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  • Ninfale fiesolano
  • Giovanni Boccaccio
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  • NINFALE
  • FIESOLANO
  • DI
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • RIDOTTO A VERA LEZIONE
  • FIRENZE
  • NELLA STAMPERIA MAGHERI
  • 1834
  • Indice
  • Frontespizio del vol. XVII
  • Frontespizio
  • Ninfale fiesolano
  • Parte prima
  • Parte seconda
  • Parte terza
  • Parte quarta
  • Parte quinta
  • Parte sesta
  • Parte settima
  • OPERE
  • VOLGARI
  • DI
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • CORRETTE SU I TESTI A PENNA
  • * * *
  • EDIZIONE PRIMA
  • * * *
  • VOL. XVII.
  • FIRENZE
  • PER IG. MOUTIER
  • MDCCCXXXIV.
  • IMPRESSO CON I TORCHI
  • DELLA
  • STAMPERIA MAGHERI
  • NINFALE
  • FIESOLANO
  • DI
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • RIDOTTO A VERA LEZIONE
  • FIRENZE
  • NELLA STAMPERIA MAGHERI
  • 1834
  • NINFALE
  • FIESOLANO
  • OSSIA L’INNAMORAMENTO
  • DI
  • AFFRICO E MENSOLA
  • * * *
  • PARTE PRIMA
  • * * *
  • I.
  • Amor mi fa parlar, che m’è nel core
  • Gran tempo stato e fatto n’ha suo albergo,
  • E legato lo tien con lo splendore
  • E con que’ raggi a cui non valse usbergo,
  • Quando passaron dentro col favore
  • Degli occhi di colei, per cui rinvergo
  • La notte e ’l giorno pianti con sospiri,
  • Che è cagion di molti miei martiri.
  • II.
  • Amor è quel che mi guida e conduce
  • Nell’opera la qual a scriver vegno:
  • Amor è quel che a far questo m’induce,
  • E che la forza mi dona e l’ingegno:
  • Amor è quel ch’è mia forza e mia luce,
  • E che di lui trattar m’ha fatto degno:
  • Amor è quel che mi sforza ch’io dica
  • D’un’amorosa storia e molto antica.
  • III.
  • Però vo’ che l’onor sia sol di lui,
  • Poich’egli è quel che guida lo mio stile,
  • Mandato dalla donna mia, il cui
  • Valore è tal, ch’ogn’altro mi par vile,
  • E che ’n tutte virtù avanza altrui,
  • E sopr’ogn’altra è più bella e gentile:
  • E non le mancheria alcuna cosa
  • Se ella fusse un poco più pietosa. IV.
  • Or prego qui ciascun fedele amante
  • Che siate in questo mia difesa, e scudo
  • Contra ogn’invidïoso e mal parlante,
  • E contro a chi è d’amor povero e ignudo;
  • E voi, care mie donne tutte quante,
  • Che non avete il cor gelato e crudo,
  • Prego preghiate la mia donna altera
  • Che non sia contro a me, servo, sì fera. V.
  • Prima che Fiesol foss’edificata
  • Di mura, o di steccati o di fortezza,
  • Da molto poca gente era abitata,
  • E quella poca avea presa l’altezza
  • De’ circunstanti monti, e abbandonata
  • Si stava la pianura, per l’asprezza
  • Della molt’acqua e ampioso lagume,
  • Che a piè de’ monti faceva un gran fiume.
  • VI.
  • Era in quel tempo la falsa credenza
  • Degl’Iddii rei, bugiardi e viziosi,
  • E sì cresciuta la mala semenza
  • Era, ch’ogn’uom credea che grazïosi
  • Fussero in ciel come nell’apparenza;
  • E lor sacrificavan con pomposi
  • Onori e feste, e sopra tutti Giove
  • Glorificavan qui siccome altrove. VII.
  • Ancor regnava in quel tempo una Dea
  • La qual Dïana si facea chiamare,
  • E molte donne in devozion l’avea,
  • E maggiormente quelle che servare
  • Volean virginità, e a cui spiacea
  • Lussuria, e a lei si volean dare:
  • Costei le riceveva con gran festa
  • Tenendole per boschi e per foresta. VIII.
  • Ed anche molte ne l’eran offerte
  • Dalli lor padri e madri, che promesse
  • L’avieno a lei per voti, e chi per certe
  • Grazie o doni che ricevuti avesse.
  • Diana tutte con le braccia aperte
  • Le riceveva pur ch’ella volesse
  • Servar virginità, e l’uom fuggire,
  • E vanità lasciare e lei servire.
  • IX.
  • Così per tutt’il mondo era adorata
  • Questa vergine Dea. Ma ritornando
  • Ne’ poggi fiesolani, ove onorata
  • Più ch’oltra v’era, lei glorificando,
  • Contar vi vo’ della bella brigata
  • Delle vergini sue, che lassù stando,
  • Tutte eran ninfe a quel tempo chiamate,
  • E sempre gien di dardi e d’archi armate. X.
  • Avea di queste vergini raccolte
  • Gran quantità Dïana del paese
  • Per questi poggi, benchè rade volte
  • Dimorasse con lor molto palese,
  • Siccome quella che n’aveva molte
  • A guardar per il mondo dalle offese
  • Dell’uom; ma pur quand’a Fiesol veniva,
  • In cotal modo e guisa ella appariva. XI.
  • Ell’era grande e schietta, come quella
  • Grandezza richiedeva, e gli occhi e ’l viso
  • Lucevan più ch’una lucente stella,
  • E ben pareva fatta in paradiso,
  • Raggiando intorno a sè come fiammella,
  • Sì che mirarla non si potea fiso;
  • Con capei crespi, e biondi non com’oro,
  • Ma d’un color che vie meglio sta loro.
  • XII.
  • Ella più volte sparti gli teneva
  • Sopra lo svelto collo, e ’l suo vestire,
  • Ch’a guisa d’una cioppa il taglio aveva,
  • D’un zendado ch’appena ricoprire,
  • Sì sottil’era, le carni poteva,
  • Tutta di bianco senz’altro partire;
  • Cinta nel mezzo, e talora un mantello
  • Di porpora portava molto bello, XIII.
  • Venticinque anni di tempo mostrava
  • Sua giovanezza, senz’averne un manco.
  • Nella sinistra man l’arco portava,
  • E ’l turcasso pendea dal destro fianco
  • Pien di saette, le qual saettava
  • Alle fiere selvagge, e tal’or anco
  • A qualunque uom che lei noiar volesse,
  • O le sue ninfe, gli uccidea con esse. XIV.
  • In cotal guisa a Fiesole venia
  • Dïana le sue ninfe a visitare,
  • E con bel modo graziosa e pia
  • A sè sovente le facea adunare
  • Intorno a fresche fonti ed all’ombria
  • Di verdi fronde, al tempo che a scaldare
  • Comincia il sol la state com’è usanza,
  • E di verno al caldin facieno stanza.
  • XV.
  • E quivi le ammoniva tutte quante
  • Nel ben perseverar virginitate:
  • Alcuna volta ragiona d’alquante
  • Cacce che fatte aveva molte fiate
  • Su per que’ poggi, seguendo le piante
  • Delle fiere selvagge, chè pigliate
  • E morte assai n’aveano, ordine dando
  • Per girle ancor dinuovo seguitando. XVI.
  • Cotai ragionamenti tra costoro,
  • Com’io v’ho detto, tenía di cacciare,
  • E quando Diana si partia da loro,
  • Tosto una ninfa si facea chiamare
  • La qual fusse di tutto il concistoro
  • Di lei vicaria, facendo giurare
  • All’altre tutte di lei obbedire,
  • Se pel suo arco non volien morire. XVII.
  • Quella tale da tutte era ubbidita
  • Come fusse Dïana veramente,
  • E ciascun’era d’un panno vestita
  • Di lin tessuto molto sottilmente:
  • Facendo co’ loro archi d’esta vita
  • Passar molti animali assai sovente;
  • E qual portava un affilato dardo,
  • Più destra che non fu mai leopardo.
  • XVIII.
  • Era in quel tempo del mese di maggio,
  • Quando i be’ prati rilucon di fiori,
  • E gli usignuoli per ogni rivaggio
  • Manifestan con canti i loro amori,
  • E’ giovanetti con lieto coraggio
  • Senton d’amore più caldi i vapori,
  • Quando la Dea Dïana a Fiesol venne,
  • E con le ninfe sue consiglio tenne. XIX.
  • Intorno ad una bella e chiara fonte
  • Di fresche erbette e di fiori adornata,
  • La quale ancor dimora appiè del monte
  • Cecer, da quella parte ove ’l sol guata
  • Quand’è nel mezzo giorno a fronte a fronte,
  • E fonte Aqueli è oggi nominata:
  • Intorno a quella Diana allor si volse
  • Essere, e molte ninfe vi raccolse. XX.
  • Così a sedere tutte quante intorno
  • Si posono alla fonte chiara e bella,
  • Ed una ninfa senza far soggiorno
  • Si levò ritta, leggiadretta e snella,
  • Ed a sonare incominciò un corno
  • Perch’ognuna traesse; e poi quand’ella
  • Ebbe sonato a seder si fu posta,
  • Aspettando di Diana la proposta.
  • XXI.
  • La qual com’usata era così allora
  • Diceva lor, ch’ognuna si guardasse
  • Che con null’uom facesse mai dimora,
  • E se avvenisse pur ch’uomo trovasse,
  • Come nimico il fugga in ciascun’ora,
  • Acciò che inganno o forza non usasse
  • Contro di voi; chè qual fusse ingannata
  • Da me sarebbe morta e sbandeggiata. XXII.
  • Mentre che tal consiglio si teneva,
  • Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
  • Il qual forse vent’anni o meno aveva,
  • Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
  • Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
  • Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
  • Costui ind’oltre abitava col padre,
  • Senz’altra vicinanza, e con la madre. XXIII.
  • Il giovine era quivi in un boschetto
  • Presso a Dïana, quando il ragionare
  • Delle ninfe sentì, che a suo diletto
  • Ind’oltre s’era andato a diportare:
  • Perchè fattosi innanzi il giovinetto
  • Dopo una grotta si mise ascoltare,
  • Per modo che veduto da costoro
  • Non era, ed e’ vedeva tutte loro.
  • XXIV.
  • Vedea Dïana sopra all’altre stante
  • Rigida nel parlare e nella mente,
  • Con le saette e l’arco minacciante,
  • E vedeva le ninfe parimente
  • Timide e paurose tutte quante,
  • Sempre mirando il suo viso piacente.
  • Ognuna stava cheta, umíle e piana
  • Pe ’l minacciare che facea lor Dïana. XXV.
  • Poi vide che Dïana fece in piede
  • Levar dritta una ninfa, che Alfinea
  • Aveva nome, però ch’ella vede
  • Che più che alcun’altra tempo avea,
  • Dicendo, ora m’intenda qual qui siede:
  • Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
  • Però ch’intendo partirmi da voi,
  • Sì che com’io obbedita sia poi. XXVI.
  • Affrico stante costoro ascoltando,
  • Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
  • La quale alquanto nel viso mirando,
  • Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
  • Che gli fer sentir gioia sospirando
  • Le fiaccole amorose che gli porse;
  • E un sì dolce disio, che già saziare
  • Non si potea della ninfa mirare.
  • XXVII.
  • E fra sè stesso dicea: chi saria
  • Di me più grazïoso e più felice,
  • Se tal fanciulla io avessi per mia
  • Isposa? chè per certo il cor mi dice
  • Che al mondo sì contento uom non saria;
  • E se non che paura mel disdice
  • Di Dïana, io l’avrei per forza presa,
  • Che l’altre non potrebbon far difesa. XXVIII.
  • Lo innamorato amante in tal maniera
  • Nascoso stava in fra le fresche fronde,
  • Quando Dïana veggendo che sera
  • Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
  • Che già perduta avea tutta la spera,
  • Con le sue ninfe assai liete e gioconde
  • Si levar ritte, e al poggio salendo
  • Di dolce melodia canzon dicendo. XXIX.
  • Affrico quando vide che levata
  • S’era ciascuna, e simil la sua amante,
  • Udì che da un’altra fu chiamata:
  • Mensola adianne, e quella su levante,
  • Con l’altre tosto sì si fu inviata:
  • E così via n’andaron tutte quante,
  • Ognuna a sua capanna si tornoe,
  • Poi Diana si partì e lor lascioe.
  • XXX.
  • Avea la ninfa forse quindici anni,
  • Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
  • E di candido lin portava i panni;
  • Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
  • Che chi gli vede non sente mai affanni,
  • Con angelico viso e atti snelli,
  • E in man portava un bel dardo affilato:
  • Or vi ritorno al giovane lasciato; XXXI.
  • Il qual soletto rimase pensoso
  • Oltramodo dolente del partire
  • Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
  • E ripetendo il passato disire,
  • Dicendo: lasso a me, che ’l bel riposo
  • C’ho ricevuto mi torna in martire,
  • Pensando ch’io non so dove o in qual parte
  • Cercarmene giammai, o con qual’arte. XXXII.
  • Nè conosco costei che m’ha ferito,
  • Se non ch’io udii che Mensola avea nome,
  • E lasciato m’ha qui solo e schernito
  • Senza avermi veduto. O almeno come
  • Io l’amo sapess’ella, e a che partito
  • Amor m’ha qui per lei carche le some.
  • Oimè, Mensola bella, ove ne vai,
  • E lasci Affrico tuo con molti guai?
  • XXXIII.
  • E poi si pose a seder in quel loco
  • Ove prima seder veduto avea
  • La bella ninfa, e nel suo petto il foco
  • Con più fervente caldo s’accendea:
  • Così continuando questo giuoco
  • Il bel viso nell’erba nascondea,
  • Baciandola dicea: ben se’ beata,
  • Sì bella ninfa t’ha oggi calcata! XXXIV.
  • E poi dicea: lasso a me, sospirando,
  • Qual ria fortuna o qual altro destino
  • Oggi qui mi condusse lusingando,
  • Perchè di lieto, dolente e tapino
  • Io divenissi una fanciulla amando,
  • La qual m’ha messo in sì fatto cammino,
  • Senza aver meco scorta o guida alcuna,
  • Ma solo amore è meco e la fortuna! XXXV.
  • Almen sapesse ella quanto amata
  • Ell’è da me, o veduto m’avesse,
  • Ben ch’io credo che tutta spaventata
  • Se ne sarebbe, se ella sapesse
  • Esser da me o da uomo disiata:
  • Io son ben certo, in quanto ella potesse,
  • Ella si fuggiria, siccome quella
  • C’ha in odio l’uomo e da lui si ribella.
  • XXXVI.
  • Che farò dunque, lasso, poi ch’io veggio
  • Che palesarmi saria ’l mio peggiore?
  • E s’io mi taccio veggio ch’è ’l mio peggio,
  • Perocchè ognor mi cresce più l’ardore?
  • Dunque per miglior vita morte chieggio,
  • La qual sarebbe fin di tal dolore:
  • Benchè io mi creda ch’ella penrà poco
  • A venir, se non spegne questo foco. XXXVII.
  • Cotali ed altre simili parole
  • Diceva il giovinetto innamorato:
  • Ma poi veggendo che già tutto il sole
  • Era tramonto, e che ’l cielo stellato
  • Già si faceva, il che forte gli duole
  • Per lo partir; ma poi ch’alquanto stato
  • Sopra sè fu, disse: o me tapino,
  • Che or fuss’egli di domane il mattino! XXXVIII.
  • Ma pur levato, piede innanzi piede,
  • Pien di molti pensier per la rivera,
  • Si mosse ver l’ostello, chè ben vede
  • Che non ritorna qual venuto n’era:
  • Così pensoso, che non se n’avvede,
  • Alla casa pervenne, la qual’era,
  • Scendendo verso il pian, dalla fontana
  • Forse un quarto di miglio o men lontana.
  • XXXIX.
  • Quivi tornato, nella cameretta
  • Ove dormia soletto se n’andoe,
  • E sospirando in sul letto si getta,
  • Ch’a padre o madre prima non parloe:
  • Quivi con gran disio il giorno aspetta,
  • Nè ’n tutta notte non si addormentoe,
  • Ma qua e là ei volgea sospirando,
  • E ne’ sospir Mensola sua chiamando. XL.
  • Acciocchè voi allora non crediate
  • Che vi fusson palagi o casamenti,
  • Come or vi son, sì vo’ che voi sappiate
  • Che sol d’una capanna eran contenti,
  • Senza esser con calcina ancor murate,
  • Ma sol di pietre e legname le genti
  • Facean lor case, e qua’ facien capanne
  • Tutte murate con terra e con canne. XLI.
  • E forse quattro eran gli abitatori
  • Che facevano stanza nel paese,
  • Giù nelle piagge de’ monti minori
  • Che sono a piè de’ gran poggi distese.
  • Ma ritornar vi voglio a’ gran dolori
  • Che Affrico sentia, che presso a un mese
  • Stette senza veder Mensola mai,
  • Benchè dell’altre e’ ne scontrasse assai.
  • XLII.
  • Amor volendo crescer maggior pena,
  • Come usato è di fare, al giovinetto,
  • Parendogli che avesse alquanta lena
  • Ripresa e spento il fuoco nel suo petto,
  • Legar lo volle con maggior catena,
  • E con più lacci tenerlo costretto,
  • Modo trovando a fargli risentire
  • Le fiaccole amorose col martire. XLIII.
  • Perchè una notte il giovane dormendo,
  • Vedere in visïone gli pareva
  • Una donna con raggi risplendendo,
  • E un piccolo fantino in collo aveva
  • Ignudo tutto, ed un arco tenendo,
  • E del turcasso una freccia traeva
  • Per saettar, quando la donna, aspetta,
  • Gli disse, figliuol mio, non aver fretta. XLIV.
  • E poi la donna ad Affrico rivolta,
  • Sì gli diceva: qual mala ventura,
  • O qual pensiero o qual tua mente stolta
  • T’ha fatto volger? credo che paura
  • O negligenza Mensola t’ha tolta,
  • Chè di suo amor non par che metti cura,
  • Ma come uom vile stai tristo e pensoso,
  • Quando cercar dovresti il tuo riposo.
  • XLV.
  • Leva su dunque: cerca queste piagge
  • Di questi monti, e tu la troverai,
  • Chè a suo diletto le fiere selvagge
  • Con l’altre ninfe seguir la vedrai,
  • E benchè a correr sieno preste e sagge,
  • Senza niun fallo tu la vincerai:
  • Nè ti bisogna temer di Dïana,
  • Perocch’ell’è di qui molto lontana. XLVI.
  • E io ti prometto di darti il mio aiuto,
  • Al qual nessun può mai far resistenza,
  • Pur che questo mio figlio abbia voluto
  • Ferir con l’arco per la mia sentenza.
  • Ch’io son colei che sì bene ho saputo
  • Adoperar con questa mia scïenza
  • Che non ch’altri, ma Giove ho vinto e preso
  • Con molti Iddii, che niun non s’è difeso. XLVII.
  • Poi disse: figliuol mio, apri le braccia,
  • Fagli sentir il tuo caldo valore,
  • Sicchè tu rompa ogni gelata ghiaccia
  • Dentro al suo petto e nel gelato core.
  • Or fa’, figliuolo mio, fa’ che mi piaccia
  • Come far suogli: e poi parea ch’Amore
  • Per sì gran forza quell’arco tirasse,
  • Ch’insieme le due cocche raccozzasse.
  • XLVIII.
  • Quando Affrico volea chieder mercede,
  • Sentì nel petto giugner la saetta,
  • La qual dentro passando il cor gli fiede,
  • Sicchè svegliato, le man pose in fretta
  • Al petto, che la freccia trovar crede;
  • Trovò la piaga esser salda e ristretta,
  • Poi guardò se la donna vi vedea
  • Col suo figliuol che fedito l’avea. XLIX.
  • Ma non la vide, perch’era sparita,
  • E ’l sonno rotto che gliel dimostrava,
  • E battendogli il cor per la fedita
  • Che ricevuta avea, si ricordava
  • Della sua amante quando fe’ partita
  • Della fontana, e nel cor gli tornava
  • Gli atti gentili, col vezzoso modo,
  • E ta’ pensieri al cor gli facean nodo. L.
  • E poi dicea: questa donna mi pare,
  • Che or m’apparve, Vener col figliuolo,
  • E s’io ho bene inteso il suo parlare,
  • Promesso m’ha di far sentir quel duolo
  • A Mensola, che a me ha fatto fare:
  • Però s’ella esce mai fuor dello stuolo
  • Dell’altre ninfe, io pur m’arrischieroe,
  • Per forza o per amor la piglieroe.
  • LI.
  • Così raccesa da questo disio
  • La fiamma del suo petto, si dispose
  • Di Mensola cercar per ogni rio,
  • Finchè la troverrà: e a cotai cose
  • Pensando, intanto il bel giorno appario
  • Il quale egli aspettava con bramose
  • Voglie, e soletto di casa s’uscia,
  • E inver la fonte Aqueli se ne già. LII.
  • E quivi giunto, alquanto vi ristette
  • I sospiri amorosi rinnovando,
  • Di qui, dicendo, mi fer le saette
  • D’amor partire forte sospirando.
  • E poi ch’egli ebbe tai parole dette,
  • Saliva il poggio, la fonte lasciando,
  • Ascoltando e mirando tuttavia,
  • Se ninfa alcuna vedeva o sentia. LIII.
  • Così salendo suso vers’il monte,
  • Trasviato d’amore e dal pensiero,
  • Alto portando sempre la sua fronte
  • Per veder meglio ciaschedun sentiero,
  • E le gambe tenendo preste e pronte
  • Se gli facesse del correr mestiero,
  • Ed ogni foglia che menar vedea
  • Credea che fosse ninfa, e là correa.
  • LIV.
  • Ma poichè cotai beffe ed altre assai
  • Avien più volte il giovane ingannato,
  • Senza nïuna ninfa trovar mai,
  • E presso che ’n sul monte era montato,
  • Quando un pensier gli disse: dove vai
  • Pur su salendo, e mai null’hai trovato?
  • E già è terza, io non vo’ più salire,
  • Ma per quest’altra via voglio ora gire. LV.
  • E inverso Fiesol volto, piaggia piaggia
  • Guidato da amor ne gía pensoso,
  • Caendo la sua amante aspra e selvaggia,
  • Che faceva lui star maninconoso.
  • Ma pria ch’un mezzo miglio passat’aggia,
  • Ad un luogo pervenne assai nascoso
  • Dove una valle due monti divide:
  • Quivi udì cantar ninfe, e poi le vide. LVI.
  • Quando appressato fu a quel vallone
  • Alquanto udì un’angelica voce,
  • Con due tenori, onde aspettar si pone
  • Facendo delle braccia a Giove croce
  • Con umil prego stando ginocchione,
  • Dicendo: o Iddio, sarebbe in questa foce
  • Mensola fra costoro? Or voglia Iddio
  • Ch’ella vi sia, ch’i’ v’andrò ora anch’io.
  • LVII.
  • Qual’è colui che ’l grillo vuol pigliare,
  • Che va con lunghi e radi e leggier passi
  • Senza far motto, tal’era l’andare
  • Che Affrico facea su per que’ sassi,
  • Pur dietro andando a quel dolce cantare
  • Che nella valle udìa, e innanzi fassi
  • Tanto che vide dimenar le fronde
  • D’alcun querciuol che le ninfe nasconde. LVIII.
  • Perchè senza scoprirsi s’appressava
  • Tanto che vide donde uscia quel canto:
  • Vide tre ninfe, ch’ognuna cantava;
  • L’una era ritta, e l’altre due in un canto
  • A un acquitrin che ’l fossato menava
  • Sedieno, e le lor gambe vide alquanto,
  • Che si lavavan i piè bianchi e belli,
  • Con lor cantando lì di molti uccelli. LIX.
  • L’altra che stava in piedi colse frondi
  • E d’esse una ghirlanda ne facea,
  • Poi sopra i suoi capelli crespi e biondi
  • La si ponea, perchè ’l sol l’offendea:
  • Poi per le sue compagne folte e fondi
  • Ne fece due, e poi quelle ponea
  • In su le trecce lor non pettinate,
  • Le quali eran di frondi spampinate.
  • LX.
  • E Affrico diceva fra sè stesso:
  • E’ non mi par che Mensola ci sia:
  • E poi fattosi a loro un po’ più presso,
  • La sua mala ventura maledia,
  • Dicendo: Vener, quel che m’hai promesso,
  • Non pare ch’avvenuto ancor mi sia.
  • Ma che farò? domanderò costoro
  • S’elle la sanno, e scoprirommi a loro? LXI.
  • Deliberato adunque il giovinetto
  • Di scoprirsi a costor, si fece avanti,
  • Oltre vicino a lor, poi ebbe detto
  • Con bassa voce e con umil sembianti:
  • Dïana, a cui il cor vostro sta suggetto,
  • Vi mantenga nel ben ferme e costanti,
  • O belle ninfe: non vi spaventate,
  • Ma pregovi ch’un poco m’ascoltate, LXII.
  • Io vo caendo una di vostra schiera,
  • La qual Mensola credo che chiamata
  • Sia da voi, per ciascuna riviera;
  • E bene è un mese ch’io l’ho seguitata,
  • Ma ella è tanto fuggitiva e fera
  • Che sempre innanzi a me s’è dileguata;
  • Però vi prego, dilettose e belle,
  • Che la insegnate a me, care sorelle.
  • LXIII.
  • Quali senza pastor le pecorelle,
  • Assalite dal lupo e spaventate,
  • Fuggono or qua or là le tapinelle,
  • Gridando bè, con boci sconsolate:
  • O qual fanno le pure gallinelle,
  • Quand’elle son dalla volpe assaltate,
  • Quanto più possono ognuna volando
  • Verso la casa forte schiamazzando: LXIV.
  • Tal fer le ninfe belle e paurose
  • Quando vider costui: omè gridaro;
  • Alzando i panni, le gambe vezzose,
  • Per correr meglio, tutte le mostraro,
  • E già nessuna ad Affrico rispose,
  • Ma ricogliendo lor archi n’andaro
  • Su per lo monte, e qual pur per le piagge
  • Forte fuggìan, come fiere selvagge. LXV.
  • Affrico grida: aspettatemi un poco,
  • O belle ninfe, ascoltate il mio dire:
  • Sappiate ch’io non venni in questo loco
  • Per voi noiare o per farvi morire,
  • Ma sol per darvi e allegrezza e gioco,
  • In quanto voi non vogliate fuggire:
  • Io vengo a voi come di voi amico,
  • E voi fuggite me come nemico.
  • LXVI.
  • Ma che ti vale, o Affrico, pregalle?
  • Elle si fuggon pur verso la costa,
  • E tu soletto riman nella valle
  • Senza da loro avere altra risposta;
  • Rimanti dunque di più seguitalle,
  • Poichè ognuna a fuggire è pur disposta:
  • Le tue lusinghe col vento ne vanno,
  • E le ninfe di correr non ristanno. LXVII.
  • Ell’eran già da lui tanto lontane
  • Che di veduta perdute l’avea,
  • Perchè di più seguirle si rimane,
  • E fra sè stesso forte si dolea
  • Di quelle ninfe sì selvagge e strane.
  • Che farò dunque, lasso a me, dicea,
  • I’ non ci veggo modo niun pel quale
  • Io possa aver da loro altro che male. LXVIII.
  • E non mi val lusinghe nè pregare,
  • E nulla fare’ mai s’io mi tacessi:
  • Io non posso con lor la forza usare,
  • Che volentier l’userei s’io potessi;
  • E s’io potessi almen pure ispiare
  • Ove Mensola fusse, o pur sapessi
  • Dove cercarne, o dove si riduce,
  • Ma vo cercando com’uom senza luce.
  • LXIX.
  • Tanto il diletto l’avea tranquillato
  • Di Mensola cercare, e poi di quelle
  • Ninfe che nella valle avea trovato
  • Istare all’ombra di fresche ramelle,
  • E poi del seguitarle trasviato
  • Sol per saper di Mensola novelle,
  • Che non s’accorse ch’egli era già sera
  • E poco già lucea del sol la spera. LXX.
  • Perchè malinconoso e mal contento
  • Sè malediva, e la vegnente notte
  • Che sì tosto venia, e poi con lento
  • Passo scendeva giù per quelle grotte,
  • Perchè di star più quivi avea spavento
  • Delli animai crudeli, che a quell’otte
  • Cominciavano a andar pe’ folti boschi
  • Donando a chi trovavan de’ lor toschi. LXXI.
  • Così senza aver punto il dì mangiato
  • Verso la casa sua prese la via,
  • Dove quel giorno dal padre aspettato
  • Egli era stato con malinconia,
  • Paura avendo che non fusse stato
  • Da qualche bestia morto, ove che sia,
  • E divorato con doglia l’avesse,
  • Però a casa tornar non potesse.
  • LXXII.
  • E ancora di Dïana avea temenza,
  • Che non si fusse con lui abbattuto,
  • Come nimica della sua semenza
  • Sempre mai stata, e da lei fosse suto
  • O morto o fatto per più penitenza
  • Diventar pietra o albero fronzuto:
  • E ’n ta’ pensieri stava lui aspettando,
  • Ora una cosa or l’altra immaginando.
  • * * *
  • PARTE SECONDA
  • * * *
  • I.
  • Il sole era già corso in occidente,
  • E sì nascoso che più non luceva,
  • E già le stelle e la luna lucente
  • Nell’aria cilestrina si vedeva;
  • E l’usignuol più cantar non si sente,
  • Ma cantan que’ che ’l giorno nascondeva
  • Per lor natura, e scuopronsi la notte.
  • Affrico giunse a casa a cotal’otte. II.
  • Alla qual giunto, l’aspettante padre
  • Con gran letizia ricevette il figlio,
  • Siccome quel che temea che le ladre
  • Fiere dato non gli avesser di piglio;
  • E la pietosa e piangente sua madre
  • L’abbracciava, dicendo: o fresco giglio,
  • Ove se’ stato, o caro mio figliuolo,
  • Che tu ci hai dato tanta pena e duolo?
  • III.
  • E similmente il padre il domandava
  • Ove stato era il dì senza mangiare:
  • Affrico sopra sè alquanto stava,
  • Per legittima scusa a ciò trovare,
  • La quale amore tosto gl’insegnava,
  • Come far suol le menti assottigliare
  • De’ veri amanti, ed al padre rispose,
  • E una bugia cotal sì gli dispose: IV.
  • Padre mio caro, egli è gran pezzo ch’io
  • In questi poggi i’ vidi una cerbietta,
  • La qual tanto bell’era al parer mio
  • Che mai non credo che una sì eletta
  • Se ne vedesse; e veramente Iddio
  • Colle sue man la fe’ si leggiadretta:
  • E nell’andar come grù era leve,
  • E bianca tutta come pura neve. V.
  • Sì n’invaghii ch’io la seguii gran pezza
  • Di bosco in bosco, credendo pigliarla,
  • Ma ella tosto de’ monti l’altezza
  • Prese, perch’io di più seguitarla
  • Sì mi rimasi con molta gravezza,
  • E in cuor mi posi d’ancor ritrovarla,
  • E con più agio seguirla altra volta,
  • Così a casa tornando diedi volta.
  • VI.
  • Io mi levai stamane, a dire il vero,
  • Veggendo il tempo bel, mi ricordai
  • Della cerbietta, e vennemi in pensiero
  • Di lei cercare, e mi deliberai:
  • Così mi misi su per un sentiero,
  • Che non m’accorsi ch’io mi ritrovai
  • A mezzo il poggio, quando il sol già era
  • A mezzo il ciel con la lucente spera. VII.
  • Quando sentii e vidi menar foglie
  • Di quercioletti freschi, ond’io più presso
  • Mi feci alquanto dietro a alcune scoglie
  • Tacitamente per veder fui messo,
  • Vidi tre cerbie gir con pari voglie
  • L’erbe pascendo, perchè in fra me stesso
  • Avvisaimi pigliarne una pian piano,
  • Ver lor n’andai con un po’ d’erba in mano. VIII.
  • Ma com’elle mi vider, si fuggiro
  • Suso al monte senza punto aspettarmi,
  • E io di questo alquanto me n’adiro,
  • Veggendo quivi beffato lasciarmi:
  • E così dietro loro un pezzo miro
  • Poi a seguirle, senza avere altr’armi
  • Che ora i’ m’abbia, infin che di veduta
  • Non me le tolse la notte venuta.
  • IX.
  • Or sai della mia stanza la cagione,
  • O caro padre, e di questo sii certo.
  • E ’l padre, ch’avea nome Giraffone,
  • Gli parve intender quel parlar coperto;
  • E ben s’avvide, e tenne opinïone,
  • Siccome savio e di ta’ cose esperto,
  • Che ninfe state doveano esser quelle,
  • Che dicea ch’eran cerbie tanto belle. X.
  • Ma per non farlo di ciò mentitore,
  • E non paresse che se ne accorgesse,
  • E per non crescergli il disio maggiore
  • Di più seguirle, ed ancor se potesse
  • Far che lasciasse da sè questo amore,
  • E senza palesargli giù il ponesse,
  • Ciò che ha detto fa vista di credirgli,
  • Poi cominciò in tal guisa a dirgli. XI.
  • Caro figliuolo e dolce mio diletto,
  • Per Dio, ti prego, ti sappi guardare
  • Da quelle cerbie che tu hai or detto,
  • Ed in mal’ora via le lassa andare,
  • Che sopra la mia fede io ti prometto
  • Che di Dïana sono; a diportare
  • Si van pascendo su per questi monti,
  • L’acqua bevendo delle fresche fonti.
  • XII.
  • Dïana le più volte va con esse
  • Con le saette e l’arco micidiale,
  • E se per tua sventura s’avvedesse
  • Che tu le seguitassi, con lo strale
  • Morte ti donerebbe, come spesse
  • Volte ell’ha fatto a chi vuol far lor male:
  • Sanza ch’ell’è grandissima nimica
  • Di noi, e della nostra schiatta antica. XIII.
  • Oimè, figliuol, che a lacrimar mi muove
  • La morte del mio padre sventurato,
  • Tornandomi a memoria il come e ’l dove
  • Fu da Dïana morto e consumato:
  • O figliuol mio, così m’aiuti Giove,
  • Com’io dirò il ver del suo peccato,
  • Che, come sai, ebbe nome Mugnone
  • Il padre mio, siccom’io Giraffone. XIV.
  • La storia sarie lunga a voler dire
  • Ogni parte del suo misero danno;
  • Ma per tosto all’effetto pervenire,
  • Per questi monti andava, come vanno
  • I cacciator per le bestie fedire,
  • E così andando, dopo molto affanno
  • ’N una piaggia sopra un fiume arrivoe,
  • Il qual per lui Mugnon poi si chiamoe.
  • XV.
  • E quivi giunto ad una bella fonte,
  • Trovò una ninfa star tutta soletta,
  • La qual vedutol, tutta nella fronte
  • Impallidío, e su si levò in fretta,
  • Oimè, oimè dicendo, e su pel monte
  • Si fuggìa paurosa e pargoletta;
  • Il volonteroso padre a pregarla
  • Incominciò, e poi a seguitarla. XVI.
  • O miser padre, tu non t’avvedevi
  • Che tu correvi dietro alla tua morte,
  • E i lacci tuoi, tapin, non conoscevi,
  • Dove preso tu fusti con ria sorte!
  • Gl’ Dii volesser, che quando correvi
  • Dietro alla ninfa sì veloce e forte,
  • Diana l’avesse in uccel trasmutata,
  • O in pietra, o in erba l’avesse piantata. XVII.
  • Ella non era al fiume giunta a pena,
  • Che la raccolta e sottil sua guarnacca
  • Tra le gambe le cadde, e già la lena
  • Del correr perde, e di dolor si fiacca:
  • Lo sciaurato Mugnon gioia ne mena,
  • Avendola già giunta per istracca,
  • E presa la teneva infra le braccia,
  • Donando baci alla vergine faccia.
  • XVIII.
  • Quivi usò forza, e quivi violenza,
  • Quivi la ninfa fu contaminata:
  • Quivi ella non potè far resistenza.
  • Oh misero garzone, o sventurata
  • Ninfa, quanta dogliosa penitenza
  • Divise amendue voi quella fïata!
  • Dïana di sopra ’l soprastante monte
  • Abbracciati gli vide a fronte a fronte. XIX.
  • Ella gridò: miseri, quest’è l’ora
  • Che insieme n’anderete nello inferno;
  • Voi sarete oggi d’esto mondo fuora
  • Senza veder di questa state il verno:
  • E’ nomi vostri faranno dimora
  • Nel fiume dove sete in sempiterno:
  • E poscia l’arco tese con grand’ira,
  • Facendo de’ due amanti una sol mira. XX.
  • A un’otta giunson l’ultime parole
  • E la freccia che insieme gli confisse:
  • O figliuol mio, io non ti dico fole,
  • Così volesson gli Dei ch’io mentisse,
  • Che per dolore ancora il cor mi dole,
  • E’ convenne ch’ognun di lor morisse:
  • Un ferro tenea fitti que’ due cori,
  • Così finiron quivi i loro amori.
  • XXI.
  • Il sangue del mio padre doloroso
  • Il fiume tinse di rosso colore,
  • E corse tutto quanto sanguinoso,
  • E manifesto fe’ questo dolore,
  • E ’l corpo suo ancor vi sta nascoso,
  • Che mai non se ne seppe alcun sentore,
  • Nè dove s’arrivasse poi, o il come,
  • Salvo che ’l fiume ne ritenne il nome. XXII.
  • Dissesi che Dïana ragunoe
  • Il sangue della ninfa tutto quanto,
  • E ’l corpo insieme con quel tramutoe
  • In una bella fonte, dall’un canto
  • Allato al fiume, e così la lascioe,
  • Acciocchè manifesto fosse quanto
  • Ell’è crudele e forte e dispietata
  • A chi l’offende solo una fïata. XXIII.
  • Così di molti te ne potre’ dire
  • Che ’n questi monti sono fonti e uccelli,
  • Quali in albero ha fatti convertire,
  • E così ha disfatti i tapinelli:
  • Ancor del sangue tuo fece morire
  • Anticamente due carnal fratelli:
  • Però ti guarda, per l’amor di Dio,
  • Dalle sue mani, o caro figliuol mio.
  • XXIV.
  • Posto avea fine al suo ragionamento
  • Il vecchio Giraffone lacrimando;
  • Affrico ad ascoltarlo molto attento
  • Istava, bene ogni cosa notando,
  • E come che alquanto di spavento
  • Avesse di quel dir, pur fermo stando
  • In sua opinïon, al padre disse,
  • Deh non temer cotesto a me avvenisse. XXV.
  • Da ora innanzi le lascerò andare,
  • Se egli avvien ch’io le trovi più mai.
  • Andianci, padre, omai a riposare,
  • Ch’io sono stanco, sì m’affaticai
  • Oggi per questi monti, per tornare
  • Di dì a casa, che mai non finai,
  • Ch’io son qui giunto con molta fatica;
  • Sì ch’io ti prego che tu più non dica. XXVI.
  • Giti a dormir, non fu sì tosto giorno
  • Ch’Affrico si levava prestamente,
  • E nelli usati poggi fe’ ritorno
  • Dove sempre tenea ’l core e la mente,
  • Sempre mirandosi avanti ed intorno
  • Se Mensola vedea poneva mente,
  • E come piacque a Amor giunse ad un varco
  • Ov’ella gli era presso ad un trar d’arco.
  • XXVII.
  • Ella lo vide prima che lui lei,
  • Perchè a fuggir del campo ella prendea:
  • Affrico la sentì gridare omei,
  • E poi guardando fuggir la vedea;
  • E infra sè disse, per certo costei
  • È Mensola, e poi dietro le correa;
  • E sì la prega, e per nome la chiama,
  • Dicendo, aspetta quel che tanto t’ama. XXVIII.
  • Deh, o bella fanciulla, non fuggire
  • Colui che t’ama sopra ogn’altra cosa.
  • Io son colui che per te gran martire
  • Sento dì e notte senza aver mai posa:
  • Ch’i’ non ti seguo per farti morire,
  • Nè per far cosa che ti sia gravosa,
  • Ma solo Amor mi li fa seguitare,
  • Non nimistà nè mal ch’io voglia fare. XXIX.
  • Io non ti seguo come falcon face
  • La volante pernice cattivella,
  • Nè ancora come fa lupo rapace
  • La misera e dolente pecorella,
  • Ma sì come colei che più mi piace
  • Sopr’ogni cosa, e sia quanto vuol bella.
  • Tu se’ la mia speranza e ’l mio disio,
  • E se tu avessi mal sì l’avre’ io.
  • XXX.
  • Se tu m’aspetti, o Mensola mia bella,
  • Io ti prometto e giuro per gli Dei
  • Ch’io ti torrò per mia sposa novella,
  • Ed amerotti sì come colei
  • Che se’ tutto il mio bene, e come quella
  • C’hai in balìa tutti i sensi miei:
  • Tu se’ colei che sol mi guidi e reggi,
  • Tu sola la mia vita signoreggi. XXXI.
  • Dunque perchè vuo’ tu, o dispietata,
  • Esser della mia morte la cagione?
  • Ed esser vuoi di tanto amore ingrata
  • Verso di me, senza averne ragione?
  • Vuo’ tu ch’io muoia per averti amata,
  • E ch’io n’abbia di ciò tal guiderdone?
  • S’io non t’amassi dunque che faresti?
  • So ben che peggio far non mi potresti. XXXII.
  • Se tu pur fuggi, tu se’ più crudele
  • Che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,
  • E se’ più amara che non è il fiele,
  • E dura più che i sassi marmorini.
  • Se tu m’aspetti, più dolce che mele
  • Se’, o che l’uva ond’esce i dolci vini;
  • E più che ’l sol se’ bella e rilucente,
  • Morbida, bianca, angelica e piacente.
  • XXXIII.
  • Ma i’ ben veggo che ’l pregar non vale,
  • Nè parola ch’io dica non ascolti,
  • E di me servo tuo poco ti cale,
  • Nè mai indietro gli occhi non hai volti;
  • Ma come egli esce dell’arco lo strale,
  • Così ten vai per questi boschi folti,
  • E non ti curi di pruni o di sassi
  • Che graffian le tue gambe, e de’ gran massi. XXXIV.
  • Or poi che di fuggir se’ pur disposta
  • Colui che t’ama, secondo ch’io veggio,
  • Senza fare a’ miei preghi altra risposta,
  • E par che per pregar tu facci peggio,
  • Io prego Giove che ’l monte e la costa
  • Ispiani tutta; questa grazia chieggio,
  • E pianura diventi umíle e piana,
  • Ch’al correr non ti sia cotanto strana. XXXV.
  • E prego voi, Iddii, che dimorate
  • Per questi boschi e nelle valli ombrose,
  • Che se cortesi fuste mai, or siate
  • Verso le gambe candide e vezzose
  • Di quella ninfa, che voi convertiate
  • Alberi e pruni e pietre e altre cose,
  • Che noia fanno a’ pie’ morbidi e belli,
  • In erba minutella e praticelli.
  • XXXVI.
  • E io per me omai mi rimarroe
  • Di più seguirti, e va’ dove ti piace,
  • E nella mia mal’ora mi staroe
  • Con molte pena senza aver mai pace;
  • E senza dubbio al fine io mi morroe,
  • Ch’io sento il cor che già tutto si sface
  • Per te, che ’l tieni in sì ardente foco,
  • E mancagli la vita a poco a poco. XXXVII.
  • Correa la ninfa sì velocemente
  • Che parea che volasse, e’ panni alzati
  • S’avea dinanzi per più prestamente
  • Poter fuggire, e aveasegli attaccati
  • Alla cintura, sì che apertamente
  • Di sopra a’ calzerin ch’avea calzati
  • Mostra le gambe e ’l ginocchio vezzoso,
  • Ch’ognun ne saria stato disïoso. XXXVIII.
  • E nella destra man teneva un dardo,
  • Il qual quand’ella fu un pezzo fuggita
  • Si volse indietro con rigido sguardo,
  • E diventata per paura ardita
  • Quel gli lanciò col suo braccio gagliardo,
  • Per ad Affrico dar mortal fedita;
  • E ben l’avrebbe morto, se non fosse
  • Che in una quercia innanzi a lui percosse.
  • XXXIX.
  • Quando ella il dardo per l’aria vedeva
  • Zufolando volare, e poi nel viso
  • Guardò del suo amante, il qual pareva
  • Veracemente fatto in paradiso,
  • Di quel lanciare forte le doleva,
  • E tocca da pietà lo mirò fiso,
  • E gridò forte: oimè! giovane, guarti,
  • Ch’io non potrei di questo omai atarti. XL.
  • Il ferro era quadrato e affusolato,
  • E la forza fu grande, onde e’ si caccia
  • Entro la quercia, e tutto oltre è passato,
  • Sì com’avesse dato in una ghiaccia:
  • Ell’era grossa sì che aggavignato
  • Un uomo non l’avrebbe con le braccia;
  • Ella s’aperse, e l’asta dentro entroe,
  • E più che mezza per forza passoe. XLI.
  • Mensola allor fu lieta di quel tratto,
  • Che non aveva il giovine fedito,
  • Perchè Amor già le aveva del cor tratto
  • Ogni crudel pensiero e fatto unito;
  • Ma non però ch’aspettarlo a niun patto
  • Pur lo volesse, o pigliasse partito
  • D’esser con lui, ma lieta sarie stata
  • Di non esser da lui più seguitata.
  • XLII.
  • E poi da capo a fuggir cominciava
  • Velocissituamente, poichè vide
  • Che ’l giovinetto pur la seguitava
  • Con ratti passi e con preghi e con gride;
  • Perch’ella innanzi a lui si dileguava,
  • E grotte e balze passando ricide,
  • E ’n sul gran collo del monte pervenne,
  • Dove sicura ancor non vi si tenne: XLIII.
  • Ma di là passò molto tostamente
  • Dove la piaggia d’alberi era spessa,
  • E sì di frondi folta, che niente
  • Vi si scorgeva dentro; perchè messa
  • Si fu la ninfa là tacitamente,
  • E come fosse uccel, così rimessa
  • Nel folto bosco fu, tra verdi fronde
  • Di be’ querciuol che lei cuopre e nasconde. XLIV.
  • Ora torniamo ad Affrico, che quando
  • Vide il lanciar che la ninfa avea fatto,
  • Alquanto sbigottì, ma poi ascoltando
  • Il gridar, guarti, guarti, con un atto
  • Assai pieteso, verso lui mostrando
  • Con la luce degli occhi, che in un tratto
  • Gli ferì il core, e fecel più bramoso
  • Di seguitarla, e più volonteroso.
  • XLV.
  • Ma come fa ’l tizzon ch’è presso spento,
  • E sol rimasto v’è una favilla,
  • Ma poi che sente il gran soffiar del vento,
  • Per forza il fuoco fuor d’esso ne squilla,
  • E diventa maggior per ogn’un cento;
  • Tale Affrico sentì, quando sentilla
  • A lui parlar con sì pietosa voce,
  • Maggiore il fuoco che l’incende e coce. XLVI.
  • E gridò forte: ora volesse Giove,
  • Poi che tu vuoi, che tu m’avessi morto
  • A questo tratto, acciocchè le tue prove
  • Fusson compiute, avendomi al cor porto
  • L’aguto ferro, il qual percosse altrove;
  • E come che tu abbia di ciò ’l torto,
  • Io pur sarei contento d’esser fuore,
  • Per le tue man, delle fiamme d’amore. XLVII.
  • Appena avea finito il suo parlare
  • Affrico, quando Mensola giugnea
  • In sul gran monte, e videla passare
  • Dall’altra parte, e più non la vedea;
  • Onde di ciò molto mal ne gli pare,
  • Perch’ella innanzi a lui tal campo avea,
  • Che temea forte che lei di veduta,
  • Com’egli avvenne, non aver perduta.
  • XLVIII.
  • E lassù giunto dopo molto affanno,
  • Gli occhi a mirar di lei subito pone:
  • E come i cacciatori spesso fanno,
  • Quando levata s’è la cacciagione,
  • E di veduta poi perduta l’hanno,
  • Colla testa alta vanno baloccone,
  • Correndo or qua or là, or fermi stando,
  • E come smemorati dimorando: XLIX.
  • Tale Affrico faceva in sul gran monte,
  • Di lei mirando con alzato volto,
  • E colle man si percotea la fronte,
  • E di fortuna ria si dolea molto,
  • Che già gli aveva fatte di molte onte;
  • E poi ne giva verso il bosco folto,
  • Poi ritornava indietro, e dicea: forse
  • Ch’ella da questa mano il cammin torse. L.
  • E tosto là correndo se n’andava
  • Se veder la potesse in nessun lato;
  • Poichè non la vedea si ritornava
  • In altro luogo molto addolorato:
  • E poi che andata fusse s’avvisava
  • In altra parte, ma il pensier fallato
  • Tuttavia gli venia, onde che farsi
  • E’ non sapea, nè dove più cercarsi.
  • LI.
  • E ben dicea fra sè; forse costei
  • In questo bosco grande s’è nascosa,
  • E s’ella v’è, mai non la troverei,
  • Se menar non vedessi alcuna cosa;
  • E più d’un mese a cercar penerei
  • La piaggia tutta per le frondi ombrosa;
  • E non ci veggio d’onde entrata sia,
  • Nè fatta per lo bosco alcuna via. LII.
  • Nè ’l cor giammai mi daria d’avvisare
  • In qual parte sia ita, tante sono
  • Le vie d’onde ella se ne puote andare;
  • E se a cercar di lei pur m’abbandono,
  • Per avventura il contrario cercare
  • Potrei dov’ella fosse; onde tal dono
  • Quanto aver mi parea perderò omai,
  • Ond’io mi rimarrò con molti guai. LIII.
  • Nè so s’io me ne vo, o s’io m’aspetti,
  • Se riuscir la veggio in nessun lato,
  • Benchè sì folti son questi boschetti
  • Che vi staria a cavallo un uom celato
  • Senza d’esser veduto aver sospetti.
  • E pognam pur ch’ell’uscisse d’aguato,
  • Più ch’un buon mezzo miglio di lontano
  • Da me uscirebbe, ond’i’ correre’ invano.
  • LIV.
  • E poi guardò il sol, che presso all’ora
  • Di nona era venuto, ond’e’ diceva:
  • Perchè io son d’ogni speranza fuora
  • D’aver colei, la qual io mi credeva,
  • Io non vo’ più quinci oltre far dimora,
  • Tornandogli a memoria quel ch’aveva
  • Raccontatogli il padre il dì davanti,
  • Come fur morti insieme i due amanti. LV.
  • Dall’altra parte Amor gli facea dire:
  • Io non curo Dïana, pur che io
  • Solo una volta empiessi il mio disire,
  • Che poi contento sarebbe il cor mio;
  • E se mi convenisse poi morire,
  • N’andrei contento ringraziando Iddio;
  • Ma di lei più che di me mi dorrebbe:
  • S’ella morisse per me, mal sarebbe. LVI.
  • Cotai ragionamenti rivolgendo
  • Affrico in sè vi dimorò gran pezza,
  • Nè che si far nè che dir non sapendo,
  • Tanto amor lo lusinga e sì l’avvezza:
  • Pur nella fine partito prendendo,
  • Per non voler al padre dar gramezza,
  • A casa ritornar contro sua voglia,
  • Così si mise in via con molta doglia.
  • LVII.
  • Così si torna Affrico mal contento
  • Rivolgendosi indietro ad ogni passo,
  • E stando sempre ad ascoltare attento
  • Se Mensola vedea, dicendo, lasso,
  • Oimè tapino! in quanto rio tormento
  • Rimango, e d’ogni ben privato a casso!
  • E tu rimani, o Mensola! chiamando
  • Più e più volte, e indietro ritornando. LVIII.
  • Molto sarebbe lungo chi volesse
  • Le volte raccontar ched e’ tornava
  • Indietro e innanzi, tant’erano spesse,
  • Per ogni foglia che si dimenava;
  • E quanta doglia dentro al core avesse,
  • Ognuno il pensi, e quanto lo gravava
  • Di partir quindi, ma per dir più breve
  • A casa si tornò con pena greve. LIX.
  • Alla qual giunto, in camera ne gìa,
  • Senza da padre o madre esser veduto,
  • E ’n sul suo picciol letto si ponìa,
  • Sentendosi già al core esser venuto
  • Cupido, il qual sì forte lo ferìa,
  • Che volentieri avrebbe allor voluto
  • Morendo uscir di tanta pena e noia,
  • Vedendosi privato di tal gioia.
  • LX.
  • E tutto steso in sul letto bocconi
  • Affrico sospirando dimorava;
  • E sì lo punson gli amorosi sproni,
  • Che, oimè, oimè, per tre volte gridava
  • Sì forte, che agli orecchi que’ sermoni
  • Della sua madre venner, che si stava
  • ’N uno orticello allato alla casetta,
  • E ciò udendo in casa corse in fretta: LXI.
  • E nella cameretta ne fu andata,
  • Del suo flgliuol la voce conoscendo;
  • E giunta là si fu maravigliata,
  • Il suo flgliuol boccon giacer veggendo,
  • Perchè con voce rotta e sconsolata
  • Lui abbracciò, caro figliuol, dicendo,
  • Deh dimmi la cagion del tuo dolere,
  • E donde vien cotanto dispiacere. LXII.
  • Deh dimmel tosto, caro figliuol mio,
  • Dove ti senti la pena e ’l dolore,
  • Sì che io possa, medicandoti io,
  • Cacciar da te ogni doglia di fore:
  • Deh leva il capo, dolce mio disio,
  • Ed un poco mi parla per mio amore,
  • Io son la madre tua che ti lattai,
  • E nove mesi in corpo ti portai.
  • LXIII.
  • Affrico udendo quivi esser venuta
  • La sua tenera madre, fu cruccioso
  • Perch’ella s’era di lui avveduta;
  • Ma fatto già per amor malizioso,
  • Tosto gli fu nel cor scusa venuta,
  • E ’l capo alzò col viso lagrimoso,
  • E disse: madre mia, quando tornava
  • Istaman caddi, e tutto mi fiaccava. LXIV.
  • Poi mi rizzai, e rimasemi al fianco
  • Una gran doglia, ch’appena tornare
  • Pote’ infin qui, e divenni sì stanco,
  • Che sopra me non potea dimorare,
  • Ma come neve al sol mi venìa manco,
  • Perch’io mi venni in sul letto a posare:
  • E parmi alquanto la doglia ita via,
  • Che prima tanto forte m’impedia. LXV.
  • E però, madre mia, se tu m’hai caro,
  • Ti prego che di qui facci partenza,
  • E per Dio questo non ti sia discaro,
  • Che ’l favellar mi dà gran penitenza,
  • Nè veggio alla mia doglia altro riparo:
  • Or te ne va’, senza più resistenza
  • Fare al mio dir, che per certo conosco
  • Che ’l più parlar m’è velenoso tosco.
  • LXVI.
  • E questo detto il capo giù ripose,
  • Senza più dir, ma forte sospirando.
  • La madre, avendo udite queste cose,
  • Con seco venne alquanto ripensando,
  • Dicendo: e’ mi s’accosta, che gravose
  • E maggior pene gli fien favellando,
  • Che forse gli rimbomba quella voce
  • Dove la doglia nel fianco gli cuoce. LXVII.
  • E della camera uscì, e in sul letto
  • Lasciò il figliuolo con molti sospiri:
  • Il qual poi che si vide esser soletto,
  • D’amor si dolea forte e de’ martiri
  • I quai crescean nel non usato petto
  • Con maggior forza, e più caldi i desiri
  • Che prima non facien, dicendo: i’ veggio
  • Ch’amor mi tira pur di mal in peggio. LXVIII.
  • Io mi sento arder dentro tutto quanto
  • Dall’amorose fiamme, e consumare
  • Mi sento il petto e ’l cor da ogni canto,
  • Nè non mi può di questo nullo atare
  • Nè conforto donar poco nè quanto;
  • Sol’una è quella che mi può donare,
  • S’ella volesse, aiuto e darmi pace,
  • E di me sol può far quanto le piace.
  • LXIX.
  • E tu sola fanciulla bionda e bella,
  • Morbida, bianca, angelica e vezzosa,
  • Con leggiadro atto e benigna favella,
  • Fresca e giuliva più che bianca rosa,
  • E splendiente più ch’ogni altra stella
  • Sei che mi piaci più che altra cosa;
  • E sola te con desiderio bramo,
  • E giorno e notte ad ogn’ora ti chiamo. LXX.
  • Tu se’ colei ch’alle mie pene e guai
  • Sola potresti buon rimedio porre:
  • Tu se’ colei che nelle tue man’hai
  • La vita mia, ne la ti posso torre:
  • Tu se’ colei la qual se tu vorrai
  • Me da misera morte potrai storre;
  • Tu se’ colei che mi puo’ atar se vuoi,
  • Così volessi tu, come tu puoi. LXXI.
  • E poi diceva: oimè lasso, dolente!
  • Che tu se’ tanto dispietata e dura,
  • E tanto se’ selvaggia dalla gente
  • Che hai di chi ti mira gran paura,
  • E di mia vita non curi niente,
  • La qual’in carcer tenebrosa e scura
  • Istà per te, e tu, lasso, non credi
  • Ch’io per te senta quel che tu non vedi.
  • LXXII.
  • Poi sospirando a Vener si volgeva,
  • Dicendo: o santa diva, la quel suoi
  • Ogni gran forza vincer, che soleva
  • Difesa far contra li dardi tuoi,
  • E niun da te difender si poteva,
  • Ora mi par che vincer tu non puoi
  • Una fanciulla tenera, la quale
  • La forza tua contra lei poco vale. LXXIII.
  • Tu hai perduta ogni forza e valore
  • Contra di lei, e l’ingegno sottile,
  • Che suol’avere il tuo figliuolo Amore
  • Contro ogni core villano e gentile,
  • Perduto l’hai contro al gelato core,
  • Il quale ogni tua forza tiene a vile,
  • E sprezza l’arco e l’agute saette,
  • Che solei far con esse tue vendette. LXXIV.
  • Tu li credesti forse lei pigliare
  • Agevolmente come me pigliasti,
  • E nel gelato petto tosto entrare
  • Co’ tuoi ingegni come nel mio entrasti:
  • Ma ella fe’ le frecce rintuzzare
  • Colle qua’ di passarla t’ingegnasti,
  • E io tapin, che non fei difensione,
  • Rimaso sono in eterna prigione:
  • LXXV.
  • Nè spero d’essa giammai riuscire
  • Nè pace aver nè tregua nè riposo,
  • Ma bene aspetto che maggior martire
  • Mi cresca ognor col pensiero amoroso,
  • Il quale al fin farà del corpo uscire
  • L’anima trista con pianto noioso,
  • E gir fra l’ombre nere a suo dispetto,
  • E questo fia di me l’ultimo effetto. LXXVI.
  • E io ti chieggio morte, poichè dei
  • Medicina esser di mia amara vita,
  • Perchè contra mia voglia viverei,
  • Se non mi dai nel cor la tua fedita,
  • E sempre mai di te io mi dorrei,
  • Ma se tu vien sarai da me gradita;
  • Dunque vien tosto, e scio’ questa catena
  • Con la qual son legato in tanta pena. LXXVII.
  • Poi detto questo forte lagrimando
  • Sì ricordò del dardo, il qual lanciato
  • Gli avea la bella ninfa: e poscia quando
  • Con pietose parole avea parlato,
  • Ch’egli schifasse il dardo, che volando
  • Venia per lui per l’aria affusolato:
  • Quelle parole gli davan fidanza
  • Alcuna di pietà con isperanza.
  • * * *
  • PARTE TERZA
  • * * *
  • I.
  • Così piangendo e sospirando forte
  • Lo innamorato giovane in sul letto,
  • Bramando vita e chiamando la morte,
  • E sperando e temendo con sospetto,
  • Lo Iddio del sonno uscì delle gran porte
  • E fece addormentare il giovinetto,
  • Il qual per le fatiche era sì stanco
  • Che quasimente venia tutto manco. II.
  • La maestrevol madre colto aveva
  • D’erbe gran quantità per un bagnuolo
  • Fare a quel male, il qual’ella credeva
  • Che nel fianco sentisse il suo figliuolo,
  • Sì come quella che non conosceva
  • Donde veniva l’angoscioso duolo;
  • E mentre che tal’opera dispone
  • A casa ritornava Giraffone.
  • III.
  • Il qual del caro figlio dimandava
  • Se in quel giorno a casa era tornato:
  • La donna, che Almena si chiamava,
  • Di sì rispose, e poi gli ha raccontato
  • Il fatto tutto, e come gli gravava
  • Sì lo parlar che solo l’ha lasciato
  • Perch’e’ si possa a suo modo posare,
  • Però ti prego che tu il lasci stare. IV.
  • I’ ho fatto un bagnol molto verace
  • A quella doglia, il qual poscia che alquanto
  • Riposato sarà quanto a lui piace,
  • Il bagnerem con esso tutto quanto:
  • Questo bagnolo ogni doglia disface,
  • E sanerallo dentro in ogni canto;
  • Però lo lascia stare quanto e’ vuole,
  • Chè quando parla, il fianco più gli duole. V.
  • L’amor paterno non sofferse stare
  • Che non vedesse subito il figliuolo:
  • Udendo quella cosa raccontare
  • Alla sua donna, al cor sentì gran duolo,
  • E nella cameretta volle andare
  • Dove Affrico dormia sul letticciuolo;
  • E vedendol dormir lo ricopria,
  • E tostamente quindi se n’uscia.
  • VI.
  • E disse alla sua donna: o cara sposa,
  • Nostro figliuol mi pare addormentato,
  • E molto ad agio in sul letto si posa,
  • Sì che a destarlo mi parria peccato;
  • E forse gli saria cosa gravosa
  • Sed io l’avessi del sonno svegliato:
  • E tu di’ vero, diceva Alimena,
  • Lascial posare e non gli dar più pena. VII.
  • Poscia che ’l sonno ebbe Affrico tenuto
  • Nelle sue reti gran pezza legato,
  • E fu nel petto suo tutto soluto,
  • Un gran sospir gittando fu svegliato;
  • E poi che vide non esser veduto
  • Nel suo primo dolor fu ritornato:
  • E non gli era però di mente uscito
  • Il dolce sguardo che l’avea ferito. VIII.
  • Ma per non far la cosa manifesta
  • Al padre, che sentito già l’avea,
  • Su si levò facendo sopravvesta
  • Col viso infinto ad amor che ’l pugnea,
  • E poi ch’alquanto il bel viso e la testa
  • E gli occhi col lenzuol netti s’avea,
  • Perch’era ancor di lacrime bagnato,
  • Poi uscì fuori un pochetto turbato.
  • IX.
  • Giraffon quando il vide, tostamente
  • Gli si faceva incontro, domandando
  • Del caso suo, e poi come si sente,
  • E Alimena ancor lui rimirando
  • Il domandava, e que’ dicea: niente
  • Quasi mi sento; e dicovi che quando
  • I’ mi destai, mi senti’ andato via
  • La doglia che sì forte m’impedia. X.
  • Nondimen fece il padre apparecchiare
  • Il bagnuol caldo perchè si bagnasse;
  • Ed e’ vi si bagnò, per dimostrare
  • Ch’altra pena non fosse che ’l noiasse.
  • O Giraffon tu nol sai medicare;
  • Nè non potresti far che si saldasse
  • Col bagnuol la ferita che fe’ amore,
  • E non la vedi, ch’è nel mezzo al core, XI.
  • Ma lasciam qui: che poi che fu bagnato
  • Passò quel giorno assai malinconoso,
  • E l’altro e ’l terzo e ’l quarto egli ha passato
  • Con molte pene e senza alcun riposo,
  • E già ogni diletto abbandonato,
  • Senza mai rallegrarsi sta pensoso,
  • Nè mai partiva il pensier da colei,
  • Per cui dì e notte chiamava gli omei.
  • XII.
  • Già padre e madre e tutt’altre faccende
  • Gli uscian di mente senza averne cura,
  • Nè più a niuna cosa non attende,
  • Lasciandole menare alla ventura:
  • Ma ogni suo pensiero in quella spende
  • La qual’il tiene in tal prigione scura,
  • E solo in lei ha posto ogni sua speme,
  • E di lei ha paura e lei sol teme. XIII.
  • E se quando poteva in alcun loco,
  • Che veduto non fosse, ritrovarsi,
  • Quivi sfogando l’amoroso foco,
  • Dolendosi d’amor, poneva a starsi:
  • E sol questo era suo sollazzo e giuoco,
  • Quando potea con agio lamentarsi,
  • E ricordare i casi intervenuti
  • Ch’eran tra lui e la sua amante suti. XIV.
  • Continuando adunque in tal lamento
  • Affrico, ognor crescendogli la pena,
  • E già sì stanco l’aveva il tormento,
  • Ch’avea perduta la forza e la lena:
  • Vivea contra sua voglia mal contento,
  • E già sì stretto l’avea la catena
  • D’amor, che quasi punto non mangiava,
  • E più di giorno in giorno lo stremava.
  • XV.
  • Già fuggit’era il vermiglio colore
  • Del viso bello, e magro divenuto,
  • In esso già si vedea il palidore,
  • E gli occhi indentro col mirare aguto;
  • E trasformato sì l’avea il dolore,
  • Ch’appena si saria riconosciuto
  • A quel ch’esser solea, prima che preso
  • Fosse d’amore, e dalle fiamme offeso. XVI.
  • Sì gran dolore il padre ne portava,
  • Che raccontar non lo potrei giammai;
  • E con parole spesso il confortava,
  • Dicendo: figliuol mio, dimmi, che hai?
  • E quale è quella cosa che ti grava?
  • Ch’i’ ti prometto che, se mel dirai,
  • Pur che sia cosa che possibil sia,
  • Per certo tu l’avrai in fede mia. XVII.
  • E s’ell’è cosa che non si potesse
  • Aver per forza o per ingegno umano,
  • Provvederem s’altra cosa ci avesse
  • A cacciar via questo pensier villano,
  • Acciocchè tanta noia non ti desse,
  • E che tu torni com’esser suoi sano;
  • E non può esser che qualche consiglio
  • Io non ti doni, o caro e dolce figlio.
  • XVIII.
  • Simile ancora la sua madre cara
  • Il domandava spesso qual cagione
  • Fosse della sua vita tanto amara,
  • Che ’l conduceva a tanta turbazione,
  • Dicendo: figlio, tanto m’è discara
  • Questa tua angoscia, che in disperazione
  • Io credo venir tosto, poich’io veggio
  • Che ogni giorno vai di male in peggio. XIX.
  • Null’altra cosa Affrico rispondea
  • Se non che nulla di mal si sentia,
  • E la cagion di questa non sapea:
  • Alcuna volta pure acconsentia
  • Che un po’ il capo e altro gli dolea,
  • Perchè di più dimandarlo ristia:
  • Onde più volte egli era medicato,
  • Non di quel mal che saria bisognato. XX.
  • Adunque in cotal vita dimorando
  • Affrico, un giorno essendo con l’armento
  • Del suo bestiame, e quindi oltre guardando
  • Sen giva in qua e in là con passo lento,
  • Continuo all’amante sua pensando,
  • Per la qual dimorava in tal tormento,
  • Poi una fonte vide molto bella
  • Appresso a lui, più chiara ch’una stella.
  • XXI.
  • Ell’era tutta d’alber circundata,
  • Di verdi frondi che facean ombria
  • Ad essa; e poi ch’alquanto l’ha mirata,
  • Appiè di quella a seder si ponia,
  • Pensando alla sua vita sventurata,
  • E dove amor condotto già l’avia;
  • Poi si specchiava nell’acqua, e pon cura
  • Quanto fatt’era la sua faccia scura. XXII.
  • Perchè pietà di sè stesso gli venne,
  • Veggendosi sì forte sfigurato,
  • E le lacrime punto non ritenne,
  • Ma forte a pianger egli ha cominciato,
  • Maladicendo ciò che gl’intervenne
  • Il primo giorno che fu innamorato,
  • Dicendo: lasso me, a che periglio
  • Veggo la vita mia senza consiglio! XXIII.
  • E con la man la gota sostenendo,
  • In sul ginocchio il gomito posava,
  • E sì diceva tuttavia piangendo:
  • Oimè, dolente la mia vita prava,
  • Ch’ella si va come neve struggendo
  • Al sol, tanto questa doglia mi grava!
  • E come legno al fuoco mi divampo,
  • Nè veggio alcun riparo allo mio scampo.
  • XXIV.
  • Io non posso fuggir ched io non ami
  • Questa crudel fanciulla che m’ha preso
  • Il core, o ch’io non lei sempre mai brami
  • Sopr’ogni cosa; e poi veggio che offeso
  • I’ son sì forte da questi legami
  • Che giorno e notte sto in foco acceso,
  • Senza speranza d’uscirne giammai,
  • Se morte non pon fine a questi guai. XXV.
  • E poi guardando, vide nel suo armento
  • Le belle vacche e’ giovenchi scherzare:
  • Vedea ciascuno ’l suo amor far contento,
  • E l’un con l’altro li vedea baciare:
  • Sentia gli uccei con dolce cantamento
  • Ed amorosi versi rallegrare,
  • E gir l’un dietro all’altro sollazzando,
  • E gli amorosi effetti gir pigliando. XXVI.
  • Affrico questo veggendo dicea:
  • O felici animai! quanto voi sete
  • Più di me amici di Venere Iddea,
  • E quanto i vostri amor più lieti avete,
  • E con maggior piacer ch’io non credea!
  • E quanto più di me lodar dovete
  • Amor de’ vostri diletti e piaceri,
  • Che v’ha prestati sì compiuti e veri!
  • XXVII.
  • Voi ne cantate e menatene gioia,
  • Manifestando la vostra allegrezza,
  • Ed io ne piango con tormento e noia,
  • E giorno e notte menando gramezza;
  • E veggio pur ch’alfin convien ch’i’ muoia,
  • Così mi liberrò d’ogni gravezza,
  • Senza aver mai avuto alcun diletto
  • Di quella che m’ha il cor tanto costretto. XXVIII.
  • E dopo un gran sospir sì fortemente
  • A pianger cominciava il giovinetto,
  • E le lacrime sì abbondevolmente
  • Gli uscian degli occhi, che le guance e ’l petto
  • Pareano fatti un fiumicel corrente,
  • Tant’era dalla gran doglia costretto:
  • Poi nella bella fonte si specchiava,
  • E con l’ombra di sè stesso parlava. XXIX.
  • Poi che si fu con lei molto doluto,
  • E la fonte di lagrime ripiena,
  • E molti pensier vani avendo avuto,
  • Alquanto di più pianger si raffrena
  • Per un pensier che nel cor gli è venuto,
  • Ch’alquanto mitigò la greve pena,
  • Tornandogli a memoria la speranza
  • Che gli diè Vener della sua amanza.
  • XXX.
  • Ma veggendo l’effetto non venire
  • Di tal promessa, e sè condotto a tale
  • Che ’n breve tempo gli convien morire,
  • Disse: forse che Vener del mio male
  • Non si ricorda, nè del mio martire,
  • Nè vede come morte ria m’assale;
  • Perchè con sacrificio ed onor farle
  • Propose la promessa rammentarle. XXXI.
  • E ’n piè levato se ne giva in parte
  • Dove vedeva il ciel meglio scoperto,
  • E quivi con fucile e con sua arte
  • Il fuoco accese molto chiaro e aperto,
  • E poi con un coltello taglia e parte
  • Di molte legne, e ’l fuoco n’ha coperto:
  • E presto poi prese una pecorella
  • Del suo armento, molto grassa e bella: XXXII.
  • E quella presa la condusse al fuoco,
  • E quivi fra le gambe la si mise,
  • E come quel che ben sapeva il giuoco,
  • Nella gola ferendola l’uccise:
  • E ’l sangue, uscendo fuori a poco a poco,
  • Sopra ’l fuoco lo sparse, e poi divise
  • La pecorella, e due parti n’ha fatto,
  • E nel fuoco le mise molto ratto.
  • XXXIII.
  • L’una parte per Mensola vi misse,
  • L’altra in suo nome volle che vi ardesse,
  • Per veder se miracol ne venisse
  • Per lo quale speranza ne prendesse
  • O buona o ria, pur ch’ella avvenisse,
  • Acciò sapesse che sperar dovesse;
  • E poi si mise in terra ginocchione
  • Facendo a Vener cotale orazione. XXXIV.
  • O santa Dea, la cui forza e valore
  • Ogn’altra passa mondana e celesta,
  • O Vener bella col tuo figlio Amore,
  • Che fere i cori e gli animi molesta,
  • A te ricorro con divoto core,
  • Siccome a quella c’hai in tua potesta
  • Il cor di tutti, che questo mio priego
  • Degni ascoltare, e non mi facci niego. XXXV.
  • Tu sai, Iddea, come agevolmente
  • Io mi lasciai pigliare al tuo figliuolo
  • Il giorno che Dïana parimente
  • Vidi alla fonte con l’adorno stuolo
  • Delle sue ninfe, e come tostamente
  • Nel cor sentii delle tue frecce il duolo,
  • Per una ch’io vi vidi tanto bella,
  • Che sempre poi nel cor m’è stata quella.
  • XXXVI.
  • E quanti sien poi stati i miei martiri,
  • Ch’i’ ho per lei patiti e sostenuti,
  • E l’angosciose pene ed i sospiri
  • Assai ben chiari puoi aver veduti:
  • E quanto la fortuna a’ miei desiri
  • Contraria è stata, possono esser suti
  • Ver testimoni i boschi tutti quanti
  • Di questa valle, s’io gli ho pien di pianti XXXVII.
  • Ancora il viso mio assai palese
  • Fa manifesto come la mia vita
  • È stata, e sta ancora in fiamme accese;
  • E che tosto morendo fia finita,
  • E fuor di tutte quante le tue offese,
  • Se prima la tua forza non l’aita,
  • E se non pon rimedio alla mia pena,
  • Morte mi scioglierà di tal catena. XXXVIII.
  • Tu prima fosti che principio desti
  • Alla mia angoscia, e che in visïone
  • Venendo a me col tuo figliuol dicesti
  • Ched io seguissi il mio opinione;
  • E detto questo poi mi promettesti,
  • Come tu sai, che senza tardagione
  • Che tosto il mio amor verria in effetto;
  • Poi mi lasciasti ferito in sul letto.
  • XXXIX.
  • Perchè del tuo parlar presi speranza,
  • E l’animo disposi ad amar quella,
  • Avend’in ciò di te ferma fidanza;
  • Che un giorno ritrovandola, quand’ella
  • Mi vide, di me prese gran dottanza,
  • Ed a fuggir si diè crudele e fella,
  • E sì veloce, che una saetta
  • Quand’esce d’arco non va tanto in fretta. XL.
  • Nè mai potei con lusinghe e preghiera
  • Far ch’ella mai aspettar mi volesse,
  • Ma come veltro se ne gía leggiera,
  • Mostrando ben che poco le calesse
  • Della mia vita; e poi ardita e fera,
  • Vedendo ch’io a seguirla avea messe
  • Tutte mie forze, si volse, ed un dardo
  • Ver me lanciò col bel braccio gagliardo. XLI.
  • Allor potesti ben vedere, o Dea,
  • Che morto da quel colpo sarie stato,
  • Se un albero non fosse, il quale avea
  • Dinanzi a me, che ’l colpo ebbe arrestato:
  • Poi passò il monte, e più non la vedea,
  • Lasciando me tapino e sconsolato;
  • Nè pote’ poi ritrovarla giammai,
  • Ond’io rimaso son con molti guai.
  • XLII.
  • Ond’io ti prego, o Dea, per tutti i preghi
  • Che far si posson per l’umana gente,
  • Ch’un poco gli occhi verso me tu pieghi,
  • E mira la mia vita aspra e dolente
  • Pietosamente, e fa’ che al cor tu leghi
  • Di Mensola il tuo figlio strettamente,
  • Sì che a lei faccia come a me sentire
  • Le fiaccole amorose col martire. XLIII.
  • E se tu questo non volessi fare,
  • Ti prego almen, che quando la mia vita
  • Verrà a morte, che poco può stare
  • Di qua, che far le converrà partita
  • Di questo mondo, e ’l corpo abbandonare,
  • Che la mia amante veggia tal finita,
  • E che la morte mia non le sia gioia
  • Almen, poi che la vita mia l’annoia. XLIV.
  • Appena avea finita l’orazione
  • Affrico, quando nel foco mirando,
  • Vide che in esso er’arso ogni tizzone,
  • E che la pecorella su levando,
  • L’una parte con l’altra raccozzone
  • Come fu mai, e poi forte belando,
  • Senz’arder punto, stette ritta un poco,
  • E poi ardendo ricadde nel foco.
  • XLV.
  • Questo miracol donò gran conforto
  • Ad Affrico, che ancora lagrimava,
  • Parendogli vedere assai scorto
  • Che Vener l’orazione sua accettava,
  • La qual divotamente le avea porto,
  • Perchè sovente la Dea ringraziava,
  • Parendogli il miracol buon segnale
  • Da dovere aver fine omai ’l suo male. XLVI.
  • E perchè già il sole era calato
  • In occidente, e poco si vedeva,
  • Tutto l’armento suo ebbe adunato
  • E ’n verso il suo ostello il conduceva,
  • Dove nel volto assai più che l’usato
  • E nella vista allegro vi giugneva,
  • E dove e’ fu dal padre suo raccolto
  • E dalla madre ancor con lieto volto. XLVII.
  • Ma poichè già nel ciel tutte le stelle
  • Sì vedeano, e la notte era venuta,
  • Cenaron tutti, e dopo assai novelle
  • D’una cosa e d’un’altra intervenuta,
  • Affrico ch’avea poco il cuore a quelle,
  • La stanza quivi gli era rincresciuta,
  • Perchè a dormir s’andò tutto soletto,
  • Da speranza e pensier nuovi costretto.
  • XLVIII.
  • Ma prima che dormir punto potesse,
  • O che sonno gli entrasse nella testa,
  • Ben mille volte credo si volgesse
  • Pel letticciuol d’altra parte or da questa,
  • Mostrando ben che tutto il core avesse
  • Fiso a colei che tanto lo molesta:
  • Pure aiutato forte da speranza
  • Del sì e del no istava in dubitanza. XLIX.
  • Pure alla fine già presso al mattino
  • Il sonno vinse gli occhi dello amante,
  • E leggiermente dormendo supino
  • Venere Iddea gli venne davante:
  • In collo aveva Amor piccol fantino,
  • Con l’arco e le saette minacciante:
  • Poi gli parea che Venere Iddea
  • Con tai parole inverso lui dicea: L.
  • Il sacrificio tuo, e l’orazione
  • Che mi facesti, fu da me accettata
  • Per modo, che n’avrai buon guiderdone
  • Da me di quel che fui da te pregata:
  • Ed abbi certa e ferma opinïone,
  • Che la mia forza non ti sia negata
  • In tuo aiuto, e quella del mio figlio,
  • Se tu seguir vorrai il mio consiglio.
  • LI.
  • Fatti una vesta per tal modo e stile,
  • Ch’ella sia larga e lunga infino a’ piedi,
  • Tutta ritratta ad atto femminile;
  • Poi d’un arco e d’un dardo ti provvedi,
  • A modo d’una ninfa tutto umile,
  • Poi mettiti a cercar se tu la vedi:
  • Tu parrai come lor ninfa per certo,
  • Se tu saprai con loro esser coperto. LII.
  • E se tu trovi Mensola, con lei
  • Piacevolmente a parlare entrerai
  • Di cose sante e di cose di Dei,
  • E con lei ragionando ti starai:
  • E perchè me’ tu sappi che far dei,
  • Questo mio figlio sempre in core avrai,
  • Che ben t’insegnerà dire ogni cosa,
  • Che fia a lei piacevole e graziosa. LIII.
  • E quando il tempo tu vedi più bello,
  • E tu a lei allor ti manifesta:
  • Ella si fuggirà siccome uccello
  • Seguito dal falcon per la foresta;
  • Ma fa’ che tu non fossi tanto fello,
  • Che quando ti palesi, ella più presta
  • Fusse a fuggir che tu presto a pigliarla,
  • Che non ti varria poi più lusingarla.
  • LIV.
  • Non temer di sforzarla, che ’l mio figlio
  • La ferirà in tal modo e maniera,
  • Che uscire non potrà del suo artiglio:
  • Di lei avrai ogni tua voglia intera.
  • Or fa’ che tu t’attenga al mio consiglio,
  • Ed avrai ciò che il tuo desire spera:
  • Poi si partì, quand’Affrico sentissi,
  • Ch’era già dì, e tosto rivestissi. LV.
  • E come que’ che molto bene avea
  • La visïon di quella Dea compresa,
  • E molto questo modo gli piacea,
  • Onde si fu allor la fiamma accesa
  • Sì nel suo core, che già tutto ardea
  • Per la grande speranza ch’avea presa,
  • Perchè pensava come aver potesse
  • Una gonnella la qual si mettesse. LVI.
  • Ma dopo assai pensar si ricordava
  • Che la sua madre aveva un bel vestire,
  • Il qual non mai o poco ella portava,
  • E ’nfra sè disse: s’io ’l posso carpire,
  • Ottimo fia: poi la madre aspettava
  • Se fuor di casa la vedesse uscire,
  • Per quel vestire in tal parte riporre
  • Che d’imbolio non l’avesse più a torre.
  • LVII.
  • E fugli assai in questo la fortuna
  • Favorevole e buona, che già essendo
  • Ispenti tutti i raggi della luna
  • E delle stelle, e il giorno già venendo,
  • Si levò Giraffone, e senza alcuna
  • Istanza quivi fuor di casa uscendo,
  • Dandosi a fare certi suoi lavori,
  • Così ancor la donna s’usci fuori. LVIII.
  • Affrico non fu lento a questo tratto,
  • Veggendo ognun di lor essere andato,
  • Ma dov’era il vestir se n’andò ratto,
  • E senza cercar troppo l’ha trovato;
  • E ben gli venne ciò che volea fatto,
  • Che senza esser veduto l’ha portato
  • Fuor della casa un gran pezzo lontano,
  • E nascoselo in luogo molto strano. LIX.
  • Poi verso casa facendo ritorno
  • Gli pareva il suo avviso aver fornito;
  • Nè però metter si volle quel giorno
  • A Mensola trovar, ma in casa gito
  • Ritrovò tosto un suo bell’arco adorno,
  • E d’un turcasso e saette guernito,
  • E d’ogni cosa si fu provveduto:
  • Passò quel giorno, e l’altro fu venuto.
  • * * *
  • PARTE QUARTA
  • * * *
  • I.
  • Febo era già co’ veloci cavalli
  • Col fido Eleo venuto in oriente,
  • E già faceva gli alti monti gialli,
  • E rosseggiava l’aria in occidente,
  • Ma non luceva ancor per tutte valli,
  • Quando Affrico levato prestamente
  • L’arco e ’l turcasso prese e fuor si caccia,
  • Alla madre dicendo: i’ vo alla caccia. II.
  • E dove il dì dinanzi aveva messo
  • Il vestir della madre ne fu gito,
  • E quivi giunto, i panni di lui stesso
  • Si trasse, e quivi quel s’ebbe vestito,
  • Una vitalba si cinse sopr’esso
  • Per poter esser più presto e spedito;
  • E certamente che Vener l’atava
  • A acconciar quel vestir, sì ben gli stava.
  • III.
  • Poi i suoi capelli, non già pettinati,
  • Pendeano in giù non con troppa grandezza,
  • Ma biondi sì, che d’or parean filati,
  • E ricciutelli con somma bellezza:
  • Ma come che per gli affanni passati
  • Nel viso ancora avesse palidezza,
  • Pur nondimen quel colore era tale,
  • Che più gli dava femminil segnale. IV.
  • E poi che s’ebbe acconcio in tal maniera,
  • Il turcasso si cinse al destro lato,
  • E l’arco in mano e una freccia leggiera;
  • E poi ch’alquanto s’ebbe rimirato,
  • Gli parea esser quel ched e’ non era,
  • E in femmina di maschio trasmutato:
  • E certo chi non l’avesse saputo
  • Per maschio non l’avria mai conosciuto. V.
  • Poscia i suoi panni in quel luogo rimise
  • Donde ’l vestir femminile avea tratto,
  • Poi verso i monti Fiesolan si mise
  • Così acconcio, non già troppo ratto,
  • E molte fiere in questo mezzo uccise
  • Prima che su fosse salito affatto;
  • Ma poi che fu in sul monte maggiore,
  • De’ tre, sentì di là un gran romore.
  • VI.
  • Affrico volto verso quelle stride
  • Vide più ninfe ind’oltre gir cacciando,
  • Ed accennar ver lui con alte gride:
  • Sta’ ferma al passo la fiera aspettando.
  • Affrico pose mente, e venir vide
  • Un fier cinghial fortemente rugghiando,
  • Con frecce molte fitte nel suo dosso:
  • Affrico sbarra l’arco suo dell’osso, VII.
  • E d’una freccia nel petto al cinghiale
  • Ferì, che gli passò infino al core,
  • Che pelle dura o callo non gli vale;
  • E poco andò che gli mancò il furore,
  • E cadde in terra pel colpo mortale;
  • E come piacque a Venere e ad Amore,
  • Mensola era in luogo ch’assai scorto
  • Vide a quel colpo il cinghial cader morto. VIII.
  • Quivi trasse di ninfe gran brigata,
  • Credendo ben ch’Affrico ninfa fosse,
  • E Mensola con lor si fu adunata,
  • E poi alle compagne a parlar mosse,
  • Ed a lor la novella ha raccontata,
  • Dicendo: i’ vidi com’ella il percosse,
  • Nè sì bel colpo vidi alla mia vita,
  • Quanto fe’ questa ninfa qui apparita.
  • IX.
  • Quanto Affrico sentisse di piacere
  • Dentro dal core udendosi a colei
  • Lodar cotanto, che già dispiacere
  • Le fu vederlo, dir non lo potrei,
  • Ma color sol lo posson ben sapere
  • C’hanno d’amor sentiti i colpi rei,
  • E a chi non lo sapesse fo palese,
  • Che presso fu più volte e’ non la prese. X.
  • Ma credo il tenne più ch’altro paura
  • Delle compagne e degli archi ch’avieno;
  • Ma poi ch’alquanto con lor s’assicura,
  • Cominciò a dir di quel ch’elle dicieno,
  • A ragionar con lor della sventura
  • Di quel cinghial che morto lì tenieno;
  • E com’elle ’l trovaro, e tutti i tratti
  • Ch’ognuna aveva addosso al cinghial fatti. XI.
  • Mensola disse: or ci fusse Dïana,
  • Che noi le faremm questo bel presento.
  • Affrico udendo che di lì lontana
  • Era Dïana, fu molto contento.
  • Ma poi ch’ebbon assai di questa strana
  • Bestia tenuto lì ragionamento,
  • Fecion da parte un berzaglio tra loro,
  • E comiaciaro a saettar costoro.
  • XII.
  • Ognuna quivi l’animo assottiglia,
  • Con gli archi loro egual dardo lanciava:
  • Mensola tosto il suo arco in man piglia,
  • E più presso che l’altre al segno dava;
  • E Affrico di ciò si maraviglia,
  • E tosto l’arco suo in man recava,
  • A lato al dardo di Mensola ha messo
  • La freccia sì, ch’amendue fur più presso. XIII.
  • E come Amor sa ben far quando e’ vuole
  • Far l’un dell’altro tosto innamorare,
  • Quel giorno usò gl’ingegni che far suole
  • Quando le cose ad effetto menare
  • Ei vuole, e non menarle per parole;
  • Così quel giorno seppe sì ben fare,
  • Che di Mensola e d’Affrico lo strale
  • Sempre mai era più presso al segnale. XIV.
  • Per la qual cosa Mensola veggendo
  • Che sempre di lor due era l’onore,
  • Ognora più le veniva piacendo,
  • E già gli aveva posto molto amore;
  • Affrico sempre gli occhi a lei tenendo,
  • Piacevolmente le dava favore,
  • E acconsentiva ciò ch’ella diceva,
  • Ed essa a lui il simile faceva.
  • XV.
  • Ma poi ch’ell’ebbon molto saettato,
  • Cominciò loro a rincrescere il giuoco,
  • Perchè tutte partirsi da quel lato,
  • E ivi presso ne giro ad un loco
  • Dov’era una caverna, e lì trovato
  • Una di quelle ninfe ch’avea il foco
  • Acceso, e messo a cuocer del cinghiale,
  • E con esso non so ch’altro animale. XVI.
  • Aveva il sole già la terza via
  • Fatto del corso suo, quando costoro
  • Si adunar tutte ad una bell’ombria
  • Che facea lì un grandissimo alloro;
  • E sopra ad un gran masso si ponia
  • La cotta carne senz’altro savoro,
  • E pan che di castagne allor facieno,
  • Che grano ancor le genti non avieno. XVII.
  • Per bere usavan acqua con mel cotta
  • E con cert’erbe, e quello era il lor vino;
  • E li nappi con che beveano allotta
  • Di legname era il grande e ’l piccolino:
  • Apparecchiata tutta quella frotta
  • Delle ninfe, mangiando di cor fino,
  • Affrico e Mensol si sedeano allato
  • Con l’altre, avendo il masso circundato.
  • XVIII.
  • Venuto il fin dell’allegro mangiare,
  • Le ninfe tutte quante si levaro,
  • E per lo monte con dolce cantare
  • A due a tre a quattro se n’andaro,
  • Chi in qua chi in là com’a ciascuna pare;
  • Affrico e Mensol non si sceveraro,
  • Ma con tre altre ninfe si partiro
  • Su per lo colle, e inver Fiesole giro. XIX.
  • Com’io v’ho detto, Mensola invaghita
  • D’Affrico s’era pel suo saettare
  • Che sì bene avea fatto, e per l’ardita
  • Presenza sua, e pel dolce parlare,
  • Che già l’amava come la sua vita,
  • Nè saziar si potea di lui guatare,
  • Ma non pensi nïun che giammai questo
  • Amor con pensier fosse disonesto; XX.
  • Perocchè fermamente ella credea
  • Che ninfa fusse ind’oltre del paese,
  • Perchè segno maschil nessun vedea
  • Nella persona, che fosse palese:
  • Che se saputo quel che non sapea
  • Avesse, non saria suta cortese
  • Com’ella fu con l’altre a fargli onore,
  • Ma danno gli avria fatto e disonore.
  • XXI.
  • S’Affrico innamorato di lei era
  • Non bisogna più dir, ch’assai n’è detto:
  • Ma insieme andando, per cotal maniera
  • Portava ascoso il fuoco nel suo petto,
  • E più ardeva che non fa la cera,
  • Veggendosi mirare al suo diletto,
  • E parlare e toccare e farsi onore,
  • Per peritezza gli batteva il core. XXII.
  • E infra sè dicea: che farò io?
  • Io non so ch’io mi dica, o ch’io mi faccia:
  • Se io scuopro a costei il mio disio,
  • Io temo forte che poi non le spiaccia,
  • E che ’l suo amor non mi tornasse in rio
  • Odio, e con l’altre mi desson la caccia;
  • E s’io non me le scuopro questo giorno
  • Non so quando a tal caso mi ritorno. XXIII.
  • Se queste ninfe almen si gisson via,
  • Che son con noi, io pur mi rimarrei
  • Qui solo nato con Mensola mia,
  • E più sicuramente mi potrei
  • A lei scoprire, e mostrar quel ch’io sia,
  • E se fuggir volesse, allor sarei
  • A pigliarla sì accorto, che fuggire
  • Non si potrebbe nè da me partire.
  • XXIV.
  • Ma io mi credo che punto da noi
  • In questo giorno non si partiranno;
  • E s’io m’indugio, non so se mai poi
  • Queste venture innanzi mi verranno:
  • Meglio è che facci quello che tu puoi,
  • Chè molti per indugio perdut’hanno:
  • E fu tutto che mosso per pigliarla,
  • Poi si ritenne, e non volle toccarla. XXV.
  • Ora m’insegna, Venere, or m’aiuta,
  • Ora mi dona il tuo caro consiglio!
  • Ora mi par che l’ora sia venuta
  • Nella qual debbo a costei dar di piglio:
  • E poi pensando il suo pensier rimuta,
  • Parendogli a far questo pur periglio:
  • E ’l sì e ’l no nel capo gli contende,
  • E l’amoroso foco più l’accende. XXVI.
  • Ell’eran già tanto giù per lo colle,
  • Gite, ch’eran vicine a quella valle
  • Che duo monti divide, quando volle
  • D’Affrico Amor le voglie contentalle:
  • Nè più oltre che quel giorno indugiolle,
  • Trovando modo ad effetto menalle,
  • Chè mentre in tal maniera insieme gieno
  • Nella valle, acqua risonar sentieno.
  • XXVII.
  • Nè furon guari le ninfe oltre andate,
  • Che trovaron due ninfe tutte ignude
  • Che in un pelago d’acqua eran entrate,
  • Dove l’un monte con l’altro si chiude:
  • E giunte lì s’ebbon le gonne alzate,
  • E tutte quante entrar nell’acque crude,
  • Coll’altre ragionando del bagnare:
  • Che farem noi? vogliamci noi spogliare? XXVIII.
  • E perchè allora era maggior calura
  • Che fosse in lutto il giorno, e dal diletto
  • Tirate di quell’acqua alla frescura,
  • E veggendosi senza alcun sospetto,
  • E l’acqua tanto chiara, netta e pura,
  • Diliberaron far come avean detto;
  • E per bagnarsi ognuna si spogliava,
  • E Mensola con Affrico parlava, XXIX.
  • E sì diceva: o compagna mia cara,
  • Bagneraiti tu qui con esso noi?
  • Affrico disse colla voce chiara:
  • Compagna mia, i’ farò quel che vuoi,
  • Nè cosa che tu voglia mi fia amara.
  • E fra sè stesso sì diceva poi:
  • S’elle si spoglian tutte, al certo ch’io
  • Non terrò più nascoso il mio disio.
  • XXX.
  • Ed avvisossi di prima lasciarle
  • Tutte spogliare, e poi egli spogliarsi,
  • Acciocchè le lor armi adoperarle
  • Contro a lui non potessero: e a tirarsi
  • Cominciò lento il vestir, per poi farle,
  • Quando nell’acqua entrasse per bagnarsi,
  • Per vergogna fuggir pe’ boschi via,
  • E Mensola per forza riterria. XXXI.
  • E innanzi che spogliato tutto fosse,
  • Le ninfe eran nell’acqua tutte quante;
  • E poi spogliato verso lor si mosse,
  • Mostrando tutto ciò ch’avea davante.
  • Ciascuna delle ninfe si riscosse,
  • E con voce paurosa e tremante
  • Cominciarono, urlando, oimè oimè,
  • Or non vedete voi chi costui è? XXXII.
  • Non altrimenti lo lupo affamato
  • Percuote alla gran turba degli agnelli,
  • E un ne piglia e quel se n’ha portato,
  • Lasciando tutti gli altri tapinelli;
  • Ciascun belando fugge spaventato,
  • Pur procacciando di campar le pelli:
  • Così correndo Affrico per quell’acque
  • Sola prese colei che più gli piacque.
  • XXXIII.
  • E l’altre ninfe tutte quante in fretta
  • Uscir dell’acqua a’ lor vestir correndo:
  • Nè però niuna fu che lì sel metta,
  • Ma coperte con esso va fuggendo,
  • Che punto l’una l’altra non aspetta,
  • Nè mai indietro si givan volgendo,
  • Ma chi qua e chi là si dileguoe,
  • E ciascuna le sue armi lascioe. XXXIV.
  • Affrico tenea stretta nelle braccia
  • Mensola sua nell’acqua, che piagnea,
  • E basciandole la vergine faccia,
  • Cotai parole verso lei dicea:
  • O dolce la mia vita, non ti spiaccia
  • Se io t’ho presa, che Venere Iddea
  • Mi t’ha promessa, o cor del corpo mio,
  • Deh più non pianger per l’amor di Dio. XXXV.
  • Mensola le parole non intende
  • Ch’Affrico le dicea, ma quanto puote
  • Con quella forza ch’ell’ha si difende,
  • E fortemente in qua e in là si scuote
  • Dalle braccia di quel che sì l’offende,
  • Bagnandosi di lagrime le gote;
  • Ma nulla le valea forza o difesa,
  • Ch’Affrico la tenea pur forte presa.
  • XXXVI.
  • Per la contesa che facea si desta
  • Tal, che prima dormia malinconoso,
  • E con superbia rizzando la cresta
  • Cominciò a picchiar l’uscio furioso,
  • E tanto vi percosse colla testa,
  • Ch’egli entrò dentro, e non già con riposo,
  • Ma con battaglia grande e urlamento,
  • E forse che di sangue spargimento. XXXVII.
  • Poi che messer Mazzone si ebbe avuto
  • Monteficalle, e nel castello entrato,
  • Fu lietamente dentro ritenuto
  • Da que’ che prima l’avean contrastato:
  • Ma poi che molto si fu dibattuto,
  • Per la terra lasciare in buono stato
  • Per pietà lacrimò, e del castello
  • Uscì poi fuori umil più ch’un agnello. XXXVIII.
  • Poi che Mensola vide esserle tolta
  • La sua virginità contro a sua voglia,
  • Forte piangendo ad Affrico fu volta,
  • E disse: poi c’hai fatto la tua voglia,
  • Ed hai ingannata me fanciulla stolta,
  • Usciam dell’acqua, ch’io muoio di doglia,
  • Però ch’io vo’ del mondo far partita,
  • Togliendo a me con le mie man la vita.
  • XXXIX.
  • Affrico udendo il suo pietoso dire,
  • Con lei insieme uscì dell’acqua fuori,
  • E veggendo la sua doglia e il martire,
  • Dentro del cor ne sentia gran dolori:
  • E ben ch’avesse in parte il suo disire
  • Contento, gli crescevan vie maggiori
  • Le fiamme dentro al petto e più cocenti,
  • Veggendo in lei cotanti turbamenti. XL.
  • Ma poi che rivestiti amendue furo,
  • Mensola il dardo suo prendeva presta,
  • E al petto si poneva il ferro duro
  • Per morte darsi senz’altra richiesta:
  • Veggendo Affrico il suo pensiero scuro,
  • Prestamente là corse, e prese questa,
  • E lei gavigna, e quel dardo gettava
  • Per lo boschetto, e poi così parlava: XLI.
  • Oimè, anima mia, or che è quello
  • Che tu volevi fare? o che sciocchezza
  • È questa, o qual pensier cotanto fello,
  • Che qui te conduceva a tal fierezza?
  • O lasso me! che farei, tapinello,
  • Se io perdessi la tua gran bellezza?
  • Che solo un’ora in vita non starei,
  • Ma con le proprie man m’ucciderei.
  • XLII.
  • Sì gran dolore a Mensola al cor venne,
  • Che nelle braccia d’Affrico cascata
  • Tramortì tutta, ond’egli la sostenne;
  • E poi che nel bel viso l’ha mirata,
  • Le lagrime negli occhi più non tenne,
  • Temendo ch’ella non fosse passata
  • Di questa vita, perchè tra le fronde
  • Di molti alberi con lei si nasconde. XLIII.
  • Quivi a seder con lei insiem si pose,
  • In sul sinistro braccio lei tenendo,
  • E con la destra man le lagrimose
  • Guance di lei asciugava, e piangendo
  • Diceva con parole assai pietose:
  • O morte, or hai ciò ch’andavi caendo;
  • Che poichè tolto m’hai ogni mia gioia,
  • Con lei insieme converrà ch’io muoia. XLIV.
  • E riguardando il tramortito viso,
  • E quel baciando, diceva: amor mio,
  • Perchè da te sì tosto m’ha diviso
  • La ria fortuna in questo giorno rio?
  • E questo ed altro mirandola fiso
  • Diceva, bestemmiando il suo disio,
  • Che fu troppo corrente a tal’impresa,
  • E che sì forte avea Mensola offesa.
  • XLV.
  • Ma poi ch’egli ebbe fatto un gran lamento
  • Sopra ’l palido viso tramortito,
  • E mille volte e più con gran tormento
  • Baciato, e delle lacrime forbito,
  • Nè più avendo di viver talento,
  • Di morte darsi avea preso partito,
  • E per morir già si volea levare,
  • Quando Mensola sentì sospirare. XLVI.
  • Li spiriti di Mensola rotando
  • Eran per l’aer già gran pezzo andati,
  • E dopo molto nel corpo tornando
  • Nelli lor luoghi si furon rientrati,
  • Quando Mensola forte sospirando
  • Si risentì con atti spaventati,
  • Dicendo: oimè, oimè, lassa, ch’io moro!
  • A pianger cominciò senza dimoro. XLVII.
  • Affrico quando vide ch’era viva
  • Mensola sua, che prima parea morta,
  • Tutto nel cor di letizia ravviva,
  • E poi con ta’ parole la conforta:
  • O fresca rosa, olïente e giuliva,
  • Per cui la vita mia gran pena porta,
  • Deh, non ti sgomentar, nè aver paura,
  • Che tu puoi star con meco ben sicura.
  • XLVIII.
  • Tu se’ in braccio di colui, il quale
  • Sopr’ogni cosa t’ama e vuolti bene;
  • Ogni tuo dispiacere ed ogni male
  • Son nel cor mio angoscïose pene.
  • O lasso a me! ch’io mi credetti avale
  • Che morte ti tenesse in sue catene,
  • E voleami levar per morte dare,
  • Se non che or ti senti’ sospirare. XLIX.
  • Oimè dolente, lassa sventurata!
  • Diceva Mensola, Affrico mirando,
  • Tapina a me, per che fu’ io mai nata,
  • O mai in vita! dicea lagrimando,
  • Or fuss’io stata il giorno strangolata
  • Ch’io prima fui veduta! o almen quando
  • Le veste di Dïana mi fur messe
  • Ch’un feroce cinghial morta m’avesse. L.
  • Deh non ti sgomentare, anima mia,
  • Affrico disse, che ’l cor mi si sface
  • Veggendo a te tanta malinconia,
  • Senza pigliar consolazione o pace,
  • E menar la tua vita tanto ria:
  • E certo che bisogno non ti face,
  • Però che se’ con colui che più t’ama
  • Che non fa sè, e che sola te brama.
  • LI.
  • Acciò che tu mi creda che sia vero
  • Ch’io t’ami tanto quant’ora t’ho detto,
  • Io ti vo’ raccontare il fatto intero:
  • Ch’egli è ben quattro mesi che soletto
  • Giva cantando senza alcun pensiero
  • Per questa costa, quando in un boschetto
  • Sentii mormorar voci, onde più presso,
  • Per veder chi parlava, mi fu’ messo. LII.
  • Io vidi intorno a una bella fontana
  • Molte ninfe sedere, e vidi poi
  • Sopra tutte seder la Dea Dïana
  • Che sermonando ammuniva voi
  • Con rigido parlare, e molto strana:
  • Poi a’ miei occhi corson gli occhi tuoi,
  • E la tua gran bellezza, che nel core
  • Sentii ferirmi dallo stral d’Amore. LIII.
  • Poi le diceva com’ivi nascoso
  • Gran pezza stette, sol per lei mirare,
  • E come venne sì disideroso
  • Di lei, che non potea gli occhi saziare
  • Di mirar questo bel viso vezzoso,
  • E sì dicendo, la volle baciare;
  • E come poi, quando ognuna partie,
  • Mensola andiamne, chiamar la sentie.
  • LIV.
  • Raccontò poi le lagrime e’ sospiri
  • Che per lei avea sparte in abbondanza,
  • E l’angosciose pene co’ martiri,
  • E come Vener sopra sua leanza
  • Gli avea promesso lei ne’ suoi dormiri,
  • E datoli di ciò grande speranza,
  • E quante volte l’era ita cercando,
  • Ed ogni cosa le venia narrando. LV.
  • E poi com’egli un giorno la trovoe
  • Tutta soletta, e com’ella fuggia,
  • E quanto umilemente la pregoe,
  • E come ella crudele non l’udia;
  • E poi del dardo ch’ella gli lancioe,
  • E della quercia dove quel feria,
  • E come disse, guarti, e poi smarrilla,
  • Nè più la vide poi nè più sentilla. LVI.
  • Ancor del sacrificio ch’avea fatto
  • Alla Venere Iddea, e la risposta
  • Ch’ella gli fe’, e come tosto e ratto
  • Si contraffe’, e poi per quella costa,
  • A modo d’una ninfa contraffatto,
  • A cercar lei si mise senza sosta,
  • E com’ora in sul monte la trovoe;
  • Dappoi sa’ tu, com’io, che seguitoe.
  • LVII.
  • Ora t’ho raccontato il gran tormento
  • Ch’io ho per te portato e sostenuto,
  • E però s’i’ ho usato sforzamento,
  • L’ho fatto sol perchè forza m’è suto,
  • Non perch’io sia di noiarti contento,
  • Ma solo Amor, che m’ha per te tenuto
  • In queste pene, n’ha colpa e cagione,
  • Duolti di lui, che n’arai più ragione.
  • * * *
  • PARTE QUINTA
  • * * *
  • I.
  • Mensola avendo bene Affrico inteso
  • Ciò ch’avea detto del suo innamorare,
  • E come fu da prima di lei preso,
  • E poi le cose ch’Amor gli fe’ fare,
  • Alquanto nel suo cuore si fu acceso
  • Il fuoco, e cominciava a sospirare,
  • E pure Amor l’avea già ben ferita,
  • Come ch’ella paresse sbigottita. II.
  • Poi disse: oimè, e’ mi racorda bene
  • Ch’io fui l’altrier gran pezza seguitata
  • Da un, non so se tu quel desso sene
  • Che ora m’hai così vituperata,
  • E ben so io che per donarli pene,
  • Inverso lui mi rivolsi crucciata,
  • E ’l dardo mio a lui forte lanciava,
  • Veggendo pur ched e’ mi seguitava.
  • III.
  • E ricordami ancor (ched e’ non fosse)
  • Che quando vidi il dardo inver lui gire,
  • Non so perchè pietà al cor mi mosse,
  • Ch’io gridai, guarti guarti, e poi a fuggire
  • Mi diedi, e vidi che ’l dardo percosse
  • In una quercia e fella tutla aprire,
  • Poi mi nascosi ivi presso in un bosco:
  • Se tu se’ desso, io già non ti conosco. IV.
  • Non mi ricorda mai più ne’ dì miei,
  • Dappoi ch’io fui a Diana consecrata,
  • Ch’io vedessi uomo; e volesson gli Dei
  • Che ancora tu non m’avessi trovata,
  • Nè mai veduta, che ancora sarei
  • Da Dïana coll’altre annoverata,
  • Dov’or sarò, oimè, da lei sbandita,
  • E senza fallo mi torrà la vita. V.
  • E tu, o giovinetto, il qual cagione
  • Sarai della mia morte e del mio danno,
  • Come tu sai, senza averne ragione,
  • Ti rimarrai senza alcuno affanno:
  • Ma sien di me a Diana testimone
  • Alberi e fiere che veduta m’hanno,
  • Com’io mi sono a mia forza difesa,
  • E come tu per forza m’hai offesa.
  • VI.
  • Ed io fanciulla pura ed innocente
  • Son da te stata ingannata e tradita:
  • Ma di questo peccato veramente
  • M’assolverò, togliendomi la vita
  • Con le mie mani; e poi che del presente
  • Mondo sarò tapina dipartita,
  • Ti rimarrai contento, nè giammai,
  • Lassa, di me non ti ricorderai. VII.
  • Affrico allora l’abbracciava stretta,
  • E lacrimando disse: oimè tapino!
  • Non creder che giammai così soletta
  • Io ti lasciassi, dolce amor mio fino,
  • Ma vo’ che per mio amor tu mi prometta
  • Di levar via questo pensier meschino,
  • O pria di te la vita mi torroe,
  • Sicchè di dietro a te non rimarroe. VIII.
  • Io non potre’ giammai stare diviso
  • Da te, dolce mio bene: e poi baciando
  • La bella bocca e l’angelico viso,
  • E colla mano i begli occhi asciugando,
  • Diceva: veramente in paradiso
  • Tu fusti fatta; e i capelli spianando
  • Giva dicendo: mai sì be’ capelli
  • Non fur veduti, tanto biondi e belli.
  • IX.
  • Benedetto sia l’anno e ’l mese e ’l giorno,
  • E l’ora e ’l punto ed anche la stagione
  • Che fu creato questo viso adorno,
  • E l’altre membra con tanta ragïone,
  • Che chi cercasse il mondo intorno intorno,
  • E nel cielo anche tra la regïone
  • Delle Iddee sante, non porria trovarsi
  • Una ch’a te potesse mai agguagliarsi. X.
  • Tu se’ viva fontana di bellezza,
  • E d’ogni bel costume chiara luce:
  • Tu se’ adatta e piena di franchezza,
  • Tu se’ colei in cui sol si riduce
  • Ogni virtù e ogni gentilezza,
  • E quella che la mia vita conduce:
  • Tu se’ vezzosa, e se’ morbida e bianca,
  • E niuna bella cosa non ti manca. XI.
  • Dunque, deh! non voler, Mensola mia,
  • Guastare una sì bella e tanta cosa
  • Chente tu se’, con tua malinconia
  • Nè con niun’altra cosa iniquitosa:
  • Ma da te caccia ogni rio pensier via,
  • E non istar con meco più crucciosa,
  • Ch’esser non può non fatto quel ch’è fatto,
  • Perch’io con teco ancor fussi disfatto.
  • XII.
  • Però ti prego che tu ora facci
  • Sì come savia, e di questi partiti
  • Il miglior prendi, e gli altri da te cacci;
  • E gli spiriti tuoi ispauriti
  • Conforta un poco, e fa’ che tu m’abbracci,
  • E bacia me con baci saporiti,
  • Anima mia, sì com’io bacio te;
  • Prendi diletto se tu vuoi di me. XIII.
  • Amor legava tuttavia il core
  • Colle parole ch’Affrico diceva
  • Di Mensola, sì che in parte il dolore
  • S’era partito, già perchè vedeva
  • Ch’altro esser non potea, e poi l’amore
  • Ch’ad Affrico portò, quando credeva
  • Che ninfa fosse, or più forte s’incende
  • Quando le sue dolci parole intende. XIV.
  • E per volerlo in parte contentare
  • Gli gittò al collo il suo sinistro braccio,
  • Ma non lo volle ancor però baciare,
  • Forse parendole ancor troppo avaccio
  • Di doversi con lui sì assicurare,
  • E disse: oimè tapina, ch’io non saccio
  • Com’io possa campar, se tal peccato
  • Sarà a Dïana giammai palesato.
  • XV.
  • Nè ardirò giammai con ninfa alcuna,
  • Com’io solea, nell’acqua più bagnarmi,
  • Nè anche, poichè vuol la mia fortuna,
  • Dove ne sia alcuna ritrovarmi,
  • Che s’elle ciò sapesson, ciascheduna
  • Tosto a Dïana andrebbono a accusarmi;
  • Onde pur sola mi converrà stare,
  • Fuggendo quel che già solea cercare. XVI.
  • E ben conosco che s’io m’uccidessi,
  • Che ’l mio peccato minor non sarebbe,
  • E quel che tu hai fatto non avessi,
  • Son molto certa ch’esser non potrebbe:
  • E se ’l contradio di questo credessi,
  • A quest’ora doman non giugnerebbe
  • La vita mia, che di cotal fallenza
  • M’arei ben data degna penitenza. XVII.
  • Ma poichè i tuoi conforti son sì buoni,
  • Che rivolto hanno tutto il mio pensiero,
  • E sì legato m’hanno i tuoi sermoni,
  • Che ’l mio voler tanto crudele e fiero
  • Ho via levato: ma quel che ragioni,
  • Di rimanerti meco, a dirti il vero
  • Non consentire’ mai, perchè sarebbe
  • Mal sopra male, e saper si potrebbe.
  • XVIII.
  • Perchè riconosciuto tu saresti
  • Da tutte quelle ninfe che veduto
  • Questo di t’hanno, e forse che potresti
  • Esser morto da lor, se conosciuto
  • Fussi da loro; e creder lor faresti
  • Quel che non è ancor da lor saputo,
  • Ch’io dirò sempre a chi di lor mi trova,
  • Ch’io abbia teco vinta la mia prova: XIX.
  • Come che lor compagnia sempre mai
  • A giusto mio potere io fuggiroe.
  • E prego te, o giovane, che hai
  • Toltomi quel che giammai non riavroe,
  • Che tu ne vada, e me con questi guai
  • Lascia star sola, che ’l me’ ch’io potroe
  • Mi passerò, dandomi di ciò pace:
  • Deh fallo, io te ne prego, se ti piace. XX.
  • Affrico aveva molto ben compreso,
  • Per le parole sue, che già il foco
  • Amor l’aveva dentro al petto acceso,
  • Ma pure ancor si vergognava un poco:
  • E poi ch’egli ebbe tutto bene inteso,
  • Disse fra sè: prima che d’esto loco
  • Mi parta, tu farai meco ragione,
  • E farotti cantare altra canzone.
  • XXI.
  • Poi baciandola disse: o saporita
  • Dolce mia bocca, cor del corpo mio,
  • O faccia bella fresca e colorita,
  • Nella quale i’ ho messo il mio disio;
  • Tu donna sola se’ della mia vita,
  • E amo te più ch’io non faccio Iddio:
  • I’ son risuscitato, poi ch’io veggio
  • Che pigli il meglio, e lasci andare il peggio. XXII.
  • Ma come potre’ io mai sofferire
  • Di partirmi da te, che t’amo tanto,
  • Che senza te mi pare ognor morire?
  • Essendo teco, non so giammai quanto
  • Più ben mi possa avere o più disire,
  • Ma sallo bene Amore in quanto pianto
  • Ista la vita mia la notte e ’l giorno,
  • Mentre non veggo questo viso adorno. XXIII.
  • E pognam pur che partir mi potessi,
  • Come tu di’, mai non sare’ contento
  • Che sì malinconosa rimanessi,
  • E gissi a mia cagion facendo stento;
  • E non so se mai più ti rivedessi,
  • Onde la vita mia maggior tormento
  • Non sentì mai quant’allor sentirei,
  • E più che vita morte bramerei.
  • XXIV.
  • Ma poichè tu non vuoi che io con teco
  • Rimanga qui, venir te ne potrai
  • Qui presso a casa mia: con esso meco
  • E colla madre mia lì ti starai,
  • La qual, mentre che tu starai con seco,
  • Sempre come figliuola tu sarai
  • Da lei trattata, e da mio padre ancora,
  • E potrai d’amendue esser la nuora. XXV.
  • Cotesto ancor per nulla non vo’ fare,
  • Mensola disse, ch’io teco ne venga
  • A casa tua, per voler palesare
  • Il mio peccato, e ancora mi convenga
  • In questo sì gran mal perseverare:
  • Prima la vita mia morte sostenga
  • Ch’io vada mai là dove sia persona,
  • Poi c’ho perduto sì bella corona. XXVI.
  • Io non mi missi a seguitar Dïana
  • Per al mondo tornar per niuna cosa;
  • Che s’io avessi voluto filar lana
  • Colla mia madre, e divenire sposa,
  • Di qui sarei ben tre miglia lontana
  • Col padre mio, che sopra ogn’altra cosa
  • M’amava e volea bene, ed è cinqu’anni
  • Che mi fur messi di Dïana i panni.
  • XXVII.
  • Però ti prego, se ’l mio prego vale,
  • Per quell’amor che tu ora m’hai detto
  • Che fu cagion di far far questo male,
  • Che te ne vadi a casa tu soletto,
  • Ed io ti giuro per colei, la quale
  • Tu di’ che ti ferì per me nel petto,
  • Ch’io bramerò la vita per tuo amore,
  • Ed amerotti sempre di buon core. XXVIII.
  • Se io ’l credessi, disse Affrico allora,
  • Che tu facessi quel che mi prometti,
  • E che nel cor m’avessi ciascun’ora,
  • Andrebbon via alquanto i miei sospetti:
  • Ma quel che più m’offende e più m’accora
  • Sì è ch’io temo, se ’n questi boschetti
  • Ti lascio sola, di mai ritrovarti,
  • E però temo senza me lasciarti. XXIX.
  • Mensola disse: io verrò molto spesso
  • In questo loco, sì che tu potrai
  • Meco parlare, e vedermi d’appresso
  • Onestamente quanto tu vorrai:
  • E certamente quel ch’io t’ho promesso
  • Io t’atterrò se tu ci tornerai,
  • Però che tu m’hai già mezza legata,
  • E parmi esser venuta innamorata.
  • XXX.
  • Affrico quando tai parole intende,
  • In fra sè stesso si rallegra molto,
  • Veggendo che Amor forte l’accende,
  • E che il pensier suo rio avea rivolto:
  • Più stretta nelle braccia allor la prende,
  • E poi baciando l’angelico volto
  • Le disse: intendi un poco mia parola,
  • Poichè disposta se’ di star pur sola. XXXI.
  • Io vo’, se t’è in piacer, rosa novella,
  • Da te una grazia prima ch’io mi parti:
  • Tu sai quanto la tua persona bella
  • I’ ho bramata, e quanti ingegni ed arti
  • Usati ho per averti, o chiara stella;
  • Or per piacerti mi convien lasciarti,
  • Però ti prego sia di tuo volere
  • Ch’io teco prenda un poco di piacere. XXXII.
  • E più contento poi mi partirò,
  • Poichè pur vuoi ch’io mi parta da te:
  • Or dammi la parola, ch’io farò
  • Cosa che fia diletto a te e a me:
  • E poi doman qui a te tornerò
  • A rivederti, perocchè tu se’
  • Colei in cui ho messi i miei diletti:
  • Deh di’ ch’io prenda gli amorosi effetti.
  • XXXIII.
  • Oimè, dolente, che vuo’ tu più fare,
  • Mensola disse, o che altro diletto
  • Puo’ tu di me sventurata pigliare,
  • Che t’abbi preso? e però, giovinetto,
  • Ti prego ch’oramai ne deggi andare,
  • Ed io mi rimarrò com’io t’ho detto:
  • Tu vedi che del giorno ormai c’è poco,
  • E potremmo esser giunti in questo loco. XXXIV.
  • Tu sai ben che ’l diletto ch’io ho avuto,
  • Di te infino a qui, chent’egli è stato,
  • E quel che tra noi due è addivenuto,
  • E con quanto dolor s’è mescolato,
  • Che ’n verità poco piacer m’è suto;
  • Ma or ch’ognun di noi è consolato,
  • Sarà ’l nostro diletto assai maggiore,
  • E più compiuto e con maggior dolciore. XXXV.
  • Deh non volere, o giovane piacente,
  • Che sopra ’l mal c’ho fatto i’ faccia peggio:
  • Che se io fossi di ciò consenziente
  • Grave pena n’avrei, e chiaro il veggio,
  • Se mai Dïana ne saprà niente;
  • Però di grazia questo don ti cheggio
  • Che ti piaccia partir, come che a me
  • Non sia forse minor doglia che a te.
  • XXXVI.
  • Anima mia, quel male avrai di questo
  • Ch’aver tu dei di quello che abbiam fatto,
  • Affrico disse, benchè manifesto
  • Non fia a Diana mai questo misfatto,
  • Nè a persona mai, onde molesto
  • Per questo non arai, che tanto piatto
  • È suto, e sì nascoso, che veduti,
  • Se non da Dio, non possiamo esser suti. XXXVII.
  • E certissima sii che s’io ne voe,
  • Senza di te aver niun’altra cosa,
  • Per gran dolor tosto me ne morroe.
  • Deh sii un poco inverso me pietosa:
  • E una volta e due la ribacioe,
  • Dicendo: or bacia me, o fresca rosa:
  • Assicurati meco, e prendi gioia,
  • E non voler che per amarti io muoia. XXXVIII.
  • Molte lusinghe e molte pregherie,
  • Più ch’io non dico ben per ognun cento,
  • Affrico fece a Mensola quel die,
  • Baciandole la bocca il viso e il mento
  • Sì forte, che più volte ella stridie,
  • Come che ciò le fosse in piacimento:
  • Ancor la gola le baciava e il seno,
  • Il qual pareva di viole pieno.
  • XXXIX.
  • Qual torre fu giammai sì ben fondata
  • In su la terra, ch’essendo ella suta
  • Da tanti colpi percossa e scalzata,
  • Poi non si fusse piegata o caduta?
  • O qual fu quella mai sì dispietata,
  • Col cor d’acciaio che non fusse arrenduta
  • Per le lusinghe d’Affrico e al baciare,
  • Che arebbon fatto le montagne andare? XL.
  • Mensola che d’acciaio non avea il core,
  • S’era gran pezzo scossa e ancor difesa,
  • Ma non potendo alle forze d’Amore
  • Resister, fu da lui legata e presa;
  • Ed avendo ella il suo dolce sapore
  • Prima assaggiato con alquanto offesa,
  • Pensò portar quel poco del martire
  • Mescolato con sì dolce disire. XLI.
  • E tant’era la sua simplicitade,
  • Che non pensò che altro ne potesse
  • Addivenir, come quella che rade
  • Fiate, o forse mai nessuna, avesse
  • Giammai udito per qual dignitade
  • L’uom si creasse, e poi come nascesse:
  • Nè sapea che quel tal congiugnimento
  • Fosse il seme dell’uomo e il nascimento.
  • XLII.
  • Ella il baciò, e disse: o amor mio,
  • Io non so qual destino o qual fortuna
  • Vuol pur ch’io faccia tutto il tuo disio,
  • Nè vuol ch’io faccia più difesa alcuna
  • Contra di te, e però m’arrend’io,
  • Come colei che non ha più nïuna
  • Forza a poter contastare ad Amore,
  • Che per te m’ha ferita a mezzo il core. XLIII.
  • Però farai omai ciò che ti piace,
  • Che tu puo’ far di me ciò che tu vuoi,
  • Poich’i’ ho perduto ogni mia forza audace
  • Contro ad Amore, e contro a’ preghi tuoi:
  • Ma ben ti prego, se non ti dispiace,
  • Che poi ne vadi il più tosto che puoi,
  • Che mi par esser tuttavia trovata
  • Da mie compagne, e da loro cacciata. XLIV.
  • Senti Affrico allora gran letizia,
  • Udendo che di ciò era contenta,
  • E donandole baci a gran dovizia,
  • A quel che bisognava s’argomenta;
  • Più da natura che da lor malizia
  • Atati s’alzar su le vestimenta,
  • Facendo che lor due parevan uno,
  • Tanto natura insegnò a ciascheduno.
  • XLV.
  • Quivi l’un l’altro baciava e mordeva,
  • Stringendo forte, e chi le labbra prende:
  • Anima mia, ciascheduno diceva,
  • All’acqua, all’acqua, che ’l fuoco s’accende:
  • Macinava il mulin quanto poteva,
  • E ciascheduno si dilunga e stende:
  • Attienti bene: oimè, oimè, oimè,
  • Aiutami, ch’io moro in buona fè! XLVI.
  • L’acqua ne venne, e il fuoco si fu spento,
  • E ’l mulin tace, e ciascun sospirava:
  • E come fu di Dio in piacimento
  • Mensola allor d’Affrico ingravidava
  • D’un fantin maschio di gran valimento,
  • Che di virtute ogn’altro egli avanzava
  • Al tempo suo, siccome questa storia
  • Più innanzi al fine ne farà memoria. XLVII.
  • Il giorno quasi tutto se n’era ito,
  • E molto poco si vedea del sole,
  • Quando ciascuno ha il suo fatto fornito,
  • E preso quel piacer che ciascun vuole:
  • Affrico poi ch’avea preso partito
  • Di doversene andar, forte si duole,
  • E Mensola tenendo fra le braccia,
  • Dicea baciando l’amorosa faccia:
  • XLVIII.
  • Maladetta sie tu, o notte scura,
  • Tanto invidiosa de’ nostri diletti,
  • Perchè mi fai da sì nobil figura
  • Partir sì tosto? come ch’io aspetti
  • Ancor riaver questa cotal ventura:
  • E con cotali e molti altri suo detti
  • Quanto poteva il più si dolea forte,
  • Parendogli il partir più dur che morte. XLIX.
  • Mensola bella tutta vergognosa
  • Istava, e parle aver fatto gran fallo,
  • Come che non le fosse sì gravosa,
  • Come la prima volta in contentallo:
  • E che paruta le fosse la cosa
  • Molto più dolce senza rissa il gallo;
  • Pur di non esser trovata col frodo
  • Avea paura, e parlò in questo modo: L.
  • Or non so io che ti possa più fare,
  • E che di non partirti abbi cagione,
  • Però per lo mio amor ti vo’ pregare,
  • Dapoi che interamente tua intenzione
  • Da me ha’ avuta, te ne deggi andare
  • Senza far meco più dimoragione,
  • Perchè sicura non mi terrò mai,
  • Se non quando tu gito ne sarai.
  • LI.
  • Come io veggo menare una foglia,
  • Le mie compagne mi credo che sieno:
  • Però il partir da me non ti sia doglia,
  • Che sopra me le colpe tornerieno.
  • Come che sia ’l partir contro mia voglia,
  • Pur io ’l consento perchè ’l mal sia meno;
  • E perchè si fa sera, e noi abbiano
  • Andar di qui assai ciascun lontano. LII.
  • Ma dimmi prima, giovane, il tuo nome,
  • Che accompagnata mi parrà con esso
  • Esser, e più leggier mi fien le some
  • D’amor, che non sarien sendo senz’esso.
  • Affrico disse: anima mia, or come
  • Potrò io viver non sendoti presso?
  • E ’l nome suo le disse e fece chiaro,
  • E mille volte insieme si baciaro. LIII.
  • Io non potrei giammai raccontar quante
  • Fiate fur per partirsi i due amanti,
  • Nè i baci e le parole, che fur tante
  • Che non si potrien dire in mille canti,
  • Ma puollo ben saper ciascun amante
  • Se di questi piaceri ebbe mai tanti,
  • E che gran doglia sia e che martire
  • Il partirsi da sì dolce disire.
  • LIV.
  • E’ si baciaron non solo una volta
  • Ma più di mille; e poi che dipartiti
  • S’erano un poco, indietro davan volta,
  • Dandosi baci a’ visi coloriti:
  • Anima mia, perchè mi se’ tu tolta,
  • Diceva l’uno all’altro, ed infiniti
  • Sospir gittando e partir non si sanno,
  • Ma or si partono, or tornano, or vanno. LV.
  • Ma poi che vidon che più dilungare
  • Non si potea il partir, alle gavigne
  • Si presono amendue, ed abbracciare
  • Si cominciaro, e l’un e l’altro strigne,
  • Che furon presso che per iscoppiare,
  • Sì forte amor di pari gli costrigne;
  • E così stetton gran pezza abbracciati
  • Insieme i due amanti innamorati. LVI.
  • Pure alla fine l’un l’altro ha lasciato,
  • E per partirsi le man si pigliaro,
  • E poi ch’alquanto s’ebbon rimirato,
  • Il modo di trovarsi lì ordinaro;
  • Così l’un prese dall’altro commiato,
  • Sendo a ognuno di lor molto discaro:
  • Vaiti con Dio, Mensola mia, addio:
  • Va’, che Dio mi ti guardi, Affrico mio.
  • LVII.
  • Affrico se ne giva inverso il piano,
  • Mensola al monte su pel colle tira,
  • Molto pensosa col suo dardo in mano,
  • E del mal fatto forte ne sospira:
  • Affrico, ch’era ancor poco lontano
  • Da lei, con gli occhi la segue e la mira,
  • A ogni passo indietro si voltava
  • A rimirar colei che tanto amava. LVIII.
  • Mensola ancora spesso si volgeva
  • A rimirar colui che a forza amava,
  • E che ferita sì forte l’aveva
  • Che poco altro che lui desiderava:
  • E l’uno all’altro di lontan faceva
  • Ispesso cenni ed atti e salutava,
  • Infin che non fu lor dal bosco folto
  • E dalle coste e ripe il mirar tolto. LIX.
  • Affrico si tornò dove nascoso
  • Aveva il suo vestir quella mattina,
  • E quivi giunto, senz’altro riposo
  • Si vestì la gonnella masculina:
  • Poi verso casa si tornò gioioso,
  • E giunto là, la veste femminina
  • Ripose nel suo luogo, che la madre
  • Non se ne accorse nè ancora il padre.
  • LX.
  • E come che assai malinconia
  • Avesse avuto il giorno Giraffone
  • Ed Alimena, mirando la via
  • Se ritornar vedeano il lor garzone,
  • Quando da lor tornato si vedia
  • Amendue n’ebbon gran consolazione,
  • E domandarlo, perchè tanto stato
  • Fosse, che a casa non era tornato. LXI.
  • Molte bugie e scuse Affrico fece
  • Per ricoprir l’occulto suo disire,
  • Il qual più che non fa ’l fuoco la pece
  • L’ardeva più che mai a più mentire;
  • E pareagli aver fatto men ch’un cece,
  • E fra sè stesso incominciava a dire:
  • Sarà mai domattina, ch’io ritorni
  • A baciare il bel viso e gli occhi adorni! LXII.
  • Così ogni cosa venia ricordando
  • Con seco stesso di ciò ch’avea fatto,
  • Molto diletto di questo pigliando,
  • Rammentandosi ben di ciascun atto
  • Ch’avean insieme fatto: ma poi quando
  • Il tempo fu, per dormir n’andò ratto,
  • Come che punto dormir non potette,
  • Ma tutta notte in tal pensiero stette.
  • * * *
  • PARTE SESTA
  • * * *
  • I.
  • Torniamo un poco a Mensola, la quale
  • Sen gia pensosa e sola su pel monte;
  • E parendole aver fatto pur male,
  • Forte pentiesi, e con le man la fronte
  • Si percotea, dicendo: poi che tale
  • Fortuna m’ha percossa con tant’onte,
  • Deh morte vieni a me, ch’io te ne priego,
  • Che non mi facci d’uccidermi niego. II.
  • Così passò del gran monte la cima,
  • E poi scendendo giù per quella costa,
  • Là dove il sol percuote quando prima
  • Si leva, e che ad oriente è contrapposta,
  • Secondo che il mio avviso estima,
  • Era la sua caverna in quella posta,
  • Forse un trar d’arco sopra il fiumicello
  • Ch’appiè vi corre con grosso ruscello
  • III.
  • E giunta alla caverna sua, in quella
  • Entrò occupata di molti pensieri;
  • E quivi ogni sua doglia rinnovella,
  • Dicendo: lassa a me! perchè l’altrieri,
  • Quando Affrico mi vide tanto bella
  • Con Dïana alla fonte da primieri,
  • Non fu’ io morta il giorno maladetto,
  • Ch’io mi scontrai in questo giovinetto? IV.
  • Non so giammai, tapina, con qual faccia
  • Vada innanzi a Dïana, nè che modo
  • Io mi debba tener, nè ch’io mi faccia,
  • Che di paura mi consumo e rodo;
  • E ogni senso dentro mi s’agghiaccia,
  • E nella gola mi s’è fatto un nodo
  • Per la malinconia e pel dolore
  • Ch’io sento, che m’offende dentro al core. V.
  • Deh morte vieni a questa sventurata,
  • Vieni a questa mondana peccatrice;
  • Vieni a colei che ’n malora fu nata,
  • Non t’indugiar, che mi fie più felice
  • Morire aval, poic’ho contaminata
  • La mia verginità; che ’l cor mi dice,
  • Che se da te non vorrai molto tosto,
  • Di farmi incontro a te ho il cor disposto.
  • VI.
  • Oimè, compagne mie, voi non pensate
  • Ch’io sia uscita fuor di vostra schiera:
  • Oimè, compagne mie, che solevate,
  • Tenermi tanto cara, quand’io era
  • Senza peccato e con virginitate,
  • Ora mi caccerete come fiera,
  • E come quella ch’al tutto ha corrotta
  • Virginità, e vostra legge ha rotta. VII.
  • Io posso annoverata essere omai,
  • O Calisto, con teco; che com’io
  • Già fosti ninfa, e poi con molti guai
  • Dïana ti cacciò per ogni rio,
  • Perchè t’ingannò Giove, come sai,
  • Ed in orsa crudel ti convertìo,
  • E givi errando e le cacce temevi,
  • Mugghiando quando favellar volevi. VIII.
  • O Ciala ninfa a Dïana compagna,
  • La qual fosti sforzata da Mugnone,
  • Dïana, che di te ancor si lagna,
  • T’uccise nelle braccia del garzone:
  • Ora se’ fatta fonte, e Mugnon bagna
  • Appiè di te le ripe del vallone:
  • Io son di vostra schiera al mio dispetto,
  • Così sia questo giorno maladetto.
  • IX.
  • E’ mi par già che Dïana trasmuti
  • Le gambe mie in un corrente fiume,
  • Ovvero in fiera con dossi velluti;
  • E come uccel mi pare aver le piume,
  • O alber fatta con rami fronzuti,
  • E di persona perduto il costume;
  • Nè son più degna dell’arco portare,
  • Nè anche come ninfa più cacciare. X.
  • O padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
  • Quando a Dïana prima mi sagraste,
  • E vestistimi le sacre gonnelle,
  • Ben mi ricorda che mi comandaste
  • Che a Dïana ubbidissi, e tutte quelle
  • Che seguon lei, e poi m’accompagnaste
  • In questi monti, non perch’io peccassi,
  • Ma sempre mai virginità servassi. XI.
  • Voi non pensate ch’abbia rotta fede
  • Alla sacra Dïana, nè ch’io sia
  • In tanta angustia, nè niun di voi vede
  • In quanta pena sta la vita mia;
  • Che se ’l sapeste, nè pietà nè mercede
  • Non avreste di me, ma come ria
  • E peccatrice me uccidereste,
  • E certamente molto ben fareste.
  • XII.
  • Sì grande era la doglia e ’l gran lamento
  • Che Mensola menava, e l’angoscioso
  • E duro pianto con grieve tormento,
  • Ch’io nol potrei mai por sì doloroso
  • In scrittura, che per ognun cento
  • Maggior non fosse il suo parlar pietoso,
  • Ch’avrebbe fatto le pietre e gli albori
  • Sol per pietà di lei menar dolori. XIII.
  • Con cotali lamenti e pianto amaro
  • Logorò quella notte; ma apparito
  • Che fu il giorno bellissimo e chiaro,
  • Perchè la notte non avea dormito,
  • Sì gli occhi lagrimosi l’aggravaro,
  • Ch’ogni spirito fu da lei partito;
  • Addormentossi mentre che piangea,
  • Per la gran doglia che patito avea. XIV.
  • Affrico, che nell’amoroso foco
  • Ardeva più che mai, si fu levato,
  • Come vide il mattin, cha molto poco
  • La notte avea dormito, e fu inviato
  • Sus’alto al monte, e giunto fu nel loco,
  • Dove con Mensola il giorno passato
  • Avea preso piacer, diletto e gioia,
  • Come che alfine gli tornasse in noia.
  • XV.
  • Quivi credette Mensola trovare,
  • Ma non trovando lei, in fra sè disse:
  • Egli è ancora assai tosto; e aspettare
  • La incominciò, perchè quando venisse
  • Quivi il trovasse; e perchè ’l soprastare
  • Non gli paresse lungo, sì si misse
  • Per far ghirlande ind’oltre a coglier fiori
  • Piccoli e grandi e di vari colori. XVI.
  • E fatta che n’ebbe una, in su’ capelli
  • Biondi di lui si mise, e la seconda
  • Cominciò a far d’alquanti fior più belli,
  • Mescolando con essi alcuna fronda
  • D’odoriferi e gentili arboscelli,
  • Dicendo: questa in su la treccia bionda
  • Con le mie man di Mensola porroe
  • Quando verrà, e poi la bacieroe. XVII.
  • Così aspettando invano il giovinetto
  • Mensola sua, la quale ancor dormia,
  • Cogliendo fiori ind’oltre a suo diletto
  • Perchè aspettarla grave non gli sia,
  • E riguardando spesso nel boschetto,
  • Or qua or là, se Mensola venia,
  • Ed ogni busso che ode o che vede
  • Foglia menar, che Mensola sia crede,
  • XVIII.
  • Ma sendo l’ora già più che di terza,
  • E non vedendo Mensola venire,
  • Aspettò tanto che del sol la sferza
  • Era sì calda, che già sofferire
  • Non si potea, onde più non ischerza
  • Con fiori e con ghirlande, ma sentire
  • Cominciò pena, e farsi maraviglia,
  • Alzando spesso or qua or là le ciglia. XIX.
  • E cominciò, oimè, seco dicendo,
  • Che vorrà questo dir, ch’ella non viene?
  • E ’n fra sè pensier nuovi va volgendo,
  • Scuse trovando spesso alle sue pene,
  • E di lei mille casi al core avendo,
  • Siccome ad altri spesse volte avviene,
  • Che disiando che la cosa venga
  • Imagina che assai cose intervenga, XX.
  • Passò la nona, e ’l vespro, e già la sera
  • Era venuta, e ’l giorno era fuggito
  • Che Mensola venuta mai non era,
  • Ond’Affrico rimase sbigottito,
  • Forte doglioso, e con turbata cera
  • Di partirsi di lì prese partito,
  • Dicendo: forse ch’ella avrà trovato
  • Tra via le sue compagne in qualche lato;
  • XXI.
  • Le quali l’avran forse ritenuta,
  • Però l’aspettar mio sarebbe vano:
  • E veggo già la notte esser venuta,
  • E i’ ho a ir di qui molto lontano;
  • E bench’io abbia oggi la beffa avuta
  • Per aspettarla in questo loco strano,
  • Io ci ritornerò pur domattina;
  • E per girsene scese la collina. XXII.
  • Mensola s’era in su la nona desta,
  • Tutta dogliosa e forte addolorata,
  • Sendole molte cose per la testa
  • Gite, ch’ella se n’era spaventata,
  • Ma non l’impedì tanto la tempesta,
  • Ch’ella avesse però dimenticata
  • Ciò che ’l giorno davanti avea promesso
  • Ad Affrico, di ritornare ad esso: XXIII.
  • Ma tanto s’era di quel ch’avea fatto
  • Pentuta, che disposta è non tornare
  • Dove avea fatto con Affrico patto
  • Di doversi quel dì con lui trovare:
  • Ma quanto ella potesse in ciascun atto,
  • Volere il fallo suo grande occultare,
  • Acciocchè quando Dïana venisse
  • Il fallo ch’avea fatto non sentisse.
  • XXIV.
  • Nè però le potè giammai del core
  • Affrico uscire, che continuamente
  • Non gli portasse grandissimo amore,
  • E che nol disiasse occultamente;
  • Ma tanto la stringea forte il timore
  • Che aveva di Dïana nella mente,
  • Ch’ella non andò mai dove credesse
  • Ch’Affrico fosse, o trovar lo potesse. XXV.
  • Così passò ’l secondo e ’l terzo giorno,
  • E ’l quarto e ’l quinto e ’l sesto, e anco il mese,
  • Ch’Affrico mai non vide il viso adorno
  • Della sua amante: ma con molte offese
  • Vivea, facendo sovente ritorno
  • Nel luogo dove Mensola sua prese,
  • In qua e in là per lo monte cercando,
  • E molte cose di lei immaginando. XXVI.
  • Ma nulla venia a dir la sua fatica,
  • Che la fortuna già fatta invidiosa
  • Di lui, e d’ogni suo piacer nimica,
  • Volle por fine misera e dogliosa
  • Alla sua vita dolente e mendica,
  • Come quella che mai non trova posa,
  • Ma sempre va le cose rivolgendo
  • Del mondo, nulla mai fermo tenendo.
  • XXVII.
  • Perchè già sendo un mese e più passato,
  • Che non potea mai Mensola vedere,
  • Essendogli pel gran dolor mancato
  • Sì la natura, e la forza e il potere,
  • Che un animal parea già diventato
  • Nel viso e nel parlare e nel tacere:
  • E il capo biondo, smorto era venuto,
  • E senza parlar quasi stava muto. XXVIII.
  • Essendo un giorno a guardia del suo armento
  • Ind’oltre appiè del monte, come spesso
  • Egli era usato, gli venne talento
  • Di gire al loco là dove promesso
  • Da Mensola gli fu con saramento
  • Di ritornare a lui, e fussi messo,
  • Lasciando del bestiame il grande stuolo,
  • Sol con un dardo in man pel cammin solo. XXIX.
  • E pervenuto all’acqua del vallone
  • Ove Mensola sua sforzata avea,
  • Quivi mirandosi intorno il garzone,
  • O Mensola, in fra sè stesso dicea,
  • I’ non credetti mai tal tradigione
  • Della tua fè, che promesso m’avea
  • Di ritornar con saramenti e giuri;
  • Or par che poco di me o d’Iddio curi.
  • XXX.
  • Non ti ricorda quando colle mani
  • Insieme in questo loco ci pigliammo,
  • E con tuoi saramenti falsi e vani
  • Dicesti di tornar; poi ci baciammo
  • Insieme gli occhi, che stanno or lontani,
  • Ed in quel luogo poi ci partivammo?
  • Non ti ricorda quanti testimoni
  • Aggiugnesti alle tue promessïoni? XXXI.
  • Io non potrei mai dir quanti lamenti
  • Affrico fece il dì quivi piangendo:
  • E per crescer maggiori i suoi tormenti,
  • Giva ogni cosa quivi rivolgendo,
  • Del suo amore tutti gli accidenti
  • Buoni e cattivi; e per questo crescendo
  • La doglia sua ognor molto maggiore,
  • Diliberò d’uscir di tal dolore. XXXII.
  • E sopra l’acqua del fossato gito,
  • L’aguto dardo si recava in mano,
  • E al petto si ponea ’l ferro pulito,
  • E in terra l’asta, dicendo: o villano
  • Amor, che m’ha’ condotto a tal partito,
  • Ch’io mora in questo modo tanto strano;
  • E pure innanzi ch’io voglia più stare
  • In cotal vita, mi vo’ disperare.
  • XXXIII.
  • O padre, o madre, fatevi con Dio,
  • Io me ne vo nell’inferno angoscioso,
  • E tu fiume ritieni il nome mio,
  • E manifesterai il doloroso
  • Caso ch’è occorso, sì crudele e rio:
  • Ed a chi ti vedrà sì sanguinoso
  • Correre, o lasso, del mio sangue tinto,
  • Paleserai dov’amor m’ha sospinto. XXXIV.
  • E detto questo, Mensola chiamando,
  • Il ferro tutto nel petto si mise,
  • Il quale al cor tostamente passando
  • Del giovanetto, con doglia l’uccise:
  • Perchè morto nell’acqua allor cascando,
  • L’anima da quel corpo si divise;
  • E l’acqua che correa per la gran fossa
  • Del sangue tinta venne tutta rossa. XXXV.
  • Facea quel fiume, siccome fa ancora,
  • Di sè due parti, alquanto giù più basso,
  • E quella parte che fa minor gora,
  • Presso alla casa del giovane lasso,
  • Correva sanguinosa, essendo allora
  • Giraffon fuori, e vide il fiume grasso
  • Di sangue, perchè subito nel core
  • Gli venne annunzio di futur dolore.
  • XXXVI.
  • Perchè senza dir nulla, di presente
  • N’andò dove e’ sentì ch’era il suo armento:
  • E non trovando Affrico, immantinente
  • Su per lo fiume non con passo lento
  • Tenne per trovar dove primamente
  • Di quel sangue venia ’l cominciamento,
  • E di chi fosse, e chi n’era cagione,
  • E giunse al loco ov’Affrico trovone. XXXVII.
  • Quando vide il figliuol morto giacere,
  • Col dardo fitto nel giovinil petto,
  • Appena in piè si potè sostenere,
  • Sì fu da dolor subito costretto;
  • E per l’un braccio con gran dispiacere
  • Il prese, e disse: oimè, qual maladetto
  • Braccio fu quel che ti diè tal fedita,
  • O figliuol mio, che t’ha tolta la vita? XXXVIII.
  • Egli il trasse dell’acqua, e in sulla riva
  • Il pose lagrimando il padre vecchio,
  • E con dolor quel giorno maladiva,
  • Dicendo: o figlio del tuo padre specchio,
  • Or che farà la tua madre cattiva,
  • Che non avrà giammai un tuo parecchio?
  • Che farem noi tapini e pien di duoli,
  • Poichè rimasi siamo di te soli?
  • XXXIX.
  • E ’l fitto dardo gli cavò del core,
  • E il ferro rimirava con tristizia,
  • Poi diceva con pianto e con dolore:
  • Chi tel lanciò con sì crudel nequizia
  • Nel petto, figliuol mio, con tal furore?
  • Ch’io n’ho perduto ogni bene e letizia:
  • Credo che fu Dïana dispietata,
  • Che non fia ancor del mio sangue saziata. XL.
  • Ma poi ch’egli ha quel dardo rimirato
  • Più e più volte, conobbe ch’egli era
  • Quel che ’l suo figlio sempre avea portato,
  • Perchè con trista e lagrimosa cera
  • Disse: o tapin figliuolo sventurato,
  • Qual fu quella cagion cotanto fiera
  • Che ti condusse qui a sì ria sorte,
  • E chi ti diè col dardo tuo la morte? XLI.
  • Poi dopo molto ed infinito pianto
  • Giraffone il figliuol si gittò in collo,
  • E con quel dardo doloroso tanto
  • Alla casetta sua così portollo:
  • E alla madre il fatto tutto quanto,
  • Piangendo tuttavia, raccontollo,
  • E ’l dardo le mostrava, e sì diceva
  • Come del petto tratto gliel’aveva.
  • XLII.
  • Se la madre fe’ quivi gran lamento
  • Non ne domandi persona nessuna,
  • Che dir non si potrebbe a compimento
  • Le grida e il pianto per cosa veruna:
  • E quanta doglia sentì con tormento,
  • Bestemmiando gl’Iddei e la fortuna,
  • E il viso stretto con quel del figliuolo
  • Tenea piangendo e menando gran duolo. XLIII.
  • Pure alla fine, siccom’era usanza
  • A quel tempo di far de’ corpi morti,
  • Così allor, dopo gran lamentanza,
  • E urli e pianti durissimi e forti,
  • Arson quel corpo, con grande abbondanza
  • Di lagrime e dolor senza conforti,
  • Come color ch’altro ben non aveno,
  • E quel si veggon or venuto meno. XLIV.
  • E poi ricolson la polver dell’ossa
  • Del lor figliuolo, e al fiume se n’andaro,
  • Là dove l’acqua ancor correva rossa
  • Del proprio sangue del lor figliuol caro,
  • E in su la riva feciono una fossa,
  • E dentro in quella poi vel sotterraro,
  • Acciocchè ’l nome suo non si spegnesse,
  • Ma sempre mai il fiume il ritenesse.
  • XLV.
  • Da poi in qua quel fiume dalla gente
  • Affrico fu chiamato, e ancor si chiama:
  • Quivi rimase sol tristo e dolente
  • Il padre, e la sua madre molto grama:
  • Tal fu la fine d’Affrico piacente,
  • E così al fiume rimase la fama.
  • Or lasciam qui, e ritorniamo omai
  • A Mensola la quale io vi lasciai. XLVI.
  • Mensola in questo mezzo assai dolente
  • Era vivuta e con malinconia,
  • Ma pur veggendo che levar niente
  • Di ciò che fatto avea non si potia,
  • De’ casi avversi venne pazïente,
  • E cominciò alla sua compagnia
  • Alcuna volta pure a ritrovarsi,
  • E contro alla sua voglia a rallegrarsi. XLVII.
  • E più fïate si trovò con quelle
  • Ninfe che ’l giorno con lei eran sute
  • Che Affrico la prese, e le novelle
  • Per tutte l’altre già eran sapute,
  • Non dico del peccato, ma com’elle
  • Dal giovane pigliar furon volute,
  • E Mensola con sue scuse e bugie
  • Fe’ credere che ella si fuggie.
  • XLVIII.
  • Così più ogni giorno assicurata
  • Mensola s’era, da poi ch’ella vede
  • Che dalle sue compagne era onorata
  • Siccome mai, e ciascuna si crede
  • Che com’elle non sia contaminata,
  • Ed alle sue bugie si dava fede,
  • E perchè ancora a Dïana credea
  • Il peccato celar che fatto avea. XLIX.
  • Non però amor l’avea tratto del petto
  • Affrico, e ch’ella non si ricordasse
  • Del nome suo, e del preso diletto,
  • E che tacitamente nol chiamasse,
  • Quando avea tempo, e ch’alcun sospiretto
  • Assai sovente per lui non gittasse,
  • Siccome innamorata, e paurosa
  • Tenea la fiamma dentro al cor nascosa. L.
  • E come far solea, già cominciava
  • Colle compagne sue, col dardo in mano,
  • A gir cacciando; e quand’ella arrivava
  • Dove Affrico la prese, di lontano
  • Quel luogo rimirando sospirava,
  • Dicendo in fra sè stessa molto piano:
  • Affrico mio, quanto di gioia avesti
  • Già in quel loco quando mi prendesti!
  • LI.
  • Or non so io che di te più si sia,
  • Ma credo ben che stai in gran tormento
  • Per me: ma non è già la colpa mia,
  • Paura è che mi toglie ogni ardimento:
  • Così dicendo volentier vorria
  • Affrico suo aver fatto contento,
  • Ove credesse che giammai saputo
  • Da Dïana o da ninfe fosse suto. LII.
  • Vivendo adunque Mensola in tal vita,
  • Innamorata e suggella a temenza,
  • Alquanto nel bel viso impalidita
  • Era venuta per quella semenza
  • Che nel suo ventre già era fiorita;
  • Passò tre mesi senza aver credenza
  • Di partorir giammai, o far figliuolo,
  • Com’ella fece poscia con gran duolo. LIII.
  • Ma facendo suo corso la natura,
  • In capo di tre mesi incomincioe
  • A manifesta far la creatura
  • Che dentro al venire suo s’ingeneroe,
  • Per la qual cosa a sè ponendo cura,
  • Mensola forte si maraviglioe,
  • Vedendosi ingrossare il corpo e’ fianchi,
  • E di gravezza pieni e fatti stanchi.
  • LIV.
  • Di questo si facea gran maraviglia
  • Mensola la cagion non conoscendo,
  • Come colei che mai figlio nè figlia
  • Non avea avuto; ma fra sè dicendo:
  • Saria questo difetto, che mi piglia
  • Sì la persona, e ch’ognor va crescendo:
  • E ogni giorno vengo più pesante,
  • E fatta tutta svogliata e cascante? LV.
  • Una ninfa abitava in quella piaggia;
  • Un mezzo miglio a Mensola vicina,
  • A una spelonca profonda e selvaggia,
  • Ch’era maestra d’ogni medicina;
  • Sopra dell’altre ell’era la più saggia,
  • E ben sapea di ciascuna dottrina,
  • E di cento anni o più ell’era vecchia,
  • Chiamata era la ninfa Sinedecchia. LVI.
  • Mensola puramente n’andò a questa,
  • E disse: o madre nostra, il tuo consiglio
  • M’è di bisogno; e poi le manifesta
  • Il caso suo e ciascun suo periglio:
  • Sinedecchia con la crollante testa
  • Rispose tosto con turbato ciglio:
  • Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
  • E non puoi tener più questo celato.
  • LVII.
  • Mensola nel bel viso venne rossa,
  • Udendo ta’ parole, per vergogna,
  • E non veggendo che negar lo possa,
  • Con gli occhi bassi timida trasogna,
  • Volendosi mostrar di questo grossa;
  • Ma poi veggendo che non le bisogna
  • Celarlo a lei, che tutto il conoscea,
  • Senza guatarla, o risponder, piangea. LVIII.
  • Sinedecchia veggendo il suo lamento,
  • E la vergogna e la sua puritade,
  • Avvisò che di suo consentimento
  • Non fosse questo, nè sua volontade,
  • Ma fosse stato con isforzamento,
  • Perchè alquanto ne le venne pietade,
  • E per volerla un poco confortare,
  • In questo modo incominciò a parlare. LIX.
  • Figliuola mia, questo peccato è tale,
  • Che nol potrai celarlo lungamente;
  • E come ch’abbi fatto pur gran male,
  • Non vo’ però che tanto fieramente
  • Tu ti sconforti, ch’omai poco vale
  • Se tu te n’uccidessi veramente;
  • Ma vegnamo a’ rimedi, e dimmi come
  • E chi ti tolse di castità il pome.
  • LX.
  • Niente a questo Mensola risponde,
  • Ma per vergogna il capo in grembo pose
  • A Sinedecchia, e ’l bel viso nasconde
  • Udendo rammentarsi cota’ cose,
  • E gli occhi suoi parean fatte due gronde
  • Che fosson d’acqua molto doviziose,
  • Tanto forte plangea dirottamente,
  • Senza parlare o risponder niente. LXI.
  • Ma Sinedecchia pur le disse tanto
  • Con sue parole, ch’ella confessoe
  • Con voce rotta e con singhiozzo e pianto,
  • Sì come un giovanetto l’ingannoe,
  • E in che modo il fatto tutto quanto,
  • E come ultimamente la sforzoe,
  • E poi a pianger cominciò più forte
  • Per la vergogna, chiamando la morte. LXII.
  • La vecchia ninfa, quando questo intese,
  • Come per sottil modo fu ingannata,
  • E quanti lacci quel giovane tese,
  • Pietà le venne della sventurata:
  • Poi con parole alquanto la riprese
  • Del fallo suo, perchè un’altra fïata
  • Sotto cotal fidanza non peccasse,
  • E perchè più ingannar non si lasciasse.
  • LXIII.
  • Poi tanto seppe dirle e confortarla
  • Ch’ella la fe’ di piangere restare,
  • Promettendole sempre d’aiutarla,
  • Come figliuola, in ciò che potrà fare.
  • Poi d’ogni cosa volendo avvisarla,
  • In questo modo cominciò a parlare:
  • Figliuola mia, quel ch’io ti dico intendi,
  • E fa’ che bene ogni cosa comprendi. LXIV.
  • Quando compiuti i nove mesi avrai,
  • Dal giorno che peccasti incominciando,
  • Una creatura tu partorirai;
  • Allor la Dea Lucina tu chiamando,
  • Il suo aiuto le dimanderai,
  • Ella pietosa tel darà; e po’ quando
  • Nata sarà, quel che fia vederemo,
  • E a ogni cosa ben provvederemo. LXV.
  • E tu di questo non ti dar pensiero,
  • Lascialo a me, ch’i’ ho ben già pensato
  • Dentro dal cor ciò che farà mestiero,
  • E ciò che far dovrò quando fia nato.
  • Ma fa’ che fuori di questo sentiero
  • Non vadi in questo mezzo, che ’l peccato
  • Non sia palese a quelle che nol sanno,
  • Che tornar ti potrebbe in troppo danno.
  • LXVI.
  • Ma sola ti starai nella caverna,
  • E’ panni porta larghi quanto puoi,
  • Senza cintura, che non si discerna
  • Il corpo grande pe’ peccati tuoi:
  • E quivi pianamente ti governa,
  • Dandoti pace, siccome far suoi;
  • E spesso vieni a me, ch’io ti diroe
  • Ciò che far tu dovrai intorno a cioe. LXVII.
  • Queste parole dieron gran conforto
  • Alla fanciulla, e disse: madre mia,
  • Poi che condotta sono a questo porto,
  • Pel mio peccato e per la mia follia,
  • E ben conosco molto chiaro e scorto
  • Che ’l vostro aiuto molto buon mi fia,
  • A voi mi raccomando e al vostro aiuto,
  • Poich’ogn’altro consiglio i’ ho perduto. LXVIII.
  • Or te ne va’, Sinedecchia rispose,
  • Ch’i’ t’atterrò ben ciò ch’i’ t’ho promesso,
  • E non ti dar pensier di queste cose;
  • Tien pur celato il peccato commesso.
  • Mensola con le guance lagrimose
  • Disse: io ’l farò, e pel cammin più presso
  • Si mise, e ritornò alla sua stanza,
  • Alquanto confortata di speranza.
  • LXIX.
  • Quivi si stava pensosa e dolente
  • Senza gir mai come soleva attorno,
  • E per compagno tenea nella mente
  • Affrico sempre col suo viso adorno;
  • E perchè sempre continuamente
  • Il corpo le crescea di giorno in giorno,
  • Senza cintura i suoi panni portava,
  • E assai sovente a Sinedecchia andava. LXX.
  • E cominciolle a crescer più nel core,
  • Per la creatura ancor non partorita,
  • Contro ad Affrico un sì fervente amore,
  • Che volentier ne vorrebbe esser gita
  • Con esso lui a starsi a tutte l’ore
  • Il giorno ch’ella si tenne tradita;
  • E ’l dì se ne pentiva mille fiate,
  • Chiamando lui con lagrime versate. LXXI.
  • Questo pensier la fe’ più volte andare
  • Al luogo ov’ella fu contaminata,
  • Sol per saper se Affrico può trovare,
  • Per esserne con lui a casa andata;
  • Ma non si seppe mai tanto arrischiare
  • Per la vergogna d’andar sola nata
  • A casa sua; e pur presso v’andoe
  • Alcuna volta, e poi indietro tornoe.
  • LXXII.
  • Ma invan cercava, perchè non sapea
  • Ched e’ si fosse per lei disperato.
  • E già il suo corpo sì cresciuto avea,
  • E ’l peso del fantin tanto aggravato,
  • Ch’andare attorno omai più non potea;
  • Perchè senza cercar più nessun lato
  • Si stava alla caverna, ed aspettava
  • Del parto il tempo, ch’omai s’appressava. LXXIII.
  • E tanta grazia le fe’ la fortuna,
  • Che ’n questo mezzo non si accorse mai
  • Ch’ell’avesse peccato ninfa alcuna,
  • E già trovate pur n’aveva assai,
  • Come che maraviglia ciascheduna
  • Di lei si desse ne’ tempi sezzai,
  • Veggendola sì magra nella faccia,
  • E non andar come solea alla caccia.
  • * * *
  • PARTE SETTIMA
  • * * *
  • I.
  • Dïana a Fiesole in quel tempo venne,
  • Come usata era sovente di fare:
  • Grande allegrezza pe’ monti si tenne,
  • Sentendo di Dïana il ritornare,
  • E ciascheduna ninfa festa fenne,
  • E cominciarsi tutte a ragunare,
  • Come usate eran con lei molto spesso,
  • Tutte le ninfe da lungi e da presso. II.
  • Mensola sentì ben la sua venuta,
  • Ma comparir non volle innanzi a lei
  • Per non esser da lei mal ricevuta,
  • Dicendo: s’io v’andassi, io non potrei
  • Tener celata la cosa ch’è suta,
  • E grande strazio di me far vedrei:
  • E fu da Sinedecchia consigliata
  • Di non v’andar, ma stessesi celata.
  • III.
  • Avvenne adunque in questi giorni un die,
  • Ch’alla caverna sua Mensola stando,
  • Per tutto il corpo doglie si sentie,
  • Perchè la Dea del parto allor chiamando,
  • Un fantin maschio quivi partorie,
  • Il qual Lucina di terra levando
  • Gliel mise in collo, e disse: questi fia
  • Ancor gran fatto, e poi quindi sparia. IV.
  • Come che doglia grande e smisurata
  • Mensola avea sentita, come quella
  • Ch’a tal partito mai non era stata,
  • Veggendo aversi fatta una sì bella
  • Creatura, la pena fu alleggiata,
  • E subito gli fece una gonnella
  • Com’ella seppe il meglio, e poi lattollo,
  • E mille volte quel giorno baciollo. V.
  • Il fantin era sì vezzoso e bello,
  • E tanto bianco, ch’era maraviglia:
  • Il capo com’or biondo e ricciutello,
  • E in ogni cosa il padre suo simiglia
  • Sì propriamente, che pare a vedello
  • Affrico ne’ suoi occhi e nelle ciglia,
  • E tutta l’altra faccia sì verace,
  • Che a Mensola per questo più le piace.
  • VI.
  • E tanto amore già posto gli avea,
  • Che di mirarlo non si può saziare:
  • A Sinedecchia portar nol volea
  • Per non volerlo da sè dilungare,
  • Parendo a lei, mentre che ’l vedea,
  • Affrico veder proprio, ed a scherzare
  • Cominciava con lui e a fargli festa,
  • E con le man gli lisciava la testa. VII.
  • Dïana avea più volte domandato
  • Quel che di Mensola era le compagne:
  • Fulle risposto, da chi l’era allato,
  • Che è gran pezzo che ’n quelle montagne
  • Veduta non l’aveva in nessun lato.
  • Altre dicean, che per certe magagne,
  • E per difetto ch’ella si sentia,
  • Davanti a lei con l’altre non venia. VIII.
  • Perchè un dì, di vederla pur disposta,
  • Perchè l’amava molto e tenea cara,
  • Con tre ninfe sen gì a quella costa
  • Dove la sventurata si ripara,
  • E giunte alla caverna senza sosta,
  • Dinanzi all’altre Dïana si para,
  • Credendola trovar, ma non trovolla,
  • Perchè a chiamar ciascuna incominciolla.
  • IX.
  • Ell’era andata col suo bel fantino
  • Inverso il fiume giù molto lontana,
  • E ’l bel fanciul trastullava al caldino,
  • Quando sentì la voce prossimana
  • Chiamar sì forte con chiaro latino:
  • Allor mirando in su vide Dïana
  • Con le compagne sue che giù venieno,
  • Ma lei ancor veduta non avieno. X.
  • Sì forte sbigottì Mensola quando
  • Vide Dïana, che nulla rispose,
  • Ma per paura tuttavia tremando
  • In un cespuglio tra’ pruni nascose
  • Il bel fantino, e lui solo lasciando,
  • Di fuggir quivi l’animo dispose,
  • E ’nverso il fiume ne gì quatta quatta,
  • Tra quercia e quercia, fuggendo via ratta. XI.
  • Ma non potè si coperto fuggire,
  • Che Dïana fuggendo pur la vide;
  • E poi cominciò quel fanciullo a udire,
  • Il qual’alto piangea con forte stride.
  • Dïana cominciò allora a dire
  • Inverso lei con grandissime gride:
  • Mensola, non fuggir, che non potrai,
  • Se io vorrò, nè il fiume passerai.
  • XII.
  • Tu non potrai fuggir le mie saette,
  • Se l’arco tiro, o sciocca peccatrice.
  • Mensola già per questo non riflette,
  • Ma fugge quanto può alla pendice:
  • E giunta al fiume dentro vi si mette
  • Per valicarlo: ma Dïana dice
  • Certe parole, ed al fiume le manda,
  • E che ritenga Mensola comanda. XIII.
  • La sventurata era già in mezzo l’acque,
  • Quando i piè venir meno si sentia:
  • E quivi, siccome a Dïana piacque,
  • Mensola in acqua allor si convertia:
  • E sempre poi a quel fiume si giacque
  • Il nome suo, che ancor tuttavia
  • Per lei quel fiume Mensola è chiamato:
  • Or v’ho del suo principio raccontato. XIV.
  • Le ninfe ch’eran con Dïana veggendo
  • Come Mensola era acqua diventata,
  • E giù per lo gran fiume va correndo,
  • Perchè molto l’aveano in prima amata,
  • Per pietà tutte dicevan piangendo:
  • O misera compagna sventurata!
  • Qual peccato fu quel che t’ha condotta
  • A correr sì com’acqua a fiotta a fiotta?
  • XV.
  • Dïana disse lor che non piangessono,
  • Che quel martir molto ben meritava:
  • E perchè ’l suo peccato elle vedessono,
  • Dove il fanciul piangeva le menava.
  • Poi disse loro ch’elle lo prendessono,
  • Traendol di que’ pruni ov’egli stava:
  • Allor le ninfe sel recaro in braccio,
  • E ’l trasson del cespuglio molto avaccio. XVI.
  • Molta festa le ninfe gli facieno
  • Vedendol tanto piacevole e bello,
  • E raccettarlo volentier vorrieno
  • Con esso loro, e in que’ monti tenello:
  • Ma a Dïana dirlo non volieno,
  • La qual comandò lor che tosto quello
  • Fantin portato a Sinedecchia sia,
  • E con loro ella ancor si mise in via. XVII.
  • Giunta Dïana a Sinedecchia, disse:
  • Com’ella aveva quel fantin trovato
  • In un cespuglio, ove Mensola il misse,
  • Per celato tenere il suo peccato:
  • Ma ella dopo questo poco visse,
  • Che fuggendo ella, e volendo il fossato
  • Di là passare, il fiume la ritenne,
  • E com’io volli allora acqua divenne.
  • XVIII.
  • Mentre Dïana dicea ta’ parole,
  • La vecchia ninfa per pietà piangea,
  • Tanto il caso di Mensola le duole,
  • E quel fantino in braccio ella prendea,
  • Ed a Dïana disse: o chiaro sole
  • Di tutte noi, altro ch’io non sapea
  • Questo peccato, che a me sola il disse,
  • E tutta nelle mie man si rimisse. XIX.
  • Poi ogni cosa a Diana ebbe detto,
  • Come Mensola stata era sforzata,
  • E ’l come e ’l dove da un giovinetto,
  • E in che modo da lui fu ingannata:
  • E disse poi: o Dea, io ti prometto
  • Sopra la fè ch’io t’ho sempre portata,
  • Che, s’io non era, morta si sarebbe,
  • Ma io non la lasciai, sì me n’increbbe. XX.
  • Da poi che tu l’hai fatta diventare
  • Acqua, ti prego ch’almen tu mi doni
  • Questo fanciullo, ch’io ’l vorrò portare
  • Di qui lontano assai ’n certi valloni,
  • Ov’io ricordo anticamente stare
  • Uomini con lor donne a lor magioni:
  • A loro il donerò, che car l’avranno,
  • E me’ di noi allevare il sapranno.
  • XXI.
  • Quando Dïana ta’ parole intende,
  • Come Mensola stata era tradita,
  • Alquanto del suo mal pietà le prende
  • Perchè l’amava assai quand’era in vita:
  • Ma perchè l’altre da cotai faccende
  • Si guardasson, mostrossi incrudelita,
  • E disse a Sinedecchia, che facesse
  • Di quel fantin quel che me’ le paresse. XXII.
  • Poi si parti colla sua compagnia,
  • E a Sinedecchia quel fanciul lascioe,
  • La qual, poscia che vide andata via
  • Dïana, tostamente s’invioe
  • Con esso in collo, e ’n quelle parti gìa
  • Ove Mensola bella l’acquistoe,
  • Che ben sapea per tutto ogni riviera,
  • Tanto tempo in que’ monti usata v’era. XXIII.
  • E già aveva da Mensola udito
  • Come avea nome quel che la sforzone,
  • E più da lei ancora avea sentito,
  • Quando partissi, in qual parte n’andone;
  • Perchè considerato ogni partito,
  • Estimò troppo ben che quel garzone
  • In quella valle stesse, ove sedeva
  • Una casetta che fumo faceva.
  • XXIV.
  • Laggiù n’andò, non con poca fatica,
  • E per ventura trovò Alimena,
  • Alla qual disse: o carissima amica,
  • Grande è quella cagion che a te mi mena,
  • Ed è pur di bisogno ch’io tel dica:
  • Però ti prego che non ti sia pena
  • D’ascoltare una gran disavventura,
  • E come è nata questa creatura. XXV.
  • Poi ogni cosa le venne narrando,
  • Com’un giovine ch’Affrico avea nome
  • Sforzò una ninfa, il dove, e ’l come e ’l quando
  • A parte a parte disse, e poscia come
  • Ell’era ita gran pezzo tapinando,
  • Poi partorì quel bello e fresco pome;
  • E poi come Dïana trasmutoe
  • La ninfa in acqua, e dove la lascioe. XXVI.
  • E come quel fantino avea trovato
  • Dïana tra molti pruni, e come a lei
  • Con altre ninfe poi l’avea donato:
  • Ma mentre che cotai cose costei
  • Raccontava, Alimena ebbe mirato
  • Nel viso a quel fantino, e disse, omei!
  • Questo fanciul propriamente somiglia
  • Affrico mio, e poi in braccio il piglia.
  • XXVII.
  • E lacrimando per grande allegrezza,
  • Mirando quel fantin, le par vedere
  • Affrico proprio in ogni sua fattezza,
  • E veramente gliel pare riavere;
  • E lui baciando con gran tenerezza,
  • Diceva: figliuol mio, gran dispiacere
  • Mi fia a contare il grandissimo duolo,
  • La morte del tuo padre e mio figliuolo. XXVIII.
  • Poi cominciò alla vecchia ninfa a dire
  • Del suo figliuol per ordine ogni cosa,
  • E come stette gran tempo in martire,
  • E della morte sua tanto angosciosa:
  • E stando questo Sinedecchia a udire
  • Venne del caso d’Affrico pietosa,
  • E con lei insieme di questo piangea,
  • E Giraffon quivi tra lor giungea. XXIX.
  • Quand’egli intese il fatto, similmente
  • Per letizia piangeva e per dolore,
  • E mirando il fanciul, veracemente
  • Affrico suo gli pare, onde maggiore
  • Allegrezza non ebbe in suo vivente;
  • Poi facendogli festa con amore,
  • E quel fantin quando Giraffon vide
  • Da naturale amor mosso gli ride.
  • XXX.
  • Sì grande fu l’allegrezza e la festa
  • Che fer costor, che in buona veritade,
  • Che se non fusse che pur lor molesta
  • Il core de’ due amanti la pietade,
  • Nessuna ne fu mai simile a questa.
  • Ma poi che Sinedecchia l’amistade
  • Con loro ebbe acquistata, sen vuol gire
  • Alla montagna, e da lor dipartire. XXXI.
  • Giraffon mille grazie le ha renduto,
  • E Alimena similmente ancora,
  • Del buon servigio da lei ricevuto,
  • E molto quivi ciaschedun l’onora.
  • Ma poi che Sinedecchia ebbe il saluto
  • Renduto lor, senza far più dimora
  • Alla spelonca sua si ritornava,
  • E il fantino a costor quivi lasciava. XXXII.
  • La novella fu subito saputa
  • Per tutti i monti, ed a ciascun palese
  • Come Mensola era acqua divenuta,
  • E a molte ninfe gran pietà ne prese:
  • Ma dopo alquanto Dïana si muta
  • Da questi luoghi, e in altro paese
  • N’andò com’era usata, e primamente
  • Ammonì le sue ninfe parimente.
  • XXXIII.
  • Rimase adunque le ninfe in tal mena,
  • Sempre quel fiume Mensola chiamaro.
  • Torniamo a Giraffone ed Alimena,
  • Che quel fantin con il latte allevaro
  • Del lor bestiame, non con poca pena,
  • E per nome Pruneo e’ lo chiamaro,
  • Perchè tra’ pruni pianger fu trovato,
  • E così sempre fu dipoi chiamato. XXXIV.
  • E crescendo Pruneo, venne sì bello
  • Della persona, che se la natura
  • L’avesse fatto in pruova col pennello,
  • Non potea dargli sì bella figura:
  • E’ venne destro più ch’un lioncello,
  • Arditissimo e forte oltra misura,
  • E tanto proprio il padre era venuto,
  • Che da lui non sariesi conosciuto. XXXV.
  • Gran guardia ne faceva Giraffone
  • Ed Alimena ancor la notte e ’l die,
  • E più volte gli disson la cagione
  • Siccome Affrico suo padre morie,
  • Perchè paura n’avesse il garzone,
  • Di mai volere andar per quelle vie,
  • E della madre sua i grievi danni;
  • E così stando, venne a’ diciott’anni.
  • XXXVI.
  • Passò allora Atalante in questa parte
  • D’Europa con infinita gente,
  • E per Toscana ultimamente sparte,
  • Come scritto si trova apertamente,
  • Apollin vide, facendo su’ arte,
  • Che ’l poggio Fiesolan veracemente
  • Era ’l me’ posto poggio e lo più sano
  • Di tutta Europa di monte e di piano. XXXVII.
  • Atalante vi fece edificare
  • Una città, che Fiesole chiamossi:
  • Le genti cominciarono a pigliare
  • Di quelle ninfe che lassù trovossi,
  • E qual potè dalle lor man campare,
  • Da tutti questi poggi dileguossi;
  • E così fur le ninfe allor cacciate,
  • E quelle che fur prese, maritate. XXXVIII.
  • Tutti gli abitator di quel paese
  • Atalante gli volle alla cittade.
  • Giraffon, quando questo fatto intese,
  • Tosto n’andò con buona volontade,
  • E menò seco il piacente e ’l cortese
  • Pruneo, adorno d’ogni dignitade,
  • Ed Alimena, e comparì davante
  • Con riverenza al signore Atalante.
  • XXXIX.
  • Quando Atalante vide il vecchio antico,
  • Graziosissimamente il ricevette,
  • E presel per la man sì come amico,
  • E ta’ parole inverso lui ha dette:
  • O vecchio savio, intendi quel ch’io dico,
  • Che la mia fede ti giura e promette,
  • Che se tu in questa terra abiterai,
  • De’ miei maggiori consiglier sarai: XL.
  • E meco abiterai nella mia rocca
  • Insiememente con questo tuo figlio.
  • Giraffon ta’ parole inver lui scocca:
  • O Atalante, sempre il mio consiglio
  • Fia apparecchiato a quel che la tua bocca
  • Comanderà: ma io mi maraviglio,
  • Ch’avendo teco uomin tanto savi,
  • Più ch’io non sono, a far questo mi gravi. XLI.
  • Tu di’ vero ch’i’ ho meco savia gente,
  • Atalante rispose: ma perch’io
  • Veggio ch’esser tu dei anticamente
  • Stato in questo paese, al parer mio,
  • E saper debbi tutto il convenente
  • Di questi luoghi, quale è buono o rio,
  • In molte cose mi potra’ esser buono
  • In questi luoghi ov’arrivato io sono.
  • XLII.
  • Giraffon disse, lagrimando quasi:
  • Oimè, Atalante, che tu parli il vero,
  • Ch’io sono antico, e’ miei gravosi casi
  • Manifestano il fatto tutto intero;
  • E’ non è molto tempo ch’io rimasi
  • Sol con la donna mia ’n questo sentiero,
  • Se non che poi costui mi fu recato,
  • Ch’è figliuol d’un mio figlio sventurato. XLIII.
  • Poi gli contava il fatto com’era ito
  • D’Affrico suo e Mensola sua amante:
  • E poscia di Mugnon, che fu fedito
  • E morto da Dïana, e tutte quante
  • Le sue sventure disse, e poi col dito
  • Gli dimostrava didietro e davante
  • I fiumi, e i loro nomi gli dicea,
  • E la cagion perchè sì nome avea. XLIV.
  • E poi ad Atalante si voltoe,
  • Dicendo: io vuo’ fare ogni tuo comando:
  • Atalante di questo il ringrazioe:
  • E poi inverso Pruneo rimirando,
  • E piacendogli molto, lo chiamoe,
  • E poscia inverso lui così parlando
  • Disse: io vuo’ che tu sia mio servidore
  • Alla tavola mia, per lo mio amore.
  • XLV.
  • Così Atalante fece Giraffone
  • Suo consigliere, e ’l giovane Pruneo
  • Dinanzi a lui serviva per ragione,
  • E tanto bene a far questo imprendeo
  • Ch’era a vederlo grande ammirazione;
  • E oltre a questo la natura il feo
  • Ardito e forte tanto, che non trova
  • Nessun che ’l vinca a fare alcuna prova. XLVI.
  • E d’ogni caccia maestro divenne,
  • Tanto che fiera non potea campare
  • Dinanzi a lui, tant’ottimo e solenne
  • Corridore era, e destro nel saltare,
  • E sì ben l’arco nelle sue man tenne,
  • Che vinto avria Dïana a saettare:
  • Costumato e piacevole era tanto,
  • Ch’io non potre’ giammai raccontar quanto. XLVII.
  • Atalante gli pose tanto amore,
  • Veggendo ch’era sì savio e valente,
  • Che siniscalco il fe’ con grande onore
  • Sopra la terra e sopra la sua gente,
  • E di tutto il paese guidatore;
  • Ed e’ ’l guidava si piacevolmente,
  • Ch’era da tutti amato e ben voluto,
  • Tanto dava ad ognuno il suo dovuto.
  • XLVIII.
  • E già venticinque anni e più avea,
  • Quando Atalante gli diè per mogliera
  • Una fanciulla, la qual Tironea
  • Era il suo nome, e figliuola sì era
  • D’un gran baron che con seco tenea:
  • E diégli ancor tutta quella rivera
  • Ch’in mezzo è tra Mensola e Mugnone,
  • E questa fu la dota del garzone. XLIX.
  • Pruneo fe’ far dalla chiesa a Maiano,
  • Un po’ di sopra, un nobil casamento,
  • Dond’egli vedea tutto quanto il piano,
  • Ed afforzollo d’ogni guernimento;
  • E quel paese, ch’era molto strano,
  • Tosto dimesticò, sì com’io sento,
  • E questo fece sol pel grande amore
  • Ch’al paese portava di buon core. L.
  • Ivi gran parte del tempo abitava,
  • Dandosi sempre diletto e piacere:
  • Diceasi che sovente a’ fiumi andava
  • Della sua madre e del padre a vedere,
  • E che co’ loro spiriti parlava,
  • Dell’acque uscendo voci chiare e vere,
  • E piene di sospiri e di pietate,
  • Le cose rammentandogli passate.
  • LI.
  • Giraffon ristorato de’ suoi danni
  • Gran tempo visse; ma poi che sua vita
  • Ebbe finita e’ suoi lunghissimi anni,
  • Di questo mondo facendo partita,
  • Alimena lasciò con molti affanni:
  • La qual, poichè l’età sua fu finita,
  • Con Giraffon fu messa in un avello
  • Nella città, qual’era molto bello. LII.
  • Pruneo rimase in grandissimo stato
  • Colla sua Tironea, della qual’ebbe
  • Dieci figliuoli, ognun pro’ e costumato,
  • Tanto che maraviglia ciascun n’ebbe:
  • E poi ch’egli ebbe a ciascun moglie dato,
  • In molte genti questa schiatta crebbe,
  • E sempre a Fiesol furon cittadini
  • Grandi e possenti sopra i lor vicini. LIII.
  • Morto Pruneo, con grandissimo duolo
  • Di tutta la città fu seppellito:
  • Così rimase a ciascun suo figliuolo
  • Tutto il paese libero e spedito,
  • Che Atalante donato avea a lui solo,
  • E bene l’ebbon tra lor dipartito;
  • E sempre poi la schiatta di costoro
  • Signoreggiaron questo tenitoro.
  • LIV.
  • Ma poi che Fiesol fu la prima volta
  • Per li Roman consumata e disfatta,
  • E poi che a Roma la gente diè volta,
  • Que’ che rimason dell’affrica schiatta,
  • Alla disfatta fortezza raccolta
  • Tutti si fur, che Pruneo avea fatta,
  • E quivi il me’ che seppon s’alloggiaro
  • Facendo case assai per lor riparo. LV.
  • Poi fu Firenze posta pei Romani,
  • Acciocchè Fiesol non si rifacesse,
  • Pe’ nobili e possenti Fiesolani
  • Ch’eran campati, ma così si stesse:
  • Per la qual cosa in molti luoghi strani
  • Le genti fiesolane si fur messe
  • Ad abitar, come gente scacciata,
  • Senza aiuto o consiglio abbandonata. LVI.
  • Ma poi ch’uscita fu l’ira di mente
  • Per ispazio di tempo, e pace fatta
  • Tra li Romani e la scacciata gente,
  • Quasi tutta la gente fu ritratta
  • Ad abitare in Firenze possente,
  • Tra’ quai vi venne dell’affrica schiatta,
  • E volentier vi furon ricevuti
  • Da’ cittadini, e ben cari tenuti.
  • LVII.
  • E per levar loro ogni sospicione,
  • Sed e’ l’avesser, d’essere oltraggiati,
  • E anche per dar lor maggior cagione
  • D’amar la terra, e d’esser anche amati,
  • E fatto fosse a ciaschedun ragione,
  • Sì furo insieme tutti imparentati,
  • E fatti cittadin con grande amore,
  • Avendo la lor parte d’ogni onore. LVIII.
  • Così moltiplicando la cittade
  • Di Firenze, in persone e in gran ricchezza,
  • Gran tempo resse con tranquillitade;
  • Ma come molti libri fan chiarezza,
  • Già era in essa la cristianitade
  • Venuta, quando, presa ogni fortezza,
  • Fu da Totile infin da’ fondamenti
  • Arsa e disfatta, e cacciate le genti. LIX.
  • Poi fece il crudel Totile rifare
  • Ogni fortezza di Fiesole e mura,
  • E pel paese fece un bando andare:
  • Che qual fosse che dentro alla chiusura
  • Di Fiesole tornasse ad abitare,
  • Ogni persona vi fosse sicura,
  • Giurando prima di far sempre guerra
  • Con i Romani, e con ogni lor terra.
  • LX.
  • Per la qual cosa la schiatta affrichea
  • Per grande sdegno tornar non vi volle,
  • Ma nel contado ognun si riducea,
  • Cioè nel loro primaio e antico colle,
  • Ove ciascuno abitazione avea,
  • Facendo quivi un forte battifolle
  • Per lor difesa, se bisogno fosse,
  • Da’ Fiesolani e dalle lor percosse. LXI.
  • Così gran tempo quivi dimoraro,
  • Insin che ’l buon re Carlo Magno venne
  • Al soccorso d’Italia, e a riparo
  • Della città di Roma, che sostenne
  • Gran novità. Allor si ragunaro
  • L’affrichea gente, e consiglio si tenne
  • Con gli altri nobil che s’eran fuggiti
  • Per lo contado, e preson tai partiti: LXII.
  • Che si mandasse a Roma al padre santo,
  • E al re Carlo Magno un’ambasciata,
  • Significando il fatto tutto quanto,
  • Come la lor figliuola rovinata
  • Giaceva in terra, e’ cittadin con pianto
  • L’avean per forza tutta abbandonata;
  • E perchè avean de’ Fiesolan paura,
  • Non vi potean rifar case nè mura.
  • LXIII.
  • Ma perchè altrove chiara questa storia
  • Si trova scritta, fo con brevitade.
  • Tornando al papa Firenze a memoria,
  • Per l’ambasciata, gli venne pietade:
  • Ma poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
  • Passò di qua per le nostre contrade,
  • E sì rife’ la città di Fiorenza,
  • La qual crebbe ogni dì la sua potenza. LXIV.
  • Per la qual cosa que’ d’Affrico nati
  • Con gli altri vi tornaro ad abitare:
  • E come poi si sieno translatati
  • Di grado in grado non potre’ contare,
  • Nè d’uno in altro; ma in molti lati
  • Son di lor gente scesi d’alto affare,
  • Ed altri, che son di lassù venuti,
  • Per loro gente non son conosciuti. LXV.
  • Ma sia come si vuole omai la cosa,
  • Io son venuto al porto disiato,
  • Ove ’l disio e la mente amorosa
  • Per lunghi mari ha gran pezza cercato:
  • Omai donando alla mia penna posa,
  • Ho fatto quel che mi fu comandato
  • Da tal, cui non potre’ nulla disdire,
  • Tanto sopra di me fatto è gran sire.
  • LXVI.
  • Adunque, poich’io sono al fin venuto
  • D’esto lavoro, a lui il vo’ portare,
  • Il qual m’ha dato la forza e l’aiuto,
  • E lo stile e l’ingegno del rimare:
  • Dico ad Amor, di cui son sempre suto,
  • Ed esser voglio, e lui vo’ ringraziare,
  • E a lui recare il libro dov’egli usa,
  • E poi dinanzi a lui porre un’accusa. LXVII.
  • Altissimo signore, Amor sovrano,
  • Sotto cui forza valore e potenza
  • È sottoposto ciascun core umano,
  • E contro a cui non può far resistenza
  • Nessuno, sia quanto si vuol villano,
  • Il qual non venga tosto a tua obbedienza,
  • Pur che tu vuogli, ma pur più ti giova
  • D’usar contro a’ gentili la tua prova: XLVIII.
  • Tu se’ colui che sai, quando ti piace,
  • Ogni gran fatto ad effetto menare,
  • Tu se’ colui che doni guerra e pace
  • A’ servi tuoi, secondo che ti pare;
  • Tu se’ colui che li lor cuori sface,
  • E che gli fai sovente suscitare;
  • Tu se’ colui che gli assolvi e condanni,
  • E qual conforti, e a qual’arrogi danni.
  • LXIX.
  • Io sono un de’ tuoi servi, al quale imposto
  • Mi fu per te, come a servo leale,
  • Di compor questa storia, ed io disposto
  • Sempre ubbidirti, come quegli al quale
  • Una donna m’ha dato e sottoposto,
  • Col tuo aiuto i’ l’ho fatta cotale
  • Chent’è suto possibile al mio ingegno,
  • Il qual i’ ho acquistato nel tuo regno. LXX.
  • Ma ben ti prego per gran cortesia,
  • E per dovere e per giusta ragione,
  • Che questo libro mai letto non sia
  • Per gl’ignoranti e villane persone,
  • I quai non seppon mai chi tu ti sia,
  • Nè di voler saperlo hanno intenzione,
  • Che molto certo son che biasimato
  • Saria da loro ogni tuo bel trattato. LXXI.
  • Lascial leggere agli animi gentili,
  • E che portan nel volto la tua insegna,
  • Accostumati angelici ed umili,
  • Ne’ cuor de’ quali la tua forza regna.
  • Costor le cose tue non terran vili,
  • Ma esser le faran di lode degna,
  • Te’, ch’io tel rendo, dolce mio signore,
  • Al fin recato pel tuo servidore.
  • LXXII.
  • Ben venga l’ubbidiente servo mio,
  • Quanto niun altro che sia a me suggetto,
  • Il quale ha messo tutto il suo disio
  • In recare a su fine il mio libretto:
  • E perchè certo son ch’è tal qual’io
  • Il disiava, volentier l’accetto,
  • E nell’armario tra gli altri contratti
  • Appresso il metterò de’ miei gran fatti. LXXIII.
  • E ’l prego tuo sarà ottimamente
  • Di ciò che m’hai pregato essaudito,
  • Che ben guarderò il libro dalla gente,
  • La qual tu di’ che non m’ha mai servito;
  • Non perch’io tema lor vento niente,
  • Nè perch’io sia per lor men’ubbidito,
  • Ma perchè ricordato il nome mio
  • Tra lor non sia; e tu riman con Dio.
  • IL FINE
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