- Il Filostrato
- Giovanni Boccaccio
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- Il Filostrato
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- NUOVAMENTE CORRETTO SU I TESTI
- A PENNA
- Firenze
- PER IG. MOUTIER
- 1831
- Indice
- Frontespizio del vol. XIII
- Frontespizio
- Ai Lettori
- Il Filostrato
- Proemio
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Parte quinta
- Parte sesta
- Parte settima
- Parte ottava
- Parte nona
- OPERE
- VOLGARI
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- CORRETTE SU I TESTI A PENNA
- * * *
- EDIZIONE PRIMA
- * * *
- VOL. XIII.
- FIRENZE
- PER IG. MOUTIER
- MDCCCXXXI.
- Col benigno Sovrano rescritto del dì 9 Giugno 1826, fu conceduta ad Ignazio Moutier la privativa per anni otto della stampa delle Opere volgari di Giovanni Boccaccio.
- IMPRESSO CON I TORCHI
- DELLA
- STAMPERIA MAGHERI
- Il Filostrato
- DI
- GIOVANNI BOCCACCIO
- NUOVAMENTE CORRETTO SU I TESTI
- A PENNA
- Firenze
- PER IG. MOUTIER
- 1831
- AI LETTORI
- L’EDITORE
- * * *
- Fra le opere minori del Boccaccio che si leggevano in stampe alterate e scorrette, nessuna se ne trova che fosse stata tanto maltrattata e guasta quanto il poema intitolato il Filostrato. Non intendo di parlare delle poche e rarissime edizioni del Sec. XV., ma della più recente e comune, che fu eseguita in Parigi da Didot il maggiore nel 1789, per opera e cura di un tal fra Luigi Baroni servita, che l’indirizzò con sua dedica al duca Sigismondo di Montmorency-Luxemburgo. L’editore nel suo breve discorso preliminare si annunzia subito imperito bibliografo, asserendo che egli dà alla luce la prima volta il Filostrato del Boccaccio, quando è notissimo che ne esistono più edizioni del primo secolo della stampa. Parla inoltre delle lodi prodigate a questo poema da Anton Maria Salvini e da Apostolo Zeno, ed aggiunge che questi due dotti opinavano che per due ragioni il Filostrato sia restato inedito e abbandonato, e son queste: «La prima, dicono essi, si è stata la riputazione grandissima che hanno data all’autore le opere scritte in prosa, per cui ne andarono trascurate le rime, benchè anche in queste si dovesse ammirare la bella proprietà del dire, e quella virtù di porre i differenti oggetti sotto l’occhio, da renderne proprio una parlante pittura: la seconda ragione si è che tanto scorretti, e fra loro discordanti trovarono i manoscritti, che in quasi tutte le librerie d’Italia si conservano, che non ebbero tempo que’ letterati, o più tosto non osarono tentare la difficile impresa di farne diligente confronto, e, ben purgato e corretto, ridurlo al suo primiero splendore.» Non v’è dubbio su le verità della prima ragione, ma non concordo su la seconda, perchè il fatto mi ha dimostrato, che non esiste questa asserita discordanza fra le lezioni dei MSS., non trovandovisi altra differenza fra loro che quella prodotta dalla maggiore o minore intelligenza dei copisti: onde se i letterati passati trascurarono questa intrapresa, convien credere che non venisse loro in mente, e ancora è da attribuirsi a quella tendenza di scansar la fatica, che vien preferita da tanti, giacchè sì fatti lavori non si compiscono senza lungo ed assiduo studio.
- Dice inoltre l’editore Baroni d’essersi servito di un codice del Filostrato scritto nel 1393, appartenuto a Belisario Bulgarini, a cui si potrebbe attribuire il cattivo resultato dell’edizione da esso procurata; ma egli aggiugne di averlo confrontato con «i diversi manoscritti che in Firenze si ritrovano, e specialmente con i quattro più antichi e preziosi, che nella Laurenziana biblioteca si custodiscono:» i quali per altro essendo tutti di diversissima lezione da quella da esso prodotta, è forza convenire che non furono mai consultati, e che il codice Bulgarini era un guazzabuglio di errori. Questa ultima considerazione però svanisce interamente, quando si esamini con diligente confronto l’edizione parigina con qualsivoglia antico codice del Filostrato, e nasce la convinzione, che il frate Baroni con una sfacciataggine senza pari rifuse e guastò a suo talento tutto il poema. Difatto le differenze, che possono essere da ciascuno osservate, fra l’edizione di Parigi e i codici antichi, ossia con la presente edizione, che è conforme ai MSS:, sono tante e tali, che non si può ammettere che procedano da antica sorgente. Non contento il Baroni di mutilare capricciosamente il bellissimo Proemio in prosa del Boccaccio, che egli intitola Argomento, dà una diversa disposizione alle parti, o sia canti, di cui si compone il poema; cangia a capriccio le ottave tutte, in modo che rarissimi sono i versi che casualmente rispettò; muta spesso le rime, ponendone altre a capriccio; e in fine toglie affatto dal poema trentanove ottave. Questa brevemente è la strana, ma vera descrizione dell’edizione del Filostrato del 1789. Fosse stato almeno il frate Baroni valente poeta, ed una scusa poteva almeno addurre al suo plagio; ma i frequenti saggi che inserì nel suo Filostrato, nelle ottave da esso composte, non che superare l’originale che pretendeva emendare, mostrano l’insufficienza della sua poetica vena.
- Non è mio scopo di far conoscere i pregi pei quali si raccomanda il Filostrato ad ogni cultore di nostra lingua, nè a me spetta a darne un giudizio; mi limiterò soltanto ad accennare una mia opinione, ed è, che io reputo la Teseide inferiore al Filostrato, sia per merito di poesia che di lingua. Benchè verso la fine del poema il Filostrato illanguidisca, e mostri la fretta avuta dall’autore nel condurlo al termine, in tutto il resto parmi che possa sostenere la superiorità su gli altri suoi scritti poetici. Sembrerà a taluno che abbia l’orecchio assuefatto a più sonora poesia, che languidi e cascanti siano spesso i versi del Boccaccio, ma nessuno potrà negare la facilità con la quale sembra che siano stati dettati. Gioverà in ultimo avvertire, che lo stesso autore nel proemio del Filostrato dice di aver composto il Filostrato in leggere rima, e nel suo fiorentino idioma.
- Sette codici riccardiani, e quattro laurenziani mi hanno fornito larghi mezzi per l’emendazione del Filostrato, e il lungo lavoro che ho fatto sopra i medesimi mi dà la speranza che la mia fatica possa ottenere l’approvazione degli studiosi di nostra lingua, potendo ora esser certi di leggere questo poema del Boccaccio nella sua primitiva purezza.
- * * *
- PROEMIO
- DELL’AUTORE
- * * *
- Filostrato è il titolo di questo libro; e la cagione è, perchè ottimamente si confà cotal nome con l’effetto del libro. Filostrato tanto viene a dire, quanto uomo vinto ed abbattuto da amore, come vedere si può che fu Troilo, dell’amore del quale in questo libro si racconta; perciocchè egli fu da amore vinto sì fortemente amando Griseida, e cotanto s’afflisse nella sua partita, che poco mancò che morte non lo sorprendesse.
- Molte fiate già, nobilissima donna, avvenne, che io, il quale quasi dalla mia puerizia insino a questo tempo ne’ servigi d’amore sono stato, ritrovandomi nella sua corte tra li gentili uomini e le vaghe donne, in quella con me parimente dimoranti, udii muovere e disputare questa questione, cioè: Uno giovane ferventemente ama una donna, della quale niuna altra cosa gli è conceduto dalla fortuna, se non il potere alcuna volta vederla, o tal volta di lei ragionare, o seco stesso di lei dolcemente pensare. Qual’è adunque di queste tre cose di più diletto? Nè era mai, che ciascuna di queste tre cose, da cui l’una da cui l’altra, non fosse da molti studiosamente e con acuti argomenti difesa: e perciocchè a’ miei amori, più focosi che avventurati, pareva cotale questione ottimamente essere conforme, mi ricorda la mente, che vinto dal falso parere, più volte mescolandomi tra’ questionatori, tenni e difesi di gran lunga essere maggiore il diletto, potere della cosa amata talvolta pensare, che quello che porger potesse alcuna dell’altre due: affermando, tra gli altri argomenti da me a ciò indotti, non essere picciola parte della beatitudine dell’amante, potere secondo il disio di colui che pensa disporre della cosa amata, e lei rendere secondo quello benivola e rispondente, come che ciò solamente durasse quanto il pensiero, sì che del vedere nè del ragionare non poteva certamente addivenire. O stolto giudizio, o sciocca estimazione, o vano argomento, quanto dal vero eravate lontani! amara esperienza, me misero, me lo dimostra al presente. O speranza dolcissima dell’afflitta mente, ed unico conforto del trafitto core, io non mi vergognerò d’aprirvi con qual forza nel tenebroso intelletto m’entrasse la verità, contro alla quale io puerilmente errando avea l’armi prese; ed a cui il potre’ io dire, che alcuno alleggiamento potesse porre alla penitenza datami, non so s’io mi dica da amore o dalla fortuna, per la falsa opinione avuta, se non a voi?
- Affermo adunque, bellissima donna, esser vero, che poscia che voi nella più graziosa stagione dell’anno, dalla dilettevole città di Napoli dipartendovi, e in Sannio andandone, agli occhi miei, più del vostro angelico viso vaghi che d’altra cosa, mi toglieste subitamente quello che io per la vostra presenza doveva conoscere, non conoscendolo, per lo suo contrario prestamente mi fece conoscere, cioè per la privazione di quella; la quale tanto fuori d’ogni dovuto termine m’ha l’anima contristata, che assai apertamente posso comprendere, quanta fosse la letizia, allora poco da me conosciuta, che mi veniva dalla vostra graziosa e bella vista. Ma perchè alquanto appaia più questa verità manifesta, non mi fia grave, nè il voglio intralasciare, come che altrove più che qui si distenda, ciò che avvenuto mi sia, a dichiarazione di tanto errore, dopo la vostra partenza.
- Dico adunque, se Dio tosto coll’aspetto del vostro bel viso gli occhi miei riponga nella perduta pace, che poichè io seppi che voi di qui partita eravate, e in parte andatane, dove niuna onesta cagione a vedervi mi doveva mai potere menare, che essi, per li quali la luce soavissima del vostro amore mi menò nella mente, oltre alla fede che porger possono le mie parole, hanno assai volte di tante e di sì amare lagrime bagnata la faccia mia, ed il dolente seno riempiuto, che non solamente è stata mirabil cosa onde tanta umidità sia ad essi da essi venuta, ma ancora non che in voi, la quale credo che come gentile siete così siate pietosa, in niuno che mio nimico fosse, e di ferro avesse il petto, a forza avrebbono messa pietade. Nè solamente questo è avvenuto quante volte ricordato mi sono d’avere la vostra piacevole presenza perduta gli ha fatti tristi, ma qualunque cosa è loro davanti apparita, di loro maggior miseria è stata cagione. Oimè, quante volte per minor doglia sentire, si sono spontaneamente ritorti dal guardare il tempio, le logge, le piazze, e gli altri luoghi, ne’ quali, già vaghi e desiderosi cercavano di vedere, e talvolta in essi videro la vostra sembianza; e dolorosi hanno il cuore costretto a dir seco quello verso di Geremia: «O come siede sola la città, la quale in addietro era piena di popolo, e donna delle genti!» Certo io non dirò ogni cosa parimente attristargli, ma io affermo solo una essere quella parte che alquanto la loro tristizia mitiga, riguardando quelle contrade, quelle montagne, quella parte del cielo, fra le quali e sotto la quale porto ferma opinione che voi siate; quindi ogni aura, ogni soave vento che di colà viene, così nel viso ricevo, quasi il vostro senza niuno fallo abbia tocco: nè è perciò troppo lungo questo mitigamento, ma quale sopra le cose unte veggiamo talvolta le fiamme discorrere, tal sopra l’afflitto cuore questa soavità discorre, fuggendo subita per lo sopravvegnente pensiero che mi mostra non potervi vedere, essendo di ciò senza misura acceso il mio disio.
- Che dirò de’ sospiri, i quali nel passato piacevole amore e dolce speranza mi soleano infiammati trarre dal petto? Certo io non ho altro che dirne, se non che moltiplicati in molti doppii di grandissima angoscia, mille volte ciascuna ora da quello per la mia bocca fuori sono sforzatamente sospinti. E similmente le mie voci, le quali già alcuna volta mosse, non so da che occulta letizia procedente dal vostro sereno aspetto, in amorosi canti, e in ragionamenti pieni di focoso amore, s’udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno e amore per mercede, e la morte per fine de’ miei dolori, e i grandissimi rammarichii possono essere stati uditi da chi m’è stato presso.
- In cotal vita adunque vivo da voi lontano, e sempre più comprendo quanto fosse il bene, e ’l piacere e il diletto che da’ vostri occhi per addietro male da me conosciuto procedeva: e come che tempo assai mi prestano e le lagrime e’ sospiri a potere del vostro valore ragionare, e ancora al presente della vostra leggiadria, de’ costumi gentili, e della donnesca altezza, e della sembianza vaga più ch’altra, la quale io sempre con gli occhi della mente riguardo tutta, e mentre perciò di tale ragionamento o pensiero non dico che alcuno piacere l’anima non senta, ma questo piacere viene mischiato con un disio ferventissimo, il quale tutti gli altri disii accende in tanta fiamma di vedervi, che appena in me regger gli posso, che non mi tirino, posta giù ogni debita onestà e ragionevole consiglio, colà dove voi dimorate; ma pur vinto dal volere il vostro onore più che la mia salute guardare, gli raffreno; e non avendo altro ricorso, sentendomi la via chiusa del rivedervi, per la cagione mostrata, alle lagrime tralasciate ritorno. Ah lasso, quanto m’è la fortuna crudele e nemica ne’ miei piaceri, sempre stata rigida maestra e correggitrice de’ miei errori! ora misero me il conosco, ora il sento, ora apertissimamente discerno, quanto di bene, quanto di piacere, quanto di soavità, più nella luce vera degli occhi vostri volgendola ne’ miei, che nella falsa lusinga del mio pensier dimorasse. Così adunque, o splendido lume della mia mente, col privarmi della vostra amorosa vista, ha fortuna risoluta la nebula dell’errore per addietro da me sostenuto: ma nel vero sì amara medicina non bisognava a purgare la mia ignoranza, più lieve gastigamento m’avrebbe nella diritta via ritornato. Ora così vagliano le mie forze a quelle della fortuna? quantunque la mia ragione sia molta, non possono resistere. E come che si vada, io sono pure per la vostra partenza a tal punto venuto, qual di sopra v’hanno le mie lettere dichiarato; e con mia gravissima noia sono divenuto certo di ciò, che prima incerto disputava in contrario. Ma da venire è omai a quel termine, per lo quale scrivendo infino a qui son trascorso, e dico, che vedendomi in tanta e così aspra avversità per lo vostro dipartir pervenuto, prima proposi di ritenere del tutto dentro del tristo petto l’angoscia mia, acciocchè palesata non fosse per avventura di molto maggiore efficace cagione; e ciò sostenendo con forza, assai vicino a disperata morte mi fe’ venire, la quale se pure venuta fosse, senza niun fallo allora cara mi sarebbe stata. Ma poi, non so da che occulta speranza mosso, di dovervi pure ancora quando che sia rivedere, e nella prima felicità ritornare gli occhi miei, mi nacque non solamente paura di morte, ma desiderio di lunga vita, quantunque misera non vedendovi la dovessi menare. E conoscendo assai chiaramente, che tenendo io del tutto, come proposto avea, la mia conceputa doglia nel petto nascosa, era impossibile, che delle mille volte che essa abbondante e ogni termine trapassante sopravvenia, alcuna non vincesse tanto le forze mie, già debolissime divenute, che morte senza fallo ne seguirebbe, e più in conseguenza non vi vedrei. Da più utile consiglio mosso mutai proposta, e pensai di volere con alcuno onesto rammarichio dare luogo a quello a uscire dal tristo petto, acciocchè io vivessi, e potessi ancora rivedervi, e più lungamente vostro dimorassi vivendo. Nè prima tal pensiero nella mente mi venne, che il modo con esso subitamente m’occorse; dal quale avvenimento, quasi da nascosa divinità spirato, certissimo augurio presi di futura salute. E il modo fu questo, di dovere in persona di alcuno passionato, siccome io era e sono, cantando narrare i miei martirii. Meco adunque con sollecita cura cominciai a rivolgere l’antiche storie, per trovare cui potessi verisimilmente fare scudo del mio segreto e amoroso dolore. Nè altro più atto nella mente mi venne a tal bisogno, che il valoroso giovane Troilo, figliuolo di Priamo nobilissimo re di Troia, alla cui vita, in quanto per amore e per la lontananza della sua donna fu doloroso, se fede alcuna alle antiche storie si può dare, poichè Griseida da lui sommamente amata fu al suo padre Calcas renduta, è stata la mia similissima dopo la vostra partita. Per che dalla persona di lui e da’ suoi accidenti ottimamente presi forma alla mia intenzione, e susseguentemente in leggiere rima, e nel mio fiorentino idioma, con stile assai pietoso i suoi e miei dolori parimente composi, li quali una e altra volta cantando, assai utili gli ho trovati, secondo che fu nel principio l’avviso. È vero, che dinanzi alle sue più amare doglie, in simile stilo parte della sua felice vita si trova, la quale posi, non perch’io desideri che alcuno creda che io di simil felicità gloriare mi possa, perocchè non mi fu mai tanto favorevole la fortuna, nè sforzandomi di sperarlo nol può in alcun modo concedere la credenza che ciò avvenga, ma per questo le scrissi, perchè la felicità veduta da alcuno, molto meglio si comprende quanta e qual sia la miseria sopravvenuta. La qual felicità nondimeno, in tanto è alli miei fatti conforme, in quanto io non meno di piacere dagli occhi vostri traeva, che Troilo prendesse dall’amoroso frutto che di Griseida gli concedea la fortuna.
- Adunque, valorosa donna, queste cotali rime in forma d’un piccolo libro, in testimonianza perpetua a coloro che nel futuro il vedranno, e del vostro valore, del quale in persona altrui esse sono in più parti ornate, e della mia tristizia, ridussi; e ridotte, pensai non essere onesta cosa, quelle ad alcuna altra persona prima pervenire alle mani che alle vostre, che d’esse siete stata vera e sola cagione. Per la qual cosa, come che picciolissimo dono sia da mandare a tanta donna quanto voi siete, nondimeno, perchè l'affezione di me mandatore è grandissima e piena di pura fede, vel pure ardisco a mandare, quasi sicuro, che non per mio merito, ma per vostra benignità e cortesia da voi ricevute saranno. Nelle quali se avviene che leggiate, quante volte Troilo piangere e dolersi della partita di Griseida troverete, tante apertamente potrete comprendere e conoscere le mie medesime voci, le lagrime, i sospiri e l’angosce; e quante volte le bellezze, i costumi, e qualunque altra cosa laudevole in donna, di Griseida scritto troverete, di voi essere parlato potrete intendere: l’altre cose, che oltre a queste vi sono assai, niuna, siccome già dissi, a me non appartiene, nè per me vi si pone, ma perchè la storia nel nobile innamorato giovane lo richiede: e se così siete avveduta come vi tengo, così da esse potrete comprendere quanti e quali siano i miei disii, dove terminino, e che cosa essi più che altro dimandino, o se alcuna pietà meritano. Ora io non so se esse fieno di tanta efficacia, che voi leggendole con alcuna compassione possano toccare la casta mente, ma amore ne prego che questa forza a loro ne presti; il che se addiviene, quanto più umilmente posso prego voi, che alla vostra tornata mettiate sollecitudine, talchè la vita mia, la quale a uno sottilissimo filo è pendente, e da speranza con fatica tenuta, possa, vedendovi, lieta nella prima certezza di sè ritornare: e se ciò non può forse così tosto come io desidererei avvenire, almeno con alcuno sospiro o con pietoso prego, per me fate ad amore che alle mie noie presti alcuna pace, e lei smarrita riconfortare. Il mio lungo sermone da sè medesimo chiede fine, e perciò dandoglielo, prego colui che nelle vostre mani ha posta la mia vita e la mia morte, che egli nel vostro cuore quello disio accenda, che solo esser può cagione della mia salute.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE PRIMA
- * * *
- ARGOMENTO
- Qui comincia la prima parte del libro chiamato Filostrato, dell’amorose fatiche di Troilo, nella quale si pone, come Troilo innamorossi di Griseida, e gli amorosi sospiri e le lagrime per lui avute, prima che ad alcuno il suo occulto amore discoprisse; e primieramente la invocazione dell’autore.
- I.
- Alcun di Giove sogliono il favore
- Ne’ lor principii pietosi invocare;
- Altri d’Apollo chiamano il valore;
- Io di Parnaso le muse pregare
- Solea ne’ miei bisogni, ma amore
- Novellamente m’ha fatto mutare
- Il mio costume antico e usitato,
- Poi fu’ di te, madonna, innamorato.
- II.
- Tu donna se’ la luce chiara e bella,
- Per cui nel tenebroso mondo accorto
- Vivo; tu se’ la tramontana stella
- La qual’io seguo per venire al porto;
- Ancora di salute tu se’ quella
- Che se’ tutto il mio bene e ’l mio conforto;
- Tu mi se’ Giove, tu mi sei Apollo,
- Tu se’ mia musa, io l’ho provato e sollo.
- III.
- Per che volendo per la tua partita,
- Più greve a me che morte e più noiosa,
- Scriver qual fosse la dolente vita
- Di Troilo, da poi che l’amorosa
- Griseida da Troia sen fu gita,
- E come pria gli fosse grazïosa;
- A te convienmi per grazia venire,
- S’io vo’ poter la mia ’mpresa fornire.
- IV.
- Adunque, o bella donna, alla qual fui
- E sarò sempre fedele e soggetto,
- O vaga luce de’ begli occhi in cui
- Amore ha posto tutto il mio diletto;
- O isperauza sola di colui,
- Che t’ama più che sè d’amor perfetto,
- Guida la nostra man, reggi l’ingegno,
- Nell’opera la quale a scriver vegno.
- V.
- Tu se’ nel tristo petto effigïata
- Con forza tal, che tu vi puoi più ch’io;
- Pingine fuor la voce sconsolata
- In guisa tal, che mostri il dolor mio
- Nell’altrui doglie, e rendila sì grata,
- Che chi l’ascolta ne divenga pio;
- Tuo sia l’onore, e mio si sia l’affanno,
- Se i detti alcuna laude acquisteranno.
- VI.
- E voi amanti prego che ascoltiate
- Ciò che dirà ’l mio verso lagrimoso;
- E se nel cuore avvien che voi sentiate
- Destarsi alcuno spirito pietoso,
- Per me vi prego ch’amore preghiate,
- Per cui siccome Troilo doglioso
- Vivo lontan dal più dolce piacere,
- Che a creatura mai fosse in calere.
- VII.
- Erano a Troia i greci re d’intorno
- Nell’armi forti, e giusta lor potere
- Ciascuno ardito, fiero, prode, e adorno
- Si dimostrava, e con le loro schiere
- Ognor la stringean più di giorno in giorno,
- Concordi tutti in un pari volere,
- Di vendicar l’oltraggio e la rapina
- Da Paris fatta d’Elena reina.
- VIII.
- Quando Calcas, la cui alta scïenza
- Avea già meritato di sentire
- Del grande Apollo ciascuna credenza,
- Volendo del futuro il vero udire,
- Qual vincesse, o la lunga sofferenza
- De’ Troiani, o de’ Greci il grande ardire;
- Conobbe e vide, dopo lunga guerra
- I Troian morti e distrutta la terra.
- IX.
- Per che segretamente dipartirsi
- Diliberò l’antiveduto e saggio;
- E preso luogo e tempo da fuggirsi,
- Ver la greca oste si mise in viaggio;
- Onde all’incontro assai vide venirsi,
- Che ’l ricevetton con lieto visaggio;
- Da lui sperando sommo e buon consiglio
- In ciascheduno accidente o periglio.
- X.
- Fu romor grande quando fu sentito,
- Per tutta la città generalmente,
- Che Calcas s’era di quella fuggito,
- E parlato ne fu diversamente,
- Ma mal da tutti, e ch’egli avea fallito,
- E come traditor fatto reamente,
- Nè quasi per la più gente rimase
- Di non andargli col fuoco alle case.
- XI.
- Avea Calcas lasciata in tanto male,
- Senza niente farlene assapere,
- Una sua figlia vedova, la quale
- Sì bella e sì angelica a vedere
- Era, che non parea cosa mortale,
- Griseida nomata, al mio parere
- Accorta, savia, onesta e costumata
- Quanto altra che in Troia fosse nata.
- XII.
- La qual sentendo il noioso romore
- Per la fuga del padre, assai dogliosa,
- Qual’era in tanto dubbioso furore,
- In abito dolente, e lagrimosa,
- Gittossi ginocchioni appiè d’Ettore,
- E con voce e con vista assai pietosa,
- Scusando sè, e ’l suo padre accusando,
- Finì suo dire mercè addimandando.
- XIII.
- Era pietoso Ettor di sua natura,
- Perchè vedendo di costei il gran pianto,
- Ch’era più bella ch’altra creatura,
- Con pio parlare la confortò alquanto,
- Dicendo: lascia con la ria ventura
- Tuo padre andar, che ci ha offeso tanto,
- E tu sicura e lieta senza noia,
- Con noi mentre t’aggrada ti sta’ in Troia.
- XIV.
- Il piacere e l’onore il qual vorrai,
- Come Calcas ci fosse, abbi per certo,
- Sempre da tutti quanti noi avrai;
- A lui rendan gl’iddii condegno merto.
- Ella di questo il ringraziò assai,
- E più volea, ma non le fu sofferto,
- Ond’ella si drizzò, e ritornossi
- A casa sua, e quivi riposossi.
- XV.
- Quivi si stette con quella famiglia
- Ch’al suo onor convenia di tenere,
- Mentre fu in Troia, onesta a maraviglia
- In abito ed in vita, nè calere
- Le bisognava di figlio o di figlia,
- Come a colei che mai nessuno avere
- N’avea potuto, e da ciascuno amata
- Che la conobbe fu ed onorata.
- XVI.
- Le cose andavan sì come di guerra,
- Tra li Troiani e’ Greci assai sovente;
- Talvolta uscieno i Troian della terra
- Sopra gli Greci vigorosamente;
- E spesse volte i Greci, se non erra
- La storia, givano assai fieramente
- Fino in su’ fossi e d’intorno rubando,
- Castella e ville ardendo ed abbruciando.
- XVII.
- E come ch’e’ Troian fosser serrati
- Dalli greci nemici, non avvenne
- Che però fosson mal intralasciati
- Gli divin sacrificii, ma si tenne
- Per ciascun tempio quelli modi usati:
- Ma con maggiore onore e più solenne,
- Che alcuno altro, Pallade onoravano
- In ogni cosa, e più ch’altro guardavano.
- XVIII.
- Perchè venuto il vago tempo il quale
- Riveste i prati d’erbette e di fiori,
- E che gaio diviene ogni animale,
- E in diversi atti mostran loro amori;
- Li troian padri al Palladio fatale
- Fer preparar li consueti onori;
- Alla qual festa e donne e cavalieri
- Fur parimente, e tutti volentieri.
- XIX.
- Tra’ quali fu di Calcas la figliuola
- Griseida, la qual’era in bruna vesta,
- La qual, quanto la rosa la viola
- Di beltà vince, cotanto era questa
- Più ch’altra donna bella, ed essa sola
- Più ch’altra facea lieta la gran festa,
- Stando nel tempio assai presso alla porta,
- Negli atti altiera, piacente ed accorta.
- XX.
- Troilo giva come soglion fare
- I giovinetti, or qua or là veggendo
- Per lo gran tempio, e co’ compagni a stare;
- Or qui or quivi si giva ponendo,
- Ed ora questa ed or quella a lodare
- Incominciava, e tali riprendendo,
- Siccome quegli a cui non ne piacea
- Una più ch’altra, e sciolto si godea.
- XXI.
- Anzi talora in tal maniera andando,
- Veggendo alcun che fiso rimirava
- Alcuna donna seco sospirando,
- A’ suoi compagni ridendo il mostrava,
- Dicendo: quel dolente ha dato bando
- Alla sua libertà, sì gli gravava,
- Ed a colei l’ha messa tra le mani,
- Vedete ben s’e’ suo pensier son vani.
- XXII.
- Che è a porre in donna alcuno amore?
- Che come al vento si volge la foglia,
- Così in un dì ben mille volte il core
- Di lor si volge, nè curan di doglia
- Che per lor senta alcun loro amadore,
- Nè sa alcuna quel ch’ella si voglia.
- O felice colui che del piacere
- Lor non è preso, e sassene astenere!
- XXIII.
- Io provai già per la mia gran follia
- Qual fosse questo maladetto fuoco.
- E s’io dicessi che amor cortesia
- Non mi facesse, ed allegrezza e giuoco
- Non mi donasse, certo i’ mentiria,
- Ma tutto il bene insieme accolto, poco
- Fu o niente, rispetto a’ martirj,
- Volendo amare, ed a’ tristi sospiri.
- XXIV.
- Or ne son fuor, mercè n’abbia colui
- Che fu di me più ch’io stesso pietoso,
- Io dico Giove, iddio vero, da cui
- Viene ogni grazia, e vivommi in riposo:
- E benchè di veder mi giovi altrui,
- Io pur mi guardo dal corso ritroso,
- E rido volentier degl’impacciati,
- Non so s’io dico amanti o smemorati.
- XXV.
- O cecità delle mondane menti,
- Come ne seguon sovente gli effetti
- Tutti contrarii a’ nostri intendimenti!
- Troil va ora mordendo i difetti,
- E’ solleciti amor dell’altre genti,
- Senza pensare in che il ciel s’affretti
- Di recar lui, il quale amor trafisse
- Più ch’alcun altro, pria del tempio uscisse.
- XXVI.
- Così adunque andandosi gabbando
- Or d’uno or d’altro Troilo, e sovente
- Or questa donna or quella rimirando,
- Per caso avvenne che in fra la gente
- L’occhio suo vago giunse penetrando
- Là dov’era Griseida piacente,
- Sotto candido velo in bruna vesta,
- Fra l’altre donne in sì solenne festa.
- XXVII.
- Ell’era grande, ed alla sua grandezza
- Rispondean bene i membri tutti quanti;
- Il viso aveva adorno di bellezza
- Celestïale, e nelli suoi sembianti
- Ivi mostrava una donnesca altezza;
- E col braccio il mantel tolto davanti
- S’avea dal viso, largo a sè facendo,
- Ed alquanto la calca rimovendo.
- XXVIII.
- Piacque quel atto a Troilo, al tornare
- Ch’ella fe’ in sè, alquanto sdegnosetto,
- Quasi dicesse: non ci si può stare;
- E diessi più a mirare il suo aspetto,
- Il qual più ch’altro degno in sè gli pare
- Di molta lode, e seco avea diletto
- Sommo tra uomo e uom di mirar fiso
- Gli occhi lucenti e l’angelico viso.
- XXIX.
- Nè s’avvedea colui, ch’era sì saggio
- Poco davanti in riprendere altrui,
- Che amore dimorasse dentro al raggio
- Di que’ vaghi occhi con gli strali sui;
- Nè rammentava ancora dell’oltraggio
- Detto davanti de’ servi di lui,
- Nè dello strale, il quale al cuor gli corse,
- Finchè nol punse daddover s’accorse.
- XXX.
- Piacendo questa sotto il nero manto
- Oltre ad ogn’altra a Troilo, senza dire
- Qual cagion quivi il tenesse cotanto,
- Occultamente il suo alto desire
- Mirava di lontano, e mirò tanto,
- Senza niente ad alcun discoprire,
- Quanto duraro a Pallade gli onori,
- Poi coi compagni uscì del tempio fuori.
- XXXI.
- Nè se n’usci qual dentro v’era entrato
- Libero e lieto, ma n’usci pensoso,
- Ed oltre al creder suo innamorato,
- Tenendo bene il suo disio nascoso,
- Per quel che poco avanti avea parlato
- Non fosse in lui rivolto l’oltraggioso
- Parlar d’altrui, se forse conosciuto
- Fosse l’ardor nel quale era caduto.
- XXXII.
- Poi fu dal nobil tempio dipartita
- Griseida, Troilo al palazzo tornossi
- Co’ suoi compagni, e quivi in lieta vita
- Con lor per lungo spazio dimorossi;
- Per me’ celar l’amorosa ferita
- Di quei ch’amavan gran pezza gabbossi,
- Poi mostrando che altro lo stringesse,
- Disse a ciascun ch’andasse ove volesse.
- XXXIII.
- E partitosi ognun, tutto soletto
- In camera n’andò, dove a sedere
- Si pose, sospirando, appiè del letto,
- E seco a rammentarsi del piacere
- Avuto la mattina dell’aspetto
- Di Griseida cominciò, e delle vere
- Bellezze del suo viso annoverando,
- A parte a parte quelle commendando.
- XXXIV.
- Lodava molto gli atti e la statura,
- E lei di cuor grandissimo stimava,
- Ne’ modi e nell’andare, e gran ventura
- Di cotal donna amar si riputava;
- E vie maggior se per sua lunga cura
- Potesse far, se quanto egli essa amava
- Cotanto appresso da lei fosse amato,
- O per servente almen non rifiutato.
- XXXV.
- Immaginando affanno nè sospiro
- Poter per cotal donna esser perduto,
- E che esser dovesse il suo disiro
- Molto lodato, se giammai saputo
- Da alcuno fosse, e quinci il suo martiro
- Men biasimato, essendo conosciuto,
- Argomentava il giovinetto lieto,
- Male avvisando il suo futuro fleto.
- XXXVI.
- Perchè disposto a seguir tale amore,
- Pensò volere oprar discretamente;
- Pria proponendo di celar l’ardore
- Concetto già nell’amorosa mente
- A ciascheduno amico e servidore,
- Se ciò non bisognasse, ultimamente
- Pensando, che amore a molti aperto
- Noia acquistava, e non gioia per merto.
- XXXVII.
- Ed oltre a queste, assai più altre cose,
- Qual da scuoprire e qual da provocare
- A sè la donna, con seco propose,
- E quindi lieto si diede a cantare
- Bene sperando, e tutto si dispose
- Di voler sola Griseida amare,
- Nulla apprezzando ogni altra che veduta
- Glie ne venisse, o fosse mai piaciuta.
- XXXVIII.
- E in verso amore tal fiata dicea
- Con pietoso parlar: signore, omai
- L’anima è tua che mia esser solea,
- Il che mi piace, perciocchè tu m’hai,
- Non so s’io dico a donna, ovvero a dea,
- A servir dato, che non fu giammai
- Sotto candido velo in bruna vesta
- Sì bella donna, come mi par questa.
- XXXIX.
- Tu stai negli occhi suoi, signor verace,
- Siccome in luogo degno a tua virtute:
- Perchè, se ’l mio servir punto ti piace,
- Da que’ ti prego impetri la salute
- Dell’anima, la qual prostrata giace
- Sotto i tuoi piè, sì la ferir l’acute
- Saette che allora le gittasti,
- Che di costei ’l bel viso mi mostrasti.
- XL.
- Non risparmiarono il sangue reale,
- Nè d’animo virtù ovver grandezza,
- Nè curaron di forza corporale
- Che in Troilo fosse, o di prodezza,
- L’ardenti fiamme amorose, ma quale
- In disposta materia o secca o mezza
- S’accende il fuoco, tal nel nuovo amante
- Messe le parti acceser tutte quante.
- XLI.
- Tanto di giorno in giorno col pensiero,
- E col piacer di quello or preparava
- Più l’esca secca dentro al cuore altiero,
- E da’ begli occhi trarre immaginava
- Acqua soave al suo ardor severo;
- Perchè astutamente gli cercava
- Sovente di veder, nè s’avvedea
- Che più da quegli il fuoco s’accendea.
- XLII.
- Costui or qua or là che gisse, andando,
- Sedendo ancora, solo o accompagnato,
- Com’el volesse, bevendo o mangiando,
- La notte e ’l giorno ed in qualunque lato
- Di Griseida sempre gía pensando,
- E ’l suo valor e ’l viso dilicato
- Di lei, diceva, avanza Polissena
- D’ogni bellezza, e similmente Elena.
- XLIII.
- Nè del dì trapassava nessun’ora
- Che mille volte seco non dicesse:
- O chiara luce che ’l cuor m’innamora,
- O Griseida bella, iddio volesse,
- Che ’l tuo valor che ’l viso mi scolora
- Per me alquanto a pietà ti movesse;
- Null’altra fuor che tu lieto può farmi,
- Tu sola se’ colei che puoi atarmi.
- XLIV.
- Ciascun altro pensier s’era fuggito
- Della gran guerra e della sua salute;
- E sol nel petto suo era sentito
- Quel che parlasse dell’alta virtute
- Della sua donna; e per questo impedito,
- Sol di curar l’amorose ferute
- Sollecito era, e quivi ogni intelletto
- Avea posto all’affanno, ed il diletto.
- XLV.
- L’aspre battaglie e gli stormi angosciosi,
- Ch’Ettore e gli altri suoi frate’ faceano
- Seguiti da’ Troian, dagli amorosi
- Pensier poco o niente il rimoveano;
- Come che spesso ne’ più perigliosi
- Assalti, innanzi agli altri lui vedeano
- Mirabilmente nell’armi operare:
- Ciò disser quei che stavanlo a mirare.
- XLVI.
- Nè a ciò l’odio dei Greci il rimovea,
- Nè vaghezza ch’avesse di vittoria
- Per Troia liberar, la qual vedea
- Stretta da assedio, ma voglia di gloria
- Per più piacer tutto questo facea;
- E per amor, se ’l ver dice la storia,
- Divenne in arme sì feroce e forte,
- Che gli Greci il temean come la morte.
- XLVII.
- Aveagli già amore il sonno tolto,
- E minuito il cibo, ed il pensiero
- Moltiplicato sì, che già nel volto
- Ne dava pallidezza segno vero;
- Come che egli il ricuoprisse molto
- Con riso infinto e con parlar sincero,
- E chi ’l vedea pensava ch’avvenisse
- Per noia della guerra ch’e’ sentisse.
- XLVIII.
- E qual si fosse non ci è assai certo,
- O che Griseida non se n’accorgesse,
- Per l’operar di lui ch’era coperto,
- O che di ciò conoscer s’infingesse,
- Ma questo n’è assai chiaro ed aperto,
- Che nïente pareva le calesse
- Di Troilo e dell’amor che le portava,
- Ma come non amata dura stava.
- XLIX.
- Di quinci sentia Troilo tal dolore
- Che dir non si poria, talor temendo
- Che Griseida non fosse d’altro amore
- Presa, e per quello lui vilipendendo
- Ricever nol volesse a servidore,
- Ben mille modi seco ripetendo
- Se veder puote di farle sentire
- Onestamente il suo caldo disire.
- L.
- Onde quand’egli aveva spazio punto
- Seco d’amor sen giva a lamentare,
- Fra sè dicendo: Troilo, or se’ giunto,
- Che ti solevi degli altri gabbare,
- Nessun ne fu mai quanto tu consunto
- Per mal saperti dall’amor guardare;
- Or se’ nel laccio preso, il qual biasmavi
- Tanto negli altri, e da te non guardavi.
- LI.
- Che si dirà di te fra gli altri amanti
- Se questo tuo amor fosse saputo?
- Di te si gabberanno tutti quanti,
- Fra lor dicendo: or ecco il provveduto
- Ch’e’ sospir nostri e gli amorosi pianti
- Morder soleva, già ora è venuto
- Dove noi siamo; amor ne sia lodato,
- Ch’a tal partito l’ha ora recato.
- LII.
- Che si dirà di te fra gli eccellenti
- Re e signor, se questo fia sentito?
- Ben potran dir, di ciò assai scontenti:
- Vedi questi com’è del sonno uscito,
- Che in questi tempi noiosi e dolenti
- Sì nuovamente d’amore è irretito,
- Dove alla guerra dovrebbe esser fiero,
- In amar si consuma il suo pensiero.
- LIII.
- Ed or fostu, o Troilo dolente,
- Poscia ch’egli era dato che tu amassi,
- Preso per tal, che un poco solamente
- D’amor sentissi, onde ti consolassi;
- Ma quella per cui piagni nulla sente
- Se non come una pietra, e così stassi
- Fredda come al sereno interza il ghiaccio,
- Ed io qual neve al fuoco mi disfaccio.
- LIV.
- Ed or foss’io pur venuto al porto
- Al qual la mia sventura sì mi mena,
- Questo mi saria grazia e gran conforto,
- Perchè morendo uscire’ d’ogni pena;
- Che se il mio mal, del qual nessun s’è accorto
- Ancora, se si scuopre, fia ripiena
- La vita mia di mille ingiurie al giorno,
- E più ch’altro sarò detto musorno.
- LV.
- Deh, aiutami amore! e tu per cui
- I’ piango, preso più che altro mai,
- Deh sii pietosa un poco di colui
- Che t’ama più che la sua vita assai;
- Volgi il bel viso omai verso di lui,
- Da colui mossa, che in questi guai
- Per te donna mi tiene, io te ne priego,
- Deh non mi far di questa grazia niego.
- LVI.
- Io tornerò, se tu fai donna questo,
- Qual fiore in nuovo prato in primavera,
- Nè mi fia poscia l’aspettar molesto,
- Nè il vederti disdegnosa o altera;
- E se t’è grave, almeno a me, che presto
- Ad ogni tuo piacer son, grida fera
- Ucciditi, che io ’l farò di fatto,
- Credendoti piacere in cotal atto,
- LVII.
- Quinci diceva molte altre parole,
- Piangeva e sospirava, e di colei
- Chiamava il nome, sì come far suole
- Chi soperchio ama, ed alli suoi omei
- Mercè non trova, che tutt’eran fole
- Che perdeansi ne’ venti, che a lei
- Nulla ne perveniva, onde il tormento
- Moltiplicava ciascun giorno in cento.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE SECONDA
- * * *
- ARGOMENTO
- Comincia la seconda parte del Filostrato, nella quale Troilo manifesta il suo amore a Pandaro cugino di Griseida, il quale lui conforta, ed a Griseida scuopre l’occulto amore, e con preghi e con lusinghe la induce ad amare Troilo; e primieramente, dopo molti ragionamenti, Troilo a Pandaro, nobile giovane troiano, discuopre in tutto il suo amore.
- I.
- Standosi in cotal guisa un dì soletto
- Nella camera sua Troilo pensoso,
- Vi sopravvenne un troian giovinetto,
- D’alto lignaggio e molto coraggioso;
- Il qual veggendo lui sopra il suo letto
- Giacer disteso e tutto lagrimoso,
- Che è questo, gridò, amico caro?
- Hatti già così vinto il tempo amaro?
- II.
- Pandaro, disse Troilo, qual fortuna
- T’ha qui condotto a vedermi morire?
- Se la nostra amistade ha forza alcuna,
- Piacciati quinci volerti partire,
- Ch’io so che grave più ch’altra nessuna
- Cosa ti fia il vedermi morire;
- Ed io non sono per più stare in vita,
- Tant’è la mia virtù vinta e smarrita,
- III.
- Nè creder tu che l’assediata Troia,
- O d’armi affanno, o alcuna paura,
- Cagion mi sia della presente noia,
- Quest’è tra l’altre la mia minor cura;
- Altro mi strigne a pur voler ch’io muoia,
- Ond’io mi dolgo della mia sciagura;
- Che ciò si sia non ten curare amico,
- Ch’io ’l taccio per lo meglio e non tel dico.
- IV.
- Di Pandar crebbe allora la pietade,
- Ed il disio di voler ciò sapere,
- Ond’el seguì: se la nostra amistade,
- Come soleva, t’è ora in piacere,
- Discuopri a me qual sia la crudeltade
- Che di morir ti fa tanto calere;
- Ch’atto non è d’amico, alcuna cosa
- Al suo amico di tener nascosa.
- V.
- Io vo’ con teco partir queste pene,
- Se dar non posso a tua noia conforto,
- Perciocchè coll’amico si convene
- Ogni cosa partir, noia e diporto;
- Ed io mi credo che tu sappia bene
- Se io t’ho amato a diritto ed a torto,
- E s’io farei per te ogni gran fatto,
- E fosse che volesse ed in qual atto.
- VI.
- Troilo trasse allora un gran sospiro,
- E disse: Pandar, poscia che ti piace
- Pur di voler sentire il mio martiro,
- Dirotti brevemente che mi sface;
- Non perch’io speri che al mio disiro
- Per te si possa porre fine o pace,
- Ma sol per soddisfare al tuo gran priego,
- Al qual non so come mi metta niego.
- VII.
- Amore, incontro al qual chi si difende
- Più tosto è preso, ed adopera invano,
- D’un piacer vago tanto il cor m’accende,
- Ch’io n’ho per quel da me fatto lontano
- Ciaschedun altro; e questo sì m’offende,
- Come tu puoi veder, che la mia mano
- Appena mille volte ho temperata,
- Ch’ella non m’abbia la vita levata.
- VIII.
- Bastiti questo, caro amico mio,
- Sentir de’ miei dolori, i quai giammai
- Più non scopersi: e pregoti per Dio,
- S’alcuna fede al nostro amor tu hai,
- Ch’altrui tu non discopri tal disio,
- Che noia men potria seguire assai.
- Tu sai quel c’hai voluto, vanne, e lascia
- Qui me combatter colla mia ambascia.
- IX.
- O, disse Pandar, come hai tu potuto
- Tenermi tanto tal fuoco nascoso?
- Che t’avrei dato consiglio o aiuto,
- E trovato alcun modo al tuo riposo.
- A cui Troilo disse: come avuto
- Da te l’avrei, che sempre te doglioso
- Per amor vidi, e non ten sai atare?
- Me dunque come credi sodisfare?
- X.
- Pandaro disse: Troilo, io conosco
- Che tu di’ il ver, ma spesse volte avviene,
- Che quei che sè non sa guardar dal tosco,
- Altrui per buon consiglio salvo tiene:
- E già veduto s’è andare il losco
- Dove l’alluminato non va bene;
- E benchè l’uom non prenda buon consiglio,
- Donar lo puote nell’altrui periglio.
- XI.
- Io ho amato sventuratamente,
- Ed amo ancora per lo mio peccato;
- E ciò avvien, perchè celatamente
- Non ho, siccome tu, altrui amato.
- Sarà che Dio vorrà; ultimamente,
- L’amore ch’io t’ho sempre mai portato,
- Ti porto e porterò, nè giammai fia
- Chi sappia che da te detto mi sia.
- XII.
- Però ti rendi, amico mio, sicuro
- Di me, e dimmi chi ti sia cagione
- Di questo viver sì noioso e duro,
- Nè temer mai di mia riprensïone
- D’amor, perocchè que’ che savii furo
- Ne dichiarar con lor savio sermone,
- Ch’amor di cuore non potea esser tolto,
- Se non da sè per lungo tempo sciolto.
- XIII.
- Lascia l’angoscia tua, lascia i sospiri,
- E ragionando mitiga il dolore;
- Così facendo passano i martirj,
- E molto ancora menoma l’ardore,
- Quando compagni in simili desiri
- Colui si vede il quale è amatore;
- Ed io, come tu sai, contra mia voglia
- Amo, nè mi può tor nè crescer doglia.
- XIV.
- Forse fia tal colei che ti tormenta,
- Che ’n tuo piacer potrò operare assai,
- Ed io farei la tua voglia contenta,
- Se io potessi, più ch’io non fei mai
- La mia; tu il vederai: fa’ ch’io senta
- Chi sia colei per cui questa pena hai;
- Leva su, non giacer, pensa che meco
- Ragionar puoi come con esso teco.
- XV.
- Si stette Troilo alquanto sospeso,
- E dopo il trarre d’un sospiro amaro,
- E di rossor nel viso tutto acceso
- Per vergogna, rispose: amico caro,
- Cagione assai onesta m’ha difeso
- Di farti l’amor mio palese e chiaro,
- Perocchè quella che qui m’ha condotto
- È tua parente; e più non fece motto;
- XVI.
- E sopra il letto ricadde supino,
- Piangendo forte e nascondendo il viso.
- A cui Pandaro disse: amico fino,
- Poca fidanza t’ha nel petto miso
- Cotal sospetto; orsù lascia il tapino
- Pianto che fai, che io non sia ucciso;
- Se quella ch’ami fosse mia sorella,
- A mio potere avrai tuo piacer d’ella.
- XVII.
- Leva su, dimmi, di’ chi è costei,
- Dillomi tosto sì ch’io veggia via
- Al tuo conforto, ch’altro non vorrei.
- È ella donna che sia in casa mia?
- Deh dimmel tosto, che s’ella è colei,
- Ch’io vo meco pensando ch’ella sia,
- Non credo che trapassi il giorno sesto,
- Che ti trarrò di stato sì molesto.
- XVIII.
- Troilo a questo nulla rispondea,
- Ma ciascun’ora più ’l viso turava;
- E pure udendo ciò che promettea
- Pandaro, seco alquanto più sperava:
- E’ volea dire, e poi si ritenea,
- Tanto d’aprirlo a lui si vergognava;
- Ma stimolandol Pandaro, si volse
- Ver lui piangendo, e tai parole sciolse.
- XIX.
- Pandaro mio, vorrei esser già morto,
- Pensando a quel ch’amore m’ha sospinto,
- E s’io potessi senza farti torto
- Celarlo, già non men sarei infinto;
- Ma più non posso, e se tu sei accorto
- Siccome suoi, veder puoi che distinto
- Amor non ha che l’uomo ami per legge,
- Fuor che colei cui l’appetito elegge.
- XX.
- Altri, come tu sai, amar le suore,
- E le suore i fratelli, e le figliuole
- Talvolta i padri, e’ suoceri le nuore,
- Le matrigne i figliastri talor suole
- Anche avvenir; ma me ha preso amore
- Per tua cugina, il che forte mi duole,
- Io dico per Griseida: e questo detto,
- Boccon piangendo ricadde in sul letto.
- XXI.
- Come Pandaro udì colei nomare,
- Così ridendo disse: amico mio,
- Per Dio ti prego non ti sconfortare;
- Amore ha posto in parte il tuo disio,
- Tal ch’el non lo potea meglio allogare,
- Perch’ella il val veracemente, s’io
- M’intendo di costumi, o di grandezza
- D’animo, o di valore o di bellezza.
- XXII.
- Nulla donna fu mai più valorosa,
- Nulla ne fu più lieta e più parlante,
- Nulla più da gradir nè più graziosa,
- Nulla di maggior animo tra quante
- Ne furon mai; nè è sì alta cosa
- Ch’ella non imprendesse tanto avante
- Quanto alcun re, e che ’l cuor non le desse
- Di trarla a fine, sol che si potesse.
- XXIII.
- Solo una cosa alquanto a te molesta
- Ha mia cugina in sè oltre alle dette,
- Che ella è più che altra donna onesta,
- E più d’amore ha le cose dispette:
- Ma s’altro non ci noia, credi a questa
- Troverò modo con mie parolette
- Qual ti bisogna; possi tu soffrire,
- Ben raffrenando il tuo caldo disire.
- XXIV.
- Ben puoi dunque veder ch’amor t’ha posto
- In luogo degno della tua virtute;
- Sta’ dunque fermo nell’alto proposto,
- E bene spera della tua salute,
- La quale credo che seguirà tosto,
- Se tu col pianto tuo non la rifiute;
- Tu se’ di lei ed ella è di te degno,
- Ed io ci adoprerò tutto ’l mio ingegno.
- XXV.
- Non creder, Troilo, ch’io non vegga bene
- Non convenirsi a donna valorosa
- Sì fatti amori, e quel ch’a me ne viene,
- Ed a lei ed a’ suoi, se cotal cosa
- Alla bocca del volgo mai perviene,
- Che, per follia di noi, vituperosa
- È divenuta, dove esser solea
- Onor, dappoi per amor sì facea.
- XXVI.
- Ma perciocchè ’l disio s’è impedito
- All’operare, e tutto simigliante
- Non conosciuto, parmi per partito
- Poter pigliar, che ciascheduno amante
- Possa seguire il suo alto appetito,
- Sol che sia savio in fatto ed in sembiante,
- Senza vergogna alcuna di coloro
- A cui tien la vergogna e l’onor loro.
- XXVII.
- Io credo certo, ch’ogni donna in voglia
- Viva amorosa, e null’altro l’affrena
- Che tema di vergogna; e se a tal doglia,
- Onestamente medicina piena
- Si può donar, folle è chi non la spoglia,
- E poco parmi gli cuoca la pena.
- La mia cugina è vedova, e disia;
- E se ’l negasse nol gliel crederia.
- XXVIII.
- Poichè sentendo te saggio ed accorto,
- A lei e ad amendue posso piacere,
- E a ciascuno donar pari conforto,
- Poscia che occulto il dovete tenere,
- E fia come non fosse; e farei torto,
- Se in ciò non ne facessi il mio potere
- In tuo servigio; e tu sii saggio poi,
- Nel tener chiuso tal’opera altroi.
- XXIX.
- Udiva Troilo Pandaro contento
- Sì nella mente, ch’esser gli parea
- Quasi già fuor di tutto il suo tormento,
- E più nel suo amor si raccendea.
- Ma poichè alquanto stato fu attento,
- A Pandaro si volse e gli dicea:
- Io credo ciò che tu di’ di costei,
- Ma troppo ne par più agli occhi miei.
- XXX.
- Ma come mancherà però l’ardore
- Ch’io porto dentro, ch’io non vidi mai
- Che ella s’accorgesse del mio amore?
- Ella nol crederà se tu il dirai:
- Poi per tema di te, questo furore
- Biasimerà, e niente farai;
- E se nel cuor l’avesse, per mostrarti
- D’essere onesta, non vorrà ascoltarti.
- XXXI.
- Ed oltre a questo, Pandar, non vorria
- Che tu credessi che io disiassi
- Di cotal donna alcuna villania,
- Ma che le fosse a grado ch’io l’amassi
- Solamente vorrei, questo mi fia
- Sovrana grazia se io la impetrassi;
- Di questo cerca, e più non ti dimando;
- Poi abbassò il viso alquanto vergognando.
- XXXII.
- A cui ridendo Pandaro rispose:
- Niente nuoce ciò che tu ragioni,
- Lascia far me, che le fiamme amorose
- Ho per le mani, e sì fatti sermoni,
- E seppi già recar più alte cose
- Al fine suo con nuove condizioni;
- Questa fatica tutta sarà mia,
- E ’l dolce fine tuo voglio che sia.
- XXXIII.
- Troilo destro si gittò in terra
- Dal letto, lui abbracciando e baciando,
- Giurando appresso che la greca guerra
- Vincer nulla sariegli trionfando,
- Appresso a quest’ardor che tanto il serra:
- Pandaro mio, io mi ti raccomando,
- Tu savio, tu amico, tu sai tutto
- Ciò che bisogni a dar fine al mio lutto.
- XXXIV.
- Pandaro disioso di servire
- Il giovinetto, il quale molto amava,
- Lasciato lui dove gli piacque gire,
- Sen gì ver dove Griseida stava;
- La qual veggendo lui a sè venire,
- Levata in piè da lunge il salutava,
- E Pandar lei, che per la man pigliata,
- In una loggia seco l’ha menata.
- XXXV.
- Quivi con risa e con dolci parole,
- Con lieti motti e con ragionamenti
- Parentevoli assai, sì come suole
- Farsi talvolta tra congiunte genti,
- Si stette alquanto, come quei che vuole
- Al suo proposto con nuovi argomenti
- Venire, se il potrà, e nel bel viso
- Cominciò forte a riguardarla fiso.
- XXXVI.
- Griseida che ’l vede, sorridendo
- Disse: cugin, non mi vedesti mai,
- Che tu mi vai così mente tenendo?
- A cui rispose Pandaro: ben sai
- Ch’io t’ho veduta e di vederti intendo;
- Ma tu mi par più che l’usato assai
- Bella, ed hai più di che lodare Iddio,
- Che altra bella donna al parer mio.
- XXXVII.
- Griseida disse: che vuol dir codesto?
- Perchè più ora che per lo passato?
- A cui Pandar rispose lieto e presto:
- Perchè il tuo è il più avventurato
- Viso, che mai donna avesse in questo
- Mondo, s’io non mi sono ingannato;
- A sì fatto uomo ho sentito che piace
- Oltre misura sì, che se ne sface.
- XXXVIII.
- Griseida alquanto arrossì vergognosa
- Udendo ciò che Pandaro diceva,
- E rassembrava a mattutina rosa;
- Poi tai parole a Pandaro moveva:
- Non ti far beffe di me, che gioiosa
- D’ogni tuo ben sarei, poco doveva
- Avere a far colui a cui io piacqui,
- Che mai più non m’avvenne poi ch’io nacqui.
- XXIX.
- Lasciamo stare i motti, disse allora
- Pandaro: dimmi se’ ten tu accorta?
- A cui ella rispose: non è ancora
- Più d’un che d’altro, s’io non sia morta;
- È vero ch’io ci veggo ad ora ad ora
- Passare alcun, che sempre alla mia porta
- Rimira, nè so io se va cercando
- Di veder me, o d’altro va musando.
- XL.
- Pandaro disse allora: chi è colui?
- A cui Griseida disse: veramente
- Io nol conosco, nè ti so di lui
- Più oltre dire. E Pandaro, che sente
- Che di Troilo non dice, ma d’altrui,
- Così seguì a lei subitamente:
- Non è colui il qual tu hai feruto,
- Uom che non sia da tutti conosciuto.
- XLI.
- Chi è dunque colui che si diletta
- Sì di vedermi? Griseida disse.
- A cui Pandaro allora: giovinetta,
- Poichè colui che il mondo circonscrisse,
- Fece il primo uom, non credo più perfetta
- Anima in alcun altro mai inserisse,
- Che quella di colui che t’ama tanto,
- Che dir non si potrebbe giammai quanto.
- XLII.
- Egli è d’animo altiero e di linguaggio,
- Onesto molto, e cupido d’onore;
- Di senno natural più ch’altro uom saggio,
- Nè di scïenza n’è alcun maggiore;
- Prode ed ardito, e chiaro nel visaggio;
- Io non potrei dir tutto il suo valore;
- Deh quanto ell’è felice tua bellezza,
- Poichè tal uomo più ch’altra l’apprezza!
- XLIII.
- Ben’è la gemma posta nell’anello,
- Se tu se’ savia come tu se’ bella.
- Se tu diventi sua, così com’ello
- È divenuto tuo, ben fia la stella
- Giunta col sole; nè mai fu donzello
- Giunto sì bene ad alcuna donzella,
- Come tu seco, se savia sarai:
- Beata a te se tu ’l conoscerai.
- XLIV.
- Sol una volta ha nel mondo ventura
- Qualunque vive, se la sa pigliare;
- Chi lei vegnente lascia, sua sciagura
- Pianga da sè senz’altrui biasimare:
- La tua vaga e bellissima figura
- La t’ha trovata, or sappila adoprare:
- Lascia me pianger, che ’n mal’ora nacqui,
- Ch’a Dio, e al mondo, ed a fortuna spiacqui.
- XLV.
- Tentimi tu, o parli daddovero,
- Griseida disse, o se’ del senno uscito?
- Chi deve aver di me piacere intero
- Se già non divenisse mio marito?
- Ma dimmi, chi è questi, è istraniero
- O cittadin, ch’è per me sì smarrito;
- Dimmel se vuoi, se pur dir me lo dei,
- E non chiamar senza cagion gli omei.
- XLVI.
- Pandaro disse: egli è pur cittadino,
- Nè de’ minori, e mio amico molto;
- Del qual, per forza forse di destino,
- Tratto ho del petto ciò ch’io t’ho disciolto;
- E’ vive in pianto misero e meschino,
- Sì lo splendor l’accende del tuo volto:
- E perchè sappi chi cotanto t’ama,
- Troilo è quei che cotanto ti brama.
- XLVII.
- Dimorò sopra sè Griseida allora
- Pandaro riguardando, e tal divenne
- Qual da mattina l’aere si scolora,
- E con fatica le lagrime tenne
- Venute agli occhi già per cader fuora:
- Poscia, come il perduto ardir rivenne,
- Un poco prima seco mormorando,
- Così a Pandaro disse sospirando:
- XLVIII.
- Io mi credea, Pandaro, se io
- In tal follía giammai fossi caduta,
- Che se Troilo venuto nel disio
- Mi fosse mai, tu m’avessi battuta
- Non che ripresa, sì com’uom che ’l mio
- Onor cercar dovresti: oh Dio m’aiuta!
- Che faran gli altri, poi che tu t’ingegni
- Di seguir farmi gli amorosi regni?
- XLIX.
- Ben so che Troilo è grande e valoroso,
- E ciascuna gran donna ne dovria
- Esser contenta; ma poichè ’l mio sposo
- Tolto mi fu, sempre la voglia mia
- D’amore fu lontana, ed ho doglioso
- Il cuore ancor della sua morte ria,
- Ed avrò sempre mentre sarò in vita,
- Tornandomi a memoria sua partita.
- L.
- E se alcuno il mio amor dovesse
- Aver, per certo a lui il donerei,
- Sol ch’io credessi ched e’ gli piacesse:
- Ma come tu conoscer chiaro dei,
- Che le vaghezze si trovano spesse
- Chente egli ha ora, e quattro dì o sei
- Durano, e passan poscia di leggiero;
- Cambiando amor così cambia il pensiero.
- LI.
- Però mi lascia tal vita menare,
- Chente fortuna apparecchiato m’have;
- Egli troverà ben donna da amare
- Al piacer suo, e umile e soave;
- A me onesta si convien di stare:
- Pandar, per Dio, deh non ti paia grave
- Questa risposta, e lui fa’ che conforti
- Con piacer nuovi e con altri diporti.
- LII.
- Pandaro seco si tenea scornato
- Udendo il ragionar della donzella,
- E per partirsi quasi fu levato,
- Poi pur ristette, e rivolsesi ad ella,
- Dicendo: io t’ho Griseida lodato
- Quel ch’io farei a mia carnal sorella,
- O a mia figlia, o a mia moglie s’io l’avessi,
- Se i miei piacer da Dio mi sien concessi;
- LIII.
- Perocch’io sento che Troilo vale
- Cosa maggiore assai, che non sarebbe
- Il tuo amore; e vidil’ieri a tale,
- Per questo amor, che forte me n’increbbe.
- Forse nol credi, e però non ten cale;
- Ben so che a forza te n’increscerebbe,
- Se sapessi ciò ch’io del suo ardore;
- Deh increscati di lui per lo mio amore.
- LIV.
- Io non credo ch’al mondo vi sia alcuno
- Più segreto uom di lui nè con più fede,
- Ed è leal quanto ne sia nessuno,
- Nè più oltre di te disia o vede;
- Ed a te stando in vestimento bruno,
- Giovane ancora, d’amar si concede;
- Non perder tempo, pensa che vecchiezza,
- O morte, torrà via la tua bellezza.
- LV.
- Oimè, disse Griseida, tu di’ vero,
- Così ci portan gli anni a poco a poco:
- E’ più si muoion prima che ’l sentiero
- Si compia dato dal celeste fuoco:
- Ma lasciam’ora di questo il pensiero,
- E dimmi, se d’amor sollazzo e giuoco
- Ancora io posso avere, e in che maniera
- T’avvedesti di Troilo la primiera.
- LVI.
- Sorrisse allora Pandaro, e rispose:
- Io tel dirò, dappoi che ’l vuoi sapere;
- L’altrieri essendo in quiete le cose
- Per la tregua allor fatta, fu in calere
- A Troilo, ch’io con lui per selve ombrose
- M’andassi diportando; ivi a sedere
- Postici, a ragionar cominciò meco
- D’amore, e poi di lui a cantar seco.
- LVII.
- Io non gli era vicin, ma mormorare
- Udendol, ver di lui mi feci attento,
- E per quel ch’io mi possa ricordare,
- Ad amor si dolea del suo tormento,
- Dicendo: signor mio, già mi si pare
- Nel viso e ne’ sospiri ciò ch’io sento
- Dentro del cuor per leggiadra vaghezza,
- La qual m’ha preso colla sua bellezza.
- LVIII.
- Tu stai colà dov’io porto dipinta
- L’imagine che più ch’altro mi piace;
- E quivi vedi l’anima che vinta
- Dalla folgore tua pensosa giace;
- La qual la tiene intorno stretta e cinta,
- Chiamando sempre quella dolce pace,
- Che gli occhi belli e vaghi di costei
- Sol posson dar, caro signore, a lei.
- LIX.
- Dunque, per Dio, se ’l mio morir ti noia,
- Fallo sentire a questa vaga cosa,
- E lei pregando, impetra quella gioia
- Che suole a’ tuoi soggetti donar posa;
- Deh non volere, signor mio, ch’io muoia;
- Deh fa ’l per Dio, vedi che l’angosciosa
- Anima giorno e notte sempre grida,
- Tal paura ha che ella non l’uccida.
- LX.
- Dubiti tu sotto la bruna vesta
- D’accender le tue fiamme, signor mio?
- Nulla ti fia maggior gloria che questa;
- Entra nel petto suo con quel disio
- Che dimora nel mio e mi molesta;
- Deh fallo, i’ te ne prego, signor pio,
- Sicchè per te i suoi dolci sospiri,
- Conforto portino alli miei disiri.
- LXI.
- E questo detto, forte sospirando,
- Bassò la testa non so che dicendo;
- Poscia si tacque quasi lagrimando.
- In me di quel che era, ciò veggendo,
- Entrò sospetto, e proposi, che quando
- Tempo più atto fosse, un dì ridendo
- Di domandarlo ciò che la canzone
- Volesse dire, e poi della cagione.
- LXII.
- Ma tempo prima a questo non m’occorse
- Che oggi, ch’io ’l trovai tutto soletto:
- Entrando nella sua camera, in forse
- Se el vi fosse, ed egli era in sul letto,
- E me vedendo, altrove si ritolse,
- Di che io presi alquanto di sospetto;
- E fattomi più presso, che piangea
- Il trovai forte, e forte si dolea.
- LXIII.
- Come io seppi il più lo confortai,
- E con nuova arte e con diverso ingegno
- Di bocca quel ch’avesse gli cavai,
- Datagli pria la mia fede per pegno,
- Ch’io nol direi ad alcun uom giammai.
- Questa pietà mi mosse, e per lui vegno
- A te, a cui in breve ho soddisfatto
- Di quel ch’e’ prega in ogni modo e atto.
- LXIV.
- Tu che farai? starai tu altiera,
- E lascerai colui, che sè non cura
- Per amar te, a morte tanto fiera
- Venire, a rio destino o ria ventura,
- Ch’un sì fatto uomo per te amando pera?
- Almanco della tua vaga figura
- Non gli fostu nè de’ tuoi occhi cara,
- Forse il campresti ancor da morte amara.
- LXV.
- Griseida disse allora: di lontano
- Il segreto scorgesti del suo petto,
- Come ch’el fermo poi tenesse mano
- Quando il trovasti a pianger sopra il letto,
- E così ’l faccia Dio e lieto sano,
- E me ancora, come per tuo detto
- Pietà me n’è venuta; i’ non son cruda
- Come ti par, nè sì di pietà nuda.
- LXVI.
- E stata alquanto, dopo un gran sospiro,
- Trafitta già, seguì: deh io m’avveggio
- Dove ti trae il pietoso disiro,
- Ed io ’l farò, poichè piacer ten deggio,
- Ed egli il vale, bastiti s’io ’l miro;
- Ma per fuggir vergogna, e forse peggio,
- Pregalo che sia saggio, e faccia quello
- Che a me biasmo non sia, nè anche ad ello.
- LXVII.
- Sorella mia, allor Pandaro disse,
- Tu parli bene, ed io nel pregheraggio;
- Ver è che io non credo ch’el fallisse,
- Tanto il conosco costumato e saggio,
- Fuorchè per isciagura non venisse,
- Tolgalo Iddio, ed io ci metteraggio
- Compenso tal che ti sarà in piacere;
- Fatti con Dio, e fa’ il tuo dovere.
- LXVIII.
- Partito Pandar, se ne gì soletta
- Nella camera sua Griseida bella,
- Seco nel cuor ciascuna paroletta
- Rivolvendo di Pandaro e novella,
- In quella forma ch’era stata detta;
- E lieta seco ragiona e favella,
- E ’n cotal guisa spesso sospirando,
- Oltre l’usato Troilo immaginando.
- LXIX.
- Io son giovane, bella, vaga e lieta,
- Vedova, ricca, nobile ed amata,
- Senza figliuoli ed in vita quieta,
- Perchè esser non deggio innamorata?
- Se forse l’onestà questo mi vieta,
- Io sarò saggia, e terrò sì celata
- La voglia mia, che non sarà saputo
- Ch’io aggia mai nel cuore amore avuto.
- LXX.
- La giovinezza mia si fugge ognora,
- Debbol’io perder sì miseramente?
- Io non conosco in questa terra ancora
- Veruna senza amante, e la più gente,
- Com’io conosco e veggo, s’innamora,
- Ed io mi perdo il tempo per niente?
- E come gli altri far non è peccato,
- E non può esser da alcun biasimato.
- LXXI.
- Chi mi vorrà se io invecchio mai?
- Certo nessuno, e allora a ravvedersi
- Altro non è se non crescer di guai;
- Niente vale il di dietro pentersi,
- O ’l dir dolente, perchè non amai?
- Buon è adunque a tempo provvedersi;
- Costui è bello, gentil, savio ed accorto,
- Che t’ama, e fresco più che giglio d’orto;
- LXXII.
- Di real sangue e di sommo valore,
- E Pandar tuo cugin tel loda tanto:
- Dunque che fai, perchè dentro del cuore,
- Come egli ha te, lui non ricevi alquanto?
- Perchè non gli dai tu il tuo amore?
- Non odi tu la pieta del suo pianto?
- O quanto bene avrai ancor con lui,
- Se com’egli ama te tu ami lui!
- LXXIII.
- Ed ora non è tempo da marito,
- E se pur fosse, la sua libertade
- Servare è troppo più savio partito;
- L’amor che vien da sì fatta amistade
- È sempre dagli amanti più gradito;
- E sia quanto vuol grande la beltade,
- Che a’ mariti tosto non rincresca,
- Vaghi d’avere ogni dì cosa fresca.
- LXXIV.
- L’acqua furtiva, assai più dolce cosa
- È che il vin con abbondanza avuto:
- Così d’amor la gioia, che nascosa
- Trapassa assai, del sempre mai tenuto
- Marito in braccio; adunque vigorosa
- Ricevi il dolce amante, il qual venuto
- T’è fermamente mandato da Dio,
- E sodisfa’ al suo caldo disio.
- LXXV.
- E stando alquanto, poi si rivolgea
- Nell’altra parte: misera, dicendo,
- Che vuoi tu far? non sai tu quanto rea
- Vita si trae con esso amor languendo,
- Nella qual sempre convien che si stea
- In pianti, ed in sospiri, ed in dolendo?
- Avendo poi per giunta gelosia,
- Che peggio è assai che non è morte ria.
- LXXVI.
- Appresso a questo, chi al presente t’ama,
- È di troppo più alta condizione
- Che tu non se’; quest’amorosa brama
- Gli passerà, ed in abusíone
- Sempre t’avrà, e lasceratti grama,
- D’infamia piena e di confusíone:
- Guarda che fai; che il senno da sezzo
- Nè fu, nè è, nè fia mai d’alcun prezzo.
- LXXVII.
- Ma posto pur che questo amor lontano
- Debba durar, come puoi tu sapere
- Che debba star celato? assai è vano
- Fidarsi alla fortuna, e ben vedere
- Quanto uopo fa non può consiglio umano;
- Che se si scuopre aperto, puoi tenere
- La fama tua in eterno perduta,
- La qual sì buona infino a qui è suta.
- LXXVIII.
- Dunque cotali amor lasciali stare
- A cui e’ piaccion: ed appresso il detto
- Incominciava forte a sospirare,
- Nè si poteva già dal casto petto
- Il bel viso di Troilo cacciare,
- Per che tornava sopra il primo effetto
- Biasimando e lodando, e in tale erranza,
- Seco faceva lunga dimoranza.
- LXXIX.
- Pandar, che da Griseida dipartito
- S’era contento, senza altrove gire,
- A Troilo diritto se n’era ito,
- E di lontano gli cominciò a dire:
- Confortati fratel, ch’i’ ho fornito
- Gran parte, credo, del tuo gran disire.
- E postosi a seder, gli disse ratto,
- Senza interpor, com’era stato il fatto.
- LXXX.
- Quali i fioretti dal notturno gelo
- Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca,
- Tutti s’apron diritti in loro stelo;
- Cotal si fe’ di sua virtude stanca
- Troilo allora, e riguardando il cielo,
- Incominciò come persona franca:
- Lodato sia il tuo sommo valore,
- Venere bella, e del tuo figlio Amore.
- LXXXI.
- Poi Pandaro abbracciò ben mille fiate,
- E baciollo altrettante, sì contento,
- Che più non saria fatto se donate
- Gli fosser mille Troie; e lento lento
- Con Pandar solo a veder la beltate
- Di Griseida n’andò, guardando attento
- Se alcuno atto nuovo in lei vedeva,
- Per quel che Pandar ragionato aveva.
- LXXXII.
- Ella si stava ad una sua finestra,
- E forse quel ch’avvenne ell’aspettava;
- Non si mostrò selvaggia nè alpestra
- Verso di Troilo che la riguardava,
- Ma tuttavolta in sulla poppa destra
- Onestamente verso lui mirava;
- Di che allegro Troilo se ne gio,
- Grazie rendendo a Pandaro ed a Dio.
- LXXXIII.
- E quella tiepidezza che intra due
- Griseida tenea, sen fuggì via,
- Seco lodando le maniere sue,
- Gli atti piacevoli e la cortesia;
- E sì subitamente presa fue,
- Che sopra ogni altro bene lui disia,
- E duolle forte del tempo perduto,
- Che ’l suo amor non avea conosciuto.
- LXXXIV.
- Troilo canta e fa mirabil festa,
- Armeggia, spende, e dona lietamente,
- E spesso si rinnuova e cangia vesta,
- Ognora amando più ferventemente;
- E per piacer non gli è cosa molesta
- Amor seguir, mirar discretamente
- Griseida, la qual non men discreta,
- Gli si mostrava a’ tempi vaga e lieta.
- LXXXV.
- Ma come noi, per continova usanza,
- Per più legne veggiam fuoco maggiore,
- Così avvien crescendo la speranza
- Assai sovente ancor cresce l’amore:
- E quinci Troilo con maggior possanza,
- Che l’usato, sentia nel preso cuore
- L’alto disio spronarlo, onde i sospiri
- Tornar più forti che prima, e’ martirj.
- LXXXVI.
- Di che Troilo con Pandaro talvolta
- Si dolea forte: lasso me, dicendo,
- El m’ha Griseida sì la vita tolta
- Co’ suoi begli occhi, che morir n’intendo
- Per lo disio fervente che si affolta
- Sì sopra al cuor nel quale io ardo e incendo;
- Deh che farò? che contento dovria
- Solo esser della sua gran cortesia.
- LXXXVII.
- Ella mi guarda, e soffera ch’io guati
- Onestamente lei; questo dovrebbe
- Essere assai a’ miei disii infiammati;
- Ma l’appetito cupido vorrebbe
- Non so che più, sì mal son regolati
- Gli ardor che ’l muovon, che nol crederebbe
- Chi nol provasse, quanto mi tormenta
- Tal fiamma, che maggiore ognor diventa.
- LXXXVIII.
- Che farò dunque? io non so che mi fare,
- Se non chiamarti Griseida bella;
- Tu sola se’ che mi puoi aiutare,
- Tu valorosa donna, tu se’ quella
- Che sola puoi il mio fuoco attutare,
- O dolce luce e del mio cuor fiammella;
- Or foss’io teco una notte di verno,
- Cento cinquanta poi stessi in inferno.
- LXXXIX.
- Che farò Pandar? Tu non di’ niente?
- Tu mi vedi ardere in sì fatto fuoco,
- E vista fai di non aver la mente
- A’ miei sospiri, dove ch’io mi cuoco;
- Aiutami, io ten prego caramente,
- Dimmi ch’io faccia, consigliami un poco;
- Che se da te o da lei non ho soccorso,
- Di morte nelle reti son trascorso.
- XC.
- Pandaro disse allora: io veggio bene
- Ed odo quanto di’, nè sonmi infinto,
- Nè mai m’infingerò alle tue pene
- Donare aiuto, e sempre son succinto
- A far non sol per te ciò che conviene,
- Ma ogni cosa senza esser sospinto
- O da forza o da prego: fa’ tu ch’io
- Aperto veggia il tuo caldo disio.
- XCI.
- Io so che in ogni cosa per un sei
- Tu vedi più di me, ma tuttavia
- S’io fossi in te, intiera scriverei
- Ad essa di mia man la pena mia;
- E sopra ciò, per Dio la pregherei,
- E per amore e per sua cortesia,
- Che di me le calesse, e questo scritto,
- Io glielo porterò senza rispitto.
- XCII.
- Ed oltre a questo, ancora a mio potere
- La pregherò ch’abbia di te mercede:
- Quel ch’ella rispondrà potrai vedere,
- E già di certo l’animo mio crede,
- Che sua risposta ti dovrà piacere;
- E però scrivi, e ponvi ogni tua fede,
- Ogni tua pena, ed il disio appresso,
- Nulla lasciar che non vi sia espresso.
- XCIII.
- Questo consiglio a Troilo piacque assai,
- Ma come amante timido, rispose:
- Oimè, Pandaro, che tu vederai,
- Come si vede che son vergognose
- Le donne, che lo scritto che portrai,
- Griseida per vergogna, con noiose
- Parole rifiutarlo, e peggiorato
- Avremo oltre misura il nostro stato.
- XCIV.
- A ciò Pandaro disse: se ti piace
- Fa’ quel ch’io dico, e poi mi lascia fare;
- Che se amore mi ponga in la sua pace,
- Io te ne credo risposta recare
- Di sua man fatta; e se ciò ti dispiace,
- Timido e tristo te ne puoi stare,
- Ripeterai poi te del tuo tormento,
- Per me non rimarrà farti contento.
- XCV.
- Allora disse Troilo: fatto sia
- Il piacer tuo; io vado e scriveraggio;
- Ed amor prego per sua cortesia,
- Lo scrivere, e la lettera, e il viaggio
- Fruttevol faccia. E di quindi s’invia
- Alla camera sua, e come saggio
- Alla sua donna carissima scrisse
- Una lettera presto, e così disse.
- XCVI.
- Come può quegli che in affanno è posto,
- In pianto grave e in istato molesto,
- Come io son per te, donna, disposto
- Ad alcun dar salute? certo chiesto
- Esser non dee da lui; ond’io mi scosto
- Da quel che fanno gli altri; e sol per questo
- Qui da me salutata non sarai,
- Perch’io non l’ho se tu non la mi dai.
- XCVII.
- Io non posso fuggir quel ch’amor vuole,
- Il qual più vil di me fe’ già ardito,
- Ed el mi strigne a scriver le parole,
- Come vedrai, e vuol pure obbedito
- Esser da me, siccome egli esser suole;
- Però se per me fia in ciò fallito,
- Lui ne riprendi, ed a me perdonanza
- Ti prego doni, dolce mia speranza.
- XCVIII.
- L’alta bellezza tua, e lo splendore
- De’ tuoi vaghi occhi e de’ costumi ornati;
- L’onesta cara e ’l donnesco valore,
- I modi e gli atti più ch’altri lodati,
- Nella mia mente hanno lui per signore,
- E te per donna in tal guisa fermati,
- Ch’altro accidente mai fuorchè la morte,
- A tirarline fuor non saria forte.
- XCIX.
- E che ch’io faccia, l’imagine bella
- Di te sempre nel cor reca un pensiero,
- Che ogn’altro caccia che d’altro favella
- Che sol di te, benchè d’altro nel vero
- All’anima non caglia, fatta ancella
- Del tuo valor, nel quale io solo spero:
- E ’l nome tuo m’è sempre nella bocca,
- E il cor con più disio ognor mi tocca.
- C.
- Da queste cose, donna, nasce un fuoco
- Che giorno e notte l’anima martira,
- Senza lasciarmi in posa trovar loco;
- Piangono gli occhi, e ’l petto ne sospira,
- E consumar mi sento a poco a poco
- Da questo ardor che dentro a me s’aggira;
- Per che ricorrere alla tua virtute
- Sol mi convien, se voglio aver salute.
- CI.
- Tu sola puoi queste pene noiose,
- Quando tu vogli, porre in dolce pace;
- Tu sola puoi l’afflizïon penose,
- Madonna, porre in riposo verace;
- Tu sola puoi con l’opere pietose
- Tormi il tormento che sì mi disface;
- Tu sola puoi, siccome donna mia,
- Adempier ciò che lo mio cuor disia.
- CII.
- Dunque, se mai per pura fede alcuno,
- Se mai per grande amor, se per disio
- Di ben servire ognora in ciascheduno
- Caso, qual si volesse o buono o rio,
- Meritò grazia, fa’ ch’io ne sia uno,
- Cara mia donna; fa’ ch’io sia quell’io,
- Che a te ricorro, sì come a colei
- Che se’ cagion di tutti i sospir miei.
- CIII.
- Assai conosco, che mai meritato
- Non fu per mio servir quel per che vegno;
- Ma sola tu che m’hai il cor piagato,
- E altro no di maggior cosa degno,
- Mi puoi far, quando vogli; o disiato
- Ben del mio cor, pon giù l’altero sdegno
- Dell’animo tuo grande, e sii umile
- Ver me, quanto negli atti se’ gentile.
- CIV.
- Ora son certo che sarai pietosa
- Come se’ bella, e la mia greve noia,
- Discretamente lieta e grazïosa,
- Senza volere ch’io misero muoia
- Per molto amarti, donna dilettosa,
- Ancora tornerà in dolce gioia.
- Io te ne prego, se ’l mio prego vale,
- Per quel amor del quale or più ti cale.
- CV.
- Io come ch’io sia un piccol dono,
- E poco possa, e vaglia molto meno,
- Senza fallo nïun tutto tuo sono:
- Or tu se’ savia, s’io non dico appieno,
- Intenderai assai me’ ch’io non ragiono,
- E spero simil che l’opere fieno
- Migliori assai che mio merto, e maggiore;
- Amore a ciò sì ti disponga il cuore.
- CVI.
- El mi restava molte cose a dire,
- Ma per non farti noia il vo’ tacere;
- E in questo fine prego il dolce sire
- Amor, che come te nel mio piacere
- Ha posto, così me nel tuo disire
- Ponga con quel medesimo volere,
- Sicchè com’io son tuo alcuna volta
- Tu mia diventi, e mai non mi sii tolta.
- CVII.
- Scritte adunque tutte queste cose
- In una carta, per ordin piegolla,
- E sulle guance tutte lagrimose
- Bagnò la gemma, e quindi suggellolla,
- E nella mano a Pandaro la pose,
- E cento volte e più prima baciolla:
- Lettera mia, dicendo, tu sarai
- Beata, in man di tal donna verrai.
- CVIII.
- Pandaro presa la lettera pia
- N’andò verso Griseida; la quale
- Come ’l vide venir, la compagnia
- Colla qual’era lasciata, cotale
- Gli si fe’ incontro parte della via,
- Qual pare in vista perla orïentale,
- Temendo e disiando; e’ salutarsi
- Di lungi assai, poi per la man pigliarsi.
- CIX.
- Quindi disse Griseida; quale affare
- Or qui ti mena? hai tu altre novelle?
- Alla qual Pandar senza dimorare
- Disse: donna, per te l’ho buone e belle,
- Ma non tai per altrui, come mostrare
- Ti potran queste scritte tapinelle
- Di colui, che per te mi par vedere
- Morir, sì poco te ne è in calere.
- CX.
- Tolle, e vedralle diligentemente,
- Ed alcuna risposta il farà lieto.
- Stette Griseida timorosamente
- Senza pigliarle, e un poco il mansueto
- Viso cambiò, e quindi pianamente
- Disse: Pandaro mio, se in quïeto
- Stato ti ponga amor, abbi rispetto
- Alquanto a me, non pure al giovinetto.
- CXI.
- Guarda se quel che chiedi or si conviene,
- E tu stesso sii giudice di questo,
- E vedi se prendendole fo bene,
- E se ’l tuo domandare è tanto onesto,
- E se si vuol per alleggiar le pene
- Altrui, per sè far atto disonesto;
- Deh non le mi lasciar Pandaro mio,
- Portale indietro per l’amor di Dio.
- CXII.
- Pandaro alquanto di questo turbato
- Disse: questo è a pensar nuova cosa,
- Che quel che più dalle donne è bramato,
- Di ciò ciascuna e ischifa e crucciosa
- Si mostra innanzi altrui: io t’ho parlato
- Tanto di questo, ch’omai vergognosa
- Non dovresti esser meco; i’ te ne priego,
- Che or di questo non mi facci niego.
- CXIII.
- Griseida sorrise lui udendo,
- E quelle prese, e messesele in seno:
- Quando avrò agio, poi a lui dicendo,
- Le vederò come saprò appieno;
- Se io fo men che ben questo facendo,
- Il non poter del tuo piacer far meno
- Me n’è cagion; Iddio dal cielo il vegga,
- Ed alla mia semplicità provvegga.
- CXIV.
- Partissi Pandar poi glie l’ebbe date,
- Ed essa vaga molto di vedere
- Quel che dicesser, sue cagion trovate,
- L’altre compagne sue lasciò a sedere,
- Ne gì nella sua camera, e spiegate,
- Lesse e rilesse quelle con piacere,
- E ben s’accorse che Troilo ardea
- Vie più assai che in atto non parea.
- CXV.
- Il che caro le fu, perchè trafitta
- Esser sentissi l’anima nel core,
- Di che ella viveva molto afflitta,
- Come che punto non paresse fuore:
- E ben notata ogni parola scritta,
- Di ciò lodò e ringraziò amore,
- Seco dicendo: a spegner questo foco
- Conviene a me trovare il tempo e ’l loco:
- CXVI.
- Che s’io il lascio in troppo grande arsura
- Moltiplicare, e’ potrebbe avvenire,
- Che nella scolorita mia figura
- Si vederebbe il nascoso disire,
- Che mi saria non piccola sciagura;
- Ed io per me non intendo morire,
- Nè far morire altrui, quando con gioia
- Posso schifar la mia e l’altrui noia.
- CXVII.
- Io non sarò per lo certo disposta,
- Siccome io sono infino ad ora stata;
- Se Pandar tornerà per la risposta,
- Io glie la darò piacevole e grata,
- Se mi costasse, come non mi costa;
- Nè di Troilo sarò mai dispietata
- Potuta dire; or foss’io nelle braccia
- Dolci di lui, stretta a faccia a faccia!
- CXVIII.
- Pandaro che da Troilo sovente
- Era studiato, a Griseida reddío,
- E sorridendo disse: donna, chente
- Ti par lo scriver dell’amico mio?
- Ella divenne rossa immantinente,
- Senza dir altro, se non: sallo Iddio.
- A cui Pandaro disse: hai tu risposto?
- Al qual ella gabbando, disse: tosto?
- CXIX.
- S’io debbo mai potere adoperare
- Per te, Pandaro disse, or fa’ di farlo.
- Ed ella a lui: io non lo so ben fare.
- Deh, disse Pandar, pensa d’appagarlo,
- E’ suole amor saper bene insegnare;
- I’ ho sì gran disio di confortarlo,
- Che tu nol crederesti in fede mia,
- La tua risposta sol questo porìa.
- CXX.
- Ed io ’l farò poichè t’aggrada tanto;
- Ma voglia Iddio che ben la cosa vada!
- Deh sì anderà, disse Pandaro, in quanto
- Colui il vale, a cui più ch’altro aggrada.
- Poi si partì: ed ella dall’un canto
- Della camera sua, dove più rada
- Usanza di venire ad ogni altro era,
- A scriver giù si pose in tal maniera:
- CXXI.
- A te amico discreto e possente,
- Il qual forte di me t’inganna amore,
- Com’uom preso per me indebitamente,
- Griseida, salvato il suo onore,
- Manda salute, e poi umilemente
- Si raccomanda al tuo alto valore,
- Vaga di compiacerti, dove sia
- L’onestà salva, e la castità mia.
- CXXII.
- I’ ho avute da colui, che t’ama
- Tanto perfettamente, che non cura
- Già d’alcuno mio onor nè di mia fama,
- Piene le carte della tua scrittura;
- Nelle quai lessi la tua vita grama
- Non senza doglia, s’io abbia ventura
- Che mi sia cara, e benchè sian fregiate
- Di lacrime, pur l’ho assai mirate.
- CXXIII.
- Ed ogni cosa con ragion pensando,
- E l’afflizione e ’l tuo addomandare,
- La fede, e la speranza esaminando,
- Non veggio com’io possa soddisfare
- Assai acconciamente al tuo dimando,
- Volendo bene e intiero riguardare
- Ciò che nel mondo più è da gradire,
- Ch’è in onestà vivere e morire.
- CXXIV.
- Come che il compiacerti saria bene,
- Se il mondo fosse tal chente dovrebbe;
- Ma perchè è tal qual è, a noi conviene
- Per forza usarlo; seguir ne potrebbe,
- Altro facendo, disperate pene;
- Alla pietà per cui di te m’increbbe,
- Malgrado mio pur mi convien dar lato,
- Di che sarai da me poco appagato.
- CXXV.
- Ma è sì grande la virtù ch’io sento
- In te, ch’io so ch’aperto vederai
- Ciò ch’a me si conviene, e che contento
- Di ciò ch’io ti rispondo tu sarai,
- E porrai modo al tuo grave tormento,
- Che nel cor mi dispiace e noia assai;
- In verità, se non si disdicesse,
- Volentier farei ciò che ti piacesse.
- CXXVI.
- Poco è lo scriver, come puoi vedere,
- Ed arte in questa lettera, la quale
- Vorrei che più ti recasse piacere,
- Ma non si può ciò che si vuole avale,
- Forse farà ancor luogo il potere
- Al buon volere, e se non ti par male,
- Presta alla pena tua alquanto sosta,
- Perchè non ha ogni detto risposta.
- CXXVII.
- Il proferir che fai, qui non ha loco,
- Che certa son ch’ogni cosa faresti;
- Ed io nel ver, come ch’io vaglia poco,
- Vie più che mille volte mi potresti
- E puoi aver per tua, se ’l crudel fuoco
- Non m’arda, il che son certa non vorresti;
- Nè dico più, se non ch’io prego Iddio
- Che ne contenti il tuo e ’l mio disio.
- CXXVIII.
- E poi ch’ell’ebbe in cotal guisa detto,
- La ripiegò, e suggellolla, e diella
- A Pandaro, il qual tosto il giovinetto
- Troilo cercando, a lui n’andò con ella,
- E presentogliel con sommo diletto;
- Il qual presala, ciò che scritto in quella
- Era con fretta lesse, e sospirando,
- Secondo le parole il cuor cambiando.
- CXXIX.
- Ma pure in fine, seco ripetendo
- Bene ogni cosa che ella scrivea,
- Disse fra sè: se io costei intendo,
- Amor la stringe, ma siccome rea,
- Sotto lo scudo ancor si va chiudendo,
- Ma non potrà, pur che forza mi dea
- Amore a sofferir, guari durare,
- Ch’ella non vegna a tutt’altro parlare.
- CXXX.
- E ’l somigliante ne pareva ancora
- A Pandaro, col qual diceva tutto;
- Per che più che l’usato si rincora
- Troilo, lasciando alquanto il tristo lutto,
- E spera in breve deggia venir l’ora
- Che al suo martiro deggia render frutto;
- E questo chiede, e dì e notte chiama,
- Come colui che solamente il brama.
- CXXXI.
- Crescea di giorno in giorno più l’ardore,
- E come che speranza l’aiutasse
- A sostener, pure era grave al core;
- E deesi a creder che assai il noiasse,
- Per che più volte dal suo gran fervore
- Stimar si può che lettere dittasse,
- Alle quai quando lieta e quando amara
- Risposta gli veniva, e spessa e rara.
- CXXXII.
- Per che sovente d’amor si dolea,
- E di fortuna cui tenea nemica,
- E spesse volte, oimè, seco dicea,
- Se un poco più la pungesse l’ortica
- D’amor, com’ella me trafigge e screa,
- La vita mia di sollazzo mendica
- Tosto verrebbe al grazïoso porto,
- Al qual prima ch’io vegna sarò morto.
- CXXXIII.
- Pandaro che sentia le fiamme accese
- Nel petto di colui che egli amava,
- Era di preghi suoi spesso cortese
- A Griseida, e tutto gli narrava
- Ciò che di Troilo vedeva palese;
- La quale ancor che lieta l’ascoltava,
- Diceva: i’ non posso altro, io gli fo quello,
- Che m’imponesti, caro mio fratello.
- CXXXIV.
- Non basta questo, Pandar rispondea,
- Io vo’ che tu ’l conforti e che gli parli.
- A cui Griseida all’incontro dicea:
- Cotesto non intendo io mai di farli,
- Che la corona dell’onestà mea
- Per partito nïun non vo’ donarli;
- Come fratel per la sua gran bontade
- L’amerò sempre, e per la sua onestade.
- CXXXV.
- Pandaro rispondea: questa corona
- Lodano i preti a cui tor non la ponno,
- E ciaschedun com’un santo ragiona,
- E poi vi colgon tutte quante al sonno.
- Di Troilo non saprà giammai persona;
- Or pena assai, e fa’ pur ben del donno.
- Assai fa mal chi può far ben nol face,
- Che ’l perder tempo a chi più sa più spiace.
- CXXXVI.
- Griseida dicea: la sua virtute
- Tenera so che è del mio onore,
- Nè da me altro che cose dovute
- Domanderia, tant’è il suo valore;
- Ed io ti giuro per la mia salute,
- Ch’io son, da quel che tu domandi in fuore,
- Sua mille volte più ch’io non son mia,
- Tanto m’aggrada la sua cortesia.
- CXXXVII.
- Se el t’aggrada, che vai tu cercando?
- Deh lascia star questa salvatichezza;
- Intendi tu che el si muoia amando?
- Ben potrai cara aver la tua bellezza
- Se uccidi un tal uom; deh dimmi, quando
- Tu vuoi ch’ei venga a te? cui e’ più prezza
- Che non fa il ciel, e dimmi come, e dove;
- Non voler vincer tutte le tue prove.
- CXXXVIII.
- Oimè lassa! a che m’hai tu condotta,
- Pandaro mio, e che vuoi tu ch’io faccia?
- Tu hai l’onestà mia spezzata e rotta,
- Io non ardisco di mirarti in faccia;
- Oimè lassa! misera, a che otta
- La riavrò? il sangue mi s’agghiaccia
- Intorno al cor, pensando quel che chiedi,
- E tu non te ne curi, e chiaro il vedi.
- CXXXIX.
- Io vorrei esser morta il giorno ch’io
- Qui nella loggia tanto t’ascoltai;
- Tu mi mettesti nel cuore un disio,
- Ch’appena credo ch’el n’esca giammai;
- E che mi fia cagion dell’onor mio
- Perdere, o lassa, e d’infiniti guai;
- Or più non posso, poichè t’è in piacere,
- Disposta sono a fare il tuo volere.
- CXL.
- Ma se alcun prego vai nel tuo cospetto,
- Ti prego, dolce e caro mio fratello,
- Che tutto ciascun nostro fatto o detto
- Occulto sia; tu puoi ben veder quello
- Che seguir ne potria, se tale affetto
- Venisse a luce: deh parlane ad ello,
- E fannel savio, e come tempo fia,
- Io farò ciò che ’l suo piacer disia.
- CXLI.
- Rispose Pandar: guarda la tua bocca,
- Che el per sè, nè io, mai il diremo.
- Ora hammi tu, diss’ella, per sì sciocca,
- Che vedi di paura tutta tremo
- Che non si sappia, ma poichè ti tocca
- L’onore e la vergogna che n’avremo
- Siccome a me, passerommene in pace,
- E tu ne fa’ omai come ti piace.
- CXLII.
- Pandar disse: di ciò non dubitare,
- Che in ciò avremo ben buona cautela;
- Quando vuoi tu che ti venga a parlare?...
- Tiriamo ormai a capo questa tela;
- Che ’l farlo tosto, poichè si dee fare,
- Fia molto meglio, e molto me’ si cela
- Dopo il fatto l’amor, poscia ch’avrete
- Composto insieme ciò che far dovrete.
- CXLIII.
- Tu sai, disse Griseida, che in questa
- Casa son donne ed altra gente meco,
- Delle quai parte alla futura festa
- Devono andare; ed allor sarò seco.
- Questa tardanza non gli sia molesta;
- Del modo e del venire allora teco
- Favellerò; fa’ pur ch’egli sia saggio,
- E sappia ben celare il suo coraggio.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE TERZA
- * * *
- ARGOMENTO
- Comincia la terza parte del Filostrato, nella quale, dopo l’invocazione, Pandaro e Troilo insieme ragionano di dovere occultare ciò che con Griseida si fa. Troilo vi va nascosamente, e dilettasi, e ragionasi con Griseida; partesi, e ritorna; e ritornato, sta in festa e in canti; e primieramente invoca l’autore.
- I.
- Fulvida luce, il raggio della quale
- Infino a questo loco m’ha guidato,
- Com’io volea per l’amorose sale;
- Or convien che ’l tuo lume duplicato
- Guidi l’ingegno mio, e faccil tale,
- Che in particella alcuna dichiarato
- Per me appaia il ben del dolce regno
- D’Amor, del qual fu fatto Troilo degno.
- II.
- Al qual regno pervien chi fedelmente
- Con senno e con virtù può sofferire
- D’amor la passione interamente;
- Per altro modo, rado pervenire
- Vi si può mai. Adunque sii presente,
- O bella donna, al mio alto disire;
- Riempi della grazia ch’io dimando,
- Le lodi tue continuerò cantando.
- III.
- Troilo ancora benchè molto ardesse,
- Nondimen bene star pur gli parea,
- Pensando sol che a Griseida piacesse,
- E ch’ella umilemente rispondea
- Alle lettere sue quando scrivesse;
- Ed ancor più, che qualor la vedea,
- Ella il guardava con sì dolce aspetto,
- Che a lui parea sentir sommo diletto.
- IV.
- Erasi Pandar, come ho detto avanti,
- Dalla donna in concordia dipartito,
- E lieto nella mente e ne’ sembianti
- Di Troilo cercava, che smarrito
- Intra lieta speranza e tristi pianti
- Lasciato avea quando se n’era gito;
- E tanto el gì in qua e ’n là cercando,
- Ch’egli il trovò in un tempio pensando.
- V.
- Il qual tantosto ch’ad esso pervenne,
- Da parte il trasse, e cominciógli a dire:
- Amico mio, tanto di te mi tenne,
- Quando uguanno ti vidi languire
- Sì forte per amor, che ’l cor sostenne
- Per te gran parte in sè del tuo martire;
- Che per darti conforto, riposato
- Non ho giammai, fin ch’io non l’ho trovato.
- VI.
- Io son per te divenuto mezzano,
- Per te gittato ho in terra il mio onore,
- Per te ho io corrotto il petto sano
- Di mia sorella, e posto l’ho nel core
- Il tuo amor; nè passerà lontano
- Tempo, che la vedrai con più dolzore,
- Che porger non ti può la mia favella,
- Quando avrai in braccio Griseida bella.
- VII.
- Ma come Iddio che tutto quanto vede,
- E tu che ’l sai, a ciò non m’ha indotto
- Di premïo speranza, ma sol fede,
- Che come amico ti porto, e condotto
- M’ha ad oprar che tu trovi mercede;
- Per ch’io ti prego, se non ti sia rotto
- Da ria fortuna il disiato bene,
- Che facci come a saggio far conviene.
- VIII.
- Tu sai ch’egli è la fama di costei
- Santa nel vulgo, nè si disse mai
- Da nullo altro che tutto ben di lei;
- Or venuto è che tu nelle man l’hai,
- E puogliel tor se fai quel che non dei,
- Benchè addivenir ciò non può mai
- Senza mia gran vergogna, che parente
- Le sono, e trattator similemente.
- IX.
- Perch’io ti prego tanto quant’io posso
- Che occulto sia tra noi questo mestiero.
- I’ ho del cuor di Griseida rimosso
- Ogni vergogna e ciaschedun pensiero
- Che contro t’era, ed hol tanto percosso
- Col ragionar del tuo amor sincero,
- Che ella t’ama, ed è disposta a fare
- Ciò che ti piacerà di comandare.
- X.
- Nè fuor che tempo manca a tale effetto,
- Il qual come l’avrai, nelle sue braccia
- Ti metterò a prenderne diletto;
- Ma per Dio fa’ che tal’opra si taccia,
- Nè t’esca fuor per caso alcun del petto,
- O caro amico mio, nè ti dispiaccia
- Se molte volte ti prego di questo,
- Tu vedi che ben ’l mio pregare è onesto.
- XI.
- Chi potria dire intera la letizia
- Che l’anima di Troilo sentiva
- Udendo Pandar? che la sua tristizia
- Com più parlava più scemando giva:
- I sospir ch’egli aveva a gran dovizia
- Gli dieder luogo, e la pena cattiva
- Si dipartì, e ’l viso lagrimoso,
- Bene sperando, divenne gioioso.
- XII.
- E sì come la nuova primavera,
- Di fronde e di fioretti gli arboscelli,
- Ignudi stati in la stagion severa,
- Di subito riveste e fagli belli;
- I prati, e’ colli, e ciascuna riviera
- Riveste d’erbe e di be’ fior novelli,
- Così di nuova gioia tosto pieno,
- Sì rise Troilo nel viso sereno.
- XIII.
- E dopo un sospiretto, riguardando
- Pandar nel viso, disse: amico caro,
- Tu ti dei ricordare e come e quando
- Già pianger mi trovasti nell’amaro
- Tempo, che io solea avere amando;
- Ed ancor simil, quando procacciaro
- Le tuo parole di voler sapere,
- Qual fosse la cagion del mio dolere;
- XIV.
- E sai quant’io mi tenni a discoprirlo
- A te, che sol mi se’ unico amico;
- Nè era alcun periglio però a dirlo,
- Benchè perciò non fosse atto pudico;
- Pensa dunque ora come consentirlo
- I’ potrei mai, che mentre teco il dico,
- Ch’altri nol senta tremo di paura,
- Tolga Iddio via cotal disavventura.
- XV.
- Ma nondimen per quello Dio ti giuro,
- Che ’l cielo e ’l mondo egualmente governa,
- E s’io non venga nelle man del duro
- Agamennon, che se mia vita eterna
- Fosse, come è mortal, tu puoi sicuro
- Viver, che a mio poter sarà interna
- Questa credenza, e in ogni atto servato
- L’onor di quella che m’ha ’l cor piagato.
- XVI.
- Quanto per me tu abbi detto e fatto
- Assai conosco e manifesto veggio,
- Nè meritar giammai in ciascun atto
- Nol ti potrei, che d’inferno e di peggio
- In paradiso posso dir m’hai tratto;
- Ma per l’amistà nostra ti richieggio,
- Che quel nome villan più non ti pogni,
- Dove sovvien dell’amico a’ bisogni;
- XVII.
- Lascialo stare alli dolenti avari,
- Cui oro induce a sì fatto servigio;
- Tu fatto l’hai per trarmi degli amari
- Pianti ov’io era, e dal duro letigio
- Che io avea co’ pensieri avversarj,
- E turbator d’ogni dolce vestigio,
- Siccome per amico si dee fare,
- Quando l’amico il vede tribolare.
- XVIII.
- E perchè tu conosca quanta piena
- Benevolenza da me t’è portata,
- I’ ho la mia sorella Polissena
- Più di bellezza ch’altra pregïata,
- Ed ancor c’è con esso lei Eléna
- Bellissima, la quale è mia cognata;
- Apri il cuor tuo, se te ne piace alcuna,
- Poi mi lascia operar con qual sia l’una.
- XIX.
- Ma poichè tanto hai fatto, assai più ch’io
- Pregato non t’avrei, metti in effetto
- Quando tempo parratti il mio disio;
- A te ricorro, e sol da te aspetto
- L’alto piacere ed il conforto mio,
- La gioia, e ’l bene, e ’l sollazzo, e ’l diletto;
- Nè più farò se non quanto dirai,
- Mio fia il diletto, e tu ’l grado n’avrai.
- XX.
- Rimase Pandar di Troilo contento,
- E ciascheduno a sue bisogna attese.
- Ma come che a Troilo ogni dì cento
- Paresse d’esser con quella alle prese,
- Pur sofferia, e con sommo argomento
- In sè reggeva l’amorose offese,
- Dando a’ pensier d’amor la notte parte,
- E ’l dì co’ suoi al faticoso marte.
- XXI.
- In questo mezzo il tempo disiato
- Da’ due amanti venne, donde fessi
- Griseida a chiamar Pandaro, e mostrato
- Tutto gliel’ha; ma Pandaro dolessi
- Di Troilo, che ’l dì davanti andato
- Era con certi, per bisogni espressi
- Della lor guerra, alquanto di lontano,
- Bench’el dovea tornare a mano a mano.
- XXII.
- Disselo a lei, il che udir gravoso
- Molto le fu, ma questo non ostante,
- Pandar, siccome amico studïoso,
- Mandò tosto per lui un presto fante,
- Il qual senza pigliare alcun riposo
- In breve spazio a Troilo fu davante,
- Il quale udito ciò perchè venia,
- Lieto per ritornar si mise in via.
- XXIII.
- E giunto a Pandar, da lui pienamente
- Intese ciò che esso far dovea;
- Laonde esso assai impazïente
- La notte attese, la qual gli parea
- Che si fuggisse, e poi tacitamente
- Con Pandar solo il suo cammin prendea
- In ver là dove Griseida stava,
- Che sola e paurosa l’aspettava.
- XXIV.
- Era la notte oscura e nebulosa
- Come Troilo volea, il quale attento
- Mirando andava ciascheduna cosa,
- Non fosse alcuna desse sturbamento,
- O poco o assai, alla sua amorosa
- Voglia, la qual del suo grave tormento
- Fosse sperava, ed in parte segreta,
- Sol se n’entrò nella casa già cheta.
- XXV.
- E in certo luogo rimoto ed oscuro,
- Come imposto gli fu, la donna attese;
- Nè gli fu l’aspettar forte nè duro,
- Nè il non veder dove fosse palese;
- Ma baldanzoso con seco e sicuro
- Spesso diceva: la donna cortese
- Tosto verrà, ed io sarò giocondo,
- Più che se sol fossi signor del mondo.
- XXVI.
- Griseida l’aveva ben sentito
- Venire, perchè acciò ch’egli intendesse,
- Com’era imposto, ell’aveva tossito;
- E perchè l’esser non gli rincrescesse,
- Spesso parlava con suono spedito,
- Ed avacciava che ciascun sen giesse
- Tosto a dormir, dicendo ch’ella avea
- Tal sonno, che vegghiar più non potea.
- XXVII.
- Poi che ciascun sen fu ito a dormire,
- E la casa rimasta tutta cheta,
- Tosto parve a Griseida di gire
- Dov’era Troilo in parte segreta,
- Il qual, com’egli la sentì venire,
- Drizzato in piè, e con la faccia lieta
- Le si fe’ incontro, tacito aspettando,
- Per esser presto ad ogni suo comando.
- XXVIII.
- Avea la donna un torchio in mano acceso,
- E tutta sola discese le scale,
- E Troilo vide aspettarla sospeso,
- Cui ella salutò, poi disse, quale
- Ella potè: signor, se io ho offeso,
- In parte tale il tuo splendor reale
- Tenendo chiuso, pregoti per Dio,
- Che mi perdoni, dolce mio disio.
- XXIX.
- A cui Troilo disse: donna bella,
- Sola speranza e ben della mia mente,
- Sempre davanti m’è stata la stella
- Del tuo bel viso splendido e lucente,
- E stata m’è più cara particella
- Questa, che ’l mio palagio certamente;
- E dimandar perdono a ciò non tocca;
- Poi l’abbracciò e baciaronsi in bocca.
- XXX.
- Non si partiron prima di quel loco,
- Che mille volte insieme s’abbracciaro
- Con dolce festa e con ardente gioco,
- Ed altrettante vie più si baciaro,
- Siccome que’ ch’ardevan d’ugual foco,
- E che l’un l’altro molto aveva caro;
- Ma come l’accoglienze si finiro,
- Salir le scale e ’n camera ne giro.
- XXXI.
- Lungo sarebbe a raccontar la festa,
- E impossibile a dire il diletto
- Che insieme preser pervenuti in questa:
- E’ si spogliarono e entraron nel letto;
- Dove la donna nell’ultima vesta
- Rimasa già, con piacevole detto
- Gli disse: speglio mio, le nuove spose
- Son la notte primiera vergognose.
- XXXII.
- A cui Troilo disse: anima mia,
- I’ te ne prego, sì ch’io t’abbia in braccio
- Ignuda sì come il mio cor disia.
- Ed ella allora: ve’ che me ne spaccio;
- E la camicia sua gittata via,
- Nelle sue braccia si raccolse avaccio;
- E strignendo l’un l’altro con fervore,
- D’amor sentiron l’ultimo valore.
- XXXIII.
- O dolce notte, e molto disiata,
- Chente fostu alli due lieti amanti!
- Se la scïenza mi fosse donata
- Che ebbero i poeti tutti quanti,
- Per me non potrebbe esser disegnata;
- Pensilo chi fu mai cotanto avanti
- Mercè d’amor, quanto furon costoro,
- E saprà in parte la letizia loro.
- XXXIV.
- E’ non uscir di braccio l’uno all’altro
- Tutta la notte, e tenendosi in braccio,
- Si credeano esser tolti l’uno all’altro,
- O che non fosse ver che insieme in braccio,
- Siccome elli eran, fosse l’uno all’altro;
- Ma sognar si credean d’essere in braccio;
- E l’uno all’altro domandava spesso,
- O t’ho io in braccio, o sogno, o se’ tu desso?
- XXXV.
- E’ si miravan con tanto disio,
- Che l’un dall’altro gli occhi non torcea,
- E l’uno all’altro diceva: amor mio,
- Deh può egli esser ch’io con teco stea?
- Sì cuor del corpo, mercè n’abbia Dio,
- Sovente l’uno all’altro rispondea,
- E strignendosi forte spessamente,
- Si baciavano insieme dolcemente.
- XXXVI.
- Troilo spesso i begli occhi amorosi
- Baciava di Griseida, dicendo:
- Voi mi metteste nel cuor sì focosi
- Dardi d’amor, de’ quali io tutto incendo;
- Voi mi pigliaste ed io non mi nascosi,
- Come suol far chi dubita, fuggendo;
- Voi mi tenete e sempre mi terrete
- Occhi miei bei nell’amorosa rete.
- XXXVII.
- Poi gli baciava e ribaciava ancora,
- E Griseida ancora i suoi baciava;
- Poi tutto il viso e ’l petto, e nessun’ora
- Senza mille sospiri valicava,
- Non de’ dolenti per cui si scolora,
- Ma di que’ pii, pe’ quai si dimostrava
- L’affezïon che giaceva nel petto,
- E dopo quei rinnovava il diletto.
- XXXVIII.
- Deh pensin qui gli dolorosi avari,
- Che biasiman chi è innamorato,
- E chi, come fan essi, a far denari
- In alcun modo non s’è tutto dato,
- E guardin se tenendoli ben cari
- Tanto piacer fu mai da lor prestato,
- Quanto ne presta amore in un sol punto,
- A cui egli è con ventura congiunto.
- XXXIX.
- Ei diranno di sì, ma mentiranno;
- E questo amor, dolorosa pazzia
- Con risa e con ischerzi chiameranno;
- Senza veder, che sola un’ora fia
- Quella che sè e’ denari perderanno,
- Senza aver gioia saputo che sia
- Nella lor vita: Iddio gli faccia tristi,
- Ed agli amanti doni i loro acquisti.
- XL.
- Rassicurati insieme i due amanti,
- Insieme incominciaro a ragionare,
- E l’uno all’altro i preteriti pianti,
- E l’angosce e’ sospiri a raccontare;
- E tai ragionamenti tutti quanti
- Spesso rompean con fervente baciare,
- Ed isbandendo la passata noia,
- Prendeano insieme dilettosa gioia.
- XLI.
- Ragion non vi si fece di dormire,
- Ma che la notte non venisse meno
- Per bene assai vegghiare avean disire;
- Sazïarsi l’un dell’altro non potieno,
- Quantunque molto fosse il fare e il dire,
- Ciò che a quel atto appartener credieno;
- E senza invan lasciar correr le dotte
- Tutte l’adoperaron quella notte.
- XLII.
- Ma poich’e’ galli presso al giorno udiro
- Cantar, per l’aurora che sorgea,
- Dell’abbracciar si rinfocò il desiro,
- Dolendosi dell’ora che dovea
- Lor dipartire, ed in nuovo martiro,
- Il qual nessuno ancor provato avea,
- Porli, per l’esser da lor seperati,
- Vie più che mai d’amor ora infiammati.
- XLIII.
- Li quai come Griseida cantare
- Sentì, dolente disse: o amor mio,
- Ora si fa da doversi levare,
- Se ben vogliam celar nostro disio;
- Ma io ti voglio, amor mio, abbracciare,
- Pria che ti levi, un poco, acciocchè io
- Men doglia senta della tua partita,
- Deh abbraccia tu me, dolce mia vita.
- XLIV.
- Troilo l’abbracciò quasi piangendo,
- E strignendola forte la baciava,
- Il giorno che venía maledicendo,
- Che lor così avaccio separava;
- Poi cominciò in verso lei dicendo:
- Il dipartir senza modo mi grava;
- Come partir da te mi debbo mai,
- Che ’l ben ch’io sento, donna, tu mel dai?
- XLV.
- Non so com’io non mora pur pensando
- Ch’andar me ne convien contra il volere,
- E già di vita ch’io n’ho preso bando,
- E morte sopra me molto ha potere,
- Nè so del ritornar come nè quando;
- O fortuna, perchè da tal piacere
- Lontani me, che più d’altro mi piace,
- Perchè mi togli il sollazzo e la pace?
- XLVI.
- Deh che farò? se già nel primo passo
- Sì mi strigne il disio di ritornarci,
- Che vita nol sostiene, oimè lasso?
- Deh perchè vien sì tosto a allontanarci
- O dispietato giorno? quando basso
- Sarai che io ti veggi a ristorarci?
- Oimè che io non so! Quindi rivolto
- A Griseida baciava il fresco volto,
- XLVII.
- Dicendo: s’io credessi in la tua mente,
- Donna mia bella, sì com’io ti tegno
- Dentro alla mia, star continuamente,
- Più caro mi saria che ’l troian regno,
- E di questo partir saria paziente,
- Poscia che a quel contra mia voglia vegno,
- E spererei tornarci a tempo e loco,
- A temperar com’ora il nostro fuoco.
- XLVIII.
- Griseida gli rispose sospirando,
- Mentre che stretto nelle braccia il tiene:
- Anima mia, i’ udii, ragionando
- Già è assai, se mi ricordo bene,
- Che amore è uno spirto avaro, e quando
- Alcuna cosa prende, sì la tiene
- Serrata forte e stretta con gli artigli,
- Ch’a liberarla invan si dan consigli.
- XLIX.
- Egli ha ghermito me in tal maniera
- Per te, caro mio ben, che s’io volessi
- Ritornarmi ora quale prima m’era,
- Non ti cappia nel capo ch’io potessi;
- Tu mi se’ sempre da mane e da sera
- Nella mente fermato; e s’io credessi
- Così essere a te, io mi terrei
- Beata più che chieder non saprei.
- L.
- Però sicuro vivi del mio amore,
- Il qual mai per altrui più non provai;
- E se ’l tornarci disii con fervore,
- Io il disio vie più di te assai,
- Nè prima mi fien date lecite ore
- Sopra di me, che tu ci tornerai;
- Cuor del mio corpo i’ mi ti raccomando;
- E così detto il baciò sospirando.
- LI.
- Levossi Troilo contro a suo volere,
- Poi che baciata l’ebbe cento volte:
- Ma pur veggendo quel ch’era dovere,
- Sì vesti tutto, e poscia dopo molte
- Parole, disse: io fo il tuo volere,
- Io me ne vo; fa’ che non mi sian tolte
- Le tue promesse, e accomandoti a Dio,
- E teco lascio lo spirito mio.
- LII.
- A lei non venne alla risposta voce,
- Tanta noia la strinse il suo partire
- Ma Troilo quindi con passo veloce,
- Ver lo palagio suo ne prese a gire;
- E’ sente ben ch’amor vie più lo cuoce
- Che non faceva prima nel disire,
- Tanto ha da più Griseida trovata,
- Che seco non l’avea prima stimata.
- LIII.
- Tornato Troilo nel real palagio,
- Tacitamente se n’entrò nel letto,
- Per dormir se potesse alquanto ad agio;
- Ma non gli potè entrar sonno nel petto,
- Sì gli facean nuovi pensier disagio,
- Rammemorando il passato diletto,
- Pensando seco quanto più valeva
- Griseida bella, ch’el non si credeva.
- LIV.
- E giva ciascun atto rivolgendo
- Nel suo pensiero, e il savio ragionare;
- E seco spesso ancora ripetendo
- Il piacevole e ’l dolce motteggiare;
- L’amor di lei ancor giva sentendo
- Troppo maggior che nel suo immaginare;
- E con tali pensier più s’accendea
- In amor forte, e non se n’avvedea.
- LV.
- Griseida seco facea il simigliante,
- Di Troilo parlando nel suo core;
- E seco lieta di sì fatto amante,
- Grazie infinite ne rendea ad amore:
- E parle ben mille anni che davante
- A lei ritorni il suo vago amatore,
- E ch’ella il tenga in braccio e baci spesso,
- Come la notte avea fatto d’appresso.
- LVI.
- Fu la mattina: Pandaro venuto
- A Troilo levato, e’ salutollo,
- E Troilo gli rendè il suo saluto,
- E con disio gli si gittò al collo:
- Pandaro mio, tu sii il ben venuto:
- E nella fronte con amor baciollo;
- Tu m’hai d’inferno messo in paradiso,
- Amico mio, se io non sia ucciso.
- LVII.
- Io non potrei giammai operar tanto
- Se per te mille volte il dì morisse,
- Che io facessi un atamo di quanto
- Conosco aperto ti si convenisse:
- Tu m’hai in gioia posto d’aspro pianto;
- E da capo baciollo, e quindi disse:
- Dolce mio ben, che contento mi fai,
- Quando sarà ch’io più ti tenga mai?
- LVIII.
- Non vede il sol, che tutto il mondo vede,
- Sì bella donna nè tanto piacente,
- Se le parole mie meritan fede,
- Sì costumata, vaga ed avvenente,
- Quanto lei, la cui buona mercede,
- Più ch’altro i’ vivo allegro veramente;
- Lodato sia amor che mi fe’ suo,
- E similmente il buon servigio tuo.
- LIX.
- Dunque non m’hai poca cosa donata,
- Nè me a poca cosa donat’hai:
- La vita mia ti fia sempre obbligata,
- E ad ogni tuo piacer sempre l’avrai;
- Tu l’hai da morte a vita suscitata:
- E qui si tacque allegro più che mai.
- Pandaro uditol, stette alquanto, e poi
- Così rispose lieto a’ detti suoi:
- LX.
- S’i’ ho, bel dolce amico, fatta cosa
- Che ti sia grata, assai ne son contento,
- Ed émmi sommamente grazïosa ,
- Ma nondimen più che mai ti rammento
- Che ponghi freno alla mente amorosa,
- E sii savio, che dove ’l tormento
- Hai tolto via con dilettosa gioia,
- Per favellar non ti ritorni in noia.
- LXI.
- Io ’l farò sicchè a grado sieti,
- Rispose Troilo al suo caro amico;
- Poi gli contò gli accidenti suoi lieti
- Con somma festa, e seguì: ben ti dico
- Ch’io non fu’ mai d’amor dentro alle reti
- Com’io son ora, e vie più che l’antico
- Ora mi cuoce il fuoco che tratto aggio
- Degli occhi di Griseida e del visaggio.
- LXII.
- Io ardo più che mai, ma questo fuoco
- Ch’io sento nuovo, è d’altra qualitate
- Che quel di prima; or mi rinfresca il giuoco,
- Sempre nel cor pensando alla beltate
- Che n’è cagion; ma vero è che un poco
- Le voglie mie più calde che l’usate
- Fa di tornar nell’amorose braccia,
- E di baciar la delicata faccia.
- LXIII.
- Saziar non si poteva il giovinetto
- Di ragionar con Pandaro del bene
- Il qual sentito aveva, e del diletto,
- E del conforto dato alle sue pene,
- E dell’amor che portava perfetto
- A Griseida, in cui sola la spene
- Aveva posta, e messone in oblio
- Ogni suo altro fatto e gran disio.
- LXIV.
- Fra picciol tempo, la lieta fortuna
- Di Troilo, rendè luogo a’ suoi amori;
- Il qual, poscia che fu la notte bruna,
- Dei suo palagio solo uscito fuori,
- Senza nel ciel vedere stella alcuna,
- Per lo cammino usato a’ suoi dolzori
- Nascosamente se n’entrò, e cheto
- Nel luogo usato e’ si stette segreto.
- LXV.
- Come Griseida l’altra volta venne,
- Così a tempo venne questa volta,
- Ed il modo di prima tutto tenne;
- E poi che lieta e grazïosa accolta
- Fatta s’ebber fra lor quanto convenne,
- Presi per man con allegrezza molta
- Nella camera insieme se n’entraro,
- E senza indugio alcun si coricaro.
- LXVI.
- Come Griseida Troilo in braccio ebbe,
- Così gioiosa cominciò a dire:
- Qual donna fu, o mai esser potrebbe,
- La qual potesse tanto ben sentire
- Quant’io fo or? Deh chi se ne terrebbe,
- Di non dovere a mano a man morire,
- Se altro non potesse, per avere
- Un poco sol di così gran piacere?
- LXVII.
- Poi cominciava: dolce l’amor mio,
- Io non so che mi dir, nè mai potrei
- Dir la dolcezza e ’l focoso disio
- Che m’hai nel petto messo, ov’io vorrei
- Aver te tutto sempre sì com’io
- V’ho l’imagine tua; nè chiederei
- A Giove più, se questo mi facesse,
- Che sì com’ora sempre mi tenesse.
- LXVIII.
- Io non mi credo ch’el possa giammai
- Questo fuoco allenar, com’io credea
- Che el facesse, poi che insieme assai
- Fossimo stati, ma ben non vedea;
- L’acqua del fabbro su gettata ci hai,
- Sicchè egli arde più che non facea,
- Perchè mai non t’amai quant’ora t’amo,
- Che giorno e notte ti disio e bramo.
- LXIX.
- Troilo a lei diceva il simigliante,
- Tenendosi amendue in braccio stretti;
- E motteggiando usavan tutte quante
- Quelle parole, ch’a cotai diletti
- Si soglion dir tra l’uno e l’altro amante,
- Baciandosi le bocche, gli occhi e’ petti,
- Rendendo l’uno all’altro le salute,
- Che scrivendosi insieme eran taciute.
- LXX.
- Ma il nemico giorno s’appressava,
- Come per segno si sentiva aperto,
- Il qual ciascun cruccioso bestemmiava,
- Parendo lor ch’egli si fosse offerto
- Più tosto assai ch’offrirsi non usava,
- Il che doleva a ciascun per lo certo;
- Ma poi che più non si poteva, allora
- Ciascun su si levò senza dimora.
- LXXI.
- L’uno dall’altro fece dipartenza
- Al modo usato, dopo più sospiri;
- E nel futuro, ordinaron che senza
- Indugio si tornasse a que’ disiri;
- Sicchè potesser colla lor presenza
- Rattemperar gli amorosi martirj,
- Ed operar sì lieta gioventute
- Mentre durasse in sì fatta salute.
- LXXII.
- Era contento Troilo, ed in canti
- Menava la sua vita e in allegrezza:
- L’alte bellezze ed i vaghi sembianti
- Di qualunque altra donna nulla prezza,
- Fuor che la sua Griseida, e tutti quanti
- Gli altri uomin vivere in trista gramezza,
- A rispetto di sè, seco credeva;
- Tanto il suo ben gli aggradiva e piaceva.
- LXXIII.
- Esso talvolta Pandaro pigliava
- Per mano, e in un giardin con lui ne gia;
- E con el pria di Griseida parlava,
- Del suo valore e della cortesia;
- Poi lietamente con lui cominciava,
- Rimoto tutto da malinconia,
- Lietamente a cantare in cotal guisa,
- Qual qui senz’alcun mezzo si divisa.
- LXXIV.
- O luce eterna, il cui lieto splendore
- Fa bello il terzo ciel, dal qual ne piove
- Piacer, vaghezza, pietade ed amore;
- Del sole amica, e figliuola di Giove,
- Benigna donna d’ogni gentil core,
- Certa cagion del valor che mi muove
- A’ sospir dolci della mia salute,
- Sempre lodata sia la tua virtute.
- LXXV.
- Il ciel, la terra, lo mare e l’inferno,
- Ciascuno in sè la tua potenzia sente,
- O chiara luce; e s’io il ver discerno,
- Le piante, i semi, e l’erbe parimente,
- Gli uccei, le fiere, i pesci con eterno
- Vapor ti senton nel tempo piacente,
- E gli uomini e gli dei, nè creatura
- Senza di te nel mondo vale o dura.
- LXXVI.
- Tu Giove prima agli alti effetti lieto,
- Pe’ qua’ vivono e son tutte le cose,
- Movesti, o bella dea; e mansueto
- Sovente il rendi all’opere noiose
- Di noi mortali, e il meritato fleto
- In liete feste volgi e dilettose;
- E in mille forme già quaggiù il mandasti,
- Quand’ora d’una ed or d’altra il pregasti.
- LXXVII.
- Tu ’l fiero Marte al tuo piacer benegno
- Ed umil rendi, e cacci ciascun’ira;
- Tu discacci viltà, e d’alto sdegno
- Riempi chi per te, o dea, sospira;
- Tu d’alta signoria merito e degno
- Fai ciaschedun secondo ch’el disira;
- Tu fai cortese ognuno e costumato,
- Chi del tuo fuoco alquanto è infiammato.
- LXXVIII.
- Tu in unità le case e le cittadi,
- Li regni, e le provincie, e ’l mondo tutto
- Tien, bella dea; tu dell’amistadi
- Se’ cagion certa e di lor caro frutto:
- Tu sola le nascose qualitadi
- Delle cose conosci, onde ’l costrutto
- Vi metti tal, che fai maravigliare
- Chi tua potenza non sa riguardare.
- LXXIX.
- Tu legge, o dea, poni all’universo,
- Per la qual esso in esser si mantiene;
- Nè è alcuno al tuo figliuolo avverso,
- Che non sen penta, se d’esser sostiene;
- Ed io che già con ragionar, perverso
- Li fui, aval, sì come si conviene,
- Mi riconosco innamorato tanto,
- Ch’esprimere giammai non potre’ quanto.
- LXXX.
- Il che, se avvegna ch’alcuno riprenda,
- Poco men curo, che non sa che dirsi:
- Ercole forte in questo mi difenda,
- Che da amore non potè schermirsi,
- Avvegna ch’ogni savio il ne commenda;
- E chi con frode non vuol ricoprirsi
- Non dirà mai che a me fia disdicevole
- Ciò che ad Ercole fu già convenevole.
- LXXXI.
- Adunque io amo, e intra’ grandi effetti
- Tuoi, questo più mi piace e aggrada;
- Questo seguisco, in cui tutti i diletti
- Son (se diritto l’anima mia bada),
- Più che in altro compiuti e perfetti,
- Anzi da questo ogni altro si disgrada;
- Questo mi fa seguitar quella donna,
- Che di valore più ch’altra s’indonna;
- LXXXII.
- Questo m’induce avale a rallegrarmi,
- E farà sempre, sol che io sia saggio;
- Questo m’induce, o dea, tanto a lodarmi
- Del tuo lucente e virtuoso raggio,
- Per lo qual benedico che alcun’armi
- Non mi difeser dal chiaro visaggio,
- Nel qual la tua virtù vidi dipinta,
- E la potenza lucida e distinta.
- LXXXIII.
- E benedico il tempo, l’anno, e ’l mese,
- E ’l giorno, l’ora, e ’l punto, che così
- Onesta, bella, leggiadra e cortese,
- Primieramente apparve agli occhi miei;
- E benedico il figliuol che m’accese
- Del suo valor, per la virtù di lei,
- E che m’ha fatto a lei servo verace,
- Negli occhi suoi ponendo la mia pace.
- LXXXIV.
- E benedico i ferventi sospiri
- Ch’i’ ho per lei cacciati già dal petto;
- E benedico i pianti ed i martirj
- Che fatti m’ha avere amor perfetto;
- E benedico i focosi desiri
- Tratti dal suo più bel che altro aspetto,
- Perciocchè prezzo di sì alta cosa
- Istati sono, e tanto grazïosa.
- LXXXV.
- Ma sopra tutti benedico Iddio,
- Che tanto cara donna diede al mondo,
- E che tanto di lume ancor nel mio
- Discerner pose in questo basso fondo,
- Che in lei, innanzi ad ogni altro disio,
- Io accendessi e fossine giocondo,
- Talchè grazie giammai non si porieno
- Render per uom, quai render si dovrieno.
- LXXXVI.
- Se cento lingue, e ciascuna parlante,
- Nella mia bocca fossero, e ’l sarpere
- Nel petto avessi d’ogni poetante,
- Esprimer non potrei le virtù vere,
- L’alta piacevolezza e l’abbondante
- Sua cortesia; chi n’ha dunque potere,
- Prego divoto che lei lungamente
- Mi presti, e me ne faccia conoscente;
- LXXXVII.
- Che se’ tu dessa, o dea, che far lo puoi,
- Sol che tu vogli, ed io ten prego molto;
- Chi più felice si potrà dir poi,
- Se ’l tempo che con meco esser dee volto
- Tutto disponi a’ piacer miei e suoi?
- Deh fallo, o dea, poichè mi son raccolto
- Nelle tue braccia, donde uscito m’era,
- Non ben sapendo la tua virtù vera.
- LXXXVIII.
- Segua chi vuole i regni e le ricchezze,
- L’arme, i cavai, le selve, i can, gli uccelli,
- Di Pallade gli studii e le prodezze
- Di Marte, ch’io in mirare gli occhi belli
- Della mia donna e le vere bellezze
- Il tempo vo’ por tutto, che son quelli
- Che sopra Giove mi pongon, qualora
- Gli miro, tanto il cor se ne innamora.
- LXXXIX.
- Io non ho grazie quai si converrieno
- A te da me, o bella luce eterna,
- Però prima tacer che non appieno
- Renderle: vuo’mmi tu chiara lucerna
- Al desiderio mio non venir meno?
- Prolunga, cela, correggi e governa
- Il mio ardore, e quel di questa a cui
- Son dato, e fa’ che non sia mai d’altrui.
- XC.
- Nell’opere opportune alla lor guerra
- Egli era sempre nell’armi il primiero;
- Che sopra’ Greci uscia fuor della terra,
- Tanto animoso, e sì forte e sì fiero,
- Che ciascun ne dottava, se non erra
- La storia; e questo spirto tanto altiero
- Più che l’usato gli prestava amore,
- Di cui egli era fedel servidore.
- XCI.
- Ne’ tempi delle triegue egli uccellava,
- Falcon, girfalchi ed aquile tenendo;
- E tal fïata con li can cacciava,
- Orsi, cinghiali, e gran lion seguendo,
- Li piccoli animai tutti spregiava;
- Ed a’ suoi tempi Griseida vedendo
- Si rifaceva grazïoso e bello
- Come falcon ch’uscisse di cappello.
- XCII.
- Era d’amor tutto il suo ragionare,
- O di costumi, e pien di cortesia;
- Lodava molto i valenti onorare,
- E simile i cattivi cacciar via:
- Piaceali ancora di vedere ornare
- Li giovani d’onesta leggiadria;
- E tenea senza amore ognun perduto,
- Di quale stato che si fosse suto.
- XCIII.
- Ed avvegna ch’el fosse di reale
- Sangue, e volendo ancor molto potesse;
- Benigno si faceva a tutti eguale,
- Come che alcun talvolta nol valesse:
- Così voleva amor, che tutto vale,
- Che el per compiacere altrui facesse;
- Superbia, invidia, ed avarizia in ira
- Aveva, ed ognun dietro si tira.
- XCIV.
- Ma poco tempo durò cotal bene,
- Mercè della fortuna invidïosa,
- Che in questo mondo nulla fermo tiene;
- Ella li volse la faccia crucciosa
- Per nuovo caso, sì com’egli avviene,
- E sottosopra volgendo ogni cosa,
- Di Griseida gli tolse i dolci frutti,
- E i lieti amor rivolse in tristi lutti.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE QUARTA
- * * *
- ARGOMENTO
- Comincia la quarta parte del Filostrato, nella quale si mostra primieramente perchè avvenisse che Griseida fosse renduta al padre Calcas. Dimandarono i Greci uno scambio de’ prigioni; égli conceduto Antenore: richiedesi Griseida, e deliberasi di renderla. Troilo si duole primieramente seco, e poscia con Pandaro ragionano insieme varie cose per consolazione di Troilo. Perviene la fama a Griseida della sua futura partita: visitanla donne, le quali partite, Griseida piagne. Pandaro ordina con lei che Troilo vi vada la sera, ed egli vi va, e là tramortisce Griseida: Troilo si vuole uccidere; ella si risente, vannosi a letto piangendo, e ragionano di varie cose, e teneramente Griseida promette di tornare infra ’l decimo giorno. E primieramente come combattono i Troiani, dove molti sono presi da’ Greci, e permutati i prigioni.
- I.
- Tenendo i Greci la cittade stretta
- Con forte assedio; Ettor nelle cui mani
- Era tutta la guerra, fe’ seletta
- De’ suoi amici e ancora de’ Troiani,
- E valoroso con sua gente eletta
- Incontro a’ Greci uscì negli ampi piani,
- Come più altre volte fatto avea
- Con varii accidenti alla mislea.
- II.
- Venner gli Greci incontro, e con battaglia
- Dura, quel giorno consumaron tutto;
- Ma de’ Troiani alfine la puntaglia
- Non resse bene, onde opportuno al tutto
- Fu il fuggire con danno e con travaglia,
- E molti ne moriro in doglia e lutto;
- Ed assai ve ne furon per prigioni,
- Nobili re, ed altri gran baroni.
- III.
- Tra’ quali fu il magnifico Antenorre,
- Polidamas suo figlio, e Monesteo,
- Santippo, Serpedon, Polinestorre,
- Polite ancora, ed il troian Rifeo,
- E molti più cui la virtù d’Ettorre
- Nel partirsi riscuoter non poteo,
- Sicchè gran pianto e cruccio fessi in Troia,
- E quasi annunzio di vie peggior noia.
- IV.
- Chiese Priamo triegua, e fugli data;
- E cominciossi a trattare infra loro
- Di permutar prigioni quella fiata,
- E per li sopra più di donar oro.
- Il che Calcas sentendo, con cambiata
- Faccia si mise e con pianto sonoro
- Infra gli Greci, e per lo gridar fioco
- Pure impetrò che l’udissero un poco.
- V.
- Signori, cominciò Calcas, i’ fui
- Troian, siccome voi tutti sapete;
- E se ben vi ricorda, i’ son colui,
- Il qual primiero a quel per che ci sete
- Recai speranza, e dissivi che vui
- Al termine dovuto l’otterrete,
- Cioè vittoria della vostra impresa,
- E Troia fia per voi disfatta e accesa.
- VI.
- L’ordine e ’l modo ancora da tenere
- In ciò sapete, ch’io v’ho dimostrato;
- E perchè tutte venissero intere
- Le voglie vostre nel tempo spiegato,
- Senza fidarmi in alcun messaggere,
- O in libello aperto o suggellato,
- A voi, com’egli appar, ne son venuto
- Per darvi in ciò e consiglio ed aiuto.
- VII.
- Il che volendo fare, fu opportuno
- Che con ingegno, e molto occultamente,
- Senza ciò fare assentire a nessuno,
- Io mi partissi, e fello, di presente
- Che ’l chiaro giorno fu tornato bruno
- Me n’uscii solo, e qui tacitamente
- Ne venni, e nulla meco ne recai,
- Ma ciò che aveva tutto vi lasciai.
- VIII.
- Di ciò nel vero poco o nulla curo,
- Fuor d’una mia figliuola giovinetta
- Ch’io vi lasciai; oimè, padre duro
- E rigido ch’io fui, costei soletta
- Menata n’avess’io qui nel sicuro!
- Ma nol sofferse la tema e la fretta:
- Questo mi duol di ciò ch’io lasciai in Troia,
- Questo mi toglie ed allegrezza e gioia.
- IX.
- Nè tempo ancor di richieder poterla
- Veduto ci ho, però taciuto sono,
- Ma ora è tempo di potere averla,
- Se da voi posso impetrar questo dono;
- E s’or non s’ha, giammai di rivederla
- Più non ispererò, e in abbandono
- La vita mia omai lascerò gire,
- Senza curar più ’l viver che ’l morire.
- X.
- Qui son con voi di nobili baroni
- Troiani, ed altri assai, cui voi cambiate
- Con gli avversarii pe’ vostri prigioni;
- Un sol de’ molti a me me ne donate,
- In luogo delle cui redenzïoni
- Io abbia mia figlia: consolate,
- Per Dio, signor, questo vecchio cattivo,
- Che d’ogni altro sollazzo è voto e privo.
- XI.
- Nè d’aver or per li prigion vaghezza
- Vi tragga, ch’io vi giuro per Iddio,
- Ch’ogni troiana forza, ogni ricchezza
- È nelle vostre man per certo; e s’io
- Non me n’inganno, tosto la prodezza
- Fallirà di colui, che al disio
- Di tutti voi tien serrate le porte,
- Come apparrà per violenta morte.
- XII.
- Questo dicendo il vecchio sacerdote,
- Umile nel parlare e nell’aspetto,
- Sempre rigava di pianto le gote,
- E la canuta barba e ’l duro petto
- Tutto bagnato avea: nè furon vote
- Le sue preghiere di pietoso effetto,
- Che, lui tacendo, i Greci con romore
- Tutti gridaron: diaglisi Antenóre.
- XIII.
- Così fu fatto; e Calcas fu contento,
- E la bisogna impose a’ trattatori:
- I quali, al re Priamo, il suo talento
- Dissero, ed a’ figliuoli ed a’ signori
- Ch’ancora v’eran, onde un parlamento
- Di ciò si tenne, ed agli ambasciadori
- Risposer breve: se gli addomandati
- Rendesser loro, i lor fosser donati.
- XIV.
- Troilo al domandare era presente
- Che fero i Greci, e Griseida udendo
- Richieder, dentro il cuor subitamente
- Per tutto si sentì ir trafiggendo,
- Ed una doglia sì acutamente,
- Che morir si credette ivi sedendo;
- Ma con fatica pur dentro ritenne
- L’amore e ’l pianto come si convenne.
- XV.
- E pien d’angoscia e di fiera paura,
- Quel che fosse risposto ad aspettare
- Incominciò, con non usata cura
- Seco volgendo quel ch’avesse a fare,
- Se tanta fosse la sua sciagura,
- Se tra’ fratei sentisse liberare
- Che a Calcas Griseida si rendesse,
- Come sturbarlo del tutto potesse.
- XVI.
- Amore il facea pronto ad ogni cosa
- Doversi oppor, ma d’altra parte era
- Ragion che ’l contrastava, e che dubbiosa
- Faceva molto quell’impresa altiera,
- Non forse che di ciò fosse crucciosa
- Griseida per vergogna; e in tal maniera,
- Volendo e non volendo or questo or quello,
- Intra due stava il timido donzello.
- XVII.
- Mentre che egli in cotal guisa stava
- Sospeso, molte cose ragionate
- Fur tra’ baron, di quel che bisognava
- Ora al presente per le cose state;
- E come è detto, a chi quelle aspettava
- Fur le risposte interamente date,
- E che fosse Griseida renduta,
- Che mal non v’era stata ritenuta.
- XVIII.
- Qual, poscia ch’è dall’aratro intaccato
- Ne’ campi il giglio, per soverchio sole
- Casca ed appassa, e ’l bel color cangiato
- Pallido fassi; tale, alle parole
- Rendute a’ Greci dal determinato
- Consiglio infra’ Troian, in tanta mole
- Di danno e di periglio, tramortito
- Lì cadde Troilo d’alto duol ferito.
- XIX.
- Il quale Priamo prese infra le braccia,
- Ed Ettore e’ fratei, temendo forte
- Dell’accidente, e ciascun si procaccia
- Di confortarlo, e le sue forze morte,
- Ora i polsi fregando, ed or la faccia
- Bagnandogli sovente, come accorte
- Persone, s’ingegnavan rivocare,
- Ma poco ancor valeva l’operare.
- XX.
- Esso giacea fra’ suoi disteso e vinto,
- Che un poco di spirto ancor v’avea;
- E ’l viso suo pallido, smorto, e tinto
- Egli era tutto, e più morta parea
- Che viva cosa, di pietà dipinto
- In guisa tal, ch’ognun pianger facea;
- Sì grave fu l’alto tuon che l’offese,
- Quando di render Griseida intese.
- XXI.
- Ma poi che la sua anima dolente,
- Per lungo spazio pria che ritornasse,
- Vagata fu, ritornò chetamente,
- Ond’esso, quale alcun che si svegliasse,
- Stordito tutto, in piè subitamente
- Si levò suso, e pria che ’l domandasse
- Alcun che fosse ciò ch’avea sentito,
- Altro infingendo, da lor s’è partito:
- XXII.
- E ’n verso il suo palagio se ne gio,
- Senza ascoltare o volgersi ad alcuno,
- E tal qual era sospiroso e pio,
- Senza voler compagnia di nessuno,
- Nella camera ginne, e che disio
- Di riposarsi avea, disse; onde ognuno,
- Amico e servitor quantunque caro,
- N’uscì, ma pria le finestre serraro.
- XXIII.
- A quel che segue, vaga donna, appresso,
- Non curo io guari se non se’ presente,
- Perciocchè il mio ingegno da sè stesso,
- (Se la memoria debol non gli mente)
- Saprà il grave dolor, dal quale oppresso
- Per la partenza tua tristo si sente,
- Ben raccontar senza alcun tuo soccorso,
- Che se’ cagion di sì amaro morso.
- XXIV.
- I’ ho infino a qui lieto cantato
- Il ben che Troilo sentì per amore,
- Come che di sospir fosse mischiato,
- Or di letizia volgere in dolore
- Conviemmi, perchè se da te ascoltato
- Non son, non curo, che a forza il core
- Ti cangerà, facendoti pietosa
- Della mia vita più ch’altra dogliosa.
- XXV.
- Ma se pur viene a’ tuoi orecchi mai,
- Pregoti per l’amore il qual ti porto,
- Che abbi alcun rispetto alli miei guai,
- E ritornando mi rendi il conforto
- Il qual col tuo partir levato m’hai:
- E se discaro t’è ’l trovarmi morto,
- Ritorna tosto, che poca è la vita,
- La qual lasciato m’ha la tua partita.
- XXVI.
- Rimaso adunque Troilo soletto
- Nella camera sua serrata e scura,
- E senza aver di nessun uom sospetto,
- O di potere udito esser paura,
- Il raccolto dolor nel tristo petto
- Per la venuta subita sventura
- Cominciò ad aprire in tal maniera,
- Ch’uom non parea, ma arrabbiata fiera.
- XXVII.
- Nè altrimenti il toro va saltando
- Or qua or là, dappoi c’ha ricevuto
- Il mortal colpo, e misero mugghiando
- Conoscer fa qual duolo ha conceputo,
- Che Troilo facesse, nabissando
- Sè stesso, e percuotendo dissoluto
- Il capo al muro, e con le man la faccia,
- Con pugni il petto e le dolenti braccia.
- XXVIII.
- I miseri occhi per pietà del core
- Forte piangeano, e parean due fontane
- Ch’acqua gittassero abbondevol fuore;
- Gli alti singhiozzi del pianto, e le vane
- Parole, ancor toglievano il valore;
- Le quali ancor delle passate strane,
- Null’altro fuor che morte gian chiedendo,
- Gl’iddii e sè bestemmiando e schernendo.
- XXIX.
- Da poi che la gran furia diede loco,
- E per lunghezza temperossi il pianto,
- Troilo acceso nel dolente foco
- Sopra ’l suo letto si gittò alquanto;
- Non restando però punto nè poco
- Di pianger forte e di sospirar tanto,
- Che ’l capo e ’l petto appena gli bastava,
- A tanta noia quanta si donava.
- XXX.
- Poi poco appresso cominciò a dire
- Seco nel pianto: o misera fortuna,
- Che t’ho io fatto, che ad ogni desire
- Mio sì t’opponi? Non hai tu più alcuna
- Altra faccenda fuor che ’l mio languire?
- Perchè sì tosto hai voltata la bruna
- Faccia ver me, che già t’amava assai
- Più ch’altro iddio, come tu crudel sai?
- XXXI.
- Se la mia vita lieta e grazïosa
- Ti dispiacea, perchè non abbattevi
- Tu la superbia d’Ilïon pomposa?
- Perchè il padre mio non mi toglievi?
- Che non Ettor, nel cui valor si posa
- Ogni speranza in questi tempi grievi?
- Perchè non ten portavi Polissena,
- E perchè non Paris, ed anco Elena?
- XXXII.
- Se a me fosse Griseida sola
- Rimasa, di nïuno altro gran danno
- Non curerei, nè ne farei parola;
- Ma li tuoi strali drittamente vanno
- Sempre alle cose d’onde s’ha più gola;
- Per mostrar più la forza del tuo inganno,
- Tu te ne porti tutto il mio conforto:
- Deh ora avessi tu me innanzi morto!
- XXXIII.
- Omè Amor, signor dolce e piacente,
- Il qual sai ciò che nell’anima giace,
- Come farà la mia vita dolente,
- S’io perdo questo ben, questa mia pace?
- Omè Amor soave, che la mente
- Mi consolasti già, signor verace,
- Che farò io, se m’è tolta costei,
- A cui per tuo voler tutto mi diei?
- XXXIV.
- Io piangerò, e sempre doloroso
- Starò dove ch’io sia, mentre la vita
- Durerà in questo mio corpo angoscioso.
- O anima tapina ed ismarrita,
- Che non ti fuggi dal più sventuroso
- Corpo che viva? O anima invilita,
- Esci del corpo e Griseida segui:
- Perchè nol fai? Perchè non ti dilegui?
- XXXV.
- O dolenti occhi, il cui conforto tutto
- Di Griseida nostra era nel viso,
- Che farete oramai? in tristo lutto
- Sempre starete, poi da voi diviso
- Sarà, e ’l valor vostro fia distrutto,
- Dal vostro lacrimar vinto e conquiso;
- Invano omai vedrete altra virtute,
- Se el v’è tolta la vostra salute.
- XXXVI.
- O Griseida mia, o dolce bene
- Dell’anima dolente che ti chiama,
- Chi darà più conforto alle mie pene?
- Chi porrà in pace l’amorosa brama?
- Se tu ten vai, oimè morir conviene
- A colui lasso che più che sè t’ama;
- E io morrò senza averlo meritato,
- De’ dispietati iddii sia il peccato.
- XXXVII.
- Deh, or si fosse questo tuo partire
- Tanto indugiato, ch’apparato avessi
- Per lunga usanza, lasso, a sofferire;
- Io non vo’ dir che io non m’opponessi
- A mio potere a non lasciarti gire;
- Ma se pur ciò addivenir vedessi,
- Per lunga usanza mi saria soave
- La tua partenza, che or mi par sì grave.
- XXXVIII.
- O vecchio malvissuto, o vecchio insano,
- Qual fantasia ti mosse, o quale sdegno,
- A gire a’ Greci essendo tu Troiano?
- Eri onorato in tutto il nostro regno,
- Più di te nullo regnicolo o strano.
- O iniquo consiglio, o petto pregno
- Di tradimenti, d’inganni e di noia,
- Or t’avess’io qual io vorrei in Troia!
- XXXIX.
- Or fostu morto il dì che tu n’uscisti;
- Or fostu morto a piè de’ Greci allora
- Che tu la bocca primamente apristi
- A richieder colei che m’innamora!
- O quanto al mondo mal per me venisti!
- Tu se’ cagion del dolor che m’accora:
- La lancia che passò Protesilao
- T’avesse nel cor fitta Menelao!
- XL.
- S’ tu fossi morto i’ viverei per certo,
- Che chi cercar Griseida non sarebbe;
- S’ tu fossi morto io non sarei diserto,
- Da me Griseida non si partirebbe;
- S’ tu fossi morto, io veggio assai aperto,
- Quel che mi duole agual non mi dorrebbe;
- Dunque la vita tua è di mia morte
- Trista cagione, e di dogliosa sorte.
- XLI.
- Mille sospiri più che fuoco ardenti
- N’uscivan fuor dell’amoroso petto,
- Misti con pianti e con detti dolenti,
- Senza dar l’uno all’altro alcun rispetto;
- E sì vinto l’avean questi lamenti,
- Che più non potea oltre il giovinetto,
- Ond’el s’addormentò, ma non dormio
- Guari di tempo, che si risentio.
- XLII.
- E sospirando, in piè si fu levato,
- Giane alla porta che serrata avea,
- E quella aperse, e ad un suo privato
- Valletto, disse: fa’ che tu non stea,
- Subitamente Pandaro chiamato,
- Fa’ ch’a me venga: e quindi si tollea
- Al buio della camera doglioso,
- Pien di sospiri e tutto sonnacchioso.
- XLIII.
- Pandaro venne, e già avea sentito
- Ciò che chiedeano i greci ambasciadori;
- E come aveano ancora per partito
- Preso, di render Griseida i signori;
- Di che nel viso tutto sbigottito,
- Di Troilo seco pensando i dolori,
- Nella camera entrò oscura e cheta,
- Nè sa che dir parola o trista o lieta.
- LXIV.
- Troilo, tosto che veduto l’ebbe,
- Gli corse al collo sì forte piangendo,
- Che bene raccontarlo uom non potrebbe;
- Il che il dolente Pandaro sentendo,
- A pianger cominciò, sì glie n’increbbe;
- E in cotal guisa, null’altro facendo
- Che pianger forte, dimoraro alquanto
- Senza parlar nessuno o tanto o quanto.
- XLV.
- Ma poi che Troilo ebbe presa lena,
- Pria cominciò a Pandaro: io son morto:
- La mia letizia s’è voltata in pena.
- Misero me, il mio dolce conforto,
- Fortuna invidïosa se nel mena,
- E con lui insieme il sollazzo e ’l diporto.
- Hai tu sentito ancor come ne sia
- Da’ Greci tolta Griseïda mia?
- XLVI.
- Pandaro, il qual non men forte piangea,
- Rispose: sì, così non fosse ’l vero!
- Oimè lasso, ch’io non mi credea,
- Che questo tempo sì dolce e sincero
- Mancasse così tosto; nè potea
- Meco vedere che al tuo bene intero
- Potesse nuocer fuor che palesarsi;
- Or veggio tutt’i nostri avvisi scarsi.
- XLVII.
- Ma tu, perchè tanta angoscia ti dai?
- Perchè tanto dolore e tal tormento?
- Ciò che desideravi avuto l’hai,
- Esser dovresti sol di ciò contento:
- Lasciagli a me e questi e gli altri guai,
- C’ho sempre amato, e mai un guatamento
- Non ebbi da colei che mi disface,
- E che potrebbe sola darmi pace.
- XLVIII.
- Ed oltre a ciò, questa città si vede
- Piena di belle donne e grazïose,
- E se ’l ben ch’io ti vo’ merita fede,
- Nulla ce n’è, quai vuol le più vezzose,
- Che a grado non le sia aver mercede
- Di te, se tu per lei in amorose
- Pene entrerai, però se noi perdemo
- Costei, molt’altre ne ritroveremo.
- XLIX.
- E come io udii già sovente dire,
- Il nuovo amor sempre caccia l’antico;
- Nuovo piacere il presente martire
- Torrà da te, se tu fai quel ch’io dico.
- Dunque non vogli per costei morire,
- Nè vogli di te stesso esser nemico:
- Credi per pianto forse riaverla?
- O ch’ella non sen vada ritenerla?
- L.
- Troilo udendo Pandaro, più forte
- A pianger cominciò, dicendo appresso:
- Io prego Dio che mi mandi la morte,
- Prima che io commetta un tale eccesso;
- Come che belle leggiadre ed accorte
- Sian l’altre donne, ed io il ti confesso,
- Nulla cen fu mai simile a costei,
- A cui son dato, e tutto son di lei.
- LI.
- Da’ suoi begli occhi mosser le faville
- Che del fuoco amoroso m’infiammaro;
- Queste pe’ miei passando a mille a mille,
- Soavemente amor seco menaro
- Dentro dal cor, nel quale esso sentille
- Come gli piacque; e quivi incominciaro
- Primiere il fuoco, il cui sommo fervore
- Cagione è stato d’ogni mio valore;
- LII.
- Il qual perch’io volessi, che non voglio,
- Spegner non potre’ mai, tant’è possente,
- E se più fosse ancor non me ne doglio,
- Stesse Griseida nosco solamente,
- Del cui partir, non dell’amor cordoglio
- L’anima innamorata dentro sente;
- Nè altra c’è, non dispiaccia a nessuna,
- Ch’eguagliar le si possa in cosa alcuna,
- LIII.
- Dunque come potrebbe amor giammai,
- O d’alcuno i conforti, il mio desio
- Volgere ad altra donna? I’ ho assai
- A sostener d’angoscia nel cor mio,
- Ma troppa più fino agli estremi guai
- Ve ne riceverei, prima che io
- In altra donna l’animo ponessi,
- Amore, Iddio, e ’l mondo questo cessi.
- LIV.
- E la morte e ’l sepolcro dipartire
- Questo mio fermo amor soli potranno;
- Che che di ciò mi si deggia seguire,
- Questi con lui la mia alma merranno
- Giù nell’inferno all’ultimo martire:
- Quivi insieme Griseida piangeranno,
- Di cui sempre sarò dove ch’io sia,
- Se per morire, amor non se n’oblia.
- LV.
- Dunque, per Dio, il ragionar di questo
- Pandaro cessa, ch’altra donna vegna
- Nel cor, dov’io nel suo abito onesto
- Griseida tegno come certa insegna
- De’ miei piacer; quantunque ora molesto
- Sia alla mente, ch’al suo mal s’ingegna,
- Il suo partir del qual fra noi si parla,
- Ch’ancor di quinci non veggiam mutarla.
- LVI.
- Ma tu favelli divisata mente;
- Quasi ragioni che men pena sia
- Il perder, che il non aver nïente
- Avuto mai: ell’è chiara follia,
- Pandaro, se t’è questo nella mente:
- Ch’ogni dolor trapassa quel che ria
- Fortuna adduce a chi è stato felice,
- E partesi dal ver chi altro dice.
- LVII.
- Ma dimmi, se del mio amor ti cale,
- Poscia ch’egli ti par così leggiero
- Il permutare amore, come avale
- Mi ragionavi tu, perchè sentiero
- Non hai mutato? Perchè tanto male
- Di te si porta il tuo amor severo?
- Perchè non hai altra donna seguita,
- Ch’avesse in pace posta la tua vita?
- LVIII.
- Sii tu che viver suoi d’amor cruccioso,
- Non l’hai in altra potuto mutare,
- Io che con lui vivea lieto e gioioso,
- Come ’l potrò da me così cacciare
- Come ragioni? Perchè angoscïoso
- Caso subitamente soprastare
- Ora mi veggia? Io son per altra guisa
- Preso, che la tua mente non divisa.
- LIX.
- Credimi Pandar, credimi che amore
- Quando s’apprende per sommo piacere
- Nell’animo d’alcun, cacciarnel fuore
- Non si può mai, ma puonne ben cadere
- In processo di tempo, se dolore,
- O morte, o povertà, o non vedere
- La cosa amata non gli son cagione,
- Com’egli avvenne già a più persone.
- LX.
- Che farò dunque, lasso sventurato,
- Se io Griseida perdo in tal maniera?
- Che l’ho perduta, perocchè cambiato
- A lei è Antenore: oimè che m’era
- La morte meglio, o non esser mai nato:
- Deh che farò? il mio cor si dispera:
- Deh, morte vieni a me che t’addimando,
- Deh vien, non mi lasciar languire amando.
- LXI.
- Morte, tu mi sarai tanto soave,
- Quant’è la vita a chi lieta la mena:
- Già l’orrido tuo aspetto non m’è grave,
- Dunque vieni e finisci la mia pena.
- Deh non tardar, che questo fuoco m’ave
- Incesa già sì ciascheduna vena,
- Che refrigerio il tuo colpo mi fia,
- Deh vieni omai che ’l cuor pur ti disia.
- LXII.
- Uccidimi per Dio, non consentire
- Ch’io viva tanto in questo mondo, ch’io
- Il cuor del corpo mi veggia partire.
- Deh fallo morte, i’ ten prego per Dio,
- Assai mi dorrà quel più che ’l morire,
- Contenta in questa parte il mio disio;
- Tu n’uccidi ben tanti oltre al volere,
- Che ben puo’ fare a me questo piacere.
- LXIII.
- Così piangendo si rammaricava
- Troilo, e Pandar facea similmente,
- E nondimen sovente il confortava,
- Quanto poteva il più pietosamente;
- Ma tal conforto nïente giovava,
- Anzi cresceva continovamente
- Il pianto doloroso ed il tormento,
- Tant’era di cotal cosa scontento.
- LXIV.
- A cui Pandaro disse: amico caro,
- Se non t’aggradan gli argomenti miei,
- Ed étti tanto quanto par discaro
- Il dipartir futuro di costei,
- Perchè non prendi in quel che puoi riparo
- Alla tua vita, e via rapisci lei?
- Paris andò in Grecïa e menonne
- Elena, il fior di tutte l’altre donne.
- LXV.
- E tu in Troia tua non ardirai
- Di rapire una donna che ti piaccia?
- Tu fara’ questo se mi crederai:
- Caccia via il dolor, caccia via, caccia
- L’angoscia tua e li dolenti guai;
- Rasciuga il tristo pianto della faccia,
- E l’animo tuo grande ora dimostra,
- Oprando sì che Griseida sia nostra.
- LXVI.
- Troilo allora a Pandaro rispose:
- Ben veggio amico ch’ogni ingegno poni
- Per levar via le mie pene angosciose:
- I’ ho pensato ciò che tu ragioni,
- E divisate ancor molt’altre cose,
- Come ch’io pianga e tutto m’abbandoni
- Nel dolore ch’avanza ogni mia possa,
- Sì grave è stata la sua gran percossa;
- LVIII.
- Nè mai però da consiglio dovuto
- Potuto ho tor nel mio fervente amore;
- Anzi pensando, ho con meco veduto
- Che ’l tempo non concede tale errore,
- Che se ciascun de’ nostri rivenuto
- Qui ritto fosse, ed ancora Antenore,
- Di romper fede i’ non mi curerei,
- Fosse ciò che potesse, anzi il farei.
- LXVIII.
- Poi temo di turbar con violenta
- Rapina, il suo onore e la sua fama,
- Nè so ben s’ella ne fosse contenta,
- Ed io so pure ch’ella molto m’ama;
- Per che a prender partito non s’attenta
- Il cuor, che d’una parte questo brama,
- E d’altra teme di non dispiacere,
- Che non piacendol, non la vorre’ avere.
- LXIX.
- Pensato ancora avea di domandarla
- Di grazia al padre mio che la mi desse;
- Poi penso questo fora un accusarla,
- E far palese le cose commesse;
- Nè spero ancora ch’el dovesse darla,
- Sì per non romper le cose promesse,
- E perchè la direbbe diseguale
- A me, al qual vuol dar donna reale.
- LXX.
- Così piangendo, in amorosa erranza
- Dimoro lasso, e non so che mi fare;
- Imperocchè ’l valor, se pure avanza,
- Forte d’amor, il mi sento mancare,
- E d’ogni parte fugge la speranza,
- E crescon le cagion del tormentare:
- Vorrei io esser morto il giorno ch’io
- Prima m’accesi in sì fatto desio.
- LXXI.
- Pandaro disse allora: tu farai
- Come ti piacerà, ma s’io acceso
- Fossi, come tu mostri essere assai,
- Quantunque fosse grave questo peso,
- Avendo la potenza che tu hai,
- Se non mi fosse per forza difeso,
- Di portarla farei il mio potere,
- A cui ch’el si dovesse dispiacere.
- LXXII.
- Non guarda amor cotanto sottilmente,
- Quanto par che tu facci, quando cuoce
- Ben da dover l’innamorata mente;
- Il qual, se quanto di fiero ti nuoce,
- Seguita ’l suo volere, e virilmente
- T’opponi a questo tormento feroce,
- E vogli innanzi esser ripreso alquanto,
- Che con martír morire in tristo pianto.
- LXXIII.
- Tu non hai da rapir donna che sia
- Dal tuo voler lontana, ma è tale,
- Che di ciò che farai contenta fia;
- E se di ciò seguisse troppo male,
- O biasimo di te, tu hai la via
- Di riuscirne tosto, ch’è cotale,
- Renderla indietro: la fortuna aiuta
- Chiunque è ardito, e’ timidi rifiuta.
- LXXIV.
- E se pur questa cosa a lei gravasse,
- In breve tempo ne riavrai pace.
- Non che io creda ch’ella sen crucciasse,
- Tanto l’amor che le porti le piace;
- Della sua fama, perch’ella mancasse,
- A dirti il ver men grava e men dispiace:
- Passisene ella come fa Eléna,
- Pur ch’ella faccia la tua voglia piena.
- LXXV.
- Adunque piglia ardir, sii valoroso,
- Amor promessa non cura nè fede;
- Mostrati un poco al presente animoso,
- Abbi di te medesimo mercede.
- Io sarò teco in ciascun periglioso
- Caso, cotanto quanto mi concede
- Il poter mio; presumi pur di fare,
- Gl’iddii ci avranno poscia ad aiutare.
- LXXVI.
- Troilo il detto molto bene intese
- Di Pandaro, e rispose: io son contento;
- Ma s’elle fosser mille volte accese
- Le fiamme mie, e maggiore il tormento
- Che el non è, alla donna cortese,
- Per soddisfarmi, un picciol gravamento
- Io non farei; in pria vorrei morire,
- Però da lei il vo’ prima sentire,
- LXXVII.
- Dunque leviamci quinci e più non stiamo;
- Lávati il viso, e ritorniamo a corte,
- E sotto il riso il dolore occultiamo;
- Di nulla ancor si son le genti accorte,
- Che stando qui, maravigliar facciamo
- Ciascun che ’l sa; or fa’ che tu sii forte
- In ben celare, ed io terrò maniera,
- Che con Griseida parlerai stasera,
- LXXVIII.
- La fama velocissima, la quale
- Il falso e ’l vero ugualmente rapporta,
- Era volata con prestissim’ale
- Per tutta Troia, e con parola sciolta
- Narrato aveva chente fosse e quale
- L’ambasciata de’ Greci stata porta,
- E che Griseida data dal signore
- Alli Greci era in cambio d’Antenore.
- LXXIX.
- La qual novella siccome l’udio
- Griseida, che già non si curava
- Del padre più, oimè tristo il cor mio!
- Disse fra sè, e forte le noiava,
- Come a colei ch’avea volto il disio
- A Troilo, il quale più che altro amava,
- E per paura ciò ch’udia contare
- Non fosse ver, non ardia domandare.
- LXXX.
- Ma come noi veggiam che egli avviene,
- Che l’una donna all’altra a visitare
- Ne’ casi nuovi va se le vuol bene,
- Così sen venner molte a dimorare
- Con Griseida il giorno, tutte piene
- Di pietosa allegrezza, e a raccontare
- Le cominciaron con ordine il fatto,
- Com’ell’era renduta, e con che patto.
- LXXXI.
- Diceva l’una: certo assai mi piace
- Che tu torni al tuo padre e sii con lui.
- L’altra diceva: e a me me ne dispiace
- Vederla dipartir quinci da nui.
- L’altra diceva: ella potrà la pace
- Nostra ordinare, e far con esso lui,
- Il qual sapete, come avete udito,
- Che prender fa qual vuol d’ogni partito.
- LXXXII.
- Questi e molt’altri parlar femminili,
- Quasi quivi non fosse, udiva quella,
- Senza risponder, tenendogli a vili;
- E non potea celar la faccia bella,
- Gli alti pensier ch’avea d’amor gentili,
- Venuti in lei per l’udita novella;
- Il corpo era ivi, e l’anima era altrove,
- Cercando Troilo senza saper dove.
- LXXXIII.
- E queste donne che far le credeano
- Consolazione stando, sommamente
- Parlando seco assai le dispiaceano,
- Come a colei che sentia nella mente
- Tutt’altra passïon che non vedeano
- Color che v’erano, ed assai sovente
- Donnescamente accomiatava quelle,
- Tal voglia avea di rimaner senz’elle.
- LXXXIV.
- Non potea ritenere alcun sospiro,
- E tal fïata alcuna lagrimetta
- Cadendo, davan segno del martiro
- Nel qual l’anima sua era costretta:
- Ma quelle stolte che le facean giro
- Credevan, per pietà, la giovinetta
- Far ciò, ch’avesse d’abbandonar esse,
- Le quali esser solean sue compagnesse.
- LXXXV.
- E ciascuna voleva confortarla
- Pur sopra quello ch’a lei non dolea,
- Parole assai dicean di consolarla
- Per la partenza la qual far dovea
- Da loro, e non era altro che grattarla
- Nelle calcagne, ove ’l capo prudea;
- Ch’ella di lor nïente si curava,
- Ma di Troilo solo il qual lasciava.
- LXXXVI.
- Ma dopo molto cinguettare in vano,
- Come fanno le più, s’accomiataro,
- E girsen via; ed ella a mano a mano
- Vinta e sospinta da dolore amaro,
- Nella camera sua piangendo piano
- Se n’entrò dentro, e senza far riparo
- Con consiglio nessuno al suo gran male,
- Tal pianger fe’, che mai non si fe’ tale.
- LXXXVII.
- Erasi la dolente in sul suo letto
- Gittata stesa, piangendo sì forte,
- Che dir non si poria; e il bianco petto
- Spesso batteasi, chiamando la morte
- Che l’uccidesse, poichè ’l suo diletto
- Lasciar le convenia per dura sorte;
- E i biondi crin tirandosi rompea,
- E mille volte ognor morte chiedea.
- LXXXVIII.
- Ella diceva: lassa sventurata,
- Misera me dolente, ove vo io?
- O trista me, che ’n mal punto fu’ nata,
- Dove ti lascio dolce l’amor mio?
- Deh or fuss’io nel nascere affogata,
- O non t’avessi, dolce mio disio,
- Veduto mai, poichè sì ria ventura,
- E me a te, e te a me or fura.
- LXXXIX.
- Che farò io, dogliosa la mia vita,
- Allor che più non ti potrò vedere?
- Che farò io da te, Troilo, partita?
- Certo non credo mai mangiar nè bere;
- E se per sè non sen va la smarrita
- Anima fuor del corpo, a mio potere
- Le caccerò con fame, perch’io veggio
- Che sempre mai andrò di male in peggio.
- XC.
- Or vedova sarò io daddovero,
- Poichè da te dipartir mi conviene,
- Cuor del mio corpo, e ’l vestimento nero
- Ver testimonio fia delle mie pene.
- Oimè lassa, che duro pensiero
- È quello in che la partenza mi tiene!
- Oimè, come potrò io sofferire,
- Troilo vedermi da te dipartire?
- XCI.
- Come potrò io senza anima stare?
- Ella si rimarrà qui per lo certo
- Col nostro amore, e teco a lamentare
- Il partir doloroso, che per merto
- Di tanto buono amor ci convien fare;
- Oimè Troilo, or fia egli sofferto
- Da te vedermi gir, che non t’ingegni,
- Per amore o per forza mi ritegni?
- XCII.
- Io me n’andrò, nè so se fia giammai
- Ch’io ti riveggia, dolce mio amore;
- Ma tu che tanto m’ami, che farai?
- Deh potra’ tu sostener tal dolore?
- Io già nol sosterrò, perocchè guai
- Soperchi mi faran crepare il core;
- Deh foss’egli pur tosto, perchè poscia
- Io sarei fuor di questa grave angoscia.
- XCIII.
- O padre mio, iniquo e disleale
- Alla patria tua, sia tristo il punto
- Che nel petto ti venne sì gran male,
- Qual fu volere a’ Greci esser congiunto,
- E li Troiau lasciar! nell’infernale
- Valle fustu, volesse Iddio, defunto
- Te iniquo vecchio, che negli ultimi anni
- Della tua vita hai fatti tali inganni.
- XCIV.
- Oimè lassa, trista e dolorosa,
- Ch’a me convien portar la penitenza
- Del tuo peccato, che tanto noiosa
- Vita non meritai per mia fallenza.
- O verità del ciel luce pietosa,
- Come sofferi tu cotal sentenza,
- Ch’un pecchi, e l’altro pianga, com’io faccio,
- Che non peccai, e di dolor mi sfaccio?
- XCV.
- Chi potrebbe giammai narrare a pieno
- Ciò che Griseida nel pianto dicea?
- Certo non io, che al fatto il dir vien meno,
- Tant’era la sua noia cruda e rea.
- Ma mentre tai lamenti si facieno,
- Pandaro venne, a cui non si tenea
- Uscio giammai, e ’n camera sen gio,
- Là dov’ella faceva il pianto pio.
- XCVI.
- El vide lei in sul letto avviluppata
- Ne’ singhiozzi, nel pianto e ne’ sospiri;
- E ’l petto tutto e la faccia bagnata
- Di lacrime le vide, ed in disiri
- Di pianger gli occhi suoi, e scapigliata,
- Dar vero segno degli aspri martirj;
- La qual come lui vide, fra le braccia
- Per vergogna nascose la sua faccia.
- XCVII.
- Crudele il punto, cominciò a dire
- Pandar, fu quel nel quale i’ mi levai;
- Che dovunque oggi vo doglia sentire,
- Tormenti, pianti, angoscie, ed altri guai,
- Sospiri, noia, ed amaro languire
- Mi par per tutto: o Giove, che farai?
- Io credo che dal ciel lacrime versi,
- Tanto ti son li nostri fatti avversi.
- XCVIII.
- Ma tu isconsolata mia sorella,
- Che credi far? credi cozzar coi fati?
- Perchè disfar la tua persona bella
- Con pianti sì crudeli e smisurati?
- Levati su, e volgiti, e favella,
- Leva alto il viso, e gli occhi sconsolati
- Rasciuga alquanto, ed odi quel ch’io dico,
- A te mandato dal tuo dolce amico.
- XCIX.
- Voltossi allor Griseida, facendo
- Un pianto tal che dir non si poria,
- E rimirava Pandaro, dicendo:
- Oh lassa me! che vuol l’anima mia?
- La qual conviemmi abbandonar piangendo,
- Che così vuole la sventura ria;
- Vuol ei sospiri, o pianti, o che domanda?
- Io n’ho assai s’egli per questi manda.
- C.
- Ell’era tale a riguardar nel viso,
- Qual’è colei ch’alla fossa è portata;
- E la sua faccia, fatta in paradiso,
- Tututta si vedea trasfigurata,
- La sua vaghezza e ’l piacevole riso
- Fuggendosi, l’aveano abbandonata;
- E intorno agli occhi un purpurino giro,
- Dava vero segnal del suo martiro.
- CI.
- Il che vedendo Pandaro, ch’avea
- Con Troilo pianto il giorno lungamente,
- Le lagrime dolenti non potea
- Tener, ma cominciò similemente,
- Lasciando star quel che parlar volea,
- A pianger con costei dogliosamente;
- Ma poi ch’ebber ciò fatto insieme alquanto,
- Temperò prima Pandaro il suo pianto,
- CII.
- E disse: donna, io credo ch’abbi udito,
- Ma ne son certo, come se’ richesta
- Dal padre tuo, e preso è già il partito
- Di renderti dal re, sicchè di questa
- Semmana ten dei gir, s’ho ’l ver sentito;
- E quanto questo sia cosa molesta
- A Troilo, appien non si potrebbe dire,
- Il qual del tutto in duol ne vuol morire.
- CIII.
- Ed abbiam tanto pianto oggi egli ed io,
- C’ho maraviglia donde egli è venuto;
- Ora alla fine pel consiglio mio
- Alquanto s’è di pianger ritenuto,
- E par che d’esser teco abbia desio,
- Per ch’io a dir, siccome gli è paciuto,
- Tel son venuto, pria che vi partiate,
- Acciocchè insieme alquanto vi sfoghiate.
- CIV.
- Grande è, disse Griseida, il mio dolore,
- Come di quella che più che sè l’ama,
- Ma ’l suo m’è di gran lunga maggiore,
- Udendo che per me la morte brama;
- Or s’aprirà, s’aprir si dee mai cuore
- Per fera doglia, il mio; ora si sfama
- La nemica fortuna in su’ miei danni,
- Ora conosco i suoi occulti inganni.
- CV.
- Grave m’è la partita, Iddio il vede,
- Ma più m’è di veder Troilo afflitto,
- E incomportabil molto, per mia fede,
- Tanto ch’io ne morrò senza rispitto,
- E morir vo’ senza sperar mercede,
- Poichè ’l mio Troilo veggio sì trafitto;
- Di’ quando vuol venir, questo mi fia
- Sommo conforto nell’angoscia mia.
- CVI.
- E questo detto, ricadde supina,
- Poi ’n sulle braccia ricominciò il pianto:
- A cui Pandaro disse: oimè, meschina,
- Or che farai? Non prenderai alquanto
- Di conforto, pensando che vicina
- Si è l’ora già, che quel ch’ami cotanto
- Ti sarà in braccio? Leva su, racconcia
- Te, ch’esso non ti trovi così sconcia.
- CVII.
- Se el sapesse che così facessi,
- Esso s’uccideria, nè il potrebbe
- Ritenerlo nessuno; e s’io credessi
- Che così stessi, el non ci metterebbe
- Credimi il piè, se io far lo potessi,
- Ch’io so che noia ne gli seguirebbe:
- Però levati su, rifatti tale,
- Che tu alleggi e non cresca ’l suo male.
- CVIII.
- Va’, Griseida disse, io ti prometto,
- Pandaro mio, io me ne sforzeraggio;
- Come partito ti sarai, dal letto
- Senza indugio nïun mi leveraggio,
- Ed il mio male e ’l perduto diletto
- Tutto nel cor serrato mi terraggio:
- Fa’ pur ch’el venga, e venga al modo usato,
- Che troverà qual suol l’uscio appoggiato.
- CIX.
- Ritrovò Pandar Troilo pensoso,
- E sì forte nel viso sbigottito,
- Che per pietà ne divenne doglioso,
- Ver lui dicendo: or se’ tu sì invilito
- Come tu mostri, giovin valoroso?
- Ancor non s’è da te il tuo ben partito;
- Perchè ancora cotanto ti sconforti,
- Che gli occhi in testa ti paion già morti?
- CX.
- Tu se’ vissuto assai senza costei,
- Non ti dà ’l cuor poter vivere ancora?
- Nascesti tu al mondo pur per lei?
- Dimostrati uomo, e alquanto ti rincora,
- Caccia questi dolori e questi omei
- Almeno in parte: io non fe’ poi dimora
- In altro luogo se non qui con teco,
- Ch’io le parlai e fui gran pezza seco.
- CXI.
- E per quel che mi paia, tu non senti
- La metà noia che la donna face;
- E’ suoi sospiri son tanto cocenti,
- E sì questa partenza le dispiace,
- Che trapassano i tuoi per ognun venti;
- Dunque con teco datti alquanto pace,
- Che almen puoi tu in questo caso amaro
- Conoscer quanto tu a lei se’ caro.
- CXII.
- I’ ho con esso lei testè composto
- Che tu ad essa ne vadi, e stasera
- Sarai con seco, e quel c’hai già disposto
- Le mostrerai per più bella maniera
- Che tu potrai; tu t’avvedrai ben tosto
- Quel che a grado le fia con mente intera:
- Forse che troverete modi i quali
- Fian grandi alleggiamenti a’ vostri mali.
- CXIII.
- A cui rispose Troilo sospirando:
- Tu parli bene, ed io così vo’ fare:
- Ed altre cose assai disse, ma quando
- Tempo gli parve di dovere andare,
- Pandaro sopra ciò ’l lasciò pensando,
- Ed el sen gì, e mille anni gli pare
- D’essere in braccio al suo caro conforto,
- Il qual fortuna poi gli tolse a torto.
- CXIV.
- Griseida, quando ora e tempo fue,
- Com’era usata con un torchio acceso
- Sen venne a lui, e nelle braccia sue
- Il ricevette, ed esso lei, compreso
- Da grave doglia, e mutoli amendue
- Nasconder non poteano il core offeso,
- Ma abbracciati senza farsi motto
- Incominciaro un gran pianto e dirotto.
- CXV.
- È forte insieme amendue si strignieno,
- Di lagrime bagnati tutti quanti,
- E volendo parlarsi non potieno,
- Sì gl’impedivan gli angosciosi pianti,
- E’ singhiozzi e’ sospiri, e nondimeno
- Si baciavan talvolta, e le cascanti
- Lacrime si bevean, senza aver cura
- Ch’amare fosser oltre lor natura.
- CXVI.
- Ma poscia che gli spiriti affannati,
- Per l’angoscia del pianto e de’ sospiri,
- Furon nelli lor luoghi ritornati
- Per l’allentar de’ noiosi martirj,
- Griseida ver Troilo levati
- Gli occhi dolenti per gli aspri disiri,
- Con rotta voce, disse: o signor mio,
- Chi mi ti toglie, e dove ne vo io?
- CXVII.
- Poi gli ricadde col viso in sul petto
- Venendo meno, e le forze partirsi,
- Da tanta doglia fu il suo cor costretto,
- Ed ingegnossi l’alma di fuggirsi;
- E Troilo guardando nel suo aspetto,
- E lei chiamando, e non sentendo udirsi,
- E gli occhi suo velati a lei cascante,
- Che morta fosse gli porser sembiante.
- CXVIII.
- Il che vedendo Troilo, angoscioso
- Di doppia doglia, la pose a giacere,
- Spesso baciando il viso lacrimoso,
- Cercando se potesse in lei vedere
- Alcun segno di vita, e doloroso
- Ogni parte tentava, ed al parere
- Di lui, di vita così sconsolata,
- Dicea piangendo, ch’era trapassata.
- CXIX.
- Ell’era fredda e senza sentimento
- Alcun, per quel che Troilo conoscesse,
- E questo gli parea vero argomento
- Che ella i giorni suoi finiti avesse;
- Per che dopo lunghissimo lamento,
- Prima che ad altro atto procedesse,
- L’asciugò ’l viso, e ’l corpo suo compose,
- Come si soglion far le morte cose.
- CXX.
- E fatto questo, con animo forte
- La propria spada del fodero trasse,
- Tutto disposto di prender la morte,
- Acciocchè il suo spirto seguitasse
- Quel della donna con sì trista sorte,
- E nell’inferno con lei abitasse,
- Poichè aspra fortuna e duro amore
- Di questa vita lui cacciava fuore,
- CXXI.
- Ma prima disse acceso d’alto sdegno:
- O crudel Giove, e tu fortuna ria,
- A quel che voi volete ecco ch’io vegno;
- Tolta m’avete Griseïda mia,
- La qual credetti che con altro ingegno
- Tor mi doveste; e dove ella si sia
- Ora non so, ma il corpo suo qui morto
- Veggio da voi a grandissimo torto.
- CXXII.
- Ed io lascerò il mondo, e seguiraggio
- Con lo spirito lei poichè ’l vi piace;
- Forse di là miglior fortuna araggio
- Con lei, avendo de’ miei sospir pace,
- Se di là s’ama, sì come udito aggio
- Alcuna volta dir che vi si face;
- Poichè vedermi in vita non volete,
- L’anima mia almen con lei ponete.
- CXXIII.
- E tu città, la qual’io lascio in guerra,
- E tu Priamo, e voi cari fratelli,
- Fate con Dio, ch’io me ne vo sotterra,
- Di Griseida dietro agli occhi belli;
- E tu, per cui tanto il dolor mi serra,
- E che dal corpo l’anima divelli,
- Ricevimi, Griseida volea dire,
- Già colla spada al petto per morire;
- CXXIV.
- Quand’ella risentendosi, un sospiro
- Grandissimo gittò, Troilo chiamando;
- A cui el disse: dolce mio disiro,
- Or vivi tu ancora? E lagrimando,
- In braccio la riprese, e ’l suo martiro,
- Come potea, con parole alleggiando,
- La confortò, e l’anima smarrita
- Tornò al core, onde s’era fuggita.
- CXXV.
- E stata alquanto tutta alïenata
- Si tacque; e poscia la spada veggendo,
- Cominciò: quella perchè fu tirata
- Del foder fuori? A cui Troilo piangendo,
- Narrò qual fosse la sua vita stata:
- Ond’ella disse: che è ciò ch’io intendo!
- Dunque s’io fossi stata più un poco,
- Tu ti saresti ucciso in questo loco.
- CXXVI.
- Oimè dolente a me, che m’ha’ tu detto!
- Io non sarei in vita stata mai
- Di dietro a te, ma per lo tristo petto
- Fitta l’avrei: or noi abbiamo assai
- A lodar Dio: per ora andiamo a letto,
- Quivi ragionerem de’ nostri guai;
- S’io considero il torchio consumato,
- El n’è di notte già gran pezzo andato.
- CXXVII.
- Come altra volta gli stretti abbracciari
- Erano stati, così furon ora,
- Ma questi fur più di lagrime amari,
- Che stati fosser di dolcezza; ancora
- I piacevoli e tristi ragionari
- Fra loro incominciar senza dimora;
- E cominciò Griseida: dolce amico,
- Ascolta bene attento quel ch’io dico.
- CXXVIII.
- Poscia ch’io seppi la trista novella
- Del traditor del mio padre malvagio,
- Se Dio mi guardi la tua faccia bella,
- Nulla giammai sentì tanto disagio
- Quant’io ho poi sentito, come quella;
- Ch’oro non curo, città nè palagio,
- Ma sol di dimorar sempre con teco
- In festa ed in piacere, e tu con meco.
- CXXIX.
- E voleami del tutto disperare
- Non credendo giammai più rivederti;
- Ma poi che tu la mia anima errare
- Vedesti, e ritornar dinuovo, certi
- Pensier mi sento per la mente andare,
- Utili forse, i quali vo’ che aperti
- Prima ti sien che noi più ci dogliamo,
- Che forse sperar bene ancor possiamo.
- CXXX.
- Ta vedi che mio padre mi richiede,
- Al qual di girne non ubbidirei
- Se ’l re non mi strignesse, la cui fede
- Convien s’osservi, come saper dei;
- Per che andar mi conviene con Diomede,
- Ch’è stato trattator de’ patti rei,
- Qualora tornerà: volesse Iddio
- Ch’el non tornasse mai nel tempo rio.
- CXXXI.
- Tu sai che qui è ogni mio parente
- Fuor che mio padre, e ciascuna mia cosa
- Ancora ci rimane; e s’alla mente
- Mi torna ben, di questa perigliosa
- Guerra si tratta continuamente
- Pace tra voi e’ Greci, e se la sposa
- Si rende a Menelao, credo l’avrete,
- Ed io so già che voi presso vi siete.
- CXXXII.
- Qui mi ritornerò se voi la fate,
- Perocchè altrove non ho dove gire;
- E se per avventura la lasciate,
- Nel tempo delle tregue di venire
- Ci avrò cagione, e così fatte andate
- Sai che non s’usa alle donne disdire;
- E i miei parenti mi ci vederanno
- Di buona voglia, e mi c’inviteranno.
- CXXXIII.
- Allor potremo alcun sollazzo avere,
- Come che l’aspettar sia grave noia;
- Ma conviensi apparare a sostenere
- Della fatica, chi vuol che la gioia
- Li venga poscia con maggior piacere;
- Io veggio pur, che stando noi in Troia,
- Senza vederci più dì ci conviene
- Talor passar con angosciose pene.
- CXXXIV.
- Ed oltre a questo, maggiore speranza,
- O pace o no, mi nasce del tornarci;
- Mio padre ha ora questa disianza,
- E forse avvisa ch’io non possa starci
- Per lo suo fallo, senza dubitanza
- Di forza, o di biasmo ad acquistarci;
- Come saprà che io ci sia onorata,
- Più non curerà della mia tornata.
- CXXXV.
- Ed a che far tra’ Greci mi terrebbe,
- Che come vedi son sempre nell’armi?
- E s’el non mi tien ivi, ove potrebbe
- In altra parte, io nol veggio, mandarmi?
- E se ’l potesse credo nol farebbe,
- Perciocchè a’ Greci non vorria fidarmi;
- Qui dunque rimandarmi egli è opportuno,
- Nè ben ci veggio contrario nessuno.
- CXXXVI.
- Egli è, come tu sai, vecchio ed avaro,
- E qui ha ciò che gli può fare udire
- Il che io gli dirò, s’egli l’ha caro,
- Per lo miglior mi faccia qui reddire,
- Mostrandogli com’io possa riparo,
- Ad ogni cosa che sopravvenire
- Potesse, porre, ed el per avarizia
- Della mia ritornata avrà letizia.
- CXXXVII.
- Troilo attento la donna ascoltava,
- Ed il dir suo gli toccava la mente,
- E quasi verisimil gli sembrava
- Dover ciò che diceva certamente
- Esser cosi, ma perchè molto amava,
- Pur fede vi prestava lentamente;
- Ma alla fin, come che vago fosse,
- Seco cercando, a crederlo si mosse.
- CXXXVIII.
- Laonde parte della grave doglia
- Da lor partissi, e ritornò speranza;
- E divenuti poi di men ria voglia,
- Ricominciaron l’amorosa danza:
- E sì come l’uccel di foglia in foglia
- Nel nuovo tempo prende dilettanza
- Del canto suo; così facean costoro,
- Di molte cose parlando fra loro,
- CXXXIX.
- Ma non potendo a Troilo passare
- Dal cor, che questa partir si dovea,
- Incominciò in tal guisa a parlare:
- O Griseida mia, più ch’altra dea
- Amata assai, e più da onorare
- Da me, che dianzi uccider mi volea
- Credendo morta te, che vita credi
- Che fia la mia, se tosto tu non riedi?
- CXL.
- Vivi sicura, come del morire,
- Che io m’ucciderei, se tu penassi
- Nïente troppo di qui rivenire;
- Nè veggio bene ancor com’io mi passi
- Senza doglioso ed amaro languire,
- Sentendo te altrove; e dubbio fassi
- Novello in me, che el non ti ritegna
- Calcas, e quel che parli non avvegna.
- CXLI.
- Non so se pace fra noi si fia mai:
- O pace o no, appena che tornarci
- Credo che Calcas ci voglia giammai,
- Perchè non crederia dovere starci
- Senza infamia del fallo, che assai
- Fu, se in ciò non vogliamo ingannarci,
- E se con tanta istanza ti richiede,
- Ch’el ti rimandi appena vi do fede.
- CXLII.
- E’ ti darà fra li Greci marito,
- E mostreratti che stare assediata
- È dubbio di venire a rio partito;
- Lusingheratti, e farà che onorata
- Sarai da’ Greci, ed el v’è riverito
- Sì come intendo, e molto v’è pregiata
- La sua virtù, perchè non senza noia
- Temo che tu giammai non torni in Troia.
- CXLIII.
- E questo m’è a pensar tanto grave,
- Che dir nol ti potria, anima bella;
- E tu sol’hai nelle tue man la chiave
- Della mia vita e della morte, e quella
- Sì, che la puoi e misera e soave
- Come ti piace fare, o chiara stella,
- Per cui io vado al grazïoso porto;
- Se tu mi lasci pensa ch’io sia morto.
- CXLIV.
- Dunque, per Dio, troviam modo e cagione
- Che tu non vada, se trovar si puote;
- Andiamcene in un’altra regïone,
- Non ci curiam se le promesse vote
- Vengon del re, se la sua offensione
- Fuggir possiamo; e’ son di qui remote
- Genti che volentieri ci vedranno,
- E per signori ancor sempre ci avranno.
- CXLV.
- Fuggiamci dunque quinci occultamente,
- E là n’andiamo insieme tu ed io;
- E quel che noi abbiam di rimanente
- Nel mondo a viver, cor del corpo mio,
- Viviamlo con diletto insiememente;
- Questo vorrei, e questo ho in disio,
- S’el ti paresse; e questo è più sicuro,
- Ed ogni altro partito mi par duro.
- CXLVI.
- Griseida sospirando gli rispose:
- Caro mio bene e del mio cor diletto,
- Tutte potrebbon’esser quelle cose,
- Ed ancor più, nella forma c’hai detto;
- Ma io ti giuro per quelle amorose
- Saette che per te m’entrar nel petto,
- Comandamenti, lusinghe, o marito,
- Non torceran da te mai l’appetito.
- CXLVII.
- Ma ciò che d’andar via tu ragionavi,
- Non è savio consiglio al mio parere:
- Pensar si deve in questi tempi gravi,
- E di te e de’ tuoi li dee calere;
- Che s’andassimo via, come parlavi,
- Tre cose ree ne potresti vedere,
- L’una verrebbe per la rotta fede,
- Che porta più di mal ch’altri non crede:
- CXLVIII.
- E ciò sarebbe delli tuoi in periglio,
- Che se per una femmina lasciati
- Gli avessi fuor d’aiuto e di consiglio,
- Darian paura agli altri degli aguati.
- E se io ben con meco m’assottiglio,
- Voi ne sareste molto biasimati,
- Nè vi saria il ver giammai creduto,
- Da chi n’avesse sol questo veduto.
- CXLIX.
- E se tempo nïun fede o leanza
- Richiede, quel della guerra par esso;
- Perocchè nullo ha tanto di possanza,
- Che guari possa per sè solo stesso:
- Aggiungonvisi molti ad isperanza
- Che quel che metton per altrui sia messo
- Per lor; che se in avere ed in persona
- Mettono, in ciò sperando s’abbandona.
- CL.
- D’altra parte, che pensi tra le genti
- Della partita tua si ragionasse?
- E’ non dirien ch’amor co’ suoi ferventi
- Dardi a cotal partito ti menasse,
- Ma paura e viltà: dunque ritienti
- Da tal pensier se mai nel cor t’entrasse,
- Se el t’è punto la tua fama cara,
- Che del valor tuo suona tanto chiara.
- CLI.
- Appresso pensa che la mia onestate
- E la mia castità, somme tenute,
- Di quanta infamia sarien maculate,
- Anzi del tutto disfatte e perdute
- Sarieno in me, nè giammai rilevate
- Per iscusa sarieno, o per virtute
- Ch’io potessi operar, che ch’io facessi,
- Se anni centomila in vita stessi.
- CLII.
- Ed oltre a questo, vo’ che tu riguardi
- A ciò che quasi d’ogni cosa avviene;
- Non è cosa sì vil, se ben si guardi,
- Che non si faccia disiar con pene,
- E quanto più di possederla ardi,
- Più tosto abominío nel cor ti viene,
- Se larga potestade di vederla
- Fatta ti fia, e ancor di ritenerla.
- CLIII.
- Il nostro amor, che cotanto ti piace,
- È perchè far convien furtivamente,
- E di rado venire a questa pace;
- Ma se tu m’averai liberamente,
- Tosto si spegnerà l’ardente face
- Ch’ora t’accende, e me similemente;
- Perchè se ’l nostro amor vogliam che duri,
- Com’or facciam, convien sempre si furi.
- CLIV.
- Dunque prendi conforto, e la fortuna
- Col dare il dosso vinci e rendi stanca;
- Non soggiacette a lei giammai nessuna
- Persona in cui trovasse anima franca:
- Seguiamo il corso suo, fingiti alcuna
- Andata in questo mezzo, e in quella manca
- Li tuoi sospiri, ch’al decimo giorno
- Senza alcun fallo qui farò ritorno.
- CLV.
- Se tu, allor disse Troilo, ci sarai
- Infra ’l decimo giorno, i’ son contento:
- Ma in questo mezzo i miei dolenti guai
- Da cui avranno alcuno alleggiamento?
- Già non poss’ora, siccome tu sai,
- Passare un’ora senza gran tormento
- Se non li veggio, come i dieci giorni
- Passar potrò infin che tu non torni?
- CLVI.
- Deh per Dio trova modo a rimanere,
- Deh non andar, se tu vedi alcun modo:
- Io ti conosco d’arguto sapere,
- Se bene intendo ciò che da te odo;
- E se tu m’ami, tu puoi ben vedere
- Che pur di ciò pensar tutto mi rodo,
- Cioè che tu te ne vada; e creder puoi,
- Se te ne vai, qual fia mia vita poi.
- CLVII.
- Oimè, disse Griseida, tu m’uccidi,
- Ed oltre al creder tuo malinconia
- Troppa mi dai, e veggio non ti fidi
- Quant’io credea nella promessa mia;
- Deh ben mio dolce, perchè sì diffidi,
- Perchè a te di te toi la balía?
- Chi crederia che uomo in arme forte,
- L’aspettar dieci dì el non comporte?
- CLVIII.
- Io credo di gran lunga sia il migliore
- Di prendere il partito ch’io t’ho detto;
- Siine contento, dolce mio signore,
- E cappiati per certo dentro al petto
- Ch’el me ne piange l’anima nel core
- Di allontanarmi dal tuo dolce aspetto,
- Forse più che non credi o non ci pensi,
- Ben lo sent’io per tutti quanti i sensi.
- CLIX.
- L’aspettar tempo è utile talvolta
- Per tempo guadagnare, anima mia:
- Io non ti son come tu mostri tolta,
- Perch’io al padre mio renduta sia;
- Nè ti cappia nel cor ch’io sia sì stolta,
- Che non sappia trovare e modo e via
- Di ritornare a te, cui io più bramo
- Che la mia vita, e vie più troppo t’amo.
- CLX.
- Ond’io ti prego, se ’l mio prego vale,
- E per lo grande amore il qual mi porti,
- E per quel ch’io a te porto, ch’è altrettale,
- Che tu di questa andata ti conforti;
- Che stu sapessi quanto mi fa male
- Veder li pianti e li sospir sì forti
- Che tu ne gitti, el te ne increscerebbe,
- E di farne cotanti ti dorrebbe.
- CLXI.
- Per te in allegrezza ed in disio
- Spero di vivere e di tornar tosto,
- E trovar modo al tuo diletto e mio:
- Fa’ ch’io ti veggia in tal guisa disposto
- Pria che da te io mi diparta, ch’io
- Non abbia più dolor, che quel che posto
- M’ha nella mente amor troppo focoso;
- Fallo, ten prego, dolce mio riposo.
- CLXII.
- E pregoti, mentr’io sarò lontana,
- Che prender non ti lasci dal piacere
- D’alcuna donna, o da vaghezza strana;
- Che s’io ’l sapessi, dei per certo avere
- Che io m’ucciderei siccome insana,
- Dolendomi di te oltra ’l dovere.
- Mi lasceresti per altra, che sai
- Che t’amo più che donna amasse uom mai?
- CLXIII.
- A quest’ultima parte sospirando
- Rispose Troilo: s’io fare volessi
- Ciò che tu ora tocchi sospicando,
- Non so veder com’io giammai potessi;
- Sì m’ha per te ghermito amore amando,
- Non so veder com’io in vita stessi.
- Questo amor ch’io ti porto e la ragione
- Ti spiegherò, ed in breve sermone.
- CLXIV.
- Non mi sospinse ad amarti bellezza,
- La quale spesso altrui suole irretire;
- Non mi trasse ad amarti gentilezza
- Che suol pigliar de’ nobili il desire;
- Non ornamento ancora, non ricchezza
- Mi fe’ per te amor nel cor sentire;
- Delle qua’ tutte se’ più copïosa,
- Che altra fosse mai donna amorosa;
- CLXV.
- Ma gli atti tuoi altieri e signorili,
- Il valore e ’l parlar cavalleresco,
- I tuoi costumi più ch’altra gentili,
- Ed il vezzoso tuo sdegno donnesco,
- Per lo quale apparien d’esserti vili
- Ogni appetito ed oprar popolesco,
- Qual tu mi se’, o donna mia possente,
- Con amor mi ti miser nella mente.
- CLXVI.
- E queste cose non posson tor gli anni
- Nè mobile fortuna, laond’io
- Con più angoscia e con maggiori affanni
- Sempre d’averti spero nel disio.
- Oimè lasso, qual fia de’ miei danni
- Ristoro, se ten vai, dolce amor mio?
- Certo nessun, se non la morte omai,
- Questa fia sola fine de’ miei guai.
- CLXVII.
- Poscia ch’egli ebber molto ragionato
- E pianto insieme, perchè s’appressava
- Già l’aurora, quello hanno lasciato,
- E strettamente l’un l’altro abbracciava;
- Ma poich’e’ galli molto ebber cantato,
- Dopo ben mille baci si levava
- Ciascun, l’un l’altro sè raccomandando,
- E così dipartirsi lagrimando.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE QUINTA
- * * *
- ARGOMENTO
- Comincia la quinta parte del Filostrato, nella quale Griseida è renduta. Troilo l’accompagna, e tornasi in Troia; piagne solo, e appresso con Pandaro, per lo consiglio del quale, alquanti dì se ne vanno a dimorare con Serpedone. Tornasi in Troia, laddove ogni luogo rammenta Griseida a Troilo, ed egli per mitigare i suoi dolori, quelli medesimi canta, aspettando che ’l dì decimo passi. E primieramente Griseida è renduta a Diomede, la quale Troilo accompagna infino fuori della città, e partita da lui, ell’è con festa ricevuta dal suo padre.
- I.
- Quel giorno istesso vi fu Diomede
- Per volere a’ Troian dare Antenore,
- Perchè Priamo Griseïda li diede,
- Di sospiri, di pianti e di dolore
- Sì piena, che n’incresce a chi la vede;
- Dall’altra parte v’era il suo amadore
- In sì fatta tristizia, che alcuno
- Un simil non ne vide mai nessuno.
- II.
- Vero è che con gran forza nascondea
- Mirabilmente dentro al tristo petto
- La gran battaglia la qual’egli avea
- Con sospiri e con pianto; e nell’aspetto
- Niente o poco ancor gli si parea,
- Come ch’egli attendesse esser soletto,
- E quivi piangere e rammaricarsi,
- Ed a grand’agio seco disfogarsi.
- III.
- Oh quante cose nell’altera mente
- Gli vennero, Griseida vedendo
- Rendere al padre! questi primamente
- D’ira e di cruccio tututto fremendo,
- Seco rodeasi, e dicea pianamente:
- O misero dolente, e che più attendo?
- Non è el meglio una volta morire,
- Che sempre in pianto vivere e languire?
- IV.
- Che non turb’io coll’arme questi patti?
- Perchè qui Diomede non uccido?
- Perchè non taglio il vecchio che gli ha fatti?
- Perchè li miei fratei tutti non sfido?
- Che ora fosser ei tutti disfatti!
- Perchè in pianto ed in dolente grido
- Troia non metto? Perchè non rapisco
- Griseida ora, e me stesso guarisco?
- V.
- Chi ’l vieterà, s’io il vorrò pur fare?
- O perchè colli Greci non m’accosto
- Se mi volesser Griseida donare?
- Deh perchè più dimoro, che non tosto
- Corro colà e follami lasciare?
- Ma così fiero ed altiero proposto
- Gli fe’ lasciar paura, non uccisa
- Griseida fosse in sì fatta divisa.
- VI.
- E Griseida poi vide che partire
- Le convenia, qual’ell’era, dogliosa,
- Con quella compagnia che dovea gire,
- Sopra il caval montò, e dispettosa
- Con seco stesso cominciò a dire:
- Ahi crudel Giove, e fortuna noiosa,
- Dove me ne portate contro voglia?
- Perchè v’aggrada tanto la mia doglia?
- VII.
- Voi mi togliete, crudi e dispietati,
- Da quel piacer che più m’andava a core;
- E forse vi credete umilïati
- Esser con sacrificio e con onore
- Alcun da me, ma voi sete ingannati;
- In vostro vituperio e disonore
- Mi dorrò sempre, infin che non ritorno
- A riveder di Troilo il viso adorno.
- VIII.
- Quinci si volse disdegnosamente
- Ver Diomede, e disse: andianne omai,
- Assai ci siam mostrati a questa gente;
- La quale omai sperar può de’ suoi guai
- Salute, se ben miran sottilmente
- All’onorevol cambio che fatt’hai,
- Che hai per una femmina renduto
- Un sì gran re e cotanto temuto.
- IX.
- E questo detto, al caval degli sproni
- Diè, senza dire fuor che a’ suoi addio;
- E ben conobbe il re e’ suoi baroni
- Lo sdegno della donna; indi sen gio,
- Senza ascoltare comiato o sermoni,
- O riguardare alcuno, e se n’uscio
- Di Troia, nella qual giammai tornare
- Più non doveva, nè con Troilo stare.
- X.
- Troilo a guisa d’una cortesia,
- Con più compagni montò a cavallo
- Con un falcone in pugno, e compagnia
- Le fece infino fuor di tutto il vallo,
- E volentieri per tutta la via
- L’averia fatta insino al suo stallo,
- Ma troppo discoperto saria stato,
- E poco senno ancora riputato.
- XI.
- E tra lor già venuto era Antenore
- Dalli Greci renduto, e con gran festa
- Ricevuto l’aveano e con onore
- I giovani troiani; e benchè questa
- Tornata fosse a Troilo dentro al core
- Per Griseida data assai molesta,
- Pur con buon viso il ricevette, e fello
- Con Pandar cavalcar davanti ad ello.
- XII.
- E già essendo per accomiatarsi,
- Egli e Griseida si fermaro alquanto,
- E dentro agli occhi l’un l’altro guatarsi,
- Nè ritener potè la donna il pianto,
- E poscia per le man destre pigliarsi,
- E a lei Troilo allor s’accostò tanto,
- Che pian parlando, ella ’l potè udire,
- E disse: torna, non mi far morire.
- XIII.
- E senza più, rivoltato il destriere,
- Tutto tinto nel viso, a Diomede
- Non parlò punto, e di cotal mestiere
- Sol Diomede s’accorse, e bene vede
- L’amor de’ due, e dentro al suo pensiere
- Con diversi argomenti ne fa fede,
- E di ciò mentre seco ne pispiglia,
- Nascosamente di colei si piglia.
- XIV.
- Il padre la raccolse con gran festa,
- Come ch’a lei gravasse tale amore;
- Ella si stava tacita e modesta,
- Sè stessa seco con grave dolore
- Tutta rodendo, ed in vita molesta,
- Pure a Troilo avendo fermo il core;
- Che tosto si doveva permutare,
- E lui per nuovo amante abbandonare.
- XV.
- Troilo in Troia tristo ed angoscioso,
- Quanto neun fu mai, se ne rivenne;
- E nel viso fellone e niquitoso,
- Pria ch’al palagio suo non si ritenne;
- Quivi smontato, troppo più pensoso
- Che stato fosse ancora, non sostenne
- Che da alcuno gli fosse nulla detto,
- Ma se n’entrò in camera soletto.
- XVI.
- Quivi al dolor che aveva ritenuto
- Diè largo luogo, chiamando la morte;
- Ed il suo ben piangeva, che perduto
- Gliel pare avere, e sì gridava forte,
- Che ’n forse fu di non esser sentuto
- Da quei che intorno givan per la corte;
- E in cotal pianto tutto il giorno stette,
- Che servo nè amico nol vedette.
- XVII.
- Se ’l giorno era con doglia trapassato,
- Non la scemò la notte già oscura,
- Ma fu il pianto e ’l gran duol raddoppiato,
- Così lo conducea la sua sciagura;
- El bestemmiava il giorno che fu nato,
- E gli dei e le dee e la natura,
- E ’l padre, e chi parola conceduta
- Avea che fosse Griseida renduta.
- XVIII.
- Egli sè stesso ancor maladicea,
- Che sì l’aveva lasciata partire,
- E che ’l partito che preso n’avea,
- Cioè con lei di volersi fuggire,
- Non l’avea fatto, e forte sen pentea,
- E di dolor ne voleva morire;
- O che almen non l’aveva domandata,
- Che forse li saria stata donata.
- XIX.
- E sè in qua ed ora in là volgendo,
- Senza luogo trovar per lo suo letto,
- Seco diceva talora piangendo:
- Che notte è questa! vogliendo rispetto
- Avere alla passata, s’io comprendo
- Qual’ora è, tal fiata il bianco petto,
- La bocca, e gli occhi, e ’l bel viso baciava
- Della mia donna, e spesso l’abbracciava;
- XX.
- Ella baciava me, e ragionando
- Prendevam festa lieta e grazïosa;
- Or sol mi trovo, lasso, e lagrimando,
- In dubbio se giammai tanto gioiosa
- Notte deggia tornare; ora abbracciando
- Vado il piumaccio, e la fiamma amorosa
- Sento farsi maggiore, e la speranza
- Farsi minor, per lo duol che l’avanza.
- XXI.
- Che farò dunque, misero dolente,
- Aspetterò, pure che ’l possa fare?
- Ma se così s’attrista la mia mente
- Nel suo partir, come perseverare
- Io spero di potere? Egli è niente
- A chi ben ama il potersi posare,
- Perchè in tal guisa fece il simigliante
- La notte e ’l dì ch’era passato avante.
- XXI.
- Pandar non era il dì potuto andare
- A lui, nè alcun altro, onde il mattino
- Venuto, tosto sel fece chiamare,
- Per poter seco alquanto il cor meschino,
- Parlando di Griseida, alleggerare.
- Pandar vi venne, e bene era indovino
- Di ciò che quella notte fatto avea,
- Ed ancora di ciò ch’esso volea.
- XXIII.
- O Pandar mio, disse Troilo, fioco
- Per lo gridare e per lo lungo pianto,
- Che farò io? che l’amoroso foco
- Sì mi comprende dentro tutto quanto,
- Che riposar non posso assai nè poco?
- Che farò io dolente, poichè tanto
- M’è stata la fortuna mia nemica,
- Ch’i’ ho perduta la mia dolce amica?
- XXIV.
- Io non la credo riveder giammai:
- Così foss’io allor caduto morto,
- Che io partir da me ier la lasciai!
- O dolce bene, o caro mio diporto,
- O bella donna a cui io mi donai;
- O dolce anima mia, o sol conforto
- Degli occhi tristi fiumi divenuti,
- Deh non ve’ tu ch’io muoio, e non m’aiuti?
- XXV.
- Chi ti ved’ora, dolce anima bella?
- Chi siede teco, cor del corpo mio?
- Chi t’ascolta ora, chi teco favella?
- Oimè lasso più ch’altro, non io!
- Di’ che fa’ tu? or étti punto nella
- Mente di me, o messo m’hai in oblio
- Per lo tuo padre vecchio ch’ora t’have,
- Laond’io vivo in pena tanto grave?
- XXVI.
- Qual tu m’odi ora, Pandaro, cotale
- Ho tutta notte fatto, nè dormire
- Lasciato m’ha quest’amoroso male;
- O pur se sonno alcun nel mio languire
- Trovato ha luogo, niente mi vale,
- Perchè dormendo sogno di fuggire,
- O d’esser solo in luoghi paurosi,
- O nelle man di nemici animosi.
- XXVII.
- E tanta noia m’è questo a vedere,
- E sì fatto spavento m’è nel core,
- Che vegghiar mi saria meglio e dolere:
- E spesse volte mi giugne un tremore
- Che mi riscuote e desta, e fa parere
- Che d’alto in basso io caggia, e desto, amore
- Insieme con Griseida chiamo forte,
- Or per mercè pregando, ora per morte.
- XXVIII.
- A cotal punto, qual odi, venuto
- Misero sono, e duolmi di me stesso,
- E del partir, più che giammai creduto
- Io non avrei; oimè che io confesso
- Che io deggia sperare ancora aiuto,
- E che la bella donna ancor con esso
- Verrà tornando, ma il core, che l’ama,
- Non mel consente, ed ognora la chiama.
- XXIX.
- Poscia ch’egli ebbe in tal guisa gran pezza
- Parlato e detto, Pandaro, doglioso
- Di così grave e noiosa gramezza,
- Disse: deh dimmi Troilo, se riposo
- E fine dee aver questa tristezza,
- Non credi tu che il colpo amoroso
- Da altri mai che da te sia sentito,
- O di partenza sia stato al partito?
- XXX.
- Ben son degli altri così innamorati
- Come tu se’, per Pallade tel giuro;
- E sonne ancor di quei che sventurati
- Son più di te, men pare esser sicuro;
- E non si son però del tutto dati,
- Come tu se’, a viver tanto duro,
- Ma la lor doglia, quando troppo avanza,
- S’ingegnan d’alleggiar con isperanza.
- XXXI.
- E tu dovresti il somigliante fare:
- Tu di’ che ella infra ’l decimo giorno
- T’ha impromesso di qui ritornare;
- Questo non è tanto lungo soggiorno,
- Che tu nol debbi potere aspettare
- Senza attristarti, e star come musorno:
- Come potresti sofferir l’affanno,
- Se allontanar si convenisse un anno?
- XXXII.
- I sogni e le paure caccia via,
- In quel che son lasciali andar ne’ venti;
- Essi procedon da malinconia,
- E quel fanno veder che tu paventi;
- Solo Iddio sa il ver di quel che fia,
- Ed i sogni e gli augurii, a che le genti
- Stolte riguardan, non montano un moco,
- Nè al futuro fanno assai o poco.
- XXXIII.
- Dunque, per Dio, a te stesso perdona,
- Lascia questo dolor cotanto fiero;
- Fammi esta grazia, questo don mi dona,
- Levati su, alleggia il tuo pensiero,
- E dei passati ben meco ragiona,
- Ed ai futuri il tuo animo altero
- Dispon, che torneranno assai di corto;
- Dunque sperando ben prendi conforto.
- XXXIV.
- Questa citta è grande e dilettosa,
- Ed ora è in tregua, siccome tu sai,
- Andianne in qualche parte grazïosa
- Di qui lontana, e quivi ti starai
- Con alcun d’esti re, e la noiosa
- Vita con esso lui trapasserai,
- Mentre che passi il termine c’ha dato
- La bella donna che t’ha il cor piagato.
- XXXV.
- Deh fallo, io te ne prego, leva suso,
- Non è atto magnanimo il dolersi
- Come tu fai, ed il giacer pur giuso;
- E s’e’ tuoi modi sì stolti e diversi
- Fuor si sapesson, saresti confuso;
- E diria l’uom, che tu de’ tempi avversi,
- Come codardo, e non d’amor piangessi,
- O che d’essere infermo t’infingessi.
- XXXVI.
- Oimè! chi molto perde piange assai,
- Nè ’l può conoscer chi non l’ha provato
- Qual è quel ben che io andar lasciai;
- Però non doverci esser biasmato
- S’altro che pianger non facesse mai;
- Ma poichè tu, amico, m’hai pregato,
- Conforterommi a tutto mio potere,
- In tuo servigio e per farti piacere.
- XXXVII.
- Mandimi Iddio il dì decimo tosto,
- Sì ch’io mi torni lieto com’io m’era
- Quando di render questa fu proposto:
- Non fu mai rosa in dolce primavera,
- Bella, com’io a ritornar disposto
- Sono, come vedrò la fresca cera
- Di quella donna ritornata in Troia,
- Che m’è cagion di tormento e di noia.
- XXXVIII.
- Ma dove potrem noi per festa andare
- Come ragioni? Andianne a Serpedone:
- E come vi potrò io dimorare,
- Che io avrò sempre all’animo questione,
- Non forse questa potesse tornare
- Anzi al dì dato per nulla cagione;
- Che non vorrei non esserci, se avviene,
- Per quanto il mondo vale e può di bene.
- XXXIX.
- Deh io farò che senza indugio, alcuno,
- Se ella torna, fia per me venuto,
- Rispose Pandaro, e porrò qui uno
- Per questo sol, sicchè ben fia saputo
- Da noi; ch’or forse già non c’è nessuno
- Da cui come da me fosse voluto;
- Sicchè per questo già non lascerai;
- Andianne là dov’ora detto m’hai.
- XL.
- I due compagni nel cammino entraro,
- E dopo forse quattromila passi
- Là dove Serpedone era arrivaro;
- Il quale come il seppe, incontro fassi
- A Troilo lieto, e molto gli fu caro.
- Li quali, avvegna che de’ fosser lassi
- Del molto sospirar, pur lietamente
- Festa fer grande col baron possente.
- XLI.
- Costui, siccome quel che d’alto cuore
- Era più ch’altro in ciascheduna cosa,
- Fece a ciascun maraviglioso onore
- Or con cacce or con festa grazïosa
- Di belle donne e di molto valore,
- Con canti e suoni, e sempre con pomposa
- Grandezza di conviti tanti e tali,
- Che ’n Troia mai non s’eran fatti eguali.
- XLII.
- Ma che giovavan queste cose al pio
- Troilo che ’l core ad esse non avea?
- Egli era là dove spesso il disio
- Formato nel pensier suo nel traea,
- E Griseida come suo iddio
- Con gli occhi della mente ognor vedea;
- Or una cosa or altra immaginando,
- Di lei e spesso d’amor sospirando.
- XLIII.
- Ogni altra donna a veder gli era grave,
- Quantunque fosse valorosa e bella;
- Ogni sollazzo ogni canto soave
- Noioso gli era non vedendo quella,
- Nelle cui mani amor posto la chiave
- Avea della sua vita tapinella;
- E tanto bene avea, quanto pensare
- A lei potea, lasciando ogni altro affare.
- XLIV.
- E non passava sera nè mattina
- Che con sospiri costui non chiamasse,
- O luce bella, o stella mattutina;
- Poi, come s’ella presente ascoltasse,
- Mille fïate e più, rosa di spina
- Chiamandola che ella il salutasse,
- Pria ch’e’ ristesse sempre convenia,
- Il salutar col sospirar finia.
- XLV.
- Nessuna ora del giorno trapassava
- Che non la nominasse mille fiate;
- Sempre il suo nome in la bocca li stava,
- E ’l suo bel viso e le parole ornate
- Nel cuore e nella mente figurava;
- Le lettere da lei a lui mandate
- Il dì ben cento volte rivolgea,
- Tanto di rivederle gli piacea.
- XLVI.
- E’ non vi furon tre dì dimorati,
- Ch’a Pandar Troilo cominciò a dire:
- Che facciam noi più qui? siam noi legati
- A dovere qui vivere e morire?
- Aspettiam noi d’essere accomiatati?
- A dirti il vero i’ me ne vorre’ ire:
- Deh andianne, per Dio, assai siam suti
- Con Serpedone e volentier veduti.
- XLVII.
- Pandaro allora: or siam noi per lo fuoco
- Venuti qui, o è ’l decimo giorno
- Venuto? Ancor deh temperati un poco,
- Che l’andarne ora parrebbe uno scorno.
- Dove n’andrai tu ora ed in qual loco
- Nel qual tu facci più lieto soggiorno?
- Deh stiamo ancor due dì, poi ce n’andremo,
- E se vorrai, a casa torneremo.
- XLVIII.
- Come che contra voglia Troilo stesse,
- Pur si rimase ne’ pensieri usati,
- Nè valea perchè Pandar gliel dicesse.
- Ma dopo il quinto dì accomiatati,
- Quantunque a Serpedone non piacesse,
- Ver le lor case si son ritornati;
- Troilo dicendo pel cammino; o Dio!
- Troverò io tornato l’amor mio?
- XLIX.
- Ma Pandar seco diceva altrimente,
- Come colui che conosceva intera
- L’intenzïon di Calcas pienamente:
- Questa tua voglia sì focosa e fiera
- Si potrà raffreddar, s’el non mi mente
- Ciò ch’io udii infin quand’ella c’era;
- Ed il decimo giorno, e ’l mese e l’anno,
- Pria la rivegghi, credo passeranno.
- L.
- Poi che furono a casa ritornati,
- Intramendue in camera n’andaro,
- Ed a seder si furono assettati
- E di Griseida molto ragionaro,
- Senza dar sosta Troilo agl’infiammati
- Sospir, ma dopo alquanto si levaro,
- Dicendo Troilo: andiamo, e sì vedremo
- La casa almen; poich’altro non potemo.
- LI.
- E detto questo, il suo Pandaro prese
- Per mano, e ’l viso alquanto si dipinse
- Con falso riso, e del palagio scese,
- E varie cagïon con gli altri finse
- Ch’eran con lui, per nasconder l’offese
- Ch’e’ sentiva d’amor; ma poich’attinse
- Con gli occhi di Griseida la magione
- Chiusa, sentì novella turbazione.
- LII.
- E’ gli parve che il cor gli si schiantasse
- Poi veduta ebbe la porta serrata
- E le finestre; e tanto di sè ’l trasse
- La passïon novellamente nata,
- Ch’el non sapea se stesse o se andasse;
- E nella faccia sua tutta cambiata
- N’averia dato segno manifesto,
- A chi l’avesse riguardato presto.
- LIII.
- Con Pandar poi come potea doglioso
- Della sua nuova angoscia ragionava;
- Poi dicea: lasso, quanto luminoso
- Era il luogo e piacevol, quando stava
- In te quella beltà, che ’l mio riposo
- Dentro dagli occhi suoi tutto portava;
- Or se’ rimaso oscuro senza lei,
- Nè so se mai riaver la ti dei.
- LIV.
- Quindi sen gì per Troia cavalcando,
- E ciascun luogo gliel tornava a mente;
- De’ quai con seco giva ragionando:
- Quivi rider la vidi lietamente;
- Quivi la vidi verso me guardando:
- Quivi mi salutò benignamente;
- Quivi far festa e quivi star pensosa,
- Quivi la vidi a’ miei sospir pietosa.
- LV.
- Colà istava, quand’ella mi prese
- Con gli occhi belli e vaghi con amore;
- Colà istava, quando ella m’accese
- Con un sospir di maggior fuoco il core;
- Colà istava, quando condiscese
- Al mio piacere il donnesco valore;
- Colà la vidi altiera, e là umile
- Mi si mostrò la mia donna gentile?
- LVI.
- Poi ciò pensando, giva soggiugnendo:
- Lunga hai fatta di me amor la storia,
- S’io non mi voglio a me gir nascondendo,
- E ’l ver ben mi ridice la memoria;
- Dove ch’io vada o stia, s’io bene intendo,
- Ben mille segni della tua vittoria
- Discerno, c’hai avuta trionfante
- Di me, che schernii già ciascuno amante.
- LVII.
- Ben hai la tua ingiuria vendicata,
- Signor possente e molto da temere:
- Ma poi ch’a te servir l’alma s’è data
- Tutta, siccome chiaro puoi vedere,
- Non la lasciar morire sconsolata,
- Ritornata nel suo primo piacere,
- Stringi Griseida sì come me fai,
- Sì ch’ella torni a dar fine a’ miei guai.
- LVIII.
- El se ne gia talvolta in sulla porta
- Per la qual’era la sua donna uscita:
- Di quinci uscì colei che mi conforta,
- Di quinci uscì la mia soave vita;
- Fino a quel loco le feci la scorta,
- E quivi da lei feci dipartita;
- E quivi lasso le toccai la mano,
- Seco dicea, piangendo a mano a mano.
- LIX.
- Quindi n’andasti, cor del corpo mio;
- Quando sarà che tu quindi ritorni,
- Caro mio bene e dolce mio disio?
- Certo io non so, ma questi dieci giorni
- Più che mill’anni fien; deh vedrott’io
- Giammai tornar colli tu’ atti adorni,
- A rallegrarmi sì com’hai promesso?
- Deh fia omai, deh or foss’egli adesso!
- LX.
- E gli parea a sè stesso nel viso
- Esser men che l’usato colorito,
- E per questo faceva in suo avviso
- D’esser talvolta dimostrato a dito,
- Quasi dicesser: perchè sì conquiso
- È divenuto Troilo e sì smarrito?
- Color che ’l dimostrassono e’ non era,
- Ma sospica chi sa la cosa vera.
- LXI.
- Per che gli piacque di mostrare in versi
- Chi ne fosse cagione: e sospirando,
- Quand’era assai stanco di dolersi,
- Alcuna sosta quasi al dolor dando,
- Mentre aspettava nelli tempi avversi,
- Con bassa voce sen giva cantando,
- E ricreando l’anima conquisa
- Dal soperchio d’amore, in cotal guisa:
- LXII.
- La dolce vista e ’l bel guardo soave
- De’ più begli occhi che si vider mai,
- Ch’i’ ho perduti, fan parer sì grave
- La vita mia, ch’io vo traendo guai;
- Ed a tal punto già condotto m’have,
- Che invece di sospir leggiadri e gai
- Ch’aver solea, disii porto di morte
- Per la partenza, sì me ne duol forte.
- LXIII.
- Oimè Amor, perchè nel primo passo
- Non mi feristi sì ch’io fossi morto?
- Perchè non dipartisti da me lasso
- Lo spirito angoscioso che io porto?
- Perciocchè d’alto mi veggio ora in basso.
- Non è amore al mio dolor conforto
- Fuor che ’l morir, trovandomi partuto
- Da que’ begli occhi ov’io t’ho già veduto.
- LXIV.
- Quando per gentil atto di salute
- Ver bella donna giro gli occhi alquanto,
- Sì tutta si disfà la mia virtute
- Che ritener non posso dentro il pianto;
- Così mi van l’amorose ferute
- Membrando la mia donna, a cui son tanto,
- O lasso me, lontano a veder lei,
- Che se ’l volesse Amor, morir vorrei.
- LXV.
- Poichè la mia ventura è tanto cruda
- Che ciò ch’agli occhi incontra più m’attrista,
- Per Dio, Amor, che la tua man li chiuda,
- Poic’ho perduta l’amorosa vista;
- Lascia di me, Amor, la carne ignuda,
- Che quando vita per morte s’acquista
- Gioioso dovria essere il morire,
- E sai ben dove l’alma ne dee gire.
- LXVI.
- Ella n’andrà in quelle belle braccia
- Dove fortuna n’ha ’l corpo gittato:
- Non vedi tu che già nella mia faccia
- Io son del color suo, Amor, segnato?
- Vedi l’angoscia che da me la caccia,
- Trannela tu, e nel seno più amato
- Da lei la porta, ov’ella attende pace,
- Che già ogni altra cosa le dispiace.
- LXVII.
- Poich’egli avea cantando così detto,
- Al sospirare antico si tornava;
- Il dì andando, e la notte nel letto,
- Di Griseida sua sempre pensava;
- Nè d’altro quasi prendeva diletto,
- E i dì passati spesso annoverava,
- Non credendo giammai giungere a’ dieci,
- Ch’a lui tornasse Griseida da’ Greci.
- LXVIII.
- Li giorni grandi e le notti maggiori
- Oltre all’usato modo gli parieno;
- El misurava dalli primi albori
- Infino allor che le stelle apparieno;
- Diceva: il sol è entrato in nuovi errori,
- Nè i cavai suoi come già fer corrieno:
- Della notte diceva il simigliante,
- E l’una, due, diceva tutte quante.
- LXIX.
- Era la vecchia luna già cornuta
- Nel partir di Griseida, ed el l’avea,
- Da lei uscendo, in sul mattin veduta;
- Per che sovente con seco dicea:
- Allor che questa sarà divenuta
- Colle sue nuove corna, qual parea
- Quando sen gì la nostra donna, fia
- Tornata qui allor l’anima mia.
- LXX.
- El riguardava li Greci attendati
- Davanti a Troia, e come già turbarsi
- Vedendoli solea, così mirati
- Con diletto eran; e ciò che soffiarsi
- Sentia nel viso, sì come mandati
- Sospiri di Griseida solea darsi
- A creder fosser, dicendo sovente:
- O qua o quivi è mia donna piacente.
- LXXI.
- In cotal guisa, e in altri modi assai,
- Il tempo sospirando trapassava;
- E con lui Pandaro era sempre mai,
- Che a ciò far sovente il confortava;
- Ed in ragionamenti lieti e gai
- A suo poter di trarlo s’ingegnava;
- Donando a lui ognor buona speranza
- Della sua vaga e valorosa amanza.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE SESTA
- * * *
- ARGOMENTO
- Qui comincia la sesta parte del Filostrato, nella quale primieramente Griseida, essendo presso al padre, si duole d’essere lontana a Troilo. Viene a lei Diomede e favellale; biasimale Troia e i Troiani, e discuoprele il suo amore; al quale ella risponde, e lascialo in dubbio s’egli le piaccia o no; e ultimamente intiepidita di Troilo, il comincia a dimenticare. E primieramente si duole piangendo Griseida d’essere da Troilo lontana.
- I.
- Dall’altra parte in sul lito del mare,
- Con poche donne, tra le genti armate
- Stava Griseida, ed in lagrime amare
- Da lei eran le notti consumate,
- Che ’l giorno più le convenia guardare,
- Perchè le fresche guance e delicate
- Pallide e magre l’eran divenute,
- Lontana dalla sua dolce salute.
- II.
- Ella piangeva seco mormorando
- Di Troilo lo già preso piacere,
- E gli atti tutti andava disegnando
- Stati tra loro, e le parole intere
- Tutte con seco venia ricordando,
- Qualora ella n’avea tempo o potere;
- Perchè da lui vedendosi lontana,
- Fe’ de’ suoi occhi un’amara fontana.
- III.
- Nè saria stato alcun sì dispietato
- Ch’udendo lei rammaricar dolente
- Con lei di pianger si fosse temprato.
- Ella piangeva sì amaramente,
- Quando punto di tempo l’era dato,
- Che dir non si potrebbe interamente;
- E quel che peggio ch’altro le facea,
- Era, con cui dolersi non avea.
- IV.
- Ella mirava le mura di Troia,
- E’ palagi, le torri e le fortezze,
- E dicea seco: oimè, quanta gioia,
- Quanto piacere e quanto di dolcezze
- N’ebb’io già dentro! ed ora in trista noia
- Consumo qui le mie care bellezze:
- Oimè, Troilo mio, che fa’ tu ora,
- Ricordati di me niente ancora?
- V.
- Oimè lassa! or t’avess’io creduto,
- E insieme tramendue fossimo giti
- Dove e in qual regno ti fosse piaciuto;
- Ch’or non sarien questi dolor sentiti
- Da me, nè tanto buon tempo perduto:
- Quando che sia saremmo poi redditi;
- E chi di me avria poi detto male,
- Perchè andata ne fossi con uom tale?
- VI.
- Oime lassa! che tardi m’avveggio
- Che ’l senno mio mi torna ora nemico:
- Io fuggii il male e seguitai il peggio,
- Onde di gioia il mio cuore è mendico;
- E per conforto invan la morte chieggio,
- Poi veder non ti posso, o dolce amico,
- E temo di giammai più non vederti;
- Così sien tosto li Greci diserti!
- VIII.
- Ma mio poter farò quinci fuggirmi,
- Se conceduto non mi fia ’l venire
- In altra guisa, e con teco reddirmi
- Com’io promisi; e vada dove gire
- Ne vuole il fumo, e ciò che può seguirmi
- Di ciò ne segua; ch’anzi che morire
- Di dolor voglia, io voglio che parlare
- Possa chi voglia e di ciò abbaiare.
- VIII.
- Ma di sì alto e grande intendimento
- Tosto la volse novello amadore:
- Aoperava Diomede ogni argomento
- Che el potea per entrarle nel core;
- Nè gli fallì al suo tempo l’attento,
- E ’n breve spazio ne cacciò di fuore
- Troilo e Troia, ed ogni altro pensiero
- Che ’n lei fosse di lui o falso o vero.
- IX.
- Ella non v’era il quarto giorno stata
- Dopo l’amara dipartenza, quando
- Cagione onesta a lei venir trovata
- Da Diomede fu, che sospirando
- La trovò sola, e quasi trasformata
- Dal dì che prima con lei cavalcando
- Di Troia quivi menata l’avea,
- Il che gran maraviglia gli parea.
- X.
- E seco disse nella prima vista:
- Vana fatica credo sia la mia;
- Questa donna è per altrui amor trista,
- Siccom’io veggio, sospirosa e pia;
- Troppo esser converria sovrano artista
- S’io ne volessi il primo cacciar via
- Per entrarv’io: oimè che male andai
- Per me a Troia quando la menai.
- XI.
- Ma come quei ch’era di grande ardire,
- E di gran cuor, con seco stesso prese,
- S’el ne dovesse per certo morire,
- Poi quivi era venuto, l’aspre offese
- Ch’amore gli facea per lei sentire
- Di dimostrarle, sì come s’accese
- Prima di lei; e postosi a sedere,
- Di lungi assai si fece al suo volere.
- XII.
- E prima seco entrò a ragionare
- Dell’aspra guerra tra loro e’ Troiani,
- Lei domandando quel che le ne pare,
- S’e’ lor pensier credea frivoli o vani:
- Quinci discese poi a domandare
- Se le parien de’ Greci i modi strani;
- Nè molto poi si tenne a domandarla,
- Perchè stesse Calcas di maritarla.
- XIII.
- Griseida, che ancor l’animo avea
- In Troia fitto al suo dolce amadore,
- Dell’astuzia di lui non s’accorgea,
- Ma sì come piaceva al suo signore
- Amore, a Diomede rispondea,
- E spesse volte gli passava il cuore
- Con grieve doglia, e talor li donava
- Lieta speranza di quel che cercava.
- XIV.
- Il qual come con lei rassicurato
- Fu ragionando, cominciò a dire:
- Giovane donna, s’io v’ho ben guardato
- Nell’angelico viso da aggradire
- Più ch’altro visto mai, quel trasformato
- Mi par veder per noioso martire,
- Dal giorno in qua che di Troia partimmo,
- E qui come sapete ne venimmo.
- XV.
- Nè so ch’esser si possa la cagione
- S’amor non fosse, il qual, se savia sete,
- Gittrete via, udendo la ragione,
- Perchè siccom’io dico far dovete.
- Li Troian son si può dire in prigione
- Da noi tenuti, siccome vedete,
- Che siam disposti di non mutar loco
- Senza disfarla o con ferro o con fuoco:
- XVI.
- Nè crediate ch’alcun che dentro sia
- Trovi pietà da noi in sempiterno;
- Nè mai commise alcuno altra follia
- O commettrà, se ’l mondo fosse eterno,
- Che assai chiaro esemplo non gli fia,
- O qui tra’ vivi, o tra’ morti in inferno,
- La punizion ch’a Paride daremo,
- Della fatta da lui, se noi potremo.
- XVII.
- E se vi fosser ben dodici Ettori,
- Come un ve n’è, e sessanta fratelli;
- Se Calcas per ambage e per errori
- Qui non ci mena, parimente d’elli,
- Quantunque sieno, i disiati onori
- Avremo e tosto; e la morte di quelli,
- Che sarà in breve, ne darà certanza
- Che non sia falsa la nostra speranza.
- XVIII.
- E non crediate che Calcas avesse
- Con tanta istanza voi raddomandata,
- Se ciò ch’io dico non antivedesse:
- Ben’ho io già con esso lui trattata
- Questa questione prima che ’l facesse,
- E ciascuna cagione esaminata;
- Ond’ei per trarvi di cotal periglio,
- Di rivolervi qui prese consiglio.
- XIX.
- Ed io nel confortai, di voi udendo
- Mirabili virtù ed altre cose;
- Ed Antenor per voi dargli sentendo,
- M’offersi trattator, ed el m’impose
- Ch’io il facessi, assai ben conoscendo
- La fede mia; nè mi fur faticose
- L’andate e le tornate per vedervi,
- Per parlarvi, conoscervi ed udervi.
- XX.
- Chè vo’ dir dunque, bella donna e cara,
- Lasciate de’ Troian l’amor fallace;
- Cacciate via questa speranza amara
- Che ’nvano sospirare ora vi face,
- E rivocate la bellezza chiara,
- La qual più ch’altra a chi intende piace;
- Ch’a tal partito omai Troia è venuta
- Ch’ogni speranza ch’uomo v’ha è perduta.
- XXI.
- E s’ella fosse pur per sempre stare,
- Sì sono il re, e’ figli e gli abitanti
- Barbari e scostumati, e da apprezzare
- Poco, a rispetto de’ Greci, ch’avanti
- Ad ogni altra nazion possono andare,
- D’alti costumi e d’ornati sembianti;
- Voi siete ora tra uomin costumati,
- Dove eravate tra bruti insensati.
- XXII.
- E non crediate che ne’ Greci amore
- Non sia, assai più alto e più perfetto
- Che tra’ Troiani; e ’l vostro gran valore,
- La gran beltà e l’angelico aspetto
- Troverà qui assai degno amadore,
- Se el vi fia di pigliarlo diletto;
- E se non vi spiacesse, io sarei desso,
- Più volentier che re de’ Greci adesso.
- XXIII.
- E questo detto diventò vermiglio
- Come fuoco nel viso, e la favella
- Tremante alquanto; in terra bassò il ciglio,
- Alquanto gli occhi torcendo da ella.
- Ma poi tornò da subito consiglio
- Più pronto che non era, e con isnella
- Loquela seguitò: non vi sia noia,
- Io son così gentil come uom di Troia.
- XXIV.
- Se ’l padre mio Tideo fosse vissuto,
- Com’el fu morto a Tebe combattendo,
- Di Calidonia e d’Argo saria suto
- Re, siccom’io ancora essere intendo;
- Nè era stran nell’un regno venuto,
- Ma conosciuto, antico e reverendo,
- E, se creder si può, di Dio disceso,
- Sì ch’io non son tra’ Greci di men peso.
- XXV.
- Pregovi dunque, se ’l mio prego vale,
- Che via cacciate ogni malinconia,
- E me, se io vi paio tanto e tale
- Qual si conviene a vostra signoria,
- In servidor prendiate; io sarò quale
- L’onestà vostra e l’alta leggiadria,
- Ch’io veggio in voi più che ’n altra, richiede,
- Sì che ancor caro avrete Diomede.
- XXVI.
- Griseida ascoltava, e rispondea
- Poche parole e rade, vergognosa,
- Secondo che ’l di lui dir richiedea;
- Ma poi udendo quest’ultima cosa,
- Seco l’ardir di lui grande dicea,
- A traverso mirandol dispettosa,
- Tanto poteva ancor Troilo in essa,
- E così disse con voce sommessa:
- XXVII.
- Io amo, Diomede, quella terra
- Nella qual son cresciuta ed allevata,
- E quanto può mi grava la sua guerra,
- E volentier la vedrei liberata;
- E se fato crudel fuor me ne serra,
- Questo mi fa con gran ragion turbata,
- Ma d’ogni affanno per me ricevuto,
- Prego buon merto te ne sia renduto.
- XXVIII.
- Ben so ch’e’ Greci son d’alto valore
- E costumati sì come ragioni;
- Ma de’ Troian non è però minore
- L’alta virtù; e le lor condizioni
- L’hanno mostrate nelle man d’Ettore;
- Nè senno è credo per divisïoni
- O per altra cagione altrui biasmare,
- E poscia sè sopra gli altri lodare.
- XXIX.
- Amore io non conobbi, poi morio
- Colui al qual lealmente il servai,
- Sì come a marito e signor mio;
- Nè Greco nè Troian mai non curai
- In cotal fatto, nè me n’è in disio
- Curarne alcuno, nè mi fia giammai:
- Che tu sia di real sangue disceso
- Cred’io assai, ed hollo bene inteso.
- XXX.
- E questo assai mi dà d’ammirazione,
- Che possi porre in una femminella,
- Come son io, di poca condizione
- L’animo tuo: a te Elena bella
- Si converria: io ho tribulazione,
- Nè son disposta a sì fatta novella;
- Non perciò dico che io sia dolente
- D’essere amata da te certamente.
- XXXI.
- Il tempo è reo, e voi siete nell’armi,
- Lascia venir la vittoria ch’aspetti,
- Allor saprò io molto me’ che farmi;
- Forse mi piaceranno più i diletti
- Ch’ora non fanno, e potrai riparlarmi,
- E per ventura più cari i tuoi detti
- Mi fieno ch’or non son: l’uom dee guardare
- Tempo e stagion quand’altri vuol pigliare.
- XXXII.
- Quest’ultimo parlare a Diomede
- Fu assai caro, e parveli potere
- Isperar senza fallo ancor mercede,
- Siccom’egli ebbe poi a suo piacere;
- E risposele: donna, io vi fo fede
- Quanto posso maggiore, che al volere
- Di voi io sono e sarò sempre presto:
- Nè altro disse, e gissen dopo questo.
- XXXIII.
- Egli era grande e bel della persona,
- Giovane fresco e piacevole assai,
- E forte e fier siccome si ragiona,
- E parlante quant’altro Greco mai,
- E ad amor la natura aveva prona;
- Le quai cose Griseida ne’ suoi guai,
- Partito lui, seco venne pensando,
- D’accostarsi o fuggirsi dubitando.
- XXXIV.
- Queste la fer raffreddar nel pensiero
- Caldo ch’avea di voler pur reddire;
- Queste piegaro il suo animo intero
- Che in ver Troilo aveva, ed il disire
- Torsono indietro, e ’l tormento severo
- Nuova speranza alquanto fe’ fuggire:
- E da queste cagion sommossa, avvenne
- Che la promessa a Troilo non attenne.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE SETTIMA
- * * *
- ARGOMENTO
- Qui comincia la settima parte del Filostrato, nella quale primieramente Troilo il dì decimo attende Griseida alla porta; la quale non venendo, scusala, e tornavi l’undecimo, e più altri; e non venendo essa, alle lagrime ritorna. Con dolore consumasi Troilo; Priamo il dimanda della cagione, tacela Troilo. Sogna Troilo Griseida essergli tolta; dicelo a Pandaro, e vuolsi uccidere: Pandaro il ritiene, e stornalo da ciò. Scrive a Griseida. Deifebo s’accorge del suo amore. Giacendo lui le donne il visitano; Cassandra il riprende, ed egli riprende Cassandra. E primieramente venuto il dì decimo, Troilo e Pandaro aspettano Griseida in sulla porta.
- I.
- Troilo, siccome egli è di sopra detto,
- Passava il tempo il dì dato aspettando,
- Il qual pur venne dopo lungo aspetto;
- Ond’egli altre faccende dimostrando
- In ver la porta se ne gì soletto,
- Con Pandaro di ciò molto parlando;
- E ’n verso il campo rimirando gieno
- Se in ver Troia alcun venir vedieno.
- II.
- E ciascun che da loro era veduto
- Venir ver loro, solo o accompagnato,
- Che Griseida fosse era creduto,
- Finch’el non s’era a lor tanto appressato
- Che apertamente fosse conosciuto;
- E così stetter mezzodì passato,
- Beffati spesso dalla lor credenza,
- Siccome poi mostrava l’esperienza.
- III.
- Troilo disse: anzi mangiare omai,
- Per quel ch’io possa creder, non verrebbe;
- Ella penrà a disbrigarsi assai
- Dal vecchio padre più che non vorrebbe:
- Per mio avviso tu che ne dirai?
- Io pur mi credo che ella sarebbe
- Venuta, se venire ella potesse,
- E s’a mangiar con lui non si ristesse.
- IV.
- Pandaro disse: io credo dichi il vero;
- Però andianne, e poi ci torneremo.
- A Troilo piacque, e al fine così fero;
- E lo spazio che stettero, assai stremo
- Fu, che tornar, ma gl’ingannò il pensiero,
- Siccome apparve, e trovaronlo scemo,
- Che questa gentil donna non venia,
- E già la nona su ’n alto salia.
- V.
- Troilo disse: forse che impedita
- L’avrà il padre, e vorrà che dimori
- Infino a vespro, e però sua reddita
- Al tardi fia: omai stiamci di fuori,
- Sì ch’ella abbia l’entrata spedita;
- Che spesse volte questi guardatori
- Soglion tenere in parole chi viene,
- Senza distinguere a cui si conviene.
- VI.
- Il vespro venne, e poi venne la sera,
- E molti avevan Troilo ingannato,
- Il quale in ver lo campo sospeso era
- Istato sempre, e tutti riguardato
- Avea color che di ver la riviera
- Venieno a Troia, ed alcun domandato
- Per nuove circostanze, e non avea
- Nulla raccolto di ciò che chiedea.
- VII.
- Perchè si volse a Pandaro dicendo:
- Fatto avrà questa donna saviamente,
- Se de’ suoi modi meco ben comprendo;
- Ella vorrà venir celatamente,
- Però la notte attende, ed io ’l commendo;
- Non vorrà far maravigliar la gente,
- Nè dir: costei che fu raddomandata
- Per Antenor, c’è sì tosto tornata?
- VIII.
- Però non ti rincresca l’aspettare,
- Pandaro mio, io ten prego per Dio,
- Noi non abbiam or’altra cosa a fare,
- Non ti gravi seguire il mio disio:
- E s’io non erro vederla mi pare;
- Deh guarda in giù, deh vedi tu quel ch’io?
- Nò, disse Pandar, se ben gli occhi sbarro,
- Quel che mi mostri pare a me un carro.
- IX.
- Oimè che tu di’ vero! Troilo disse,
- Or così va, cotanto mi trasporta
- Quel ch’io vorrei ch’al presente avvenisse.
- Era del sole già la luce morta,
- E stella alcuna in elei parea venisse,
- Quando Troilo disse: el mi conforta
- Non so che pensier dolce nel desire,
- Abbi per certo ch’or ne dee venire.
- X.
- Pandaro seco, ma tacitamente,
- Ridea di ciò che Troilo dicea,
- E conosceva manifestamente
- La cagione che a ciò dire il movea;
- E per non farlo di ciò più dolente
- Che el si fosse, sembiante facea
- Di crederli, e dicea: di Mongibello
- Aspetta il vento questo tapinello.
- XI.
- L’attendere era nulla, ed i guardiani
- Facean sopra la porta gran romore,
- Dentro chiamando cittadini e strani,
- Qual non volesse rimaner di fuore,
- Colle lor bestie ancor tutti i villani;
- Ma Troilo fe’ tardar più di due ore;
- Infine essendo il ciel tutto stellato,
- Con Pandar dentro se n’è ritornato.
- XII.
- E benchè in sè medesmo molte volte,
- Or con una or con altra il dì avesse
- Isperanza ingannato, intra le molte
- Voleva amor dover pur ch’el credesse
- Ad alcuna di quelle meno stolte;
- Per che da capo il suo parlar diresse
- Ver Pandaro, dicendo: stolti siamo,
- Che questo giorno aspettata l’abbiamo.
- XIII.
- Ella mi disse dieci dì starebbe
- Col padre, senza più starvi niente,
- E poscia in Troia se ne tornerebbe;
- Il termine è per questo dì presente:
- Dunque doman venir se ne dovrebbe,
- Sebbene annoveriam dirittamente,
- E noi siam qui tutto il dì dimorati,
- Tanto n’ha fatti il disio smemorati.
- XIV.
- Domattina per tempo ritornare
- Pandar ci si vorrà; e così fero.
- Ma poco valse in su e ’n giù guardare,
- Ch’ad altro già ell’avea dritto il pensiero;
- Sì che costor dopo molto badare,
- Siccome fatto aveano il dì primiero,
- Fatto già notte dentro si tornaro;
- Ma ciò a Troilo fu soverchio amaro;
- XV.
- E la speranza lieta ch’egli avea
- Quasi più non avea dove appiccarsi;
- Di che con seco molto si dolea,
- E forte cominciò a rammaricarsi
- E di lei e d’amor, nè gli parea
- Per cagion nulla che tanto indugiarsi
- Dovesse a ritornare, avendogli essa
- La ritornata con fede promessa.
- XVI.
- Ma ’l terzo, e ’l quarto, e ’l quinto, e ’l sesto giorno,
- Dopo ’l decimo dì già trapassato,
- Sperando e non sperando il suo ritorno,
- Da Troilo fu con sospiri aspettato:
- E dopo questi, più lungo soggiorno
- Ancor dalla speranza fu impetrato,
- E tutto invan, costei pur non tornava,
- Laonde Troilo se ne consumava.
- XVII.
- Le lagrime che erano allenate
- Pe’ conforti di Pandaro, e’ sospiri,
- Tornar senza esser da lui rivocate,
- Dando lor via i focosi disiri;
- E quelle che speranze risparmiate
- Aveva, usciron doppie pe’ martirj,
- Che ’n lui gabbato più si fer cocenti
- Che pria non eran, ben per ognun venti.
- XVIII.
- In lui ogni disio istato antico
- Ritornò nuovo, e sopra esso l’inganno
- Che li parea ricevere, e ’l nemico
- Spirto di gelosia gravoso affanno
- Più ch’alcun altro è di posa mendico,
- Come son quei che già provato l’hanno;
- Ond’el piangeva giorno e notte tanto,
- Quanto bastavan gli occhi ed egli al pianto.
- XIX.
- El non mangiava quasi e non bevea,
- Sì avea pieno d’angoscia il tristo petto;
- Ed oltre a questo dormir non potea
- Se non da’ sospir vinto, ed in dispetto
- La vita sua e sè del tutto avea,
- E come ’l fuoco fuggiva ’l diletto,
- Ed ogni festa ed ogni compagnia
- Similemente a suo poter fuggia.
- XX.
- Ed era tal nel viso divenuto,
- Che piuttosto che uom pareva fera;
- Nè l’averia alcun riconosciuto,
- Sì pallida e smarrita avea la cera;
- Del corpo s’era ogni valor partuto,
- E tanta forza appena ne’ membri era
- Che ’l sostenesse, nè conforto alcuno
- Prender volea che gli desse nessuno.
- XXI.
- Priamo che ’l vedea così smarrito,
- A sè alcuna volta lui chiamava,
- Dicendo: figliuol mio che hai tu sentito?
- Qual cosa è quella che tanto ti grava?
- Tu non par desso, tu se’ scolorito,
- Che è cagion della tua vita prava?
- Dimmel figliuolo, tu non ti sostieni,
- E s’io discerno ben, tutto men vieni.
- XXII.
- Il simigliante gli diceva Ettore,
- Paris e gli altri fratelli e sorelle;
- E domandavan d’onde esto dolore
- Sì grande avesse, e per quai ree novelle.
- Alli quai tutti diceva ch’al core
- Si sentia noie, ma quai fosser quelle,
- Niuno poteva tanto addomandare
- Che da lui più ne potesse apparare.
- XXIII.
- Erasi un dì tutto maninconoso,
- Per la fallita fede, ito a dormire
- Troilo, e in sogno vide il periglioso
- Fallo di quella che ’l facea languire:
- Che gli parea per entro un bosco ombroso
- Un gran fracasso e spiacevol sentire;
- Per che levato il capo, gli sembrava
- Un gran cinghiar veder che valicava.
- XXIV.
- E poi appresso gli parve vedere
- Sotto a’ suoi piè Griseida, alla quale
- Col grifo il cor traeva, ed al parere
- Di lui, Griseida di così gran male
- Non si curava, ma quasi piacere
- Prendea di ciò che facea l’animale,
- Il che a lui sì forte era in dispetto,
- Che questo ruppe il sonno deboletto.
- XXV.
- Com’el fu desto, cominciò a pensare
- Sopra di ciò che in sogno avea veduto;
- E chiaro parve a lui considerare,
- Che volea dir ciò che gli era apparuto;
- E prestamente si fece chiamare
- Pandaro, il qual come a lui fu venuto,
- Piangendo cominciò: Pandaro mio,
- La vita mia non piace più a Dio!
- XXVI.
- La tua Griseida, oimè, m’ha ingannato,
- Di cui io più che d’altra mi fidava,
- Ell’ha ad altrui il suo amor donato,
- Il che più che la morte assai mi grava:
- Gl’iddii me l’hanno nel sogno mostrato:
- E quinci il sogno tutto gli narrava;
- Poi cominciò a dir quel che volea
- Sì fatto sogno, e così gli dicea:
- XXVII.
- Questo cinghiar ch’io vidi è Diomede,
- Perocchè l’avolo uccise il cinghiaro
- Di Calidonia, se si può dar fede
- A’ nostri antichi, e sempre poi portaro
- Per sopransegna, siccome si vede,
- I discendenti il porco. Oimè amaro
- E vero sogno! questi l’avrà il cuore
- Col parlar tratto, cioè il suo amore.
- XXVIII.
- Questi la tien, dolente la mia vita,
- Siccome aperto ancor potrai vedere;
- Questi impedisce sol la sua reddita;
- Se ciò non fosse, ben v’era il potere
- Di ritornar, nè l’avrebbe impedita
- Il vecchio padre nè altro calere;
- Laond’io sono ingannato, credendo,
- Ed ischernito invano lei attendendo.
- XXIX.
- Oimè Griseida, qual sottile ingegno,
- Qual piacer nuovo, qual vaga bellezza,
- Qual cruccio verso me, qual giusto sdegno,
- Qual fallo mio, o qual fiera stranezza,
- L’animo tuo altiero, ad altro segno
- Han potuto recare? oimè fermezza,
- Oimè promessa, oimè fede e leanza,
- Chi v’ha gittate dalla mia amanza?
- XXX.
- Oimè, perchè andar mai ti lasciai?
- Perchè credetti al tuo consiglio rio?
- Perchè con meco non te ne menai,
- Com’io aveva, lasso, nel disio?
- Perchè i patti fatti non guastai,
- Come nel cuor mi venne, allora ch’io
- Ti vidi render? Tu non disleale
- Saresti e falsa, nè io tristo aguale.
- XXXI.
- Io ti credetti e sperava per certo
- Santa esser la tua fede, e le parole
- Essere un vero certissimo e aperto
- Più ch’a’ viventi la luce del sole;
- Ma tu parlavi ambiguo e coperto,
- Siccome egli ora appar nelle tue fole;
- Che solamente a me non se’ tornata,
- Ma con altro uomo ti se’ innamorata.
- XXXII.
- Che farò Pandaro? io mi sento un fuoco
- Di nuovo acceso nella mente forte,
- Tal ch’io non trovo nel mio pensier loco:
- Io vo’ colle mie man prender la morte,
- Che ’n tal vita più star non saria giuoco;
- Poi la fortuna a sì malvagia sorte
- Recato m’ha, il morir fia diletto,
- Dove il viver saria noia e dispetto.
- XXXIII.
- E questo detto, corse ad un coltello,
- Il qual pendea nella camera aguto,
- E per lo petto si volle con ello
- Dar, se non fosse che fu ritenuto
- Da Pandaro, il quale il tapinello
- Giovane prese, com’ebbe veduto
- Lui disperar nelle parole usate,
- Con sospiri e con lagrime versate.
- XXXIV.
- Troilo gridava: deh non mi tenere,
- Amico caro, io ten prego per Dio,
- Poichè disposto sono a tal volere,
- Lascia seguirmi il mio fiero desio;
- Lasciami, stu non vuoi prima sapere
- Qual sia la morte alla quale corr’io;
- Lasciami Pandar, che ti fediraggio
- Se non mi lasci, e poi m’uccideraggio.
- XXV.
- Lasciami tor del mondo il più dolente
- Corpo che viva: lasciami, morendo,
- Contenta far la nostra fraudolente
- Donna, la quale ancora andrò seguendo
- Tra l’ombre nere nel regno dolente:
- Lasciami uccider, che ’l viver languendo
- Peggio è che morte. E dicendo, sforzava
- Sè per lo ferro, il qual quel gli negava.
- XXXVI.
- Pandaro ancora faceva romore
- Con lui, tenendol forte, e se non fosse
- Che Troilo era debole, il valore
- Di Pandar saria vinto, tali scosse
- Troilo dava atato dal furore;
- Pure alla fine il ferro gli rimosse
- Pandar di mano, e lui contra ’l volere
- Fece piangendo con seco sedere.
- XXXVII.
- E dopo amaro pianto, verso lui
- Con tai parole si volse pietoso:
- Troilo, sempre in tal credenza fui
- Di te ver me, che s’io stato fossi oso
- Di domandar per me o per altrui
- Che t’uccidessi, tu sì animoso
- Senza indugio nessun l’avessi fatto,
- Com’io farei per te in ciascun atto.
- XXXVIII.
- E tu a’ preghi miei non hai la morte
- Sozza e spiacevol voluta fuggire;
- E s’io non fossi stato ora più forte
- Di te, t’avrei qui veduto morire:
- Noi mi credea alle promesse porte
- Da te a me le mi veggia fallire,
- Benchè ancora questo emendar puoti,
- Se con effetto quel che dico noti.
- XXXIX.
- Per quel che paia a me, tu hai concetto
- Che Griseida sia di Diomede;
- E s’io ho ben raccolto ciò c’hai detto,
- Null’altra cosa di ciò ti fa fede
- Se non il sogno, il qual prendi sospetto
- Per l’animale il qual col dente lede,
- E senza più voler sentirne avanti,
- Finir volei con morte i tristi pianti.
- XL.
- Io ti dissi altra volta, che follia
- Era ne’ sogni troppo riguardare;
- Nessun ne fu, nè è, ne giammai fia
- Che possa certo ben significare,
- Ciò che dormendo altrui la fantasia
- Con varie forme puote dimostrare,
- E molti già credettero una cosa,
- Ch’altra n’avvenne opposita e ritrosa.
- XLI.
- Così potrebbe addivenir di questo;
- Forse che là dove tu l’animale
- Al tuo amore interpetri molesto,
- Ti fia utile, e non ti farà male
- Siccome stimi: parti egli atto onesto
- A nessun uomo, non che ad un reale,
- Come tu se’, colle sue man s’uccida,
- O faccia per amor sì fatte strida?
- XLII.
- Questa cosa era in tutt’altra maniera
- Da dover far, che tu non la facevi;
- Pria sottilmente si volea se vera
- Fosse saper, siccome tu potevi,
- E se falsa trovata, e non intera-
- Mente l’avessi, allora ti dovevi
- Dalla fede de’ sogni e dallo inganno
- D’essi levar, che venieno a tuo danno.
- XLIII.
- Se ver trovassi che tu per altrui
- Da Griseida fossi abbandonato,
- Non dovevi con tutti i pensier tui
- Per partito pigliar deliberato
- Pur di morire, ch’io non so da cui
- Giammai ne fossi se non biasimato;
- Ma si voleva prender per partito,
- Di schernir lei com’ella ha te schernito.
- XLIV.
- E se pure a morire i pensier gravi
- Ti sospignean per sentir minor doglia,
- Non era da pigliar ciò che pigliavi,
- Ch’altra via c’era a fornir cotal voglia;
- E ben te la doveano i pensier pravi
- Mostrar, perciocchè avanti della soglia
- Della porta di Troia i Greci sono,
- Che t’uccidran senza chieder perdono.
- XLV.
- Andremo adunque contro a’ Greci armati,
- Quando morir vorrai, insiememente:
- Quivi siccome giovani pregiati
- Combatterem con loro, e virilmente
- Loro uccidendo morrem vendicati,
- Nè vieterolti a loro certamente.
- Sol ch’io m’avveggia che cagion ti mova
- Giusta a voler morire in cotal prova.
- XLVI.
- Troilo ch’ancor fremea di cruccio acceso,
- Quanto potea, dolente, l’ascoltava;
- E poi che l’ebbe lungamente inteso,
- Qual esso ancor doglioso lagrimava,
- Ver lui si volse, il quale stava atteso
- Se dall’impresa folle si mutava,
- E in cotal guisa li parlò piangendo,
- Sempre il parlar con singhiozzi rompendo:
- XLVII.
- Pandaro, vivi di questo sicuro,
- Che io son tutto tuo in ciò ch’io posso,
- Il vivere e ’l morir non mi fia duro
- Come ti piacerà, e se rimosso
- Dal furor fui da consiglio maturo,
- Poco davanti quando tu addosso
- Mi fosti per la mia propria salute,
- Non se ne dee ammirar la tua virtute.
- XLII.
- In tale error la subita credenza
- Del tristo sogno mi fece venire;
- Or men cruccioso, la mia gran fallenza
- Aperta veggio e ’l mio folle desire;
- Ma se tu vedi con che esperienza
- Di questa sospezione il ver sentire
- Io possa, dilla, per Dio ten richieggio,
- Ch’io son turbato e da me non la veggio.
- XLIX.
- A cui Pandaro disse: al mio parere,
- Con iscrittura è da tentar costei;
- Perocchè s’ella non t’avrà in calere,
- Non credo che risposta abbiam da lei,
- E se l’avrem, potrem chiaro vedere
- Per le scritte parole, se tu dei
- Sperare ancor nella sua ritornata,
- O s’ella s’è d’altro uomo innamorata.
- L.
- Poi si partì, giammai non le scrivesti,
- Nè ella a te, e del suo star cagione
- Potrebbe tale aver, che tu diresti
- Che ella avesse ben di star ragione;
- E potrebbe esser tal, che riprendresti
- Più tiepidezza ch’altra offensïone:
- Scrivile adunque, che se ben lo fai
- Chiaro vedrai ciò che cercando vai.
- LI.
- Già incresceva a Troilo di sè stesso,
- Perchè ’l credette volentieri: e tratto
- Da parte, comandò ch’a lui adesso
- Da scriver fosse dato, ed il fu fatto;
- Ond’egli alquanto pensato sopra esso
- Che scrivere dovea, non come matto
- Incominciò, e senza indugio scrisse
- Alla sua donna, e in cotal guisa disse:
- LII.
- Giovane donna, a cui amor mi diede
- E tuo mi tiene, e mentre sarò in vita
- Mi terra sempre con intera fede,
- Perciocchè tu nella tua dipartita
- In miseria maggior ch’alcun non crede
- Qui mi lasciasti l’anima smarrita,
- Si raccomanda alla tua gran virtute,
- E mandarti non può altra salute.
- LIII.
- El non dovrà, come che divenuta
- Sia quasi Greca, la lettera mia
- Da te ancor non esser ricevuta;
- Perciocchè ’n poco tempo non s’oblia
- Sì lungo amor, qual tiene ed ha tenuta
- Nostra amistà congiunta, la qual sia
- Eterna prego, e però prenderaila
- E ’nfino alla sua fine leggeraila.
- LIV.
- Se ’l servidore in caso alcun potesse
- Del suo signor dolersi, forse ch’io
- Avrei ragion se di te mi dolesse;
- Considerando al tuo affetto pio,
- La fede data, e le molte promesse,
- Ed il giurato a ciascheduno iddio
- Che torneresti infra ’l decimo giorno,
- Nè fra quaranta ancor fatt’hai ritorno;
- LV.
- Ma perciocchè a me convien piacere
- Quanto a te piace, rammarcar non m’oso,
- Ma quanto umile posso, il mio parere
- Ti scrivo, più che mai d’amor focoso:
- E similmente il mio caldo volere,
- E la mia vita ancor, volonteroso
- Di saper qual la tua vita sia stata
- Poichè tra’ Greci fosti permutata.
- LVI.
- Parmi, se ’l tuo consiglio ho bene a mente,
- Che potuto abbiano in te le paterne
- Lusinghe, o nuovo amor t’è nella mente
- Entrato, o quel che rado ci si scerne
- Vecchio divenir largo, che ’l tegnente
- Calcas cortese sia, dove l’interne
- Tue intenzion mi mostraro il contrario
- Nell’ultimo tuo pianto e mio amaro.
- LVII.
- Poi sì lontano oltre al nostro proposto
- Se’ dimorata, che tornar dovevi
- Secondo le promesse così tosto;
- Se ’l primo o ’l terzo fosse, mel dovevi
- Significar, poi sai che io m’accosto
- Ed accostava a ciò che tu volevi;
- Che pazïente l’avrei comportato,
- Quantunque grave assai mi fosse stato.
- LVIII.
- Ma forte temo che novello amore
- Non sia cagion di tua lunga dimora,
- Il che se fosse, mi saria dolore
- Maggior ch’alcun ch’io ne provassi ancora;
- E se l’ha meritato il mio fervore,
- Nol devi avere tu a conoscer ora:
- Di questo vivo misero in paura
- Tal, che diletto e speranza mi fura.
- LIX.
- Questa paura dispietate stride
- Trarre mi fa, quand’io vorrei posarmi;
- Questa paura sola mi conquide
- Dentro al pensiero, ond’io non so che farmi;
- Questa paura, oimè lasso, m’uccide,
- Nè so nè posso più da lei atarmi;
- Questa paura m’ha recato in parte,
- Ch’a Venere non sono util nè a Marte.
- LX.
- Gli occhi dolenti dopo il tuo partire
- Di lagrimar non ristetter giammai;
- Mangiar nè ber, riposar nè dormire
- Poi non potei, ma sempre ho tratti guai;
- E quel che più della mia bocca udire
- Potuto s’è, nomarti sempre mai,
- E chiamar te ed amor per conforto,
- Per questo credo sol ch’io non sia morto.
- LXI.
- Ben puoi pensare omai quel che farei
- Se certo fossi di ciò c’ho dottanza:
- Certo io credo ch’io m’ucciderei
- Di te sentendo sì fatta fallanza;
- Ed a che far dappoi ci viverei
- Ch’io avessi perduta la speranza
- Di te, anima mia, cui io attendo
- Per sola pace in lagrime vivendo?
- LXII.
- Li dolci canti e le brigate oneste,
- Gli uccelli e’ cani e l’andar sollazzando,
- Le vaghe donne, i templi e le gran feste,
- Che per addietro solea gir cercando,
- Fuggo ora tutte e sonmi oimè moleste,
- Qualora vengo con meco pensando
- Che tu di qui dimori ora lontana,
- Dolce mio bene, e speme mia sovrana.
- LXIII.
- Li fior dipinti e la novella erbetta,
- Ch’e’ prati fan di ben mille colori,
- Non posson trarre a sè l’alma ristretta
- Donna per te negli amorosi ardori;
- Sol quella parte del ciel mi diletta,
- Sotto la quale or credo che dimori,
- Quella riguardo, e dico: quella vede
- Ora colei da cui spero mercede.
- LXIV.
- Io guardo i monti che d’intorno stanno,
- Ed il luogo ch’a me ti tien nascosa,
- E sospirando dico: coloro hanno,
- Senza sentirla, la vista amorosa
- Degli occhi vaghi per la quale affanno
- Lontan da essi in vita assai noiosa:
- Or foss’io un di loro, o sopra un d’essi
- Or dimorass’io sì ch’io la vedessi!
- LXV.
- Io guardo l’onde discendenti al mare,
- Alle qual’ora dimori vicina,
- E dico: quelle dopo alquanto andare
- Quivi verranno, dove la divina
- Luce degli occhi miei n’è gita a stare,
- E da lei fien vedute: oimè tapina
- La vita mia! perchè in loco di quelle
- Andar non posso siccome fann’elle?
- LXVI.
- Se ’l sol discende, con invidia il miro,
- Perchè mi par che vago del mio bene,
- Cioè di te tirato dal disiro,
- Più dell’usato tosto se ne vene
- A rivederti, e dopo alcun sospiro,
- Mi viene in odio, e crescon le mie pene,
- Ond’io temendo ch’el non mi ti tolga,
- La notte prego che tosto giù volga.
- LXVII.
- L’udir talvolta nominare il loco
- Dove dimori, o talvolta vedere
- Chi di là venga, mi raccende il fuoco
- Nel cor mancato per troppo dolere,
- E par ch’io senta alcun nascoso giuoco
- Nell’anima legata dal piacere,
- E meco dico: quindi veniss’io
- Onde quel viene, o dolce mio disio!
- LXVIII.
- Ma tu che fai tra’ cavalieri armati,
- Tra gli uomin bellicosi e tra’ romori,
- Sotto le tende in mezzo degli aguati,
- Sovente spaventata da’ furori
- Del suon dell’armi, e delle tempestati
- Marine, a cui vicina ora dimori?
- Non t’è el, donna mia, gravosa noia,
- Ch’esser solei sì dilicata in Troia?
- LXIX.
- I’ ho di te nel ver compassïone,
- Più ch’io non ho di me siccome deggio.
- Ritorna adunque, e la tua promissione
- Intera fa’ prima ch’io caggia in peggio:
- Io ti perdono ogni mia offensione
- Per dimoranza fatta, e non ne chieggio
- Ammenda, fuor vedere il tuo bel viso,
- Nel quale è sol tutto il mio paradiso.
- LXX.
- Deh io ten prego per quella vaghezza
- Che me di te e te di me già prese,
- E similmente per quella dolcezza
- Che li cuor nostri parimente accese;
- E poi appresso per quella bellezza
- La qual possiedi, donna mia cortese;
- Per li sospiri e pe’ pietosi pianti
- Che noi facemmo insieme già cotanti.
- LXXI.
- Pe’ dolci baci e per quello abbracciare
- Che già ci tenne insieme tanto stretti;
- Per la gran festa e ’l dolce ragionare,
- Che più lieti facea nostri diletti;
- Per quella fede ancor la qual prestare
- Ti piacque già negli amorosi detti,
- Quando l’ultima volta ci partimmo,
- Nè più insieme appresso poi reddimmo;
- LXXII.
- Che di me ti ricordi, e che tu torni:
- E se per avventura se’ impedita,
- Mi scrivi chi dopo li dieci giorni
- T’ha ritenuta di qui far reddita.
- Deh non sia grave a’ tuoi parlari adorni,
- In questo almen contenta la mia vita,
- E dimmi se io deggio più di spene
- In te avere omai, dolce mio bene.
- LXXIII.
- Se mi darai speranza, aspetteraggio,
- Come ch’el mi sia grave oltremisura;
- Se tu la mi torrai, m’uccideraggio,
- E darò fine alla mia vita dura.
- Ma come che si sia mio il dannaggio,
- La vergogna sia tua, ch’a così oscura
- Morte recato avrai un tuo soggetto,
- Non avendo commesso alcun difetto.
- LXXIV.
- Perdona se nell’ordine dettando
- I’ ho fallito, e se di macchie piena
- Forse vedi la lettera ch’io mando:
- Che dell’uno e dell’altro la mia pena
- N’è gran cagion, perocchè lagrimando
- Vivo e dimoro, nè le mi raffrena
- Nullo accidente: adunque son dolenti
- Lacrime, queste macchie sì soventi.
- LXXV.
- E più non dico, benchè a dire assai
- Ancor mi resti, se non che ne vegni;
- Deh fallo anima mia, che tu potrai,
- Se tu quanto tu sai pur te n’ingegni.
- Oimè, che tu non mi conoscerai,
- Tal son tornato ne’ dolor malegni;
- Nè più ti dico, se non Dio sia teco,
- E tosto faccia te esser con meco.
- LXXVI.
- Quinci la diede a Pandar suggellata,
- Che la mandò: ma la risposta invano
- Da essi fu per più giorni aspettata;
- Onde il dolor di Troilo più che umano
- Perseverò, e fugli raffermata
- L’openïon del sogno suo non sano,
- Non però tanto ch’el non isperasse
- Che pure ancor Griseida l’amasse.
- LXXVII.
- Di giorno in giorno il suo dolor crescea
- Mancando la speranza, onde a giacere
- Por li convenne, che più non potea:
- Ma pur per caso un dì ’l venne a vedere
- Deifebo, a cui molto ben volea;
- Il qual non vedendo el, nel suo dolere,
- Griseida, a dir cominciò pianamente,
- Deh non mi far morir tanto dolente.
- LXXVIII.
- Deifebo s’accorse allor, che quello
- Fosse che lo strignea, e fatta vista
- D’udito non l’aver, disse: fratello,
- Che non conforti omai l’anima trista?
- Il tempo gaio viene e fassi bello,
- Rinverdiscono i prati, e lieta vista
- Danno di sè; e il dì è già venuto
- Che della tregua il termine è compiuto.
- LXXIX.
- Sicchè ’l nostro valore al modo usato
- Potrem nell’armi a’ Greci far sentire:
- Non vuo’ tu più con noi venire armato,
- Che ’l primo solevi essere al ferire,
- E come pro’ da loro esser dottato
- Tanto, ch’avanti a te tutti fuggire
- Ne solei fare? Ettor n’ha già commossi,
- Che doman siam con lui di fuor da’ fossi.
- LXXX.
- Quale lion famelico, cercando
- Per preda, faticato si riposa,
- Subito su si leva i crin vibrando
- Se cervo, o toro sente o altra cosa
- Che gli appetisca, sol quella bramando;
- Tal Troilo udendo la guerra dubbiosa
- Ricominciarsi, subito vigore
- Gli corse dentro all’infiammato core.
- LXXXI.
- E ’l capo alzato, disse: fratel mio,
- Io son nel vero alquanto deboletto,
- Ma io ho della guerra tal disio,
- Che rinforzato, tosto d’esto letto
- Mi leverò: e giuroti, se io
- Mai combattei con duro e forte petto
- Contra li Greci, or più combatteraggio
- Ch’ancor facessi, in sì grand’odio gli aggio.
- LXXXII.
- Intese ben Deifebo ove gieno
- Quelle parole, e confortollo assai,
- Dicendogli che là l’aspetterieno,
- Però non s’indugiasse più omai
- Al suo conforto, e addio si dicieno;
- Troilo rimase con gli usati guai,
- Deifebo a’ fratei sen venne ratto,
- Ed ebbe a lor tutto contato il fatto.
- LXXXIII.
- Il che essi credetter prestamente,
- Per atti già veduti; e per non farlo
- Tristo di ciò, di non dirne niente
- Fra lor diliberaro, e d’aiutarlo;
- Perchè alle donne loro incontanente
- Fer dir ch’ognuna andasse a visitarlo,
- E con suoni e cantori a fargli festa,
- Sì ch’obliasse la vita molesta.
- LXXXIV.
- In poca d’ora la camera piena
- Di donne fu, e di suoni e di canti:
- Dall’una parte gli era Polissena,
- Ch’un’angela pareva ne’ sembianti;
- Dall’altra gli sedea la bella Elena,
- Cassandra ancora gli stava davanti;
- Ecuba v’era, e Andromaca, molte
- Di lui cognate e parenti raccolte.
- LXXXV.
- Ciascuna a suo potere il confortava,
- E tale il domandava che sentia;
- Esso non rispondea, ma riguardava
- Or l’una or l’altra, e nella mente pia
- Di Griseida sua si ricordava,
- Nè più che con sospir ciò discopria;
- E pur sentiva alquanto di dolcezza
- E per li suoni e per la lor bellezza.
- LXXXVI.
- Cassandra che per caso aveva udito
- Ciò che ’l fratel Deifebo aveva detto,
- Quasi schernendol perchè sì smarrito
- Si dimostrava, ed era nell’aspetto,
- Disse: fratel, per te mal fu sentito,
- Siccome io m’accorgo, il maladetto
- Amor, per cui disfatti esser dobbiamo,
- Come veder, se noi vogliam, possiamo.
- LXXXVII.
- E poichè pur così doveva andare,
- Di nobil donna fostu innamorato!
- Che condotto ti se’ a consumare
- Per la figlia d’un prete scellerato,
- E mal vissuto e di piccolo affare:
- Ecco figliuolo d’alto re onorato,
- Che ’n pena e ’n pianto mena la sua vita,
- Perchè da lui Griseida s’è partita!
- LXXXVIII.
- Turbossi Troilo la sorella udendo,
- Sì perchè udiva dispregiar colei
- La quale el più amava, e sì sentendo
- Che ’l suo segreto agli orecchi a costei
- Era venuto, il come non sapendo,
- Pensò che per risponso degli dei
- Ella il sapesse; non pertanto disse:
- Ver parria questo se io mi tacisse:
- LXXXIX.
- E cominciò; Cassandra, il tuo volere
- Ogni segreto, più che l’altra gente,
- Con tue immaginazioni antivedere,
- T’ha molte volte già fatta dolente;
- Forse più senno ti saria il tacere,
- Che sì parlare scapestratamente:
- Tu gitti innanzi a tutti i tuoi sermoni,
- Nè so che di Griseida ti ragioni.
- XC.
- Perchè vedendo te soprabbondare,
- Io vo’ far quel che io non feci ancora,
- Cioè la tua bestialità mostrare:
- Tu di’ che per Griseida mi scolora
- Soperchio amore, e vuommel rivoltare
- In gran vergogna, ma infino ad ora
- Non t’ha di questo il vero assai mostrato
- Il tuo Apollo, il qual di’ c’hai gabbato.
- XCI.
- Per tale amor Griseida giammai
- Non mi fu in piacer, nè credo sia
- Nessuno al mondo nè che fosse mai
- Ch’ardisse a sostener questa bugia:
- E se, siccome tu dicendo vai,
- Ver fosse, giuro per la fede mia,
- Mai non l’avrei di qui lasciata gire,
- Prima m’avria Priam fatto morire.
- XCII.
- Non che io creda che l’avria sofferto,
- Come sofferse che Paris Eléna
- Rapisse, onde abbiam ora cotal merto:
- Però la lingua tua pronta raffrena.
- Ma pognam pur che così fosse certo,
- Ch’io per lei fosse in questa grave pena,
- Perchè non è Griseida in ciascun atto
- Degna d’ogni grand’uom, qual vuoi sia fatto?
- XCIII.
- Io non vo’ ragionar della bellezza
- Di lei, che al giudicio di ciascuno
- Trapassa quella della somma altezza,
- Perocchè fior caduto è tosto bruno;
- Ma vegnam pure alla sua gentilezza,
- La qual tu biasmi tanto, e qui ognuno
- Consenta il ver se ’l dico, e l’altro il nieghi,
- Ma il perchè, il prego, ch’egli alleghi.
- XCIV.
- E gentilezza dovunque è virtute,
- Questo nol negherà niuno che ’l senta,
- Ed elle sono in lei tutte vedute,
- Se dall’opra l’effetto s’argomenta:
- Ma pur partitamente a tal salute
- È da venir, sol per lasciar contenta
- Costei che tanto d’ogni gente parla,
- Senza saper che sia quel ch’ella ciarla.
- XCV.
- Se non m’inganna forse la veduta,
- E quel ch’altri ne dice, più onesta
- Di costei nulla ne fia mai nè è suta;
- E se ’l ver odo, sobria e modesta
- È oltre all’altre, e certo la paruta
- Di lei il mostra; e similmente è questa
- Tacita ove conviensi e vergognosa,
- Che in donna è segno di nobile cosa.
- XCVI.
- Appar negli atti suoi la discrezione,
- E nel suo ragionare, il quale è tanto
- Saldo e sentito e pien d’ogni ragione,
- Ed io ne vidi in parte uguanno quanto
- Fosse, in la scusa della tradigione
- Fatta per lei del padre, e nel suo pianto
- Del suo altiero e ben reale sdegno
- Con dicenti parole diede segno.
- XCVII.
- I suoi costumi sono assai palesi,
- E perciò non mi par ch’abbian mestieri
- Nè d’altrui nè da me esser difesi;
- Nè credo in questa terra cavalieri,
- E siencen quanti voglin de’ cortesi,
- Cui non mattasse in mezzo lo scacchieri
- Di cortesia e di magnificenza,
- Sol che in ciò far le basti la potenza.
- XCVIII.
- Ed io il so, che già istato sono
- Dov’ella me ed altri ha onorati
- Sì altamente, che in real trono
- Ne seggon molti alli quali impacciati
- Parria essere stati, e in abbandono
- Siccome vili n’avrien tralasciati:
- Se ella è stata qui sempre pudica,
- La fama sua lodevole lo dica.
- XCIX.
- Che più, donna Cassandra, chiederete
- In donna omai? il suo sangue reale?
- Non son re tutti quelli a cui vedete
- Corona o scettro o vesta imperïale;
- Assai fiate udito già l’avete,
- Re è colui il qual per virtù vale,
- Non per potenza: e se costei potesse,
- Non cre’ tu ch’ella come tu reggesse?
- C.
- Ben sapria meglio assai che tu tenerla,
- Io dico, stu m’intendi, la corona;
- Nè saria, qual se’ tu, donna baderla,
- Che dai di morso a ciascuna persona.
- Degno m’avesse Iddio fatto d’averla
- Per donna sì, come fra voi si suona,
- Ch’io mi terrei in grandissimo pregio
- Ciò che donna Cassandra ha in dispregio.
- CI.
- Or via andate con mala ventura,
- Poi non sapete ragionar, filate;
- Ricorreggete la vostra bruttura,
- E le virtù d’altrui stare lasciate.
- Ecco dolore, ecco nuova sciagura,
- Che una pazza per sua vanitate
- Quello ch’è da lodar riprender vuole,
- E se non è ascoltata, le ne duole.
- CII.
- Cassandra tacque, e volentieri stata
- Esser vorrebbe altrove quella volta;
- E tra le donne si fu mescolata
- Senz’altro dire, e come gli fu tolta
- Dal viso, così tosto ne fu andata
- Al palagio real, nè mai più volta
- Per visitarlo dievvi: non fu ella
- Sì ben veduta ed ascoltata in quella.
- CIII.
- Ecuba, Elena, e l’altre commendaro
- Ciò ch’avea detto Troilo; e dopo un poco
- Piacevolmente tutte il confortaro,
- E con parole, e con festa e con giuoco:
- E quindi insieme tutte se n’andaro,
- Ciascheduna tornandosi al suo loco;
- E poi più volte il visitare ancora,
- Mentre in sul letto debol fe’ dimora.
- CIV.
- Troilo sì per lo continuare
- D’essere in doglia, divenne possente
- Con pazïenza quella a comportare;
- E sì ancora per l’animo ardente
- Che contro a’ Greci avea di dimostrare
- La sua virtù, li fece prestamente
- Le forze racquistar, ch’avea perdute,
- Per le troppo agre pene sostenute.
- CV.
- Ed oltre a ciò Griseida gli avea scritto,
- E mostrato d’amarlo più che mai;
- E false scuse al suo tanto star fitto
- Senza tornare aveva indotte assai,
- E domandato ancor nuovo rispitto
- Al suo tornar, che non dovea giammai
- Essere, ed el’ gli avea dato sperando
- Di rivederla, ma non sapea quando.
- CVI.
- E ’n più battaglie poi con gli avversarj
- Fatte, mostrò quanto in arme valea;
- E’ suoi sospiri e gli altri pianti amari,
- Che per loro operare avuto avea,
- Oltre ogni stima gli vendea lor cari,
- Non però quanto l’ira sua volea:
- Ma morte poi, ch’ogni cosa disface,
- Amore e la sua guerra pose in pace.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE OTTAVA
- * * *
- ARGOMENTO
- Incomincia la parte ottava del Filostrato, nella quale primieramente Troilo con lettere e con ambasciate ritenta Griseida, la quale il mena per parole. Appresso per uno vestimento tratto da Deifebo a Diomede conosce Troilo uno fermaglio il quale avea dato a Griseida, e Griseida dato a Diomede. Troilo si duole con Pandaro, e del tutto di lei si dispera. Ultimamente uscendo alla battaglia fu morto da Achille, e finiscono i suoi dolori. E primieramente Troilo con lettere e con ambasciate ritenta la fede e l’amore di Griseida.
- I.
- Egli era, com’è detto, a sofferire
- Già adusato, e più nel fece forte
- L’alto dolor, da non poter mai dire,
- Che ’l padre, ed egli e’ fratei per la morte
- Ebber d’Ettor, nel cui sovrano ardire
- E le fortezze, e le mura e le porte
- Credean di Troia, il qual lunga stagione
- Gli tenne in pianto ed in tribolazione.
- II.
- Ma non per ciò amor si dipartia,
- Come ch’assai mancasse la speranza;
- Anzi cercava in ogni modo e via,
- Come suol’esser degli amanti usanza,
- Di potere riaver qual solea pria
- La dolce sua ed unica intendanza;
- Lei del non ritornar sempre scusando,
- Per non poter ciò esser estimando.
- III.
- Ei le mandò più lettere, scrivendo
- Quel che sentia per lei la notte e ’l giorno;
- E ’l dolce tempo a mente riducendo,
- E la fede promessa del ritorno:
- Spesse fïate ancora riprendendo
- Cortesemente il suo lungo soggiorno
- Mandovvi Pandar, qualora tra essi
- O tregue o patti alcun furon concessi.
- IV.
- E simigliante egli ebbe nel pensiero
- Ancor più volte di volervi andare
- Di pellegrino in abito leggiero;
- Ma sì non si sapeva contraffare
- Che gli paresse assai cuoprire il vero;
- Nè scusa degna sapeva trovare
- Da dir, se stato fosse conosciuto,
- In abito cotanto disparuto.
- V.
- Nè altro aveva da lei che parole
- Belle, e promesse grandi senza effetto:
- Onde a presumer cominciò che fole
- Erano tutte, ed a prender sospetto
- Di ciò che era ver, siccome suole
- Spesso avvenire a chi senza difetto
- Riguarda in fra le cose c’ha per mano,
- Perchè non fu il suo sospetto vano.
- VI.
- E ben conobbe che novello amore
- Era cagion di tante e tai bugie;
- Seco affermando che giammai nel core
- Nè paterne lusinghe mai nè pie
- Carezze avuto avrien tanto valore;
- Nè gli era luogo a veder per quai vie
- Più s’accertasse di ciò che mostrato
- Già gli aveva il suo sogno sventurato.
- VII.
- Al quale amor raccorciata la fede
- Aveva molto, siccom’egli avviene,
- Che colui ch’ama mal volentier crede
- Cosa che cresca amando le sue pene;
- Ma che pur fosse ver di Diomede,
- Come pria sospettò, fè ne gli fene
- Non molto poi un caso, che gli tolse
- Ciascuna scusa, ed a crederlo il volse.
- VIII.
- Stavasi Troilo non senza tormento
- Del suo amore timido e sospeso;
- Quand’egli udì, dopo un combattimento
- Tra li Troiani e’ Greci assai disteso
- Fatto, con uno ornato vestimento,
- A Diomede gravemente offeso
- Tratto, tornar Deifebo pomposo
- Di cotal preda, e seco assai gioioso.
- IX.
- E mentre che portarlosi davanti
- Facea per Troia, Troilo sopravvenne,
- E molto il commendò fra tutti quanti,
- E per vederlo meglio alquanto il tenne:
- E mentre e’ rimirava, gli occhi erranti
- Or qua or la d’intorno a tutto, avvenne
- Che esso vide nel petto un fermaglio
- D’oro, lì posto forse per fibbiaglio:
- X.
- Il quale esso conobbe incontanente,
- Siccome quei che l’aveva donato
- A Griseida, allora che dolente
- Partendosi da lei prese comiato
- Quella mattina, che ultimamente
- Era la notte con lei dimorato;
- Laonde disse: or veggio pur ch’è vero
- Il sogno, il mio sospetto, ed il pensiero.
- XI.
- Quindi partito Troilo, chiamare
- Pandar si fe’, il quale a lui venuto,
- Si cominciò con pianto a rammarcare
- Del lungo amore il quale aveva avuto
- A Griseida sua, e a dimostrare
- Aperto il tradimento ricevuto
- Gli cominciò, dolendosene forte,
- Sol per ristoro chiedendo la morte.
- XII.
- E cominciò così piangendo a dire:
- O Griseida mia, dov’è la fede,
- Dove l’amore, dove ora ’l desire,
- Dove la tanto gradita mercede
- Data da te a me nel tuo partire?
- Ogni cosa possiede Diomede,
- Ed io, che più t’amai, per lo tuo inganno
- Rimaso sono in pianto ed in affanno.
- XIII.
- Chi crederà omai a nessun giuro,
- Chi ad amor, chi a femmina omai,
- Ben riguardando il tuo falso spergiuro?
- Oimè che io non so, nè pensai mai
- Che tanto avessi il cuor rigido e duro,
- Che per altro uom io t’uscissi giammai
- Dell’animo, che più che me t’amava,
- Ed ingannato sempre t’aspettava.
- XIV.
- Or non avevi tu altro gioiello
- Da poter dare al tuo novello amante,
- Io dico a Diomede, se non quello
- Ch’io t’avea dato con lagrime tante,
- In rimembranza di me cattivello,
- Mentre con Calcas fossi dimorante?
- Null’altro far tel fe’ se non dispetto,
- E per mostrar ben chiaro il tuo intelletto
- XV.
- Del tutto veggio che m’hai discacciato
- Del petto tuo, ed io contra mia voglia
- Nel mio ancora tengo effigïato
- Il tuo bel viso con noiosa doglia:
- O lasso me, che ’n malora fui nato,
- Questo pensier m’uccide e mi dispoglia
- D’ogni speranza di futura gioia,
- E cagion émmi d’angoscia e di noia.
- XVI.
- Tu m’hai cacciato a torto della mente,
- Laddov’io dimorar sempre credea,
- E nel mio luogo hai posto falsamente
- Diomede; ma per Venere dea
- Ti giuro, tosto ten farò dolente
- Colla mia spada alla prima mislea,
- Se egli avviene ch’io ’l possa trovare,
- Purchè con forza il possa soprastare:
- XVII.
- O el m’ucciderà, e fieti caro;
- Ma spero pur la divina giustizia
- Rispetto avrà al mio dolore amaro,
- E similmente alla tua gran nequizia.
- O sommo Giove, in cui certo riparo
- So c’ha ragione, e da cui tutta inizia
- L’alta virtù per cui si vive e muove,
- Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
- XVIII.
- Che fanno le tue folgori ferventi,
- Riposan elle? O più gli occhi non tieni
- Volti a’ difetti dell’umane genti?
- O vero lume, o lucidi sereni,
- Pe’ quai s’allegran le terrene menti,
- Togliete via colei nelli cui seni
- Bugie e inganni e tradimenti sono,
- Nè più la fate degna di perdono.
- XIX.
- O Pandar mio, che ne’ sogni aver fede
- M’hai biasimato con cotanta istanza,
- Or puoi veder ciò che per lor si vede,
- La tua Griseida te ne fa certanza:
- Hanno gl’iddii di noi mortai mercede,
- Ed in diverse guise dimostranza
- Ci fan di quello, ch’è a noi ignoto,
- Per nostro bene spesse volte noto.
- XX.
- E questo è l’un de’ modi, che dormendo
- Talor si mostra, io me ne sono accorto
- Molte fïate già mente tenendo;
- Or vorre’ io allora essermi morto,
- Dappoi che per innanzi non attendo
- Sollazzo, gioia, piacer nè diporto;
- Ma per lo tuo consiglio vo’ indugiarmi,
- A morir co’ nemici miei coll’armi.
- XXI.
- Mandimi Iddio Diomede davanti
- La prima volta ch’esco alla battaglia!
- Questo disio tra li miei guai cotanti,
- Sì ch’io provar gli faccia come taglia
- La spada mia, e lui morir con pianti
- Nel campo faccia, e poi non me ne caglia
- Che mi s’uccida, sol ch’e’ muoia, e lui
- Misero trovi nelli regni bui.
- XXII.
- Pandaro con dolor tutto ascoltava,
- E ’l ver sentendo, non sapea che dirsi:
- E da una parte a star quivi il tirava
- Dell’amico l’amor, d’altra a partirsi
- Vergogna spesse volte lo invitava
- Pel fallo di Griseida, e spedirsi
- Qual far dovesse seco non sapea,
- E l’uno e l’altro forte gli dolea.
- XXIII.
- Alla fine così disse piangendo:
- Troilo: non so che mi ti debba dire:
- Lei quanto posso tanto più riprendo
- Siccome di’ e del suo gran fallire
- Nïuna scusa avanti far n’intendo,
- Nè mai dov’ella sia più voler gire;
- Ciò ch’io fe’ già il feci per tuo amore,
- Lasciando addietro ciascuno mio onore.
- XXIV.
- E s’io ti piacqui, assai m’è grazïoso:
- Di quel ch’or fassi altro non posso fare,
- E come tu così ne son cruccioso;
- E s’io vedessi il modo d’ammendare,
- Abbi per certo io ne sarei studioso:
- Faccialo Iddio, che può tutto voltare,
- Pregolo quanto posso ch’el punisca
- Lei, sì che più ’n tal guisa non fallisca.
- XXV.
- Grandi furo i lamenti e ’l rammarchio,
- Ma pur fortuna suo corso facea;
- Colei amava con tutto il disio
- Diomede, e Troilo piangea;
- Diomede si lodava d’Iddio,
- E Troilo per contrario si dolea;
- Nelle battaglie Troilo sempre entrava,
- E più che altri Diomede cercava.
- XXVI.
- E spesse volte assieme s’avvisaro
- Con rimproveri cattivi e villani,
- E di gran colpi fra lor si donaro,
- Talvolta urtando, e talor nelle mani
- Le spade avendo, vendendosi caro
- Insieme molto il loro amor non sani:
- Ma non avea la fortuna disposto,
- Che l’un dell’altro fornisse il proposto.
- XXVII.
- L’ira di Troilo in tempi diversi
- A’ Greci nocque molto senza fallo,
- Tanto che pochi ne gli uscieno avversi
- Che non cacciasse morti da cavallo,
- Solo che l’attendesser, sì perversi
- Colpi donava; e dopo lungo stallo,
- Avendone già morti più di mille,
- Miseramente un dì l’uccise Achille.
- XXVIII.
- Cotal fine ebbe il mal concetto amore
- Di Troilo in Griseida, e cotale
- Fin’ebbe il miserabile dolore
- Di lui, al qual non fu mai altro eguale;
- Cotal fin’ebbe il lucido splendore
- Che lui servava al solïo reale;
- Cotal fin’ebbe la speranza vana
- Di Troilo in Griseida villana.
- XXIX.
- O giovanetti, ne’ quai coll’etate
- Surgendo vien l’amoroso disio,
- Per Dio vi prego che voi raffreniate
- I pronti passi all’appetito rio,
- E nell’amor di Troilo vi specchiate,
- Il qual dimostra suso il verso mio,
- Perchè se ben col cuor gli leggerete,
- Non di leggieri a tutte crederete.
- XXX.
- Giovane donna è mobile, e vogliosa
- È negli amanti molti, e sua bellezza
- Estima più ch’allo specchio, e pomposa
- Ha vanagloria di sua giovinezza;
- La qual quanto piacevole e vezzosa
- È più, cotanto più seco l’apprezza;
- Virtù non sente nè conoscimento,
- Volubil sempre come foglia al vento.
- XXXI.
- E molte ancor perchè d’alto lignaggio
- Discese sono, e sanno annoverare
- Gli avoli lor, si credon che vantaggio
- Deggiano aver dall’altre nell’amare;
- E pensan che costume sia oltraggio,
- Torcere il naso e dispettose andare;
- Queste schifate, ed abbiatele a vili,
- Che bestie son, non son donne gentili.
- XXXII.
- Perfetta donna ha più fermo disire
- D’essere amata, e d’amar si diletta;
- Discerne e vede ciò ch’è da fuggire,
- Lascia ed elegge, provvede ed aspetta
- Le promission; queste son da seguire:
- Ma non si vuol però scegliere in fretta,
- Che non son tutte saggie, perchè sieno
- Più attempate, e quelle vaglion meno.
- XXXIII.
- Dunque siate avveduti, e compassione
- Di Troilo e di voi insiememente
- Abbiate, e fia ben fatto: ed orazione
- Per lui fate ad amor pietosamente,
- Ch’el posi in pace in quella regïone
- Dov’el dimora, ed a voi dolcemente
- Conceda grazia sì d’amare accorti,
- Che per ria donna alfin non siate morti.
- * * *
- IL
- FILOSTRATO
- DI GIOVANNI BOCCACCI
- * * *
- PARTE NONA
- * * *
- ARGOMENTO
- Qui comincia la nona ed ultima parte del Filostrato, nella quale l’autore parla all’opera sua, e dicegli a cui e con cui debba andare, e quello ch’ella debbia fare; e qui pone fine.
- I.
- Sogliono i lieti tempi esser cagione
- Di dolci versi, canzon mia pietosa;
- Ma te nella mia grave afflizïone
- Ha tratta amor dell’anima dogliosa
- Contra natura, nè ne so ragione,
- Se non venisse da virtù nascosa,
- Spirata e mossa dal sommo valore
- Di nostra donna nel trafitto core.
- II.
- Costei, siccom’io so, che spesso il sento,
- Mi può far nulla, e molto più da fare
- Che io non sono, e quinci l’argomento
- Della cagion del tuo lungo parlare
- Credo che nasca, ed io me ne contento,
- Che più da ciò che dalle doglie amare
- Venuto sia; ma ciò che si sia stato,
- Noi siamo al fine da me disiato.
- III.
- Noi siam venuti al porto, il qual cercando
- Ora fra scogli ed or per mare aperto,
- Con zefiro e con turbo navigando
- Andati siam, seguendo per l’incerto
- Pelago l’alta luce e ’l venerando
- Segno di quella stella, che esperto
- Fa ogni mio pensiero al fin dovuto,
- E fe’ poi che da me fu conosciuto.
- IV.
- Estimo dunque che l’ancore sieno
- Qui da gittare e far fine al cammino;
- E quelle grazie con affetto pieno,
- Che render deve il grato pellegrino
- A chi guidati n’ha, qui rendereno;
- E sopra il lido, ch’ora n’è vicino,
- Le debite ghirlande e gli altri onori
- Porremo al legno delli nostri amori.
- V.
- Poi tu, posata alquanto, te n’andrai
- Alla donna gentil della mia mente:
- O te felice, che la vederai,
- Quel ch’io non posso far, lasso e dolente!
- E come tu nelle sue man sarai
- Con festa ricevuta, umilemente
- Mi raccomanda all’alta sua virtute,
- La qual sola mi può render salute.
- VI.
- E nell’abito appresso lagrimoso
- Nel qual tu se’, ti prego le dichiari
- Negli altri danni il mio viver noioso,
- Li guai, e li sospiri e i pianti amari
- Ne’ quali stato sono e sto doglioso,
- Poichè de’ suoi begli occhi i raggi chiari
- Mi s’occultaron per la sua partenza,
- Che lieto sol vivea di lor presenza.
- VII.
- Se tu la vedi ad ascoltarti pia
- Nell’angelico aspetto punto farsi,
- O sospirar della fatica mia,
- Pregala quanto puoi che ritornarsi
- Omai le piaccia, o comandar che via
- Da me l’anima deggia dileguarsi,
- Perocchè dove ch’ella ne deggia ire,
- Me’ che tal vita m’è troppo il morire.
- VIII.
- Ma guarda che così alta imbasciata
- Non facci senza amor, che tu saresti
- Per avventura assai male accettata,
- Ed anche ben senza lui non sapresti.
- Se seco vai, sarai credo onorata:
- Or va’; ch’io prego Apollo che ti presti
- Tanto di grazia ch’ascoltata sii,
- E con lieta risposta a me t’invii.
- FINE DEL FILOSTRATO
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