- Ninfale fiesolano
- Giovanni Boccaccio
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- NINFALE
- FIESOLANO
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- RIDOTTO A VERA LEZIONE
- FIRENZE
- NELLA STAMPERIA MAGHERI
- 1834
- Indice
- Frontespizio del vol. XVII
- Frontespizio
- Ninfale fiesolano
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Parte quinta
- Parte sesta
- Parte settima
- OPERE
- VOLGARI
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- CORRETTE SU I TESTI A PENNA
- * * *
- EDIZIONE PRIMA
- * * *
- VOL. XVII.
- FIRENZE
- PER IG. MOUTIER
- MDCCCXXXIV.
- IMPRESSO CON I TORCHI
- DELLA
- STAMPERIA MAGHERI
- NINFALE
- FIESOLANO
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- RIDOTTO A VERA LEZIONE
- FIRENZE
- NELLA STAMPERIA MAGHERI
- 1834
- NINFALE
- FIESOLANO
- OSSIA L’INNAMORAMENTO
- DI
- AFFRICO E MENSOLA
- * * *
- PARTE PRIMA
- * * *
- I.
- Amor mi fa parlar, che m’è nel core
- Gran tempo stato e fatto n’ha suo albergo,
- E legato lo tien con lo splendore
- E con que’ raggi a cui non valse usbergo,
- Quando passaron dentro col favore
- Degli occhi di colei, per cui rinvergo
- La notte e ’l giorno pianti con sospiri,
- Che è cagion di molti miei martiri.
- II.
- Amor è quel che mi guida e conduce
- Nell’opera la qual a scriver vegno:
- Amor è quel che a far questo m’induce,
- E che la forza mi dona e l’ingegno:
- Amor è quel ch’è mia forza e mia luce,
- E che di lui trattar m’ha fatto degno:
- Amor è quel che mi sforza ch’io dica
- D’un’amorosa storia e molto antica.
- III.
- Però vo’ che l’onor sia sol di lui,
- Poich’egli è quel che guida lo mio stile,
- Mandato dalla donna mia, il cui
- Valore è tal, ch’ogn’altro mi par vile,
- E che ’n tutte virtù avanza altrui,
- E sopr’ogn’altra è più bella e gentile:
- E non le mancheria alcuna cosa
- Se ella fusse un poco più pietosa. IV.
- Or prego qui ciascun fedele amante
- Che siate in questo mia difesa, e scudo
- Contra ogn’invidïoso e mal parlante,
- E contro a chi è d’amor povero e ignudo;
- E voi, care mie donne tutte quante,
- Che non avete il cor gelato e crudo,
- Prego preghiate la mia donna altera
- Che non sia contro a me, servo, sì fera. V.
- Prima che Fiesol foss’edificata
- Di mura, o di steccati o di fortezza,
- Da molto poca gente era abitata,
- E quella poca avea presa l’altezza
- De’ circunstanti monti, e abbandonata
- Si stava la pianura, per l’asprezza
- Della molt’acqua e ampioso lagume,
- Che a piè de’ monti faceva un gran fiume.
- VI.
- Era in quel tempo la falsa credenza
- Degl’Iddii rei, bugiardi e viziosi,
- E sì cresciuta la mala semenza
- Era, ch’ogn’uom credea che grazïosi
- Fussero in ciel come nell’apparenza;
- E lor sacrificavan con pomposi
- Onori e feste, e sopra tutti Giove
- Glorificavan qui siccome altrove. VII.
- Ancor regnava in quel tempo una Dea
- La qual Dïana si facea chiamare,
- E molte donne in devozion l’avea,
- E maggiormente quelle che servare
- Volean virginità, e a cui spiacea
- Lussuria, e a lei si volean dare:
- Costei le riceveva con gran festa
- Tenendole per boschi e per foresta. VIII.
- Ed anche molte ne l’eran offerte
- Dalli lor padri e madri, che promesse
- L’avieno a lei per voti, e chi per certe
- Grazie o doni che ricevuti avesse.
- Diana tutte con le braccia aperte
- Le riceveva pur ch’ella volesse
- Servar virginità, e l’uom fuggire,
- E vanità lasciare e lei servire.
- IX.
- Così per tutt’il mondo era adorata
- Questa vergine Dea. Ma ritornando
- Ne’ poggi fiesolani, ove onorata
- Più ch’oltra v’era, lei glorificando,
- Contar vi vo’ della bella brigata
- Delle vergini sue, che lassù stando,
- Tutte eran ninfe a quel tempo chiamate,
- E sempre gien di dardi e d’archi armate. X.
- Avea di queste vergini raccolte
- Gran quantità Dïana del paese
- Per questi poggi, benchè rade volte
- Dimorasse con lor molto palese,
- Siccome quella che n’aveva molte
- A guardar per il mondo dalle offese
- Dell’uom; ma pur quand’a Fiesol veniva,
- In cotal modo e guisa ella appariva. XI.
- Ell’era grande e schietta, come quella
- Grandezza richiedeva, e gli occhi e ’l viso
- Lucevan più ch’una lucente stella,
- E ben pareva fatta in paradiso,
- Raggiando intorno a sè come fiammella,
- Sì che mirarla non si potea fiso;
- Con capei crespi, e biondi non com’oro,
- Ma d’un color che vie meglio sta loro.
- XII.
- Ella più volte sparti gli teneva
- Sopra lo svelto collo, e ’l suo vestire,
- Ch’a guisa d’una cioppa il taglio aveva,
- D’un zendado ch’appena ricoprire,
- Sì sottil’era, le carni poteva,
- Tutta di bianco senz’altro partire;
- Cinta nel mezzo, e talora un mantello
- Di porpora portava molto bello, XIII.
- Venticinque anni di tempo mostrava
- Sua giovanezza, senz’averne un manco.
- Nella sinistra man l’arco portava,
- E ’l turcasso pendea dal destro fianco
- Pien di saette, le qual saettava
- Alle fiere selvagge, e tal’or anco
- A qualunque uom che lei noiar volesse,
- O le sue ninfe, gli uccidea con esse. XIV.
- In cotal guisa a Fiesole venia
- Dïana le sue ninfe a visitare,
- E con bel modo graziosa e pia
- A sè sovente le facea adunare
- Intorno a fresche fonti ed all’ombria
- Di verdi fronde, al tempo che a scaldare
- Comincia il sol la state com’è usanza,
- E di verno al caldin facieno stanza.
- XV.
- E quivi le ammoniva tutte quante
- Nel ben perseverar virginitate:
- Alcuna volta ragiona d’alquante
- Cacce che fatte aveva molte fiate
- Su per que’ poggi, seguendo le piante
- Delle fiere selvagge, chè pigliate
- E morte assai n’aveano, ordine dando
- Per girle ancor dinuovo seguitando. XVI.
- Cotai ragionamenti tra costoro,
- Com’io v’ho detto, tenía di cacciare,
- E quando Diana si partia da loro,
- Tosto una ninfa si facea chiamare
- La qual fusse di tutto il concistoro
- Di lei vicaria, facendo giurare
- All’altre tutte di lei obbedire,
- Se pel suo arco non volien morire. XVII.
- Quella tale da tutte era ubbidita
- Come fusse Dïana veramente,
- E ciascun’era d’un panno vestita
- Di lin tessuto molto sottilmente:
- Facendo co’ loro archi d’esta vita
- Passar molti animali assai sovente;
- E qual portava un affilato dardo,
- Più destra che non fu mai leopardo.
- XVIII.
- Era in quel tempo del mese di maggio,
- Quando i be’ prati rilucon di fiori,
- E gli usignuoli per ogni rivaggio
- Manifestan con canti i loro amori,
- E’ giovanetti con lieto coraggio
- Senton d’amore più caldi i vapori,
- Quando la Dea Dïana a Fiesol venne,
- E con le ninfe sue consiglio tenne. XIX.
- Intorno ad una bella e chiara fonte
- Di fresche erbette e di fiori adornata,
- La quale ancor dimora appiè del monte
- Cecer, da quella parte ove ’l sol guata
- Quand’è nel mezzo giorno a fronte a fronte,
- E fonte Aqueli è oggi nominata:
- Intorno a quella Diana allor si volse
- Essere, e molte ninfe vi raccolse. XX.
- Così a sedere tutte quante intorno
- Si posono alla fonte chiara e bella,
- Ed una ninfa senza far soggiorno
- Si levò ritta, leggiadretta e snella,
- Ed a sonare incominciò un corno
- Perch’ognuna traesse; e poi quand’ella
- Ebbe sonato a seder si fu posta,
- Aspettando di Diana la proposta.
- XXI.
- La qual com’usata era così allora
- Diceva lor, ch’ognuna si guardasse
- Che con null’uom facesse mai dimora,
- E se avvenisse pur ch’uomo trovasse,
- Come nimico il fugga in ciascun’ora,
- Acciò che inganno o forza non usasse
- Contro di voi; chè qual fusse ingannata
- Da me sarebbe morta e sbandeggiata. XXII.
- Mentre che tal consiglio si teneva,
- Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
- Il qual forse vent’anni o meno aveva,
- Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
- Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
- Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
- Costui ind’oltre abitava col padre,
- Senz’altra vicinanza, e con la madre. XXIII.
- Il giovine era quivi in un boschetto
- Presso a Dïana, quando il ragionare
- Delle ninfe sentì, che a suo diletto
- Ind’oltre s’era andato a diportare:
- Perchè fattosi innanzi il giovinetto
- Dopo una grotta si mise ascoltare,
- Per modo che veduto da costoro
- Non era, ed e’ vedeva tutte loro.
- XXIV.
- Vedea Dïana sopra all’altre stante
- Rigida nel parlare e nella mente,
- Con le saette e l’arco minacciante,
- E vedeva le ninfe parimente
- Timide e paurose tutte quante,
- Sempre mirando il suo viso piacente.
- Ognuna stava cheta, umíle e piana
- Pe ’l minacciare che facea lor Dïana. XXV.
- Poi vide che Dïana fece in piede
- Levar dritta una ninfa, che Alfinea
- Aveva nome, però ch’ella vede
- Che più che alcun’altra tempo avea,
- Dicendo, ora m’intenda qual qui siede:
- Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
- Però ch’intendo partirmi da voi,
- Sì che com’io obbedita sia poi. XXVI.
- Affrico stante costoro ascoltando,
- Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
- La quale alquanto nel viso mirando,
- Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
- Che gli fer sentir gioia sospirando
- Le fiaccole amorose che gli porse;
- E un sì dolce disio, che già saziare
- Non si potea della ninfa mirare.
- XXVII.
- E fra sè stesso dicea: chi saria
- Di me più grazïoso e più felice,
- Se tal fanciulla io avessi per mia
- Isposa? chè per certo il cor mi dice
- Che al mondo sì contento uom non saria;
- E se non che paura mel disdice
- Di Dïana, io l’avrei per forza presa,
- Che l’altre non potrebbon far difesa. XXVIII.
- Lo innamorato amante in tal maniera
- Nascoso stava in fra le fresche fronde,
- Quando Dïana veggendo che sera
- Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
- Che già perduta avea tutta la spera,
- Con le sue ninfe assai liete e gioconde
- Si levar ritte, e al poggio salendo
- Di dolce melodia canzon dicendo. XXIX.
- Affrico quando vide che levata
- S’era ciascuna, e simil la sua amante,
- Udì che da un’altra fu chiamata:
- Mensola adianne, e quella su levante,
- Con l’altre tosto sì si fu inviata:
- E così via n’andaron tutte quante,
- Ognuna a sua capanna si tornoe,
- Poi Diana si partì e lor lascioe.
- XXX.
- Avea la ninfa forse quindici anni,
- Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
- E di candido lin portava i panni;
- Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
- Che chi gli vede non sente mai affanni,
- Con angelico viso e atti snelli,
- E in man portava un bel dardo affilato:
- Or vi ritorno al giovane lasciato; XXXI.
- Il qual soletto rimase pensoso
- Oltramodo dolente del partire
- Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
- E ripetendo il passato disire,
- Dicendo: lasso a me, che ’l bel riposo
- C’ho ricevuto mi torna in martire,
- Pensando ch’io non so dove o in qual parte
- Cercarmene giammai, o con qual’arte. XXXII.
- Nè conosco costei che m’ha ferito,
- Se non ch’io udii che Mensola avea nome,
- E lasciato m’ha qui solo e schernito
- Senza avermi veduto. O almeno come
- Io l’amo sapess’ella, e a che partito
- Amor m’ha qui per lei carche le some.
- Oimè, Mensola bella, ove ne vai,
- E lasci Affrico tuo con molti guai?
- XXXIII.
- E poi si pose a seder in quel loco
- Ove prima seder veduto avea
- La bella ninfa, e nel suo petto il foco
- Con più fervente caldo s’accendea:
- Così continuando questo giuoco
- Il bel viso nell’erba nascondea,
- Baciandola dicea: ben se’ beata,
- Sì bella ninfa t’ha oggi calcata! XXXIV.
- E poi dicea: lasso a me, sospirando,
- Qual ria fortuna o qual altro destino
- Oggi qui mi condusse lusingando,
- Perchè di lieto, dolente e tapino
- Io divenissi una fanciulla amando,
- La qual m’ha messo in sì fatto cammino,
- Senza aver meco scorta o guida alcuna,
- Ma solo amore è meco e la fortuna! XXXV.
- Almen sapesse ella quanto amata
- Ell’è da me, o veduto m’avesse,
- Ben ch’io credo che tutta spaventata
- Se ne sarebbe, se ella sapesse
- Esser da me o da uomo disiata:
- Io son ben certo, in quanto ella potesse,
- Ella si fuggiria, siccome quella
- C’ha in odio l’uomo e da lui si ribella.
- XXXVI.
- Che farò dunque, lasso, poi ch’io veggio
- Che palesarmi saria ’l mio peggiore?
- E s’io mi taccio veggio ch’è ’l mio peggio,
- Perocchè ognor mi cresce più l’ardore?
- Dunque per miglior vita morte chieggio,
- La qual sarebbe fin di tal dolore:
- Benchè io mi creda ch’ella penrà poco
- A venir, se non spegne questo foco. XXXVII.
- Cotali ed altre simili parole
- Diceva il giovinetto innamorato:
- Ma poi veggendo che già tutto il sole
- Era tramonto, e che ’l cielo stellato
- Già si faceva, il che forte gli duole
- Per lo partir; ma poi ch’alquanto stato
- Sopra sè fu, disse: o me tapino,
- Che or fuss’egli di domane il mattino! XXXVIII.
- Ma pur levato, piede innanzi piede,
- Pien di molti pensier per la rivera,
- Si mosse ver l’ostello, chè ben vede
- Che non ritorna qual venuto n’era:
- Così pensoso, che non se n’avvede,
- Alla casa pervenne, la qual’era,
- Scendendo verso il pian, dalla fontana
- Forse un quarto di miglio o men lontana.
- XXXIX.
- Quivi tornato, nella cameretta
- Ove dormia soletto se n’andoe,
- E sospirando in sul letto si getta,
- Ch’a padre o madre prima non parloe:
- Quivi con gran disio il giorno aspetta,
- Nè ’n tutta notte non si addormentoe,
- Ma qua e là ei volgea sospirando,
- E ne’ sospir Mensola sua chiamando. XL.
- Acciocchè voi allora non crediate
- Che vi fusson palagi o casamenti,
- Come or vi son, sì vo’ che voi sappiate
- Che sol d’una capanna eran contenti,
- Senza esser con calcina ancor murate,
- Ma sol di pietre e legname le genti
- Facean lor case, e qua’ facien capanne
- Tutte murate con terra e con canne. XLI.
- E forse quattro eran gli abitatori
- Che facevano stanza nel paese,
- Giù nelle piagge de’ monti minori
- Che sono a piè de’ gran poggi distese.
- Ma ritornar vi voglio a’ gran dolori
- Che Affrico sentia, che presso a un mese
- Stette senza veder Mensola mai,
- Benchè dell’altre e’ ne scontrasse assai.
- XLII.
- Amor volendo crescer maggior pena,
- Come usato è di fare, al giovinetto,
- Parendogli che avesse alquanta lena
- Ripresa e spento il fuoco nel suo petto,
- Legar lo volle con maggior catena,
- E con più lacci tenerlo costretto,
- Modo trovando a fargli risentire
- Le fiaccole amorose col martire. XLIII.
- Perchè una notte il giovane dormendo,
- Vedere in visïone gli pareva
- Una donna con raggi risplendendo,
- E un piccolo fantino in collo aveva
- Ignudo tutto, ed un arco tenendo,
- E del turcasso una freccia traeva
- Per saettar, quando la donna, aspetta,
- Gli disse, figliuol mio, non aver fretta. XLIV.
- E poi la donna ad Affrico rivolta,
- Sì gli diceva: qual mala ventura,
- O qual pensiero o qual tua mente stolta
- T’ha fatto volger? credo che paura
- O negligenza Mensola t’ha tolta,
- Chè di suo amor non par che metti cura,
- Ma come uom vile stai tristo e pensoso,
- Quando cercar dovresti il tuo riposo.
- XLV.
- Leva su dunque: cerca queste piagge
- Di questi monti, e tu la troverai,
- Chè a suo diletto le fiere selvagge
- Con l’altre ninfe seguir la vedrai,
- E benchè a correr sieno preste e sagge,
- Senza niun fallo tu la vincerai:
- Nè ti bisogna temer di Dïana,
- Perocch’ell’è di qui molto lontana. XLVI.
- E io ti prometto di darti il mio aiuto,
- Al qual nessun può mai far resistenza,
- Pur che questo mio figlio abbia voluto
- Ferir con l’arco per la mia sentenza.
- Ch’io son colei che sì bene ho saputo
- Adoperar con questa mia scïenza
- Che non ch’altri, ma Giove ho vinto e preso
- Con molti Iddii, che niun non s’è difeso. XLVII.
- Poi disse: figliuol mio, apri le braccia,
- Fagli sentir il tuo caldo valore,
- Sicchè tu rompa ogni gelata ghiaccia
- Dentro al suo petto e nel gelato core.
- Or fa’, figliuolo mio, fa’ che mi piaccia
- Come far suogli: e poi parea ch’Amore
- Per sì gran forza quell’arco tirasse,
- Ch’insieme le due cocche raccozzasse.
- XLVIII.
- Quando Affrico volea chieder mercede,
- Sentì nel petto giugner la saetta,
- La qual dentro passando il cor gli fiede,
- Sicchè svegliato, le man pose in fretta
- Al petto, che la freccia trovar crede;
- Trovò la piaga esser salda e ristretta,
- Poi guardò se la donna vi vedea
- Col suo figliuol che fedito l’avea. XLIX.
- Ma non la vide, perch’era sparita,
- E ’l sonno rotto che gliel dimostrava,
- E battendogli il cor per la fedita
- Che ricevuta avea, si ricordava
- Della sua amante quando fe’ partita
- Della fontana, e nel cor gli tornava
- Gli atti gentili, col vezzoso modo,
- E ta’ pensieri al cor gli facean nodo. L.
- E poi dicea: questa donna mi pare,
- Che or m’apparve, Vener col figliuolo,
- E s’io ho bene inteso il suo parlare,
- Promesso m’ha di far sentir quel duolo
- A Mensola, che a me ha fatto fare:
- Però s’ella esce mai fuor dello stuolo
- Dell’altre ninfe, io pur m’arrischieroe,
- Per forza o per amor la piglieroe.
- LI.
- Così raccesa da questo disio
- La fiamma del suo petto, si dispose
- Di Mensola cercar per ogni rio,
- Finchè la troverrà: e a cotai cose
- Pensando, intanto il bel giorno appario
- Il quale egli aspettava con bramose
- Voglie, e soletto di casa s’uscia,
- E inver la fonte Aqueli se ne già. LII.
- E quivi giunto, alquanto vi ristette
- I sospiri amorosi rinnovando,
- Di qui, dicendo, mi fer le saette
- D’amor partire forte sospirando.
- E poi ch’egli ebbe tai parole dette,
- Saliva il poggio, la fonte lasciando,
- Ascoltando e mirando tuttavia,
- Se ninfa alcuna vedeva o sentia. LIII.
- Così salendo suso vers’il monte,
- Trasviato d’amore e dal pensiero,
- Alto portando sempre la sua fronte
- Per veder meglio ciaschedun sentiero,
- E le gambe tenendo preste e pronte
- Se gli facesse del correr mestiero,
- Ed ogni foglia che menar vedea
- Credea che fosse ninfa, e là correa.
- LIV.
- Ma poichè cotai beffe ed altre assai
- Avien più volte il giovane ingannato,
- Senza nïuna ninfa trovar mai,
- E presso che ’n sul monte era montato,
- Quando un pensier gli disse: dove vai
- Pur su salendo, e mai null’hai trovato?
- E già è terza, io non vo’ più salire,
- Ma per quest’altra via voglio ora gire. LV.
- E inverso Fiesol volto, piaggia piaggia
- Guidato da amor ne gía pensoso,
- Caendo la sua amante aspra e selvaggia,
- Che faceva lui star maninconoso.
- Ma pria ch’un mezzo miglio passat’aggia,
- Ad un luogo pervenne assai nascoso
- Dove una valle due monti divide:
- Quivi udì cantar ninfe, e poi le vide. LVI.
- Quando appressato fu a quel vallone
- Alquanto udì un’angelica voce,
- Con due tenori, onde aspettar si pone
- Facendo delle braccia a Giove croce
- Con umil prego stando ginocchione,
- Dicendo: o Iddio, sarebbe in questa foce
- Mensola fra costoro? Or voglia Iddio
- Ch’ella vi sia, ch’i’ v’andrò ora anch’io.
- LVII.
- Qual’è colui che ’l grillo vuol pigliare,
- Che va con lunghi e radi e leggier passi
- Senza far motto, tal’era l’andare
- Che Affrico facea su per que’ sassi,
- Pur dietro andando a quel dolce cantare
- Che nella valle udìa, e innanzi fassi
- Tanto che vide dimenar le fronde
- D’alcun querciuol che le ninfe nasconde. LVIII.
- Perchè senza scoprirsi s’appressava
- Tanto che vide donde uscia quel canto:
- Vide tre ninfe, ch’ognuna cantava;
- L’una era ritta, e l’altre due in un canto
- A un acquitrin che ’l fossato menava
- Sedieno, e le lor gambe vide alquanto,
- Che si lavavan i piè bianchi e belli,
- Con lor cantando lì di molti uccelli. LIX.
- L’altra che stava in piedi colse frondi
- E d’esse una ghirlanda ne facea,
- Poi sopra i suoi capelli crespi e biondi
- La si ponea, perchè ’l sol l’offendea:
- Poi per le sue compagne folte e fondi
- Ne fece due, e poi quelle ponea
- In su le trecce lor non pettinate,
- Le quali eran di frondi spampinate.
- LX.
- E Affrico diceva fra sè stesso:
- E’ non mi par che Mensola ci sia:
- E poi fattosi a loro un po’ più presso,
- La sua mala ventura maledia,
- Dicendo: Vener, quel che m’hai promesso,
- Non pare ch’avvenuto ancor mi sia.
- Ma che farò? domanderò costoro
- S’elle la sanno, e scoprirommi a loro? LXI.
- Deliberato adunque il giovinetto
- Di scoprirsi a costor, si fece avanti,
- Oltre vicino a lor, poi ebbe detto
- Con bassa voce e con umil sembianti:
- Dïana, a cui il cor vostro sta suggetto,
- Vi mantenga nel ben ferme e costanti,
- O belle ninfe: non vi spaventate,
- Ma pregovi ch’un poco m’ascoltate, LXII.
- Io vo caendo una di vostra schiera,
- La qual Mensola credo che chiamata
- Sia da voi, per ciascuna riviera;
- E bene è un mese ch’io l’ho seguitata,
- Ma ella è tanto fuggitiva e fera
- Che sempre innanzi a me s’è dileguata;
- Però vi prego, dilettose e belle,
- Che la insegnate a me, care sorelle.
- LXIII.
- Quali senza pastor le pecorelle,
- Assalite dal lupo e spaventate,
- Fuggono or qua or là le tapinelle,
- Gridando bè, con boci sconsolate:
- O qual fanno le pure gallinelle,
- Quand’elle son dalla volpe assaltate,
- Quanto più possono ognuna volando
- Verso la casa forte schiamazzando: LXIV.
- Tal fer le ninfe belle e paurose
- Quando vider costui: omè gridaro;
- Alzando i panni, le gambe vezzose,
- Per correr meglio, tutte le mostraro,
- E già nessuna ad Affrico rispose,
- Ma ricogliendo lor archi n’andaro
- Su per lo monte, e qual pur per le piagge
- Forte fuggìan, come fiere selvagge. LXV.
- Affrico grida: aspettatemi un poco,
- O belle ninfe, ascoltate il mio dire:
- Sappiate ch’io non venni in questo loco
- Per voi noiare o per farvi morire,
- Ma sol per darvi e allegrezza e gioco,
- In quanto voi non vogliate fuggire:
- Io vengo a voi come di voi amico,
- E voi fuggite me come nemico.
- LXVI.
- Ma che ti vale, o Affrico, pregalle?
- Elle si fuggon pur verso la costa,
- E tu soletto riman nella valle
- Senza da loro avere altra risposta;
- Rimanti dunque di più seguitalle,
- Poichè ognuna a fuggire è pur disposta:
- Le tue lusinghe col vento ne vanno,
- E le ninfe di correr non ristanno. LXVII.
- Ell’eran già da lui tanto lontane
- Che di veduta perdute l’avea,
- Perchè di più seguirle si rimane,
- E fra sè stesso forte si dolea
- Di quelle ninfe sì selvagge e strane.
- Che farò dunque, lasso a me, dicea,
- I’ non ci veggo modo niun pel quale
- Io possa aver da loro altro che male. LXVIII.
- E non mi val lusinghe nè pregare,
- E nulla fare’ mai s’io mi tacessi:
- Io non posso con lor la forza usare,
- Che volentier l’userei s’io potessi;
- E s’io potessi almen pure ispiare
- Ove Mensola fusse, o pur sapessi
- Dove cercarne, o dove si riduce,
- Ma vo cercando com’uom senza luce.
- LXIX.
- Tanto il diletto l’avea tranquillato
- Di Mensola cercare, e poi di quelle
- Ninfe che nella valle avea trovato
- Istare all’ombra di fresche ramelle,
- E poi del seguitarle trasviato
- Sol per saper di Mensola novelle,
- Che non s’accorse ch’egli era già sera
- E poco già lucea del sol la spera. LXX.
- Perchè malinconoso e mal contento
- Sè malediva, e la vegnente notte
- Che sì tosto venia, e poi con lento
- Passo scendeva giù per quelle grotte,
- Perchè di star più quivi avea spavento
- Delli animai crudeli, che a quell’otte
- Cominciavano a andar pe’ folti boschi
- Donando a chi trovavan de’ lor toschi. LXXI.
- Così senza aver punto il dì mangiato
- Verso la casa sua prese la via,
- Dove quel giorno dal padre aspettato
- Egli era stato con malinconia,
- Paura avendo che non fusse stato
- Da qualche bestia morto, ove che sia,
- E divorato con doglia l’avesse,
- Però a casa tornar non potesse.
- LXXII.
- E ancora di Dïana avea temenza,
- Che non si fusse con lui abbattuto,
- Come nimica della sua semenza
- Sempre mai stata, e da lei fosse suto
- O morto o fatto per più penitenza
- Diventar pietra o albero fronzuto:
- E ’n ta’ pensieri stava lui aspettando,
- Ora una cosa or l’altra immaginando.
- * * *
- PARTE SECONDA
- * * *
- I.
- Il sole era già corso in occidente,
- E sì nascoso che più non luceva,
- E già le stelle e la luna lucente
- Nell’aria cilestrina si vedeva;
- E l’usignuol più cantar non si sente,
- Ma cantan que’ che ’l giorno nascondeva
- Per lor natura, e scuopronsi la notte.
- Affrico giunse a casa a cotal’otte. II.
- Alla qual giunto, l’aspettante padre
- Con gran letizia ricevette il figlio,
- Siccome quel che temea che le ladre
- Fiere dato non gli avesser di piglio;
- E la pietosa e piangente sua madre
- L’abbracciava, dicendo: o fresco giglio,
- Ove se’ stato, o caro mio figliuolo,
- Che tu ci hai dato tanta pena e duolo?
- III.
- E similmente il padre il domandava
- Ove stato era il dì senza mangiare:
- Affrico sopra sè alquanto stava,
- Per legittima scusa a ciò trovare,
- La quale amore tosto gl’insegnava,
- Come far suol le menti assottigliare
- De’ veri amanti, ed al padre rispose,
- E una bugia cotal sì gli dispose: IV.
- Padre mio caro, egli è gran pezzo ch’io
- In questi poggi i’ vidi una cerbietta,
- La qual tanto bell’era al parer mio
- Che mai non credo che una sì eletta
- Se ne vedesse; e veramente Iddio
- Colle sue man la fe’ si leggiadretta:
- E nell’andar come grù era leve,
- E bianca tutta come pura neve. V.
- Sì n’invaghii ch’io la seguii gran pezza
- Di bosco in bosco, credendo pigliarla,
- Ma ella tosto de’ monti l’altezza
- Prese, perch’io di più seguitarla
- Sì mi rimasi con molta gravezza,
- E in cuor mi posi d’ancor ritrovarla,
- E con più agio seguirla altra volta,
- Così a casa tornando diedi volta.
- VI.
- Io mi levai stamane, a dire il vero,
- Veggendo il tempo bel, mi ricordai
- Della cerbietta, e vennemi in pensiero
- Di lei cercare, e mi deliberai:
- Così mi misi su per un sentiero,
- Che non m’accorsi ch’io mi ritrovai
- A mezzo il poggio, quando il sol già era
- A mezzo il ciel con la lucente spera. VII.
- Quando sentii e vidi menar foglie
- Di quercioletti freschi, ond’io più presso
- Mi feci alquanto dietro a alcune scoglie
- Tacitamente per veder fui messo,
- Vidi tre cerbie gir con pari voglie
- L’erbe pascendo, perchè in fra me stesso
- Avvisaimi pigliarne una pian piano,
- Ver lor n’andai con un po’ d’erba in mano. VIII.
- Ma com’elle mi vider, si fuggiro
- Suso al monte senza punto aspettarmi,
- E io di questo alquanto me n’adiro,
- Veggendo quivi beffato lasciarmi:
- E così dietro loro un pezzo miro
- Poi a seguirle, senza avere altr’armi
- Che ora i’ m’abbia, infin che di veduta
- Non me le tolse la notte venuta.
- IX.
- Or sai della mia stanza la cagione,
- O caro padre, e di questo sii certo.
- E ’l padre, ch’avea nome Giraffone,
- Gli parve intender quel parlar coperto;
- E ben s’avvide, e tenne opinïone,
- Siccome savio e di ta’ cose esperto,
- Che ninfe state doveano esser quelle,
- Che dicea ch’eran cerbie tanto belle. X.
- Ma per non farlo di ciò mentitore,
- E non paresse che se ne accorgesse,
- E per non crescergli il disio maggiore
- Di più seguirle, ed ancor se potesse
- Far che lasciasse da sè questo amore,
- E senza palesargli giù il ponesse,
- Ciò che ha detto fa vista di credirgli,
- Poi cominciò in tal guisa a dirgli. XI.
- Caro figliuolo e dolce mio diletto,
- Per Dio, ti prego, ti sappi guardare
- Da quelle cerbie che tu hai or detto,
- Ed in mal’ora via le lassa andare,
- Che sopra la mia fede io ti prometto
- Che di Dïana sono; a diportare
- Si van pascendo su per questi monti,
- L’acqua bevendo delle fresche fonti.
- XII.
- Dïana le più volte va con esse
- Con le saette e l’arco micidiale,
- E se per tua sventura s’avvedesse
- Che tu le seguitassi, con lo strale
- Morte ti donerebbe, come spesse
- Volte ell’ha fatto a chi vuol far lor male:
- Sanza ch’ell’è grandissima nimica
- Di noi, e della nostra schiatta antica. XIII.
- Oimè, figliuol, che a lacrimar mi muove
- La morte del mio padre sventurato,
- Tornandomi a memoria il come e ’l dove
- Fu da Dïana morto e consumato:
- O figliuol mio, così m’aiuti Giove,
- Com’io dirò il ver del suo peccato,
- Che, come sai, ebbe nome Mugnone
- Il padre mio, siccom’io Giraffone. XIV.
- La storia sarie lunga a voler dire
- Ogni parte del suo misero danno;
- Ma per tosto all’effetto pervenire,
- Per questi monti andava, come vanno
- I cacciator per le bestie fedire,
- E così andando, dopo molto affanno
- ’N una piaggia sopra un fiume arrivoe,
- Il qual per lui Mugnon poi si chiamoe.
- XV.
- E quivi giunto ad una bella fonte,
- Trovò una ninfa star tutta soletta,
- La qual vedutol, tutta nella fronte
- Impallidío, e su si levò in fretta,
- Oimè, oimè dicendo, e su pel monte
- Si fuggìa paurosa e pargoletta;
- Il volonteroso padre a pregarla
- Incominciò, e poi a seguitarla. XVI.
- O miser padre, tu non t’avvedevi
- Che tu correvi dietro alla tua morte,
- E i lacci tuoi, tapin, non conoscevi,
- Dove preso tu fusti con ria sorte!
- Gl’ Dii volesser, che quando correvi
- Dietro alla ninfa sì veloce e forte,
- Diana l’avesse in uccel trasmutata,
- O in pietra, o in erba l’avesse piantata. XVII.
- Ella non era al fiume giunta a pena,
- Che la raccolta e sottil sua guarnacca
- Tra le gambe le cadde, e già la lena
- Del correr perde, e di dolor si fiacca:
- Lo sciaurato Mugnon gioia ne mena,
- Avendola già giunta per istracca,
- E presa la teneva infra le braccia,
- Donando baci alla vergine faccia.
- XVIII.
- Quivi usò forza, e quivi violenza,
- Quivi la ninfa fu contaminata:
- Quivi ella non potè far resistenza.
- Oh misero garzone, o sventurata
- Ninfa, quanta dogliosa penitenza
- Divise amendue voi quella fïata!
- Dïana di sopra ’l soprastante monte
- Abbracciati gli vide a fronte a fronte. XIX.
- Ella gridò: miseri, quest’è l’ora
- Che insieme n’anderete nello inferno;
- Voi sarete oggi d’esto mondo fuora
- Senza veder di questa state il verno:
- E’ nomi vostri faranno dimora
- Nel fiume dove sete in sempiterno:
- E poscia l’arco tese con grand’ira,
- Facendo de’ due amanti una sol mira. XX.
- A un’otta giunson l’ultime parole
- E la freccia che insieme gli confisse:
- O figliuol mio, io non ti dico fole,
- Così volesson gli Dei ch’io mentisse,
- Che per dolore ancora il cor mi dole,
- E’ convenne ch’ognun di lor morisse:
- Un ferro tenea fitti que’ due cori,
- Così finiron quivi i loro amori.
- XXI.
- Il sangue del mio padre doloroso
- Il fiume tinse di rosso colore,
- E corse tutto quanto sanguinoso,
- E manifesto fe’ questo dolore,
- E ’l corpo suo ancor vi sta nascoso,
- Che mai non se ne seppe alcun sentore,
- Nè dove s’arrivasse poi, o il come,
- Salvo che ’l fiume ne ritenne il nome. XXII.
- Dissesi che Dïana ragunoe
- Il sangue della ninfa tutto quanto,
- E ’l corpo insieme con quel tramutoe
- In una bella fonte, dall’un canto
- Allato al fiume, e così la lascioe,
- Acciocchè manifesto fosse quanto
- Ell’è crudele e forte e dispietata
- A chi l’offende solo una fïata. XXIII.
- Così di molti te ne potre’ dire
- Che ’n questi monti sono fonti e uccelli,
- Quali in albero ha fatti convertire,
- E così ha disfatti i tapinelli:
- Ancor del sangue tuo fece morire
- Anticamente due carnal fratelli:
- Però ti guarda, per l’amor di Dio,
- Dalle sue mani, o caro figliuol mio.
- XXIV.
- Posto avea fine al suo ragionamento
- Il vecchio Giraffone lacrimando;
- Affrico ad ascoltarlo molto attento
- Istava, bene ogni cosa notando,
- E come che alquanto di spavento
- Avesse di quel dir, pur fermo stando
- In sua opinïon, al padre disse,
- Deh non temer cotesto a me avvenisse. XXV.
- Da ora innanzi le lascerò andare,
- Se egli avvien ch’io le trovi più mai.
- Andianci, padre, omai a riposare,
- Ch’io sono stanco, sì m’affaticai
- Oggi per questi monti, per tornare
- Di dì a casa, che mai non finai,
- Ch’io son qui giunto con molta fatica;
- Sì ch’io ti prego che tu più non dica. XXVI.
- Giti a dormir, non fu sì tosto giorno
- Ch’Affrico si levava prestamente,
- E nelli usati poggi fe’ ritorno
- Dove sempre tenea ’l core e la mente,
- Sempre mirandosi avanti ed intorno
- Se Mensola vedea poneva mente,
- E come piacque a Amor giunse ad un varco
- Ov’ella gli era presso ad un trar d’arco.
- XXVII.
- Ella lo vide prima che lui lei,
- Perchè a fuggir del campo ella prendea:
- Affrico la sentì gridare omei,
- E poi guardando fuggir la vedea;
- E infra sè disse, per certo costei
- È Mensola, e poi dietro le correa;
- E sì la prega, e per nome la chiama,
- Dicendo, aspetta quel che tanto t’ama. XXVIII.
- Deh, o bella fanciulla, non fuggire
- Colui che t’ama sopra ogn’altra cosa.
- Io son colui che per te gran martire
- Sento dì e notte senza aver mai posa:
- Ch’i’ non ti seguo per farti morire,
- Nè per far cosa che ti sia gravosa,
- Ma solo Amor mi li fa seguitare,
- Non nimistà nè mal ch’io voglia fare. XXIX.
- Io non ti seguo come falcon face
- La volante pernice cattivella,
- Nè ancora come fa lupo rapace
- La misera e dolente pecorella,
- Ma sì come colei che più mi piace
- Sopr’ogni cosa, e sia quanto vuol bella.
- Tu se’ la mia speranza e ’l mio disio,
- E se tu avessi mal sì l’avre’ io.
- XXX.
- Se tu m’aspetti, o Mensola mia bella,
- Io ti prometto e giuro per gli Dei
- Ch’io ti torrò per mia sposa novella,
- Ed amerotti sì come colei
- Che se’ tutto il mio bene, e come quella
- C’hai in balìa tutti i sensi miei:
- Tu se’ colei che sol mi guidi e reggi,
- Tu sola la mia vita signoreggi. XXXI.
- Dunque perchè vuo’ tu, o dispietata,
- Esser della mia morte la cagione?
- Ed esser vuoi di tanto amore ingrata
- Verso di me, senza averne ragione?
- Vuo’ tu ch’io muoia per averti amata,
- E ch’io n’abbia di ciò tal guiderdone?
- S’io non t’amassi dunque che faresti?
- So ben che peggio far non mi potresti. XXXII.
- Se tu pur fuggi, tu se’ più crudele
- Che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,
- E se’ più amara che non è il fiele,
- E dura più che i sassi marmorini.
- Se tu m’aspetti, più dolce che mele
- Se’, o che l’uva ond’esce i dolci vini;
- E più che ’l sol se’ bella e rilucente,
- Morbida, bianca, angelica e piacente.
- XXXIII.
- Ma i’ ben veggo che ’l pregar non vale,
- Nè parola ch’io dica non ascolti,
- E di me servo tuo poco ti cale,
- Nè mai indietro gli occhi non hai volti;
- Ma come egli esce dell’arco lo strale,
- Così ten vai per questi boschi folti,
- E non ti curi di pruni o di sassi
- Che graffian le tue gambe, e de’ gran massi. XXXIV.
- Or poi che di fuggir se’ pur disposta
- Colui che t’ama, secondo ch’io veggio,
- Senza fare a’ miei preghi altra risposta,
- E par che per pregar tu facci peggio,
- Io prego Giove che ’l monte e la costa
- Ispiani tutta; questa grazia chieggio,
- E pianura diventi umíle e piana,
- Ch’al correr non ti sia cotanto strana. XXXV.
- E prego voi, Iddii, che dimorate
- Per questi boschi e nelle valli ombrose,
- Che se cortesi fuste mai, or siate
- Verso le gambe candide e vezzose
- Di quella ninfa, che voi convertiate
- Alberi e pruni e pietre e altre cose,
- Che noia fanno a’ pie’ morbidi e belli,
- In erba minutella e praticelli.
- XXXVI.
- E io per me omai mi rimarroe
- Di più seguirti, e va’ dove ti piace,
- E nella mia mal’ora mi staroe
- Con molte pena senza aver mai pace;
- E senza dubbio al fine io mi morroe,
- Ch’io sento il cor che già tutto si sface
- Per te, che ’l tieni in sì ardente foco,
- E mancagli la vita a poco a poco. XXXVII.
- Correa la ninfa sì velocemente
- Che parea che volasse, e’ panni alzati
- S’avea dinanzi per più prestamente
- Poter fuggire, e aveasegli attaccati
- Alla cintura, sì che apertamente
- Di sopra a’ calzerin ch’avea calzati
- Mostra le gambe e ’l ginocchio vezzoso,
- Ch’ognun ne saria stato disïoso. XXXVIII.
- E nella destra man teneva un dardo,
- Il qual quand’ella fu un pezzo fuggita
- Si volse indietro con rigido sguardo,
- E diventata per paura ardita
- Quel gli lanciò col suo braccio gagliardo,
- Per ad Affrico dar mortal fedita;
- E ben l’avrebbe morto, se non fosse
- Che in una quercia innanzi a lui percosse.
- XXXIX.
- Quando ella il dardo per l’aria vedeva
- Zufolando volare, e poi nel viso
- Guardò del suo amante, il qual pareva
- Veracemente fatto in paradiso,
- Di quel lanciare forte le doleva,
- E tocca da pietà lo mirò fiso,
- E gridò forte: oimè! giovane, guarti,
- Ch’io non potrei di questo omai atarti. XL.
- Il ferro era quadrato e affusolato,
- E la forza fu grande, onde e’ si caccia
- Entro la quercia, e tutto oltre è passato,
- Sì com’avesse dato in una ghiaccia:
- Ell’era grossa sì che aggavignato
- Un uomo non l’avrebbe con le braccia;
- Ella s’aperse, e l’asta dentro entroe,
- E più che mezza per forza passoe. XLI.
- Mensola allor fu lieta di quel tratto,
- Che non aveva il giovine fedito,
- Perchè Amor già le aveva del cor tratto
- Ogni crudel pensiero e fatto unito;
- Ma non però ch’aspettarlo a niun patto
- Pur lo volesse, o pigliasse partito
- D’esser con lui, ma lieta sarie stata
- Di non esser da lui più seguitata.
- XLII.
- E poi da capo a fuggir cominciava
- Velocissituamente, poichè vide
- Che ’l giovinetto pur la seguitava
- Con ratti passi e con preghi e con gride;
- Perch’ella innanzi a lui si dileguava,
- E grotte e balze passando ricide,
- E ’n sul gran collo del monte pervenne,
- Dove sicura ancor non vi si tenne: XLIII.
- Ma di là passò molto tostamente
- Dove la piaggia d’alberi era spessa,
- E sì di frondi folta, che niente
- Vi si scorgeva dentro; perchè messa
- Si fu la ninfa là tacitamente,
- E come fosse uccel, così rimessa
- Nel folto bosco fu, tra verdi fronde
- Di be’ querciuol che lei cuopre e nasconde. XLIV.
- Ora torniamo ad Affrico, che quando
- Vide il lanciar che la ninfa avea fatto,
- Alquanto sbigottì, ma poi ascoltando
- Il gridar, guarti, guarti, con un atto
- Assai pieteso, verso lui mostrando
- Con la luce degli occhi, che in un tratto
- Gli ferì il core, e fecel più bramoso
- Di seguitarla, e più volonteroso.
- XLV.
- Ma come fa ’l tizzon ch’è presso spento,
- E sol rimasto v’è una favilla,
- Ma poi che sente il gran soffiar del vento,
- Per forza il fuoco fuor d’esso ne squilla,
- E diventa maggior per ogn’un cento;
- Tale Affrico sentì, quando sentilla
- A lui parlar con sì pietosa voce,
- Maggiore il fuoco che l’incende e coce. XLVI.
- E gridò forte: ora volesse Giove,
- Poi che tu vuoi, che tu m’avessi morto
- A questo tratto, acciocchè le tue prove
- Fusson compiute, avendomi al cor porto
- L’aguto ferro, il qual percosse altrove;
- E come che tu abbia di ciò ’l torto,
- Io pur sarei contento d’esser fuore,
- Per le tue man, delle fiamme d’amore. XLVII.
- Appena avea finito il suo parlare
- Affrico, quando Mensola giugnea
- In sul gran monte, e videla passare
- Dall’altra parte, e più non la vedea;
- Onde di ciò molto mal ne gli pare,
- Perch’ella innanzi a lui tal campo avea,
- Che temea forte che lei di veduta,
- Com’egli avvenne, non aver perduta.
- XLVIII.
- E lassù giunto dopo molto affanno,
- Gli occhi a mirar di lei subito pone:
- E come i cacciatori spesso fanno,
- Quando levata s’è la cacciagione,
- E di veduta poi perduta l’hanno,
- Colla testa alta vanno baloccone,
- Correndo or qua or là, or fermi stando,
- E come smemorati dimorando: XLIX.
- Tale Affrico faceva in sul gran monte,
- Di lei mirando con alzato volto,
- E colle man si percotea la fronte,
- E di fortuna ria si dolea molto,
- Che già gli aveva fatte di molte onte;
- E poi ne giva verso il bosco folto,
- Poi ritornava indietro, e dicea: forse
- Ch’ella da questa mano il cammin torse. L.
- E tosto là correndo se n’andava
- Se veder la potesse in nessun lato;
- Poichè non la vedea si ritornava
- In altro luogo molto addolorato:
- E poi che andata fusse s’avvisava
- In altra parte, ma il pensier fallato
- Tuttavia gli venia, onde che farsi
- E’ non sapea, nè dove più cercarsi.
- LI.
- E ben dicea fra sè; forse costei
- In questo bosco grande s’è nascosa,
- E s’ella v’è, mai non la troverei,
- Se menar non vedessi alcuna cosa;
- E più d’un mese a cercar penerei
- La piaggia tutta per le frondi ombrosa;
- E non ci veggio d’onde entrata sia,
- Nè fatta per lo bosco alcuna via. LII.
- Nè ’l cor giammai mi daria d’avvisare
- In qual parte sia ita, tante sono
- Le vie d’onde ella se ne puote andare;
- E se a cercar di lei pur m’abbandono,
- Per avventura il contrario cercare
- Potrei dov’ella fosse; onde tal dono
- Quanto aver mi parea perderò omai,
- Ond’io mi rimarrò con molti guai. LIII.
- Nè so s’io me ne vo, o s’io m’aspetti,
- Se riuscir la veggio in nessun lato,
- Benchè sì folti son questi boschetti
- Che vi staria a cavallo un uom celato
- Senza d’esser veduto aver sospetti.
- E pognam pur ch’ell’uscisse d’aguato,
- Più ch’un buon mezzo miglio di lontano
- Da me uscirebbe, ond’i’ correre’ invano.
- LIV.
- E poi guardò il sol, che presso all’ora
- Di nona era venuto, ond’e’ diceva:
- Perchè io son d’ogni speranza fuora
- D’aver colei, la qual io mi credeva,
- Io non vo’ più quinci oltre far dimora,
- Tornandogli a memoria quel ch’aveva
- Raccontatogli il padre il dì davanti,
- Come fur morti insieme i due amanti. LV.
- Dall’altra parte Amor gli facea dire:
- Io non curo Dïana, pur che io
- Solo una volta empiessi il mio disire,
- Che poi contento sarebbe il cor mio;
- E se mi convenisse poi morire,
- N’andrei contento ringraziando Iddio;
- Ma di lei più che di me mi dorrebbe:
- S’ella morisse per me, mal sarebbe. LVI.
- Cotai ragionamenti rivolgendo
- Affrico in sè vi dimorò gran pezza,
- Nè che si far nè che dir non sapendo,
- Tanto amor lo lusinga e sì l’avvezza:
- Pur nella fine partito prendendo,
- Per non voler al padre dar gramezza,
- A casa ritornar contro sua voglia,
- Così si mise in via con molta doglia.
- LVII.
- Così si torna Affrico mal contento
- Rivolgendosi indietro ad ogni passo,
- E stando sempre ad ascoltare attento
- Se Mensola vedea, dicendo, lasso,
- Oimè tapino! in quanto rio tormento
- Rimango, e d’ogni ben privato a casso!
- E tu rimani, o Mensola! chiamando
- Più e più volte, e indietro ritornando. LVIII.
- Molto sarebbe lungo chi volesse
- Le volte raccontar ched e’ tornava
- Indietro e innanzi, tant’erano spesse,
- Per ogni foglia che si dimenava;
- E quanta doglia dentro al core avesse,
- Ognuno il pensi, e quanto lo gravava
- Di partir quindi, ma per dir più breve
- A casa si tornò con pena greve. LIX.
- Alla qual giunto, in camera ne gìa,
- Senza da padre o madre esser veduto,
- E ’n sul suo picciol letto si ponìa,
- Sentendosi già al core esser venuto
- Cupido, il qual sì forte lo ferìa,
- Che volentieri avrebbe allor voluto
- Morendo uscir di tanta pena e noia,
- Vedendosi privato di tal gioia.
- LX.
- E tutto steso in sul letto bocconi
- Affrico sospirando dimorava;
- E sì lo punson gli amorosi sproni,
- Che, oimè, oimè, per tre volte gridava
- Sì forte, che agli orecchi que’ sermoni
- Della sua madre venner, che si stava
- ’N uno orticello allato alla casetta,
- E ciò udendo in casa corse in fretta: LXI.
- E nella cameretta ne fu andata,
- Del suo flgliuol la voce conoscendo;
- E giunta là si fu maravigliata,
- Il suo flgliuol boccon giacer veggendo,
- Perchè con voce rotta e sconsolata
- Lui abbracciò, caro figliuol, dicendo,
- Deh dimmi la cagion del tuo dolere,
- E donde vien cotanto dispiacere. LXII.
- Deh dimmel tosto, caro figliuol mio,
- Dove ti senti la pena e ’l dolore,
- Sì che io possa, medicandoti io,
- Cacciar da te ogni doglia di fore:
- Deh leva il capo, dolce mio disio,
- Ed un poco mi parla per mio amore,
- Io son la madre tua che ti lattai,
- E nove mesi in corpo ti portai.
- LXIII.
- Affrico udendo quivi esser venuta
- La sua tenera madre, fu cruccioso
- Perch’ella s’era di lui avveduta;
- Ma fatto già per amor malizioso,
- Tosto gli fu nel cor scusa venuta,
- E ’l capo alzò col viso lagrimoso,
- E disse: madre mia, quando tornava
- Istaman caddi, e tutto mi fiaccava. LXIV.
- Poi mi rizzai, e rimasemi al fianco
- Una gran doglia, ch’appena tornare
- Pote’ infin qui, e divenni sì stanco,
- Che sopra me non potea dimorare,
- Ma come neve al sol mi venìa manco,
- Perch’io mi venni in sul letto a posare:
- E parmi alquanto la doglia ita via,
- Che prima tanto forte m’impedia. LXV.
- E però, madre mia, se tu m’hai caro,
- Ti prego che di qui facci partenza,
- E per Dio questo non ti sia discaro,
- Che ’l favellar mi dà gran penitenza,
- Nè veggio alla mia doglia altro riparo:
- Or te ne va’, senza più resistenza
- Fare al mio dir, che per certo conosco
- Che ’l più parlar m’è velenoso tosco.
- LXVI.
- E questo detto il capo giù ripose,
- Senza più dir, ma forte sospirando.
- La madre, avendo udite queste cose,
- Con seco venne alquanto ripensando,
- Dicendo: e’ mi s’accosta, che gravose
- E maggior pene gli fien favellando,
- Che forse gli rimbomba quella voce
- Dove la doglia nel fianco gli cuoce. LXVII.
- E della camera uscì, e in sul letto
- Lasciò il figliuolo con molti sospiri:
- Il qual poi che si vide esser soletto,
- D’amor si dolea forte e de’ martiri
- I quai crescean nel non usato petto
- Con maggior forza, e più caldi i desiri
- Che prima non facien, dicendo: i’ veggio
- Ch’amor mi tira pur di mal in peggio. LXVIII.
- Io mi sento arder dentro tutto quanto
- Dall’amorose fiamme, e consumare
- Mi sento il petto e ’l cor da ogni canto,
- Nè non mi può di questo nullo atare
- Nè conforto donar poco nè quanto;
- Sol’una è quella che mi può donare,
- S’ella volesse, aiuto e darmi pace,
- E di me sol può far quanto le piace.
- LXIX.
- E tu sola fanciulla bionda e bella,
- Morbida, bianca, angelica e vezzosa,
- Con leggiadro atto e benigna favella,
- Fresca e giuliva più che bianca rosa,
- E splendiente più ch’ogni altra stella
- Sei che mi piaci più che altra cosa;
- E sola te con desiderio bramo,
- E giorno e notte ad ogn’ora ti chiamo. LXX.
- Tu se’ colei ch’alle mie pene e guai
- Sola potresti buon rimedio porre:
- Tu se’ colei che nelle tue man’hai
- La vita mia, ne la ti posso torre:
- Tu se’ colei la qual se tu vorrai
- Me da misera morte potrai storre;
- Tu se’ colei che mi puo’ atar se vuoi,
- Così volessi tu, come tu puoi. LXXI.
- E poi diceva: oimè lasso, dolente!
- Che tu se’ tanto dispietata e dura,
- E tanto se’ selvaggia dalla gente
- Che hai di chi ti mira gran paura,
- E di mia vita non curi niente,
- La qual’in carcer tenebrosa e scura
- Istà per te, e tu, lasso, non credi
- Ch’io per te senta quel che tu non vedi.
- LXXII.
- Poi sospirando a Vener si volgeva,
- Dicendo: o santa diva, la quel suoi
- Ogni gran forza vincer, che soleva
- Difesa far contra li dardi tuoi,
- E niun da te difender si poteva,
- Ora mi par che vincer tu non puoi
- Una fanciulla tenera, la quale
- La forza tua contra lei poco vale. LXXIII.
- Tu hai perduta ogni forza e valore
- Contra di lei, e l’ingegno sottile,
- Che suol’avere il tuo figliuolo Amore
- Contro ogni core villano e gentile,
- Perduto l’hai contro al gelato core,
- Il quale ogni tua forza tiene a vile,
- E sprezza l’arco e l’agute saette,
- Che solei far con esse tue vendette. LXXIV.
- Tu li credesti forse lei pigliare
- Agevolmente come me pigliasti,
- E nel gelato petto tosto entrare
- Co’ tuoi ingegni come nel mio entrasti:
- Ma ella fe’ le frecce rintuzzare
- Colle qua’ di passarla t’ingegnasti,
- E io tapin, che non fei difensione,
- Rimaso sono in eterna prigione:
- LXXV.
- Nè spero d’essa giammai riuscire
- Nè pace aver nè tregua nè riposo,
- Ma bene aspetto che maggior martire
- Mi cresca ognor col pensiero amoroso,
- Il quale al fin farà del corpo uscire
- L’anima trista con pianto noioso,
- E gir fra l’ombre nere a suo dispetto,
- E questo fia di me l’ultimo effetto. LXXVI.
- E io ti chieggio morte, poichè dei
- Medicina esser di mia amara vita,
- Perchè contra mia voglia viverei,
- Se non mi dai nel cor la tua fedita,
- E sempre mai di te io mi dorrei,
- Ma se tu vien sarai da me gradita;
- Dunque vien tosto, e scio’ questa catena
- Con la qual son legato in tanta pena. LXXVII.
- Poi detto questo forte lagrimando
- Sì ricordò del dardo, il qual lanciato
- Gli avea la bella ninfa: e poscia quando
- Con pietose parole avea parlato,
- Ch’egli schifasse il dardo, che volando
- Venia per lui per l’aria affusolato:
- Quelle parole gli davan fidanza
- Alcuna di pietà con isperanza.
- * * *
- PARTE TERZA
- * * *
- I.
- Così piangendo e sospirando forte
- Lo innamorato giovane in sul letto,
- Bramando vita e chiamando la morte,
- E sperando e temendo con sospetto,
- Lo Iddio del sonno uscì delle gran porte
- E fece addormentare il giovinetto,
- Il qual per le fatiche era sì stanco
- Che quasimente venia tutto manco. II.
- La maestrevol madre colto aveva
- D’erbe gran quantità per un bagnuolo
- Fare a quel male, il qual’ella credeva
- Che nel fianco sentisse il suo figliuolo,
- Sì come quella che non conosceva
- Donde veniva l’angoscioso duolo;
- E mentre che tal’opera dispone
- A casa ritornava Giraffone.
- III.
- Il qual del caro figlio dimandava
- Se in quel giorno a casa era tornato:
- La donna, che Almena si chiamava,
- Di sì rispose, e poi gli ha raccontato
- Il fatto tutto, e come gli gravava
- Sì lo parlar che solo l’ha lasciato
- Perch’e’ si possa a suo modo posare,
- Però ti prego che tu il lasci stare. IV.
- I’ ho fatto un bagnol molto verace
- A quella doglia, il qual poscia che alquanto
- Riposato sarà quanto a lui piace,
- Il bagnerem con esso tutto quanto:
- Questo bagnolo ogni doglia disface,
- E sanerallo dentro in ogni canto;
- Però lo lascia stare quanto e’ vuole,
- Chè quando parla, il fianco più gli duole. V.
- L’amor paterno non sofferse stare
- Che non vedesse subito il figliuolo:
- Udendo quella cosa raccontare
- Alla sua donna, al cor sentì gran duolo,
- E nella cameretta volle andare
- Dove Affrico dormia sul letticciuolo;
- E vedendol dormir lo ricopria,
- E tostamente quindi se n’uscia.
- VI.
- E disse alla sua donna: o cara sposa,
- Nostro figliuol mi pare addormentato,
- E molto ad agio in sul letto si posa,
- Sì che a destarlo mi parria peccato;
- E forse gli saria cosa gravosa
- Sed io l’avessi del sonno svegliato:
- E tu di’ vero, diceva Alimena,
- Lascial posare e non gli dar più pena. VII.
- Poscia che ’l sonno ebbe Affrico tenuto
- Nelle sue reti gran pezza legato,
- E fu nel petto suo tutto soluto,
- Un gran sospir gittando fu svegliato;
- E poi che vide non esser veduto
- Nel suo primo dolor fu ritornato:
- E non gli era però di mente uscito
- Il dolce sguardo che l’avea ferito. VIII.
- Ma per non far la cosa manifesta
- Al padre, che sentito già l’avea,
- Su si levò facendo sopravvesta
- Col viso infinto ad amor che ’l pugnea,
- E poi ch’alquanto il bel viso e la testa
- E gli occhi col lenzuol netti s’avea,
- Perch’era ancor di lacrime bagnato,
- Poi uscì fuori un pochetto turbato.
- IX.
- Giraffon quando il vide, tostamente
- Gli si faceva incontro, domandando
- Del caso suo, e poi come si sente,
- E Alimena ancor lui rimirando
- Il domandava, e que’ dicea: niente
- Quasi mi sento; e dicovi che quando
- I’ mi destai, mi senti’ andato via
- La doglia che sì forte m’impedia. X.
- Nondimen fece il padre apparecchiare
- Il bagnuol caldo perchè si bagnasse;
- Ed e’ vi si bagnò, per dimostrare
- Ch’altra pena non fosse che ’l noiasse.
- O Giraffon tu nol sai medicare;
- Nè non potresti far che si saldasse
- Col bagnuol la ferita che fe’ amore,
- E non la vedi, ch’è nel mezzo al core, XI.
- Ma lasciam qui: che poi che fu bagnato
- Passò quel giorno assai malinconoso,
- E l’altro e ’l terzo e ’l quarto egli ha passato
- Con molte pene e senza alcun riposo,
- E già ogni diletto abbandonato,
- Senza mai rallegrarsi sta pensoso,
- Nè mai partiva il pensier da colei,
- Per cui dì e notte chiamava gli omei.
- XII.
- Già padre e madre e tutt’altre faccende
- Gli uscian di mente senza averne cura,
- Nè più a niuna cosa non attende,
- Lasciandole menare alla ventura:
- Ma ogni suo pensiero in quella spende
- La qual’il tiene in tal prigione scura,
- E solo in lei ha posto ogni sua speme,
- E di lei ha paura e lei sol teme. XIII.
- E se quando poteva in alcun loco,
- Che veduto non fosse, ritrovarsi,
- Quivi sfogando l’amoroso foco,
- Dolendosi d’amor, poneva a starsi:
- E sol questo era suo sollazzo e giuoco,
- Quando potea con agio lamentarsi,
- E ricordare i casi intervenuti
- Ch’eran tra lui e la sua amante suti. XIV.
- Continuando adunque in tal lamento
- Affrico, ognor crescendogli la pena,
- E già sì stanco l’aveva il tormento,
- Ch’avea perduta la forza e la lena:
- Vivea contra sua voglia mal contento,
- E già sì stretto l’avea la catena
- D’amor, che quasi punto non mangiava,
- E più di giorno in giorno lo stremava.
- XV.
- Già fuggit’era il vermiglio colore
- Del viso bello, e magro divenuto,
- In esso già si vedea il palidore,
- E gli occhi indentro col mirare aguto;
- E trasformato sì l’avea il dolore,
- Ch’appena si saria riconosciuto
- A quel ch’esser solea, prima che preso
- Fosse d’amore, e dalle fiamme offeso. XVI.
- Sì gran dolore il padre ne portava,
- Che raccontar non lo potrei giammai;
- E con parole spesso il confortava,
- Dicendo: figliuol mio, dimmi, che hai?
- E quale è quella cosa che ti grava?
- Ch’i’ ti prometto che, se mel dirai,
- Pur che sia cosa che possibil sia,
- Per certo tu l’avrai in fede mia. XVII.
- E s’ell’è cosa che non si potesse
- Aver per forza o per ingegno umano,
- Provvederem s’altra cosa ci avesse
- A cacciar via questo pensier villano,
- Acciocchè tanta noia non ti desse,
- E che tu torni com’esser suoi sano;
- E non può esser che qualche consiglio
- Io non ti doni, o caro e dolce figlio.
- XVIII.
- Simile ancora la sua madre cara
- Il domandava spesso qual cagione
- Fosse della sua vita tanto amara,
- Che ’l conduceva a tanta turbazione,
- Dicendo: figlio, tanto m’è discara
- Questa tua angoscia, che in disperazione
- Io credo venir tosto, poich’io veggio
- Che ogni giorno vai di male in peggio. XIX.
- Null’altra cosa Affrico rispondea
- Se non che nulla di mal si sentia,
- E la cagion di questa non sapea:
- Alcuna volta pure acconsentia
- Che un po’ il capo e altro gli dolea,
- Perchè di più dimandarlo ristia:
- Onde più volte egli era medicato,
- Non di quel mal che saria bisognato. XX.
- Adunque in cotal vita dimorando
- Affrico, un giorno essendo con l’armento
- Del suo bestiame, e quindi oltre guardando
- Sen giva in qua e in là con passo lento,
- Continuo all’amante sua pensando,
- Per la qual dimorava in tal tormento,
- Poi una fonte vide molto bella
- Appresso a lui, più chiara ch’una stella.
- XXI.
- Ell’era tutta d’alber circundata,
- Di verdi frondi che facean ombria
- Ad essa; e poi ch’alquanto l’ha mirata,
- Appiè di quella a seder si ponia,
- Pensando alla sua vita sventurata,
- E dove amor condotto già l’avia;
- Poi si specchiava nell’acqua, e pon cura
- Quanto fatt’era la sua faccia scura. XXII.
- Perchè pietà di sè stesso gli venne,
- Veggendosi sì forte sfigurato,
- E le lacrime punto non ritenne,
- Ma forte a pianger egli ha cominciato,
- Maladicendo ciò che gl’intervenne
- Il primo giorno che fu innamorato,
- Dicendo: lasso me, a che periglio
- Veggo la vita mia senza consiglio! XXIII.
- E con la man la gota sostenendo,
- In sul ginocchio il gomito posava,
- E sì diceva tuttavia piangendo:
- Oimè, dolente la mia vita prava,
- Ch’ella si va come neve struggendo
- Al sol, tanto questa doglia mi grava!
- E come legno al fuoco mi divampo,
- Nè veggio alcun riparo allo mio scampo.
- XXIV.
- Io non posso fuggir ched io non ami
- Questa crudel fanciulla che m’ha preso
- Il core, o ch’io non lei sempre mai brami
- Sopr’ogni cosa; e poi veggio che offeso
- I’ son sì forte da questi legami
- Che giorno e notte sto in foco acceso,
- Senza speranza d’uscirne giammai,
- Se morte non pon fine a questi guai. XXV.
- E poi guardando, vide nel suo armento
- Le belle vacche e’ giovenchi scherzare:
- Vedea ciascuno ’l suo amor far contento,
- E l’un con l’altro li vedea baciare:
- Sentia gli uccei con dolce cantamento
- Ed amorosi versi rallegrare,
- E gir l’un dietro all’altro sollazzando,
- E gli amorosi effetti gir pigliando. XXVI.
- Affrico questo veggendo dicea:
- O felici animai! quanto voi sete
- Più di me amici di Venere Iddea,
- E quanto i vostri amor più lieti avete,
- E con maggior piacer ch’io non credea!
- E quanto più di me lodar dovete
- Amor de’ vostri diletti e piaceri,
- Che v’ha prestati sì compiuti e veri!
- XXVII.
- Voi ne cantate e menatene gioia,
- Manifestando la vostra allegrezza,
- Ed io ne piango con tormento e noia,
- E giorno e notte menando gramezza;
- E veggio pur ch’alfin convien ch’i’ muoia,
- Così mi liberrò d’ogni gravezza,
- Senza aver mai avuto alcun diletto
- Di quella che m’ha il cor tanto costretto. XXVIII.
- E dopo un gran sospir sì fortemente
- A pianger cominciava il giovinetto,
- E le lacrime sì abbondevolmente
- Gli uscian degli occhi, che le guance e ’l petto
- Pareano fatti un fiumicel corrente,
- Tant’era dalla gran doglia costretto:
- Poi nella bella fonte si specchiava,
- E con l’ombra di sè stesso parlava. XXIX.
- Poi che si fu con lei molto doluto,
- E la fonte di lagrime ripiena,
- E molti pensier vani avendo avuto,
- Alquanto di più pianger si raffrena
- Per un pensier che nel cor gli è venuto,
- Ch’alquanto mitigò la greve pena,
- Tornandogli a memoria la speranza
- Che gli diè Vener della sua amanza.
- XXX.
- Ma veggendo l’effetto non venire
- Di tal promessa, e sè condotto a tale
- Che ’n breve tempo gli convien morire,
- Disse: forse che Vener del mio male
- Non si ricorda, nè del mio martire,
- Nè vede come morte ria m’assale;
- Perchè con sacrificio ed onor farle
- Propose la promessa rammentarle. XXXI.
- E ’n piè levato se ne giva in parte
- Dove vedeva il ciel meglio scoperto,
- E quivi con fucile e con sua arte
- Il fuoco accese molto chiaro e aperto,
- E poi con un coltello taglia e parte
- Di molte legne, e ’l fuoco n’ha coperto:
- E presto poi prese una pecorella
- Del suo armento, molto grassa e bella: XXXII.
- E quella presa la condusse al fuoco,
- E quivi fra le gambe la si mise,
- E come quel che ben sapeva il giuoco,
- Nella gola ferendola l’uccise:
- E ’l sangue, uscendo fuori a poco a poco,
- Sopra ’l fuoco lo sparse, e poi divise
- La pecorella, e due parti n’ha fatto,
- E nel fuoco le mise molto ratto.
- XXXIII.
- L’una parte per Mensola vi misse,
- L’altra in suo nome volle che vi ardesse,
- Per veder se miracol ne venisse
- Per lo quale speranza ne prendesse
- O buona o ria, pur ch’ella avvenisse,
- Acciò sapesse che sperar dovesse;
- E poi si mise in terra ginocchione
- Facendo a Vener cotale orazione. XXXIV.
- O santa Dea, la cui forza e valore
- Ogn’altra passa mondana e celesta,
- O Vener bella col tuo figlio Amore,
- Che fere i cori e gli animi molesta,
- A te ricorro con divoto core,
- Siccome a quella c’hai in tua potesta
- Il cor di tutti, che questo mio priego
- Degni ascoltare, e non mi facci niego. XXXV.
- Tu sai, Iddea, come agevolmente
- Io mi lasciai pigliare al tuo figliuolo
- Il giorno che Dïana parimente
- Vidi alla fonte con l’adorno stuolo
- Delle sue ninfe, e come tostamente
- Nel cor sentii delle tue frecce il duolo,
- Per una ch’io vi vidi tanto bella,
- Che sempre poi nel cor m’è stata quella.
- XXXVI.
- E quanti sien poi stati i miei martiri,
- Ch’i’ ho per lei patiti e sostenuti,
- E l’angosciose pene ed i sospiri
- Assai ben chiari puoi aver veduti:
- E quanto la fortuna a’ miei desiri
- Contraria è stata, possono esser suti
- Ver testimoni i boschi tutti quanti
- Di questa valle, s’io gli ho pien di pianti XXXVII.
- Ancora il viso mio assai palese
- Fa manifesto come la mia vita
- È stata, e sta ancora in fiamme accese;
- E che tosto morendo fia finita,
- E fuor di tutte quante le tue offese,
- Se prima la tua forza non l’aita,
- E se non pon rimedio alla mia pena,
- Morte mi scioglierà di tal catena. XXXVIII.
- Tu prima fosti che principio desti
- Alla mia angoscia, e che in visïone
- Venendo a me col tuo figliuol dicesti
- Ched io seguissi il mio opinione;
- E detto questo poi mi promettesti,
- Come tu sai, che senza tardagione
- Che tosto il mio amor verria in effetto;
- Poi mi lasciasti ferito in sul letto.
- XXXIX.
- Perchè del tuo parlar presi speranza,
- E l’animo disposi ad amar quella,
- Avend’in ciò di te ferma fidanza;
- Che un giorno ritrovandola, quand’ella
- Mi vide, di me prese gran dottanza,
- Ed a fuggir si diè crudele e fella,
- E sì veloce, che una saetta
- Quand’esce d’arco non va tanto in fretta. XL.
- Nè mai potei con lusinghe e preghiera
- Far ch’ella mai aspettar mi volesse,
- Ma come veltro se ne gía leggiera,
- Mostrando ben che poco le calesse
- Della mia vita; e poi ardita e fera,
- Vedendo ch’io a seguirla avea messe
- Tutte mie forze, si volse, ed un dardo
- Ver me lanciò col bel braccio gagliardo. XLI.
- Allor potesti ben vedere, o Dea,
- Che morto da quel colpo sarie stato,
- Se un albero non fosse, il quale avea
- Dinanzi a me, che ’l colpo ebbe arrestato:
- Poi passò il monte, e più non la vedea,
- Lasciando me tapino e sconsolato;
- Nè pote’ poi ritrovarla giammai,
- Ond’io rimaso son con molti guai.
- XLII.
- Ond’io ti prego, o Dea, per tutti i preghi
- Che far si posson per l’umana gente,
- Ch’un poco gli occhi verso me tu pieghi,
- E mira la mia vita aspra e dolente
- Pietosamente, e fa’ che al cor tu leghi
- Di Mensola il tuo figlio strettamente,
- Sì che a lei faccia come a me sentire
- Le fiaccole amorose col martire. XLIII.
- E se tu questo non volessi fare,
- Ti prego almen, che quando la mia vita
- Verrà a morte, che poco può stare
- Di qua, che far le converrà partita
- Di questo mondo, e ’l corpo abbandonare,
- Che la mia amante veggia tal finita,
- E che la morte mia non le sia gioia
- Almen, poi che la vita mia l’annoia. XLIV.
- Appena avea finita l’orazione
- Affrico, quando nel foco mirando,
- Vide che in esso er’arso ogni tizzone,
- E che la pecorella su levando,
- L’una parte con l’altra raccozzone
- Come fu mai, e poi forte belando,
- Senz’arder punto, stette ritta un poco,
- E poi ardendo ricadde nel foco.
- XLV.
- Questo miracol donò gran conforto
- Ad Affrico, che ancora lagrimava,
- Parendogli vedere assai scorto
- Che Vener l’orazione sua accettava,
- La qual divotamente le avea porto,
- Perchè sovente la Dea ringraziava,
- Parendogli il miracol buon segnale
- Da dovere aver fine omai ’l suo male. XLVI.
- E perchè già il sole era calato
- In occidente, e poco si vedeva,
- Tutto l’armento suo ebbe adunato
- E ’n verso il suo ostello il conduceva,
- Dove nel volto assai più che l’usato
- E nella vista allegro vi giugneva,
- E dove e’ fu dal padre suo raccolto
- E dalla madre ancor con lieto volto. XLVII.
- Ma poichè già nel ciel tutte le stelle
- Sì vedeano, e la notte era venuta,
- Cenaron tutti, e dopo assai novelle
- D’una cosa e d’un’altra intervenuta,
- Affrico ch’avea poco il cuore a quelle,
- La stanza quivi gli era rincresciuta,
- Perchè a dormir s’andò tutto soletto,
- Da speranza e pensier nuovi costretto.
- XLVIII.
- Ma prima che dormir punto potesse,
- O che sonno gli entrasse nella testa,
- Ben mille volte credo si volgesse
- Pel letticciuol d’altra parte or da questa,
- Mostrando ben che tutto il core avesse
- Fiso a colei che tanto lo molesta:
- Pure aiutato forte da speranza
- Del sì e del no istava in dubitanza. XLIX.
- Pure alla fine già presso al mattino
- Il sonno vinse gli occhi dello amante,
- E leggiermente dormendo supino
- Venere Iddea gli venne davante:
- In collo aveva Amor piccol fantino,
- Con l’arco e le saette minacciante:
- Poi gli parea che Venere Iddea
- Con tai parole inverso lui dicea: L.
- Il sacrificio tuo, e l’orazione
- Che mi facesti, fu da me accettata
- Per modo, che n’avrai buon guiderdone
- Da me di quel che fui da te pregata:
- Ed abbi certa e ferma opinïone,
- Che la mia forza non ti sia negata
- In tuo aiuto, e quella del mio figlio,
- Se tu seguir vorrai il mio consiglio.
- LI.
- Fatti una vesta per tal modo e stile,
- Ch’ella sia larga e lunga infino a’ piedi,
- Tutta ritratta ad atto femminile;
- Poi d’un arco e d’un dardo ti provvedi,
- A modo d’una ninfa tutto umile,
- Poi mettiti a cercar se tu la vedi:
- Tu parrai come lor ninfa per certo,
- Se tu saprai con loro esser coperto. LII.
- E se tu trovi Mensola, con lei
- Piacevolmente a parlare entrerai
- Di cose sante e di cose di Dei,
- E con lei ragionando ti starai:
- E perchè me’ tu sappi che far dei,
- Questo mio figlio sempre in core avrai,
- Che ben t’insegnerà dire ogni cosa,
- Che fia a lei piacevole e graziosa. LIII.
- E quando il tempo tu vedi più bello,
- E tu a lei allor ti manifesta:
- Ella si fuggirà siccome uccello
- Seguito dal falcon per la foresta;
- Ma fa’ che tu non fossi tanto fello,
- Che quando ti palesi, ella più presta
- Fusse a fuggir che tu presto a pigliarla,
- Che non ti varria poi più lusingarla.
- LIV.
- Non temer di sforzarla, che ’l mio figlio
- La ferirà in tal modo e maniera,
- Che uscire non potrà del suo artiglio:
- Di lei avrai ogni tua voglia intera.
- Or fa’ che tu t’attenga al mio consiglio,
- Ed avrai ciò che il tuo desire spera:
- Poi si partì, quand’Affrico sentissi,
- Ch’era già dì, e tosto rivestissi. LV.
- E come que’ che molto bene avea
- La visïon di quella Dea compresa,
- E molto questo modo gli piacea,
- Onde si fu allor la fiamma accesa
- Sì nel suo core, che già tutto ardea
- Per la grande speranza ch’avea presa,
- Perchè pensava come aver potesse
- Una gonnella la qual si mettesse. LVI.
- Ma dopo assai pensar si ricordava
- Che la sua madre aveva un bel vestire,
- Il qual non mai o poco ella portava,
- E ’nfra sè disse: s’io ’l posso carpire,
- Ottimo fia: poi la madre aspettava
- Se fuor di casa la vedesse uscire,
- Per quel vestire in tal parte riporre
- Che d’imbolio non l’avesse più a torre.
- LVII.
- E fugli assai in questo la fortuna
- Favorevole e buona, che già essendo
- Ispenti tutti i raggi della luna
- E delle stelle, e il giorno già venendo,
- Si levò Giraffone, e senza alcuna
- Istanza quivi fuor di casa uscendo,
- Dandosi a fare certi suoi lavori,
- Così ancor la donna s’usci fuori. LVIII.
- Affrico non fu lento a questo tratto,
- Veggendo ognun di lor essere andato,
- Ma dov’era il vestir se n’andò ratto,
- E senza cercar troppo l’ha trovato;
- E ben gli venne ciò che volea fatto,
- Che senza esser veduto l’ha portato
- Fuor della casa un gran pezzo lontano,
- E nascoselo in luogo molto strano. LIX.
- Poi verso casa facendo ritorno
- Gli pareva il suo avviso aver fornito;
- Nè però metter si volle quel giorno
- A Mensola trovar, ma in casa gito
- Ritrovò tosto un suo bell’arco adorno,
- E d’un turcasso e saette guernito,
- E d’ogni cosa si fu provveduto:
- Passò quel giorno, e l’altro fu venuto.
- * * *
- PARTE QUARTA
- * * *
- I.
- Febo era già co’ veloci cavalli
- Col fido Eleo venuto in oriente,
- E già faceva gli alti monti gialli,
- E rosseggiava l’aria in occidente,
- Ma non luceva ancor per tutte valli,
- Quando Affrico levato prestamente
- L’arco e ’l turcasso prese e fuor si caccia,
- Alla madre dicendo: i’ vo alla caccia. II.
- E dove il dì dinanzi aveva messo
- Il vestir della madre ne fu gito,
- E quivi giunto, i panni di lui stesso
- Si trasse, e quivi quel s’ebbe vestito,
- Una vitalba si cinse sopr’esso
- Per poter esser più presto e spedito;
- E certamente che Vener l’atava
- A acconciar quel vestir, sì ben gli stava.
- III.
- Poi i suoi capelli, non già pettinati,
- Pendeano in giù non con troppa grandezza,
- Ma biondi sì, che d’or parean filati,
- E ricciutelli con somma bellezza:
- Ma come che per gli affanni passati
- Nel viso ancora avesse palidezza,
- Pur nondimen quel colore era tale,
- Che più gli dava femminil segnale. IV.
- E poi che s’ebbe acconcio in tal maniera,
- Il turcasso si cinse al destro lato,
- E l’arco in mano e una freccia leggiera;
- E poi ch’alquanto s’ebbe rimirato,
- Gli parea esser quel ched e’ non era,
- E in femmina di maschio trasmutato:
- E certo chi non l’avesse saputo
- Per maschio non l’avria mai conosciuto. V.
- Poscia i suoi panni in quel luogo rimise
- Donde ’l vestir femminile avea tratto,
- Poi verso i monti Fiesolan si mise
- Così acconcio, non già troppo ratto,
- E molte fiere in questo mezzo uccise
- Prima che su fosse salito affatto;
- Ma poi che fu in sul monte maggiore,
- De’ tre, sentì di là un gran romore.
- VI.
- Affrico volto verso quelle stride
- Vide più ninfe ind’oltre gir cacciando,
- Ed accennar ver lui con alte gride:
- Sta’ ferma al passo la fiera aspettando.
- Affrico pose mente, e venir vide
- Un fier cinghial fortemente rugghiando,
- Con frecce molte fitte nel suo dosso:
- Affrico sbarra l’arco suo dell’osso, VII.
- E d’una freccia nel petto al cinghiale
- Ferì, che gli passò infino al core,
- Che pelle dura o callo non gli vale;
- E poco andò che gli mancò il furore,
- E cadde in terra pel colpo mortale;
- E come piacque a Venere e ad Amore,
- Mensola era in luogo ch’assai scorto
- Vide a quel colpo il cinghial cader morto. VIII.
- Quivi trasse di ninfe gran brigata,
- Credendo ben ch’Affrico ninfa fosse,
- E Mensola con lor si fu adunata,
- E poi alle compagne a parlar mosse,
- Ed a lor la novella ha raccontata,
- Dicendo: i’ vidi com’ella il percosse,
- Nè sì bel colpo vidi alla mia vita,
- Quanto fe’ questa ninfa qui apparita.
- IX.
- Quanto Affrico sentisse di piacere
- Dentro dal core udendosi a colei
- Lodar cotanto, che già dispiacere
- Le fu vederlo, dir non lo potrei,
- Ma color sol lo posson ben sapere
- C’hanno d’amor sentiti i colpi rei,
- E a chi non lo sapesse fo palese,
- Che presso fu più volte e’ non la prese. X.
- Ma credo il tenne più ch’altro paura
- Delle compagne e degli archi ch’avieno;
- Ma poi ch’alquanto con lor s’assicura,
- Cominciò a dir di quel ch’elle dicieno,
- A ragionar con lor della sventura
- Di quel cinghial che morto lì tenieno;
- E com’elle ’l trovaro, e tutti i tratti
- Ch’ognuna aveva addosso al cinghial fatti. XI.
- Mensola disse: or ci fusse Dïana,
- Che noi le faremm questo bel presento.
- Affrico udendo che di lì lontana
- Era Dïana, fu molto contento.
- Ma poi ch’ebbon assai di questa strana
- Bestia tenuto lì ragionamento,
- Fecion da parte un berzaglio tra loro,
- E comiaciaro a saettar costoro.
- XII.
- Ognuna quivi l’animo assottiglia,
- Con gli archi loro egual dardo lanciava:
- Mensola tosto il suo arco in man piglia,
- E più presso che l’altre al segno dava;
- E Affrico di ciò si maraviglia,
- E tosto l’arco suo in man recava,
- A lato al dardo di Mensola ha messo
- La freccia sì, ch’amendue fur più presso. XIII.
- E come Amor sa ben far quando e’ vuole
- Far l’un dell’altro tosto innamorare,
- Quel giorno usò gl’ingegni che far suole
- Quando le cose ad effetto menare
- Ei vuole, e non menarle per parole;
- Così quel giorno seppe sì ben fare,
- Che di Mensola e d’Affrico lo strale
- Sempre mai era più presso al segnale. XIV.
- Per la qual cosa Mensola veggendo
- Che sempre di lor due era l’onore,
- Ognora più le veniva piacendo,
- E già gli aveva posto molto amore;
- Affrico sempre gli occhi a lei tenendo,
- Piacevolmente le dava favore,
- E acconsentiva ciò ch’ella diceva,
- Ed essa a lui il simile faceva.
- XV.
- Ma poi ch’ell’ebbon molto saettato,
- Cominciò loro a rincrescere il giuoco,
- Perchè tutte partirsi da quel lato,
- E ivi presso ne giro ad un loco
- Dov’era una caverna, e lì trovato
- Una di quelle ninfe ch’avea il foco
- Acceso, e messo a cuocer del cinghiale,
- E con esso non so ch’altro animale. XVI.
- Aveva il sole già la terza via
- Fatto del corso suo, quando costoro
- Si adunar tutte ad una bell’ombria
- Che facea lì un grandissimo alloro;
- E sopra ad un gran masso si ponia
- La cotta carne senz’altro savoro,
- E pan che di castagne allor facieno,
- Che grano ancor le genti non avieno. XVII.
- Per bere usavan acqua con mel cotta
- E con cert’erbe, e quello era il lor vino;
- E li nappi con che beveano allotta
- Di legname era il grande e ’l piccolino:
- Apparecchiata tutta quella frotta
- Delle ninfe, mangiando di cor fino,
- Affrico e Mensol si sedeano allato
- Con l’altre, avendo il masso circundato.
- XVIII.
- Venuto il fin dell’allegro mangiare,
- Le ninfe tutte quante si levaro,
- E per lo monte con dolce cantare
- A due a tre a quattro se n’andaro,
- Chi in qua chi in là com’a ciascuna pare;
- Affrico e Mensol non si sceveraro,
- Ma con tre altre ninfe si partiro
- Su per lo colle, e inver Fiesole giro. XIX.
- Com’io v’ho detto, Mensola invaghita
- D’Affrico s’era pel suo saettare
- Che sì bene avea fatto, e per l’ardita
- Presenza sua, e pel dolce parlare,
- Che già l’amava come la sua vita,
- Nè saziar si potea di lui guatare,
- Ma non pensi nïun che giammai questo
- Amor con pensier fosse disonesto; XX.
- Perocchè fermamente ella credea
- Che ninfa fusse ind’oltre del paese,
- Perchè segno maschil nessun vedea
- Nella persona, che fosse palese:
- Che se saputo quel che non sapea
- Avesse, non saria suta cortese
- Com’ella fu con l’altre a fargli onore,
- Ma danno gli avria fatto e disonore.
- XXI.
- S’Affrico innamorato di lei era
- Non bisogna più dir, ch’assai n’è detto:
- Ma insieme andando, per cotal maniera
- Portava ascoso il fuoco nel suo petto,
- E più ardeva che non fa la cera,
- Veggendosi mirare al suo diletto,
- E parlare e toccare e farsi onore,
- Per peritezza gli batteva il core. XXII.
- E infra sè dicea: che farò io?
- Io non so ch’io mi dica, o ch’io mi faccia:
- Se io scuopro a costei il mio disio,
- Io temo forte che poi non le spiaccia,
- E che ’l suo amor non mi tornasse in rio
- Odio, e con l’altre mi desson la caccia;
- E s’io non me le scuopro questo giorno
- Non so quando a tal caso mi ritorno. XXIII.
- Se queste ninfe almen si gisson via,
- Che son con noi, io pur mi rimarrei
- Qui solo nato con Mensola mia,
- E più sicuramente mi potrei
- A lei scoprire, e mostrar quel ch’io sia,
- E se fuggir volesse, allor sarei
- A pigliarla sì accorto, che fuggire
- Non si potrebbe nè da me partire.
- XXIV.
- Ma io mi credo che punto da noi
- In questo giorno non si partiranno;
- E s’io m’indugio, non so se mai poi
- Queste venture innanzi mi verranno:
- Meglio è che facci quello che tu puoi,
- Chè molti per indugio perdut’hanno:
- E fu tutto che mosso per pigliarla,
- Poi si ritenne, e non volle toccarla. XXV.
- Ora m’insegna, Venere, or m’aiuta,
- Ora mi dona il tuo caro consiglio!
- Ora mi par che l’ora sia venuta
- Nella qual debbo a costei dar di piglio:
- E poi pensando il suo pensier rimuta,
- Parendogli a far questo pur periglio:
- E ’l sì e ’l no nel capo gli contende,
- E l’amoroso foco più l’accende. XXVI.
- Ell’eran già tanto giù per lo colle,
- Gite, ch’eran vicine a quella valle
- Che duo monti divide, quando volle
- D’Affrico Amor le voglie contentalle:
- Nè più oltre che quel giorno indugiolle,
- Trovando modo ad effetto menalle,
- Chè mentre in tal maniera insieme gieno
- Nella valle, acqua risonar sentieno.
- XXVII.
- Nè furon guari le ninfe oltre andate,
- Che trovaron due ninfe tutte ignude
- Che in un pelago d’acqua eran entrate,
- Dove l’un monte con l’altro si chiude:
- E giunte lì s’ebbon le gonne alzate,
- E tutte quante entrar nell’acque crude,
- Coll’altre ragionando del bagnare:
- Che farem noi? vogliamci noi spogliare? XXVIII.
- E perchè allora era maggior calura
- Che fosse in lutto il giorno, e dal diletto
- Tirate di quell’acqua alla frescura,
- E veggendosi senza alcun sospetto,
- E l’acqua tanto chiara, netta e pura,
- Diliberaron far come avean detto;
- E per bagnarsi ognuna si spogliava,
- E Mensola con Affrico parlava, XXIX.
- E sì diceva: o compagna mia cara,
- Bagneraiti tu qui con esso noi?
- Affrico disse colla voce chiara:
- Compagna mia, i’ farò quel che vuoi,
- Nè cosa che tu voglia mi fia amara.
- E fra sè stesso sì diceva poi:
- S’elle si spoglian tutte, al certo ch’io
- Non terrò più nascoso il mio disio.
- XXX.
- Ed avvisossi di prima lasciarle
- Tutte spogliare, e poi egli spogliarsi,
- Acciocchè le lor armi adoperarle
- Contro a lui non potessero: e a tirarsi
- Cominciò lento il vestir, per poi farle,
- Quando nell’acqua entrasse per bagnarsi,
- Per vergogna fuggir pe’ boschi via,
- E Mensola per forza riterria. XXXI.
- E innanzi che spogliato tutto fosse,
- Le ninfe eran nell’acqua tutte quante;
- E poi spogliato verso lor si mosse,
- Mostrando tutto ciò ch’avea davante.
- Ciascuna delle ninfe si riscosse,
- E con voce paurosa e tremante
- Cominciarono, urlando, oimè oimè,
- Or non vedete voi chi costui è? XXXII.
- Non altrimenti lo lupo affamato
- Percuote alla gran turba degli agnelli,
- E un ne piglia e quel se n’ha portato,
- Lasciando tutti gli altri tapinelli;
- Ciascun belando fugge spaventato,
- Pur procacciando di campar le pelli:
- Così correndo Affrico per quell’acque
- Sola prese colei che più gli piacque.
- XXXIII.
- E l’altre ninfe tutte quante in fretta
- Uscir dell’acqua a’ lor vestir correndo:
- Nè però niuna fu che lì sel metta,
- Ma coperte con esso va fuggendo,
- Che punto l’una l’altra non aspetta,
- Nè mai indietro si givan volgendo,
- Ma chi qua e chi là si dileguoe,
- E ciascuna le sue armi lascioe. XXXIV.
- Affrico tenea stretta nelle braccia
- Mensola sua nell’acqua, che piagnea,
- E basciandole la vergine faccia,
- Cotai parole verso lei dicea:
- O dolce la mia vita, non ti spiaccia
- Se io t’ho presa, che Venere Iddea
- Mi t’ha promessa, o cor del corpo mio,
- Deh più non pianger per l’amor di Dio. XXXV.
- Mensola le parole non intende
- Ch’Affrico le dicea, ma quanto puote
- Con quella forza ch’ell’ha si difende,
- E fortemente in qua e in là si scuote
- Dalle braccia di quel che sì l’offende,
- Bagnandosi di lagrime le gote;
- Ma nulla le valea forza o difesa,
- Ch’Affrico la tenea pur forte presa.
- XXXVI.
- Per la contesa che facea si desta
- Tal, che prima dormia malinconoso,
- E con superbia rizzando la cresta
- Cominciò a picchiar l’uscio furioso,
- E tanto vi percosse colla testa,
- Ch’egli entrò dentro, e non già con riposo,
- Ma con battaglia grande e urlamento,
- E forse che di sangue spargimento. XXXVII.
- Poi che messer Mazzone si ebbe avuto
- Monteficalle, e nel castello entrato,
- Fu lietamente dentro ritenuto
- Da que’ che prima l’avean contrastato:
- Ma poi che molto si fu dibattuto,
- Per la terra lasciare in buono stato
- Per pietà lacrimò, e del castello
- Uscì poi fuori umil più ch’un agnello. XXXVIII.
- Poi che Mensola vide esserle tolta
- La sua virginità contro a sua voglia,
- Forte piangendo ad Affrico fu volta,
- E disse: poi c’hai fatto la tua voglia,
- Ed hai ingannata me fanciulla stolta,
- Usciam dell’acqua, ch’io muoio di doglia,
- Però ch’io vo’ del mondo far partita,
- Togliendo a me con le mie man la vita.
- XXXIX.
- Affrico udendo il suo pietoso dire,
- Con lei insieme uscì dell’acqua fuori,
- E veggendo la sua doglia e il martire,
- Dentro del cor ne sentia gran dolori:
- E ben ch’avesse in parte il suo disire
- Contento, gli crescevan vie maggiori
- Le fiamme dentro al petto e più cocenti,
- Veggendo in lei cotanti turbamenti. XL.
- Ma poi che rivestiti amendue furo,
- Mensola il dardo suo prendeva presta,
- E al petto si poneva il ferro duro
- Per morte darsi senz’altra richiesta:
- Veggendo Affrico il suo pensiero scuro,
- Prestamente là corse, e prese questa,
- E lei gavigna, e quel dardo gettava
- Per lo boschetto, e poi così parlava: XLI.
- Oimè, anima mia, or che è quello
- Che tu volevi fare? o che sciocchezza
- È questa, o qual pensier cotanto fello,
- Che qui te conduceva a tal fierezza?
- O lasso me! che farei, tapinello,
- Se io perdessi la tua gran bellezza?
- Che solo un’ora in vita non starei,
- Ma con le proprie man m’ucciderei.
- XLII.
- Sì gran dolore a Mensola al cor venne,
- Che nelle braccia d’Affrico cascata
- Tramortì tutta, ond’egli la sostenne;
- E poi che nel bel viso l’ha mirata,
- Le lagrime negli occhi più non tenne,
- Temendo ch’ella non fosse passata
- Di questa vita, perchè tra le fronde
- Di molti alberi con lei si nasconde. XLIII.
- Quivi a seder con lei insiem si pose,
- In sul sinistro braccio lei tenendo,
- E con la destra man le lagrimose
- Guance di lei asciugava, e piangendo
- Diceva con parole assai pietose:
- O morte, or hai ciò ch’andavi caendo;
- Che poichè tolto m’hai ogni mia gioia,
- Con lei insieme converrà ch’io muoia. XLIV.
- E riguardando il tramortito viso,
- E quel baciando, diceva: amor mio,
- Perchè da te sì tosto m’ha diviso
- La ria fortuna in questo giorno rio?
- E questo ed altro mirandola fiso
- Diceva, bestemmiando il suo disio,
- Che fu troppo corrente a tal’impresa,
- E che sì forte avea Mensola offesa.
- XLV.
- Ma poi ch’egli ebbe fatto un gran lamento
- Sopra ’l palido viso tramortito,
- E mille volte e più con gran tormento
- Baciato, e delle lacrime forbito,
- Nè più avendo di viver talento,
- Di morte darsi avea preso partito,
- E per morir già si volea levare,
- Quando Mensola sentì sospirare. XLVI.
- Li spiriti di Mensola rotando
- Eran per l’aer già gran pezzo andati,
- E dopo molto nel corpo tornando
- Nelli lor luoghi si furon rientrati,
- Quando Mensola forte sospirando
- Si risentì con atti spaventati,
- Dicendo: oimè, oimè, lassa, ch’io moro!
- A pianger cominciò senza dimoro. XLVII.
- Affrico quando vide ch’era viva
- Mensola sua, che prima parea morta,
- Tutto nel cor di letizia ravviva,
- E poi con ta’ parole la conforta:
- O fresca rosa, olïente e giuliva,
- Per cui la vita mia gran pena porta,
- Deh, non ti sgomentar, nè aver paura,
- Che tu puoi star con meco ben sicura.
- XLVIII.
- Tu se’ in braccio di colui, il quale
- Sopr’ogni cosa t’ama e vuolti bene;
- Ogni tuo dispiacere ed ogni male
- Son nel cor mio angoscïose pene.
- O lasso a me! ch’io mi credetti avale
- Che morte ti tenesse in sue catene,
- E voleami levar per morte dare,
- Se non che or ti senti’ sospirare. XLIX.
- Oimè dolente, lassa sventurata!
- Diceva Mensola, Affrico mirando,
- Tapina a me, per che fu’ io mai nata,
- O mai in vita! dicea lagrimando,
- Or fuss’io stata il giorno strangolata
- Ch’io prima fui veduta! o almen quando
- Le veste di Dïana mi fur messe
- Ch’un feroce cinghial morta m’avesse. L.
- Deh non ti sgomentare, anima mia,
- Affrico disse, che ’l cor mi si sface
- Veggendo a te tanta malinconia,
- Senza pigliar consolazione o pace,
- E menar la tua vita tanto ria:
- E certo che bisogno non ti face,
- Però che se’ con colui che più t’ama
- Che non fa sè, e che sola te brama.
- LI.
- Acciò che tu mi creda che sia vero
- Ch’io t’ami tanto quant’ora t’ho detto,
- Io ti vo’ raccontare il fatto intero:
- Ch’egli è ben quattro mesi che soletto
- Giva cantando senza alcun pensiero
- Per questa costa, quando in un boschetto
- Sentii mormorar voci, onde più presso,
- Per veder chi parlava, mi fu’ messo. LII.
- Io vidi intorno a una bella fontana
- Molte ninfe sedere, e vidi poi
- Sopra tutte seder la Dea Dïana
- Che sermonando ammuniva voi
- Con rigido parlare, e molto strana:
- Poi a’ miei occhi corson gli occhi tuoi,
- E la tua gran bellezza, che nel core
- Sentii ferirmi dallo stral d’Amore. LIII.
- Poi le diceva com’ivi nascoso
- Gran pezza stette, sol per lei mirare,
- E come venne sì disideroso
- Di lei, che non potea gli occhi saziare
- Di mirar questo bel viso vezzoso,
- E sì dicendo, la volle baciare;
- E come poi, quando ognuna partie,
- Mensola andiamne, chiamar la sentie.
- LIV.
- Raccontò poi le lagrime e’ sospiri
- Che per lei avea sparte in abbondanza,
- E l’angosciose pene co’ martiri,
- E come Vener sopra sua leanza
- Gli avea promesso lei ne’ suoi dormiri,
- E datoli di ciò grande speranza,
- E quante volte l’era ita cercando,
- Ed ogni cosa le venia narrando. LV.
- E poi com’egli un giorno la trovoe
- Tutta soletta, e com’ella fuggia,
- E quanto umilemente la pregoe,
- E come ella crudele non l’udia;
- E poi del dardo ch’ella gli lancioe,
- E della quercia dove quel feria,
- E come disse, guarti, e poi smarrilla,
- Nè più la vide poi nè più sentilla. LVI.
- Ancor del sacrificio ch’avea fatto
- Alla Venere Iddea, e la risposta
- Ch’ella gli fe’, e come tosto e ratto
- Si contraffe’, e poi per quella costa,
- A modo d’una ninfa contraffatto,
- A cercar lei si mise senza sosta,
- E com’ora in sul monte la trovoe;
- Dappoi sa’ tu, com’io, che seguitoe.
- LVII.
- Ora t’ho raccontato il gran tormento
- Ch’io ho per te portato e sostenuto,
- E però s’i’ ho usato sforzamento,
- L’ho fatto sol perchè forza m’è suto,
- Non perch’io sia di noiarti contento,
- Ma solo Amor, che m’ha per te tenuto
- In queste pene, n’ha colpa e cagione,
- Duolti di lui, che n’arai più ragione.
- * * *
- PARTE QUINTA
- * * *
- I.
- Mensola avendo bene Affrico inteso
- Ciò ch’avea detto del suo innamorare,
- E come fu da prima di lei preso,
- E poi le cose ch’Amor gli fe’ fare,
- Alquanto nel suo cuore si fu acceso
- Il fuoco, e cominciava a sospirare,
- E pure Amor l’avea già ben ferita,
- Come ch’ella paresse sbigottita. II.
- Poi disse: oimè, e’ mi racorda bene
- Ch’io fui l’altrier gran pezza seguitata
- Da un, non so se tu quel desso sene
- Che ora m’hai così vituperata,
- E ben so io che per donarli pene,
- Inverso lui mi rivolsi crucciata,
- E ’l dardo mio a lui forte lanciava,
- Veggendo pur ched e’ mi seguitava.
- III.
- E ricordami ancor (ched e’ non fosse)
- Che quando vidi il dardo inver lui gire,
- Non so perchè pietà al cor mi mosse,
- Ch’io gridai, guarti guarti, e poi a fuggire
- Mi diedi, e vidi che ’l dardo percosse
- In una quercia e fella tutla aprire,
- Poi mi nascosi ivi presso in un bosco:
- Se tu se’ desso, io già non ti conosco. IV.
- Non mi ricorda mai più ne’ dì miei,
- Dappoi ch’io fui a Diana consecrata,
- Ch’io vedessi uomo; e volesson gli Dei
- Che ancora tu non m’avessi trovata,
- Nè mai veduta, che ancora sarei
- Da Dïana coll’altre annoverata,
- Dov’or sarò, oimè, da lei sbandita,
- E senza fallo mi torrà la vita. V.
- E tu, o giovinetto, il qual cagione
- Sarai della mia morte e del mio danno,
- Come tu sai, senza averne ragione,
- Ti rimarrai senza alcuno affanno:
- Ma sien di me a Diana testimone
- Alberi e fiere che veduta m’hanno,
- Com’io mi sono a mia forza difesa,
- E come tu per forza m’hai offesa.
- VI.
- Ed io fanciulla pura ed innocente
- Son da te stata ingannata e tradita:
- Ma di questo peccato veramente
- M’assolverò, togliendomi la vita
- Con le mie mani; e poi che del presente
- Mondo sarò tapina dipartita,
- Ti rimarrai contento, nè giammai,
- Lassa, di me non ti ricorderai. VII.
- Affrico allora l’abbracciava stretta,
- E lacrimando disse: oimè tapino!
- Non creder che giammai così soletta
- Io ti lasciassi, dolce amor mio fino,
- Ma vo’ che per mio amor tu mi prometta
- Di levar via questo pensier meschino,
- O pria di te la vita mi torroe,
- Sicchè di dietro a te non rimarroe. VIII.
- Io non potre’ giammai stare diviso
- Da te, dolce mio bene: e poi baciando
- La bella bocca e l’angelico viso,
- E colla mano i begli occhi asciugando,
- Diceva: veramente in paradiso
- Tu fusti fatta; e i capelli spianando
- Giva dicendo: mai sì be’ capelli
- Non fur veduti, tanto biondi e belli.
- IX.
- Benedetto sia l’anno e ’l mese e ’l giorno,
- E l’ora e ’l punto ed anche la stagione
- Che fu creato questo viso adorno,
- E l’altre membra con tanta ragïone,
- Che chi cercasse il mondo intorno intorno,
- E nel cielo anche tra la regïone
- Delle Iddee sante, non porria trovarsi
- Una ch’a te potesse mai agguagliarsi. X.
- Tu se’ viva fontana di bellezza,
- E d’ogni bel costume chiara luce:
- Tu se’ adatta e piena di franchezza,
- Tu se’ colei in cui sol si riduce
- Ogni virtù e ogni gentilezza,
- E quella che la mia vita conduce:
- Tu se’ vezzosa, e se’ morbida e bianca,
- E niuna bella cosa non ti manca. XI.
- Dunque, deh! non voler, Mensola mia,
- Guastare una sì bella e tanta cosa
- Chente tu se’, con tua malinconia
- Nè con niun’altra cosa iniquitosa:
- Ma da te caccia ogni rio pensier via,
- E non istar con meco più crucciosa,
- Ch’esser non può non fatto quel ch’è fatto,
- Perch’io con teco ancor fussi disfatto.
- XII.
- Però ti prego che tu ora facci
- Sì come savia, e di questi partiti
- Il miglior prendi, e gli altri da te cacci;
- E gli spiriti tuoi ispauriti
- Conforta un poco, e fa’ che tu m’abbracci,
- E bacia me con baci saporiti,
- Anima mia, sì com’io bacio te;
- Prendi diletto se tu vuoi di me. XIII.
- Amor legava tuttavia il core
- Colle parole ch’Affrico diceva
- Di Mensola, sì che in parte il dolore
- S’era partito, già perchè vedeva
- Ch’altro esser non potea, e poi l’amore
- Ch’ad Affrico portò, quando credeva
- Che ninfa fosse, or più forte s’incende
- Quando le sue dolci parole intende. XIV.
- E per volerlo in parte contentare
- Gli gittò al collo il suo sinistro braccio,
- Ma non lo volle ancor però baciare,
- Forse parendole ancor troppo avaccio
- Di doversi con lui sì assicurare,
- E disse: oimè tapina, ch’io non saccio
- Com’io possa campar, se tal peccato
- Sarà a Dïana giammai palesato.
- XV.
- Nè ardirò giammai con ninfa alcuna,
- Com’io solea, nell’acqua più bagnarmi,
- Nè anche, poichè vuol la mia fortuna,
- Dove ne sia alcuna ritrovarmi,
- Che s’elle ciò sapesson, ciascheduna
- Tosto a Dïana andrebbono a accusarmi;
- Onde pur sola mi converrà stare,
- Fuggendo quel che già solea cercare. XVI.
- E ben conosco che s’io m’uccidessi,
- Che ’l mio peccato minor non sarebbe,
- E quel che tu hai fatto non avessi,
- Son molto certa ch’esser non potrebbe:
- E se ’l contradio di questo credessi,
- A quest’ora doman non giugnerebbe
- La vita mia, che di cotal fallenza
- M’arei ben data degna penitenza. XVII.
- Ma poichè i tuoi conforti son sì buoni,
- Che rivolto hanno tutto il mio pensiero,
- E sì legato m’hanno i tuoi sermoni,
- Che ’l mio voler tanto crudele e fiero
- Ho via levato: ma quel che ragioni,
- Di rimanerti meco, a dirti il vero
- Non consentire’ mai, perchè sarebbe
- Mal sopra male, e saper si potrebbe.
- XVIII.
- Perchè riconosciuto tu saresti
- Da tutte quelle ninfe che veduto
- Questo di t’hanno, e forse che potresti
- Esser morto da lor, se conosciuto
- Fussi da loro; e creder lor faresti
- Quel che non è ancor da lor saputo,
- Ch’io dirò sempre a chi di lor mi trova,
- Ch’io abbia teco vinta la mia prova: XIX.
- Come che lor compagnia sempre mai
- A giusto mio potere io fuggiroe.
- E prego te, o giovane, che hai
- Toltomi quel che giammai non riavroe,
- Che tu ne vada, e me con questi guai
- Lascia star sola, che ’l me’ ch’io potroe
- Mi passerò, dandomi di ciò pace:
- Deh fallo, io te ne prego, se ti piace. XX.
- Affrico aveva molto ben compreso,
- Per le parole sue, che già il foco
- Amor l’aveva dentro al petto acceso,
- Ma pure ancor si vergognava un poco:
- E poi ch’egli ebbe tutto bene inteso,
- Disse fra sè: prima che d’esto loco
- Mi parta, tu farai meco ragione,
- E farotti cantare altra canzone.
- XXI.
- Poi baciandola disse: o saporita
- Dolce mia bocca, cor del corpo mio,
- O faccia bella fresca e colorita,
- Nella quale i’ ho messo il mio disio;
- Tu donna sola se’ della mia vita,
- E amo te più ch’io non faccio Iddio:
- I’ son risuscitato, poi ch’io veggio
- Che pigli il meglio, e lasci andare il peggio. XXII.
- Ma come potre’ io mai sofferire
- Di partirmi da te, che t’amo tanto,
- Che senza te mi pare ognor morire?
- Essendo teco, non so giammai quanto
- Più ben mi possa avere o più disire,
- Ma sallo bene Amore in quanto pianto
- Ista la vita mia la notte e ’l giorno,
- Mentre non veggo questo viso adorno. XXIII.
- E pognam pur che partir mi potessi,
- Come tu di’, mai non sare’ contento
- Che sì malinconosa rimanessi,
- E gissi a mia cagion facendo stento;
- E non so se mai più ti rivedessi,
- Onde la vita mia maggior tormento
- Non sentì mai quant’allor sentirei,
- E più che vita morte bramerei.
- XXIV.
- Ma poichè tu non vuoi che io con teco
- Rimanga qui, venir te ne potrai
- Qui presso a casa mia: con esso meco
- E colla madre mia lì ti starai,
- La qual, mentre che tu starai con seco,
- Sempre come figliuola tu sarai
- Da lei trattata, e da mio padre ancora,
- E potrai d’amendue esser la nuora. XXV.
- Cotesto ancor per nulla non vo’ fare,
- Mensola disse, ch’io teco ne venga
- A casa tua, per voler palesare
- Il mio peccato, e ancora mi convenga
- In questo sì gran mal perseverare:
- Prima la vita mia morte sostenga
- Ch’io vada mai là dove sia persona,
- Poi c’ho perduto sì bella corona. XXVI.
- Io non mi missi a seguitar Dïana
- Per al mondo tornar per niuna cosa;
- Che s’io avessi voluto filar lana
- Colla mia madre, e divenire sposa,
- Di qui sarei ben tre miglia lontana
- Col padre mio, che sopra ogn’altra cosa
- M’amava e volea bene, ed è cinqu’anni
- Che mi fur messi di Dïana i panni.
- XXVII.
- Però ti prego, se ’l mio prego vale,
- Per quell’amor che tu ora m’hai detto
- Che fu cagion di far far questo male,
- Che te ne vadi a casa tu soletto,
- Ed io ti giuro per colei, la quale
- Tu di’ che ti ferì per me nel petto,
- Ch’io bramerò la vita per tuo amore,
- Ed amerotti sempre di buon core. XXVIII.
- Se io ’l credessi, disse Affrico allora,
- Che tu facessi quel che mi prometti,
- E che nel cor m’avessi ciascun’ora,
- Andrebbon via alquanto i miei sospetti:
- Ma quel che più m’offende e più m’accora
- Sì è ch’io temo, se ’n questi boschetti
- Ti lascio sola, di mai ritrovarti,
- E però temo senza me lasciarti. XXIX.
- Mensola disse: io verrò molto spesso
- In questo loco, sì che tu potrai
- Meco parlare, e vedermi d’appresso
- Onestamente quanto tu vorrai:
- E certamente quel ch’io t’ho promesso
- Io t’atterrò se tu ci tornerai,
- Però che tu m’hai già mezza legata,
- E parmi esser venuta innamorata.
- XXX.
- Affrico quando tai parole intende,
- In fra sè stesso si rallegra molto,
- Veggendo che Amor forte l’accende,
- E che il pensier suo rio avea rivolto:
- Più stretta nelle braccia allor la prende,
- E poi baciando l’angelico volto
- Le disse: intendi un poco mia parola,
- Poichè disposta se’ di star pur sola. XXXI.
- Io vo’, se t’è in piacer, rosa novella,
- Da te una grazia prima ch’io mi parti:
- Tu sai quanto la tua persona bella
- I’ ho bramata, e quanti ingegni ed arti
- Usati ho per averti, o chiara stella;
- Or per piacerti mi convien lasciarti,
- Però ti prego sia di tuo volere
- Ch’io teco prenda un poco di piacere. XXXII.
- E più contento poi mi partirò,
- Poichè pur vuoi ch’io mi parta da te:
- Or dammi la parola, ch’io farò
- Cosa che fia diletto a te e a me:
- E poi doman qui a te tornerò
- A rivederti, perocchè tu se’
- Colei in cui ho messi i miei diletti:
- Deh di’ ch’io prenda gli amorosi effetti.
- XXXIII.
- Oimè, dolente, che vuo’ tu più fare,
- Mensola disse, o che altro diletto
- Puo’ tu di me sventurata pigliare,
- Che t’abbi preso? e però, giovinetto,
- Ti prego ch’oramai ne deggi andare,
- Ed io mi rimarrò com’io t’ho detto:
- Tu vedi che del giorno ormai c’è poco,
- E potremmo esser giunti in questo loco. XXXIV.
- Tu sai ben che ’l diletto ch’io ho avuto,
- Di te infino a qui, chent’egli è stato,
- E quel che tra noi due è addivenuto,
- E con quanto dolor s’è mescolato,
- Che ’n verità poco piacer m’è suto;
- Ma or ch’ognun di noi è consolato,
- Sarà ’l nostro diletto assai maggiore,
- E più compiuto e con maggior dolciore. XXXV.
- Deh non volere, o giovane piacente,
- Che sopra ’l mal c’ho fatto i’ faccia peggio:
- Che se io fossi di ciò consenziente
- Grave pena n’avrei, e chiaro il veggio,
- Se mai Dïana ne saprà niente;
- Però di grazia questo don ti cheggio
- Che ti piaccia partir, come che a me
- Non sia forse minor doglia che a te.
- XXXVI.
- Anima mia, quel male avrai di questo
- Ch’aver tu dei di quello che abbiam fatto,
- Affrico disse, benchè manifesto
- Non fia a Diana mai questo misfatto,
- Nè a persona mai, onde molesto
- Per questo non arai, che tanto piatto
- È suto, e sì nascoso, che veduti,
- Se non da Dio, non possiamo esser suti. XXXVII.
- E certissima sii che s’io ne voe,
- Senza di te aver niun’altra cosa,
- Per gran dolor tosto me ne morroe.
- Deh sii un poco inverso me pietosa:
- E una volta e due la ribacioe,
- Dicendo: or bacia me, o fresca rosa:
- Assicurati meco, e prendi gioia,
- E non voler che per amarti io muoia. XXXVIII.
- Molte lusinghe e molte pregherie,
- Più ch’io non dico ben per ognun cento,
- Affrico fece a Mensola quel die,
- Baciandole la bocca il viso e il mento
- Sì forte, che più volte ella stridie,
- Come che ciò le fosse in piacimento:
- Ancor la gola le baciava e il seno,
- Il qual pareva di viole pieno.
- XXXIX.
- Qual torre fu giammai sì ben fondata
- In su la terra, ch’essendo ella suta
- Da tanti colpi percossa e scalzata,
- Poi non si fusse piegata o caduta?
- O qual fu quella mai sì dispietata,
- Col cor d’acciaio che non fusse arrenduta
- Per le lusinghe d’Affrico e al baciare,
- Che arebbon fatto le montagne andare? XL.
- Mensola che d’acciaio non avea il core,
- S’era gran pezzo scossa e ancor difesa,
- Ma non potendo alle forze d’Amore
- Resister, fu da lui legata e presa;
- Ed avendo ella il suo dolce sapore
- Prima assaggiato con alquanto offesa,
- Pensò portar quel poco del martire
- Mescolato con sì dolce disire. XLI.
- E tant’era la sua simplicitade,
- Che non pensò che altro ne potesse
- Addivenir, come quella che rade
- Fiate, o forse mai nessuna, avesse
- Giammai udito per qual dignitade
- L’uom si creasse, e poi come nascesse:
- Nè sapea che quel tal congiugnimento
- Fosse il seme dell’uomo e il nascimento.
- XLII.
- Ella il baciò, e disse: o amor mio,
- Io non so qual destino o qual fortuna
- Vuol pur ch’io faccia tutto il tuo disio,
- Nè vuol ch’io faccia più difesa alcuna
- Contra di te, e però m’arrend’io,
- Come colei che non ha più nïuna
- Forza a poter contastare ad Amore,
- Che per te m’ha ferita a mezzo il core. XLIII.
- Però farai omai ciò che ti piace,
- Che tu puo’ far di me ciò che tu vuoi,
- Poich’i’ ho perduto ogni mia forza audace
- Contro ad Amore, e contro a’ preghi tuoi:
- Ma ben ti prego, se non ti dispiace,
- Che poi ne vadi il più tosto che puoi,
- Che mi par esser tuttavia trovata
- Da mie compagne, e da loro cacciata. XLIV.
- Senti Affrico allora gran letizia,
- Udendo che di ciò era contenta,
- E donandole baci a gran dovizia,
- A quel che bisognava s’argomenta;
- Più da natura che da lor malizia
- Atati s’alzar su le vestimenta,
- Facendo che lor due parevan uno,
- Tanto natura insegnò a ciascheduno.
- XLV.
- Quivi l’un l’altro baciava e mordeva,
- Stringendo forte, e chi le labbra prende:
- Anima mia, ciascheduno diceva,
- All’acqua, all’acqua, che ’l fuoco s’accende:
- Macinava il mulin quanto poteva,
- E ciascheduno si dilunga e stende:
- Attienti bene: oimè, oimè, oimè,
- Aiutami, ch’io moro in buona fè! XLVI.
- L’acqua ne venne, e il fuoco si fu spento,
- E ’l mulin tace, e ciascun sospirava:
- E come fu di Dio in piacimento
- Mensola allor d’Affrico ingravidava
- D’un fantin maschio di gran valimento,
- Che di virtute ogn’altro egli avanzava
- Al tempo suo, siccome questa storia
- Più innanzi al fine ne farà memoria. XLVII.
- Il giorno quasi tutto se n’era ito,
- E molto poco si vedea del sole,
- Quando ciascuno ha il suo fatto fornito,
- E preso quel piacer che ciascun vuole:
- Affrico poi ch’avea preso partito
- Di doversene andar, forte si duole,
- E Mensola tenendo fra le braccia,
- Dicea baciando l’amorosa faccia:
- XLVIII.
- Maladetta sie tu, o notte scura,
- Tanto invidiosa de’ nostri diletti,
- Perchè mi fai da sì nobil figura
- Partir sì tosto? come ch’io aspetti
- Ancor riaver questa cotal ventura:
- E con cotali e molti altri suo detti
- Quanto poteva il più si dolea forte,
- Parendogli il partir più dur che morte. XLIX.
- Mensola bella tutta vergognosa
- Istava, e parle aver fatto gran fallo,
- Come che non le fosse sì gravosa,
- Come la prima volta in contentallo:
- E che paruta le fosse la cosa
- Molto più dolce senza rissa il gallo;
- Pur di non esser trovata col frodo
- Avea paura, e parlò in questo modo: L.
- Or non so io che ti possa più fare,
- E che di non partirti abbi cagione,
- Però per lo mio amor ti vo’ pregare,
- Dapoi che interamente tua intenzione
- Da me ha’ avuta, te ne deggi andare
- Senza far meco più dimoragione,
- Perchè sicura non mi terrò mai,
- Se non quando tu gito ne sarai.
- LI.
- Come io veggo menare una foglia,
- Le mie compagne mi credo che sieno:
- Però il partir da me non ti sia doglia,
- Che sopra me le colpe tornerieno.
- Come che sia ’l partir contro mia voglia,
- Pur io ’l consento perchè ’l mal sia meno;
- E perchè si fa sera, e noi abbiano
- Andar di qui assai ciascun lontano. LII.
- Ma dimmi prima, giovane, il tuo nome,
- Che accompagnata mi parrà con esso
- Esser, e più leggier mi fien le some
- D’amor, che non sarien sendo senz’esso.
- Affrico disse: anima mia, or come
- Potrò io viver non sendoti presso?
- E ’l nome suo le disse e fece chiaro,
- E mille volte insieme si baciaro. LIII.
- Io non potrei giammai raccontar quante
- Fiate fur per partirsi i due amanti,
- Nè i baci e le parole, che fur tante
- Che non si potrien dire in mille canti,
- Ma puollo ben saper ciascun amante
- Se di questi piaceri ebbe mai tanti,
- E che gran doglia sia e che martire
- Il partirsi da sì dolce disire.
- LIV.
- E’ si baciaron non solo una volta
- Ma più di mille; e poi che dipartiti
- S’erano un poco, indietro davan volta,
- Dandosi baci a’ visi coloriti:
- Anima mia, perchè mi se’ tu tolta,
- Diceva l’uno all’altro, ed infiniti
- Sospir gittando e partir non si sanno,
- Ma or si partono, or tornano, or vanno. LV.
- Ma poi che vidon che più dilungare
- Non si potea il partir, alle gavigne
- Si presono amendue, ed abbracciare
- Si cominciaro, e l’un e l’altro strigne,
- Che furon presso che per iscoppiare,
- Sì forte amor di pari gli costrigne;
- E così stetton gran pezza abbracciati
- Insieme i due amanti innamorati. LVI.
- Pure alla fine l’un l’altro ha lasciato,
- E per partirsi le man si pigliaro,
- E poi ch’alquanto s’ebbon rimirato,
- Il modo di trovarsi lì ordinaro;
- Così l’un prese dall’altro commiato,
- Sendo a ognuno di lor molto discaro:
- Vaiti con Dio, Mensola mia, addio:
- Va’, che Dio mi ti guardi, Affrico mio.
- LVII.
- Affrico se ne giva inverso il piano,
- Mensola al monte su pel colle tira,
- Molto pensosa col suo dardo in mano,
- E del mal fatto forte ne sospira:
- Affrico, ch’era ancor poco lontano
- Da lei, con gli occhi la segue e la mira,
- A ogni passo indietro si voltava
- A rimirar colei che tanto amava. LVIII.
- Mensola ancora spesso si volgeva
- A rimirar colui che a forza amava,
- E che ferita sì forte l’aveva
- Che poco altro che lui desiderava:
- E l’uno all’altro di lontan faceva
- Ispesso cenni ed atti e salutava,
- Infin che non fu lor dal bosco folto
- E dalle coste e ripe il mirar tolto. LIX.
- Affrico si tornò dove nascoso
- Aveva il suo vestir quella mattina,
- E quivi giunto, senz’altro riposo
- Si vestì la gonnella masculina:
- Poi verso casa si tornò gioioso,
- E giunto là, la veste femminina
- Ripose nel suo luogo, che la madre
- Non se ne accorse nè ancora il padre.
- LX.
- E come che assai malinconia
- Avesse avuto il giorno Giraffone
- Ed Alimena, mirando la via
- Se ritornar vedeano il lor garzone,
- Quando da lor tornato si vedia
- Amendue n’ebbon gran consolazione,
- E domandarlo, perchè tanto stato
- Fosse, che a casa non era tornato. LXI.
- Molte bugie e scuse Affrico fece
- Per ricoprir l’occulto suo disire,
- Il qual più che non fa ’l fuoco la pece
- L’ardeva più che mai a più mentire;
- E pareagli aver fatto men ch’un cece,
- E fra sè stesso incominciava a dire:
- Sarà mai domattina, ch’io ritorni
- A baciare il bel viso e gli occhi adorni! LXII.
- Così ogni cosa venia ricordando
- Con seco stesso di ciò ch’avea fatto,
- Molto diletto di questo pigliando,
- Rammentandosi ben di ciascun atto
- Ch’avean insieme fatto: ma poi quando
- Il tempo fu, per dormir n’andò ratto,
- Come che punto dormir non potette,
- Ma tutta notte in tal pensiero stette.
- * * *
- PARTE SESTA
- * * *
- I.
- Torniamo un poco a Mensola, la quale
- Sen gia pensosa e sola su pel monte;
- E parendole aver fatto pur male,
- Forte pentiesi, e con le man la fronte
- Si percotea, dicendo: poi che tale
- Fortuna m’ha percossa con tant’onte,
- Deh morte vieni a me, ch’io te ne priego,
- Che non mi facci d’uccidermi niego. II.
- Così passò del gran monte la cima,
- E poi scendendo giù per quella costa,
- Là dove il sol percuote quando prima
- Si leva, e che ad oriente è contrapposta,
- Secondo che il mio avviso estima,
- Era la sua caverna in quella posta,
- Forse un trar d’arco sopra il fiumicello
- Ch’appiè vi corre con grosso ruscello
- III.
- E giunta alla caverna sua, in quella
- Entrò occupata di molti pensieri;
- E quivi ogni sua doglia rinnovella,
- Dicendo: lassa a me! perchè l’altrieri,
- Quando Affrico mi vide tanto bella
- Con Dïana alla fonte da primieri,
- Non fu’ io morta il giorno maladetto,
- Ch’io mi scontrai in questo giovinetto? IV.
- Non so giammai, tapina, con qual faccia
- Vada innanzi a Dïana, nè che modo
- Io mi debba tener, nè ch’io mi faccia,
- Che di paura mi consumo e rodo;
- E ogni senso dentro mi s’agghiaccia,
- E nella gola mi s’è fatto un nodo
- Per la malinconia e pel dolore
- Ch’io sento, che m’offende dentro al core. V.
- Deh morte vieni a questa sventurata,
- Vieni a questa mondana peccatrice;
- Vieni a colei che ’n malora fu nata,
- Non t’indugiar, che mi fie più felice
- Morire aval, poic’ho contaminata
- La mia verginità; che ’l cor mi dice,
- Che se da te non vorrai molto tosto,
- Di farmi incontro a te ho il cor disposto.
- VI.
- Oimè, compagne mie, voi non pensate
- Ch’io sia uscita fuor di vostra schiera:
- Oimè, compagne mie, che solevate,
- Tenermi tanto cara, quand’io era
- Senza peccato e con virginitate,
- Ora mi caccerete come fiera,
- E come quella ch’al tutto ha corrotta
- Virginità, e vostra legge ha rotta. VII.
- Io posso annoverata essere omai,
- O Calisto, con teco; che com’io
- Già fosti ninfa, e poi con molti guai
- Dïana ti cacciò per ogni rio,
- Perchè t’ingannò Giove, come sai,
- Ed in orsa crudel ti convertìo,
- E givi errando e le cacce temevi,
- Mugghiando quando favellar volevi. VIII.
- O Ciala ninfa a Dïana compagna,
- La qual fosti sforzata da Mugnone,
- Dïana, che di te ancor si lagna,
- T’uccise nelle braccia del garzone:
- Ora se’ fatta fonte, e Mugnon bagna
- Appiè di te le ripe del vallone:
- Io son di vostra schiera al mio dispetto,
- Così sia questo giorno maladetto.
- IX.
- E’ mi par già che Dïana trasmuti
- Le gambe mie in un corrente fiume,
- Ovvero in fiera con dossi velluti;
- E come uccel mi pare aver le piume,
- O alber fatta con rami fronzuti,
- E di persona perduto il costume;
- Nè son più degna dell’arco portare,
- Nè anche come ninfa più cacciare. X.
- O padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
- Quando a Dïana prima mi sagraste,
- E vestistimi le sacre gonnelle,
- Ben mi ricorda che mi comandaste
- Che a Dïana ubbidissi, e tutte quelle
- Che seguon lei, e poi m’accompagnaste
- In questi monti, non perch’io peccassi,
- Ma sempre mai virginità servassi. XI.
- Voi non pensate ch’abbia rotta fede
- Alla sacra Dïana, nè ch’io sia
- In tanta angustia, nè niun di voi vede
- In quanta pena sta la vita mia;
- Che se ’l sapeste, nè pietà nè mercede
- Non avreste di me, ma come ria
- E peccatrice me uccidereste,
- E certamente molto ben fareste.
- XII.
- Sì grande era la doglia e ’l gran lamento
- Che Mensola menava, e l’angoscioso
- E duro pianto con grieve tormento,
- Ch’io nol potrei mai por sì doloroso
- In scrittura, che per ognun cento
- Maggior non fosse il suo parlar pietoso,
- Ch’avrebbe fatto le pietre e gli albori
- Sol per pietà di lei menar dolori. XIII.
- Con cotali lamenti e pianto amaro
- Logorò quella notte; ma apparito
- Che fu il giorno bellissimo e chiaro,
- Perchè la notte non avea dormito,
- Sì gli occhi lagrimosi l’aggravaro,
- Ch’ogni spirito fu da lei partito;
- Addormentossi mentre che piangea,
- Per la gran doglia che patito avea. XIV.
- Affrico, che nell’amoroso foco
- Ardeva più che mai, si fu levato,
- Come vide il mattin, cha molto poco
- La notte avea dormito, e fu inviato
- Sus’alto al monte, e giunto fu nel loco,
- Dove con Mensola il giorno passato
- Avea preso piacer, diletto e gioia,
- Come che alfine gli tornasse in noia.
- XV.
- Quivi credette Mensola trovare,
- Ma non trovando lei, in fra sè disse:
- Egli è ancora assai tosto; e aspettare
- La incominciò, perchè quando venisse
- Quivi il trovasse; e perchè ’l soprastare
- Non gli paresse lungo, sì si misse
- Per far ghirlande ind’oltre a coglier fiori
- Piccoli e grandi e di vari colori. XVI.
- E fatta che n’ebbe una, in su’ capelli
- Biondi di lui si mise, e la seconda
- Cominciò a far d’alquanti fior più belli,
- Mescolando con essi alcuna fronda
- D’odoriferi e gentili arboscelli,
- Dicendo: questa in su la treccia bionda
- Con le mie man di Mensola porroe
- Quando verrà, e poi la bacieroe. XVII.
- Così aspettando invano il giovinetto
- Mensola sua, la quale ancor dormia,
- Cogliendo fiori ind’oltre a suo diletto
- Perchè aspettarla grave non gli sia,
- E riguardando spesso nel boschetto,
- Or qua or là, se Mensola venia,
- Ed ogni busso che ode o che vede
- Foglia menar, che Mensola sia crede,
- XVIII.
- Ma sendo l’ora già più che di terza,
- E non vedendo Mensola venire,
- Aspettò tanto che del sol la sferza
- Era sì calda, che già sofferire
- Non si potea, onde più non ischerza
- Con fiori e con ghirlande, ma sentire
- Cominciò pena, e farsi maraviglia,
- Alzando spesso or qua or là le ciglia. XIX.
- E cominciò, oimè, seco dicendo,
- Che vorrà questo dir, ch’ella non viene?
- E ’n fra sè pensier nuovi va volgendo,
- Scuse trovando spesso alle sue pene,
- E di lei mille casi al core avendo,
- Siccome ad altri spesse volte avviene,
- Che disiando che la cosa venga
- Imagina che assai cose intervenga, XX.
- Passò la nona, e ’l vespro, e già la sera
- Era venuta, e ’l giorno era fuggito
- Che Mensola venuta mai non era,
- Ond’Affrico rimase sbigottito,
- Forte doglioso, e con turbata cera
- Di partirsi di lì prese partito,
- Dicendo: forse ch’ella avrà trovato
- Tra via le sue compagne in qualche lato;
- XXI.
- Le quali l’avran forse ritenuta,
- Però l’aspettar mio sarebbe vano:
- E veggo già la notte esser venuta,
- E i’ ho a ir di qui molto lontano;
- E bench’io abbia oggi la beffa avuta
- Per aspettarla in questo loco strano,
- Io ci ritornerò pur domattina;
- E per girsene scese la collina. XXII.
- Mensola s’era in su la nona desta,
- Tutta dogliosa e forte addolorata,
- Sendole molte cose per la testa
- Gite, ch’ella se n’era spaventata,
- Ma non l’impedì tanto la tempesta,
- Ch’ella avesse però dimenticata
- Ciò che ’l giorno davanti avea promesso
- Ad Affrico, di ritornare ad esso: XXIII.
- Ma tanto s’era di quel ch’avea fatto
- Pentuta, che disposta è non tornare
- Dove avea fatto con Affrico patto
- Di doversi quel dì con lui trovare:
- Ma quanto ella potesse in ciascun atto,
- Volere il fallo suo grande occultare,
- Acciocchè quando Dïana venisse
- Il fallo ch’avea fatto non sentisse.
- XXIV.
- Nè però le potè giammai del core
- Affrico uscire, che continuamente
- Non gli portasse grandissimo amore,
- E che nol disiasse occultamente;
- Ma tanto la stringea forte il timore
- Che aveva di Dïana nella mente,
- Ch’ella non andò mai dove credesse
- Ch’Affrico fosse, o trovar lo potesse. XXV.
- Così passò ’l secondo e ’l terzo giorno,
- E ’l quarto e ’l quinto e ’l sesto, e anco il mese,
- Ch’Affrico mai non vide il viso adorno
- Della sua amante: ma con molte offese
- Vivea, facendo sovente ritorno
- Nel luogo dove Mensola sua prese,
- In qua e in là per lo monte cercando,
- E molte cose di lei immaginando. XXVI.
- Ma nulla venia a dir la sua fatica,
- Che la fortuna già fatta invidiosa
- Di lui, e d’ogni suo piacer nimica,
- Volle por fine misera e dogliosa
- Alla sua vita dolente e mendica,
- Come quella che mai non trova posa,
- Ma sempre va le cose rivolgendo
- Del mondo, nulla mai fermo tenendo.
- XXVII.
- Perchè già sendo un mese e più passato,
- Che non potea mai Mensola vedere,
- Essendogli pel gran dolor mancato
- Sì la natura, e la forza e il potere,
- Che un animal parea già diventato
- Nel viso e nel parlare e nel tacere:
- E il capo biondo, smorto era venuto,
- E senza parlar quasi stava muto. XXVIII.
- Essendo un giorno a guardia del suo armento
- Ind’oltre appiè del monte, come spesso
- Egli era usato, gli venne talento
- Di gire al loco là dove promesso
- Da Mensola gli fu con saramento
- Di ritornare a lui, e fussi messo,
- Lasciando del bestiame il grande stuolo,
- Sol con un dardo in man pel cammin solo. XXIX.
- E pervenuto all’acqua del vallone
- Ove Mensola sua sforzata avea,
- Quivi mirandosi intorno il garzone,
- O Mensola, in fra sè stesso dicea,
- I’ non credetti mai tal tradigione
- Della tua fè, che promesso m’avea
- Di ritornar con saramenti e giuri;
- Or par che poco di me o d’Iddio curi.
- XXX.
- Non ti ricorda quando colle mani
- Insieme in questo loco ci pigliammo,
- E con tuoi saramenti falsi e vani
- Dicesti di tornar; poi ci baciammo
- Insieme gli occhi, che stanno or lontani,
- Ed in quel luogo poi ci partivammo?
- Non ti ricorda quanti testimoni
- Aggiugnesti alle tue promessïoni? XXXI.
- Io non potrei mai dir quanti lamenti
- Affrico fece il dì quivi piangendo:
- E per crescer maggiori i suoi tormenti,
- Giva ogni cosa quivi rivolgendo,
- Del suo amore tutti gli accidenti
- Buoni e cattivi; e per questo crescendo
- La doglia sua ognor molto maggiore,
- Diliberò d’uscir di tal dolore. XXXII.
- E sopra l’acqua del fossato gito,
- L’aguto dardo si recava in mano,
- E al petto si ponea ’l ferro pulito,
- E in terra l’asta, dicendo: o villano
- Amor, che m’ha’ condotto a tal partito,
- Ch’io mora in questo modo tanto strano;
- E pure innanzi ch’io voglia più stare
- In cotal vita, mi vo’ disperare.
- XXXIII.
- O padre, o madre, fatevi con Dio,
- Io me ne vo nell’inferno angoscioso,
- E tu fiume ritieni il nome mio,
- E manifesterai il doloroso
- Caso ch’è occorso, sì crudele e rio:
- Ed a chi ti vedrà sì sanguinoso
- Correre, o lasso, del mio sangue tinto,
- Paleserai dov’amor m’ha sospinto. XXXIV.
- E detto questo, Mensola chiamando,
- Il ferro tutto nel petto si mise,
- Il quale al cor tostamente passando
- Del giovanetto, con doglia l’uccise:
- Perchè morto nell’acqua allor cascando,
- L’anima da quel corpo si divise;
- E l’acqua che correa per la gran fossa
- Del sangue tinta venne tutta rossa. XXXV.
- Facea quel fiume, siccome fa ancora,
- Di sè due parti, alquanto giù più basso,
- E quella parte che fa minor gora,
- Presso alla casa del giovane lasso,
- Correva sanguinosa, essendo allora
- Giraffon fuori, e vide il fiume grasso
- Di sangue, perchè subito nel core
- Gli venne annunzio di futur dolore.
- XXXVI.
- Perchè senza dir nulla, di presente
- N’andò dove e’ sentì ch’era il suo armento:
- E non trovando Affrico, immantinente
- Su per lo fiume non con passo lento
- Tenne per trovar dove primamente
- Di quel sangue venia ’l cominciamento,
- E di chi fosse, e chi n’era cagione,
- E giunse al loco ov’Affrico trovone. XXXVII.
- Quando vide il figliuol morto giacere,
- Col dardo fitto nel giovinil petto,
- Appena in piè si potè sostenere,
- Sì fu da dolor subito costretto;
- E per l’un braccio con gran dispiacere
- Il prese, e disse: oimè, qual maladetto
- Braccio fu quel che ti diè tal fedita,
- O figliuol mio, che t’ha tolta la vita? XXXVIII.
- Egli il trasse dell’acqua, e in sulla riva
- Il pose lagrimando il padre vecchio,
- E con dolor quel giorno maladiva,
- Dicendo: o figlio del tuo padre specchio,
- Or che farà la tua madre cattiva,
- Che non avrà giammai un tuo parecchio?
- Che farem noi tapini e pien di duoli,
- Poichè rimasi siamo di te soli?
- XXXIX.
- E ’l fitto dardo gli cavò del core,
- E il ferro rimirava con tristizia,
- Poi diceva con pianto e con dolore:
- Chi tel lanciò con sì crudel nequizia
- Nel petto, figliuol mio, con tal furore?
- Ch’io n’ho perduto ogni bene e letizia:
- Credo che fu Dïana dispietata,
- Che non fia ancor del mio sangue saziata. XL.
- Ma poi ch’egli ha quel dardo rimirato
- Più e più volte, conobbe ch’egli era
- Quel che ’l suo figlio sempre avea portato,
- Perchè con trista e lagrimosa cera
- Disse: o tapin figliuolo sventurato,
- Qual fu quella cagion cotanto fiera
- Che ti condusse qui a sì ria sorte,
- E chi ti diè col dardo tuo la morte? XLI.
- Poi dopo molto ed infinito pianto
- Giraffone il figliuol si gittò in collo,
- E con quel dardo doloroso tanto
- Alla casetta sua così portollo:
- E alla madre il fatto tutto quanto,
- Piangendo tuttavia, raccontollo,
- E ’l dardo le mostrava, e sì diceva
- Come del petto tratto gliel’aveva.
- XLII.
- Se la madre fe’ quivi gran lamento
- Non ne domandi persona nessuna,
- Che dir non si potrebbe a compimento
- Le grida e il pianto per cosa veruna:
- E quanta doglia sentì con tormento,
- Bestemmiando gl’Iddei e la fortuna,
- E il viso stretto con quel del figliuolo
- Tenea piangendo e menando gran duolo. XLIII.
- Pure alla fine, siccom’era usanza
- A quel tempo di far de’ corpi morti,
- Così allor, dopo gran lamentanza,
- E urli e pianti durissimi e forti,
- Arson quel corpo, con grande abbondanza
- Di lagrime e dolor senza conforti,
- Come color ch’altro ben non aveno,
- E quel si veggon or venuto meno. XLIV.
- E poi ricolson la polver dell’ossa
- Del lor figliuolo, e al fiume se n’andaro,
- Là dove l’acqua ancor correva rossa
- Del proprio sangue del lor figliuol caro,
- E in su la riva feciono una fossa,
- E dentro in quella poi vel sotterraro,
- Acciocchè ’l nome suo non si spegnesse,
- Ma sempre mai il fiume il ritenesse.
- XLV.
- Da poi in qua quel fiume dalla gente
- Affrico fu chiamato, e ancor si chiama:
- Quivi rimase sol tristo e dolente
- Il padre, e la sua madre molto grama:
- Tal fu la fine d’Affrico piacente,
- E così al fiume rimase la fama.
- Or lasciam qui, e ritorniamo omai
- A Mensola la quale io vi lasciai. XLVI.
- Mensola in questo mezzo assai dolente
- Era vivuta e con malinconia,
- Ma pur veggendo che levar niente
- Di ciò che fatto avea non si potia,
- De’ casi avversi venne pazïente,
- E cominciò alla sua compagnia
- Alcuna volta pure a ritrovarsi,
- E contro alla sua voglia a rallegrarsi. XLVII.
- E più fïate si trovò con quelle
- Ninfe che ’l giorno con lei eran sute
- Che Affrico la prese, e le novelle
- Per tutte l’altre già eran sapute,
- Non dico del peccato, ma com’elle
- Dal giovane pigliar furon volute,
- E Mensola con sue scuse e bugie
- Fe’ credere che ella si fuggie.
- XLVIII.
- Così più ogni giorno assicurata
- Mensola s’era, da poi ch’ella vede
- Che dalle sue compagne era onorata
- Siccome mai, e ciascuna si crede
- Che com’elle non sia contaminata,
- Ed alle sue bugie si dava fede,
- E perchè ancora a Dïana credea
- Il peccato celar che fatto avea. XLIX.
- Non però amor l’avea tratto del petto
- Affrico, e ch’ella non si ricordasse
- Del nome suo, e del preso diletto,
- E che tacitamente nol chiamasse,
- Quando avea tempo, e ch’alcun sospiretto
- Assai sovente per lui non gittasse,
- Siccome innamorata, e paurosa
- Tenea la fiamma dentro al cor nascosa. L.
- E come far solea, già cominciava
- Colle compagne sue, col dardo in mano,
- A gir cacciando; e quand’ella arrivava
- Dove Affrico la prese, di lontano
- Quel luogo rimirando sospirava,
- Dicendo in fra sè stessa molto piano:
- Affrico mio, quanto di gioia avesti
- Già in quel loco quando mi prendesti!
- LI.
- Or non so io che di te più si sia,
- Ma credo ben che stai in gran tormento
- Per me: ma non è già la colpa mia,
- Paura è che mi toglie ogni ardimento:
- Così dicendo volentier vorria
- Affrico suo aver fatto contento,
- Ove credesse che giammai saputo
- Da Dïana o da ninfe fosse suto. LII.
- Vivendo adunque Mensola in tal vita,
- Innamorata e suggella a temenza,
- Alquanto nel bel viso impalidita
- Era venuta per quella semenza
- Che nel suo ventre già era fiorita;
- Passò tre mesi senza aver credenza
- Di partorir giammai, o far figliuolo,
- Com’ella fece poscia con gran duolo. LIII.
- Ma facendo suo corso la natura,
- In capo di tre mesi incomincioe
- A manifesta far la creatura
- Che dentro al venire suo s’ingeneroe,
- Per la qual cosa a sè ponendo cura,
- Mensola forte si maraviglioe,
- Vedendosi ingrossare il corpo e’ fianchi,
- E di gravezza pieni e fatti stanchi.
- LIV.
- Di questo si facea gran maraviglia
- Mensola la cagion non conoscendo,
- Come colei che mai figlio nè figlia
- Non avea avuto; ma fra sè dicendo:
- Saria questo difetto, che mi piglia
- Sì la persona, e ch’ognor va crescendo:
- E ogni giorno vengo più pesante,
- E fatta tutta svogliata e cascante? LV.
- Una ninfa abitava in quella piaggia;
- Un mezzo miglio a Mensola vicina,
- A una spelonca profonda e selvaggia,
- Ch’era maestra d’ogni medicina;
- Sopra dell’altre ell’era la più saggia,
- E ben sapea di ciascuna dottrina,
- E di cento anni o più ell’era vecchia,
- Chiamata era la ninfa Sinedecchia. LVI.
- Mensola puramente n’andò a questa,
- E disse: o madre nostra, il tuo consiglio
- M’è di bisogno; e poi le manifesta
- Il caso suo e ciascun suo periglio:
- Sinedecchia con la crollante testa
- Rispose tosto con turbato ciglio:
- Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
- E non puoi tener più questo celato.
- LVII.
- Mensola nel bel viso venne rossa,
- Udendo ta’ parole, per vergogna,
- E non veggendo che negar lo possa,
- Con gli occhi bassi timida trasogna,
- Volendosi mostrar di questo grossa;
- Ma poi veggendo che non le bisogna
- Celarlo a lei, che tutto il conoscea,
- Senza guatarla, o risponder, piangea. LVIII.
- Sinedecchia veggendo il suo lamento,
- E la vergogna e la sua puritade,
- Avvisò che di suo consentimento
- Non fosse questo, nè sua volontade,
- Ma fosse stato con isforzamento,
- Perchè alquanto ne le venne pietade,
- E per volerla un poco confortare,
- In questo modo incominciò a parlare. LIX.
- Figliuola mia, questo peccato è tale,
- Che nol potrai celarlo lungamente;
- E come ch’abbi fatto pur gran male,
- Non vo’ però che tanto fieramente
- Tu ti sconforti, ch’omai poco vale
- Se tu te n’uccidessi veramente;
- Ma vegnamo a’ rimedi, e dimmi come
- E chi ti tolse di castità il pome.
- LX.
- Niente a questo Mensola risponde,
- Ma per vergogna il capo in grembo pose
- A Sinedecchia, e ’l bel viso nasconde
- Udendo rammentarsi cota’ cose,
- E gli occhi suoi parean fatte due gronde
- Che fosson d’acqua molto doviziose,
- Tanto forte plangea dirottamente,
- Senza parlare o risponder niente. LXI.
- Ma Sinedecchia pur le disse tanto
- Con sue parole, ch’ella confessoe
- Con voce rotta e con singhiozzo e pianto,
- Sì come un giovanetto l’ingannoe,
- E in che modo il fatto tutto quanto,
- E come ultimamente la sforzoe,
- E poi a pianger cominciò più forte
- Per la vergogna, chiamando la morte. LXII.
- La vecchia ninfa, quando questo intese,
- Come per sottil modo fu ingannata,
- E quanti lacci quel giovane tese,
- Pietà le venne della sventurata:
- Poi con parole alquanto la riprese
- Del fallo suo, perchè un’altra fïata
- Sotto cotal fidanza non peccasse,
- E perchè più ingannar non si lasciasse.
- LXIII.
- Poi tanto seppe dirle e confortarla
- Ch’ella la fe’ di piangere restare,
- Promettendole sempre d’aiutarla,
- Come figliuola, in ciò che potrà fare.
- Poi d’ogni cosa volendo avvisarla,
- In questo modo cominciò a parlare:
- Figliuola mia, quel ch’io ti dico intendi,
- E fa’ che bene ogni cosa comprendi. LXIV.
- Quando compiuti i nove mesi avrai,
- Dal giorno che peccasti incominciando,
- Una creatura tu partorirai;
- Allor la Dea Lucina tu chiamando,
- Il suo aiuto le dimanderai,
- Ella pietosa tel darà; e po’ quando
- Nata sarà, quel che fia vederemo,
- E a ogni cosa ben provvederemo. LXV.
- E tu di questo non ti dar pensiero,
- Lascialo a me, ch’i’ ho ben già pensato
- Dentro dal cor ciò che farà mestiero,
- E ciò che far dovrò quando fia nato.
- Ma fa’ che fuori di questo sentiero
- Non vadi in questo mezzo, che ’l peccato
- Non sia palese a quelle che nol sanno,
- Che tornar ti potrebbe in troppo danno.
- LXVI.
- Ma sola ti starai nella caverna,
- E’ panni porta larghi quanto puoi,
- Senza cintura, che non si discerna
- Il corpo grande pe’ peccati tuoi:
- E quivi pianamente ti governa,
- Dandoti pace, siccome far suoi;
- E spesso vieni a me, ch’io ti diroe
- Ciò che far tu dovrai intorno a cioe. LXVII.
- Queste parole dieron gran conforto
- Alla fanciulla, e disse: madre mia,
- Poi che condotta sono a questo porto,
- Pel mio peccato e per la mia follia,
- E ben conosco molto chiaro e scorto
- Che ’l vostro aiuto molto buon mi fia,
- A voi mi raccomando e al vostro aiuto,
- Poich’ogn’altro consiglio i’ ho perduto. LXVIII.
- Or te ne va’, Sinedecchia rispose,
- Ch’i’ t’atterrò ben ciò ch’i’ t’ho promesso,
- E non ti dar pensier di queste cose;
- Tien pur celato il peccato commesso.
- Mensola con le guance lagrimose
- Disse: io ’l farò, e pel cammin più presso
- Si mise, e ritornò alla sua stanza,
- Alquanto confortata di speranza.
- LXIX.
- Quivi si stava pensosa e dolente
- Senza gir mai come soleva attorno,
- E per compagno tenea nella mente
- Affrico sempre col suo viso adorno;
- E perchè sempre continuamente
- Il corpo le crescea di giorno in giorno,
- Senza cintura i suoi panni portava,
- E assai sovente a Sinedecchia andava. LXX.
- E cominciolle a crescer più nel core,
- Per la creatura ancor non partorita,
- Contro ad Affrico un sì fervente amore,
- Che volentier ne vorrebbe esser gita
- Con esso lui a starsi a tutte l’ore
- Il giorno ch’ella si tenne tradita;
- E ’l dì se ne pentiva mille fiate,
- Chiamando lui con lagrime versate. LXXI.
- Questo pensier la fe’ più volte andare
- Al luogo ov’ella fu contaminata,
- Sol per saper se Affrico può trovare,
- Per esserne con lui a casa andata;
- Ma non si seppe mai tanto arrischiare
- Per la vergogna d’andar sola nata
- A casa sua; e pur presso v’andoe
- Alcuna volta, e poi indietro tornoe.
- LXXII.
- Ma invan cercava, perchè non sapea
- Ched e’ si fosse per lei disperato.
- E già il suo corpo sì cresciuto avea,
- E ’l peso del fantin tanto aggravato,
- Ch’andare attorno omai più non potea;
- Perchè senza cercar più nessun lato
- Si stava alla caverna, ed aspettava
- Del parto il tempo, ch’omai s’appressava. LXXIII.
- E tanta grazia le fe’ la fortuna,
- Che ’n questo mezzo non si accorse mai
- Ch’ell’avesse peccato ninfa alcuna,
- E già trovate pur n’aveva assai,
- Come che maraviglia ciascheduna
- Di lei si desse ne’ tempi sezzai,
- Veggendola sì magra nella faccia,
- E non andar come solea alla caccia.
- * * *
- PARTE SETTIMA
- * * *
- I.
- Dïana a Fiesole in quel tempo venne,
- Come usata era sovente di fare:
- Grande allegrezza pe’ monti si tenne,
- Sentendo di Dïana il ritornare,
- E ciascheduna ninfa festa fenne,
- E cominciarsi tutte a ragunare,
- Come usate eran con lei molto spesso,
- Tutte le ninfe da lungi e da presso. II.
- Mensola sentì ben la sua venuta,
- Ma comparir non volle innanzi a lei
- Per non esser da lei mal ricevuta,
- Dicendo: s’io v’andassi, io non potrei
- Tener celata la cosa ch’è suta,
- E grande strazio di me far vedrei:
- E fu da Sinedecchia consigliata
- Di non v’andar, ma stessesi celata.
- III.
- Avvenne adunque in questi giorni un die,
- Ch’alla caverna sua Mensola stando,
- Per tutto il corpo doglie si sentie,
- Perchè la Dea del parto allor chiamando,
- Un fantin maschio quivi partorie,
- Il qual Lucina di terra levando
- Gliel mise in collo, e disse: questi fia
- Ancor gran fatto, e poi quindi sparia. IV.
- Come che doglia grande e smisurata
- Mensola avea sentita, come quella
- Ch’a tal partito mai non era stata,
- Veggendo aversi fatta una sì bella
- Creatura, la pena fu alleggiata,
- E subito gli fece una gonnella
- Com’ella seppe il meglio, e poi lattollo,
- E mille volte quel giorno baciollo. V.
- Il fantin era sì vezzoso e bello,
- E tanto bianco, ch’era maraviglia:
- Il capo com’or biondo e ricciutello,
- E in ogni cosa il padre suo simiglia
- Sì propriamente, che pare a vedello
- Affrico ne’ suoi occhi e nelle ciglia,
- E tutta l’altra faccia sì verace,
- Che a Mensola per questo più le piace.
- VI.
- E tanto amore già posto gli avea,
- Che di mirarlo non si può saziare:
- A Sinedecchia portar nol volea
- Per non volerlo da sè dilungare,
- Parendo a lei, mentre che ’l vedea,
- Affrico veder proprio, ed a scherzare
- Cominciava con lui e a fargli festa,
- E con le man gli lisciava la testa. VII.
- Dïana avea più volte domandato
- Quel che di Mensola era le compagne:
- Fulle risposto, da chi l’era allato,
- Che è gran pezzo che ’n quelle montagne
- Veduta non l’aveva in nessun lato.
- Altre dicean, che per certe magagne,
- E per difetto ch’ella si sentia,
- Davanti a lei con l’altre non venia. VIII.
- Perchè un dì, di vederla pur disposta,
- Perchè l’amava molto e tenea cara,
- Con tre ninfe sen gì a quella costa
- Dove la sventurata si ripara,
- E giunte alla caverna senza sosta,
- Dinanzi all’altre Dïana si para,
- Credendola trovar, ma non trovolla,
- Perchè a chiamar ciascuna incominciolla.
- IX.
- Ell’era andata col suo bel fantino
- Inverso il fiume giù molto lontana,
- E ’l bel fanciul trastullava al caldino,
- Quando sentì la voce prossimana
- Chiamar sì forte con chiaro latino:
- Allor mirando in su vide Dïana
- Con le compagne sue che giù venieno,
- Ma lei ancor veduta non avieno. X.
- Sì forte sbigottì Mensola quando
- Vide Dïana, che nulla rispose,
- Ma per paura tuttavia tremando
- In un cespuglio tra’ pruni nascose
- Il bel fantino, e lui solo lasciando,
- Di fuggir quivi l’animo dispose,
- E ’nverso il fiume ne gì quatta quatta,
- Tra quercia e quercia, fuggendo via ratta. XI.
- Ma non potè si coperto fuggire,
- Che Dïana fuggendo pur la vide;
- E poi cominciò quel fanciullo a udire,
- Il qual’alto piangea con forte stride.
- Dïana cominciò allora a dire
- Inverso lei con grandissime gride:
- Mensola, non fuggir, che non potrai,
- Se io vorrò, nè il fiume passerai.
- XII.
- Tu non potrai fuggir le mie saette,
- Se l’arco tiro, o sciocca peccatrice.
- Mensola già per questo non riflette,
- Ma fugge quanto può alla pendice:
- E giunta al fiume dentro vi si mette
- Per valicarlo: ma Dïana dice
- Certe parole, ed al fiume le manda,
- E che ritenga Mensola comanda. XIII.
- La sventurata era già in mezzo l’acque,
- Quando i piè venir meno si sentia:
- E quivi, siccome a Dïana piacque,
- Mensola in acqua allor si convertia:
- E sempre poi a quel fiume si giacque
- Il nome suo, che ancor tuttavia
- Per lei quel fiume Mensola è chiamato:
- Or v’ho del suo principio raccontato. XIV.
- Le ninfe ch’eran con Dïana veggendo
- Come Mensola era acqua diventata,
- E giù per lo gran fiume va correndo,
- Perchè molto l’aveano in prima amata,
- Per pietà tutte dicevan piangendo:
- O misera compagna sventurata!
- Qual peccato fu quel che t’ha condotta
- A correr sì com’acqua a fiotta a fiotta?
- XV.
- Dïana disse lor che non piangessono,
- Che quel martir molto ben meritava:
- E perchè ’l suo peccato elle vedessono,
- Dove il fanciul piangeva le menava.
- Poi disse loro ch’elle lo prendessono,
- Traendol di que’ pruni ov’egli stava:
- Allor le ninfe sel recaro in braccio,
- E ’l trasson del cespuglio molto avaccio. XVI.
- Molta festa le ninfe gli facieno
- Vedendol tanto piacevole e bello,
- E raccettarlo volentier vorrieno
- Con esso loro, e in que’ monti tenello:
- Ma a Dïana dirlo non volieno,
- La qual comandò lor che tosto quello
- Fantin portato a Sinedecchia sia,
- E con loro ella ancor si mise in via. XVII.
- Giunta Dïana a Sinedecchia, disse:
- Com’ella aveva quel fantin trovato
- In un cespuglio, ove Mensola il misse,
- Per celato tenere il suo peccato:
- Ma ella dopo questo poco visse,
- Che fuggendo ella, e volendo il fossato
- Di là passare, il fiume la ritenne,
- E com’io volli allora acqua divenne.
- XVIII.
- Mentre Dïana dicea ta’ parole,
- La vecchia ninfa per pietà piangea,
- Tanto il caso di Mensola le duole,
- E quel fantino in braccio ella prendea,
- Ed a Dïana disse: o chiaro sole
- Di tutte noi, altro ch’io non sapea
- Questo peccato, che a me sola il disse,
- E tutta nelle mie man si rimisse. XIX.
- Poi ogni cosa a Diana ebbe detto,
- Come Mensola stata era sforzata,
- E ’l come e ’l dove da un giovinetto,
- E in che modo da lui fu ingannata:
- E disse poi: o Dea, io ti prometto
- Sopra la fè ch’io t’ho sempre portata,
- Che, s’io non era, morta si sarebbe,
- Ma io non la lasciai, sì me n’increbbe. XX.
- Da poi che tu l’hai fatta diventare
- Acqua, ti prego ch’almen tu mi doni
- Questo fanciullo, ch’io ’l vorrò portare
- Di qui lontano assai ’n certi valloni,
- Ov’io ricordo anticamente stare
- Uomini con lor donne a lor magioni:
- A loro il donerò, che car l’avranno,
- E me’ di noi allevare il sapranno.
- XXI.
- Quando Dïana ta’ parole intende,
- Come Mensola stata era tradita,
- Alquanto del suo mal pietà le prende
- Perchè l’amava assai quand’era in vita:
- Ma perchè l’altre da cotai faccende
- Si guardasson, mostrossi incrudelita,
- E disse a Sinedecchia, che facesse
- Di quel fantin quel che me’ le paresse. XXII.
- Poi si parti colla sua compagnia,
- E a Sinedecchia quel fanciul lascioe,
- La qual, poscia che vide andata via
- Dïana, tostamente s’invioe
- Con esso in collo, e ’n quelle parti gìa
- Ove Mensola bella l’acquistoe,
- Che ben sapea per tutto ogni riviera,
- Tanto tempo in que’ monti usata v’era. XXIII.
- E già aveva da Mensola udito
- Come avea nome quel che la sforzone,
- E più da lei ancora avea sentito,
- Quando partissi, in qual parte n’andone;
- Perchè considerato ogni partito,
- Estimò troppo ben che quel garzone
- In quella valle stesse, ove sedeva
- Una casetta che fumo faceva.
- XXIV.
- Laggiù n’andò, non con poca fatica,
- E per ventura trovò Alimena,
- Alla qual disse: o carissima amica,
- Grande è quella cagion che a te mi mena,
- Ed è pur di bisogno ch’io tel dica:
- Però ti prego che non ti sia pena
- D’ascoltare una gran disavventura,
- E come è nata questa creatura. XXV.
- Poi ogni cosa le venne narrando,
- Com’un giovine ch’Affrico avea nome
- Sforzò una ninfa, il dove, e ’l come e ’l quando
- A parte a parte disse, e poscia come
- Ell’era ita gran pezzo tapinando,
- Poi partorì quel bello e fresco pome;
- E poi come Dïana trasmutoe
- La ninfa in acqua, e dove la lascioe. XXVI.
- E come quel fantino avea trovato
- Dïana tra molti pruni, e come a lei
- Con altre ninfe poi l’avea donato:
- Ma mentre che cotai cose costei
- Raccontava, Alimena ebbe mirato
- Nel viso a quel fantino, e disse, omei!
- Questo fanciul propriamente somiglia
- Affrico mio, e poi in braccio il piglia.
- XXVII.
- E lacrimando per grande allegrezza,
- Mirando quel fantin, le par vedere
- Affrico proprio in ogni sua fattezza,
- E veramente gliel pare riavere;
- E lui baciando con gran tenerezza,
- Diceva: figliuol mio, gran dispiacere
- Mi fia a contare il grandissimo duolo,
- La morte del tuo padre e mio figliuolo. XXVIII.
- Poi cominciò alla vecchia ninfa a dire
- Del suo figliuol per ordine ogni cosa,
- E come stette gran tempo in martire,
- E della morte sua tanto angosciosa:
- E stando questo Sinedecchia a udire
- Venne del caso d’Affrico pietosa,
- E con lei insieme di questo piangea,
- E Giraffon quivi tra lor giungea. XXIX.
- Quand’egli intese il fatto, similmente
- Per letizia piangeva e per dolore,
- E mirando il fanciul, veracemente
- Affrico suo gli pare, onde maggiore
- Allegrezza non ebbe in suo vivente;
- Poi facendogli festa con amore,
- E quel fantin quando Giraffon vide
- Da naturale amor mosso gli ride.
- XXX.
- Sì grande fu l’allegrezza e la festa
- Che fer costor, che in buona veritade,
- Che se non fusse che pur lor molesta
- Il core de’ due amanti la pietade,
- Nessuna ne fu mai simile a questa.
- Ma poi che Sinedecchia l’amistade
- Con loro ebbe acquistata, sen vuol gire
- Alla montagna, e da lor dipartire. XXXI.
- Giraffon mille grazie le ha renduto,
- E Alimena similmente ancora,
- Del buon servigio da lei ricevuto,
- E molto quivi ciaschedun l’onora.
- Ma poi che Sinedecchia ebbe il saluto
- Renduto lor, senza far più dimora
- Alla spelonca sua si ritornava,
- E il fantino a costor quivi lasciava. XXXII.
- La novella fu subito saputa
- Per tutti i monti, ed a ciascun palese
- Come Mensola era acqua divenuta,
- E a molte ninfe gran pietà ne prese:
- Ma dopo alquanto Dïana si muta
- Da questi luoghi, e in altro paese
- N’andò com’era usata, e primamente
- Ammonì le sue ninfe parimente.
- XXXIII.
- Rimase adunque le ninfe in tal mena,
- Sempre quel fiume Mensola chiamaro.
- Torniamo a Giraffone ed Alimena,
- Che quel fantin con il latte allevaro
- Del lor bestiame, non con poca pena,
- E per nome Pruneo e’ lo chiamaro,
- Perchè tra’ pruni pianger fu trovato,
- E così sempre fu dipoi chiamato. XXXIV.
- E crescendo Pruneo, venne sì bello
- Della persona, che se la natura
- L’avesse fatto in pruova col pennello,
- Non potea dargli sì bella figura:
- E’ venne destro più ch’un lioncello,
- Arditissimo e forte oltra misura,
- E tanto proprio il padre era venuto,
- Che da lui non sariesi conosciuto. XXXV.
- Gran guardia ne faceva Giraffone
- Ed Alimena ancor la notte e ’l die,
- E più volte gli disson la cagione
- Siccome Affrico suo padre morie,
- Perchè paura n’avesse il garzone,
- Di mai volere andar per quelle vie,
- E della madre sua i grievi danni;
- E così stando, venne a’ diciott’anni.
- XXXVI.
- Passò allora Atalante in questa parte
- D’Europa con infinita gente,
- E per Toscana ultimamente sparte,
- Come scritto si trova apertamente,
- Apollin vide, facendo su’ arte,
- Che ’l poggio Fiesolan veracemente
- Era ’l me’ posto poggio e lo più sano
- Di tutta Europa di monte e di piano. XXXVII.
- Atalante vi fece edificare
- Una città, che Fiesole chiamossi:
- Le genti cominciarono a pigliare
- Di quelle ninfe che lassù trovossi,
- E qual potè dalle lor man campare,
- Da tutti questi poggi dileguossi;
- E così fur le ninfe allor cacciate,
- E quelle che fur prese, maritate. XXXVIII.
- Tutti gli abitator di quel paese
- Atalante gli volle alla cittade.
- Giraffon, quando questo fatto intese,
- Tosto n’andò con buona volontade,
- E menò seco il piacente e ’l cortese
- Pruneo, adorno d’ogni dignitade,
- Ed Alimena, e comparì davante
- Con riverenza al signore Atalante.
- XXXIX.
- Quando Atalante vide il vecchio antico,
- Graziosissimamente il ricevette,
- E presel per la man sì come amico,
- E ta’ parole inverso lui ha dette:
- O vecchio savio, intendi quel ch’io dico,
- Che la mia fede ti giura e promette,
- Che se tu in questa terra abiterai,
- De’ miei maggiori consiglier sarai: XL.
- E meco abiterai nella mia rocca
- Insiememente con questo tuo figlio.
- Giraffon ta’ parole inver lui scocca:
- O Atalante, sempre il mio consiglio
- Fia apparecchiato a quel che la tua bocca
- Comanderà: ma io mi maraviglio,
- Ch’avendo teco uomin tanto savi,
- Più ch’io non sono, a far questo mi gravi. XLI.
- Tu di’ vero ch’i’ ho meco savia gente,
- Atalante rispose: ma perch’io
- Veggio ch’esser tu dei anticamente
- Stato in questo paese, al parer mio,
- E saper debbi tutto il convenente
- Di questi luoghi, quale è buono o rio,
- In molte cose mi potra’ esser buono
- In questi luoghi ov’arrivato io sono.
- XLII.
- Giraffon disse, lagrimando quasi:
- Oimè, Atalante, che tu parli il vero,
- Ch’io sono antico, e’ miei gravosi casi
- Manifestano il fatto tutto intero;
- E’ non è molto tempo ch’io rimasi
- Sol con la donna mia ’n questo sentiero,
- Se non che poi costui mi fu recato,
- Ch’è figliuol d’un mio figlio sventurato. XLIII.
- Poi gli contava il fatto com’era ito
- D’Affrico suo e Mensola sua amante:
- E poscia di Mugnon, che fu fedito
- E morto da Dïana, e tutte quante
- Le sue sventure disse, e poi col dito
- Gli dimostrava didietro e davante
- I fiumi, e i loro nomi gli dicea,
- E la cagion perchè sì nome avea. XLIV.
- E poi ad Atalante si voltoe,
- Dicendo: io vuo’ fare ogni tuo comando:
- Atalante di questo il ringrazioe:
- E poi inverso Pruneo rimirando,
- E piacendogli molto, lo chiamoe,
- E poscia inverso lui così parlando
- Disse: io vuo’ che tu sia mio servidore
- Alla tavola mia, per lo mio amore.
- XLV.
- Così Atalante fece Giraffone
- Suo consigliere, e ’l giovane Pruneo
- Dinanzi a lui serviva per ragione,
- E tanto bene a far questo imprendeo
- Ch’era a vederlo grande ammirazione;
- E oltre a questo la natura il feo
- Ardito e forte tanto, che non trova
- Nessun che ’l vinca a fare alcuna prova. XLVI.
- E d’ogni caccia maestro divenne,
- Tanto che fiera non potea campare
- Dinanzi a lui, tant’ottimo e solenne
- Corridore era, e destro nel saltare,
- E sì ben l’arco nelle sue man tenne,
- Che vinto avria Dïana a saettare:
- Costumato e piacevole era tanto,
- Ch’io non potre’ giammai raccontar quanto. XLVII.
- Atalante gli pose tanto amore,
- Veggendo ch’era sì savio e valente,
- Che siniscalco il fe’ con grande onore
- Sopra la terra e sopra la sua gente,
- E di tutto il paese guidatore;
- Ed e’ ’l guidava si piacevolmente,
- Ch’era da tutti amato e ben voluto,
- Tanto dava ad ognuno il suo dovuto.
- XLVIII.
- E già venticinque anni e più avea,
- Quando Atalante gli diè per mogliera
- Una fanciulla, la qual Tironea
- Era il suo nome, e figliuola sì era
- D’un gran baron che con seco tenea:
- E diégli ancor tutta quella rivera
- Ch’in mezzo è tra Mensola e Mugnone,
- E questa fu la dota del garzone. XLIX.
- Pruneo fe’ far dalla chiesa a Maiano,
- Un po’ di sopra, un nobil casamento,
- Dond’egli vedea tutto quanto il piano,
- Ed afforzollo d’ogni guernimento;
- E quel paese, ch’era molto strano,
- Tosto dimesticò, sì com’io sento,
- E questo fece sol pel grande amore
- Ch’al paese portava di buon core. L.
- Ivi gran parte del tempo abitava,
- Dandosi sempre diletto e piacere:
- Diceasi che sovente a’ fiumi andava
- Della sua madre e del padre a vedere,
- E che co’ loro spiriti parlava,
- Dell’acque uscendo voci chiare e vere,
- E piene di sospiri e di pietate,
- Le cose rammentandogli passate.
- LI.
- Giraffon ristorato de’ suoi danni
- Gran tempo visse; ma poi che sua vita
- Ebbe finita e’ suoi lunghissimi anni,
- Di questo mondo facendo partita,
- Alimena lasciò con molti affanni:
- La qual, poichè l’età sua fu finita,
- Con Giraffon fu messa in un avello
- Nella città, qual’era molto bello. LII.
- Pruneo rimase in grandissimo stato
- Colla sua Tironea, della qual’ebbe
- Dieci figliuoli, ognun pro’ e costumato,
- Tanto che maraviglia ciascun n’ebbe:
- E poi ch’egli ebbe a ciascun moglie dato,
- In molte genti questa schiatta crebbe,
- E sempre a Fiesol furon cittadini
- Grandi e possenti sopra i lor vicini. LIII.
- Morto Pruneo, con grandissimo duolo
- Di tutta la città fu seppellito:
- Così rimase a ciascun suo figliuolo
- Tutto il paese libero e spedito,
- Che Atalante donato avea a lui solo,
- E bene l’ebbon tra lor dipartito;
- E sempre poi la schiatta di costoro
- Signoreggiaron questo tenitoro.
- LIV.
- Ma poi che Fiesol fu la prima volta
- Per li Roman consumata e disfatta,
- E poi che a Roma la gente diè volta,
- Que’ che rimason dell’affrica schiatta,
- Alla disfatta fortezza raccolta
- Tutti si fur, che Pruneo avea fatta,
- E quivi il me’ che seppon s’alloggiaro
- Facendo case assai per lor riparo. LV.
- Poi fu Firenze posta pei Romani,
- Acciocchè Fiesol non si rifacesse,
- Pe’ nobili e possenti Fiesolani
- Ch’eran campati, ma così si stesse:
- Per la qual cosa in molti luoghi strani
- Le genti fiesolane si fur messe
- Ad abitar, come gente scacciata,
- Senza aiuto o consiglio abbandonata. LVI.
- Ma poi ch’uscita fu l’ira di mente
- Per ispazio di tempo, e pace fatta
- Tra li Romani e la scacciata gente,
- Quasi tutta la gente fu ritratta
- Ad abitare in Firenze possente,
- Tra’ quai vi venne dell’affrica schiatta,
- E volentier vi furon ricevuti
- Da’ cittadini, e ben cari tenuti.
- LVII.
- E per levar loro ogni sospicione,
- Sed e’ l’avesser, d’essere oltraggiati,
- E anche per dar lor maggior cagione
- D’amar la terra, e d’esser anche amati,
- E fatto fosse a ciaschedun ragione,
- Sì furo insieme tutti imparentati,
- E fatti cittadin con grande amore,
- Avendo la lor parte d’ogni onore. LVIII.
- Così moltiplicando la cittade
- Di Firenze, in persone e in gran ricchezza,
- Gran tempo resse con tranquillitade;
- Ma come molti libri fan chiarezza,
- Già era in essa la cristianitade
- Venuta, quando, presa ogni fortezza,
- Fu da Totile infin da’ fondamenti
- Arsa e disfatta, e cacciate le genti. LIX.
- Poi fece il crudel Totile rifare
- Ogni fortezza di Fiesole e mura,
- E pel paese fece un bando andare:
- Che qual fosse che dentro alla chiusura
- Di Fiesole tornasse ad abitare,
- Ogni persona vi fosse sicura,
- Giurando prima di far sempre guerra
- Con i Romani, e con ogni lor terra.
- LX.
- Per la qual cosa la schiatta affrichea
- Per grande sdegno tornar non vi volle,
- Ma nel contado ognun si riducea,
- Cioè nel loro primaio e antico colle,
- Ove ciascuno abitazione avea,
- Facendo quivi un forte battifolle
- Per lor difesa, se bisogno fosse,
- Da’ Fiesolani e dalle lor percosse. LXI.
- Così gran tempo quivi dimoraro,
- Insin che ’l buon re Carlo Magno venne
- Al soccorso d’Italia, e a riparo
- Della città di Roma, che sostenne
- Gran novità. Allor si ragunaro
- L’affrichea gente, e consiglio si tenne
- Con gli altri nobil che s’eran fuggiti
- Per lo contado, e preson tai partiti: LXII.
- Che si mandasse a Roma al padre santo,
- E al re Carlo Magno un’ambasciata,
- Significando il fatto tutto quanto,
- Come la lor figliuola rovinata
- Giaceva in terra, e’ cittadin con pianto
- L’avean per forza tutta abbandonata;
- E perchè avean de’ Fiesolan paura,
- Non vi potean rifar case nè mura.
- LXIII.
- Ma perchè altrove chiara questa storia
- Si trova scritta, fo con brevitade.
- Tornando al papa Firenze a memoria,
- Per l’ambasciata, gli venne pietade:
- Ma poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
- Passò di qua per le nostre contrade,
- E sì rife’ la città di Fiorenza,
- La qual crebbe ogni dì la sua potenza. LXIV.
- Per la qual cosa que’ d’Affrico nati
- Con gli altri vi tornaro ad abitare:
- E come poi si sieno translatati
- Di grado in grado non potre’ contare,
- Nè d’uno in altro; ma in molti lati
- Son di lor gente scesi d’alto affare,
- Ed altri, che son di lassù venuti,
- Per loro gente non son conosciuti. LXV.
- Ma sia come si vuole omai la cosa,
- Io son venuto al porto disiato,
- Ove ’l disio e la mente amorosa
- Per lunghi mari ha gran pezza cercato:
- Omai donando alla mia penna posa,
- Ho fatto quel che mi fu comandato
- Da tal, cui non potre’ nulla disdire,
- Tanto sopra di me fatto è gran sire.
- LXVI.
- Adunque, poich’io sono al fin venuto
- D’esto lavoro, a lui il vo’ portare,
- Il qual m’ha dato la forza e l’aiuto,
- E lo stile e l’ingegno del rimare:
- Dico ad Amor, di cui son sempre suto,
- Ed esser voglio, e lui vo’ ringraziare,
- E a lui recare il libro dov’egli usa,
- E poi dinanzi a lui porre un’accusa. LXVII.
- Altissimo signore, Amor sovrano,
- Sotto cui forza valore e potenza
- È sottoposto ciascun core umano,
- E contro a cui non può far resistenza
- Nessuno, sia quanto si vuol villano,
- Il qual non venga tosto a tua obbedienza,
- Pur che tu vuogli, ma pur più ti giova
- D’usar contro a’ gentili la tua prova: XLVIII.
- Tu se’ colui che sai, quando ti piace,
- Ogni gran fatto ad effetto menare,
- Tu se’ colui che doni guerra e pace
- A’ servi tuoi, secondo che ti pare;
- Tu se’ colui che li lor cuori sface,
- E che gli fai sovente suscitare;
- Tu se’ colui che gli assolvi e condanni,
- E qual conforti, e a qual’arrogi danni.
- LXIX.
- Io sono un de’ tuoi servi, al quale imposto
- Mi fu per te, come a servo leale,
- Di compor questa storia, ed io disposto
- Sempre ubbidirti, come quegli al quale
- Una donna m’ha dato e sottoposto,
- Col tuo aiuto i’ l’ho fatta cotale
- Chent’è suto possibile al mio ingegno,
- Il qual i’ ho acquistato nel tuo regno. LXX.
- Ma ben ti prego per gran cortesia,
- E per dovere e per giusta ragione,
- Che questo libro mai letto non sia
- Per gl’ignoranti e villane persone,
- I quai non seppon mai chi tu ti sia,
- Nè di voler saperlo hanno intenzione,
- Che molto certo son che biasimato
- Saria da loro ogni tuo bel trattato. LXXI.
- Lascial leggere agli animi gentili,
- E che portan nel volto la tua insegna,
- Accostumati angelici ed umili,
- Ne’ cuor de’ quali la tua forza regna.
- Costor le cose tue non terran vili,
- Ma esser le faran di lode degna,
- Te’, ch’io tel rendo, dolce mio signore,
- Al fin recato pel tuo servidore.
- LXXII.
- Ben venga l’ubbidiente servo mio,
- Quanto niun altro che sia a me suggetto,
- Il quale ha messo tutto il suo disio
- In recare a su fine il mio libretto:
- E perchè certo son ch’è tal qual’io
- Il disiava, volentier l’accetto,
- E nell’armario tra gli altri contratti
- Appresso il metterò de’ miei gran fatti. LXXIII.
- E ’l prego tuo sarà ottimamente
- Di ciò che m’hai pregato essaudito,
- Che ben guarderò il libro dalla gente,
- La qual tu di’ che non m’ha mai servito;
- Non perch’io tema lor vento niente,
- Nè perch’io sia per lor men’ubbidito,
- Ma perchè ricordato il nome mio
- Tra lor non sia; e tu riman con Dio.
- IL FINE
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