito
- Che io die’ loro, e non senza ragione:
- Però di ciò ch’han contro a me fallilo,
- Nè della mia pietà qui far menzione
- Più non intendo, nè di loro amore,
- Non conosciuto da chi non l’ha in core.
- 4
- Ma certo quando loro in pace posi,
- E nelle man di cento e cento diedi
- L’amor di quella ond’eran sì bramosi,
- Non mi credetti nè lance nè spiedi
- Nè troppo ferri chiari o rugginosi,
- Nè gran cavai nè grandi uomini a piedi
- Dovesson terminar cotanto fuoco,
- Ma esser ciò com’un palestral giuoco.
- 5
- E non credetti che tutta Lernea
- Sotto gli regi achivi si movesse
- Per sì poca di cosa: anzi credea
- Che ciaschedun de’ suoi vassalli avesse
- A terminar così fatta mislea,
- E che con brevi forze gli piacesse
- L’un contro l’altro questo amore avere,
- Lo qual mostra sia lor tanto in piacere.
- 6
- Ma essi forse credendosi ch’io
- Non conoscessi loro esser potenti,
- Di mostrarlomi lor venne in disio;
- E voi han fatto qui con vostre genti
- Venire per pagar d’amore il fio,
- Per cui e’ son contro al dover ferventi:
- Ed io son ben contento che ci siate,
- E ch’essi abbiano lor forze mostrate.
- 7
- Ma tuttavia la cosa ad altro segno
- Vi prego che mandiate, com’ diraggio:
- Qui non ha zuffa per acquistar regno,
- O per pigliar perduto ereditaggio:
- Qui non è tra costor mortale sdegno,
- Qui non si cerca di commesso oltraggio
- Vendetta: ma amore è la cagione,
- Com’è già detto, di cotal quistione.
- 8
- Dunque amorosa dee questa battaglia
- Esser se ben discerno, e non odiosa:
- L’odiose son di chi mal far travaglia,
- O di chi n’ha ragion per altra cosa,
- O degli aspri Centauri di Tessaglia,
- I qua’ non sanno mai che si sia posa,
- E non tra noi; che benchè siam creati
- Chi qua chi là, pur d’un sangue siam nati.
- 9
- E come potre’ mai io sofferire
- Veder il sangue lariseo versare?
- E l’un pe’ colpi dell’altro morire,
- Come al seme di Cadmo piacque fare?
- Oggi non è quel tempo, nè quell’ire;
- Però con lor le lasciam dimorare,
- E noi viviam come insieme dovemo,
- E leggier per amor ne combattemo.
- 10
- Chi sarà quel che per sì poca cosa
- Volesse tanti popoli in periglio
- Porre di gente tanto valorosa
- Quanto qui veggio? E’ sarie mal consiglio,
- Ed agl’Iddii sarebbe molto odiosa
- Veder qui contro al padre uscire il figlio,
- E fedir l’un contra l’altro parente
- Co’ ferri in mano nimichevolmente.
- 11
- Poichè a tal fine qui siete adunati,
- Perchè vostra venuta in van non sia,
- Secondo che più son da voi amati
- Li due amanti, come ognun disia
- Così si tragga, e cento nominati
- Per parte siate, siccome la mia
- Sentenza die’ il dì ch’io gli trovai
- D’affanno d’ira e d’amor pieni assai.
- 12
- E acciocchè odio fra voi non nascesse,
- Le lance più nocive lascerete,
- Sol con le spade, o con mazze l’espresse
- Forze di voi contenti proverete;
- E le bipenni porti chi volesse,
- Ma altro no: di questo assai avete:
- E quegli, il bene a cui oprar vittoria
- Darà, s’avrà e la donna e la gloria.
- 13
- Questo sarà siccome un giuoco a Marte,
- Li sagrificii del qual celebriamo
- Il giorno dato, e vederassi l’arte
- Di menar l’armi, in che ci esercitiamo;
- E perciocchè io giudice e non parte
- Esser qui debbo, dove noi seggiamo
- Senz’arme a’ vostri fatti porrò mente:
- Però di ben portarvi abbiate a mente.
- 14
- De’ nobili e del popolo il romore
- Toccò le stelle, sì fu alto e forte;
- Gl’Iddii dicendo servan tal signore
- Che degli amici suoi fugge la morte;
- E con pietoso e grazïoso amore
- Dà ne’ contasti men gravosa sorte:
- Ed in quel loco senza dipartirsi
- Cento e cento s’elessero, e partirsi.
- 15
- Levossi prima adunque in piede Arcita,
- Ed in parte del teatro si trasse,
- Appresso Palemon d’altra partita
- A fronte disse Teseo se n’andasse,
- E ciaschedun della gente lì sita
- Con cui più gli piacesse s’accostasse;
- Aveva detto: e però immantinente
- Se n’andaro ad Arcita questa gente.
- 16
- Il primo fu il fiero Agamennone,
- Poi Menelao, e Polluce e Castore
- Con la lor gente, e poi Pigmaleone,
- Il re Licurgo, e di Pilo Nestore,
- Il gran Peleo col popol mirmidone,
- E il corintio Cromio di valore;
- Sicheo e Peritoo ancor vi giro,
- Ed Ippodamo ed altrui più il seguiro.
- 17
- A Palemone andò Ida pisano,
- E dopo lui Ulisse e Diomede,
- E Minos co’ fratelli a mano a mano,
- E ’l re Evandro, a cui non servar fede
- Li suo, che ’l fer del suo reame strano
- Gir per lo mondo, come ancor si crede:
- Andovvi di Tessaglia il grande Admeto,
- Ed Encelado e Niso a lui di dreto.
- 18
- Così divisi, dalli suoi elesse
- Arcita dieci, li qua’ caramente
- Pregò che ciascun nove ne prendesse
- Con seco della sua più cara gente,
- Acciocchè cento de’ migliori avesse;
- Ed essi il feciono assai prestamente,
- E scritti furo, e agli altri fu detto
- Che buon tempo si desser con diletto.
- 19
- E simil fece ancora Palemone,
- E di buon omin si trovar sì pari,
- Ched e’ non v’era alcuna variazione:
- E credesi che non ne fosser guari
- Rimasi al mondo di tal condizione,
- Così gentili e per prodezza pari,
- Qual era quivi l’uno e l’altro cento,
- Di che Teseo fu assai contento.
- 20
- Adunque posto sotto grave pena
- Lo stare in pace per cosa che avvegna
- A tutti gli altri, Teseo ne gli mena
- Seco per via onorevole e degna
- Per la cittade d’allegrezza piena,
- Dove col padre insiememente regna:
- E come prima, insieme assai contenti
- Li re si stavan tutti e le lor genti.
- 21
- E posto che l’un l’altro conoscea
- Col qual dovea le sue forze provare,
- Nulla divisïon vi si vedea
- Però in alcun allo adoperare:
- Anzi ciascuno, quanto più potea,
- A quelli, a qua’ doveva incontro andare,
- Con tutto cuor di piacer s’ingegnava:
- Così in ben con festa vi si stava.
- 22
- Già era il dì al quale il dì seguente
- Combatter si dovea, quando gl’Iddii
- Palemone ed Arcita umilemente
- Giro a pregare con affetti pii,
- Sopra gli altari stando fuoco ardente
- Incensi diero, e con sommi disii
- Dier preghi a tutti, che ciascun gli atasse
- Il dì seguente in ciò che bisognasse.
- 23
- Ma pure Arcita ne’ templi di Marte,
- Poscia ch’egli ebbe gli altri visitati,
- E dati fuochi e incensi in ogni parte,
- Si ritornò, e quegli illuminati
- Più ch’altri assai e con più solenn’arte,
- E di liquor sommissimi rorati,
- Con cuor divoto tale orazïone
- A Marte fece con gran divozione.
- 24
- O forte Iddio, che ne’ regni nevosi
- Bistonii servi le tue sacre case,
- Ne’ luoghi al sol nemici e tenebrosi,
- Delli tuoi ingegni piene, pe’ qua’ rase
- D’ardir le fronti furo agli orgogliosi
- Fi’ della Terra, allorchè ognun rimase
- Di morte freddo in sul suol, per le prove
- Fatte da te e dal tuo padre Giove;
- 25
- Se per alto valor la mia etade,
- E le mie forze meritan che io
- De’ tuoi sia detto, per quella pietade
- Ch’ebbe Nettuno, allor che con disio
- Di Citerea usavi la biltade,
- Rinchiuso da Vulcano, ad ogni Iddio
- Fatto palese; umilmente ti prego
- Che alli miei preghi tu non facci niego,
- 26
- Io son, come tu vedi, giovinetto,
- E per nuova bellezza tanto Amore
- Sotto sua signoria mi tien distretto,
- Con le mie forze e tutto mio valore
- Conviene oprarmi, se io vo’ diletto
- Sentir di ciò che più disia il core;
- E senza te io son poco possente,
- Anzi piuttosto non posso niente.
- 27
- Dunque m’aiuta per lo santo fuoco
- Che t’arse già, siccome me arde ora,
- E nel presente mio palestral giuoco
- Colle tue forze nel pugnar mi onora:
- Certo sì fatto don non mi fia poco,
- Ma sommo bene: adunque qui lavora:
- S’io son di questa pugna vincitore,
- Io il diletto, e tu n’abbi l’onore.
- 28
- I templi tuoi eterni s’orneranno
- Dell’armi del mio vinto compagnone,
- Ed ancora le mie vi penderanno,
- E fievi disegnata la cagione:
- Eterni fuochi sempre vi arderanno,
- E la barba e i miei crin, che offensïone
- Di ferro non sentiron’, ti prometto,
- Se mi fai vincer, siccom’io t’ho detto.
- 29
- Era allor forse Marte in esercizio
- Di chiara far la parte rugginosa
- Del grande suo ed orribile ospizio,
- Quando d’Arcita l’orazion pietosa
- Pervenne li, per fare il dato ufizio
- Tuttavia nell’aspetto lagrimosa:
- La qual divenne di spavento muta
- Com’ di Marte la casa ebbe veduta.
- 30
- Ne’ campi tracii sotto i cieli iberni
- Da tempesta continova agitati,
- Dove schiere di nembi sempiterni
- Da’ venti or qua ed or là trasmutati
- In varii luoghi ne’ guazzosi verni,
- E d’acqua globi per freddo aggroppati
- Gittati sono, e neve tuttavia,
- Che ’n ghiaccio a mano a man s’indura e cria:
- 31
- E ’n una selva steril di robusti
- Cerri, dov’eran folti ed alti molto,
- Nodosi ed aspri, rigidi e vetusti,
- Che d’ombra eterna ricuoprono il volto
- Del tristo suolo, e in fra gli antichi fusti,
- Da ben mille furor sempre ravvolto,
- Vi si sentia grandissimo romore,
- Nè v’era bestia ancora nè pastore.
- 32
- In questa vide la ca’ dello Iddio
- Armipotente, e questa è edificata
- Tutta d’acciaio splendido e pulio,
- Dal quale era dal sol riverberata
- La luce, che abborriva il luogo rio:
- Tutta di ferro era la stretta entrata,
- E le porte eran d’eterno diamante,
- Ferrate d’ogui parte tutte quante.
- 33
- E le colonne di ferro costei
- Vide, che l’edificio sostenieno:
- Lì gl’Impeti dementi parve a lei
- Veder, che fier fuor della porta uscieno,
- Ed il cieco Peccare, ed ogni Omei
- Similemente quivi si vedieno;
- Videvi l’Ire rosse come fuoco,
- E la Paura pallida in quel loco.
- 34
- E con gli occulti ferri i Tradimenti
- Vide, e le Insidie con giusta apparenza:
- Lì Discordia sedeva, e sanguinenti
- Ferri avie in mano, e d’ogni differenza;
- E tutti i luoghi pareano strepenti
- D’aspre minacce e di crudele intenza:
- E ’n mezzo il loco la Virtù tristissima
- Sedíe di degne lode poverissima.
- 35
- Videvi ancora l’allegro Furore,
- E oltre a ciò con volto sanguinoso
- La Morte armata vide e lo Stupore;
- Ed ogni altare quivi era copioso
- Di sangue sol nelle battaglie fuore
- De’ corpi uman cacciato, e luminoso
- Era ciascun di fuoco tolto a terre
- Arse e disfatte per le triste guerre.
- 36
- Ed era il tempio tutto istoriato
- Da sottil mano e di sopra e d’intorno:
- E ciò che pria vi vide disegnato
- Eran le prede di notte e di giorno
- Tolte alle terre, e qualunque isforzato
- Fu, era quivi in abito musorno:
- Vedevansi le genti incatenate,
- Porti di ferro e fortezze spezzate.
- 37
- Videvi ancor le navi bellatrici,
- I vôti carri, e li volti guastati,
- E li miseri pianti ed infelici,
- Ed ogni forza cogli aspetti elati,
- Ogni fedita ancor si vedea lici:
- E sangui colle terre mescolati:
- E ’n ogni loco nell’aspetto fiero
- Si vedea Marte torbido ed altiero.
- 38
- E tal ricetto edificato avea
- Mulcibero sottil colla sua arte,
- Prima che ’l Sol gli avesse Citerea
- Mostrata co’ suoi raggi esser con Marte:
- Il quale di lontan ciò che volea
- Colei sentì, e seppe di che parte
- Ella veniva a lui sollecitare:
- Perch’ella prese e intese il suo affare.
- 39
- Udita quella adunque di lontano,
- Da Arcita mandata umilemente,
- Senza più star sen gì a mano a mano
- Là dov’era chiamato occultamente:
- Nè prima i templi il loro Iddio sovrano
- Sentiron, che tremaron di presente:
- E rugghiar tutte ad un’ora le porte,
- Di che Arcita in sè temette forte.
- 40
- Li fuochi dieron lume vie più chiaro,
- E diè la terra mirabile odore,
- E’ fumiferi incensi si tiraro
- Alla imagine, lì posta ad onore
- Di Marte, le cui armi risonaro
- Tutte in sè mosse con dolce romore:
- I segni dierono al mirante Arcita
- Che la sua orazion era esaudita.
- 41
- Dunque contento il giovinetto stette
- Con isperanza di vittoria avere:
- Nè quella notte di quel tempio uscette,
- Anzi la spese tututta in preghiere,
- E più segnali in quella ricevette
- Che gli affermaron più le cose vere:
- Ma poscia ch’egli apparve il nuovo giorno,
- Fecesi armare il giovinetto adorno.
- 42
- Palemon similmente fatto avea
- Claschedun tempio ad Atene fumare,
- Nè in cielo avea lasciato o Dio o Dea,
- Che per sè non facesse egli pregare:
- Ma sopra tutti gli altri Citerea
- Gli piacque più quel giorno d’onorare
- Con incensi e con vittime pietose,
- E nel suo tempio ad adorar si pose.
- 43
- E fe’ divoto cotale orazione:
- O bella Dea del buon Vulcano sposa,
- Per cui s’allegra il monte Citerone,
- Deh, i’ ti prego che mi sii pietosa
- Per quello amor che portasti ad Adone,
- E la mia voglia per te amorosa
- Contenta, e fa’ la mia destra possente
- Doman, per modo, ch’io ne sia godente.
- 44
- Nulla persona sa quanto io amo;
- Nessun conosce il mio sommo disio;
- Nullo poria sentir quant’io la bramo,
- La bella Emilia, donna del cor mio,
- Cui giorno e notte sempre ad ogni or’ chiamo;
- Se non se tu e ’l tuo figliuolo Iddio,
- Gli qua’ sentite dentro quanto amore
- Per lei martira me suo servidore.
- 45
- Io non poria con parole l’effetto
- Mostrar ch’i’ ho, nè dir quant’io lo sento:
- Tu sola lo conosci, ed al difetto
- Puoi Dea dar lontan contentamento,
- E ’l mio penar ritornare in diletto,
- Se lu fai ciò di che io qui attento
- Tanto ti prego, cioè che io sia
- In possession d’Emilia donna mia.
- 46
- Io non ti chieggio in arme aver vittoria,
- Per li templi di Marte d’arme ornare:
- Io non ti chieggio di portarne gloria
- Di que’ doman, contra de’ qua’ provare
- Mi converrà’, nè cerco che memoria
- Lontana duri del mio operare;
- Io cerco solo Emilia, la qual puoi
- Donarmi, Dea, se donar la mi vuoi.
- 47
- Il modo trova tu, ch’io non mi curo
- O ch’io sia vinto, o ch’io sia vincitore:
- Me poco curo, s’io non son sicuro
- Di possedere il disio del mio core:
- Però, o Dea, quel che t’è men duro
- Piglia, e sì fa’ che io ne sia signore:
- Fallo, ch’i’ te ne prego, o Citerea,
- E ciò non mi negare, o somma Iddea.
- 48
- Li templi tuoi saran sempre onorati
- Da me, siccome degni fermamente,
- E di mortine spesso incoronati:
- Ed ogni tuo altar farò lucente
- Di fuoco, e sacrificii fien donati
- Quali a tal Dea si denno certamente:
- E sempre il nome tuo per eccellenza
- Più ch’altro Iddio avrò in reverenza.
- 49
- E se t’è grave ciò ch’io ti dimando
- Far, fa’ che tu nel teatro la spada
- Primaia prendi, ed al mio cor forando,
- Costrigni che lo spino fuor ne vada
- Con ogni vita il campo insanguinando;
- Chè cotal morte troppo più m’aggrada,
- Che non farebbe senza lei la vita,
- Vedendola non mia, ma sì d’Arcita.
- 50
- Come d’Arcita a Marte l’orazione,
- Certo così a Venere pietosa
- Se n’andò sopra il monte Citerone
- Quella di Palemon, dove si posa
- Di Citerea il tempio e la magione
- Infra altissimi pini alquanto ombrosa,
- Alla quale appressandosi, vaghezza
- La prima fu che vide in quell’altezza.
- 51
- Colla quale oltre andando vide quello
- Ad ogni vista soave ed ameno,
- A guisa d’un giardin fronzuto e bello,
- E di piante verdissime ripieno,
- D’erbette fresche e d’ogni fior novello;
- E fonti vide e chiare vi surgieno,
- E in fra l’altre piante onde abbondava,
- Mortine più che altro le sembrava.
- 52
- Quivi sentì pe’ rami dolcemente
- Quasi d’ogni maniera ucce’ cantare,
- E sopra quelli ancor similemente
- Li vide con diletto i nidi fare:
- Poscia fra l’ombre fresche prestamente
- Vide conigli iti qlla e in là andare,
- E timidetti cervi e cavriuoli,
- Ed altri molti varii bestiuoli.
- 53
- Similemente quivi ogni stromento
- Le parve udire e dilettoso canto;
- Onde passando con passo non lento,
- E rimirando, in sè sospesa alquanto
- Dell’alto loco e del bell’ornamento,
- Ripieno il vide quasi in ogni canto
- Di spiriti, che qua e là volando
- Gieno a lor posta; a’ quali assai guardando,
- 54
- Tra gli albuscelli ad una fonte allato
- Vide Cupido fabbricar saette,
- Avendo egli a’ suoi piè l’arco posato,
- Le qua’ sua figlia Voluttade elette
- Nell’onde temperava, ed assettato
- Con lor s’era Ozio, il quale ella vedette,
- Che con Memoria poi l’aste ferrava
- De’ ferri ch’ella prima temperava.
- 55
- Poi vide in quello passo Leggiadria
- Con Adornezza ed Affabililate,
- E la ismarrita in tutto Cortesia,
- E vide l’Arti ch’hanno potestate
- Di fare altrui a forza far follia,
- Nel loro aspetto molto sfigurate
- Dalla immagine nostra, e ’l van Diletto
- Con Gentilezza vide star soletto.
- 56
- Poi vide presso a sè passar Bellezza
- Senz’ornamento alcun sè riguardando,
- E vide gir con lei Piacevolezza,
- E l’una e l’altra seco commendando;
- Poi con lor vide starsi Giovinezza
- Destra ed adorna molto festeggiando:
- E d’altra parte vide il folle Ardire
- Lusinghe e Ruffianie insieme gire.
- 57
- E ’n mezzo il loco in su alte colonne
- Di rame vide un tempio, al qual d’intorno
- Danzando giovinetti vide e donne,
- Qual da sè belle, e qual d’abito adorno,
- Discinte e scalze, in capelli e gonne,
- Che in questo solo dispendeano il giorno:
- Poi sopra il tempio vide volitare
- Passere molte e colombe rucchiare.
- 58
- Ed all’entrata del tempio vicina
- Vide che si sedeva pianamente
- Madonna Pace, e in mano una cortina
- ’Nanzi alla porta tenea lievemente:
- Appresso a lei in vista assai tapina
- Pazïenza sedea discretamente,
- Pallida nell’aspetto, e d’ogni parte
- D’intorno a lei vide Promesse ad arte.
- 59
- Poi dentro al tempio entrata, di sospiri
- Vi sentì un tumulto, che girava
- Focoso tutto di caldi disiri:
- Questo gli altari tutti alluminava
- Di nuove fiamme nate di martíri,
- De’ qua’ ciascun di lagrime grondava,
- Mosse da una donna cruda e ria,
- Che vide lì, chiamata Gelosia.
- 60
- E in quel vide Priapo tenere
- Più sommo loco, in abito tal quale
- Chiunque il volle la notte vedere
- Potè, quando ragghiando l’animale
- Più pigro destò Vesta, che in calere
- Non poco gli era, e in ver di lui cotale
- Andava; e simil per lo tempio grande
- Di fior diversi assai vide grillande.
- 61
- Quivi molti archi a’ cori di Diana
- Vide appiccati e rotti, in tra quali era
- Quel di Callisto fatta tramontana
- Orsa; le pome v’eran della fiera
- Atalanta che ’n correr fu sovrana:
- Ed ancor l’arme di quell’altra altiera
- Che partorì il bel Partenopeo
- Nipote al calidonio Oeneo.
- 62
- Videvi storie per tutto dipinte,
- In tra le qua’ con più alto lavoro
- Della sposa di Nin vidde distinte
- L’opere tutte, e vidde a piè del moro
- Piramo e Tisbe, e già le gelse tinte:
- E ’l grand’Ercole vidde tra costoro
- In grembo a Jole, e Bibli dolorosa
- Andar pregando Cauno pietosa.
- 63
- Ma non vedendo Vener, le fu detto,
- Nè conobbe da cui: in più segreta
- Parte del tempio si sta a diletto:
- Se tu la vuoi, per quella porta, cheta
- Te n’entra: ond’essa, senza altro rispetto,
- In abito qual’era mansueta,
- Là si appressò per entrar dentro ad essa,
- Per l’ambasciata fare a lei commessa.
- 64
- Ma essa lì nel primo suo venire
- Trovò Ricchezza la porta guardare;
- La qual le parve assai da riverire:
- E lasciata da lei quiv’entro entrare,
- Il luogo vide oscur nel primo gire;
- Ma poca luce poscia per lo stare
- Vi prese, e vide lei nuda giacere
- Sopra un gran letto assai bello a vedere.
- 65
- Ella avea d’oro i crini, e rilegati
- Intorno al capo senza treccia alcuna:
- Il suo viso era tal ch’e’ più lodati
- Hanno a rispetto bellezza nessuna:
- Le braccia, e ’l petto e’ pomi rilevati
- Si vedien tutti, e l’altra parte d’una
- Veste tanto sottil si ricopria,
- Che quasi nulla appena nascondia.
- 66
- Oliva il luogo ben di mille odori:
- Dall’un de’ lati Bacco si sedea,
- Dall’altro Ceres con gli suoi savori:
- Ed essa seco per la man tenea
- Lasciva il pomo il quale alle sorori
- Prelata vinse nella valle Idea:
- E tutto ciò veduto porse il priego,
- Il qual fu conceduto senza niego.
- 67
- Di Palemon le voci adunque udite,
- Subito gì la Dea ove chiamata
- Era: perchè allora fur sentite
- Diverse cose in la casa sagrata,
- E sì ne nacque in ciel novella lite
- In tra Venere e Marte; ma trovata
- Da lor fu via con maestrevol arte
- Di far contenti i preghi d’ogni parte.
- 68
- Stettesi adunque, mentre il mondo chiuso
- Tenne Apollo di luce, Palemone
- Dentro dal tempio sagrato rinchiuso
- Continovo in divota orazione:
- Siccome forse in quel tempo era in uso
- A chi doveva fare mutazione
- D’abito scuderesco in cavaliere,
- Com’e’ doveva, che era scudiere.
- 69
- E certo li predetti innamorati
- Per lor piacevolezza in generale
- Da tutti gli Ateniesi erano amati:
- Perchè gl’Iddii da ciascun con eguale
- Animo furo tututti pregati
- Che gli guardasson d’angoscia e di male,
- E ciascheduno in modo contentasse,
- Che di lor nullo mai si biasimasse.
- 70
- Fra gli altri che agl’Iddii sagrificaro
- Fu l’una Emilia più divotamente;
- La qual sentendo quanto ciascun caro
- Era degli due amanti alla sua gente,
- Non sofferse il suo cuor d’essere avaro
- Di porger preghi a Diana possente
- In servigio di que’ che amavan lei,
- Più che gli uomini in terra o in ciel gli Dei.
- 71
- E le serventi sue tutte chiamate
- Con corni pien d’offerte, ragunare
- Le fe’ davanti a sè, e disse: andate,
- Fate di Diana li templi mondare,
- E le veste e’ licor m’apparecchiate,
- E l’altre cose da sagrificare:
- Elle n’andaro, ed essa in compagnia
- Di molte donne onesta le seguia.
- 72
- Fu mondo il tempio e di be’ drappi ornato,
- Al quale ella pervenne; e quivi presto
- Tutto trovò ch’ella avea comandato.
- E poi, in loco a poche manifesto,
- Di fontano liquore il dilicato
- Corpo lavossi; e poi fornito questo,
- Di bianchissima porpora vestissi,
- E’ biondi crini dalli vel scoprissi.
- 73
- Quinci scoperse la sagra figura
- Di quella Dea, cui ella più amava,
- E colla bianca man la fece pura,
- Se forse alcuna nebula vi stava:
- Poi, senza avere in sè nulla paura,
- Sopra l’altar soave la posava:
- E quindi di mirifici liquori
- Rorando il tempio riempiè d’odori.
- 74
- E coronò di quercia cereale,
- Fatta venire assai pietosamente,
- Tututto il tempio, e ’l suo capo altrettale:
- Poi fatto il grasso pin minutamente
- Spezzare a’ servi, con misura eguale,
- Sopra l’altare, molto reverente,
- Due roghi fece di simil grossezza,
- Nè ebbe l’un più che l’altro d’altezza.
- 75
- Quindi con pia man v’accese il foco,
- E quel di vino e di latte innaffiato,
- Per tre fiate temperò un poco:
- E poi l’incenso prese, e seminato
- Sopra di quello riempiè il loco
- Di fummo assai soave in ogni lato:
- E poi si fe’ più tortore recare,
- E ’l sangue lor sopra ’l fuoco spruzzare.
- 76
- E molte bianche agnellette bidenti
- Elatte al modo antico ed isvenate
- Si fe’ recare avanti alle sue genti,
- E tratti loro i cuori e le curate,
- Ancor gli caldi spiriti battenti,
- Sopra gli accesi fuochi l’ha posate:
- E cominciò pietosa nell’aspetto
- Così a dir come appresso fia detto:
- 77
- O Dea, a cui la terra e ’l cielo e ’l mare,
- E’ regni di Pluton son manifesti,
- Qualor ti piace di que’ visitare,
- Prendi gli miei olocausti modesti
- In quella forma che io gli so fare:
- Ben so se’ degna di maggior che questi;
- Ma qui al più innanzi non sapere,
- Supplisca, o Dea, lo mio buon volere.
- 78
- E questo detto, tacque: tanto ch’ella
- Vide ogni parte degli roghi accesa:
- Poi dinanzi a Diana la donzella
- S’inginocchiò, e da pietade offesa,
- Di lagrime bagnò la faccia bella,
- La quale in ver la Dea tenea distesa:
- Quivi chinata stette assai pensosa,
- Poi la dirizzò tutta lagrimosa.
- 79
- E cominciò con rotta voce a dire;
- O casta Dea, de’ boschi lustratrice,
- La qual ti fai a vergini seguire,
- E se’ dell’ire tue vengiatrice,
- E siccome Atteon potè sentire
- Allora ch’el più giovan che felice,
- Della tua ira, ma non del tuo nervo
- Percosso, lasso! si mutò in cervo.
- 80
- Odi le voci mie, se ne son degna,
- E quelle per la tua gran deitate
- Triforme prego che tu le sostegna:
- E s’egli non ti fia difficultate
- A lor donare perfezion, t’ingegna;
- Se mai ti punse il casto cor pietate
- Per vergine nessuna che pregasse,
- Ovver che grazia a te addimandasse.
- 81
- Io sono ancora delle tue ischiere
- Vergine, assai più atta alla faretra,
- Ed a’ boschi cercare, che a piacere
- Per amore a marito: e se si arretra
- La tua memoria, bene ancor sapere
- Dei quanto fosse più duro che pietra
- Nostro voler contra Venere sciolta,
- Cui più che ragion segue voglia stolta.
- 82
- Perchè se ’l mio migliore è ch’e’ tuoi cori
- Seguiti ancora vergin giovinetta,
- Attuta gli aspri e focosi vapori
- Che accendono il disio che sì m’affetta
- De’ giovanetti di me amadori,
- Di cui gioia d’amor ciascuno aspetta:
- E di lor guerra tra lor metti pace;
- Che certo molto, e tu ’l sai, mi dispiace.
- 83
- E se i fati pur m’hanno riservata
- A giunonica legge sottostare,
- Tu mi dei certo aver per iscusata,
- Nè dei però gli miei preghi schifare;
- Tu vedi che ad altrui son soggiogata,
- E quel ch’ei piace a me convien di fare;
- Dunque m’aita, e li miei preghi ascolta,
- S’i’ ne son degna, Dea, a questa volta.
- 84
- Coloro, i qua’ per me ne’ ferri aguti
- Doman, non savi, s’avvilupperanno,
- Caramente ti prego che gli aiuti:
- E’ pianti miei, li qua’ d’ogni lor danno
- Per merito d’amor sarien renduti,
- Ti prego cessi, e facci il loro affanno
- Volgere in dolce pace, o in altra cosa
- Ch’alla lor fama sia più grazïosa.
- 85
- E se gl’Iddii fors’hanno già disposto
- Con eterna parola che e’ sia
- Da lor seguito ciò ch’hanno proposto,
- Fa’ che e’ venga nelle braccia mia
- Colui a cui più col voler m’accosto,
- E che con più fermezza mi disia:
- Che io nol so in me stessa nomare,
- Tanto ciascun piacevole mi pare.
- 86
- E basti all’altro la vergogna sola,
- Senz’altro danno, d’avermi perduta:
- E, se lecita mi è questa parola,
- Fa’ che da me, o Dea, sia conosciuta
- In queste fiamme, il cui incenso vola
- Alla tua deità, da cui tenuta
- Sarò, che per Arcita ci si pone
- L’una, e l’altra poi per Palemone.
- 87
- Almen s’adatterà l’anima trista
- A men sospir, per la parte perdente,
- E più leggiera sosterrà la vista,
- Quando ’l vedrò del teatro fuggente:
- E la mia volontà, che ora è mista,
- Dell’una parte si farà parente;
- L’altra con più forte animo fuggire
- Vedrà, sapendo ciò che de’ avvenire.
- 88
- I fuochi ardevan mentre ella pregava,
- Dando soave odor nel tempio adorno,
- Ne’ quali Emilia tuttora mirava,
- Quasi per quelli, senza alcun soggiorno,
- Veder dovesse ciò che disiava:
- Quando di Diana il cor l’apparve intorno
- Infaretrato, e disse: giovinetta,
- Tosto vedrai ciò che per te si aspetta.
- 89
- È già nel cielo tra gl’iddii fermato
- Che tu sia sposa dell’un di costoro,
- E Diana ne è lieta: ma celato
- Poco ti fia qual debba esser di loro,
- Se ben da te nel tempio fia mirato
- Ciò che avverrà, non fuor di questo coro;
- Però attenta in ver l’altar rimira,
- E vedrai ciò che ’l tuo core disira.
- 90
- E questo detto, sonâr le saette
- Della faretra di Dïana bella,
- E l’arco per sè mossesi, nè stette
- Più nulla lì di quelle, ma isnella
- Ciascuna a’ boschi ginne onde venette:
- Fremiro i cani, ed il corno di quella
- Si sentì mormorar; laonde a’ segni
- Emilia prese che i preghi eran degni.
- 91
- La giovinetta le lagrime spinse
- Degli occhi belli, e dimorando attenta
- Più verso il fuoco le luci sospinse,
- Nè stette guari che l’una fu spenta,
- Poi per sè si raccese, e l’altra tinse,
- E tal divenne qual talor diventa
- Quella del zolfo, e le punte menando
- In qua e ’n là gìa forte mormorando.
- 92
- E parean sangue gli accesi tizzoni
- Daccapo spenti, tututti gemendo
- Lagnine ta’, che spegneano i carboni:
- Le quali cose Emilïa vedendo,
- Gli atti non prese nè le condizioni
- Debitamente del fuoco, che ardendo
- Si spense prima, e poscia si raccese,
- Ma sol di ciò quel che le piacque intese.
- 93
- E così nella camera dubbiosa
- Si ritornò, com’ella n’era uscita,
- Benchè dicesse aver veduta cosa
- Che le mostrava sua futura vita:
- Ella passò quella notte angosciosa,
- Infin che ogni stella fu fuggita:
- Poi si levò, e rifecesi bella
- Più che non fu mai mattutina stella.
- 94
- Il ciel tutte le stelle ancor mostrava,
- Benchè Febea già palida fosse;
- E l’orizzonte tutto biancheggiava
- Nell’orïente, ed eransi già mosse
- L’Ore, e col carro, in cui la luce stava,
- Giungevano i cavai, vedendo rosse
- Le membra del celeste bue levato,
- Dall’amica Titonia accompagnato.
- 95
- Perchè ne’ templi armati i due amanti
- Li lor compagni quivi convocaro,
- Ed i fatti futuri tutti quanti,
- Dico del giorno, fra loro ordinaro,
- E qua’ fosser didietro e qua’ davanti
- Alla battaglia ancora stanzïaro:
- Poscia con loro armati se n’usciro
- De’ templi, e ’nverso Teseo se ne giro.
- 96
- Il gran Teseo dagli alti sonni tolto,
- Ancor le ricche camere tenea
- Del suo palagio, in la cui corte molto
- Di popol cittadin vi si vedea,
- Il qual vi s’era per veder raccolto,
- Che modo per li due vi si tenea
- Di ciò che e’ doveano il giorno fare,
- Per Emilia la bella conquistare.
- 97
- Quivi destrier grandissimi vediensi
- Con selle ricche d’ariento e d’oro,
- E spumanti li lor freni rodiensi,
- Tenuti da chi guardia avie di loro;
- Ringhiar ed anitrir spesso sentiensi,
- Qual per amor, qual per odio tra loro;
- E l’uno in qua e l’altro in là n’andava,
- Di tali a piè, ed alcun cavalcava.
- 98
- Vedevansi venire i gran baroni
- Di robe strane e varie addobbati;
- Ed in tra tutti varie eran quistioni,
- Qui tre, là quattro, e lì sei adunati,
- Tra lor mostrando diverse ragioni
- Di qual credevan degl’innamorati
- Che rimanesse il dì vittorïoso,
- Facendo un mormorio tumultuoso.
- 99
- L’aula grande d’alti cavalieri
- Tutta era piena, e di diversa gente:
- Quivi aveva giullari e ministrieri
- Di diversi atti copiosamente,
- Girfalchi, astori, falconi, e sparvieri,
- Bracchi, levrieri, e mastin veramente,
- Su per le stanghe ed in terra a giacere,
- Assai a’ cuor gentil belli a vedere.
- 100
- Tra queste genti magnifico molto
- Uscì Teseo con real vestimento,
- Ov’è con somma reverenza accolto:
- Ed e’ con alta vista e portamento
- Tutti gli vide assai con lieto volto:
- E domandò, se ancora i duecento
- Eran venuti, a cui e’ fu risposto:
- No, signor mio, ma e’ verranno tosto.
- 101
- In questa venner, non per un cammino,
- Quasi in un punto li duo gran Tebani:
- E qual qualora a Libero divino
- Fa sacrificio ne’ luoghi montani
- La dircea plebe, s’ode infino al chino
- Di qua’ si sian valloni più sottani
- Di voci, e d’altri suoni e di romore;
- Tal s’udì quivi allora, e non minore.
- 102
- Così ciascun co’ suoi tratti da parte
- Aspettavan Teseo, che prestamente
- Venuto, in verso del tempio di Marte
- Con lor n’andò, e là pietosamente
- Diè sacrificio: e con senno e con arte
- Poscia levato, senza star nïente,
- Sopra il gran soglio dalla porta venne,
- E lì fermato i suoi passi ritenne.
- 103
- E senza star, non con piccolo onore
- Cinse le spade alli due scudieri:
- E ad Arcita Polluce e Castore
- Calzar d’oro gli sproni e volentieri:
- E Diomede e Ulisse di cuore
- Calzargli a Palemone: e cavalieri
- Amendue furono allora novelli
- Gl’innamorati teban damigelli.
- 104
- E ciascheduno sotto una bandiera,
- D’un segnal qual gli piacque, con sue genti
- Si ragunò, e con faccia sincera
- Gir per la terra visti e apparenti:
- E già del cielo al terzo salit’era
- Febo co’ suoi cavai fieri e correnti,
- Quando per loro al teatro fu giunto
- Quasi che ad uno medesimo punto.
- 105
- E benchè non avesson ancor vista
- Di sè alcuna, in quel loco pensando
- Perchè venieno, e ciò che vi s’acquista,
- E l’un dell’altro le trombe sonando
- Udendo, e il grido della gente mista
- Che or l’uno or l’altro gía favoreggiando,
- Quasi dubbiando, dentro al cor sentiro
- Subitamente men caldo disiro.
- 106
- E ciaschedun per sè divenne tale,
- Qual ne’ getuli boschi il cacciatore
- A’ rotti balzi accostatosi, il quale
- Il leon mosso per lungo romore
- Aspetta, e ferma in sè l’animo eguale;
- E nella faccia gela per tremore,
- Premendo i teli per forza tremanti,
- E li suoi passi treman tutti quanti:
- 107
- Nè sa chi venga, nè qual’e’ si sia,
- Ma di fremente orribili segni
- Riceve nella mente, che disia
- Di non avere a ciò tesi gl’ingegni:
- E ’l mormorar che sente tuttavia
- Con cieca cura in sè par che disegni;
- Per quel talora sua pena alleggiando,
- Ed ancora tal volta più gravando.
- 108
- Poco era fuori della terra sito
- Il teatro ritondo, che girava
- Un miglio, che non era meno un dito:
- Del quale un mur marmoreo si levava
- Inverso il ciel sì alto e con pulito
- Lavor, che quasi l’occhio si stancava
- A rimirarlo, ed aveva due entrate,
- Con forti porte assai ben lavorate.
- 109
- Delle quali una in verso il sol nascente
- Sopra colonne grandi era voltata,
- L’altra mirava in verso l’occidente,
- Come la prima appunto lavorata:
- Per questa entrava là entro ogni gente,
- D’altronde nò, chè non vi aveva entrata:
- Nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta,
- Di spazio grande ad ogni somma festa.
- 110
- Nel qual scalee in cerchio si movieno,
- E credo in più di cinquecento giri,
- In sino all’alto del muro salieno
- Con gradi larghi per petrina miri:
- Sopra li quali le genti sedieno
- A rimirare gli arenarii diri,
- O altri che facessono alcun gioco,
- Senza impedir l’un l’altro in nessun loco.
- 111
- Al qual davanti era venuto Egeo
- Con pompa grande, per voler vedere;
- E similmente v’era già Teseo,
- Che per fuggire iscandal me’ potere
- Del teatro le porli guardar feo
- Da molti, che là entro forestiere
- O cittadin con arme non entrasse;
- Senz’esse chi volesse sì v’andasse.
- 112
- A questo tutti i popoli lernei,
- Poscia che i lor maggiori ebber lasciati,
- Sen venner, tanti che dir nol potrei,
- Benchè v’entrasson tutti disarmati;
- E come avien li lor con li dircei
- Veduti, così s’eran separati,
- Tenendo l’un la parte del ponente,
- E l’altra incontro tenea l’oriente.
- 113
- Vennervi i cittadini, e tutte quante
- Le belle donne realmente ornate,
- E qual per l’uno, e qual per l’altro amante
- Preghi porgeva: e così adunate,
- Dopo tututte con lieto sembiante
- Ippolita vi venne, in veritate
- Più ch’altra bella, ed Emilia con lei,
- A rimirar non men vaga di lei.
- 114
- Venuti adunque li due compagnoni
- Armati di tutte armi, in esso entraro;
- E ciascheduno co’ suoi decurioni
- L’un dopo l’altro assai ben si mostraro,
- Seguendo li già detti lor pennoni,
- Come ne’ templi è detto che ordinaro;
- E dalla parte d’onde Euro soffia
- Arcita entrò con tutta sua paroffia.
- 115
- Tale a veder qual tra’ giovenchi giugne
- Non armati di corna il fier lione
- Libico, ed affamato i denti mugne
- Colla sua lingua, ed aguzza l’unghione,
- E col capo alto quale innanzi pugne
- Gli occhi girando fa dilibrazione,
- E sì negli atti si mostra rabbioso,
- Ch’ogni giovenco fa di sè dottoso.
- 116
- Egli era innanzi in su un gran destriere
- A tutti i suoi tutto quanto soletto,
- E ben mostrava ardito cavaliere,
- Sì feroce veniva nell’aspetto,
- Quando attraverso, e innanzi, e arriere
- Gía senza posa il buon cavallo eletto:
- Ed egli aveva lo scudo imbracciato,
- Ed il forte elmo in testa ben legato.
- 117
- Appresso gli era col pennone in mano
- Il forte Dria montato di vantaggio,
- Di cuore ardito, e di poter sovrano,
- Il qual seguiva il nobil baronaggio:
- E ’l primo era Agamennone spartano,
- E ’l secondo Peleo nobile e saggio,
- Licurgo il terzo, e il quarto era Castore,
- Menelao il quinto, e ’l sesto era Nestore.
- 118
- Poi Peritoo e Cromis virilmente,
- Ed Ippodamo, e poi Pigmaleone,
- Ciascun con nove suoi arditamente:
- Ed in quel preson quella porzïone
- Che giustamente lor fu contingente.
- Ma d’altra parte entrò poi Palemone
- Fiero ed ardito il cavallo spronando,
- Negli atti bene il suo valor mostrando.
- 119
- Qual per lo bosco il cinghiar rovinoso,
- Poi ch’ha di dietro a sè sentiti i cani,
- Le setole levate, ed ispumoso
- Or qua or là per viottoli strani
- Rugghiante va fuggendo furïoso,
- Rami rompendo, e schiantando silvani;
- Cotale entrò mirabilmente armato
- Palemon quivi da ciascun mirato.
- 120
- Il qual col segno in man Panto seguia,
- E dopo lui Minos fiero a guardare,
- E co’ suoi Niso di dietro gli gía,
- Poi Sarpedone ed Ida seguitare,
- E Radamanto, appresso il qual venia
- Evandro re potè ciascun mirare;
- Encelado ed Ammeto vi si vede,
- E dietro a tutti Ulisse e Diomede.
- 121
- E come già aveva fatto Arcita,
- Così e Palemon co’ suoi si trasse,
- E del teatro tenne una partita,
- Solo aspettando che ’l segno sonasse:
- Ma guardando Teseo la gente ardita,
- Comandò che giammai non si trombasse
- S’e’ nol dicesse; e lor fiso mirando
- Ciascun per sè, e tututti lodando.
- 122
- Mentre così mansueta la cosa
- Si stava, attesa dagli circumstanti,
- Arcita sotto l’elmo l’amorosa
- Vista levò, e quasi a sè davanti
- Vide colei che a tanto perigliosa
- Battaglia li metteva tutti quanti:
- E sotto l’elmo, sospirando molto,
- Così parlava con levato volto:
- 123
- O bella donna, più degna di Giove
- Che d’uom terren, se moglie ei non avesse,
- E d’ogni guiderdon di maggior prove
- Che qualunque Ercole al mondo facesse,
- O qual pur fu più forte Iddio là dove
- Bisogno fu la rabbia si abbattesse
- De’ perfidi Giganti, ch’agognaro
- Il ciel, d’onde venisti, o lume caro:
- 124
- Tu se’ bellezza ineffabile tale
- Che ’l mondo mai non vide simigliante:
- Nè credo che il ciel n’abbia altra eguale
- A te, che vinci Titan luminante
- Di lungo andar di splendor naturale,
- E con lui insieme l’altre luci sante:
- Se’ di virtù fontana e d’onestate,
- Di leggiadria esemplo e d’umiltate.
- 125
- Non isdegnare adunque il mio amore,
- Che a combatter per te fiero m’induce;
- Ma con preghiere lo sommo Fattore,
- Che creò te e ciascun’altra luce,
- Tenta per te e per lo mio onore,
- Il fin del qual più là non si conduce
- Che per premio poterti possedere,
- E me per tuo in eterno tenere.
- 126
- E’ non saprebbe, posto che ’l volesse,
- Tornar indietro, bella donna e cara,
- Cosa che la tua bocca gli chiedesse:
- Dunque non m’esser de’ tuoi preghi avara;
- Alli qua’ dimandar, se io potesse,
- Senza fallo verrei: ma tu, che rara
- Savia fra l’alte se’, conoser puoi
- Ciò ch’io domado tacendo, se vuoi.
- 127
- E ciò che è con preghi domandato,
- Donna, non è soverchio da gradire,
- Perocchè par venduto e non donato.
- Adunque poichè sai il mio disire,
- Che di te fui pria ch’altro innamorato,
- Senza aprirtel provvedi al mio languire,
- E fammi lieto di sì fatto dono,
- Che vaglio sol perciocchè di te sono.
- 128
- In cotai preghi tacito si stava
- Arcita, e gli occhi non partia da quella;
- E Palemon, ch’ancora la mirava,
- Quasi con questa medesma favella
- Tacito sotto l’elmo ragionava,
- Quasi dea fosse quella damigella:
- E così stando fuor di sè ciascuno,
- Del suon della battaglia sonò l’uno.
- 129
- E quale è que’ che dal sonno disciolto
- Si leva su di subito stordito,
- E ’n qua e ’n là va rivolgendo il volto
- Per conoscer che è quel ch’egli ha sentito:
- Così ciascun di loro in sè raccolto
- Del pensier fuori si fu risentito,
- E del combatter ritornò il furore,
- Per lo già conosciuto trombadore.
- 130
- Levossi allor Teseo, e con la mano
- Silenzio pose al molto mormorare
- Che nel teatro i popoli faciano;
- E senza troppo lungo dimorare,
- Del loco dove stava scese al piano,
- Largo alla genti facendosi fare:
- E qui alquanto stette fermo in piede
- Seco pensando, giudica e provvede.
- 131
- Esso gli fece avanti a sè venire
- Ciascun con parte degli suoi armati,
- E le lor condizion fe’ riferire
- Alle qua’ s’eran davanti obbligati:
- E poi vi aggiunse, cominciando a dire:
- Signor, que’ che di voi saran pigliati,
- L’arme per mio comando lascieranno
- E staranno a veder, sed e’ vorranno,
- 132
- E qual, fosse per caso fortunoso,
- O per altra cagion, di fuori uscisse
- Del teatro, d’allora non sia oso
- Che più nella battaglia rivenisse;
- Della qual chi sarà vittorïoso
- Avrà la donna, e l’altro ciò che disse
- La mia prima sentenza: adunque andate
- E valorosamente vi portate.
- 133
- Poi, questo detto, il secondo sonare
- Fece Teseo, senza tardar niente:
- Laonde Arcita cominciò a parlare
- In cotal guisa, vôlto alla sua gente:
- Signor, che siete in così dubbio affare
- Per me venuti, siccome è il presente,
- Poco conforto di parole a voi
- Credo ch’abbiate bisogno da noi.
- 134
- Ma tuttavia, per un’antica usanza
- Servar, me ascolterete, se vi piace:
- In voi ho ferma e sta la mia speranza,
- In voi la vita e la mia morte giace,
- In voi la pena e la mia dilettanza,
- In voi è la mia guerra e la mia pace:
- In voi sta e nel vostro potere
- Quanto di bene o di mal possa avere.
- 135
- Dunque, per Dio, la vostra virtute
- Oggi si mostri davanti a Teseo,
- Acciocch’io prenda di quella salute,
- Che è il fin che qui venir vi feo,
- Non risparmiate le vostre ferute,
- Nè la morte al bisogno per Penteo:
- Il qual da morte a vita recherete,
- E per vostro in eterno il comperrete.
- 136
- Poi potete veder ch’i’ ho ragione
- Di tal battaglia; onde avremo il favore
- Del forte Marte, e ’n la nostra quistione
- Il cor mi dice i’ sarò vincitore.
- Perocch’io volli già con Palemone
- Partecipare, amando, questo amore
- Con pace, ed e’ non volle; ond’io son certo
- Che dagl’iddii n’avrò debito merto.
- 137
- E se non m’ingannar le calde are
- Del nostro grande Iddio armipotente
- Jer quando a lui andai sacrificare,
- Senza dubbio nïun sarò vincente:
- Ma se ’l contrario ne dovesse fare,
- Per ira concreata giustamente,
- Sopra la testa mia prego che caggia,
- Anzi che alcun di voi nessun mal n’aggia
- 138
- Ma io non sento averla meritata,
- Sicchè pur ben mi promette speranza,
- Insieme con vittoria, che acquistata
- Mi fia, non già per mia poca possanza,
- Ma per la vostra grande ed onorata
- Fama, che in ciò mi dà ferma fidanza,
- E dell’affanno me per vostro avrete,
- Se ben pugnando per forza vincete.
- 139
- E bench’io non sia premio a tanto affanno,
- Nè per me vi movesse amor nè fede
- A sostenere il già offerto danno,
- Ricordivi di cui voi siete erede,
- E qual sia il nome che i vostri primi hanno,
- Se alla prisca fama nessun crede:
- E chi voi siate ancora vi pensate,
- E poi come vi piace così oprate.
- 140
- Hanno gl’Iddii in mezzo a questo prato
- Posto della virtù per premio onore:
- Se pur v’aggrada ch’io ne sia levato,
- Che ancor vi son legato da amore;
- E ben sapete e non fia impugnato
- Da gente vile e senza alcun valore;
- Ma ben da tali chenti noi qui siamo,
- O miglior forse, convien che l’abbiamo.
- 141
- Li qua’ se voi vincete, maggior gloria
- Ne fia che non saria di gente vile:
- Ella sarà di lor doppia vittoria
- Quella che d’essi avrem gente virile:
- E la crescente fama con memoria
- Eterna a’ successor con dritto stile
- Ci renderà, e saremne lodati
- Da tai ch’ancor non sono ingenerati.
- 142
- Dunque di voi vi ricordi per Dio:
- E se ne fu nïuno innamorato,
- Dimostri qui chente avesse il disio:
- Voi non avete con duplificato
- Popolo a ricercar di Marte fio:
- Anzi è, come sapete, apparecchiato
- Di numero con voi, e voi ’l sapete,
- E tutti a voi davanti gli vedete.
- 143
- Pensate ancora quanti riguardanti,
- E che persone sono in questo loco:
- Voi gli vedete tutti a voi davanti:
- Però come volete, o molto, o poco
- Aoperate omai, che cota’ vanti
- Avrà la fiamma chente fia il fuoco;
- Pregovi pur quant’io posso di bene,
- Perocchè male a voi non si convene.
- 144
- Egli era tale a veder nell’aspetto
- Quando parlava, qual nel cielo avverso
- O da mane o da sera nuvoletto
- Ha il sole, con parlare alto e diverso
- Dal suo usato; e ’n su le strive eretto,
- Con l’una man reggea ’l caval perverso,
- Ch’anitrendo era senza alcuna posa,
- L’altra alla spada nel fodero ascosa.
- 145
- Egli avea detto: e Palemone ancora
- Con alte boci li suoi invitava
- A grandi onori, ed a ben far gl’incora
- Quanto poteva, e molto gli pregava:
- Laonde l’una parte e l’altra allora
- Sì per lo dir de’ due incoraggiava,
- Che appena suon volevano aspettare,
- Tanto disio avean d’avanti andare.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO OTTAVO
- * * *
- ARGOMENTO
- L’ottavo libro il fiero incominciare
- Ne mostra dello stormo primamente;
- Ed il crudele ed aspro adoperare
- Che fe’ ciascun de’ principi possente.
- Di Teseo e de’ presi il riguardare
- Con laude di ciascuno combattente
- Seguita poi, e quindi il favellare
- D’Emilia seco tacito e dolente:
- Poi finge Marte, in Teseo trasformato,
- In Arcita raccendere il furore,
- Che per riposo in parte era tirato:
- Poi come Palemon con gran dolore
- Dal gran caval di Cromis fu pigliato:
- E quindi Arcita mostra vincitore.
- 1
- Taceva tutto il teatro aspettando
- Il terzo cenno del sonar tirreno,
- In qua, in là, in su, in giù mirando,
- E or dell’uno e or dell’altro dicieno
- Ciò che nel cor ne givano stimando,
- E qua’ con questi e qua’ con que’ tenieno
- E mentre stavano attenti costoro,
- Subito udissi il terzo suon fra loro.
- 2
- Ora la Musa, a cui più di me cale,
- Per me versi componga, o per me canti,
- E noto faccia il giuoco marzïale
- Fieramente operato da’ due amanti
- Con compagnia ciascun di schiera eguale
- Di cavalieri valorosi e atanti:
- Ch’io per me non varria a far sentire
- Il duro scontro e l’amaro seguire.
- 3
- Se il romore del gonfiato mare
- Da fieri venti forte stimolato,
- E quanto mai ne fanno nel pigliare
- Porto li marinar fosse adunato,
- E quello insieme che si dove’ fare
- Quando a Pompeo Cesare assembrato
- Si fu in Tassaglia, non fora d’assai,
- Quanto fu quel, che non s’udi più mai.
- 4
- Nè saria stato, se giunto vi fosse
- Quel che Lipari fe’ o Mongibello,
- O Stromboli o Vulcan quando più cosse:
- O quando Giove più cruccioso il fello
- Tifeo di spavento più percosse
- Tonando forte: omai quanto fu quello
- Pensil ciascun che ha fiore d’intelletto,
- Forse ch’el sentirà qual’io ho detto.
- 5
- D’armi, di corni, nacchere e trombette,
- Di boci messe da popoli strani,
- Il qual dicon che ’n Corinto s’udette,
- Tanto nel ciel si dilatar sovrani:
- Ciascuno uccello di volar ristette,
- E temer tutti gli animai silvani;
- E qualunque era quivi non venuto
- Pensò parte del ciel fosse caduto.
- 6
- E qual là dove Pachin da Peloro
- Tronchi si trovan per li venti avversi
- Gli alti marosi, per forza tra loro
- Romponsi e bianchi ritornan di persi;
- Sì giunsonsi le schiere di costoro,
- Con più veloci corsi, e più perversi,
- Che d’alto monte per subita piova
- Rabbioso il rivo il pian letto ritrova.
- 7
- Così adunque le schiere animose
- Li gran destrieri urtaron con gli sproni,
- Senza aver lance co’ petti focose
- Insieme si fedir co’ buon roncioni:
- La polver alta tutti gli nascose
- In un nuvol: di sè e degli arcioni
- Usciron molti allor, che non montaro
- Più a caval, nè quindi si levaro.
- 8
- E’ si sostenner, nè poter passare
- Oltre fra lor, ma rincularsi indietro
- Per le percosse: e qual siccome fare
- Suol raggio in acqua percosso od in vetro,
- Che riflettendo, i raggi fa tornare
- Subitamente per lo cammin retro;
- E’ vigorosi spronar li destrieri,
- In sè tornando gli arditi guerrieri.
- 9
- Nè credo quando più la fucina arse
- Di Vulcan nera ne’ regni sicani,
- O quando maggior fummo fuori sparse,
- Tale il facesse qual salivan vani
- Vapori al ciel, i qua’ dalle riarse
- Terre n’uscian dalli cavalli strani
- Premute, e dalle nari e da’ sudori
- Mossi degli spumanti corridori.
- 10
- Nullo d’intorno alcun di lor vedea,
- Se non come per nebbia ne’ turbati
- Tempi si vede; e l’un non conoscea
- L’altro di loro, e gran colpi donati
- Erano indarno, che ciascun credea
- Dare a color cui avieno scontrati:
- Perchè Arcita, Pegaso a gridare
- Cominciò forte, e’ suoi a confortare.
- 11
- Ma Palemon sopra Asopo gridava,
- E con tal voce i suoi a sè raccolse,
- E di bene operar gli confortava:
- Poi ver gli avversi la testa rivolse
- Del suo cavallo, e la spada vibrava
- In ver di cui il buon Arcita volse,
- Avendo lui appena conosciuto,
- Per lo gran polverio che v’era suto.
- 12
- E con gli sproni urtato il gran destriere,
- Li corse addosso colla spada in mano,
- E que’ ver lui come pro’ cavaliere,
- Corse feroce, e certo non in vano;
- Ma tal de’ petti in mezzo delle schiere
- Si riferiro e de’ corpi, ch’al piano,
- Insieme co’ cavai che rincularo,
- Amendue caddon senza alcun riparo.
- 13
- Cremisso quivi in Elicona nato
- E Parmeron che l’onde d’Ismeneo
- Tutte sapeva, e con lor Polimato,
- Questo veggendo, incontro di Fegeo
- D’Antedon sceson ch’era dismontato,
- E con lui Teumesso e Alfelibeo,
- Per lo lor Palemon volere atare,
- E se potessono Arcita pigliare.
- 14
- E cominciar fra loro aspra battaglia
- Così appiè colle spade impugnate:
- E ciaschedun per lo suo si travaglia,
- Dando alla parte avversa gran collate,
- Sforzandosi per vincer la puntaglia;
- E ben mostravan lor gran probitate
- In mantenersi per ispazio molto
- Senza mai volger l’uno all’altro il volto.
- 15
- Quivi rimase per misera sorte
- Artifilo Itoneo, il qual ferio
- D’una bipenne il buon Gremisso a morte:
- E mentre lui il suo fratello pio
- Volea levar, gli sopraggiunse il forte
- Eleno, che orgoglioso il perseguio,
- E lui uccise ancor similemente
- Allato al frate dolorosamente.
- 16
- E innanzi si potesser riavere,
- Ciascun da’ suoi vi fur colpi assai dati,
- Perocchè l’uno l’altro ritenere
- Voleva, e dopo molto in ciò provati,
- Ed a ciascuno mancato il potere,
- Ammenduni a caval furon montati;
- Mercè di loro che gli aiutar bene,
- Oprando ciò ch’a tal cosa convene.
- 17
- La pressa grande e lo spesso fedire
- Tolse di sè a questi due la vista;
- E cominciaron per lo campo a gire,
- Dipartendo ove più la gente mista
- Si combattea, ciascuno con disire:
- E andare sen potea l’anima trista
- Agl’infernali Iddii, di cui giugneva
- Arcita, in saldo ta’ colpi traeva.
- 18
- Il gran Minos il fiero Agamennone
- Presto nell’arme gì a riscontrare,
- E ’l buon Nestore scontrò Almeone:
- E Ida Peritoo nell’affrontare,
- Ed Evandro s’urtò con Sarpedone,
- Ma Radamante venne ad ovviare
- Il fiero Niso: e a petto a Castore
- Ancelado s’oppose con valore.
- 19
- E ’ncontro Alimedon Peleo sen venne,
- E Menelao ferì contro ad Admeto,
- Nè il buon Ligurgo di correr si tenne
- In ver d’Ulisse, il qual non mansueto
- Andò ver lui: ma Diomede attenne
- Al buon Polluce d’ira assai repleto:
- Gli altri ciascun secondo che poteo,
- Nella battaglia più innanzi si feo.
- 20
- Chi passò innanzi, e chi rimase appresso
- De’ principi primai nella scontrata:
- Ciascun feriva, ed era ferit’esso,
- La battaglia tenendo lunga fiata;
- Ma per lo in qua e in là ferire spesso
- Tutta fu tosto insieme mescolata:
- Nè ordine servossi, anzi correa
- Ciascun colà dove me’ far credea.
- 21
- E’ si scontrò Arcita in Almeone,
- E battaglia aspra insieme incominciaro;
- Nè di lor nullo pareva garzone,
- Anzi vendea ciascun suo colpo caro:
- E d’altra parte il fiero Palemone
- E ’l nobile Polluce si scontraro:
- Mostrò Polluce quivi apertamente
- Ch’egli era del ciel degno veramente.
- 22
- El feria Palemon con tal valore,
- Che quasi a forza ritenuto l’ebbe;
- Se non che Ulisse buon combattitore
- Lasciò Ligurgo, sì di ciò gl’increbbe,
- E lui riscosse: e Polluce di core,
- (Tal contra Ulisse mal voler gli crebbe)
- Col buon Nestore insieme accompagnato,
- A forza fuor de’ suoi l’hanno tirato.
- 23
- Gli Laertin maravigliosa prova
- Mostrar di sè con Filoduce insieme
- In riscuotere Ulisse; ma non giova,
- Ciascun quantunque può sopra lor preme
- Certo egli era a veder cosa nuova
- Ciò che facea Learco ed Idrasteme
- Per lui riavere; ma Attaman Pisano
- Gli fece faticar del tutto in vano.
- 24
- Col quale insieme era il buon Argileo
- Dell’ardir del fratel tutto focoso,
- E ’l buon Toas col suo fratel Cuneo,
- Ciascun nell’arme forte e poderoso;
- De’ quali ognun tanto per forza feo,
- Che indietro ognuno si tornò iroso
- Di que’ d’Ulisse, ed essi della spessa
- Turba lui trasser non con poca pressa.
- 25
- Quivi trattegli l’arme, a riguardare
- Che fesser gli altri il mandaro a sedere.
- Fe’ dunque il dì assai di sè parlare
- Polluce, e fece assai chiaro sapere
- Che se e’ non l’avesse fatto andare
- Giove sì tosto il cielo a possedere,
- Che egli avrebbe per Elena a Troia
- Al grand’Ettor donata molta noia.
- 26
- Ma qual la leonessa negl’ircani
- Boschi per gli figliuoi che nel covile
- Non trova, sè con movimenti insani,
- Messa in oblio la sua ira gentile,
- Mugghiando corre per monti e per piani,
- Nè mai la fa, se non affanno, umìle:
- Cotal correndo Diomede andava,
- Vedendo Ulisse presso che si stava.
- 27
- Nïuno aveva resistenza a lui;
- E’ ferì Crisso, e’ ferì Sicheo,
- Ed Alcion Sicionio, e con lui
- Molto aspramente l’Epidaurio Argeo
- Nè nulla aveva paura d’altrui;
- E ’n quello andare il buon Jolao Ianteo
- Preso da Niso, e da Almeone
- Atati, lui ritenner per prigione.
- 28
- Poi ritornati valorosamente
- Alla battaglia, Cefalo scontraro,
- E lui ferir maravigliosamente:
- Cefalo fe’ a tal colpo riparo,
- Ma sua prodezza non valse niente:
- Alcidamas e lui insiem pigliaro,
- E dello stormo gli mandaron fuori;
- Sicchè non furo il dì più feditori.
- 29
- Agamennone di parte lontana
- Questo vedea tutt’ora combattendo;
- Perchè chiamando sua gente spartana
- In quella parte se ne gì correndo,
- E gridò forte: o Diomede appiana,
- Troppo ci vai di dannaggio facendo:
- E questo detto, in su ’l capo il ferio,
- Ond’egli a terra tramortito gio.
- 30
- Prender lo volle allora Elinodoro
- E ’l buon Mefiso, ed eran dismontati,
- Ma ben vi fu chi contradisse loro,
- Arbato e Cidoneo quivi arrivati,
- Li quali a piè s’opposono a costoro,
- E tra lor fur di gran colpi donati:
- E Diomede tutto sanguinoso
- Fu tratto dello stormo per riposo.
- 31
- Avea Niso ferito il buon Castore,
- E quasi già che stancato l’avea,
- Ove Argileo ancor con gran valore
- Mostrava ben tutto ciò che valea;
- Allor Minos con furia e con furore,
- Che assai vicino a sè questo vedea,
- Vi corse, e gli assaliti riscotendo,
- Giva aspramente in qua e ’n là ferendo.
- 32
- A questo venne correndo Peleo,
- Mostrando sè degno padre d’Achille,
- Ed in mezzo la pressa far si feo
- Vie più di luogo assai che se con mille
- Vi fosse giunto, e ’l figliuol di Perseo
- Con lui insieme; e’ parea che faville
- Gittasson d’ogni parte, sì ferventi
- Pervenner quivi con tutte le genti.
- 33
- E ’ncontro al gran Minos Peleo si mise
- Con un bastone di ferro impugnato,
- Nè mai alcun per colpir gli divise,
- Sì parea ciascheduno inanimato:
- E tanto il buon Peleo si intramise
- Ferendo forte, e sostenendo armato,
- Che mal suo grado ebbe Minos prigione,
- Egli e co’ suoi lo buon Mirmidone.
- 34
- Il qual riscuoter Ditteo operava
- Con quella forza che potea maggiore,
- E ’l Ciprian Rifeo forte l’atava,
- E ’l simile faceva il buon Mintore,
- Alli quali Astragone alto gridava:
- Deh riscotiamo il nostro gran signore:
- E Pirro, e Cenis, e Tricon sagace
- Ciaschedun sopra ciò quanto può face.
- 35
- Ma Telamone incontro resistenza
- Aspra facia con Foco suo fratello,
- E Fenice con loro a tale intenza
- Tarso Cidon, Parmesso, e ’l Gemello
- Arione con Alcon la lor potenza
- Dimostravan nell’armi a tal zimbello,
- Tra’ quali aspra battaglia ed angosciosa
- Fu certo grande e ’n parte dolorosa.
- 36
- Quivi Rifeo fu da Telamone
- Ucciso, il qual gli avea morto davanti
- Miseramente il dolente Arione,
- Il qual parole e sangue e tristi pianti
- Ad un’ora nel sen del suo Alcone
- Alla morte vicin tra tutti quanti
- Gittava, e quivi l’anima rendeo,
- Perchè cacciata star più non poteo.
- 37
- Ma al da sezzo dopo molti danni,
- Dopo gran colpi e morti dolorose,
- Dopo molti sudori e molti affanni,
- Menar sì Foco e Telamon le cose,
- Che gli uomini Gnossi, e gl’inganni
- Loro, e le forze e l’opre marvigliose,
- Quasi per vinti indietro rincularo,
- E lì preso Minos pur vi lasciaro.
- 38
- Quando l’Arcado Evandro di lontano
- Di tai campion si vide rimanere
- Sol, quasi l’ira il fe’ tornare insano;
- E senza più di sua vita temere,
- La bella spada recatasi in mano,
- In ver Sicheo corse, e con potere
- Sommo gli fece da presso sentire
- Come sapeva di spada fedire.
- 39
- Ben si difese il giovinetto accorto,
- E ben l’ataro i suoi arditamente,
- Tal che Narizio Lesbio vi fu morto,
- E ben battuta d’una e d’altra gente;
- Ma alla fine Evandro bene scorto,
- Abbracciato Sicheo fortemente,
- Giù del cavallo il voleva tirare,
- Nè ’l potean colpi da lui separare.
- 40
- Tenevasi Sicheo, ed abbracciato
- Aveva lui, e in qua e ’n là correndo
- Givan, ciascun dal suo destrier menato:
- Ultimamente ciascun pur tenendo,
- Fu dal cavallo in tal modo portato,
- Ched e’ votaron gli arcioni, e cadendo
- Si magagnaron di maniera tale,
- Che più non fero il dì nè ben nè male.
- 41
- D’intorno a loro era la pressa molta,
- Chi per pigliare e chi per ritenere;
- E sì di gente e d’arme v’era folta,
- Che fu più volte loro in dispiacere:
- E ciascun si provò più ch’una volta
- Di levarsi, ma non v’era il potere,
- Laonde il meglio che essi potieno
- Dalli menati colpi si coprieno.
- 42
- Era lì Sifil di Menelao monte,
- E ’l forte Menfis nato in Cinosura;
- E d’Azan v’era il fiero Ginodonte,
- E di Partenio con vista sicura
- V’era Bricol, e con ardita fronte
- Creton vi stava, che giammai paura
- Non si crede che avesse; ed il Nifeo
- Nurilo, ed anche Trofilo Tegeo.
- 43
- Questi volean Sicheo del tutto preso,
- Ed in ciò si sforzavan; ma e’ v’era
- Ben gente, dalla quale e’ fu difeso:
- Quivi Plessippo e Tosseno con fiera
- Vista si videro, ed Acasto acceso
- Di mal talento, il quale in tal maniera
- Croton, tegnente allor Sicheo, ferìo,
- Che morto a’ piè tramortito gli gìo.
- 44
- E con lor fu Linceo ed Eurizio,
- E ’l buon Fenice figliuol d’Amintore,
- Ed Ezïon e Pelopeo Narizio,
- Ciaschedun uom di non piccol valore;
- Ed ancora con loro era Caspizio;
- Li qua’ ben ch’essi avesser le lor ore
- Più messe in cacce, che nell’armi armati,
- Fer d’arme sì che ne furo onorati.
- 45
- E ’l buon Sicheo lor compagno caro,
- Malgrado di Menfis, soavemente
- Fuor della calca fra’ suoi il menaro,
- Ed in riposo quivi pianamente
- Con li suoi disarmato lui lasciaro,
- Ed allo stormo tornar fieramente;
- E que’ d’Evandro fero il simigliante,
- Poi al fedir seguirò Radamante.
- 46
- Non si ritenne per questo Peleo,
- Ma tra gli Arcadi fierameute messo,
- Quasi che ’ndietro rivoltar gli feo
- Senza signore, e fuvvi assai appresso:
- Al quale Alimedon quanto poteo
- Si fece ’ncontro, ed altri assai dopo esso,
- E sì d’una bipenne in capo il fiere
- Che appena si ritenne in sul destriere.
- 47
- Il quale il ne portò tutto stordito
- Del teatro di fuor forte correndo,
- Dove da Tarso e da Cidon seguíto
- Fu, che ’l ritenner, che giva dormendo:
- Ma nol ritenner pria che risentito
- Il re si fu, ed a caval credendo
- Essere ancora, voleva tornare
- Il colpo ricevuto a vendicare.
- 48
- Ma nulla fu, poi si trovò smontato,
- Ed al ritondo teatro di fuore:
- Perchè conobbe ch’egli era privato
- Di combattere il dì: onde dolore
- Intollerabil ebbe, e non provato
- Da altrui mai; onde con tristo core
- Co’ suoi ch’eran con lui al suo ostello
- Se n’andò disdegnoso e tutto fello.
- 49
- E quale degli armenti ancor bramoso
- Sol pien di sangue rimane il leone,
- Cotal Peleo tutto sanguinoso,
- Senza trovar nè bestie nè persone
- De’ già feriti, sen gì polveroso,
- Rodendosi sè in sè tutto fellone,
- Perchè non s’era ritornar potuto,
- Com’egli avrebbe volentier voluto.
- 50
- E Telamon, che nel vide portare,
- L’aveva richiamato più fïate,
- Credendol far gridando ritornare,
- Ma non eran le sue voci ascoltate
- Da lui, che non sapea dove s’andare,
- Sì le sue posse s’eran dileguate
- Pel ricevuto colpo duro e forte,
- Che forse ad altri avria data la morte.
- 51
- Ammeto sopra Foleone ardito
- Del buon Sicheo seguitò la schiera,
- Con un baston d’acciaio chiaro e forbito
- Si fe’ conoscer qual nell’arme egli era;
- E ’l buon Apollo ben l’aveva udito,
- Quando gli porse l’umile preghiera:
- Perchè fra tutti aspramente correndo,
- Si fe’ far luogo col baston ferendo.
- 52
- Esso ferìo d’Amintor Fenice,
- E l’abbattè, e l’ardito Linceo,
- E dopo lui Eurizio infelice,
- E dopo essi il dolente Pelopeo:
- E se ciò che l’antica fama dice
- È vero, Ditestio ferì e ’l buon Tideo:
- E ta’ cose facea, che ammirazione
- A chi ’l vedeva dava con ragione.
- 53
- E ’n poca d’ora tanto fatto avea,
- Che quasi in volta parte n’avea messi;
- Di che Arcita molto si dolea,
- E quasi che sconfitto allor vedessi:
- Ma nol sofferse, anzi ver là correa,
- Aspreggiando il caval con sproni spessi;
- E fier si mise ad Ammeto davanti,
- Che giva i suoi cacciando tutti quanti.
- 54
- Quivi si cominciò l’aspra battaglia,
- E’ ferri eran mezzan della tencione,
- Ammeto colli suoi buon di Tessaglia
- Facevan franca e buona difensione:
- Nè mica dimostravan ch’a lor caglia
- Di rivedere o paese o magione,
- Anzi mostravan lor le morti care
- Pria che volessero indietro tornare.
- 55
- Nè già Arcita dagli suoi Dircei
- Era peggio d’Ammeto seguitato;
- Onde di parte in parte fra’ Lernei
- Era di molto male adoperato:
- Quegli ’l sapieno, che gridando, omei,
- Cadevan sanguinosi d’ogni lato;
- E lungo ed aspro fra loro il ferire
- Fu più assai ch’io nol potre’ dire.
- 56
- Quivi era Aschiro al gran Chiron nipote,
- Che poi nudrì Achille piccioletto,
- Al qual, quantunque Iddii nell’alte rote
- Con Giove regnano, erano in dispetto,
- Costui con furia qualunque percuote,
- Nè ’l viver più non gli ha luogo rispetto,
- E del monte Ossa Filaro crudele
- Era con lui, e di Pindar Linfele.
- 57
- Allo scontro de’ qua’ Cremisso venne,
- E vennevi Anfion sopra Permesso
- Nato, e ciascun per forza li ritenne:
- E ’l Parnaso Cirreo v’era con esso
- Del Calidone quanto si convenne
- Armato, e sì in quel bisogno espresso
- Adoperar, che la foga di quelli
- Ristette, e furo offesi alquanti d’elli.
- 58
- Ma mentre in tal contasto si sudava,
- Ida leggier più ch’altro prestamente
- Del suo destriere in terra dismontava,
- E di dietro ad Arcita destramente
- Sopra la groppa armato si gittava,
- Credendo lui ritener fermamente;
- E sì faceva el, ma e’ fu corto
- L’avviso, perchè Arcita ne fu accorto.
- 59
- El s’avvisava di Arcita pigliare
- Di dietro per le braccia molto stretto,
- E il cavallo ad un’ora speronare
- Per portarnel tra’ suoi; ma ciò effetto
- Non ebbe, chè Arcita, nel montare
- Di lui, l’un braccio alzò, e poi ristretto
- Coll’altra mano il freno, il buon destriere
- Rivolger fe’ in ver delle sue schiere.
- 60
- Sì ch’Ida dietro per iscudo gli era,
- Il qual, lui forte abbracciato strignendo,
- Volea tirar colla sua forza fiera
- In terra del caval, ma non potendo,
- E lui veggendo già nella sua schiera,
- Per iscampo di sè volle scendendo
- Fuggir di lì, e fra’ suoi ritornare:
- Ma non potè com’egli avvisò fare.
- 61
- Perocchè l’un delli suoi sproni prese
- Del destrier la coverta ventilante;
- Sicchè col piè impacciato, quando scese,
- Rimase, e gire non potè avante,
- Ma in terra cadendo e’ si distese;
- Onde addosso gli furon tutte quante
- Le genti allor d’Arcita per pigliarlo,
- Ma i suoi si fero avanti per atarlo.
- 62
- Quivi era Archesto con altri Pisani,
- Li quali il preson per tirarlo a loro,
- Ed a caval riporlo; ma i Tebani
- Forte il tenean per lo busto fra loro:
- Onde co’ ferri vennero alle mani
- Sè percotendo agramente costoro;
- Altri il tiravan per lui riavere,
- Ed altri forte per lui ritenere.
- 63
- E tal rissa era tra costor, qual venne
- Tra il gioviale uccello ed il serpente,
- Il quale i parvi nati di lei tenne:
- Quella di riavergli col tagliente
- Becco ricerca, aggiugnendoli penne;
- Questi solo a fuggire sta intendente
- Con essi, onde la briga cresce ognora,
- Mentre il serpente li presi divora.
- 64
- Così era fra questi, ma Eleno
- Gridò: signori, se voi nol lasciate,
- Tra voi e noi qui lo straziereno:
- Ma non eran le sue boci ascoltate;
- Ond’egli insieme col fiero Parmeno,
- Gravanti scure nelle man recate,
- Feriro Archesto e Limaco sì forte,
- Ch’ad amenduo sentir fecer la morte.
- 65
- Gli altri per far di sè stessi difesa
- Lasciaron Ida quivi, e per vengiare
- De’ lor compagni la crudele offesa
- Cominciar colpi spietati a menare;
- Ma poco valse lor focosa impresa,
- Chè pure a Ida ne convenne andare
- Mal grado suo per prigione a posarsi
- Là dove gli altri lì vedeva starsi.
- 66
- Poscia che Ammeto vide che scampato
- Quindi era Arcita maestrevolmente,
- E Ida per prigion n’era mandato,
- Turbato nell’aspetto fieramente,
- Inverso Dria co’ suoi ha speronato,
- Il quale la bandiera fortemente
- Tenea nel campo, e giusta suo potere
- S’ingegnò di volerla far cadere.
- 67
- Ma ’l giovane con anima sicura
- Non si mutò, ma stretta l’abbracciava;
- E sostenendo la battaglia dura
- De’ colpi che Ammeto gli donava,
- A’ suoi gridava con solenne cura
- Che atasser lui, e gli rincoraggiava;
- Quivi Licurgo con gli suoi ardito
- Era a guardarla posto per partito.
- 68
- El tornò ’l suo caval verso d’Ammeto,
- E con lui fu il gran Pigmaleone:
- Nè alcuno si mostrò lì mansueto,
- Ma fiero più che mai alcun dragone;
- E dieron colpi assai, che pien di fleto
- Furono a chi sentì tale offensione;
- Nè si partì insieme la mislea,
- Per ciò che Ammeto pur fare intendea.
- 69
- Quivi di spade e di baston ferrati
- Era sì grande la batosta e tale,
- Che molti ve ne furon magagnati,
- Nè stata v’era nel campo cotale:
- E’ Pegasei quasi erano avanzati,
- Perchè Ancelado corso a questo male,
- Co’ suoi raccolto, per costa ferío,
- E quasi quindi ciascun si fuggío.
- 70
- Quivi rimase Anfiritós Nemeo,
- E Palerone che agli aspri cinghiari
- Già nelli boschi molta guerra feo;
- E tra gli sparti sangui negli amari
- Campi rimase il misero Nifeo,
- Ed altri ancora, non d’elli men cari:
- Ma non per tanto Ammeto non posava,
- Ma ’l suo proposto di far s’ingegnava.
- 71
- E’ ritornò ver Dria banderese,
- E solo abbattere il segno volea:
- Questi con forze e con diverse offese
- Verso Licurgo, che gliel difendea,
- Certava, di cui venne alle difese
- Peritoo tosto che questo vedea;
- E riscontrossi con Alimedonte
- Figliuolo stato di Eurimedonte.
- 72
- E’ si feriron di tutta lor possa
- Su gli elmi colle spade, ed ispezzaro
- Parte di quegli: ma qual si move Ossa
- Per piccol vento, cotal si mutaro
- Di su i destrieri; ma quivi s’ingrossa
- L’ira, perchè più volte si toccaro;
- E fer maravigliar chi gli mirava,
- Tanto d’arme ciascuno adoperava.
- 73
- Corsevi ancora Artofil Mirmidone
- Contra di Ammeto, ma il suo buon cavallo
- Gli mancò sotto, onde e’ fu prigione
- Dagli altri messo fuor senza intervallo;
- E gissene con esso Serpedone,
- Il quale aveva quivi lungo stallo
- Fatto, e abbattuto e scalpitato spesso
- Da qualunque ivi gli era andato presso.
- 74
- Questo vedendo Giapeto feroce,
- Che dall’alber fatale aveva tratta
- Forza durabil, pessima ed atroce,
- Poscia ch’Egina fu tutta disfatta,
- E di formiche si rife’ veloce,
- Com’ebbe a Eaco sua orazion fatta,
- Corse ferendo tanto furïoso,
- Quanto per piova è rivo ruinoso.
- 75
- E Dromone il seguì, il qual solea
- Di Calidonia le grotte cercare;
- E Cinfalio con lui, e ’l buon Finea,
- E ’l fier Crisippo, credendosi fare
- Ciò che il loro poter non concedea,
- Ciò era il buono Artifil racquistare;
- Perchè incontro a loro Illariseo
- Uscì con molti armati con Doneo.
- 76
- Aveva lungamente combattuto
- Peritoo e Ammeto, e veramente
- L’un di lor due sarie stato tenuto,
- Se e’ non fosse per la molta gente
- Che venne a dare a ciascheduno aiuto,
- Ma pure a Peritoo massimamente,
- Perch’era stanco, viepiù bisognava
- Che ad Ammeto, ch’ancor fresco stava.
- 77
- Lì venne il buon Leonzo Crimeone,
- E l’Epidaurio Doricone ancora,
- E ciaschedun di ferro un buon bastone
- Portava, e ben per sè ciascun lavora,
- E Amincor di Leleggia a ragïone
- Di Peritoo l’affanno ristora,
- E Fizïo, Filacido, e Sifero,
- Ch’alcuna lena a Peritoo renderò.
- 78
- Così per lungo spazio combattendo
- Givano alcuni, ed altri, per vigore
- Maggior pigliar, si givan ritraendo:
- Fra’ quali Arcita, asciugando il sudore,
- Che sanguinoso gli gia trascorrendo
- Giù per lo viso, della calca fore
- Alquanto s’era tratto, e riprendea
- Un poco lena, siccome potea.
- 79
- Ma mentre che prendeva tal riposo
- Così nell’armi, alquanto gli occhi alzati
- Gli venner là dove il viso amoroso
- Vide d’Emilia, e’ begli occhi infiammati
- Di luce tanto lieta, che gioioso
- Facien qualunque a cui eran voltati,
- E tutto in sè tornò quale in prim’era,
- Siccome fior per nuova primavera.
- 80
- E quale Anteo quando molto affannato
- Era da Ercol con cui combattea,
- Come alla Terra sua madre accostato
- S’era, tutte le forze riprendea;
- Cotal Arcita molto fatigato,
- Mirando Emilia, forte si facea:
- E vie più fiero ritornò a fedire
- Che prima, sì e’ lo spronò il desire.
- 81
- Esso ferì tra la gente più folta,
- E colla spada si fece far via;
- E questo qua, e quello là rivolta,
- Costui abbatte, e quell’altro ferìa:
- E combattendo dimostra la molta
- Prodezza che Amor nel cor gli cria:
- E’ non ne giva nullo rispiarmando
- Ma come folgor tutti spaventando.
- 82
- Egli abbattè Aschiro, e Piragnone,
- E dopo loro il ferigno Cefeo,
- E Letalo e Cheron di Pleurone,
- E ’l gran cavalcatore Eurimeteo,
- E Filon poi nipote a Palemone
- A cui doglia di morte sentir feo,
- Tal colla spada in sul capo gli diede,
- Che per morto sel fe’ cadere a’ piede.
- 83
- Poi sen gì oltre, e costui stordito
- Rimase in terra lì villanamente:
- Ma poi che fu di stordigione uscito,
- Con boce fioca dolorosamente
- Disse: va’ oltre, cavalier ardito,
- Col primo agurio della nostra gente,
- E cota’ baci Emilia ti dea spesso,
- Qual tu m’hai dato: e giù ricadde adesso.
- 84
- Similemente Eurimeteo dicea,
- Il qual di sangue avea la faccia sozza;
- Ma le parole più rotte porgea,
- Perocchè era ferito nella strozza;
- Laonde forte seco si dolea,
- Tal di quel colpo sentiva la ’ndozza,
- Dicendo: se tuo padre t’aspettasse,
- Qual m’hai concio vorrei ti ritrovasse.
- 85
- Maraviglie faceva il buono Arcita
- In qua in là per lo campo correndo,
- E con gran voci le sue schiere aita,
- Or questo or quello andando soccorrendo,
- E ciascheduno a bene oprare invita,
- Che vede lui così andar ferendo,
- E d’altra parte facea il simigliante
- L’ardito Palemon prode ed atante.
- 86
- Dopo il crudele e dispietato assalto,
- Orribile per suoni e per fedite,
- Lì fatto prima sopra il rosso smalto,
- Si dileguaron le polveri trite;
- Non tutte, ma tal parte, che da alto
- Ed ancora da basso eran sentite
- Parimente e vedute di costoro
- L’opere e ’l marzïale aspro lavoro.
- 87
- Il sangue quivi de’ corpi versato,
- E de’ cavalli ancor similemente,
- Aveva tutto quel campo innaffiato,
- Onde attutata s’era veramente
- E la polvere e ’l fummo: imbragacciato
- Di sangue era ciascun destrier corrente,
- O qualunque uomo vi fosse caduto,
- Benchè a caval poi fosse rivenuto.
- 88
- Ciascuno aveva i ferri sanguinosi,
- E ’l viso rotto e l’armi dispezzate:
- E’ più morbidi aspetti rugginosi
- Eran di vero, e le veste squarciate:
- E’ cavalli non eran orgogliosi
- Come solieno, e le schiere scemate
- Erano assai, e scemavano ognora;
- Tanto di cuore ognuno a ciò lavora.
- 89
- Miravagli ammirando il grande Egeo
- Con vista aguta del suo real loco;
- E ’l simile faceva ancor Teseo,
- Tutto nel viso rosso come foco,
- Tanto il disio del combatter poteo;
- Di che più volte si tenne per poco:
- Esso vedeva e conosceva aperto
- Qual di lor fosse più nell’armi sperto.
- 90
- E similmente assai chiaro notava
- L’opere di ciascuno e ’l suo fedire;
- E chi la morte per onor cercava,
- E chi teneva per gloria ’l morire:
- E chi più arte alla battaglia usava,
- E chi aveva più o meno ardire,
- E chi schivava, e chi faceva niente,
- Tutto vedeva in sè tacitamente.
- 91
- E spesso giudicava la dubbiosa
- Battaglia, e ’l fin di quella seco stesso:
- Ma non poteva fermo di tal cosa
- Giudicio dar, sì si mutava spesso
- Il caso d’essa, che non men noiosa
- Di lontano era che fosse da presso;
- E ’n general per prodi e per valenti
- Lodava seco tutti i combattenti.
- 92
- Egli avie seco li prigion chiamati,
- E de’ lor casi con lor si dolea;
- E come volle quivi disarmati
- Seco ciascun reverente sedea,
- Tenendo dell’affar diversi piati;
- Chi questi, e chi quegli altri difendea,
- Ma tututti dicean che alcun vantaggio
- Non vi vedean, ma eran d’un paraggio.
- 93
- Ippolita con animo virile
- La doppia turba attenta rimirava:
- Nè già fra sè ne teneva alcun vile,
- Anzi d’alta prodezza gli lodava;
- E s’egli avesse il suo Teseo gentile
- Voluto, arme portarvi disiava,
- Tanto sentiva ancora di valore
- Di quella donna il magnifico core.
- 94
- Emilia rimirava similmente,
- E conosceva ben fra gli altri Arcita,
- E Palemone ancora combattente;
- Ed attonita quasi ed ismarrita
- Fiso mirava quella marzial gente:
- E quante volte vedea dar fedita
- A nullo, o che e’ fosse in terra miso,
- Tante color cangiava il chiaro viso.
- 95
- E sempre in sè dimorava dubbiosa
- Non colui fosse Arcita o Palemone:
- E con voce soave assai pietosa
- Dava agl’iddii divota orazïone:
- Ciò che vedeva o udiva noiosa
- Nell’animo le dava mutazione,
- E tutta impalidita nell’aspetto
- Che ella non foss’essa avria l’uom detto.
- 96
- Questa con seco talora dicea:
- Oimè, Amor, quant’hai male operato!
- I’ non ti vidi, e non ti conoscea,
- Nè costor similmente in alcun lato;
- Nè per lor venni, nè data dovea
- Esser a loro, e non l’avea pensato
- Teseo giammai: ma tu e la fortuna
- A tal m’avete recata qui una.
- 97
- E se tu pur volevi il tuo ardore
- In altrui porre per la mia bellezza,
- Potevil fare, e con lieto colore
- Addomandarmi far da sua grandezza:
- Perocchè io non son di tal valore,
- Che per me si convenga ogni prodezza
- Mostrar che posson molti: oimè amara!
- Che da vender non fui cotanto cara.
- 98
- Deh quanto mal per me mi diè natura
- Questa bellezza, di cui pregio fia
- Orribile battaglia, rea e dura,
- Che qui si fa sol per la faccia mia;
- La quale avanti ch’ella fosse, oscura
- Istata sempre volentier vorria,
- Che tanto sangue per lei si versasse,
- Quanto qui veggio nelle parti basse.
- 99
- Oimè Amore! con che agurio omai
- In camera di qualunque costoro
- Entrerò io, se non d’eterni guai?
- L’anime dolorose di coloro,
- Che a torto per me muoion, non fien mai
- Senza disio di mio dolore e ploro,
- E sempre attente mi spaventeranno,
- E faran festa di ciascun mio danno.
- 100
- O quante madri, padri, amici e frati,
- Figliuoli ed altri me maladicendo
- Davanti all’are staranno turbati,
- Da’ loro Iddii i miei danni chiedendo!
- E fien da lor con diletto ascoltati
- Se gli averanno, e dell’altro piangendo
- Essi gl’iddii infesteranno forte,
- Che dannata sarò a crudel morte.
- 101
- Oh che duro partito è quello a ch’io,
- Misera, son venuta per amore,
- Di cui giammai non mi scaldò disio,
- E senza colpa ne sento dolore!
- O sommo Giove, deh diventa pio
- Di me, che sol nel tuo sommo valore
- I’ spero per soccorso del mio male,
- Più ch’altro grieve, se di me ti cale.
- 102
- E s’io dovea pur per Marte donata
- Essere a sposo, vie minore affanno
- Che questo bisognava, ove assembrata
- Cotanta gente non è senza danno.
- Andromeda fu solo liberata
- Da Perseo, quando e’ l’ebbe senza inganno:
- Ed esso al mostro s’oppose marino
- Poi fu atato dal coro divino.
- 103
- Borea sol n’andò in Etiopia
- Ed ebbe Ortigia, tanto seppe fare:
- E Pluto, che patia di moglie inopia,
- Sol se la seppe in Cicilia furare:
- Ed Orfeo della sua n’ebbe pur copia,
- Tanto sol seppe umilmente pregare:
- Ed Atalanta ancor fu guadagnata
- Da un, da cui fu nel corso avanzata.
- 104
- Io sola son con le forze di molti
- Chiesta da due, mentre ch’io son mia;
- E qui dinanzi a me gli veggio accolti,
- Ed iracondi la lor fellonia
- L’un verso l’altro con colpi disciolti
- Veggio mostrar, per la lor gran follia:
- Nè so ancor di chi esser mi deggia,
- Tanto di par mi par ch’ognun mi chieggia.
- 105
- Ed or pur fosse la mia mente all’uno
- Col disio appoggiata e mi piacesse;
- Ma tanto è bello e nobile ciascuno,
- Ch’io non so qual di loro m’eleggesse,
- Sed e’ mi fosse detto da alcuno,
- Che qual volesse in isposo prendesse;
- Così in amorosa erranza posta
- Mi lascia Amor, perchè più non gli costa.
- 106
- Io sto di ciascun d’essi sospettosa,
- E di ciascuno il mal temo e ’l dannaggio:
- E pur son certa che vittorïosa
- Fie l’una parte; e non so col coraggio
- Qual’io m’aiuti, o di qual io pietosa
- Diventi, o di qual fosse danno maggio
- Se la perdesse: l’uno e l’altro miro,
- E per ciascuno egualmente sospiro.
- 107
- Nè mi vien all’orecchie Pegaseo
- Alcuna volta dagli suoi chiamato,
- Ch’io non divenga qual si fa Rifeo
- Per le sue nevi dal sol riscaldato:
- Ed il gridar Asopo ancor mi feo
- Parer più volte col viso cangiato:
- Nè veggio nullo, e sia qual vuol, cadere
- Che non mi senta l’animo dolere.
- 108
- Deh or gli avesse pur Teseo lasciati,
- Quando noi gli trovammo nel boschetto,
- Combatter soli: almen diliberati
- Sariensi in lor di me, e con diletto
- Avrebbe l’un gli abbracciar disiati
- Di me, tenendol nel suo cor distretto
- Senza scoprirsi; ed io non sentiria
- Per lor nè ira nè malinconia.
- 109
- Così m’hai fatto, Amore, e più non posso,
- E senza amore innamorata sono:
- Tu mi consumi, tu mi priemi addosso,
- Per colpa degna certo di perdono:
- Tu m’hai il cor dolorosa percosso
- Con disusato e non saputo trono;
- Ed or fossi pur certa che campasse
- L’un d’essi due, e sposa men portasse.
- 110
- Così la giovinetta in sè dicea,
- Mirando fuor di sè le cose dire,
- Che l’un baron contra l’altro facea
- Nel campo, acceso di troppo disire:
- E l’altro popol che questo vedea,
- Chi gioia ne sentiva, e chi martíre:
- E ciasehedun con voci confortava
- Alto gridando quel che più amava.
- 111
- La battaglia era a pochi ritornata,
- Chi qua chi là per lo campo scorrendo:
- E quasi già (sì la gente affannata
- Era l’un l’altro per forza ferendo)
- Che poco potien più, ma spessa fiata
- Di patto fatto si gien sostenendo:
- E quasi pari ciascun del partito
- Per istanchezza, si ristava attrito.
- 112
- Ma Marte riguardava d’alto loco,
- E Venere con lui, i combattenti;
- Il qual poi vide intiepidire il foco
- Che facea prima gli animi ferventi,
- E le spade chetarsi a poco a poco,
- E stanchi vide i buon destrier correnti:
- Pieno d’ira e di cruccio lì discese,
- E con parole tali Arcita accese,
- 113
- In forma rivestito di Teseo:
- Ahi villan cavalier, falso e fellone,
- Quel codardia qui fermar ti feo?
- Non vedi tu combatter Palemone,
- E per dispetto nomarti Penteo,
- Dicendo ch’intendevi a tradigione
- Sott’altro nome Emilia possedere,
- La quale egli in aperto crede avere?
- 114
- E detto questo, trascorse la schiera
- D’Arcita con parole accese d’ira,
- E sì focoso fe’ qualunque v’era,
- Che veder parve a tutti cosa mira,
- Ed Arcita infiammato come egli era,
- Ogni riposo lasciando, si tira
- Colla sua spada in man, mostrando ch’esso
- Non fosse quel che si posava adesso.
- 115
- Agamennone il seguì animoso,
- E Menelao Polluce e Castore,
- E Peritoo appresso valoroso,
- E con Cromis ancora il buon Nestore:
- Nè cura avendo di nessun riposo,
- Ver Panto dirizzaro il lor valore;
- E lui per forza aspramente pigliaro,
- E la bandiera in braccio gli tagliaro.
- 116
- Ma loro uscì incontro Palemone,
- Fiero ed ardito con Ammeto a lato,
- Li qua’ seguiva il feroce Almeone,
- Ed Ancelado, e Niso trasmutato
- In ira di riposo: e Alimedone
- A quell’incontro fu forte piagato;
- E cominciar la battaglia sì fiera,
- Che tal non fu veduta qual quell’era.
- 117
- E benchè fosson fieri ed animosi,
- Ed al morir più che a vergogna dati,
- Tacili alquanto, e ne’ cor paurosi
- Divenner, poi con lor si fur scontrati,
- Perchè augusti più e poderosi
- Parean lor gli avversarii ritornati:
- Ma nondimen durava la mislea
- Crudele e fiera quant’ella potea.
- 118
- Combattea Palemone arditamente
- Con Menelao, e Cromis combattea
- Con Almeon, ciascuno assai possente,
- E Alimedon contra Nestor tenea:
- Ma ’l fiero Arcita valorosamente
- Vincere Ammeto per forza volea:
- Licurgo contro Niso avea ripresa
- Battaglia, ed e’ faceva gran difesa.
- 119
- E così insieme gli altri combattieno
- Tutti nel campo raccesi a battaglia,
- E lungo assalto tra lor mantenieno
- Ciascun di cacciar l’altro si travaglia;
- E mentre in guisa tal le cose gieno
- Cadde di Foleon quel di Tessaglia;
- E Peritoo pur vi fu abbattuto,
- E dagli Asopi forte ritenuto.
- 120
- Cromis aveva sì stanco Almeone,
- Cile non poteva più, ma si tirava
- Indietro, ma di Cromis il roncione,
- Ch’ancora che solea si ricordava
- Gli uomin mangiar, pel braccio Palemone
- Co’ denti prese forte, e sì l’aggrava
- Col duol, che ’l fece alla terra cadere,
- Mal grado ch’e’ n’avesse, e rimanere.
- 121
- E quale il drago talora i pulcini
- Dell’aquila ne porta renitenti,
- O fa la leonessa i leoncini
- Per tema degli aguati delle genti;
- Così faceva quel vibrando i crini,
- Forte strignendo Palemon co’ denti;
- Cui egli aveva preso in tal maniera
- Che maraviglia avea chiunque v’era.
- 122
- E se non fosse ched egli fu atato
- Da’ suoi avversi, il caval l’uccidea;
- A cui di bocca appena fu tirato,
- E tratto fuor della crudel mislea,
- E senza alcuno indugio disarmato
- Per Arcita, che l’arme sue volea
- Per offerirle a Marte, se avvenesse
- Ch’a lui il dì il campo rimanesse.
- 123
- Se Palemone allora fu cruccioso,
- Soverchio qui saria a raccontare,
- E però di narrarlo mi riposo,
- Ottimamente il può ciascun pensare:
- Egli era alla sua vita invidïoso,
- E quasi si voleva disperare:
- E ben si crede del tutto perduta
- Aver d’Emilia la speranza avuta.
- 124
- Essa a ciò riguardava assai dolente:
- E sappiendo qua’ patti eran fra loro,
- Già d’Arcita credendo veramente
- Esser l’animo suo, senza dimoro
- A lui voltò, e divenne fervente
- Dall’amor d’esso; e già per suo ristoro,
- Per lui vittoria pietosa chiedea,
- Nè più di Palemon già le calea.
- 125
- Così le fece, il subito vedere
- Di cui esser credea, pensier cangiare:
- Ciascun si guardi adunque di cadere,
- E del non presto potersi levare,
- Se non gli è forse caro di sapere
- Chi gli è amico, o chi amico pare;
- Colui che ’n dubbio davanti era amato,
- Ora con certo core è abbandonato.
- 126
- Or loda seco Emilia la bellezza
- D’Arcita tutta e ’l nobil portamento;
- Or le pare più somma la prodezza
- Di lui, e troppo maggior l’ardimento;
- Or crede lui aver più gentilezza,
- Or più cortese il reputa l’un cento;
- Là dove prima le pareano eguali,
- Or le paion del tutto diseguali.
- 127
- Ora preso partito, ed appagata,
- Dagl’iddii tiensi d’avere il migliore;
- E già d’Arcita si dice sposata,
- E già gli porta non usato amore
- Occultamente, e già spessa fïata
- Pregò gl’iddii per lo suo signore,
- E con nuovo disio il va mirando
- L’opere sue sopra tutto lodando.
- 128
- Già le rincresce il combatter che fanno
- Più lungo, e fine a quel tosto disia:
- E già con nuova cura teme il danno
- D’Arcita più che non faceva in pria:
- E di lui pensier nuovi al cor le vanno,
- Li qua’ davanti punto non sentia,
- E sol d’Arcita l’immagine prende,
- E sè lascia pigliar, nè si difende.
- 129
- L’aspra battaglia stata infino allora,
- Poscia che vider preso Palemone,
- Ed Ammeto abbattuto in terra ancora,
- E sopra lor più fiero Agamennone
- Videro, e gli altri, ciascun si discora,
- E lievemente si dà per prigione:
- Nè valse a Palemone il suo gridare,
- Tenete il campo, che ’l volesson fare.
- 130
- Laonde Arcita in poca d’ora prese
- Co’ suoi di quelli tiepidi pugnanti;
- Il che vedendo tutto si raccese,
- Siccome soglion far sempre gli amanti,
- Se dubbiosa speranza mai gli offese,
- Quando certa ritorna a’ disianti
- Secondo il lor disio, e valoroso
- Il campo circuiva vittorioso.
- 131
- E lieto i suol andava raccogliendo,
- Benchè pochi rimasi ve ne avesse,
- E colla spada in mano ancor ferendo,
- Se alcun vi fosse che contra dicesse
- Alla vittoria sua, e sì facendo
- D’allegrezza parea tutto godesse:
- E giù volea il cavallo ritenere,
- Avendo tutto vinto al suo parere.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO NONO
- * * *
- ARGOMENTO
- Dimostra il nono libro apertamente
- Perchè e come Arcita vincitore
- Sotto il caval cadesse, ed il dolore
- Ch’ebbe di ciò Teseo ed ogni gente:
- Ma come potè più trionfalmente
- In Atene il condusse con onore.
- Quivi Teseo parlando, ogni signore
- Contenta, ch’era stato il dì perdente.
- Libera poi Emilia Palemone,
- Il qual per patti fatti nel boschetto
- Quivi ne fu presentato prigione,
- E alti doni gli dona; ed in cospetto
- Di ciaschedun notabile barone
- La sposa Arcita, come in fine è detto.
- 1
- Già s’appressava il doloroso fato
- Tanto più grave a lui a sostenere,
- Quanto in più gloria già l’avea levato,
- Il fe’ vittorïoso ivi vedere:
- Ma così d’esto mondo va lo stato,
- Ch’allora è l’uom più vicino a cadere,
- E vie più grave cade, quando ad alto
- È più montato, sopra il verde smalto.
- 2
- Sopra l’alta arce di Minerva attenti
- Venere e Marte a rimirar costoro
- Stavan, fra sè dell’ordine contenti,
- Che preso fu, per li preghi, fra loro:
- Ma già veggendo Venus che le genti
- Di Palemon non potien dar ristoro
- Alla battaglia più, rivolta a Marte
- Disse: oramai fornita è la tua parte:
- 3
- Ben hai d’Arcita piena l’orazione,
- Che come vedi va vittorïoso:
- Or resta a me quella di Palemone,
- H qual perdente vedi star doglioso,
- A mio poter mandare a sequizione;
- Alla qual Marte fatto grazïoso,
- Amica, disse, ciò che dici è ’l vero:
- Fa’ oramai il tuo piacere intero.
- 4
- Ella avia poco avanti visitati
- Gli oscuri regni dell’ardente Dite,
- Ed al re nero aveva palesati
- I suol disii: perchè da quelli uscite
- Eran più Furie con alti mandati;
- Ma ella Erinni presa, all’altre, gite
- Dove vi piace, disse; e poi a questa
- Tutta la voglia sua fe’ manifesta.
- 5
- Venne costei di ceraste crinita,
- E di verdi idre li suoi ornamenti
- Erano, a cui in eliso la vita
- Riconfortata avea, li qua’ lambenti
- Le sulfuree fiamme, che uscita
- Di bocca, le cadeano puzzolenti,
- Più fiera la facieno: e questa Dea
- Di serpi scurïata in man tenea.
- 6
- La cui venuta diè tanto dolore
- A chi nel gran teatro era a vedere,
- Ch’ognuno stava con tremante core,
- Nè il perchè nessun potea sapere:
- Li venti dier non usato romore,
- E ’l ciel più nero cominciò a parere;
- Il teatro tremò, ed ogni porta
- Cigolò forte ne’ cardini storta.
- 7
- Costei nel chiaro dì rassicurata
- Non mutò forma, nè cangiò sembiante,
- Ma già nel campo tosto se n’è andata,
- Là dove Arcita correva festante:
- E orribile com’era fu parata
- Al corrente destrier tosto davante,
- Il qual per ispavento in piè levossi,
- Ed indietro cader tutto lasciossi.
- 8
- Sotto il qual cadde il già contento Arcita,
- E il forte arcione gli premette il petto,
- E sì il ruppe, che una ferita
- Tutto pareva il corpo al giovinetto,
- Che fu in forse allora della vita
- Abbandonar dal gran dolor costretto:
- E per molti, che a lui corsono allora,
- Atato fu senza alcuna dimora:
- 9
- I quali appena lui disvilupparo
- Da’ fieri arcioni, e con fatica assai
- Da dosso il caval lasso gli levaro:
- Il qual com si sentì libero omai,
- Non parve faticato, tal n’andaro
- Le gambe sue fuggendo, tanti guai
- Gli minacciò la Furia colla vista
- Sua dispettosa, nocevole e trista.
- 10
- Emilïa del loco, dove stava,
- Chiaro conobbe il caso doloroso;
- Perchè il core, che più ch’altro l’amava,
- Di lui dubbiando, si fe’ pauroso:
- Perchè per tema a sè tutte chiamava
- Le forze sparte nel corpo doglioso:
- Perchè nel viso tal rimase ismorta,
- Qual è colui che al rogo si porta.
- 11
- Oimè dogliosa, in sè trista dicendo,
- Quanto la mia felicitade è brieve
- Istata, questo caso ora vedendo;
- E benchè il pensier mi fosse grieve,
- E’ pur m’andava dentro al cor dicendo
- Ch’i’ non poteva con fatica lieve
- D’amor passar più che passar si soglia
- Per gli altri ch’han provata la sua doglia.
- 12
- Ora conosco ciò che volea dire
- Bellona sanguinosa, che davanti
- Oggi m’è stata, senza dipartire,
- Con atti fieri e morte minaccianti,
- Quasi i’ dovessi li danni partire
- Che si fesson tra loro i due amanti:
- E detto questo, sì ’l dolor la vinse,
- Ch’errando fuor di sè tutta si tinse.
- 13
- El fu subitamenie disarmato,
- Ed il palido viso pianamente
- Con acqua fredda lì gli fu bagnato,
- Onde si risentì subitamente:
- E molto fu da’ suoi riconfortato;
- Ma parlar non poteva ancor niente,
- Sì gli avea il petto il suo arcion premuto,
- Mentre il cavallo addosso gli era suto.
- 14
- Agamennon con contenenza fiera
- Con Menelao per lo campo gia,
- E scorrendo per quel colla bandiera,
- Ciascun de’ suoi dietro gli venia:
- Ed a qual fosse della vinta schiera
- Rimaso quivi, senza villania
- Alcuna far per preso nel mandava,
- E vincitor sopra il campo si stava.
- 15
- Dopo che fur le cose riposate,
- E manifesto a tutti il vincitore,
- E ’l molto suon delle trombe sonate,
- Ed alti gridi mandate in onore
- E d’Arcita e de’ suoi, e già levate
- Le genti varie, con nuovo romore
- Trassonsi i vincitori in verso Arcita
- Per veder il sembiante di sua vita.
- 16
- Là discendendo venne il vecchio Egeo,
- E ’n grembo la sua testa si fe’ porre,
- E dopo lui vi venne il pio Teseo,
- E la reina Ippolita vi corre,
- Ed Emilïa ancor quanto poteo:
- E ciaschedun conforta e lui soccorre
- Con pietose parole, e stropicciando
- Le mani e’ pie’ di lui, lui domandando.
- 17
- Ma e’ non rispondea, anzi ascoltava,
- E ciò per non potere addivenia:
- E gli occhi erranti in qua e ’n là voltava,
- Or questo or quello con sembianza pia
- Mirando, e quasi sè non si mostrava,
- Tal era il duol che l’anima sentia,
- E ancora in dubbio di stare o di gire
- Errava per lo cor con gran martíre.
- 18
- Ma poichè Emilia tabefatto il viso
- Di polvere, di sangue e di sudore
- Vide, e sentì che ’l corpo avie diviso
- In parte alcuna, appena il suo dolore
- Tristo ritenne dentro al cor conquiso:
- Maladicendo in sè ’l soverchio amore
- Che lui a tal partito posto avea,
- E lei vie troppo di nuovo pugnea.
- 19
- Ma sì non seppe la cosa celare,
- Nè ritener le lagrime dolenti,
- Che spesse volte il suo viso cangiare
- Visto non fosse da più delle genti;
- Ella non sa come racconsolare
- Onestà ’l possa, ed i disii ferventi
- Pur l’invitavano: e così sospesa
- Da grieve doglia lui rimira offesa.
- 20
- Quivi era sì dolente Agamennone,
- Menelao Nestore e ciascheduno
- Altro amico di lui o compagnone,
- Che non pareva aver vinto a nessuno;
- Anzi di doglia vie maggior cagione
- Aver, che di pigliar riposo alcuno:
- E ’n qua e ’n là si givan lamentando,
- Gl’iddii di tanta offesa biasimando.
- 21
- Palemon tristo d’una e d’altra cosa
- Del mal d’Arcita forte si dolea;
- Ma più assai sua fortuna angosciosa,
- Che quivi perditor fatto l’avea:
- Nè sa se isperanza grazïosa
- Si prenda quindi, o se l’aspetta rea:
- E pur conosce Arcita per parente,
- Nè può fuggir che non ne sia dolente.
- 22
- Fece Teseo il campo a’ vincitori
- Raccoglier tutto, e fece comandare
- Che qual non fosse de’ combattitori
- Senza dimoro sen dovesse andare;
- I qua’ po’ furo al teatro di fuori,
- Fece quel dentro alle guardie serrare:
- E mise cura solenne in Arcita,
- In rivocar la sua vita smarrita.
- 23
- El fe’ chiamar più medici, e venire
- Nel loco, i qua’ di vin tutto il lavaro,
- E con loro argomenti fer reddire
- A lui il parlar, che l’ebbe molto caro:
- Poi le sue piaghe li fecer coprire
- Di fini unguenti, e tututto il lenzaro,
- E poi ch’alquanto fu riconfortato,
- A seder lì fra lor si fu levato.
- 24
- E con voce non salda umilemente
- Dimandò qual di loro era vittore:
- A cui Teseo rispose tostamente:
- Amico mio, del campo è tuo l’onore.
- Allor diss’egli: adunque la piacente
- Emilia ho guadagnata e ’l suo amore?
- Teseo rispose: si, ecco tua sia;
- Omai ne fa’ ciò che ’l tuo cor disia.
- 25
- A cui e’ disse: se io ne son degno,
- Deh fammi alquanto la sua voce udire,
- A me più cara ch’alcun altro regno,
- E fa’ ch’io possa in le sue man morire:
- Perocchè ancora ferma openion tegno
- Ch’e’ regni neri senza alcun martire
- Visiterò s’i’ la posso vedere,
- O dar l’anima mia al suo piacere.
- 26
- Teseo rispose: cotal parlamento
- Non ha qui loco, chè or non morrai:
- Ecco lei qui al tuo comandamento,
- Con cui vivendo ancor t’allegrerai:
- Ed a lei disse: deh fallo contento
- Di quel ch’ei chiede: deh perchè nol fai?
- Non vedi tu quant’egli ha per te fatto,
- Che è a partito d’esserne disfatto?
- 27
- Emilia più niente disiava,
- Se non onesta potergli parlare,
- E vergognosa così cominciava:
- O signor mio, se vale il mio pregare,
- Confortati, che ’l tuo mal sì mi grava,
- Che appena il posso, lassa, comportare:
- I’ son sempre con teco o dolce sposo,
- Oggi stato per me vittorïoso.
- 28
- Qual i fioretti richiusi ne’ prati
- Per lo notturno freddo, tutti quanti
- S’apron come dal sol son riscaldati,
- E ’l prato fanno co’ più be’ sembianti
- Rider fra le verdi erbe mescolati,
- Dimostrandosi lieto a’ riguardanti;
- Cotal si fece vedendola Arcita,
- Poscia che l’ebbe sì parlare udita.
- 29
- Passata aveva il sol già l’ora ottava,
- Quando finì lo stormo incominciato
- In su la terza, e già sopra montava
- Il pincerna di Giove, permutato
- In luogo d’Ebe, e col cìel s’affrettava
- Il pesce bin di Vener lo stellato
- Polo mostrar: però parve ad Egeo
- D’indi partire, e ’l simile a Teseo.
- 30
- E già Arcita ne volea pregare,
- Quando Teseo comandò che venisse
- Un carro trionfal, che apparecchiare
- Aveva fatto a chiunque vincisse:
- Egli il fe’ molto riccamente ornare,
- Ed Arcita pregò che su vi gisse
- Fino all’ostier, se non gli fosse noia:
- Rispose Arcita, ch’anzi gli era gioia.
- 31
- E certo quando Roma più onore
- Di carro trionfale a Scipïone
- Fece, non fu cotal, nè di splendore
- Passato fu da quello, il qual Fetone
- Abbandonò per soverchio tremore,
- Quando Libra si cosse e Scorpïone,
- Ed e’ da Giove nel Po fulminato
- Cadde, e lì l’ha l’epitaffio mostrato.
- 32
- E benchè fosse ancor molto stordito
- Per la caduta del fiero destriere,
- Non era egli ancor sì indebolito,
- Che non vi stesse bene su a sedere
- Di drappi trionfal tutto vestito,
- E coronato secondo il dovere
- Di verde alloro, e su vi gì con esso
- La bella Emilia sedendogli appresso.
- 33
- Così volle Teseo ch’ella n’andasse,
- Per più piacere al grazïoso Arcita,
- E acciocch’ella ancora il confortasse,
- Se sua sembianza tornasse smarrita
- Per accidente che ’n lui si mutasse:
- Di che Arcita la penosa vita
- Riconfortò non poco, disioso
- Mirando spesso il bel viso amoroso.
- 34
- Cromis ancora tutto quanto armato
- Vi gì, con forte mano i fren reggendo
- De’ cava’, da cui il carro era tirato:
- E gli avversarii, quello antecedendo,
- Girono a piè ma ciascun disarmato:
- E certo non costretti, ma volendo,
- Come gli avea pregati Palemone,
- Ad Arcita per dar consolazione:
- 35
- Bench’ella fosse assai dovuta cosa,
- Ed ab antico ne’ trionfi usata.
- Poi di dietro veniva la pomposa
- Turba de’ suoi, così com’era armata,
- E con sembianza assai vittorïosa;
- E da molti era da ciascun portata
- O spada, o scudo, o mazza, o scuricella
- Bipenne tolta in la battaglia fella.
- 36
- Ed altri ne menavano i roncioni,
- D’onde i signori furon scavallati,
- Coverti tutti, ma con vôti arcioni;
- E ta’ delle altrui armi gieno armati,
- Chi elmo, e chi barbuta, e chi troncioni
- D’altre armadure nel campo trovati;
- E chi toraca e chi carro balteo,
- Secondo che trovar quivi poteo,
- 37
- Ma fra gli altri più nobili davante
- Giva di Palemon tutto l’arnese
- A Marte già botato, e simigliante
- Quel v’era con che Arcita si difese:
- Da’ lati al carro gía gente festante,
- Giovani e donne in abito cortese,
- Con dolci suoni e canti festeggiando
- Diversamente con arte danzando.
- 38
- Questo ordinato, fe’ ’l teatro aprire
- Teseo, e ’n cotal guisa n’usci fore
- Arcita trionfando, al cui venire
- Ciascun faceva mirabile onore:
- E fe’ quell’arme al gran Marte offerire,
- E ringraziollo con pietoso core
- Della vittoria ch’avea ricevuta:
- Poi fe’ dal tempio presta dipartuta.
- 39
- E’ circuì la terra trionfando
- In questa guisa con molta allegrezza,
- La sua Emilia sovente mirando,
- E più che mai lodando sua bellezza:
- E ben mill’anni ognor gli parea quando
- Quella dovesse goder con lietezza:
- E l’avvenuto caso biasimava,
- E seco molto se ne contristava.
- 40
- Ella si giva onesta e vergognosa
- Con gli occhi bassi, da ciascun mirata;
- In guisa tal, qual suol novella sposa
- Per vergogna nel viso colorata:
- A tututti piacente e grazïosa,
- E da ciascuno egualmente lodata:
- E simil era ancora il buono Arcita,
- Bench’egli avesse sembianza smarrita.
- 41
- Nulla persona in Atene rimase,
- Giovane, vecchio, zita, ovvero sposa,
- Che non corresse là coll’ale spase,
- Onde veniva la coppia gloriosa;
- Le vie e i campi e i tetti e le case
- Tutte eran pien di gente letiziosa:
- Ed in gloria d’Arcita ognun cantava,
- E della nuova sposa che menava.
- 42
- E spesse volte le prede mirando,
- Le guaste vesti ed i voti destrieri,
- Li givan l’uno all’altro dimostrando,
- Quel fu, dicendo, del tal cavalieri,
- E questo del cotale; ed ammirando
- Le cose fatte più che volentieri
- Recitavan tra lor che avien vedute
- Il di, com’eran gite, e come sute.
- 43
- Ma ciò che più maravigliar facea,
- E con attenta vista riguardare,
- Era de’ regi la turba lernea,
- Che giva innanzi in abito dispare
- Troppo da quel nel quale andar solea,
- E che ’l mattin si vidon cavalcare:
- Li quali a capo chino e disarmati
- Appiè venien nell’aspetto turbati.
- 44
- E chi bene avvisava Palemone
- Detto averia che el seco dicesse:
- Ben vive ancora l’ira di Giunone
- Ver me: e certo se Giove volesse
- Operar, non porria ch’io di prigione
- O di mortal periglio fuori stesse;
- Ed io vi voglio stare ed avvilirmi:
- Poichè le piace sì di perseguirmi.
- 45
- Molto era ancor mirato disdegnoso
- Minos da chi ’l vedea, ed in dispetto
- Parea la vita avesse, sì stizzoso
- Andando si mostrava nell’aspetto:
- E ’l tessalico Ammeto assai doglioso
- Parie di Febo a lui stato suggetto,
- Si rammarcasse perchè operato
- Aveva bene, ed era mal mertato.
- 46
- Ida ed Evandro ed Alimedonte,
- Ulisse, Diomede, e ciascheduno
- Degli altri ancora con chinata fronte
- Si vedean tutti, e con aspetto bruno,
- Più che se al lito tristo d’Acheronte
- Se ne vedesse per passare alcuno:
- E vie più tristi gli facea il parlare
- Che udieno a circostanti di sè fare.
- 47
- Ne’ colli lor non sonavan catene,
- Perocchè Arcita del tutto pregando
- Le tolse via: ond’essi per Atene
- Disciolti a picciol passo innanzi andando
- Al carro, tristi di sì fatte pene,
- In questo loco ed ora in quel restando,
- Quasi scherniti tutti sì temeano
- Per gli atti delle genti che vedeano.
- 48
- In cotal guisa con alto romore
- D’infiniti strumenti, e di gridare
- Ch’e’ popoli facien lì per onore
- Del grande Arcita e del suo operare,
- Giunsono al gran palagio del signore,
- Ed a lor piacque quivi dismontare;
- E di fuor fatta restar la più gente,
- Gir nella real sala pianamente.
- 49
- Sovr’un gran letto quivi fatto allora
- Posato fu il faticato Arcita,
- Allato a cui Ippolita dimora,
- Bella vie più che gemma margherita,
- E di conforto sovente il rincora
- Con ornata parola e con ardita:
- E ’l simil fa Emilia sua sorella
- Con altre molte, ciascheduna bella.
- 50
- E tutto ciò Palemone ascoltava,
- Che con li suoi in abito dolente
- Davanti al vincitor diritto stava
- Senza alzar occhio, e nella trista mente
- Ogni parola con doglia notava,
- Immaginando che mai per niente
- Pace daria a sè con isperanza,
- Poichè perduta avea sua disianza.
- 51
- Teseo, per pace dare agli affannati
- Re, si levò, e con sereno aspetto
- Con cenni i mormorii ebbe chetati,
- Che quivi eran per doglia o per diletto
- Forse da molti fra sè susurrati,
- E degli onor veduti e del dispetto;
- E con piacevol voce il suo disire
- Incominciò in cotal guisa a dire:
- 52
- Signori, e’ non è nuova la credenza,
- La quale alcuni afferman che sia vera,
- Cioè che la divina provvidenza
- Quando creò il mondo con sincera
- Vista conobbe il fin d’ogni semenza
- Razïonale e bruta che ’n quell’era:
- E con decreto eterno disse stesse
- Quel che di ciò in sè veduto avesse.
- 53
- Se ciò è ver non so, ma se ver fosse,
- Noi siam guidati dal piacer de’ fati,
- La cui potenza sempre mai si mosse
- Col giro eterno delli ciel creati:
- Dunque contra di lor l’umane posse
- In van s’affannano, e sono ingannati
- Chi per senno o per forza contastare
- Volesson contro al loro adoperare.
- 54
- E ciò non dico senza alta cagione,
- Però che oggi la vostra virtute
- Ho rimirata, ed ogni operazione;
- E come date e come ricevute
- Abbiate le percosse, e l’offensione
- Del gridar, senza stordir sostenute:
- E dico certo, che al mio vivente
- Non vidi insieme tanta buona gente.
- 55
- Nè tanto ardita nè con tal fortezza,
- Non saggia d’arme, nè di tanto affanno
- Sostenitrice, nè di tal fierezza,
- Meno infingarda, nè che men di danno
- Mettesse cura; sol che sua prodezza
- Mostrar potesse, siccome e’ buon fanno,
- Com’io ho oggi tutti voi veduti,
- E d’una parte e d’altra conosciuti.
- 56
- Le prodezze de’ qua’ se ad uno ad uno
- Volessi raccontar ben lo saprei,
- Ma troppo sarie lungo, e ciascheduno
- Gli vidde siccom’io, dunque direi
- Ciò che non fa bisogno; ma ognuno
- Per valente uomo al mondo approverei:
- E se ta’ fosser que’ della mia terra,
- Per forza vincerei ogni mia guerra.
- 57
- Perchè se oggi non vi fu donata
- Vittoria, ciò non fu vostro difetto,
- Ma cosa fu avanti assai pensata
- Nel chiaro santo e divino intelletto;
- Il quale Emilia mostra abbi servata
- Al piacevole Arcita, e lui eletto
- Per isposo di lei: di che dovete
- Esser contenti, poi più non potete.
- 58
- Non vi dovete di voi biasimare
- Che non abbiate bene aoperato,
- Ma sol gl’iddii ne dovete incolpare,
- Se degno è ciò ch’egli han diliberato,
- Di potere altra volta permutare,
- Ched e’ non l’hanno per voi permutato;
- Ma credo che deggiate esser contenti
- Al lor piacer, poi di noi sono attenti.
- 59
- Questo ch’è stato non tornerà mai
- Per alcun tempo che stato non sia,
- Però vi prego quanto posso assai,
- Cari amici, per vostra cortesia,
- Che l’abito, che avete pien di guai
- Vestito per dolor, cacciate via,
- E nel pristino stato ritorniate,
- E con noi insieme tutti festeggiate.
- 60
- Liberi siete omai, poich’adempiuto
- Avete del trionfo la ragione:
- Ben vo’ però che fia fermo tenuto
- Ciò che nel bosco dissi a Palemone,
- Il qual dee esser da noi ritenuto,
- E servato ad Emilia per prigione;
- E ella faccia di lui il suo volere
- O poco, o assai, come l’è in piacere.
- 61
- Piacque a costoro il parlar di Teseo,
- Benchè ’n parte non ver tenesser quello:
- Perchè lieto ciascun quanto poteo
- Senza dimoro tornò al suo ostello:
- Quivi d’abito nuovo si rifeo,
- Siccome prima piacevole e bello;
- Ed a cui fu bisogno medicare,
- Fur tosto fatti medici trovare.
- 62
- Gli altri che non curavan di riposo
- Tornaro a corte con fronte cangiata,
- E insieme si rivider con gioioso
- Aspetto, come se fra loro stata
- Non fosse il dì battaglia, e grazïoso
- Sollazzo insieme ciascuna brigata
- Faceva quivi, per amor d’Arcita,
- Che si desse conforto e buona vita.
- 63
- Andonne adunque preso Palemone
- Con tristo aspetto molto umilemente
- Ad Emilia davanti, e ginocchione,
- Con boce e con sembianza assai dolente,
- Disse: madonna, i’ son vostro prigione,
- E sono stato continovamente
- Poich’io vi vidi; fate che vi piace
- Di me, che mai non spero sentir pace.
- 64
- Poichè m’hanno gl’iddii tolta vittoria,
- E voi insieme, in questo dì meschino,
- Troppo mi fia la morte maggior gloria
- Che per lo mondo più viver tapino:
- Perch’io vi prego (se di voi memoria
- Eterna di ben duri, e d’amor fino)
- Dannate me senza indugio alla morte,
- Ch’io la disio, vie più che vita, forte.
- 65
- Con pietoso occhio Emilia riguardava
- Ver Palemone, e ’n piè il fe’ drizzare,
- E le parole sue fiso ascoltava,
- Nè che risponder si sa consigliare;
- Anzi appena le lagrime servava,
- Che nel cor le facea pietà destare:
- Ma dopo alquanto pure in sè dispose
- Di far risposta, e così li rispose:
- 66
- S’io fossi dagl’iddii stata mandata
- Al mondo sol per tua sola speranza,
- In guisa che dal tuo veder levata
- Mi fosse ogni altra lieta dimostranza,
- Mentre fui mia avrei io reputata
- Essere stata soverchia fallanza
- Il non averti amato; chè t’amai,
- Mentre mi si convenne, pure assai.
- 67
- Ma veggio che com’io il santo amore
- Potea sperar di molti giustamente,
- Così molti sperar nel mio valore
- Poteano; ma ad un solo apertamente
- Considerar potean ch’al mio onore
- Mi riserbava della molta gente;
- Il qual qual volle m’ha mandato Iddio,
- E tu tel vedi così ben com’io.
- 68
- E però più alle amorose pene
- Di te conforto non posso donare,
- Nè ’l dei volere, nè a me si conviene,
- Nè ben saria se io ’l volessi fare.
- Ma le greche citta, che tutte piene
- Son di bellezze assai più da lodare
- Ched e’ non è la mia, darti potranno
- Giusto ristoro all’amoroso danno:
- 69
- E te riporre in più lieto disio,
- Che tu non fosti allor che ancor dubbioso
- Istesti di dover divenir mio:
- Dunque di te medesmo sie pietoso,
- Che non intendo d’esser crudel’io;
- Ma poichè se’ cavalier valoroso
- Sotto il giudizio di me incappato,
- Per me sarai in tal guisa dannato.
- 70
- Per me ti fia donata libertate,
- Ed a tua posta lo stare ed il gire;
- E per l’amor che per la mia beltate
- Già di soperchio t’arse nel disire,
- Questo anel porta, che spesse fïate
- Forse di me ti farà sovvenire:
- E pregoti, qualora ten sovviene,
- Pensi d’amare un’altra donna bene.
- 71
- Non si dee creder che valesse poco
- Cotale anel, cui tutta fiammeggiante
- Era la pietra assai vie più che foco:
- Appresso una cintura, simigliante
- A quella per la qual si seppe il loco
- Dove Anfiarao era latitante,
- Lieta gli die’, dicendo: porterai
- Questa a qualunque festa tu sarai.
- 72
- Quinci gli diede una spada tagliente,
- E ricca e bella e d’alto guernimento,
- Ed un turcasso, che nobilemente
- Lavorato era di gran valimento,
- Pien di saette licie veramente,
- Ed uno scitico arco, non contento
- Di poca forza a volerlo tirare;
- Poscia altro dono gli fece arrecare.
- 73
- E ciò fu un destrier maraviglioso,
- Tutto guernito qual si convenia
- A nobil cavaliere e valoroso,
- Con armi, nelle qua’ la maestria
- Di Vulcan superò mastro ingegnoso,
- Ed uno scudo bel quanto potia,
- Con un gran pin delle sue frondi orbato,
- D’un chiaro ferro e forte e bene armato.
- 74
- Ed a lui disse dopo alquanto spazio:
- O valoroso e nobil cavaliere,
- Del mio amore omai dei esser sazio,
- E di qualunque con cotal mestiere
- S’acquista, di sè stesso tristo strazio
- Facendo, quale in questo puoi vedere
- Che è fatto per me, che trista sono
- Per tanto sangue e miserabil dono.
- 75
- Ma perocchè tu dei vie più a Marte
- Che a Cupido dimorar suggetto,
- Ti dono queste, acciò che se in parte
- Avvien che ti bisogni, con effetto
- Adoperar le puoi: esse con arte
- Son fabbricate, che senza sospetto
- Le puoi portare; forse l’aoprerai
- Dove vie più che me n’acquisterai.
- 76
- Prese quel dono Palemone allora,
- E disse: donna, i’ tengo la mia vita
- Tanto più cara che non facev’ora,
- Poich’io da voi la sento gradita,
- Che con migliore agurio ciascun ora
- La guarderò infino alla finita,
- Sperando che nel ciel fermato sia
- Ciò che dite per vostra cortesia.
- 77
- E voi ringrazio pietosa di quella
- Quanto più posso, e del libero stato
- Ch’i’ ho per voi, o mattutina stella,
- Sì grazïosamente racquistato:
- E ciascheduna d’este gioie bella
- M’è più che d’esser del ciel coronato;
- E guarderolla sempre per amore
- Del vostro alto ineffabile valore.
- 78
- Che io aspetti più d’amor saetta
- Per altra donna, questo tolga Iddio:
- Da me amata sarete soletta,
- Nè mai fortuna cangerà il disio:
- S’e’ fati v’hanno per altrui eletta,
- In ciò non posso più contastar io;
- Ma che io v’ami esser non mi può tolto,
- Nè fia mentre sarò in vita volto.
- 79
- Quindi sen gì pensoso a rivestire,
- Ed a lavarsi, ch’era rugginoso
- Tutto, per poscia quivi rivenire;
- E benchè in sè non trovasse riposo,
- Pur s’ingegnò di sua noia coprire,
- E con più lieto viso e grazïoso
- Nell’aula tornò a rivedere
- Il suo diletto, e ’l suo sommo piacere.
- 80
- La donna fu assai quivi lodata
- Da’ circustanti re e da Arcita;
- E ben gli piacque ch’ella avea donata
- A Palemone liberta spedita:
- E similmente ancora fu pregiata
- Di Palemone la risposta ardita,
- Il qual da tutti accolto lietamente
- Fu, ma più da Arcita veramente.
- 81
- Dopo che alquanto si fu riposato
- Arcita ver Teseo cominciò a dire:
- Signore, adempiuto è il tuo mandato
- Con non poco di me grieve martíre;
- E per quel credo d’aver meritato
- Emilïa, e perdono al mio fallire,
- La qual domando, se e’ t’è in piacere,
- Se egli è tempo ch’io la deggia avere.
- 82
- A cui Teseo con voce grazïosa
- Rispose: dolce amico, ciò m’è caro,
- Nè disio tanto nessun’altra cosa;
- E però in quel modo che lasciaro
- A noi i nostri primi, quando sposa
- Essi nell’età lor prima pigliaro,
- Vo’ che solennemente ti sia data,
- Ed in presenza degli re sposata.
- 83
- Adunque li baroni ragunati,
- E sagrificii fatti degnamente,
- Siccome egli erano in quel tempo usati,
- Arcita Emilia grazïosamente
- Quivi sposò, e furon prolungati
- Li dì delle lor nozze, veramente
- In fin che fosse forte e ben guarito:
- E così fu fermato e stabilito.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO DECIMO
- * * *
- ARGOMENTO
- Nel decimo l’uficio funerale
- Fanno li greci re a’ morti loro:
- Teseo chiama Itinon senza dimoro,
- Il qual d’Arcita il mal dice mortale.
- Poi Arcita a Teseo racconta quale
- Dopo la morte sua del suo tesoro
- Il testamento sia; e poi con ploro
- Quasi con Palemon fa altrettale.
- Poscia presente Emilia seco stesso
- Del suo morir si duole, e poi con lei:
- Ed ella dopo lui, porgendo ad esso
- Gli stremi baci con dolenti omei:
- Quindi a Mercurio lita, e piagne appresso,
- Poi l’alma rende agl’immortali iddei.
- 1
- Il gran nido di Leda ogni bellezza
- In molte luci di sè dimostrava,
- E propinqua a sua maggior cortezza
- Tacitamente la notte n’andava,
- Forse due ore vicina all’altezza
- Dov’ella il suo mezzo cerchio toccava:
- Quando da corte i Greci si partiro,
- Ed agli proprii loro ostier reddiro.
- 2
- Ed acciocchè per lor non s’impedisse
- La lieta festa della nuova sposa,
- Anzi che più della notte sen gisse,
- Presa con loro ciascheduna cosa,
- Degna pira di far, ciaschedun disse
- A’ suoi: mentre la gente si riposa
- Piano al teatro grande ve n’andate,
- E quivi con silenzio ci aspettate.
- 3
- E’ morti corpi delli nostri amici
- Tutti con diligenza troverete,
- Ed acciocchè non sien forse mendici
- D’onor di sepoltura, laverete
- Lor tutti quanti, e roghi fate lici,
- Ne’ qua’ con degno onor li metterete,
- Po’ venuti seren: ma chetamente
- Si vuol far ciò, che nol senta la gente.
- 4
- Mossersi allor co’ lumi i servidori,
- E ’n verso il gran teatro se n’andaro;
- E, come avien comandato i signori,
- Li morti corpi tutti ritrovaro,
- E que’ con odoriferi liquori,
- E con lacrime molte ancor lavaro:
- Poi fatte pire per sè a ciascheduno,
- Sopra catune d’esse poser uno.
- 5
- Vennervi i regi, e la turba dolente
- Con tristo suono fu apparecchiata,
- Ed intorniarle tutte con lor gente;
- E poi ch’egli ebber ciascuna onorata
- E d’arme e di grillande e di lucente
- Porpora, fu la tromba comandata
- A sonare, e dier voce ai tristi guai
- De’ dolenti, che quivi erano assai.
- 6
- Allora i regi addimorati un poco,
- Dentro alle pire fatte con dolore
- Al morto suo ciascuno accese il foco,
- E poi a Giove Stigïo di core
- Fer sagrificio, acciocchè in pio loco
- Ponesse que’ che per lo lor valore
- Erano il giorno morti combattendo,
- L’anime lor per altrui offerendo.
- 7
- I grossi fuochi e grandi e bene ardenti
- Consumar loro i corpi lor donati;
- Li qua’ con vino dalle greche genti
- Pietosamente fur mortificati:
- E ricolte le ceneri cadenti,
- Ne’ vasi furon messe apparecchiati
- Con mano pia e con dolente verso,
- Durante ancora assai del tempo perso.
- 8
- E quante Niobe in Sifilone,
- Allorchè i figli di Latona fero
- Vendetta della sua alta orazione,
- Ne portò urne, ed ivi in sasso vero
- Si trasmutò, cotante è openione
- Di quivi al tempio del gran Marte altero
- Segnate gisser del nome di quelli,
- Le ceneri de’ quai fur messe in elli.
- 9
- Poi ricercarono i lasciati ostieri,
- Siccome bisognosi di riposo,
- E a dormire i regi e’ cavalieri,
- E qualunque altro, al tempo tenebroso,
- Tutti quanti ne giro volentieri,
- Infino al nuovo giorno luminoso:
- Quindi levati a corte ritornaro,
- Dove Teseo levato già trovaro.
- 10
- Tutti li Greci i quali avien difetto
- Eran con somma cura medicati,
- E lor donato sollazzo e diletto,
- E ne’ bisogni lor bene adagiati:
- Talchè di morte e d’ogni altro sospetto
- Furono in pochi giorni liberati;
- E come prima si rifecer sani
- Così i cittadin come gli strani.
- 11
- Ma solo Arcita non potea guarire,
- Tanto era rotto dentro pel cadere:
- Fevvi Teseo il grande Ischion venire
- D’Epidauro, ed Arcita vedere,
- Il qual si mise segreto a sentire
- Del mal che Arcita in sè potesse avere;
- E senza fallo se n’avvide tosto
- Come Arcita dentro era disposto.
- 12
- Perchè a Teseo rispose di presente
- In cotal guisa: nobile signore,
- Il vostro Arcita è morto veramente,
- Nè luogo ci ha di medico valore:
- Giove potrebbe in vita solamente
- Servarlo, se volesse, ch’è maggiore
- Che la Natura, e puote adoperare
- Assai più che Natura non può fare.
- 13
- Ma lasciando i miracoli in lor loco,
- Io dico ch’Esculapio non varrebbe
- Per sanità di lui molto nè poco;
- Nè ’l chiaro Apollo ancora, che tutta ebbe
- L’arte con seco, e seppe il ghiaccio e ’l foco
- E l’umido e ’l calore, e che potrebbe
- Ciascun’erba o radice: però ch’esso,
- Per lungo e per traverso è dentro fesso.
- 14
- Dunque fatica per sua guarigione
- Saria perduta, per quel ch’io ne senta:
- Fategli festa e consolazione,
- Sicchè ne vada l’anima contenta
- Il più si può in l’eterna prigione,
- Dove ogni luce Dite tiene spenta,
- E dove noi di dietro a lui andremo
- Quando di qua più viver non potremo.
- 15
- Molto cotal parlar dolse a Teseo,
- Perocchè Arcita sommamente amava;
- Ed a chi questo udiva il simil feo,
- Perciocchè ognuno alte cose sperava
- Della sua vita, se ’l superno Iddeo
- Vivo nelle parti attiche il lasciava:
- Nè sapevan di ciò nulla che farsi,
- Se non ciascun di Giove lamentarsi.
- 16
- Adunque ciascun giorno peggiorando,
- Il buon Arcita in sè si fu accorto
- Che ’l suo valor del tutto gía mancando,
- E che senza alcun fallo egli era morto:
- Nè di ciò trarre il potea ragionando
- Alcun giammai, e dandogli conforto:
- Perchè volle di sè ciò che potesse
- Disporre, sol che al buon Teseo piacesse.
- 17
- E fello a sè senza indugio chiamare,
- E cominciò con lagrime ver lui
- Pietosamente in tal guisa a parlare:
- O nobile signor caro, ed a cui
- Mille volte morendo meritare
- L’onor, del qual giammai degno non fui,
- Nè potre’ mai, i’ mi veggio venire
- Al passo, il qual nessun uom può fuggire.
- 18
- Al qual s’io vegno, che vi son, contento
- Ne vado, mal pensando che l’amore,
- Il qual m’ha dato già tanto tormento
- Per la giovane donna, che nel core
- Ancora come mai per donna sento,
- Lascio infinito, e te, caro signore,
- Cui io appresso lei più disiava
- Servir, che Giove, e più mi dilettava.
- 19
- Ma più non posso, e farlo mi conviene:
- Perch’io ti prego, per ultimo dono,
- Se lungamente Iddio ti guardi Atene,
- Che, poi del mondo dipartito sono,
- E sarò gito a riguardar le pene
- De’ miseri che pregan per perdono,
- Quel che dirò tu facci sia fornito,
- Se tu da Marte sempre sia udito.
- 20
- Signor, tu sai che poi che di Creonte
- Il giusto Marte ti diede vittoria,
- Io che con lui t’era uscito a fronte
- Per prigion preso fui, della tua gloria
- Piccola parte, e certo non isponte,
- E Palemone ancor, come a memoria
- Esser ti dee, li qua’ festi guardare,
- Forse temendo del nostro operare.
- 21
- Ma poichè quindi fummo liberati,
- Per tua bontà e per tua cortesia,
- Li nostri ben, donde eravam privati,
- Ci fur renduti, e ogni baronia,
- Come ti piacque, avemmo, ed onorati
- Fummo quali eravam giammai in pria,
- De’ quali a Palemon tutta mia sorte
- Ti prego doni, appresso la mia morte.
- 22
- Similemente ancor t’è manifesto
- Quanto amor m’abbia per Emilia stretto;
- Il quale al tuo servigio sol per questo
- Ad esser venni, nè ciò che sospetto
- Mi dovea esser non mi fu molesto;
- Anzi con fè serviva e con diletto;
- Nè credo mai ti trovassi ingannato
- Di cosa che di me ti sia fidato.
- 23
- El m’insegnò a divenire umile:
- Esso mi fe’ ancor senza paura:
- Esso mi fe’ grazïoso e gentile:
- Esso la fede mia fe’ santa e pura:
- Esso mostrò a me che mai a vile
- I’ non avessi nulla creatura:
- Esso mi fe’ cortese ed ubbidiente:
- Esso mi fe’ valoroso e potente.
- 24
- Tanto mi diede ancor di pronto ardire,
- Che sotto nome stran nelle tue mani
- Mi misi a rischio di dover morire:
- E certo a ciò non mi furon villani
- Gl’iddii, anzi facevan ben seguire
- I miei pensieri interi e tutti sani:
- Nè mi vergogno che in tuo onore
- Io ti sia stato lungo servitore.
- 25
- Febo si fece servitor di Ammeto,
- Mosso da quella medesma cagione
- Che io mi mossi, e sì dolce e quieto
- Servì, ch’egli ebbe la sua intenzione:
- E certo io il seguiva mansueto,
- Se el non fosse stato Palemone,
- Nè dubito che ciò ch’io disiava
- M’avessi dato, s’io mi palesava.
- 26
- Or così va, e non si può stornare
- Ciò che è stato: ond’io sono a tal punto
- Qual tu mi vedi, e sentomi scemare
- Ognor la vita, e già quasi consunto
- Del tutto son, nè mi posso aiutare:
- A tal partito m’ha or amor giunto,
- A cui ho io servito il tempo mio
- Con pura fede e con sommo disio.
- 27
- Nè ’l merito di ciò che io attendea
- Goder non posso, benchè mi sia dato:
- Veggio di me che ciascun fato avea,
- Che così fosse, in sè diliberato,
- E che del mio servir voglion ch’io stea
- Contento, che per merito onorato
- Istato sia della data vittoria,
- Che a’ futuri fie sempre in memoria.
- 28
- Ed io perciò che più non posso avante,
- Voglio aver questo per buon guiderdone:
- E quel che fu così com’io amante,
- E la sua vita ha messa in condizione
- Di morte, e di periglio simigliante
- A me, io dico del buon Palemone,
- Dell’amor suo per merito riceva
- La donna ch’io per mia aver doveva.
- 29
- Io te ne prego per quella salute
- Che tu a lui ed a me parimente
- Donasti già, e per la tua virtute
- Nota agl’iddii ed all’umana gente,
- E per l’opere tue, che conosciute
- Sono e saranno al mondo eternalmente,
- E per la fede che io ti portai,
- Mentre nel tuo servigio i’ dimorai.
- 30
- Questa mi fia tra l’ombre gran letizia,
- Che Palemone, cui molt’amo, sia
- Tratto per me d’amorosa tristizia,
- Possedendo egli ciò che più disia:
- Pensando ancora ch’egli abbia dovizia
- Di ciò ch’egli ama, per tua cortesia,
- Almeno Emilia mentre fia in vita,
- Vedendo lui, avrà a mente Arcita.
- 31
- E questo detto, forte sospirando,
- Tacque, cogli occhi alla terra bassati,
- Tacito seco stesso lagrimando,
- Nè quelli ardiva di tener levati:
- Onde Teseo un poco attese, e quando
- Vide ch’e’ suoi parlari eran posati,
- Quasi piangendo, assai di lui pietoso,
- Disse così con viso doloroso:
- 32
- Tolgan gl’iddii, Arcita, amico caro,
- Che Lachesis il fil poco tirato
- Ancora tronchi, e cessi questo amaro
- Dolor da me, se io l’ho meritato,
- Che non si dia a tua vita riparo;
- E già in ciò Alimeto ha pensato
- Insiem con Ischion, e sì faranno,
- Che vivo e sano a noi ti renderanno.
- 33
- Ma pur se degl’iddii fosse piacere
- Di torti a me, che più che luce t’amo,
- A forza ciò ne converrà volere,
- Perocchè isforzargli non possiamo:
- Ciò che m’hai detto puoi certo sapere,
- Che poi ti piace, siccome te ’l bramo,
- E senza fallo tutto e’ fie fornito
- Se tu venissi a sì fatto partito.
- 34
- Ma tu come sì forte ti sgomenti?
- Pensando che così notabil cosa,
- Com’è Emilia, che farie contenti
- Qualunque iddii, di tè tanto amorosa
- Si fa vedere, e’ suoi occhi lucenti
- Pur te disian con vista lagrimosa,
- Ed essa è tua: deh prendi pur conforto,
- Che ancor verrai a grazïoso porto.
- 35
- Ben ci ha da render allo guiderdone
- Delle fatiche da lui ricevute,
- I’ dico al tuo amico Palemone,
- Del quale a me domandi la salute:
- Sol che tu sani, io ho opinione
- Di porvi in parte, per vostra virtute,
- Dove di voi tra voi ancor sarete
- Contenti sì, che lieti viverete.
- 36
- Arcita nulla a questo rispondea,
- Sì lo strigneva l’angoscia d’amore,
- Ed il suo stato assai ben conoscea,
- Posto che i conforti del signore
- Divoto udisse quanto più potea:
- E già l’ambascia s’appressava al core
- Della misera morte; onde si volse
- In altra parte, ed a Teseo si tolse.
- 37
- E poi ch’e’ fu alquanto dimorato
- Senza mostrare o dire alcuna cosa,
- Com’era in prima si fu rivoltato,
- E ’n voce rotta assai ed angosciosa
- Prega che Palemon li sia chiamato
- Anzi ch’e’ lasci esta vita noiosa:
- Il qual lì venne senza dimorare
- Con altri molti per lui visitare.
- 38
- Il qual poi vide innanzi a sè venuto,
- E rimirato l’ebbe lungamente
- Con luce aguta, quasi conosciuto
- Pria non l’avesse, con voce dolente
- Disse: Palemone, egli è voluto
- Nel ciel che qui più i’ non ne stia niente:
- Però innanzi il mio tristo partire
- Veder ti volli, toccare ed udire.
- 39
- Tanto m’ha sempre avversato Giunone
- Che del seme di Cadmo solo Arcita
- N’è conosciuto, e tu, o Palemone:
- Or mi conviene angosciosa partita
- Da te parente amico e compagnone
- Far, poi le piace, che alla mia vita
- Stata è invidiosa, allor ch’ella potea
- Più contentarla, se ella volea.
- 40
- In quella entrata ch’io doveva fare
- Ad esser degli suoi raccomandati,
- Fa ella il mondo lieto a me lasciare,
- Per congiungermi a’ nostri primi andati:
- Or m’avesse ella pur lasciato entrare
- Per tre giornate ne’ suoi disiati
- Luoghi, ed appresso in pace avria sofferto
- Ch’ella m’avesse morto, ovver diserto.
- 41
- Non l’è piaciuto, ed io non posso avanti:
- Dunque tu solo, che a me se’ rimaso
- Del sangue altiero degli avoli tanti,
- Quando verrà il doloroso caso
- Ch’io lascerò la vita e tristi pianti,
- Gli occhi, e la bocca e l’anelante naso,
- Pregoti che mi chiudi, e facci ch’io
- Tosto trapassi d’Acheronte il rio.
- 42
- E perchè tu, siccome io, amato
- Hai lungamente Emilia grazïosa,
- Io ho Teseo a mio poter pregato
- Che la ti doni per eterna sposa:
- Pregoti che da te non sia negato,
- Perchè tu sappi che di me pietosa
- Ella sia stata, ed a me porti amore,
- Ch’ella ha suo dover fatto e suo onore.
- 43
- E giuroti per quel mondo dolente,
- Al quale io vado senza ritornata,
- Ch’a dire il ver giammai al mio vivente
- Di lei niuna cosa t’ho levata,
- Se non forse alcun bacio solamente;
- Sicchè tal’è qual tu te l’hai amata:
- Onde ti prego, per tua cortesia,
- Che tu la prenda e che cara ti sia.
- 44
- E lei con quell’amor che tu solevi
- Portarle più ch’ad altra creatura,
- S’egli era vero ciò che mi dicevi,
- Onora e guarda, e sì d’operar cura,
- Che ’l tuo valore usato si rilevi
- A ricrear la nostra fama oscura,
- Per lo dolente seme ch’è già spento,
- S’a rilevarlo non dai argomento.
- 45
- Certo quest’è manifesta cagione
- Che ciaschedun dell’operato affanno
- Ricever deggia degno guiderdone:
- Dunque sarà per merito del danno
- Che hai già avuto, e desolazione,
- Com’io so, ed ancor molti sanno,
- Ricever lei, che credo più che ’l regno
- Di Giove l’avrai cara, e senne degno.
- 46
- E s’ella forse, per la morte mia,
- Pietosa desse alcuna la grimetta,
- Sì la raccheta che contenta sia;
- Perocchè la sua vista leggiadretta
- Fatt’ha l’anima mia di lei sì pia,
- Che ’l riso suo più me che lei diletta,
- E così il pianto suo più me contrista,
- Onde io mi cambio com’è la sua vista.
- 47
- In questa guisa, se l’anima sente
- Po’ la morte del corpo alcuna cosa
- Di queste qua, tra la turba dolente
- Andrà con più d’ardire e men dogliosa
- E questo detto, più oltre niente
- Allora disse; d’onde con pietosa
- Sembianza e voce appresso Palemone
- Incominciò così fatto sermone:
- 48
- O luce eterna, o reverendo onore
- Del nostro sangue, o poderoso Arcita,
- S’egli non è in te spento il valore
- Usato, aiuta la tua cara vita
- Con conforto, sperando che ’l signore
- Del ciel soccorre a chi sè stesso aita:
- Nè far ragion che ’n giovinetta etade
- Atropos ora pigli potestade.
- 49
- Cessin gl’iddii che io ultimo sia
- Di tanto sangue, se tu te ne vai,
- Nè che Emilia mai diventi mia:
- Tu l’acquistasti, e tu per tua l’avrai;
- Nè l’ufficio che chiedi fatto fia
- Colla mia man, per mia voglia giammai,
- Ma la tua prole e tu gli chiuderete
- A me, e sopra me vivi sarete.
- 50
- Arcita disse: e’ fie com’io t’ho detto:
- Il che s’avvien, ti prego quant’io posso,
- Che il mio disio in ciò mandi ad effetto,
- E questo sia, ogni altro affar rimosso;
- Così disio, così mi fie diletto,
- Così d’ogni gravezza sarò scosso:
- E quinci tacquero amendue piangendo,
- E ch’ivi stava ancor pianger facendo.
- 51
- A cotal pianto Ippolita piacente
- Vi sopravvenne ed Emilia con lei;
- E quando vidon sì pietosamente
- Pianger gli achivi e gli duci dircei,
- D’Arcita dubitarono, e dolente
- Ciascuna domandò li re lernei,
- Che era ciò che i Teban piangieno,
- E tutti loro ancor pianger facieno.
- 52
- E fu lor detto: ond’ognuna di loro
- Più ad Arcita si fecero appresso,
- E cominciaron, senza alcun dimoro,
- A ragionar di più cose con esso,
- Ed a dargli conforto con costoro
- Insieme, che eran lì venuti adesso:
- Ed egli alquanto prese d’allegrezza,
- Poichè d’Emilia vide la bellezza.
- 53
- E poi ch’Arcita l’ebbe rimirata
- Con occhio attento, siccome potea,
- Ed ebbe bene in sè considerata
- La gran bellezza che la donna avea,
- Cominciò con sembianza trasmutata
- A parlare in tal guisa qual potea,
- Premessi avanti dolenti sospiri,
- Caldo ciascun d’amorosi disiri.
- 54
- Piangemi amor nel doloroso core
- Là onde morte a forza il vuol cacciare;
- Nè vi può star, nè uscire ne può fuore,
- Sì ch’io il sento in me rammaricare
- Con pianti, e con parole di dolore
- Accese più che non potrei narrare:
- In forma che di sè mi fa pietoso,
- Ed oimè lasso, oltre ’l dover noioso.
- 55
- Gli spiriti visivi assai sovente
- Mostrano a lui l’angelica figura,
- Per la qual’esso nel core è possente,
- Dicendo: deh fia tal nostra sciagura,
- Che ci convenga teco insiememente
- Abbandonar sì nobil creatura?
- Esso risponde loro, e sì gli abbraccia,
- Dicendo: si, che morte me ne caccia.
- 56
- Io me ne vo coll’anima smarrita,
- La quale io presi col piacer di quella
- Che da voi è nel mondo più gradita;
- Dunque nelle sue man ricevam’ella
- Quando farò la dogliosa partita
- Dalla presente vita tapinella:
- E questo detto, forte lagrimando,
- Gli occhi bassò in terra riguardando.
- 57
- Queste parole gli angelici aspetti
- Di quelle donne conturbavan molto,
- E con dolore offendevano i petti
- Dilicati, in maniera che nel volto
- Si parie loro: e ben sentieno i detti
- Qual’erano, e che fosse in lor raccolto,
- E ben l’occulta morte conoscieno
- Nel viso a lui che già veniva meno.
- 58
- Perchè Emilia disse: o signor mio,
- Poscia che tu del viver ti disperi,
- Deh dimmi, o lassa, e come farò io?
- I’ ne verre’ con teco volentieri,
- E già questo appetisce il mio disio,
- Perch’io non so che fuor di te mi speri:
- Tu solo eri il mio ben, tu la mia gioia,
- E senza te non spero altro che noia.
- 59
- A cui rispose Arcita: bella amica,
- Prendi conforto, e del mio trapassare
- Non prender nel tuo animo fatica,
- Ma per amor di me di confortare
- Ti piaccia: se giammai cosa ch’io dica
- Intendi nel futuro d’operare,
- I’ ho trovato, a tua consolazione,
- Modo assai degno e con giusta ragione.
- 60
- Palemon caro e stretto mio parente
- Non men di me t’ha lungamente amata,
- E per lo suo valor veracemente
- È più degno di me che isposata
- Li sii, e questo vede tutta gente:
- Chè posto che vittoria a me donata
- Fosse l’altr’ier, non fu già dirittura,
- Ma solo fu la sua disavventura.
- 61
- Di che gl’iddii errarono, e per certo
- Credetter lui atare, e me ataro;
- Ma poi che ’l loro error fu discoperto,
- Ciò che avien fatto indietro ritornaro,
- E me recaron a sì fatto merto,
- Qual ora piango con dolore amaro,
- Acciocchè tu ti rimanessi ad esso,
- Com’essi avien diliberato espresso.
- 62
- Ed io che tu sii sua me ne contento
- Più che d’altrui, poi esser non puoi mia:
- Ferma in lui il tuo intendimento,
- E quel pensa di far che el disia;
- Ed io son certo ch’ogni piacimento
- Di te per lui sempre operato fia:
- Egli è gentile, bello e grazïoso,
- Con lui avrai e diletto e riposo.
- 63
- Io muoio, e già mi sento intorno al core
- Quella freddezza che suole arrecare
- Con seco morte; ed ogni mio valore
- Senza alcun dubbio in me sento mancare:
- Però quel ch’io dico, per amore
- Farai, poi più non posso teco stare:
- I fati t’hanno riserbata a lui;
- Me’ sarai sua, non saresti d’altrui.
- 64
- Ma non pertanto l’anima dolente,
- Che se ne va per lo tuo amor piangendo,
- Ti raccomando, e pregoti che a mente
- Ti sia tutt’ora, mentre ch’io vivendo,
- Qui starà sotto del bel ciel lucente,
- A te contenta la verrò traendo:
- Ch’i’ me ne vo, nè so se tu verrai
- Là dove i’ sia, ch’i’ ti riveggia mai.
- 65
- Gli ultimi baci solamente aspetto
- Da te, o cara sposa, i qua’ mi dei;
- Ti prego molto; questo sol diletto
- In vita omai attendo, ond’io girei
- Isconsolato con sommo dispetto,
- Se non gli avessi, e mai non oserei
- Gli occhi levar tra’ morti innamorati,
- Ma sempre gli terrei fra lor bassati.
- 66
- Fatti erano i begli occhi rilucenti
- D’Emilia due fontane lagrimando,
- E fuor gittando sospiri cocenti,
- Del suo Arcita il parlare ascoltando:
- E ben vedeva per chiari argomenti
- Che, com’egli dicea, venía mancando;
- Perch’ella in voce rotta ed angosciosa
- Così rispose tutta lagrimosa.
- 67
- O caro sposo a me più che la vita,
- Non verso te son crucciati gl’iddii:
- Io sola son cagion di tua partita:
- Io nocevole sono a’ tuoi disii.
- Quest’è vecchia ira incontro a me nutrita
- Ne’ petti lor siccome già sentii,
- Li qua’ del tutto lo mio matrimonio
- Negano, ed io ne veggio testimonio.
- 68
- Il gran Teseo m’avea serbata a Acate,
- Col quale io giovinetta mi crescea:
- Bello era e fresco nella sua etate,
- E nelli primi amori assai piacea
- A me: ma la mal nata crudeltate,
- Che ha contro il nostro sangue Citerea,
- Nel tolse, già al maritar vicina,
- Benchè io fossi ancora assai fantina.
- 69
- Questa non sazia del primo operare
- Contra di me, or le veggendo mio,
- Similemente mi ti vuol levare:
- Adunque non t’uccide altri che io;
- Io, lassa, colpa son del tuo passare:
- Il mio agurio tristo e ’l mio disio
- Ti noccion, lassa, ed io rimango in pene
- Ed in tormento, non qual si convene.
- 70
- Oimè! sopra di me ne andasse l’ira
- Che altrui nuoce, per la mia bellezza:
- Che colpa ci ha colui che me disira,
- Se la spietata Vener mi disprezza?
- Perch’ora contra te diventa dira?
- Perchè in te discopre sua fierezza?
- Maledetta sia l’ora ch’io fui nata,
- Ed a te prima giammai palesata.
- 71
- O bello Arcita mio, senza ragione
- Or foss’io morta il dì che in questo mondo
- Venni, poi ti doveva esser cagione
- Di morte, e torti di stato giocondo:
- Donde giammai sentir consolazione
- Non credo in me, ma sempre di profondo
- Cor mi dorrò dopo la tua partita,
- Se dietro a te rimango, caro Arcita.
- 72
- Ora conosco i dolorosi ardori
- Che oscuri mi mostrò l’altr’ier Diana:
- Or so qual fosser l’aure che di fuori
- N’uscir con vista e con voce profana,
- E quel che della fiamma li furori
- A me mostravan con mente non sana:
- Chè se allor conosciuti gli avessi,
- Non credo come stai, tu ora stessi.
- 73
- Io mi sarei dolorosa parata
- A te allor ch’al teatro ne gisti,
- E di pietà e d’amor colorata
- Avrei voltati li tuoi passi tristi,
- E la dolente battaglia sturbata,
- Per la qual morte per me ora acquisti:
- Ma io non gli conobbi; anzi sperai
- Tutto ’l contrario di ciò che tu hai.
- 74
- Or più non posso; ond’io morrò dogliosa;
- Nè so veder che di morir mi tene,
- Vedendo, o sposo, tua vita angosciosa
- Istar per me, ed in cotante pene;
- Oimè isventurata, dolorosa,
- Quanto mal vidi, e tu ancora Atene,
- E quanto mal per te mi riguardasti
- Il giorno che di me t’innamorasti.
- 75
- Oimè che i fiori che allora coglieva,
- E ’l canto, anzi fu pianto, ch’io cantava,
- Erinni, lassa, tutto ciò moveva;
- Ed io il sentii, che talora tremava
- Pavida, e la cagion non conosceva,
- Nè le future cose immaginava:
- Or le conosco, che son nel periglio,
- Nè posso ad esse porre alcun consiglio.
- 76
- Ed ora, caro sposo, mi comandi
- Che tu mancato, i’ prenda Palemone?
- Certo le tue parole mi son grandi,
- E debbo quelle per ogni ragione
- Servar, più che gli eccelsi e venerandi
- Iddii ch’ora m’offendon, nè cagione
- Non n’hanno; ed io così le serveraggio
- In quella guisa che io ti diraggio.
- 77
- Io so che Palemon m’ha tanto amata
- Quant’uom gentil nessuna donna amasse;
- Di che io non gli voglio essere ingrata,
- Ed eziandio se Giove il comandasse:
- Chiaro conosco che a chiunque data
- Fossi, se esso di grazia abbondasse
- D’ogni vivente, ch’io nel priverei,
- Tanto gli angurii miei conosco rei.
- 78
- E s’io a te son or cagion di morte
- E ad Acate fui, l’aver nociuto
- Al mondo tanto assai gravosa sorte
- M’è a pensar; nè quinci spero aiuto
- Che possa sostener mia vita forte,
- Che poi lo spirto tuo sarà partuto
- Che dietro a te, per soperchio dolore,
- Io non ne venga seguendo ’l tuo amore.
- 79
- E se pur fia la mia disavventura
- Di vivere oltre a te, non vo’ donare
- A Palemone della mia sciagura,
- Là dove esso per fedele amare
- Ha meritato; ma sola mia cura
- Ne’ boschi fie Diana seguitare,
- E ne’ suoi templi vergine vestita
- Serverò sempre mai celibe vita.
- 80
- E se Teseo vorrà pur che io sia
- D’alcuno sposa, agl’inimici sui
- Mi mandi, acciò che la sciagura mia
- Ad essi noccia, e sia utile a lui:
- E Palemon è tal, che s’el disia
- D’avere sposa e’ troverà altrui
- Che gli sarà più non sare’ i’ felice:
- E ciò il cor manifesto mi dice.
- 81
- Gli stremi baci, oimè, li qua’ dolente
- Mi cerchi, ti darò volonterosa,
- E prenderogli ancora parimente
- A mio poter, dopo li qua’ mai cosa
- Non fia ch’io baci più certanamente:
- Ma la mia bocca sempre, come sposa
- Di te, co’ baci che le donerai,
- Guarderò mentre in vita sarò mai.
- 82
- E quinci quasi furïosa fatta,
- Piangendo con altissimo romore,
- Sopra lui corse in guisa d’una matta,
- Dicendo: caro e dolce mio signore,
- Ecco colei che per te fie disfatta,
- Ecco colei che per te trista more,
- Prendi li baci estremi, dopo i quali
- Credo finire i miei eterni mali.
- 83
- E pose il viso suo su quel d’Arcita,
- Palido già per la morte vicina,
- Nè ’l toccò prima, ch’ella tramortita
- In su la faccia cadde risupina:
- Ma poi appresso si fu risentita,
- Piangendo cominciò: oimè tapina,
- Son questi i baci che io aspettava
- Da Arcita, il quale più che me amava?
- 84
- Alle nimiche mie cotal baciare,
- O dispietati iddii, sia riserbato.
- Arcita, che nel ciel esser gli pare,
- Il bianco collo teneva abbracciato,
- Dicendo: omai non credo male andare,
- Tal viso al mio ho sentito accostato:
- Qualora piace omai all’alto Giove
- Di questa vita mi tramuti altrove.
- 85
- Quivi era sì gran pianto e sì doglioso
- Di donne di signori e d’altra gente,
- Che vedean questo, onde ciascun pietoso
- Era assai più che distretto parente:
- Che non si crede sì fosse noioso
- Allor che Febo si mostrò dolente,
- Tornando addietro nel tempo che Atreo
- Mangiar i figli al suo Tieste feo.
- 86
- Ed essa allora, siccom’esso volle,
- E come volle Ippolita, drizzossi,
- E sè e lui aveva tutto molle
- Di lagrimari da’ begli occhi mossi,
- Nè più nè men come il Menalo colle
- Quando che d’Ariete riscaldossi,
- E consumata sua veste nevosa,
- Mostrò la faccia sua tutta guazzosa.
- 87
- E quel dì tutto quanto si posaro,
- Senza più rinnovare altro dolore;
- Benchè nel cor l’avessono sì amaro,
- Quanto potea esser più a tutte l’ore:
- E con parole assai riconfortaro
- Emilia e Arcita, e il furore
- Lor temperaron con soavi detti,
- Lena rendendo a’ desolati petti.
- 88
- Nove fïate s’era dimostrato
- Il sole, ed altrettante sotto l’onde
- D’Esperia s’era col carro tuffato,
- Poi si mutaron le cose gioconde
- Per lo cader di Arcita in tristo stato,
- Quando nel tempo che tutto nasconde,
- D’Emilia avendo il dì i baci avuti,
- Parlò Arcita a’ suoi più conosciuti:
- 89
- Amici cari, io me ne vo dicerto,
- Perch’io vorrei a Mercurio litare,
- Acciò che esso, per sì fatto merto,
- In luogo ameno piacciagli portare
- Lo spirto mio, poi che gli fia offerto;
- E vorrei questo domattina fare:
- Però vittime, legni ed olocausti
- M’apparecchiate a lui decenti e fausti
- 90
- Palemon ch’era a questo dir presente,
- Come quel che da lui mai non partia,
- Fe’ apprestar tutto ciò immantenente
- Che a cotal meslier si convenia;
- E sangue e latte nuovo di bidente
- Gregge e d’armenti, quali all’ara pia
- Si richiedean di così fatto Iddio,
- Per adempire d’Arcita il disio.
- 91
- Il giorno venne oscuro e nebuloso;
- E questi Febo s’avea messi avanti
- Al viso, acciocchè ’l morire angoscioso
- D’Arcita non vedesse i tristi pianti
- D’Emilia bella, a’ qual assai pietoso
- Si mostrò il giorno, gli suoi luminanti
- Raggi celando in fra le nebbie iscure,
- Vedendo chiaro le cose future.
- 92
- Allora l’ara fu apparecchiata,
- E’ fuochi accesi, e gl’incensi donati,
- E ciascun’altra offerta a ciò parata,
- E’ sacerdoti i versi ebber cantati
- Con voce assai dall’altre trasmutata,
- E’ fumi furon tutti al cielo andati:
- Arcita piano incominciò a dire
- In guisa tal che si potè sentire:
- 93
- O caro Iddio di Proserpina figlio,
- A cui stà via l’anime portare
- De’ corpi, e quelle, secondo il consiglio
- Che da te prendi, le puoi allogare;
- Piacciati trarmi di questo periglio
- Soavemente per le tue sante are,
- Le quali ancora calde per me sono,
- Che a te in su quelle offersi eletto dono.
- 94
- E quinci me in tra l’anime pie,
- Le qua’ sono in Eliso, mi trasporta;
- Chè se tu miri ben l’opere mie,
- Non m’hanno fatto dell’aura morta
- Degno, siccome fur l’anime rie
- De’ miei maggiori, a’ qua’ crudele scorta
- Fece Giunone adirata con loro,
- Con ragion giusta a lor donando ploro.
- 95
- Io non uccisi il sagrato serpente
- Allato a Marte ne’ campi dircei,
- Come fe’ Cadmo, della nostra gente
- Avol primario; nè nelli baccei
- Sagrificii tolsi fieramente
- La vita al mio figliuol, come colei
- Che dopo il danno riconobbe il fallo,
- Nè potè poi con lagrime emendallo.
- 96
- Nè siccome Semele in ver Giunone
- Mai operai, nè sì come Atamante
- Contra la prole divenni fellone:
- Nè il mio padre uccisi, nè amante
- Della mia madre fui, la nazïone
- Nel sen materno indietro ritornante
- Siccome Edippo; nè i miei frati uccisi,
- Nè mai regno occupai, nè mal commisi.
- 97
- Nè di Creonte l’aspra crudeltate
- Mi piacque mai, nè in altrui l’usai:
- E s’arme furon già per me pigliate
- Incontro a Palemon, male operai,
- Ed io ben n’ho le pene meritate:
- Ma certo i’ non le avrei prese giammai,
- Se esso non m’avesse a ciò recato;
- Perch’era siccom’io innamorato.
- 98
- Dunque tra’ neri spiriti non deggio,
- O pio Iddio, ciò credo, dimorare,
- E del ciel non son degno, ed io nol cheggio,
- E’ m’è sol caro in Eliso di stare:
- Di ciò ti prego, e di ciò ti richeggio,
- Se esser può che tu mel deggi fare:
- So che ’l farai, se così se’ pio
- Come suogli esser, venerando Iddio.
- 99
- Detto ch’ebbe così, con più dogliosa
- Voce parole mosse, dove stava
- Ippolita ed Emilia valorosa;
- E i greci re e ciascuno l’ascoltava,
- E Palemon con anima angosciosa,
- Tanto del tristo caso gli pesava:
- Ed esso con parola vinta e trista
- Disse così con dolorosa vista.
- 100
- Or mancherà la vita, ora il valore
- A’ Arcita finirà, ora avrà fine
- L’acerbo inespugnabile suo amore;
- Ora vedrà d’Acheronte vicine
- Le triste ripe, ora saprà il furore
- Delle nere ombre, misere tapine;
- Ora se ne va Arcita innamorato
- Del mondo a forza sbandito e cacciato.
- 101
- Ahi lasso me, che l’eta giovinetta
- Lascio sì tosto, in la quale sperava
- Ancor mostrar di men virtù perfetta;
- Tale speranza l’ardir mi mostrava:
- Oimè che troppo la morte s’affretta,
- E più che in nessun altro in me è prava:
- In me si sforza, in ver me la sua ira
- Mostra quant’ella puote, e mi martira:
- 102
- Dov’è, Arcita, tua forza fuggita?
- Dove son l’armi già cotanto amate?
- Come non l’hai, per la dolente vita
- Dalla morte campare, ora pigliate?
- Oimè che ella s’è tutta smarrita,
- Nè più potrien da me esser guidate:
- Perch’io per vinto omai mi rendo, o lasso,
- E per più non potere oltre trapasso.
- 103
- O bella Emilia, del mio cor disio,
- O bella Emilia, da me sola amata,
- O dolce Emilia, cuor del corpo mio,
- Ora sarai da me abbandonata:
- Oimè lasso, non so quale Iddio
- In ciò mi noccia con voglia turbata:
- Che per te sola m’è noia il morire,
- Per te non sarò mai senza languire.
- 104
- Deh che farò allora che vedere
- Più non potrotti, donna valorosa?
- Seconda morte i’ non potrò avere,
- Benchè la cheggia per men dolorosa:
- Nè so ancora che luogo mi tenere
- Debba di la nella vita dubbiosa:
- Ma se con Giove senza te mi stessi,
- Non credo che giammai gioia sentessi.
- 105
- Dunque angoscioso dovunque n’andraggio
- Sempre sarò senza te luce chiara:
- Nè mi sarà il secondo viaggio
- A qui tornar concesso, o donna cara,
- Come Peleo che fu mio signor maggio
- Già mel concesse, allora che amara
- Vita traeva in Egina, lontano
- Del suo voler, bella donna, sovrano.
- 106
- Lagrime sempre ed amari sospiri
- Omai attende l’anima dolente
- Per giunta, lasso, alli nuovi martíri
- Ch’io avrò forse in fra la morta gente;
- Gli qua’ tanti non fien, che i miei disiri
- Di te veder faccian cessar nïente:
- Ma sempre te nell’eterna fornace
- Per donna chiamerò della mia pace.
- 107
- Oimè dove lascio io cari amici?
- Dove le feste ed il sommo diletto?
- Ove i cavalli, omai fatti mendici
- Del lor signore? ove quel ben perfetto
- Che amor mi dava, qualora i pudici
- Occhi d’Emilia vedeva e l’aspetto?
- Ed ove lascio Palemon grazioso
- Meco d’amor parimente focoso?
- 108
- E Peritoo ancor, cui similmente
- Più che la vita con ragione amava?
- Ove li regi, e l’altra buona gente
- Che loro a’ miei servigi seguitava?
- Ove Teseo, nobil signor possente,
- Che più che caro frate m’onorava?
- Or dove lascio il reverendo Egeo?
- Dove il mio caro e buon signor Peleo?
- 110
- Certo io gli lascio dove rimanere,
- S’esser potesse, vorre’ volentieri,
- Ed in giuoco ed in festa ed in piacere,
- Con principi con donne e cavalieri:
- Sicchè del rimaner di lor mestieri
- Non m’è dolermi; ma sol mi son fieri
- Gli aspri pensier, che a me ne mostran tanti
- Perder dovere, e me e tutti quanti.
- 110
- Poscia ch’egli ebbe queste cose dette,
- Di cor gittò un profondo sospiro
- Amaramente, e di parlar ristette;
- E in verso Emilia i suoi occhi s’apriro,
- Mirando lei, e mirandola stette
- Un poco, e poscia gli rivolse in giro:
- E ciascun vide che piangeva forte,
- Perocchè a lui s’appressava la morte.
- 111
- La quale in ciascun membro era venuta
- Da’ piedi in su, venendo verso ’l petto,
- Ed ancor nelle braccia era perduta
- La vital forza; sol nello intelletto
- E nel cuore era ancora sostenuta
- La poca vita, ma già sì ristretto
- Eragli ’l tristo cor del mortal gelo,
- Che agli occhi fe’ subitamente velo.
- 112
- Ma poi ch’egli ebbe perduto il vedere,
- Con seco cominciò a mormorare,
- Ognor mancando più del suo podere:
- Nè troppo fece in sè lungo durare;
- Ma il mormorio trasportato in vere
- Parole, con assai basso parlare,
- Addio Emilia, e più oltre non disse,
- Chè l’anima convenne si partisse.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO UNDECIMO
- * * *
- ARGOMENTO
- Nell’undecimo Emilia primamente
- L’uficio imposto fa con Palemone:
- Poi mostra il pianto della greca gente
- D’intorno al corpo ornato per ragione:
- Quinci tagliata una selva eminente,
- Un ricco rogo fanno più persone,
- Sopra ’l qual posto Arcita eccelsamente,
- Vi mette Emilia l’acceso tizzone.
- Le ceneri del rogo consumato
- Raccoglie Egeo; e merita coloro
- Che ’n varii giuochi onore hanno acquistato.
- Quindi fa far con subito lavoro
- Un tempio Palemone storïato,
- Là dove Arcita loca in urna d’oro.
- 1
- Finito Arcita colei nominando,
- La qual nel mondo più che altro amava,
- L’anima lieve se ne gì volando
- Ver la concavità del cielo ottava:
- Degli elementi i convessi lasciando,
- Quivi le stelle erratiche ammirava,
- L’ordine loro e la somma bellezza,
- Suoni ascoltando pien d’ogni dolcezza.
- 2
- Quindi si volse in giù a rimirare
- Le cose abbandonate, e vide il poco
- Globo terreno, a cui d’intorno il mare
- Girava e l’aere, e di sopra il foco,
- Ed ogni cosa da nulla stimare
- A rispetto del ciel ; ma poi al loco
- Là dove aveva il suo corpo lasciato
- Gli occhi fermò alquanto rivoltato.
- 3
- E seco rise de’ pianti dolenti
- Della turba lernea; la vanitate
- Forte dannando delle umane genti,
- Li qua’ da tenebrosa cechitate,
- Mattamente oscurata nelle menti,
- Seguon del mondo la falsa biltate,
- Lasciando il cielo; e quindi se ne gío
- Nel loco a cui Mercurio la sortio.
- 4
- Alla voce d’Arcita dolorosa
- Quanti v’eran gli orecchi alto levaro,
- Aspettando che più alcuna cosa
- Dovesse dir; ma poi che rimiraro
- L’alma partita, con voce angosciosa
- Pianse ciascuno e con dolore amaro,
- Ma sopra tutti Emilia e Palemone,
- La qual così rispose a tal sermone:
- 5
- O signor dolce, dove m’abbandoni,
- Dove ne vai, perchè non vengo teco?
- Dimmi qua’ sieno quelle regïoni
- Che ora cerchi poi non se’ con meco;
- I’ vi verrò, e con giuste cagioni
- Dicendo: poi non volle in vita seco
- Giove ch’io sia, e io ’l seguirò morto
- Colui che è il mio bene e ’l mio conforto.
- 6
- Ma poi che vide lui tacente e muto,
- E l’alma sua aver mutato ospizio
- Da lui non stato mai più conosciuto,
- Con Palemon piangendo, il tristo ufizio
- Feciono, e gli occhi travolti al transuto
- Chiusero per supremo benefizio,
- Ed il naso e la bocca: poi ciascuno
- Si tirò indietro con aspetto bruno.
- 7
- Non fer tal pianto di Priam le nuore,
- La moglie e le figliuole, allor che morto
- Fu lor recato il comperato Ettore,
- Lor ben, lor duca e lor sommo diporto,
- Qual Ippolita fe’ , per lo dolore
- Ch’ella sentì, e certo non a torto,
- Ed Emilia con lei, ed altre molte
- Antiche donne lì con lor raccolte.
- 8
- Piangeano i re offesi da pietate
- E da dolore, e piangea Palemone,
- Piangevan gli altri d’ogni qualitate,
- E di età vecchio, o giovane o garzone:
- E come prima in Atene occupate
- Erano in feste, ora in desolazione
- Tututte si vedeano lagrimose,
- E d’alti guai oscure e tenebrose.
- 9
- Niuno potea racconsolar Teseo,
- Sì avie posto in lui perfetto amore;
- Il simile avveniva di Peleo,
- E del buon Peritoo e di Nestore,
- E d’altri assai, ed ancora d’Egeo,
- Il qual la bianca barba per dolore
- Tutta bagnata aveva per Arcita
- Allor passato della trista vita.
- 10
- Ma come savio, ed uom che conoscea
- I mondan casi e le cose avvenute,
- Siccome quel che assai veduto avea,
- Il dolor dentro strinse con virtute,
- Per dare esempio a chiunque il vedea
- Di confortarsi delle cose sute:
- E poi s’assise a Palemone allato,
- Il qual faceva pianto smisurato.
- 11
- Ed ingegnossi con parole alquanto,
- Con quel silenzio ch’e’ potette avere,
- Di voler temperare il tristo pianto,
- Ricordando le cose antiche e vere,
- Le morti e’ mutamenti e ’l duolo e ’l canto,
- L’un dopo l’altro spesso ognun vedere:
- Ma mentre che parlava ognun piangea,
- Poco intendendo ciò ch’egli dicea.
- 12
- Anzi così l’udivan, come il mare
- Tirren turbato ascolta i naviganti,
- O come folgor che scenda dall’are
- Per nuvoletti teneri ovvianti
- Dall’impeto suo cura di ristare,
- Ma gli apre e scinde, e lor lascia fumanti:
- E quel dì e la notte in duolo amaro,
- Senza punto restar, continuaro.
- 13
- Quinci Teseo con sollecita cura
- Con seco cerca per solenne onore
- Fare ad Arcita nella sepoltura;
- Nè da ciò ’l trasse angoscia nè dolore,
- Ma pensò che nel bosco, ove rancura
- Aver sovente soleva d’amore,
- Faria comporre il rogo, dentro al quale
- L’uficio si compiesse funerale.
- 14
- E comandò ch’una selva, che stava
- A quel bosco vicina vecchia molto,
- Fosse tagliata, e ciò che bisognava
- Per lo solenne rogo fosse accolto
- Dentro al boschetto, nel qual comandava
- Un’arca si facesse di tal colto:
- Mossonsi allora gli ministri tosto
- Per far ciò che Teseo loro avie imposto.
- 15
- El fece poi un feretro venire
- Reale a sè davanti, e tosto fello
- D’un drappo ad or bellissimo fornire,
- E similmente ancor fece di quello
- Il morto Arcita tutto rivestire,
- E poi il fece a giacer porre in ello
- Incoronato di frondi d’alloro,
- Con ricco nastro rilegate d’oro.
- 16
- E poichè fu d’ogni parte lucente
- Il nuovo giorno, egli ’l fece portare
- Nella gran corte, ove tutta la gente
- Come voleva il potea riguardare:
- Nè credo alcun che sì fosse dolente
- Di Tebe allora il popolo a mirare
- Quando li sette e sette d’Anfione
- Figli fur morti alla trista stagione,
- 17
- Come d’Atene si vide quel giorno,
- Nel quale altro che pianger non s’udiva:
- Nessuno andava per la terra attorno,
- O el della sua casa non usciva,
- In quella stando siccome musorno,
- O se n’uscisse alla corte sen giva
- Per rimirar l’esequie dolorose
- Nate dell’aspre battaglie amorose.
- 18
- Alta fatica e grande s’apparecchia,
- Cioè voler l’antico suol mostrare
- All’alto Febo della selva vecchia,
- La qual Teseo comandò a tagliare
- Si andasse, acciò ch’una pira parecchia
- Alla stata d’Ofelte possan fare:
- E, se si puote, ancor la vuol maggiore,
- In quanto fu più d’Arcita il valore.
- 19
- Essa toccava colle cime il cielo,
- E’ bracci sparti e le sue chiome liete
- Aveva molto, e di quelle alto velo
- Alla terra facea, nè più quiete
- Ombre l’Acaia avea, nè giammai telo
- L’aveva offesa, o altro ferro sete
- N’aveva avuta, ma la lunga etade
- D’essa, tenner per degna deitade.
- 20
- La qual non si credea che solamente
- Gli uomini avesse per età passati,
- Ma si credea che le Ninfe sovente
- E i Fauni e le lor greggi permutati
- Fosson da lei, che continovamente
- Di sterpi nuovamente procreati
- Si ristorava, in eterno durando,
- E degli antichi suoi pochi mancando.
- 21
- Al miserabil loco soprastava
- Tagliamento continovo, del quale
- Ogni covil si vide che vi stava;
- E fuggì quindi ciascun animale,
- Ed ogni uccello i suoi nidi lasciava,
- Temendo il mai più non sentito male:
- Ed alla luce in quel giammai non stata
- Io poca d’ora si die’ larga entrata.
- 22
- Quivi tagliati cadder gli alti faggi
- Ed i morbidi tigli, i qua’ ferrati
- Sogliono ispaventare i fier coraggi
- Nelle battaglie molto adoperati:
- Nè sì difeser dagli nuovi oltraggi
- Gli escoli ed i caoni, ma tagliati
- Furono ancora, e ’l durante cipresso
- Ad ogni bruma, ed il cerro con esso.
- 23
- E gli orni pien di pece, nutrimenti
- D’ogni gran fiamma, e gl’ilici soprani,
- E ’l tasso, li cui sughi nocimenti
- Soglion donare, e i frassini ch’e’ vani
- Sangui ber soglion de’ combattimenti,
- Col cedro che per anni mai lontani
- Non sentì tarlo nè disgombrò sito
- Per sua vecchiezza dove fosse unito.
- 24
- Tagliato fuvvi ancor l’audace abete,
- E ’l pin similemente, che odore
- Dà dalle tagliature com sapete,
- Ed il fragil corilo, e ’l bicolore
- Mirto, e con questi l’auno senza sete,
- Del mare amico, e d’ogni vincitore
- Premio la palma fu tagliata ancora,
- E l’olmo che di viti s’innamora.
- 25
- Donde la Terra sconsolato pianto
- Ne diede, e quindi ciascun altro iddio
- De’ luoghi amati si partì intanto,
- Dolente certo, e contra suo disio;
- E l’arbitro dell’ombre Pan, che tanto
- Quel luogo amava, e ciascun Semidio
- E’ lor parenti: ancor piangea la selva,
- Che forse lì mai più non si rinselva.
- 26
- Adunque fu degli alberi tagliati
- Un rogo fatto mirabilemente;
- Poco più furo i monti accumulati
- Sopra Tessaglia dalla folle gente
- In verso ’l ciel mattamente levati,
- Che fosse quivi quel rogo eminente,
- Il qual dalli ministri fu tessuto
- Velocemente e con ordin dovuto.
- 27
- El fu di sotto di strame selvaggio
- Agrestemente fatto, e di tronconi
- D’alberi grossi, e fu il suo spazio maggio;
- Poi fu di frondi di molte ragioni
- Tessuto, e fatto con troppo più saggio
- Avvedimento, e di più condizioni
- Di ghirlande e di fiori pitturato:
- E questo suolo assai fu elevato.
- 28
- Sopra di questi l’arabe ricchezze,
- E quelle d’orïente con odori
- Mirabil fero delle lor bellezze
- Il terzo suol composto sopra i fiori;
- Quivi lo incenso, il qual giammai vecchiezze
- Non conobbe, vi fu dato agli ardori,
- E ’l cennamo il qual più ch’altro è durante,
- Ed il legno aloè di sopra stante.
- 29
- Poi fu la sommità di quella pira
- D’un drappo in ostro tirïo con oro
- Tinto coperta, a veder cosa mira,
- Sì pel valore e sì per lo lavoro:
- E questo fatto, indietro ognun si tira,
- E con tacito aspetto fa dimoro,
- Quegli attendendo che dovean venire
- Col morto corpo a tal cosa finire.
- 30
- Ogni parte era già piena di pianto;
- E già l’aula regia mugghïava,
- Tale che di lontan bene altrettanto
- Nelle valli Eco trista risonava:
- E Palemone di lugubre manto
- Coperto nella corte si mostrava
- Con rabbuffata barba e tristo crine,
- E polveroso ed aspro senza fine.
- 31
- E sopra ’l corpo misero d’Arcita
- Non men dolente Emilïa piangea,
- Tutta nel viso palida e smarrita,
- E’ circostanti più pianger facea:
- Nè dal corpo poteva esser partita,
- Con tutto che Teseo gliele dicea;
- Anzi parea che suo sommo diporto
- Fosse mirare il suo Arcita morto.
- 32
- Quando gli Achivi in abito doglioso
- Entraron dentro all’aula piangente,
- Allora il pianto assai più doloroso
- Incominciò e d’una e d’altra gente,
- Più forte che non fu quando il dubbioso
- Mondo lasciò quell’anima dolente,
- E rintegrossi più volte, e ristette
- Dentro le menti da dolor costrette.
- 33
- Nè dal tumulto tacque alcuna volta
- La stupefatta casa che Egeo
- A Palemone con parola molta
- Non desse alcun conforto, s’el poteo,
- A lui mostrando in quanto male involta
- Fosse la vita d’esto mondo reo,
- E le cose durissime occorrenti
- Miseramente ogni giorno a’ viventi.
- 34
- E benchè Palemon forse tacesse,
- E’ non l’udia, se non come Atteone
- Si crede che la sua turba intendesse:
- Anzi piangeva in sè, nè orazïone
- Esser poteva che da ciò il traesse;
- Tanto nel core aveva compassione
- Al trapassato suo più caro amico,
- A cui ingiustamente fu nemico.
- 35
- Quivi cavalli altissimi guardati
- Per lui furon coverti nobilmente,
- E su vi fur delle sue arme armati
- Sovra ciascuno un nobile sergente:
- Quivi l’esuvie de’ suoi primi nati
- Furono apparecchiate similmente:
- Quivi faretre ed archi con saette,
- E più sue vesti nobili e dilette.
- 36
- Ed acciocchè Teseo intero segno
- Del nobil sangue desse di costui,
- Tutti vi fe’ gli ornamenti del regno
- Venir presente ad adornarne lui:
- Lì le veste purpuree con ingegno
- Fatte si videro addosso a colui,
- Lo scettro, il pomo e l’eccelsa corona
- Per lui al foco del suo rogo dona.
- 37
- Li più nobili Achivi i vasi cari
- Di mel, di sangue e di latte novello
- Pieni portavan con lamenti amari
- Sopra le braccia precedendo quello;
- Nè si studiavan li lor passi guari,
- Anzi soavi e coll’aspetto bello
- Cambiato andavan l’uno all’altro appresso,
- Come l’ordine dato avie concesso.
- 38
- Sopra le spalle li Greci maggiori
- Il feretro levarsi lagrimando,
- E con esso d’Atene usciron fuori,
- Con alto pianto la gente gridando,
- Gl’iniqui iddii e li loro errori
- Con alte boci spesso bestemmiando;
- E infino al loco per la pira eletto
- Porlaro i duci il miserabil letto.
- 39
- La qual già fatta in quel loco trovata,
- E d’ogni legno ricca, sopra d’essa
- Ebbero la lettiera riposata,
- La qual fu tosto dalla gente spessa,
- Che gli seguiva, tutta intornïata,
- Per ciò veder, con dissoluta pressa:
- E poi gli duci indietro si tiraro,
- E gli altri che venivano aspettaro.
- 40
- Là venne Palemone, al quale Egeo
- Dolente andava dal suo destro lato,
- E dal sinistro gli venia Teseo,
- Dagli altri regi poi tutto fasciato:
- Emilia poi appresso si vedeo,
- Cui più debole sesso sconsolato
- Accompagnava, ed essa in mano il foco
- Feral recava al doloroso loco.
- 41
- Al qual poichè de’ furono venuti,
- Emilia lassa cominciò piangendo;
- O dolce Arcita, e’ non furon creduti
- Da me tai casi, che a te venendo
- Fosser gli visi da dolor premuti
- Con piagnevoli voci, quali intendo:
- Nè in questa guisa mi credetti entrare
- Nella camera tua a dimorare.
- 42
- Assai m’è, lassa, duro a sostenere
- Ciò che io veggio, che le prime tede
- Al rogo tuo mi convenga tenere.
- O dispietati iddii senza mercede,
- Or che è questo che v’è in piacere?
- Dov’è l’amore antico, ove la fede
- Che solevate portare a’ mondani?
- Ella n’è gita con li venti vani.
- 43
- O caro Arcita, più non posso avanti,
- Prendi le fiamme da me concedute
- Al rogo tuo, e’ dolorosi pianti,
- Per la tua alma in loco di salute.
- E mentre ch’essa ne’ dolenti canti
- Stava così, da lei fur conosciute
- Le voci funerali che in usanza
- Erano allor per pelopea mostranza.
- 44
- Perchè al rogo fatta più vicina,
- Con debol braccio le fiamme vi mise,
- E per dolore indietro risupina
- Tra le sue donne cadde: in quelle guise
- Che fan talor, po’ tagliata la spina,
- Le bianche rose per lo sol succise:
- E semiviva fece dubitare
- Di morte a chi poteala rimirare.
- 45
- Ma senza lungo indugio risentita
- Si levò in piè, e le anella si tolse,
- Le qua’ donate già la aveva Arcita,
- E con suoi altri ornamenti gli accolse,
- E ’n su la pira subita e smarrita
- Le gittò presta, sì com’altri volse,
- Dicendo: te’, non si conviene omai
- Che io mi adorni, poi lasciata m’hai.
- 46
- E quinci rotti li tristi lamenti
- Muta ricadde, ed il chiaro colore
- Fuggì del viso, e’ begli occhi lucenti
- Perder la luce, sì ne giro al cuore
- Subitamente tutti i sentimenti
- Per lui soccorrer, che già dal dolore
- Soverchio con fierezza era assalito,
- Là onde ogni valor gli era fuggito.
- 47
- Dall’altra parte Palemon s’avea
- La barba e’ crin tutti quanti tagliati,
- E posti sopra Arcita, e sì dicea
- Con sommo pianto: o iddii spiatati,
- Con altro patto certo mi credea
- Che questi crin vi fossono litati:
- Ma poi nell’are, iddii, non gli volete,
- Nelle dolenti esequie gli prendete.
- 48
- E poi ch’egli ebbe la barba e’ capelli
- Così donati, a sè fece venire
- Militari arme con altri gioielli,
- E tutti su li vi fece salire,
- Ed altre cose assai ancor con quelli
- Caro gli fu piangendo di offerire,
- E di far ricca la pira dolente,
- Dove giaceva il suo caro parente.
- 49
- Già istrepivan per lo messo foco
- Le prime fronde, e la fiamma pigliava
- Colle sue lingue parte in ogni loco,
- Ed ognora più ricca diventava;
- E certo in lungo tempo nè in poco
- Più ricca pira non si ricordava
- Che quella fu quivi fatta ad Arcita,
- Per lo supremo onor della sua vita.
- 50
- Le gemme crepitavano, e l’argento,
- Che ne’ gran vasi e negli ornamenti era,
- Si fondea tutto, ed ogni vestimento
- Sudava d’oro nella fiamma fiera:
- E ciascun legno dell’assirio unguento
- Si facea grasso e con maggior lumiera:
- E’ meli ardenti stridevano in esse,
- Con altre cose allora in quelle messe.
- 51
- E le cratere di vini spumanti,
- E dell’oscuro sangue, e ’l grazïoso
- Candido latte, tututti fumanti
- Sentieno ancora il foco poderoso.
- E’ maggior Greci intorno tutti quanti
- Stavano a Palemon, per lo noioso
- Rogo dagli occhi torgli, e ’l simigliante
- Stavan le donne ad Emilia davante.
- 52
- Allor Egeo fe’ far di cavalieri
- Ischiere sette di dieci per una,
- Armati tutti sopra gran destrieri,
- E ciascheduno aveva indosso alcuna
- Sua sopravvesta qual’era mestieri
- Di vestirlasi a quella festa bruna;
- Delle qua’ sette de’ Greci i maggiori
- Furono allora li conducitori.
- 53
- E a sinistra man cortando giro,
- Tre volte il rogo tutto intorniaro:
- E la polvere alzata il salir diro
- Delle fiamme piegava, e risonaro
- Le lance, ch’alle lance si feriro
- Per lo sovente intornïarsi amaro,
- Che quivi si faceva intorno intorno,
- Sopra i piè presti senza alcun soggiorno.
- 54
- Dieron quell’armi orribile fragore
- Quattro fïate, ed altrettanto pianto
- Le donne dier con misero dolore,
- E colle palme ripercosse alquanto:
- Poi dietro ciascheduno al suo rettore,
- Come l’ordine usato dava intanto,
- Sul destro braccio si voltaron tutti
- Con nuovo giro, e con dolore e lutti.
- 55
- E ciò che essi sopra l’armi avieno,
- Forse portato lì per covertura,
- Tututti quanti insieme si traieno,
- Quello gittando nella calda arsura;
- Ed i cavalli ancora discoprieno
- Di lor coverte e di loro armadura:
- E così ’l quarto giro fu fornito
- Per quella gente, come avete udito.
- 56
- Ed oltre a questo, chi vi gittò freno,
- Chi lancia, chi iscudo e qual balteo,
- Chi elmo e qual barbuta, e altri pieno
- Di saette turcasso, e chi vi deo
- Archi e chi spade come me’ potieno,
- E qual toraca ancor metter vi feo,
- Chi carri trionfali e chi cavalli;
- Tanto lor piacque a tutti onor di falli.
- 57
- Il giorno inverso della notte andava,
- E Vulcan lasso in ceneri recate
- Le cose avea che ciascun gli donava;
- Perchè con acque, per ciò ordinate,
- Da’ Greci il rogo già si saporava:
- E fine era alle cose, che lasciate
- Appena, l’ombre fur sopravvenute:
- Tanto le fero d’ogni onor compiute.
- 58
- Egeo vi ritornò il dì seguente,
- E con pietosa man tutte raccolse
- Le ceneri da capo prima spente
- Con molto vino, e di terra le tolse,
- Ed in un’urna d’oro umilemente
- Le mise, e quella in cari drappi involse,
- E nel tempio di Marte fe’ guardare
- Fin ch’altro loco le potesse dare.
- 59
- Ed acciò che l’onor fosse maggiore,
- Molti giuochi vi furono ordinati,
- Ne’ quali i re mostrar molto valore;
- Ma in tra gli altri nel corso onorati
- I primi furon e Ida e Castore,
- Siccome molto in ciò esercitati:
- Costoro adunque di virtute eguali
- Di lor vittoria pari ebber segnali.
- 60
- Perciocchè fu a ciaschedun donato
- Per premio di valore un dono caro;
- Ciò fu per uno un caval covertato
- Di nobili coverte, u’ si mostraro,
- Da uom d’ingegno altissimo dotato,
- Di Pallade gli onor, quando pigliaro
- Nome novello gli Cecropi, e ancora
- V’era ’l padul dove pria fe’ dimora.
- 61
- Vediensi ancor le fistule sonare,
- Le quali ella trovò primieramente,
- Poi con Aracne volle disputare,
- E di Vulcan vi si vedie vincente;
- E altre storie assai, le qua’ contare
- Non è ben convenevole al presente:
- Adunque l’Oebalio ed il Pisano
- Fur onorati di don sì sovrano.
- 62
- Ma poi nell’unta palestra Teseo
- Per virtù propria meritò l’onore,
- Perocchè al tempo suo me’ ch’altro il feo;
- E ben lo seppe Elena: e per maggiore
- Gloria gli fece lì recare Egeo
- Un bello scudo e di molto valore,
- Nel quale si vedea Marsia sonando,
- Sè con Apollo nel sonar provando.
- 63
- Vedeasi appresso superar Pitone,
- E quindi sotto l’ombre grazïose
- Sopra Parnaso presso all’Elicone
- Fonte seder con le nove amorose
- Muse, e cantar maestrevol canzone:
- Ed oltre a queste, v’eran molte cose
- Tutte in onor di Febo, con molto oro,
- Belle a vedere e care per lavoro.
- 64
- Poi al cesto giucando, assai più degno
- Polluce si mostrò che avanzato
- Aveva Ammeto, pien d’alto disdegno,
- Da Febo male in ogni cosa atato:
- Onde per la gran forza e per lo ingegno,
- Il quale avea ne’ giuochi adoperato,
- Li fe’ venire Egeo due nappi grandi
- Per oro cari e per arte ammirandi.
- 65
- In essi con non poca sottigliezza
- Era scolpito Alcide nella cuna
- Ancor giacente prender con fierezza
- Le serpi a lui mandate, ed ad ognuna
- La morte dare, e quindi la fortezza
- Ch’egli usò nella selva nemea bruna
- Contra ’l fiero leone, e quindi appresso
- L’altre fatiche sue v’eran con esso.
- 66
- Ebbevi ancora Evandro molto onore
- Con Sarpedone al desco allor giucando,
- A cui per merto del suo gran valore
- Un elmo venne di Egeo al comando
- E forte e bello: in forma di pastore
- Su vi sedeva Pan iddio, sonando
- In quella vera forma che gli danno
- Gli Arcadi allor che figurar lo fanno.
- 67
- Molti altri ancora con costor giucaro,
- Li qua’ sarebbe lungo il raccontare,
- Ne’ fatti giuochi assai ben si portaro,
- Agli qua’ tutti Egeo fece donare
- Solenni doni, onde e’ si contentaro,
- Lieti non poco di tal operare;
- Di lor virtù sovente contendendo,
- L’un dell’altro i difetti riprendendo.
- 68
- Nè ne’ giuochi olimpiaci giammai
- D’ulivo fu ghirlanda conceduta,
- Ovver ne’ pitii di lauro mai,
- O d’oppio ne’ nemei già ricevuta,
- O di pino negl’istmii, che d’assai
- Fosse a’ ricevitor così dovuta,
- Come in quel giuoco detto Cereale
- Di quercia l’ebbe Agamennone aguale.
- 69
- Poi fe’ subitamente Palemone,
- Là dove il rogo d’Arcita era stato,
- Edificar con mira operazione
- Un tempio grande e bello ed elevato,
- Il qual sacrò alla santa Giunone:
- Ed in quel volle che ’l cener guardato
- Fosse d’Arcita, in eterna memoria
- Del suo valore e della sua vittoria.
- 70
- Era quel tempio grande, com’è detto,
- E per più cose molto da lodare,
- Nel qual e’ fece per proprio diletto
- Tutti i casi d’Arcita storïare,
- E adornar di lavorio perfetto
- Da tal che ottimamente il seppe fare;
- Il quale i Greci rimirando spesso,
- Con giusto cor pietate avevan d’esso.
- 71
- E’ si vedeva lì nel primo canto
- Teseo di Scitia tornar vincitore,
- E delle donne achive il tristo pianto,
- E le lor voci e lor grieve dolore
- Quasi sentia chi le mirava alquanto,
- Sì fu sovrano e buono operatore:
- E ciascheduna v’era conosciuta
- Da chi l’avesse altra volta veduta.
- 72
- Vedeasi appresso il sanguinoso Ismeno
- Ed il superbo Asopo, e ciascun lito
- Di corpi morti quasi tutto pieno,
- E similmente si vedeva il sito
- Di Tebe, quale el fu nè più nè meno,
- E’ monti ancor d’onde era circuito,
- Ne’ quali ancora con superba fronte
- Vi si vedea regnare il gran Creonte.
- 73
- Nè molto poi li gran duci armati,
- Teseo con Creonte e la lor gente
- In gran battaglia insieme mescolati
- Vi si vedeva, e qual era valente,
- E qual codardo, assai bene avvisati
- Eran da chi mirava fisamente:
- E ’l campo v’era vinto da Teseo
- Con quanto lì per lui poscia si feo,
- 74
- E per li monti si vedien fuggire
- Le dolorose madri co’ figliuoli:
- Parevansi le voci ancor sentire
- De’ lor dolenti e dispietati duoli;
- E vediensi le donne achive gire
- Nell’alte torri con diversi stuoli,
- E arder ogni cosa, poscia ch’esse
- Ebber le corpora in le fiamme messe.
- 75
- E quella tutta nel fuoco avvampare:
- Poi v’era il campo tutto ricercato
- Da chi dovea cotal uficio fare,
- Nel qual tra gli abbattuti era trovato
- Arcita tutto sanguinoso stare
- A Palemon ancor presso pigliato,
- E a Teseo menati per prigioni,
- Perchè parevan nobili baroni.
- 76
- Poi ciascheduno tristo e doloroso
- Al carro avante a Teseo trionfante
- Vi si vedeva, ed in atto pensoso:
- E rimirando un poco più avante,
- I prigion si vedieno, e l’amoroso
- Giardino ancora allato a loro stante,
- Tutto vestito pel tempo novello
- Di nuove frondi grazïoso e bello.
- 77
- Nel qual la lieta e bella giovinetta
- Gir si vedeva in su gli nuovi albori,
- E lietamente cantando soletta,
- Frondi cogliendo e bellissimi fiori,
- Ed a sè far leggiadra ghirlandetta:
- E quivi a finestrella gli amadori
- Erano in guisa, che chi gli mirava,
- Diceva che ciascun di loro amava.
- 78
- Vediensi poi li lor grievi sospiri,
- E’ rotti sonni e l’amorosa vita,
- E chenti e quali fosson lor martíri:
- E quivi appresso ancora come Arcita
- Di Peritoo con sommi disiri
- Disprigionato faceva partita,
- Ed in Corinto si vedea arrivare,
- Quindi in Micena, poi in Egina andare.
- 79
- Poscia d’Egina ad Atene tornato
- E dipartito dallo re Peleo,
- Ed il gran tempio d’Apollo lasciato,
- Vi si vedeva servire a Teseo:
- E mentre stette in così fatto stato,
- Ciò ch’el fe’ v’era, e siccome Penteo
- Dir si faceva, e siccome soletto
- Se n’andava talvolta nel boschetto.
- 80
- Là dove il chiaro rivo il dilettava,
- E ’l venticel che le frondi battea,
- E ciascheduno uccel che lì cantava,
- E lui dormente tutto si vedea:
- Panfilo v’era ancor come ascoltava
- In fra le frasche ciò ch’egli dicea,
- E riportava ciò a Palemone,
- Signor di lui, che ancor era prigione.
- 81
- Di Panfil poscia v’era la malizia
- Che egli usò quando fece Alimeto
- Quivi venire, e simil la letizia
- Di Palemon, quando si vide lieto
- Fuor di prigion, dov’egli avea dovizia,
- Vie più che d’allegrezza d’amor fleto:
- E lui armato vedevasi andare
- Nel tempo oscuro ad Arcita trovare.
- 82
- Poscia vediesi nel boschetto sceso
- Che attendeva Arcita ancor dormente;
- Poi come desto, era fra lor conteso
- Dell’amor della donna pianamente;
- Poscia ciascuno di furore acceso
- Neil’arme si vedeva parimente
- Combatter fiero con aspra battaglia,
- E come ognun di vincer si travaglia.
- 83
- Là dove Emilia si vedea venuta,
- Che per lo bosco con Teseo cacciando
- Se n’andava, nè alcuno avea sentuta
- Questa battaglia: e vedevasi quando
- Quivi Teseo con parole partuta
- L’aveva, e come con lor ragionando
- Li riconobbe, ed il dato partito
- Preso da loro, e poi bene ubbidito.
- 84
- Vedevansi le feste de’ Dircei
- Che e’ facevan costretti da amore:
- E quivi ancora gli duci nemei
- Venir ciascun con sommissimo onore
- Vi si vedevano, acciocchè colei
- Sola ristesse dell’uno amadore;
- E poi le insegne a’ suoi da ciascun date,
- E come armati in esse fur mostrate.
- 85
- Eranvi i templi d’incenso fumanti,
- Ed il pigliar di lor prima milizia;
- Poi nel teatro insieme tutti quanti,
- E di diversi stromenti letizia
- Vi si vedeva, e tutti i lor sembianti;
- E come la battaglia lor s’inizia,
- E ciò che poi vi si fe’ quel giorno
- Tututto v’era di lavoro adorno.
- 86
- E la gran festa ancor vi si parea,
- E’ sagrifizii, e ’l chiamato Imeneo
- Che allor si fe’ quando Arcita prendea
- Prima per sposa davanti a Teseo
- Emilia bella, e poi vi si vedea
- Il duol dolente ch’ogni Greco feo
- Nella partita dalla trista vita
- Che fece il valoroso e buono Arcita.
- 87
- Ed il feretro suo di sopra a’ regi
- Con alti pianti si vedea portato,
- E similmente da tutti gli egregi
- Baron che v’eran da ciaschedun lato,
- E ’l lamento de’ popoli e collegi
- Che infino in ciel parie fosse ascoltato:
- Poi sopra il rogo si vedeva ardente
- Il corpo ornato molto riccamente.
- 88
- Solo la sua ceduta da cavallo
- Gli uscì di mente, nè vi fu segnata:
- Credo ch’e’ fati ’l voller senza fallo,
- Acciocchè mai non fosse ricordata;
- Ma non potè la gente ammenticallo,
- Sì nel cor era di ciascuno entrata
- Con grieve doglia, sì era in amore
- Di ciascheduno il giovine amadore.
- 89
- Era in tal guisa tututto dipinto
- Il nobil tempio, dentro al quale e’ pose
- Di sacerdoti un numero distinto,
- Gli qua’ le trieteriche dolorose
- Il dì che Arcita fu da’ fati estinto
- Dovesson celebrar maravigliose;
- E riccamente il tempio fe’ dotare,
- E d’ornamenti nobili adornare.
- 90
- E ’n mezzo d’esso fece prestamente
- Una colonna di marmo pulita
- Drizzar, sopra la qual d’oro lucente
- Un’urna fu discretamente sita:
- Dentro la qual la cenere tepente
- Fece servare del suo amico Arcita;
- Ed adornolla de’ seguenti versi
- In guisa tal che ben legger potersi:
- 91
- Io servo dentro a me le reverende
- Del buon Arcita ceneri, per cui
- Debito sagrificio qui si rende.
- E chiunque ama, per esempio lui
- Pigli, se amor di soverchio l’accende:
- Perocchè dicer può: qual se’ io fui,
- E per Emilia usando il mio valore
- Morii: dunque ti guarda da Amore.
- * * *
- LA TESEIDE
- LIBRO DUODECIMO
- * * *
- ARGOMENTO
- In questo duodecimo libello
- Disegna primamente l’autore
- Come e perchè si lasciasse il dolore
- Da tutti avuto del morto donzello:
- Quindi l’aspetto grazïoso e bello
- D’Emilïa disegna, e con onore
- La fa sposare al tebano amadore,
- Chiamato prima Imeneo nel sacello:
- Poi le sue nozze magnifiche pone;
- Ed il partir de’ regi dimostrato,
- Quasi per modo di conclusïone,
- Debito fine fa al suo sermone,
- Dicendo, sè nel porto disiato
- Esser con venti diversi arrivato.
- 1
- Quanto fosse crudele ed aspra vita
- Quella d’Emilia mentre queste cose
- Lì si facieno in onore d’Arcita,
- Coloro il pensin che sì dolorose
- Cose sentiro; ma essa vestita
- Di nero colle guance lagrimose,
- Senza prender volere alcun conforto,
- Solo piangeva il suo Arcita morto.
- 2
- E del bel viso il vermiglio colore
- S’era fuggito, ed era divenuta
- Palida e magra, ed il chiaro splendore
- Delle sue luci non avie paruta;
- E sì poteva in lei il fier dolore,
- Che stata appena sarie conosciuta:
- Per suo conforto notte e dì chiamando
- Arcita suo, piangendo e lagrimando.
- 3
- Ma poichè furon più giorni passati
- Dopo lo sventurato avvenimento,
- Con Teseo essendo gli Greci adunati,
- Parve di general consentimento
- Ch’e’ tristi pianti omai fosser lasciati,
- Ed il voler d’Arcita a compimento
- Fosse mandato, ciò è che l’amata
- Emilia fosse a Palemon sposata.
- 4
- Perchè Teseo chiamato Palemone
- Con molti di que’ re accompagnato,
- Non sappiend’esso però la cagione,
- Di ner vestito, e così tribolato
- Com’era, lui seguì ’n quella stagione;
- Ed esso con quanti eran se n’è entrato
- Dove con molte donne si sedea
- Emilïa, la quale ancor piangea.
- 5
- Quivi poichè ognun tacitamente
- Si fu posto a seder, Teseo stette
- Per lungo spazio senza dir nïente:
- Ma già vedendo di tututti erette
- L’orecchie pure a lui umilemente,
- Dentro tenendo le lagrime strette
- Ch’agli occhi per pietà volean venire,
- Così parlando incominciò a dire:
- 6
- Così come nessun che mai non visse
- Non morì mai, così si può vedere
- Che alcun non visse mai che non morisse:
- E noi ch’ora viviam, quando piacere
- Sarà di quel che ’l mondo circonscrisse,
- Perciò morremo: adunque sostenere
- Il piacer degl’iddii lieti dobbiamo,
- Poi ch’ad essi resister non possiamo.
- 7
- Le querce ch’han sì lungo nutrimento,
- E tanta vita quanta noi vedemo,
- Hanno pure alcun tempo finimento:
- Le dure pietre ancor che noi calchemo,
- Per accidenti varii, mancamento
- Ancora avere aperto lo sapemo;
- Ed i fiumi perenni esser seccati
- Veggiamo, e altri nuovi esserne nati.
- 8
- Degli uomini non cal di dir, che assai
- È manifesto a quel che la natura
- Gli tira, ed ha tirati sempre mai:
- De’ due termini all’uno, o ad oscura
- Vecchiezza piena d’infiniti guai,
- E questa poi da morte più sicura
- È terminata, ovver a morte essendo
- Giovani ancora, e più lieti vivendo.
- 9
- E certo io credo che allora migliore
- La morte sia quando di viver giova:
- Il luogo e ’l dove l’uomo ch’ha valore
- Non dee curar, che dovunque e’ si trova
- Fama gli serba il suo debito onore:
- E ’l corpo che riman, null’altra prova
- Fa in un loco che in un altro morto;
- Nè l’alma n’ha più pena o men diporto.
- 10
- Del modo i’ dico ancora il simigliante,
- Che come che alcuno anneghi in mare,
- O alcun si mora in sul suo letto stante,
- O alcun per lo suo sangue riversare
- Nelle battaglie, o in qual vuol di quante
- Maniere uom può morir, pure arrivare
- Ad Acheronte a ciaschedun conviene,
- Muoia come si vuole o male o bene.
- 11
- E però far della necessitate
- Virtù quando bisogna è sapïenza,
- Ed il contrario è chiara vanitate,
- E più in quel che n’ha esperïenza
- Che in quel che mai non l’ha ancor provate.
- E certo questa mia vera sentenza
- Può luogo aver tra noi, i qua’ dolenti
- Viviam di cose sempre contingenti:
- 12
- Anzi più tosto necessarie in tutto:
- Cioè d’alcuno la morte; il cui valore
- Fu tanto e tale che grazioso frutto
- Di fama si ha lasciato dietro al fiore:
- Il che, se ben pensassimo, al postutto
- Lasciar dovremmo il misero dolore,
- Ed intendere a vita valorosa
- Che ci acquistasse fama glorïosa.
- 13
- Ver’è che il voler dentro servare
- In cota’ punti la tristizia e ’l pianto
- Appena par che si possa ben fare;
- Onde conceder pur si dee alquanto:
- Ma dopo quel si dee poscia ristare:
- Chè il voler soprabbondare, in tanto
- Può nuocere a chi ’l fa, ed è follia,
- Nè saria però quel ch’uom disia.
- 14
- E certo se giammai fu lagrimato
- In Grecia nessun uomo valoroso,
- Si è debitamente Arcita stato
- Da molti re e popolo copioso,
- E con onor magnifico onorato
- È stato ancora al suo rogo pomposo,
- E ben soluto gli è ogni dovere
- Che morto corpo dee potere avere.
- 15
- Ed ancora, siccome noi veggiamo,
- Durato è ’l pianto più giorni in Atene;
- E ciascheduno ancora abito gramo
- Portato n’ha, qual a ciò si convene:
- E noi massimamente che qui siamo,
- Da cui agli altri prender s’appartiene
- Esemplo in ciascun atto e seguitare,
- Massimamente nel bene operare.
- 16
- Dunque da poi che parimente e’ more
- Ciò che ci nasce, e sia pur chi si voglia,
- Ed è fatto per noi ’l debito onore
- A colui per lo quale ora abbiam doglia;
- Estimo, per ragion, che sia il migliore
- Se quest’abito oscur da noi si spoglia,
- E lascisi il dolor, ch’è femminile
- Atto più tosto che non è virile.
- 17
- Se io credessi che riaver per pianti
- Arcita si potesse, i’ dicerei
- Che dovessimo pianger tutti quanti,
- E caramente ve ne pregherei:
- Ma non varria: però da mo in avanti
- Ciascun festeggi, e ’l piangere e l’omei
- Si lasci star, se piacer mi volete,
- Che ’n questo tanto pur far lo dovete.
- 18
- E oltre a ciò, quel ch’esso ultimamente
- Pregò, si pensi mettere ad effetto;
- Perocchè Foroneo, che primamente
- Ne donò leggi, disse che il detto
- Estremo di ciascun solennemente
- Doveva, con ragione, esser perfetto:
- Ed el pregò ch’Emilia fosse data
- A Palemon che l’avea tanto amata.
- 19
- Però deposte queste nere veste,
- Ed il pianto lasciato ed il dolore,
- Comincerem le liete e care feste;
- E prima che si parta alcun signore,
- De’ duo già detti nozze manifeste
- Celebrerem con debito splendore;
- Disponetevi adunque, i’ ve ne priego,
- E quel ch’io vo’ facciate senza niego.
- 20
- Poscia che Teseo tacque, confermate
- Fur le parole sue per molti allora,
- E con più detti allor fortificate;
- Ma Palemon pur tacito dimora,
- E fortemente gli sarebber grate,
- Se pubblica vergogna che l’accora
- Non contrastasse: e dopo molto stare
- Disse così, veggendosi aspettare:
- 21
- Caro signor, da me più degnamente
- Che la mia vita amato, manifesto
- Conosco vero il vostro dir presente,
- E possibile ancor con tutto questo;
- Benchè sia assai rado contingente
- Poter cacciar dal cor caso molesto
- Con allegrezza: e però questo fia
- Quando a Dio piacerà, che n’ha balía.
- 22
- Ma in quanto voi dite che ad effetto
- Volete vada quel che fu lasciato
- Da Arcita nel suo ultimo detto,
- Così vi dico, che se postergato
- Fosse il dover da me, ed il diletto
- Proposto, già ve ne averei pregato;
- Perocchè al mondo non fu cosa mai
- Che io amassi cotanto od assai.
- 23
- Ma questo cessi Iddio, che se m’è tolta
- Felicità, che almeno in me ragione,
- Più che ’l voler, non possa alcuna volta:
- E benchè in me tra lor sie gran quistione,
- Che ’l dover vinca i’ ho speranza molta:
- Il che se avvien, per lieta possessione
- Il guarderò, mentre gl’iddii vorranno,
- E sosterrò leggieri ogni altro affanno.
- 24
- Io son di tante infamie solo erede
- De’ primi miei rimaso, che s’io posso
- Questa, la quale assai grande si vede,
- Io non mi vo’ coll’altre porre addosso.
- La donna è bella, e credo che si crede
- Che infin qui nel reame molosso
- Simile a lei non sia: ben troverete
- A cui vie me’ che a me dar la potrete.
- 25
- E siccome gl’iddii testimonianza,
- Che sol conoscon degli uomini i cuori,
- Render porrien senza alcuna fallanza,
- Ch’e’ non fur mai tra due ferventi amori
- O per istretto sangue o per usanza,
- Ched e’ non fosser per certo minori
- Che quel che io ho portato ad Arcita,
- Poscia ch’i’ nacqui in questa trista vita.
- 26
- E se alcuno forse oppor volesse
- A questa verità, ver me dicendo,
- Se fosse vero ch’io amato l’avesse,
- Non l’avrei incitato combattendo;
- Risponderei che quella mi movesse
- A tal follia, che sempre ita è accendendo
- De’ nostri primi i cuori; ond’io saraggio
- Sempre mai tristo, ch’io ci viveraggio.
- 27
- Perchè se io Emilïa pigliassi,
- Altro non fora che questo negare:
- Nè per segno maggior ch’io disiassi
- La morte sua, potrei altrui mostrare;
- La qual quanto mi doglia credo sassi
- Per tutti voi: non voglio adunque fare
- Cosa che il contrario se ne veggia,
- Nè di ciò prego ch’alcun mi richeggia
- 28
- Se Arcita morendo questo disse,
- Volle ver me usar sua cortesia,
- Nè perciò legge a me in ciò prescrisse
- Che s’io non la volessi fosse mia:
- Ben mi credo che s’io vi consentisse,
- Per cortesia renderei villania:
- E però intendo che mentre ad altrui
- Che a me non si dà, sia pur di lui.
- 29
- E questo detto, gli occhi lagrimosi
- Basso in terra: al qual disse Teseo:
- I tristi pianti e i sospiri angosciosi,
- Già molto sconfortati da Egeo,
- Tutti ci fenno certi de’ pietosi
- Affetti, gli qua’ tu verso Penteo
- Portasti: nè potresti, per dolerti
- Mentre vivessi, noi farne più certi.
- 30
- Nè fia, facendo ciò che diciavamo,
- Infamia alcuna, nè lieto mostrarsi
- Dell’altrui morte, poi che noi vogliamo;
- Nè sarà da ragion questo allungarsi;
- Perocchè simil tutto dì veggiamo
- Dell’un fratel la sposa all’altro darsi,
- Se morte quel previen, nè ch’ei contento
- Del morto sia è però argomento.
- 31
- Qui si può dir che tutta Grecia sia
- Negli suoi regi, davanti alli quali
- Tal matrimonio per mia voglia fia
- Mandato a compimento; e ci son tali
- Che sè ’n ciò si dicesse villania
- Di te in alcun luogo, o altri mali,
- Siccome consapevoli, saranno
- Per te per tutto, e sì ti scuseranno.
- 32
- Pon dunque giù lo stolto immaginare,
- E segui il mio voler, che so ti piace;
- E vogli innanzi, mentre vivi, stare
- In lieta vita e in contenta pace,
- Che te con tristo pianto consumare,
- Il quale innanzi tempo l’uom disface:
- Così mi piace, e voglio che a te piaccia,
- Nè parola di ciò ’ncontro si faccia.
- 33
- A questo fu da molti Palemone,
- Il qual taceva, molto confortato;
- Ora uno or’altro usando suo sermone
- Chente usar suolsi a così fatto piato;
- Assegnando una e ora altra ragione,
- Che da lui non doveva esser negato:
- Laonde Palemone il viso alzando
- Al cielo, in guisa tal s’udi parlando.
- 34
- O Giove pio, che con ragion governi
- La terra e ’l cielo, e doni parimente
- A ciascheduna cosa ordini eterni,
- Volgi gli occhi ver me, e sii presente,
- E con giustizia il mio voler discerni,
- Il qual ora si fa consenzïente
- A quel del mio signor; nel che s’io sono
- Peccator, prego che mi dii perdono.
- 35
- E tu, sacra Dïana e Citerea,
- Delli cui cori il numero minore
- Far mi convien, benchè io non volea,
- E quindi appresso dell’altra maggiore
- Siate presenti, e ciascun altra dea
- Che ha ne’ matrimonii valore,
- E testimonio eterno renderete
- Di ciò ch’i’ ho nel cor, che conoscete.
- 36
- E tu, o ombra pietosa d’Arcita,
- Dovunque se’, perdona s’io t’offendo,
- Nè odio por perciò alla mia vita,
- Se la cosa, la qual tu già morendo
- Dicesti che volevi, fia compita
- Per me, del gran Teseo ancor seguendo
- Anzi il piacer che ’l mio contentamento:
- Che or foss’io in un’ora teco spento.
- 37
- E voi, o alti regi, i qua’ presenti
- Sete colà ov’io debbo seguire
- Ora del mio signore i mandamenti,
- Testimon siate: più per ubbidire,
- Che per seguire i miei disii ferventi,
- Fo quel ch’io fo, e disposto a servire
- Te, o Teseo: comanda, ch’io son presto
- Ad ogni cosa fare, ed anche a questo.
- 38
- Allor Teseo ad Emilia voltato,
- La quale in tra le donne sospirava
- Dolente molto col capo chinato,
- E le parole tututte ascoltava,
- Con animo di nulla ancor piegato,
- Tanto più duol che altro l’ansïava:
- A cui el disse: Emilia, hai tu udito:
- Quel che io vo’ farai che sia fornito,
- 39
- A questa voce tutta lagrimosa
- Levò Emilia la testa, dicendo:
- Caro signore, e’ non è nulla cosa
- Ch’io non faccia, te voler sentendo:
- Ma per l’amor che tu alla pietosa
- Ombra d’Arcita porti, ancor sedendo
- M’ascolta un poco; e poi, se tu vorrai,
- Io farò ciò che comandato m’hai.
- 40
- Siccome aver tu puoi udito dire,
- Tutte le donne scitiche botate
- Furo a Dïana allora che in disire
- Ebber primeramente libertate,
- E tu sai ben quel ch’è contravvenire,
- E non servare alla sua deitate
- Le cose a lei promesse: chè vendetta
- Subita fa, qual sa quel che l’aspetta.
- 41
- Ed io di quelle fui contra la quale,
- Per ciò che ’l boto non volea servare,
- Ha ella usato il già veduto male,
- Prima contro ad Acate, a cui donare
- Tu mi dovevi, e l’altro a quello eguale
- Contro ad Arcita; come ancor si pare
- All’abito di noi, ch’ora ne siamo
- Di ner vestiti, e ancora ne piangiamo.
- 42
- Se tuo nimico fosse Palemone,
- Come fu già, volentier lo farei;
- Ma non vedendo agual nulla ragione
- Perchè odiar lo debbi, crederei
- Che fosse il me’, senza più provagione
- Far oramai del poter degl’iddei,
- Che mi lasciassi a Diana pur servire,
- E ne’ suoi templi vivere e morire.
- 43
- A cui Teseo: questo dire è niente:
- Chè se Dïana ne fosse turbata,
- Sopra di te verria l’ira dolente,
- Non sopra quelli alli qua’ se’ donata:
- E però fa’ che lieta immantenente
- Di cor ti veggia e d’abito tornata:
- La forma tua non è atta a Dïana
- Servir ne’ templi nè ’n selva montana.
- 44
- Detto così, cogli altri gran baroni
- Della camera usciro, e ritornaro
- Come gli piacque alle proprie magioni:
- E ’l dì vegnente tututti cangiaro
- Abito, vestimento e condizioni,
- E quel che ciascun era dimostraro:
- E Palemone il simigliante feo:
- E così ritornarono a Teseo.
- 45
- Teseo similemente avea cambiato
- Con tutti i suoi i vestir dolorosi,
- Ed in sembiante lieto era tornato
- Festa facendo: e già suoni amorosi
- E canti ed allegrezza in ogni lato
- D’Atene si sentia, tutti gioiosi
- Del lor signor ch’avea mutata vesta
- Per la futura magnifica festa.
- 46
- Ippolita il simil fatto avea,
- E l’altre donne ed anche Emilia bella,
- A cui a forza ancora ciò piacea,
- Ma non poteva più: e però ella
- Faceva quel che allor Teseo volea:
- Ma dopo pochi dì la damigella
- Nello stato primier fu ritornata,
- Tanto fu dalle donne confortata.
- 47
- Deliberò Teseo con gli suoi quando
- Le sponsalizie si dovesson fare;
- E per Atene mandò comandando
- Che ciascun s’apprestasse al festeggiare:
- Indi venendo il giorno approssimando,
- Ciascun si cominciò ad apprestare,
- Secondo il proprio stato, a fare onore
- Alla giovane Emilia di buon cuore.
- 48
- E già Arcita uscito era di mente
- A ciaschedun, nè più si ricordava,
- Ognuno a festa intendea solamente,
- E delle nozze lo giorno aspettava:
- Il qual venuto bello e rilucente
- Ad allegrezza ciascun confortava:
- Perchè fece Teseo il tempio aprire
- Di Venere per quivi voler gire.
- 49
- Ed in quel simigliantemenle feo
- Li sacerdoti andar, li qua’ portaro
- La immagine bella d’Imeneo:
- Ed el con un vestir nobile e caro,
- Di dietro seguitando il vecchio Egeo,
- Con tutti gli altri re a quel n’andaro,
- E Palemon con loro, allegro tanto,
- Che mai non si potrebbe mostrar quanto.
- 50
- Chi porrie mai con soluto parlare
- L’oro e le pietre e li cari ornamenti
- Che i greci re avieno addimostrare?
- Egli eran tanti, e sì belli e lucenti,
- Che il volerlo al presente narrare
- Nol crederebbono il più delle genti:
- E al tempio giunti di gioia ripieno
- Aspettaron le donne che venieno.
- 51
- Ippolita da molte accompagnata
- Quella mattina con solenne cura
- Avieno Emilia nobilmente ornata,
- Avvegnadiochè sì di sua natura
- D’ogni bellezza fosse effigïata,
- Che poco giunger vi potea coltura:
- E in cotal guisa del palagio usciro,
- E lente ver lo tempio se ne giro.
- 52
- O sante donne, le quali Anfïone
- Ataste a chiuder Tebe, or fa mestiere
- Che da voi sia atato il mio sermone,
- Acciocch’io possa dimostrar le vere
- Bellezze che mostrò ’n quella stagione
- Emilia, a cui le piacque di vedere:
- Voi le vedeste, e so che le sapete;
- Adunque qui la mia penna reggete.
- 53
- Era la giovinetta di persona
- Grande, e ischietta convenevolmente,
- E se il ver l’antichità ragiona,
- Ella era candidissima e piacente;
- Ed i suoi crini sotto una corona
- Lunghi assai, e d’oro veramente
- Si sarien detti, e il suo aspetto umíle,
- Il moto suo onesto e signorile.
- 54
- Dico che li suoi crini parean d’oro,
- Non per treccia ristretti ma soluti,
- E pettinati sì che in fra loro
- Non n’era un torto, e cadean sostenuti
- Sopra li candidi omeri, nè foro
- Prima nè poi si be’ giammai veduti:
- Nè altro sopra quelli ella portava
- Ch’una corona ch’assai si stimava.
- 55
- La fronte sua era ampia e spazïosa;
- E bianca e piana e molto dilicata,
- Sotto la quale in volta tortuosa,
- Quasi di mezzo cerchio terminata,
- Eran due ciglia più che altra cosa
- Nerissime e sottil, nelle qua’ lata
- Bianchezza si vedea lor dividendo,
- Nè ’l debito passavan sè estendendo.
- 56
- Di sotto a queste eran gli occhi lucenti,
- E più che stella scintillanti assai;
- Egli eran gravi e lunghi e ben sedenti,
- E brun quant’altri che ne fosser mai;
- E oltre a questo, egli eran sì potenti
- D’ascosa forza che alcuno giammai
- Non gli mirò, nè fu da lor mirato,
- Ch’amore in sè non sentisse svegliato.
- 57
- I’ ritraggo di lor poveramente,
- Dico a rispetto della lor bellezza,
- E lasciogli a chiunque d’amor sente
- Che immaginando vegga lor chiarezza;
- Ma sotto ad essi non troppo eminente,
- Nè poco ancora, di bella lunghezza
- Il naso si vedeva affilatetto,
- Qual si voleva all’angelico aspetto.
- 58
- Le guance sue non eran tumorose,
- Nè magre fuor di debita misura,
- Anzi eran dilicate e grazïose,
- Bianche e vermiglie, non d’altra mistura
- Che in tra gigli le vermiglie rose;
- E questa non dipinta, ma natura
- Gliel’avie data, il cui color mostrava
- Per ciò che ’n ciò più non le bisognava,
- 59
- Ella aveva la bocca piccioletta,
- Tutta ridente e bella da baciare,
- Ed era più che grana vermiglietta
- Colle labbra sottili, e nel parlare
- A chi l’udia pareva un’angioletta:
- E i denti suoi si potian somigliare
- A bianche perle, e spessi ed ordinati,
- E piccolini e ben proporzionati.
- 60
- Ed oltre a questo, il mento piccolino
- E tondo quale al viso si chiedea:
- Nel mezzo ad esso aveva un forellino
- Che più vezzosa assai ne la facea,
- Ed era vermiglietto un pocolino,
- Di che assai più bella ne parea:
- Quindi la gola candida e cerchiata
- Non di soperchio, e bella e dilicaia.
- 61
- Pieno era il collo e lungo, e ben sedente
- Sopra gli omeri candidi e ritondi,
- Nè sottil troppo, piano e ben possente
- A sostener gli abbracciari giocondi:
- Il petto poi un pochetto era eminente
- Di pomi vaghi, per mostranza tondi,
- Che per durezza avien combattimento,
- Sempre puntando in fuor, col vestimento.
- 62
- Eran le braccia sue grosse e distese,
- Lunghe le mani, e le dita sottili,
- Articolate bene a tutte prese,
- Ancor da anella vote signorili;
- E brevemente, in tutto quel paese
- Altra non fu che cotanto gentili
- Le avesse come lei, ch’era in cintura
- Sottile e schietta con degna misura.
- 63
- Nell’anche grossa e tutta ben formata,
- E ’l piede piccolin: quale poi fosse
- La parte agli occhi del corpo celata,
- Colui sel seppe poi cui ella cosse
- Avanti con amor lunga fïata:
- Immagino che a dirlo le mie posse
- Non basterieno avendola io veduta;
- Tal d’ogni ben doveva esser compiuta.
- 64
- Non era ancor dopo ’l suo nascimento
- Tre volte cinque Apollo ritornato
- Nel luogo donde allor fe’ partimento;
- (Benchè da molti forse giudicato
- Ne sarie altro, prendendo argomento
- Dalla sua forma, che oltre l’usato
- In picciol tempo era cresciuta assai,
- Forse più ch’altra ne crescesse mai);
- 65
- Quando costei apparve primamente
- Ornata, come noi creder dovemo
- Che ella fosse allora, riccamente
- D’un drappo verde di valor supremo
- Vestita, ciaschedun generalmente,
- Che allor la vide dal primo al postremo,
- Venere la credette, nè saziare
- Si potea nullo di lei rimirare.
- 66
- I teatri, le vie, piazze e balconi,
- Per li quali essa andando gir dovea
- Al tempio, là dov’erano i baroni,
- Tutte eran piene, e ognuno vi correa,
- Femmine e maschi, e vecchi con garzoni,
- Per veder questa mirabile dea,
- La qual ciascuno oltra ogni altra lodava,
- E per lo ben di lei Giove pregava.
- 67
- Ma dopo certo spazio pervenuta
- Al gran tempio di Vener, con onore
- Magnifico dai re fu ricevuta;
- I qua’ la sua bellezza ed il valore
- Lodaron più che d’altra mai veduta:
- E Menelao vedendola in quell’ore,
- La riputò sì di bellezze piena,
- Che la prepose con seco ad Elena.
- 68
- Quivi non fu alcuno indugio dato:
- Ma fatto cerchio intorno dell’altare,
- Ch’era di fiori e di frondi adornato,
- Fecero a’ preti lì sacrificare;
- E con voci pietose fu chiamato
- L’aiuto d’Imeneo, siccome fare
- Era usato in Atene alla stagione,
- E dopo quel l’altissima Giunone.
- 69
- E po’ in presenza di quella santa ara
- Il teban Palemon gioiosamente
- Prese e giurò per sua sposa cara
- Emilia bella a tutti i re presente;
- Ed essa, come donna non ignara,
- Simil promessa fece immantenente;
- Poi la baciò siccome si convenne,
- Ed ella vergognosa sel sostenne.
- 70
- Questo fornito, al palagio tornaro
- Con somma festa dinanzi e d’intorno,
- Li greci re Emilia intonïaro,
- Non senza ordine debito e adorno,
- Come si convenia, con passo raro;
- E l’ora quinta già venía del giorno,
- Quando venuti nel palagio, messe
- Trovar le mense, ed assisersi ad esse.
- 71
- E qua’ fossero a quelle i servidori
- E quanti ancora sarie lungo il dire,
- Che furon pur de’ giovani maggiori,
- Nè si porien per numero finire:
- E’ ricchi arnesi non furon minori
- Che l’altre cose magnifiche e mire:
- Delle vivande mi taccio infinite
- Che vi fur delicate e ben compite.
- 72
- Quivi fur sonatori ed istormenti
- Di varie condizioni, e tai che Orfeo
- Per lo giudicio di molti assistenti
- Con lor perduto avrebbe, e ’l gran Museo,
- Con tutti i suoi non usati argomenti,
- E Lino ancora ed Anfïon Tebeo:
- E canti ta’ che sarebbero stati
- Belli a Calliope e ben notati.
- 73
- Di mille modi e di piedi e di mani
- Vi si potè il dì veder ballare
- Gli Ateniesi ed ancora gli strani,
- Giovani e donne, e chi me’ sapea fare:
- E mescolati gentili e villani
- Ciaschedun si vedeva festeggiare,
- E in cotal guisa spendevano il giorno
- Per la città in qua e ’n là attorno.
- 74
- Li greci re con li lor cavalieri
- Fer nuovi giuochi assai, e cavalcando
- Sopra coverti e adorni destrieri,
- E con ischiere varie armeggiando
- Per le gran piazze e ancora pe’ sentieri,
- La lor letizia a tutti dimostrando;
- Poi ritornando al palazzo gioioso
- Quand’eran disiosi di riposo.
- 75
- Il giorno troppo lungo giudicato
- Da Palemon sen gía in ver la sera;
- Ed essendo già il ciel tutto stellato,
- In una ricca camera qual’era
- Quella dove fu il letto apparecchiato,
- Qual credere possiamo a così altiera
- Isponsalizia, invocata Giunone,
- Emilia se n’entrò con Palemone.
- 76
- Qual quella notte fosse all’amadore
- Qui non si dice, quegli il può sapere
- Che già trafitto da soverchio amore
- Alcuna volta fu, se mai piacere
- Ne ricevette dopo lungo ardore:
- Credomi ben, ch’estimando, vedere
- Il possa quel che nol provò giammai,
- Che lieta fu più ch’altra lieta assai.
- 77
- Ver’è che per le offerte, che n’andaro
- Poi la mattina a’ templi, s’argomenta
- Che Venere, anzi che ’l dì fosse chiaro,
- Sette volte raccesa e tante spenta
- Fosse nel fonte amoroso, ove raro
- Buon pescator non util si diventa:
- El si levò, venuta la mattina,
- Più bello e fresco che rosa di spina.
- 78
- E poi si fece Panfilo chiamare;
- E siccom’esso già promesso avea,
- Così gli fece eccelsi don portare
- Al tempio della bella Citerea,
- E con gran lodi la fece onorare,
- Lei ringraziando, per cui el tenea
- La bella Emilia da lui molto amata,
- E così lungo tempo disiata.
- 79
- Quindi sen venne con allegro aspetto
- Nella gran sala riccamente ornata,
- Dove con gioia somma e con diletto
- Era la festa già ricominciata;
- E li re greci li vennero in petto,
- Con lieti motti della trapassata
- Notte qual fosse suta domandando,
- E molto di ciò insieme sollazzando.
- 80
- Durò la festa degli alti baroni
- Più giorni poi continovatamente,
- Dove si dieron grandissimi doni
- A ciascheduna maniera di gente:
- Ricchi vi fur, ministrieri e buffoni,
- E qualunque altri per sè parimente:
- Ma dopo il dì quindecimo si pose
- Fine alle feste liete e grazïose.
- 81
- Già due fïate era stata cornuta
- La sorella di Febo, e tante piena
- Similemente era stata veduta,
- Poichè la nobil baronia in Atena
- Delle contrade sue era venuta:
- Onde parve a ciascun, poichè l’amena
- Festa era fatta, di tornare omai
- Ne’ suoi paesi, quivi stati assai.
- 82
- Onde ciaschedun re prese commiato
- Dal vecchio Egeo e ancora da Teseo.
- E dalle donne ancor l’hanno pigliato,
- E poi da Palemone; il qual rendeo
- A tutti grazie, e sè disse obbligato
- A ciaschedun per sè e per Penteo
- In tutto ciò che operar potesse,
- Mentre che esso nel mondo vivesse.
- 83
- Partirsi adunque i re, e ciascun prese
- Quanto potette il cammin suo più corto
- Per tosto ritornare in suo paese:
- E Palemone in gioia ed in diporto
- Colla sua donna nobile e cortese
- Sì si rimase e con sommo conforto,
- Quel possedendo che più gli piacea,
- Ed a cui tutto il suo ben volea.
- 84
- Poichè le Muse nude cominciaro
- Nel cospetto degli uomini ad andare,
- Già fur di quelli i qua’ l’esercitaro
- Con bello stile in onesto parlare,
- E altri in amoroso le operaro:
- Ma tu o libro, primo a lor cantare
- Di Marte fai gli affanni sostenuti,
- Nel volgar lazio non mai più veduti.
- 85
- E perciò che tu primo col tuo legno
- Seghi quest’onde non solcate mai
- Davanti a te da nessun altro ingegno,
- Benchè infimo sii, pure starai
- Forse tra gli altri d’alcun onor degno:
- In tra gli qua’ se vieni, onorerai
- Come maggior ciaschedun tuo passato,
- Materia dando a cui dietro hai lasciato.
- 86
- E perocchè li porti disiati
- In sì lungo pileggio ne tegnamo,
- Da varii venti in essi trasportati,
- Le vaghe nostre vele qui caliamo,
- E le ghirlande e i doni meritati
- Con le ancore fermati qui aspettiamo,
- Lodando l’Orsa, che colla sua luce
- Qui n’ha condotti, a noi essendo duce.
- * * *
- SONETTO DELL’AUTORE
- ALLE MUSE
- PER LO LIBRO SUO
- * * *
- O sacre Muse, le quali io adoro,
- E con digiuni onoro, e vigilando,
- Di voi la grazia in tal guisa cercando,
- Quale acquistar da Pallade coloro
- A’ qua’ voi deste il grazïoso alloro
- In sul fonte castalio poetando,
- I versi lor sovente esaminando
- Col vostro canto sottile e sonoro:
- I’ ho ricolte della vostra mensa
- Alcune miche da quella cadute,
- E come seppi qui l’ho compilate:
- Le quai vi prego che voi le portiate
- Liete alla donna in cui la mia salute
- Vive, ma ella forse nol si pensa,
- E con lei ’nsieme il nome date e ’l canto,
- E ’l corso ad esse, se le ne cal tanto.
- RISPOSTA DELLE MUSE
- * * *
- Portati abbiam tuoi versi e ’l bel lavoro,
- O caro alunno, di Teseo cantando,
- E i due Teban, l’un preso e l’altro in bando,
- Combatter per Emilia donna loro.
- La più tua donna, ch’essa di coloro,
- Gli altrui riletti amori a sè recando,
- Fra sè soletta disse sospirando:
- Oh quante d’amor forze in costor foro!
- Poi di fiamme d’amor tututta accensa
- Ci porse prego che non fosser mute
- Le ben scritte prodezze e la biltate.
- Teseida per le nozze e cose ovrate
- Da Teseo li nomò: noi con argute
- Note darem lor fama ovunque immensa.
- Così gli abbiam rorati al fonte santo,
- E licenziati a gire in ogni canto.
- FINITO IL LIBRO CHIAMATO TESEIDA.
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