- Elegia di madonna Fiammetta
- Giovanni Boccaccio
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- GIOVANNI BOCCACCIO
- L'ELEGIA
- DI MADONNA FIAMMETTA
- CON LE CHIOSE INEDITE
- a cura di
- VINCENZO PERNICONE
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- tipografi-editori-librai
- 1939 - XVII
- Indice
- Prologo
- Capitolo Primo
- Capitolo Secondo
- Capitolo Terzo
- Capitolo Quarto
- Capitolo Quinto
- Capitolo Sesto
- Capitolo Settimo
- Capitolo Ottavo
- Capitolo Nono
- Chiose
- Nota
- Indice dei nomi
- Indice
- PROLOGO
- Suole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono in alcuno compassione. Adunque, acciò che in me, volonterosa piú che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s’avanzi, mi piace, o nobili donne, ne’ cuori delle quali amore piú che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei, di farvi, s’io posso, pietose. Né m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga; anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che sí miseramente in me l’acerbitá d’alcuno si discuopre, che gli altri simili immaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl’infortunii pie, priego che leggiate; voi, leggendo, non troverete favole greche ornate di molte bugie, né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose, stimolate da molti disiri, nelle quali davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl’impetuosi sospiri, le dolenti voci e li tempestosi pensieri, li quali, con stimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l’amata bellezza hanno da me tolta via. Le quali cose, se con quel cuore che sogliono essere le donne vederete, ciascuna per sé e tutte insieme adunate, sono certa che li dilicati visi con lagrime bagnerete, le quali a me, che altro non cerco, di dolore perpetuo fieno cagione. Priegovi che d’averle non rifiutate, pensando che, sí come li miei, cosí poco sono stabili li vostri casi, li quali se a’ miei simili ritornassero, il che cessilo Iddio, care vi sarebbero rendendolevi. E acciò che il tempo piú nel parlare che nel piangere non trascorra, brievemente allo impromesso mi sforzerò di venire, da’ miei amori piú felici che stabili cominciando, acciò che da quella felicitá allo stato presente argomento prendendo, me piú che altra conosciate infelice; e quindi a’ casi infelici, onde io con ragione piango, con lagrimevole stilo seguirò come io posso. Ma primieramente, se de’ miseri sono li prieghi ascoltati, afflitta sí come io sono, bagnata delle mie lagrime, priego, se alcuna deitá è nel cielo la cui santa mente per me sia da pietá tocca, che la dolente memoria aiuti, e sostenga la tremante mano alla presente opera, e cosí le facciano possenti, che quali nella mente io ho sentite e sento l’angoscie, cotali l’una profferi le parole, l’altra, piú a tale uficio volonterosa che forte, le scriva.
- CAPITOLO I
- Nel quale la donna descrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella s’innamorasse, col seguito diletto.
- Nel tempo nel quale la rivestita terra piú che tutto l’altro anno si mostra bella, da parenti nobili procreata venni io nel mondo, da benigna fortuna e abbondevole ricevuta. Oh maladetto quello giorno, e a me piú abominevole che alcuno altro, nel quale io nacqui! Oh quanto piú felice sarebbe stato se nata non fossi, o se dal tristo parto alla sepoltura fossi stata portata, né piú lunga etá avessi avuta, che i denti seminati da Cadmo1, e ad una ora cominciate e rotte avesse Lachesis2 le sue fila! Nella picciola etá si sarebbero rinchiusi gl’infiniti guai, che ora di scrivere trista cagione mi sono. Ma che giova ora di ciò dolersi? Io ci pur sono, e cosí è piaciuto e piace a Dio che io ci sia. Ricevuta adunque, sí come è detto, in altissime delizie, e in esse nutrita, e dall’infanzia nella vaga puerizia tratta, sotto reverenda maestra, qualunque costume a nobile giovane si conviene, apparai. E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, cosí le mie bellezze, de’ miei mali speciale cagione, multiplicavano. Oimè! che io, ancora che picciola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e loro con sollecitudini e arti faceva maggiori.
- Ma giá dalla fanciullezza venuta ad etá piú compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a’ giovani possono porgere le vaghe donne, conobbi che la mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, piú miei coetanei giovanetti, e altri nobili accese di fuoco amoroso. E me con atti diversi, male allora da me conosciuti, volte infinite tentarono di quello accendere di che essi ardevano, e che me dovea piú che altra non riscaldare, anzi ardere nel futuro; e da molti ancora con istantissima sollecitudine in matrimonio fui addomandata; ma poi che de’ molti uno, a me per ogni cosa dicevole, m’ebbe, quasi fuori di speranza cessò la infestante turba degli amanti da sollecitarmi con gli atti suoi. Io, adunque, debitamente contenta di tale marito, felicissima dimorai infino a tanto che il furioso amore, con fuoco non mai sentito, non entrò nella giovane mente. Oimè! che niuna cosa fu mai che il mio disio o d’alcuna altra donna dovesse chetare, che prestamente a mia satisfazione non venisse. Io era unico bene e felicitá singulare del giovane sposo, e cosí egli da me era egualmente amato, come egli mi amava. Oh quanto piú che altra mi potrei io dire felice, se sempre in me fosse durato cotale amore!
- Vivendo adunque contenta, e in festa continua dimorando, la fortuna, sùbita volvitrice delle cose mondane, invidiosa de’ beni medesimi che essa avea prestati, volendo ritrarre la mano, né sappiendo da qual parte mettere li suoi veleni, con sottile argomento a’ miei occhi medesimi fece all’avversitá trovare via, e certo niuna altra che quella onde entrò v’era al presente. Ma gl’iddii, a me favorevoli ancora e a’ miei fatti di me piú solleciti, sentendo le occulte insidie di costei, vollero, se io prendere l’avessi sapute, armi porgere al petto mio, acciò che disarmata non venissi alla battaglia nella quale io dovea cadere; e con aperta visione ne’ miei sonni, la notte precedente al giorno il quale a’ miei danni dovea dare principio, mi chiarirono delle future cose in cotale guisa.
- A me, nello ampissimo letto dimorante con tutti li membri risoluti nell’alto sonno, pareva, in un giorno bellissimo e piú chiaro che alcuno altro, essere, non so di che, piú lieta che mai; e con questa letizia, a me, sola fra verdi erbette, era avviso sedere in un prato dal cielo difeso e da’ suoi lumi úda diverse ombre d’alberi vestiti di nuove frondi; e in quello diversi fiori avendo colti, de’ quali tutto il luogo era dipinto, con le candide mani, in uno lembo de’ miei vestimenti raccoltili, fiore da fiore sceglieva, e degli scelti leggiadra ghirlandetta faccendo, ne ornava la testa mia. E cosí ornata levatami, quale Proserpina3 allora che Pluto la rapí alla madre, cotale m’andava per la nuova primavera cantando; poi, forse stanca, tra la piú folta erba a giacere postami, mi posava. Ma non altramente il tenero piè d’Euridice4 trafisse il nascoso animale, che me sopra l’erbe distesa, una nascosa serpe venente tra quelle, parve che sotto la sinistra mammella mi trafiggesse; il cui morso, nella prima entrata degli acuti denti, parea che mi cocesse; ma poi, assicurata, quasi di peggio temendo, mi pareva mettere nel mio seno la fredda serpe, immaginando lei dovere, col beneficio del caldo del proprio petto, rendere a me piú benigna. La quale, piú sicura fatta per quello e piú fiera, al dato morso raggiunse la iniqua bocca, e dopo lungo spazio, avendo molto del nostro sangue bevuto, mi pareva che, me renitente, uscendo del mio seno, vaga vaga fra le prime erbe col mio spirito si partisse. Nel cui partire il chiaro giorno turbato, dietro a me vegnendo, mi copria tutta, e secondo l’andare di quella cosí la turbazione seguitava, quasi come a lei tirante fosse la moltitudine de’ nuvoli appiccata, e seguissela; e non dopo molto, come bianca pietra gittata in profonda acqua a poco a poco si toglie alla vista de’ riguardanti, cosí si tolse agli occhi miei. Allora il cielo di somme tenebre chiuso vidi, e quasi partitosi il sole, e la notte tornata pensai, quale a’ Greci tornò nel peccato d’Atreo5; e le corruscazioni correano per quello senza alcuno ordine, e i crepitanti tuoni spaventavano le terre e me similemente. Ma la piaga, la quale infino a quella ora per la sola morsura m’avea stimolata, piena rimasa di veleno vipereo, non valendovi medicina, quasi tutto il corpo con enfiatura sozzissima parea che occupasse: laonde io, prima senza spirito non so come parendomi essere rimasa, e ora sentendo la forza del veleno il cuore cercare per vie molto sottili, per le fresche erbe aspettando la morte mi voltolava. E giá l’ora di quella venuta parendomi, offesa ancora dalla paura del tempo avverso, fu sí grave la doglia del cuore quella aspettante, che tutto il corpo dormente riscosse, e ruppe il forte sonno; dopo il quale rotto, subito, paurosa ancora delle cose vedute, con la destra mano corsi al morso lato, quello nel presente cercando che nel futuro m’era apparecchiato; e senza alcuna piaga trovandolo, quasi rallegrata e sicura, le sciocchezze de’ sogni cominciai a deridere, e cosí vana feci degl’iddii la fatica. Ahi, misera me! Quanto giustamente, se io li schernii allora, poi con mia grave doglia gli ho veri creduti, e piantili senza frutto, non meno degl’iddíi dolendomi, li quali con tanta oscuritá alle grosse menti dimostrano i loro segreti, che quasi non mostrati se non avvenuti si possono dire! Io, adunque, escitata, alzai il sonnacchioso capo, e per picciolo buco vidi entrare nella mia camera il nuovo sole; per che, ogni altro pensiero gittato via, subito mi levai.
- Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per che, io con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con maestra mano di me ornata ciascuna parte, simile alle dèe vedute da Paris6 nella valle d’Ida tenendomi, per andare alla somma festa m’apparecchiai. E mentre che tutta mi mirava, non altramente che il pavone le sue penne, immaginando di cosí piacere ad altrui come io a me piacea, non so come, uno fiore della mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse da celestiale mano da me non veduta, quella di capo trattami, cadde in terra: ma io, non curante alle occulte cose dagl’iddíi dimostrate, quasi come non fosse, ripresala, sopra il capo la mi riposi, e oltre andai. Oimè! che segnale piú manifesto di quello che avvenne mi poteano dare gl’iddíi? Certo niuno. Questo bastava a dimostrarmi che quello giorno la mia libera anima, e di sé donna, diposta la sua signoria, serva dovea divenire, come avvenne. Oh, se la mia niente fosse stata sana, quanto quel giorno a me nerissimo avrei conosciuto, e senza uscire di casa l’avrei trapassato! Ma gl’iddii, a coloro verso i quali essi sono adirati, benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano loro del conoscimento debito; e cosí ad una ora mostrano di fare il loro dovere, e saziano l’ira loro. La fortuna mia adunque me vana e non curante sospinse fuori; e accompagnata da molte, con lento passo pervenni al sacro tempio, nel quale giá il solenne ufício debito a quel giorno si celebrava.
- La vecchia usanza e la mia nobiltá m’avea tra l’altre donne assai eccellente luogo servato, nel quale poi che assisa fui, servato il mio costume, gli occhi subitamente in giro volti, vidi il tempio d’uomini e di donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare. Né prima, celebrandosi il sacro uficio, nel tempio sentita fui, che, sí come l’altre volte soleva avvenire, cosí e quella avvenne, che non solamente gli uomini gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio le donne, non altramente che se Venere o Minerva, mai piú da loro non vedute, fossero in quello luogo, lá dove io era, novamente discese. Oh, quante fiate tra me stessa ne risi, essendone meco contenta, e non meno che una dea gloriandomi di tale cosa! Lasciate adunque quasi tutte le schiere de’ giovani di mirare l’altre, a me si posero d’intorno, e diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e variamente fra loro della mia bellezza parlando, quasi in una sentenza medesima concludendo la laudavano. Ma io che, con gli occhi in altra parte voltati, mostrava me d’altra cura sospesa, tenendo gli orecchi a’ ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e quasi loro parendomene essere obbligata, tale fiata con piú benigno occhio li rimirava; e non una volta m’accorsi, ma molte, che di ciò alcuni vana speranza pigliando co’ compagni vanamente se ne gloriavano.
- Mentre che io in cotal guisa, poco alcuni rimirando, e molto da molti mirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese. E giá essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita piú che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita gravitá elevati, intra la moltitudine de’ circustanti giovani con aguto riguardamelo distesi: e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovane opposto vidi; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovanezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guancie sue; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose giá dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi potè tôrre. E giá nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con piú argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.
- Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto piú fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: «O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra». Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi si mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: «E voi la mia». Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano giá vaghi divenuti li contentava; e certo, se gl’iddíi, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia; ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando ne gío. Il quale, nel súbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me pallida e quasi freddissima tutta lasciò; ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la pallidezza, me rossissima e calda rendè come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli.
- A cosí fatti sembianti, esso, senza mutare luogo, cautissimo riguardava, e forse, sí come esperto in piú battaglie amorose, conoscendo con quali armi si doveva la disiata preda pigliare, ciascuna ora con umiltá maggiore pietosissimo si mostrava e pieno d’amoroso disio. Oimè! quanto inganno sotto sé quella pietá nascondea, la quale, secondo che gli effetti ora dimostrano, partitasi dal cuore, ove mai poi non ritornò, fittizia si mostrò nel suo viso. E acciò che io non vada ogni suo atto narrando, de’ quali ciascuno era pieno di maestrevole inganno, o egli che l’operasse, o i fati che ’l concedessono, in sí fatta maniera andò, che io, oltre ad ogni potere raccontare, da súbito e inopinato amore mi trovai presa, e ancora sono.
- Questi adunque, o pietosissime donne, fu colui il quale il mio cuore con folle estimazione fra tanti nobili, belli e valorosi giovani, quanti non solamente quivi presenti, ma eziandio in tutta la mia Partenope erano, primo, ultimo e solo, elessi per signore della mia vita; questi fu colui, il quale io amai e amo piú che alcuno altro; questi fu colui, il quale dovea essere principio e cagione d’ogni mio male, e, come io spero, di dannosa morte. Questo fu quel giorno, nel quale io prima, di libera donna, divenni miserissima serva; questo fu quel giorno, nel quale io prima amore, non mai prima da me conosciuto, conobbi; questo fu quel giorno, nel quale primieramente li venerei veleni contaminarono il puro e casto petto. Oimè misera! quanto male per me nel mondo venne sí fatto giorno! Oimè! quanto di noia e d’angoscia sarebbe da me lontana, se in tenebre si fosse mutato sí fatto giorno! Oimè misera! quanto fu al mio onore nemico sí fatto giorno! Ma che? Le preterite cose mal fatte, si possono molto piú agevolmente biasimare che emendare. Io fui pur presa, sí come è detto; e qualunque si fosse quella o infernal furia, o inimica fortuna che alla mia casta felicitá invidia portasse, ad essa insidiando, questo di con speranza d’infallibile vittoria si potè rallegrare.
- Soppresa adunque dalla passione nuova, quasi attonita e di me fuori, sedeva infra le donne, e li sacri uficii, appena da me uditi non che intesi, passare lasciava, e similemente delle mie compagne li ragionamenti diversi. E sí tutta la mente avea il nuovo e súbito amore occupata, che, o con gli occhi o col pensiero sempre l’amato giovane riguardava, e quasi con meco medesima non sapeva qual fine di sí fervente disio io mi chiedessi. Oh quante volte, disiderosa di vederlomi piú vicino, biasimai io il suo dimorare agli altri di dietro, quello tiepidezza estimando, che egli usava a cautela; e giá mi noiavano i giovani a lui stanti dinanzi, de’ quali mentre io fra loro alcuna volta il mio intendimento mirava, alcuni, credendosi che in loro il mio guardare terminasse, si credettero forse da me essere amati. Ma, mentre che in cotali termini stavano li miei pensieri, si fini l’uficio solenne, e giá per partirsi erano le mie compagne levate, quando io, rivocata l’anima, che d’intorno alla immagine del piaciuto giovane andava vagando, il conobbi. Levata adunque con l’altre, e a lui gli occhi rivolti, quasi negli atti suoi vidi quello, che io ne’ miei a lui m’apparecchiava di dimostrare, e mostrai, cioè che il partire mi doleva. Ma pure, dopo alcuno sospiro, ignorando chi elli si fosse, mi dipartii.
- Deh, pietose donne, chi crederá possibile in un punto uno cuore cosí alterarsi? Chi dirá che persona mai piú non veduta sommamente si possa amare nella prima vista? Chi penserá accendersi sí di vederla il disio, che, dalla vista di quella partendosi, senta gravissima noia, solo disiderando di vederla? Chi immaginerá tutte l’altre cose, per addietro molto piaciute, a rispetto della nuova spiacere? Certo niuna persona, se non chi provato l’avrá o pruova come fo io. Oimè! che Amore cosí come ora in me usa crudeltá non udita, cosí nel pigliarmi nuova legge dagli altri diversa gli piacque usare! Io ho piú volte udito, che negli altri i piaceri sono nel principio levissimi, ma poi, da’ pensieri nutricati, aumentando le forze loro, si fanno gravi; ma in me cosí non avvenne, anzi con quella medesima forza m’entrarono nel cuore, che essi vi sono poi dimorati, e dimorano. Amore il primo dí di me ebbe interissima possessione; e certo sí come il verde legno malagevolissimamente riceve il fuoco, ma quello ricevuto piú conserva e con maggior caldo, cosí a me avvenne. Io, avanti non vinta da alcuno piacere giammai, tentata da molti, ultimamente vinta da uno, e arsi e ardo, e servai e servo piú che altra facesse giammai nel preso fuoco.
- Lasciando molti pensieri che nella mente quella mattina, con accidenti diversi, mi furono, oltre alli raccontati, dico che di nuovo furore accesa, con l’anima fatta serva, lá onde libera l’avea tratta, mi ritornai. Quivi, poi che nella mia camera sola e oziosa mi ritrovai, da diversi disii accesa, e piena di nuovi pensieri, e da molte sollecitudini stimolata, ogni fine di quelli nella immaginata effigie del piaciuto giovane terminando, pensai che, se amore da me cacciare non poteasi, almeno cauto si reggesse e occulto nel tristo petto; la qual cosa quanto sia dura a fare nullo il può sapere, se nol pruova. Certo io non credo che ella faccia meno noia che amore stesso. E in tale proponimento fermata, non sappiendo ancora di cui, me con meco medesima chiamava innamorata.
- Quanti e quali fossero in me da questo amore li pensieri nati, lungo sarebbe tutti volerli narrare; ma alquanti, quasi sforzandomi, mi tirano a dichiararsi, con alcune cose oltre all’usato incominciatemi a dilettare. Dico adunque che, avendo ogni altra cosa posposta, solo il pensare all’amato giovane m’era caro, e parendomi che, in questo perseverando, forse quello che io intendeva celare si potrebbe presumere, me piú volte di ciò ripresi; ma che giovava? Le mie riprensioni davano luogo larghissimo alli miei disii, e inutili si fuggivano come venti. Io disiderai piú giorni sommamente di sapere chi fosse l’amato giovane, a che nuovi pensieri mi dierono aperta via, e cautamente il seppi, di che non poco contenta rimasi. Similmente gli ornamenti, de’ quali io prima, sí come poco bisognosa di quelli, niente curava, mi cominciarono ad essere cari, pensando piú ornata piacere; e quindi li vestimenti, l’oro, e le perle, e l’altre preziose cose, piú che prima pregiai. Io infino a quella ora alli templi, alle feste, alli marini liti e alli giardini andata senza altra vaghezza che solamente con le giovani ritrovarmi, cominciai con nuovo disio li detti luoghi a cercare, pensando che e vedere e veduta potrei essere con diletto. Ma veramente mi fuggí la fidanza, la quale io nella mia bellezza soleva avere, e mai fuori di sé la mia camera non m’avea, senza prima pigliare del mio specchio il fidato consiglio, e le mie mani, non so da che maestra nuovamente ammaestrate, ciascuno giorno piú leggiadra ornatura trovando, aggiunta l’artificiale alla naturale bellezza, tra l’altre splendidissima mi rendeano.
- Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle donne, ancora che forse alla mia nobiltá s’affacessero, quasi debiti cominciai a volerli, pensando che, al mio amante parendo magnifica, piú giustamente mi gradirebbe; l’avarizia, nelle femine innata, da me fuggendosi, cotale mi lasciò, che cosí le mie cose come non mie m’erano care, e liberale diventai; l’audacia crebbe, e alquanto mancò la feminile tiepidezza, me follemente alcuna cosa piú cara reputando che prima; e oltre a tutto questo, gli occhi miei, infino a quel dí stati semplici nel guardare, mutarono modo, e mirabilmente artificiosi divennero al loro oficio. Oltre a queste, ancora molte altre mutazioni in me apparirono, le quali tutte non curo di contare, sí perché troppo sarebbe lungo, e sí perché credo che voi, sí come me innamorate, conosciate quante e quali sieno quelle che a ciascuna avvengono posta in cotal caso.
- Era il giovane avvedutissimo, sí come piú volte esperienza rendè testimonio. Egli rade volte e onestissimamente venendo colá dove io era, quasi quel medesimo avesse proposto che io, cioè di celare in tutto l’amorose fiamme, con occhio cautissimo mi mirava. Certo, s’io negassi che, quando ciò mi avveniva che io il vedessi, amore, quantunque fosse in me si possente che piú non potea alcuna cosa quasi l’anima ampliando per forza crescesse, io negherei il vero. Egli allora in me le fiamme accese facea piú vive, e non so quali spente, se alcuna ve n’era, accendeva; ma in questo non era sí lieto il principio, che la fine non rimanesse piú trista, qualora della vista di quello rimanea privata; perciò che gli occhi, della loro allegrezza privati, davano al cuore noiosa cagione di dolersi, di che i sospiri, in quantitá e in qualitá diventavano maggiori, e il disio, quasi ogni mio sentimento occupando, mi toglieva di me medesima, e quasi non fossi dov’era, feci piú volte maravigliare chi mi vide, dando poi a cotali accidenti cagioni infinite, da amore medesimo insegnate. E oltre a questo, sovente la notturna quiete e il continuo cibo togliendomi, alcuna volta ad atti piú furiosi che súbiti, e a parole mi moveano inusitate.
- Ecco che li cresciuti ornamenti, gli accesi sospiri, li nuovi atti, li furiosi movimenti, la perduta quiete, e l’altre cose in me per lo nuovo amore venute, tra gli altri domestici familiari a maravigliarsi mossero una mia balia, d’anni antica e di senno non giovane, la quale, giá seco conoscendo le triste fiamme, mostrando di non conoscerle, piú fiate mi riprese de’ nuovi modi. Ma pure un giorno me trovando sopra il mio letto malinconosa giacere, vedendo di pensieri carica la mia fronte, poi che d’ogni altra compagnia ci vide libere, cosí cominciò a parlare:
- — O figliuola a me come me medesima cara, quali sollecitudini da poco tempo in qua ti stimolano? Tu niuna ora trapassi senza sospiri, la quale altra volta lieta, e senza niuna malinconia sempre vedere solea. —
- Allora io, dopo un gran sospiro, d’uno in altro colore piú d’una volta mutatami, quasi di dormire infignendomi, e di non averla udita, ora qua ora lá rivolgendomi, per tempo prendere alla risposta, appena potendo la lingua a perfetta parola conducere, pur le risposi:
- — Cara nutrice, niuna cosa nuova mi stimola, né piú sento che io mi sia usata; solamente li naturali córsi, non tenenti sempre d’una maniera li viventi, ora piú che l’usato mi fanno pensosa. —
- — Certo, figliuola, tu m’inganni, — rispose la vecchia balia — né pensi quanto sia grave il fare alle persone attempate credere in parole una cosa, e un’altra negli atti mostrarne; egli non t’è bisogno celarmi quello che io, giá sono piú giorni, in te manifestamente conobbi. —
- Oimè! che quando io udii cosi, quasi dolendomi e sperando e crucciandomi, le dissi:
- — Dunque, se tu il sai, di che addimandi? A te piú non bisogna se non celare quello che conosci. —
- — Veramente — disse ella allora — celerò io quello che non è licito che altri sappia; e avanti s’apra la terra, e me tranghiotta, che io mai cosa, che a te torni a vergogna, palesi; gran tempo è che io a tenere celate le cose apparai. E perciò di questo vivi sicura, e con diligenza guarda non altri conosca quello che io, senza dirlomi tu o altri, ne’ tuoi sembianti ho conosciuto. Ma, se quella sciocchezza, nella quale io ti conosco caduta, ti si conviene, se in quel senno fossi nel quale giá fosti, a te sola il lascerei a pensare, sicurissima che in ciò luogo il mio ammaestrare non avrebbe. Ma perciò che questo crudele tiranno, al quale, sí come giovane, non avendo tu presa guardia di lui, semplicemente ti se’ sommessa, suole insieme con la libertá il conoscimento occupare, mi piace di ricordarti e di pregarti che tu del casto petto esturbi e cacci via le cose nefande, e ispegni le disoneste fiamme, e non ti facci a turpissima speranza servente. E ora è tempo da resistere con forza, però che chi nel principio bene contrastette, cacciò il villano amore, e sicuro rimase e vincitore; ma chi con lunghi pensieri e lusinghe il nutrica, tardi può poi ricusare il suo giogo, al quale quasi volontario si sommise. —
- — Oimè! — dissi io allora — quanto sono piú agevoli a dire queste cose che a menarle ad effetto! —
- — Come ch’elle sieno a fare assai malagevoli, pure possibili sono, —disse ella — e fare si convengono. Vedi se l’altezza del tuo parentado, la gran fama della tua virtú, il fiore della tua bellezza, l’onore del mondo presente, e tutte quell’altre cose che a donna nobile debbono essere care, e sopra a tutte la grazia del tuo marito, da te tanto amato e tu da lui, per questa sola di perdere disideri. Certo volere nol dèi, né credo che ’l vogli, se savia teco medesima ti consigli. Dunque, per Dio, ritienti, e i falsi diletti promessi dalla sozza speranza caccia via, e con essi il preso furore. Io supplicemente, per questo vecchio petto e nelle molte cure affaticato, dal quale tu prima li nutritivi alimenti prendesti, ti priego che tu medesima t’aiuti, e alli tuoi onori provvegga, e li miei conforti in questo non rifiutare: pensa che parte della sanitá fu il volere essere guarita. —
- Allora cominciai io:
- — O cara nutrice, assai conosco vere le cose che narri; ma il furore mi costrigne a seguitare le peggiori, e l’animo consapevole, e ne’ suoi disiderii strabocchevole, indarno li tuoi consigli appetisce; e quello che la ragione vuole è vinto dal regnante furore. La nostra mente tutta possiede e signoreggia Amore con la sua deitá, e tu sai che non è sicura cosa alle sue potenzie resistere. —
- E questo detto, quasi vinta, sopra le mie braccia ricaddi. Ma ella, alquanto piú che prima turbata, con voce piú rigida cominciò tali parole:
- — Voi, turba di vaghe giovani, di focosa libidine accese, sospingendovi questa, vi avete trovato Amore essere iddio al quale piuttosto giusto titolo sarebbe furore; e lui di Venere chiamate figliuolo, dicendo che egli dal terzo cielo piglia le forze sue, quasi vogliate alla vostra follia porre necessitá per iscusa. O ingannate, e veramente di conoscimento in tutto fuori! Che è quello che voi dite? Costui, da infernale furia sospinto, con súbito volo visita tutte le terre, non deitá, ma piuttosto pazzia di chi il riceve, benché esso non visiti al piú se non quelli, li quali, di soperchio abbondanti nelle mondane felicitá, conosce con gli animi vani e atti a fargli luogo: e questo ci è assai manifesto. Ora non veggiamo noi Venere santissima7 abitare nelle picciole case sovente, solamente, e utile al necessario nostro procreamento? Certo sí; ma questi, il quale, per furore, Amore è chiamato, sempre le dissolute cose appetendo, non altrove s’accosta che alla seconda fortuna. Questi, schifo cosí di cibi alla natura bastevoli come di vestimenti, li dilicati e risplendenti persuade, e con quelli mescola i suoi veleni, occupando l’anime cattivelle; per che, costui cosí volentieri gli alti palagi colente, nelle povere case rade volte si vede o non giammai; però che è pestilenza, che sola elegge i dilicati luoghi, sí come piú al fine delle sue operazioni inique conformi. Noi veggiamo nell’umile popolo gli affetti sani, ma li ricchi d’ogni parte di ricchezze splendenti, cosí in questo come nell’altre cose insaziabili, sempre piú che il convenevole cercano, e quello che non può chi molto può disidera di potere: de’ quali te medesima sento essere una, o infelicissima giovane, in nuova sollecitudine e isconcia entrata per troppo bene. —
- Alla quale dopo il molto averla ascoltata, io dissi:
- — O vecchia, taci, e contro agl’iddii non parlare. Tu oramai a questi effetti impotente, e meritamente rifiutata da tutti, quasi volontaria parli contro di lui, quello ora biasimando che altra volta ti piacque. Se l’altre donne di me piú famose, savie e possenti, cosí per addietro l’hanno chiamato e chiamano, io non gli posso dare nome di nuovo; a lui sono veramente suggetta, quale che di ciò si sia la cagione, o la mia felicitá o la mia sciagura, e piú non posso. Le forze mie, piú volte alle sue oppostesi, vinte, indietro si sono tirate. Adunque, o la morte o il giovane disiato resta per sola fine alle mie pene, alle quali tu, piuttosto, se cosí se’ savia come io ti tengo, porgi consiglio e aiuto, il quale minori le faccia, io te ne priego, o tu ti rimani di inasprirle, biasimando quello a che l’anima mia, non potendo altro, con tutte le sue forze è disposta. —
- Ella allora sdegnando, e non senza ragione, senza rispondermi, non so che mormorando con seco, me, della camera uscita, lasciò soletta.
- Giá s’era, senza piú favellarmi, partita la cara balia, li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato fosse il mio conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò che assertivamente avea davanti a lei detto di voler pur seguire, pentendomi nella mente mi vacillava, e giá cominciando a pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannose, lei voleva richiamare alli miei conforti; ma nuovo e súbito accidente me ne rivolse, però che nella segreta mia camera, non so onde venuta, una bellissima donna s’offerse agli occhi miei, circundata da tanta luce che appena la vista la sostenea. Ma pure stando essa ancora tacita nel mio cospetto, quanto potei per lo lume gli occhi aguzzare tanto li pinsi avanti, infino a tanto che alla mia conoscenza pervenne la bella forma, e vidi lei ignuda, fuori solamente d’un sottilissimo drappo purpureo, il quale, avvegna che in alcune parti il candidissimo corpo coprisse, di quello non altramente toglieva la vista a me mirante, che posta figura sotto chiaro vetro; e la sua testa, li capelli della quale tanto di chiarezza l’oro passavano, quanto l’oro, de’ nostri passa li vie piú biondi, avea coperta d’una ghirlanda di verdi mortine, sotto l’ombra della quale io vidi due occhi di bellezza incomparabile, e vaghi a riguardare oltremodo, rendere mirabile luce, e tanto tutto l’altro viso avea bello quanto quaggiú a quello simile non si truova. Ella non dicea alcuna cosa, anzi o forse contenta ch’io la riguardassi, ovvero me vedendo di riguardarla contenta, a poco a poco tra la fulvida luce di sé le belle parti m’apriva piú chiare, perché io bellezze in lei da non potere con lingua ridire, né senza vista pensare intra’ mortali, conobbi. La quale poi che sé da me considerata per tutto s’avvide, veggendomi maravigliare e della sua beltade e della sua venuta quivi, con lieto viso e con voce piú che la nostra assai soave, cosí verso me cominciò a parlare:
- — O giovane, assai piú che alcun’altra mobile, che per li nuovi consigli della vecchia balia t’apparecchi di fare? Non conosci tu che essi sono molto piú difficili a seguitare, che l’amore medesimo che disideri di fuggire? Non pensi tu, quanto e quale, e come importabile affanno essi ti serbino? Tu, stoltissima, nuovamente nostra, per le parole d’una vecchia, non nostra farti disíderi, sí come colei che ancora quali e quanti sieno i nostri diletti non sai. O poco savia, sostieni, e per le nostre parole riguarda se a te quello che al cielo e al mondo è bastato è assai. Quantunque Febo8, surgente co’ chiari raggi di Gange9, insino all’ora che nell’onde d’Esperia10 si tuffa con li lassi carri, alle sue fatiche dare requie, vede nel chiaro giorno, e ciò che tra ’l freddo Arturo11 e ’l rovente polo si chiude, signoreggia il nostro volante figliuolo12 senza alcuno niego. E ne’ cieli, non che egli sí come gli altri sia iddio, ma ancora vi è tanto piú che gli altri potente, quanto alcuno non ve n’è che stato non sia per addietro vinto dalle sue armi. Questi, con dorate piume leggierissimo in un momento volando per li suoi regni, tutti li visita, e il forte arco reggendo sovra il tirato nervo adatta le sue saette da noi fabbricate e temperate nelle nostre acque; e quando alcuno piú degno che gli altri elegge al suo servigio, quello prestissimamente manda ove gli piace.
- «Egli commuove le ferocissime fiamme de’ giovani, e negli stanchi vecchi richiama gli spenti calori, e con non conosciuto fuoco delle vergini infiamma li casti petti, parimente le maritate e le vedove riscaldando. Questi con le sue fiaccole riscaldati gl’iddíi, comandò per addietro che essi, lasciati li cieli, con falsi visi abitassero le terre. Or non fu Febo vincitore del gran Fitone13, e accordatore delle cetere di Parnaso14, piú volte da costui soggiogato, ora per Danne15, ora per Climenes16 e quando per Leucotoe17, e per altre molte?18 Certo sí; «ultimamente, rinchiusa la sua gran luce sotto la vile forma d’un picciolo pastore, innamorato guardò gli armenti19 d’Ameto.
- «Giove medesimo, il quale regge il cielo, costrignendolo costui, si vesti minor forma di sé. Egli alcuna volta in forma di candido uccello20, movendo l’ali diede voci piú dolci che ’l moriente cigno; e altra volta, divenuto giovenco21 e poste alla sua fronte corna, mugghiò per li campi, e i suoi dossi umiliò alli gioghi virginei, e per li fraterni regni con le fesse unghie, imitando ufício de’ remi, con forte petto vietando il profondo, godè della sua rapina. Quello che per Semelé22 nella propria forma facesse, quello che per Almena mutato in Anfitrione23, quello che per Calisto mutato in Diana24, o per Danae divenuto oro25 giá fece, non diciamo, che sarebbe troppo lungo. E il fiero iddio delle armi26, la cui rossezza ancora spaventa li giganti, sotto la sua potenza temperò li suoi aspri effetti, e divenne amante. E il costumato al fuoco fabbro di Giove, e facitore delle trisulche27 folgori, da quel di costui piú possente fu cotto; e noi similmente, ancora che madre gli siamo, non ce ne siamo potuta guardare, sí come le nostre lagrime fecero aperto nella morte d’Adone.28 Ma perché ci fatichiamo noi in tante parole? Niuna deitá è nel cielo da costui non ferita, se non Diana: questa sola, de’ boschi dilettandosi, l’ha fuggito, la quale, secondo l’oppinione d’alcuni, non fuggito, ma piuttosto nascoso.
- «Ma se tu forse gli esempli del cielo incredula schifi e cerchi chi del mondo gli abbia sentiti, tanti sono, che da cui cominciare appena, ci occorre; ma tanto ti diciamo veramente, che tutti sono stati valorosi. Rimirisi primamente al fortissimo figliuolo di Almena, il quale, poste giú le saette e la minaccevole pelle del gran leone29, sostenne d’acconciarsi alle dita i verdi smeraldi, e di dar legge alli rozzi capelli, e con quella mano, con la quale poco innanzi portato avea la dura mazza e ucciso il grande Anteo30 e tirato lo ’nfernale cane31, trasse le fila della lana data da Jole dietro al precedente fuso, e gli omeri, sopra li quali l’alto cielo s’era posato mutando spalla Atlante, furono in prima dalle braccia di Jole premuti, e poi coperti, per piacerle, di sottili vestimenti di porpora. Che fece Paris per costui, che Elena, che Clitennestra32, e che Egisto, tutto il mondo il conosce; e similmente di Achille, di Silla33, di Adriana, di Leandro, di Didone, e di piú molti, non dico, ché non bisogna. Santo è questo fuoco, e molto potente, credimi. Udito hai il cielo e la terra soggiogata dal mio figliuolo negl’iddii e negli uomini; ma che dirai tu ancora delle sue forze, estendentisi negli animali irrazionali, cosí celesti come terreni? Per costui la tortora il suo maschio sèguita, e le nostre colombe34 alli suoi colombi vanno dietro con caldissima affezione, e nessun altro n’è che dalla maniera di questi fugga alcuna volta: e ne’ boschi li timidi cervi, fatti tra sé feroci quando costui li tocca per le disiderate cervie combattono, e, mugghiando, delli costui caldi mostrano segnali; e i pessimi cinghiari, divenendo per ardore spumosi, aguzzano gli eburnei denti; e i leoni africani, da amore tocchi, vibrano i colli. Ma, lasciando le selve, dico che li dardi del nostro figliuolo, ancora nelle fredde acque sentono le greggie de’ marini iddii, e de’ correnti fiumi. Né crediamo che occulto ti sia, quale testimonianza giá Nettuno35, Glauco e Aifeo36 e altri assai n’abbiano renduta, non potendo con le loro umide acque, non che spegnere, ma solamente alleviare la costui fiamma, la quale, ancora giá sopra terra e nell’acque saputa da ciascuno, se ne venne penetrando la terra e infino al re dell’oscure paludi si fe’ sentire.
- «Adunque il cielo, la terra, il mare, lo ’nferno, per esperienza conoscono le sue armi; e acciò che io in brievi parole ogni cosa comprenda della potenza di costui, dico che ogni cosa alla natura soggiace, e da lei niuna potenza è libera, ed essa medesima è sotto Amore. Quando costui il comanda, gli antichi odii periscono, e le vecchie ire e le novelle danno luogo alli suoi fuochi; e ultimamente, tanto si distende il suo potere, che alcuna volta le matrigne fa graziose a’ figliastri, che è non picciola maraviglia. Dunque che cerchi? Che dubiti? Che mattamente fnggi? Se tanti iddíi, tanti uomini, tanti animali, da questi son vinti, tu d’essere vinta da lui ti vergognerai? Tu non sai che ti fare. Se tu forse di sottometterti a costui aspetti riprensione, ella non ci dèe potere cadere, perciò che mille falli maggiori, e il seguire ciò che gli altri piú di te eccellenti hanno fatto, te, come poco avendo fallito e meno potente che li giá detti, renderanno scusata.
- «Ma se queste parole non ti muovono, e pure resistere vorrai, pensa la tua virtú non simile a quella di Giove, né in senno potere aggiugnere Febo, né in ricchezze Giunone, né noi in bellezze; e tutti siamo vinti. Dunque tu sola credi vincere? Tu se’ ingannata, e ultimamente pur perderai. Bastiti quello che per innanzi a tutto il mondo è bastato, né ti faccia a ciò tiepida il dire; ‘Io ho marito, e le sante leggi e la promessa fede mi vietano queste cose’; però che argomenti vanissimi sono contro alla costui virtú. Elli, sí come piú forte, l’altrui leggi non curando annullisce, e dá le sue. Pasife similmente avea marito, e Fedra, e noi ancora quando amammo. Essi medesimi mariti amano le piú volte avendo moglie: riguarda Giasone, Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa loro ingiuria, se per quelle leggi che essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa piú che alle donne è conceduta, e però abbandona gli sciocchi pensieri, e sicura ama come hai cominciato. Ecco, se tu al potente Amore non vuoi soggiacere, fuggire ti conviene; e dove fuggirai tu ch’egli non ti sèguiti e non ti giunga? Egli ha in ogni luogo uguale potenza: dovunque tu vai, ne’ suoi regni dimori, ne’ quali alcuno non gli si può nascondere, quando gli piace il ferirlo. Bastiti solamente, o giovane, che di non abominevole fuoco, come Mirra, Semiramis37, Biblis38, Canace e Cleopatra39 fece, ti molesti. Niuna cosa nuova dal nostro figliuolo verso te sará operata: egli ha cosí leggi, come qualunque altro iddio, alle quali seguire tu non se’ la prima, né d’essere l’ultima dèi avere speranza. Se forse al presente ti credi sola, vanamente credi. Lasciamo stare l’altro mondo, che tutto n’è pieno; ma la tua cittá solamente rimira, la quale infinite compagne ti può mostrare; e ricòrdati che niuna cosa fatta da tanti, meritamente si può dire sconcia. Séguita adunque noi, e la molto riguardata bellezza con la deitá nostra vera ringrazia, la quale del numero delle semplici, a conoscere il diletto de’ nostri doni, t’abbiamo tirata».—
- Deh, donne pietose, se Amore felicemente adempia i vostri disii, che doveva io, e che potea rispondere a tante e tali parole, e di tale dea, se non: «Sia come ti piace?». Adunque dico che ella giá tacea, quando io, le sue parole avendo nello ’ntelletto raccolte, fra me piene d’infinite scuse sentendole, e lei giá conoscendo, a ciò fare mi disposi. E subitamente del letto levatami, e poste con umile cuore le ginocchia in terra, cosí temorosa incominciai:
- — O singulare bellezza eterna, o deitá celeste, o unica donna della mia mente, la cui potenza sente piú fiera chi piú si difende, perdona alla semplice resistenza fatta da me contro all’armi del tuo figliuolo, non conosciuto, e di me sia come ti piace, e come prometti, e a luogo e tempo merita la mia fede, acciò che io, di te tra l’altre lodandomi, cresca il numero de’ tuoi sudditi senza fine. —
- Queste parole aveva io appena dette, quando ella del luogo dove stava mossasi, verso me venne, e con ferventissimo disio nel sembiante, abbracciandomi, mi baciò la fronte. Poi, quale il falso Ascanio, nella bocca a Didone alitando, accese l’occulte fiamme, cotale a me in bocca spirando fece li primi disii piú focosi, com’io sentii. E aperto alquanto il drappo purpureo, nelle sue braccia tra le dilicate mammelle, l’effigie dell’amato giovane, ravvolta nel sottile pallio, con sollecitudini alle mie non dissimili, mi fece vedere, e cosí disse:
- — O giovane donna, riguarda costui: non Lissa, non Geta, non Birria, né loro pari t’abbiamo per amante donato: egli è per ogni cosa degno d’essere da qualunque dea amato; te piú che se medesimo, sí come noi abbiamo voluto, ama, e amerá sempre; e però lieta e sicura nel suo amore t’abbandona. Li tuoi prieghi hanno con pietá tocchi li nostri orecchi sí come degni, e però spera che secondo l’opera senza fallo merito prenderai. —
- E quinci senza piú dire súbita si tolse agli occhi miei.
- Oimè misera! che io non dubito che, le cose seguite mirando, non Venere costei che m’apparve, ma Tesifone fosse piuttosto, la quale, posti giú gli spaventevoli crini non altramente che Giunone la chiarezza della sua deitá, e vestita la splendida forma, quale quella si vestí la senile, cosí mi si fece vedere come essa a Semelè, simigliante consiglio di distruzione ultima, qual fece ella, porgendomi; il quale io miseramente credendo, o pietosissima fede, o reverenda vergogna, o castitá santissima, delle oneste donne unico e caro tesoro, mi fu cagione di cacciarvi. Ma perdonatemi, se penitenzia, data al peccatore può, sostenuta, perdono alcuna volta impetrare.
- Poi che del mio cospetto si fu partita la dea, io ne’ suoi piaceri con tutto l’animo rimasi disposta: e come che ogn’altro senno mi togliesse la passione furiosa che io sostenea, non so per quale mio merito, solo un bene di molti perduti mi fu lasciato, cioè il conoscere che rade volte, o non mai, fu ad amore palese conceduto felice fine. E però, tra gli altri miei piú sommi pensieri, quanto che egli mi fosse gravissimo a fare, dispuosi di non proporre alla ragione il volerne recare a fine cotal disio. E certo, quanto che io molte volte fossi per diversi accidenti fortissimamente costretta, pure tanto di grazia mi fu conceduto, che senza trapassare il segno, virilmente sostenendo l’affanno passai. E in veritá ancora durano le forze a tal consiglio, però che quantunque io scriva cose verissime, sotto sí fatto ordine l’ho disposte che, eccetto colui che cosí come io le sa essendo di tutte cagione, niuno altro, per quantunque avesse acuto l’avvedimento, potrebbe chi io mi fossi conoscere. E io lui priego, se mai per avventura questo libretto alle mani gli perviene, che egli, per quello amore il quale giá mi portò, che celi quello che a lui né utile né onore può manifestandol tornare. E s’egli m’ha tolto, senza io averlo meritato, sé, non mi voglia tôrre quello onore, il quale avvegna che io ingiustamente porti, esso come sé, volendo, non mi potrebbe rendere giammai.
- Cotale proponimento adunque servando, e sotto grave peso di sofferenza domando li miei disii volonterosissimi di mostrarsi, m’ingegnai con occultissimi atti, quando tempo mi fu conceduto, d’accendere il giovane in quelle medesime fiamme ove io ardea, e di farlo cauto come io era. E in veritá in ciò non mi fu luogo lunga fatica, però che, se ne’ sembianti vera testimonianza della qualitá del cuore si comprende, io in poco tempo conobbi al mio disiderio esser seguito l’effetto; e non solamente dell’amoroso ardore, ma ancora di cautela perfetta il vidi pieno; il che sommamente mi fu a grado. Esso con intera considerazione, vago di servare il mio onore, e d’adempiere, quando i luoghi e i tempi il concedessero, li suoi disii, credo non senza gravissima pena, usando molte arti, s’ingegnò d’avere la familiaritá di qualunque m’era parente, e ultimamente del mio marito: la quale non solamente ebbe, ma ancora con tanta grazia la possedette, che a niuno niuna cosa era a grado, se non tanto quanto con lui la comunicava. Quanto questo mi piacesse, credo che senza scriverlo il conosciate: e chi sarebbe quella sí stolta, che non credesse che sommamente da questa familiaritá nacque il potermi alcuna volta, e io a lui, in pubblico favellare?
- Ma giá parendogli tempo di procedere a piú sottili cose, ora con uno, ora con un altro, quando vedeva che io e udire potessi e intenderlo, parlava cose, per le quali io, volonterosissima d’imparare, conobbi che non solamente favellando si poteva l’affezione dimostrare ad altrui e la risposta pigliarne, ma eziandio con atti diversi e delle mani e del viso si poteva fare; e ciò piacendomi molto, con tanto avvedimento il compresi che né egli a me, né io a lui, significare voleva alcuna cosa, che assai convenevolmente l’uno l’altro non intendesse. Né a questo contento stando, s’ingegnò, per figura parlando, e d’insegnarmi a tale modo parlare, e di farmi piú certa de’ suoi disii, me Fiammetta, e sé Panfilo nominando. Oimè! quante volte giá in mia presenza e de’ miei piú cari, caldo di festa e di cibi e d’amore, fignendo Fiammetta e Panfilo essere stati greci, narrò egli come io di lui, ed esso di me primamente stati eravamo presi, con quanti accidenti poi n’erano seguitati, e a’ luoghi e alle persone pertinenti alla novella dando convenevoli nomi. Certo io ne risi piú volte, e non meno della sua sagacitá che della semplicitá degli ascoltanti; e tal volta fu che io temetti che troppo caldo non trasportasse la lingua disavvedutamente dove essa andare non voleva; ma egli, piú savio che io non pensava, astutissimamente si guardava dal falso latino.
- O pietosissime donne, che non insegna Amore a’ suoi suggetti, e a che non li fa egli abili ad imparare? Io, semplicissima giovane e appena potente a disciogliere la lingua nelle materiali e semplici cose tra le mie compagne, con tanta affezione li modi del parlare di costui raccolsi, che in brieve spazio io avrei di fingere e di parlare passato ogni poeta; e poche cose furono alle quali, udita la sua posizione, io con una finta novella non dessi risposta dicevole. Cose assai, secondo il mio parere, male agevoli ad imprendere, e molto piú ad operare ad una giovane, ho raccontate, ma tutte piccolissime, e di niuno peso parrebbono, scrivendo io, se la materia presente il richiedesse, con quanta sottile esperienza fosse per noi provata la fede d’una mia familiarissima serva, alla quale diliberammo di commettere il nascoso fuoco ancora a niun’altra persona palese, considerando che lungamente non senza gravissimo affanno, non essendovi alcuno mezzo, si poteva servare. Oltre a questo sarebbe lungo il raccontare quanti e quali consigli e per lui e per me a varie cose fossero presi; forse, non che per altrui operati, ma appena ch’io creda che pensati giammai; le quali tutte, ancora che io al presente in mio detrimento le conosca operate, non però mi duole d’averle sapute.
- Se io, a donne, non erro immaginando, egli non fu piccola la fermezza degli animi nostri, se con intera mente si guarda quanto diffícile cosa sia due amorose menti, e di due giovani, sostenere un lungo tempo che esse, o d’una parte o d’un’altra da soperchi disii sospinte, della ragionevole via non trabocchino; anzi fu bene tanta e tale, che li piú forti uomini, ciò faccendo, laude degna e alta ne acquisterieno. Ma la mia penna, meno onesta che vaga, s’apparecchia di scrivere quegli ultimi termini d’amore, a’ quali a niuno è conceduto il potere, né con disio né con opera, andare piú oltre. Ma in prima che io a ciò pervenga, quanto piú supplicemente posso la vostra pietá invoco, e quella amorosa forza, la quale ne’ vostri teneri petti stando, a cotale fine tira li vostri disii, e priegole che, se ’l mio parlare vi par grave, dell’opera non dico, ché so che se a ciò state non siete giá d’esservi disiate, che esse prontissime surgano alla mia scusa. E tu, o onesta vergogna, tardi da me conosciuta, perdonami; e alquanto ti priego che qui presti luogo alle timide donne, acciò che, da te non minacciate, sicure di me leggano ciò che di sé, amando, disiano.
- L’uno giorno all’altro dopo traevano con isperanza sollecita li suoi e miei disii; e ciò ciascuno agramente portava, avvegna che l’uno il dimostrasse all’altro occultamente parlando, e l’altro a l’uno di ciò si mostrasse schifo oltremodo, sí come voi medesime, le quali forse forza cercate a ciò che pilú vi sarebbe a grado, sapete che sogliono le donne amate fare. Esso adunque, in ciò poco alle mie parole credevole, luogo e tempo convenevole riguardato, piú in ciò che gli avvenne avventurato che savio, e con piú ardire che ingegno, ebbe da me quello che io, sí come egli, benché del contrario infingessimi, disiava. Certo, se questa fosse la cagione per la quale io l’amassi, io confesserei che ogni volta che ciò nella memoria mi tornasse, mi fosse dolore a niuno altro simile; ma in ciò mi sia Iddio testimonio che cotale accidente fu ed è cagione menomissima dell’amore che io gli porto; non per tanto niego che ciò, e ora e allora, non mi fosse carissimo. E chi sarebbe quella sí poco savia che una cosa che amasse non volesse, anzi che lontana, vicina? e quanto maggiore fosse l’amore piú sentirsela appresso? Dico adunque che, dopo cotale avvenimento, da me avanti non che saputo, ma pur pensato, non una volta, ma molte con sommo piacere, e la fortuna e il nostro senno ci consolò lungo tempo a tale partito, avvegna che a me ora in brieve piú che alcuno vento fuggitosi mi si mostri. Ma mentre che questi cosí lieti tempi passavano, sí come Amore veramente può dire, il quale solo testimonio ne posso dare, alcuna volta non fu senza tema a me licito il suo venire, che egli per occulto modo non fosse meco. Oh, quanto gli era la mia camera cara, e come lieta essa lui vedeva volontieri! Io il conobbi ad essa piú reverente, che ad alcuno tempio. Oimè! quanti piacevoli baci, quanti amorosi abbracciari, quante notti ragionando graziose piú che il chiaro giorno senza sonno passate, quanti altri diletti cari ad ogni amante in quella avemmo ne’ lieti tempi! O santissima vergogna, durissimo freno alle vaghe menti, perché non ti parti tu pregandotene io? Perché ritieni tu la mia penna atta a dimostrare gli avuti beni, acciò che, mostrati interamente, le seguite infelicitá avessero forza maggiore di porre per me pietá negli amorosi petti? Oimè! che tu mi offendi, credendomi forse giovare; io disiderava di dire piú cose, ma tu non mi lasci.
- Quelle adunque alle quali tanto di privilegio ha la natura prestato, che per le dette possano quelle che si tacciono comprendere, all’altre non cosí savie il manifestino. Né alcuna me, quasi non conoscente di tanto, stolta dica, ché assai bene conosco che piú sarebbe il tacere stato onesto, che ciò manifestare che è scritto: ma chi può resistere ad Amore, quando egli con tutte le sue forze operando, s’oppone? Io a questo punto piú volte lasciai la penna e piú volte, da lui infestata, la ripresi; e ultimamente a colui al quale io ne’ principii non seppi, libera ancora, resistere, convenne che io serva obbedissi. Egli mi mostrò altrettanto li diletti nascosi valere, quanto li tesori sotto la terra occultati. Ma perché mi diletto io tanto intorno a queste parole? Io dico che io allora piú volte ringraziai la santa dea promettittrice e datrice di que’ diletti. Oh, quante volte io li suoi altari visitai con incensi, coronata delle sue fronde, e quante volte biasimai li consigli della vecchia balia! E oltre a questo, lieta sopra tutte l’altre compagne, scherniva li loro amori, quello ne’ miei parlari biasimando, che piú nell’animo mi era caro, fra me sovente dicendo: «Niuna è amata come io, né ama giovane degno come io amo, né con tanta festa coglie gli amorosi frutti come colgo io». Io brevemente aveva il mondo per nulla, e con la testa mi parea il cielo toccare, e nulla mancare a me al sommo colmo della beatitudine tenere, reputava, se non solamente in aperto dimostrare la cagione della mia gioia, estimando meco medesima che cosí a ciascuna persona, come a me, dovesse piacere quello che a me piaceva. Ma tu, o vergogna, dall’una parte, e tu, paura, dall’altra, mi riteneste, minacciandomi l’una d’eterna infamia, e l’altra di perdere ciò che nemica fortuna mi tolse poi. Adunque, sí come piacque ad Amore, in cotal guisa piú tempo, senza avere invidia ad alcuna donna, lieta amando vissi, e assai contenta, non pensando che il diletto il quale io allora con ampissimo cuore prendea, fosse radice e pianta nel futuro di miseria, sí come io al presente senza frutto miseramente conosco.
- ↑ [i denti seminati da Cadmo ]. Cadmo fu figliuolo di re Agenore re di Sidonia ed ebbe uno fratello chiamato Fenice e una sorella chiamata Europa, la quale Giove trasmutato in forma di tauro la rapí. Mandato il detto Cadmo col detto Fenice dal detto lor padre Agenore per ritrovare la detta Europa loro sorella, non trovandola, arrivaro in Boezia ove esso Cadmo uccise un serpente ad una fontana; del quale serpente seminò li denti dalli quali nacquero uomini armati, e gittata la terra ove furono seminati, infra loro subito s’uccisero l’uno con l’altro.
- ↑ [Lachesis]: è una delle tre dèe c’hanno in potestate la vita umana.
- ↑ [Proserpina]: fu figliuola di Cerere, la quale fu allevata in Cicilia. Andando a cogliere fiori appiè del monte di Etna, Pluto signore dell’inferno la rapí e menolla con seco e tolsela per moglie. E però dice Dante: Tu mi risembri si come qual era
- Proserpina nel tempo che perdette
- la madre lei, ed ella primavera.
- ↑ [Euridice]: fu moglie di Orfeo la quale andandosi a sollazzo per un prato, pose i piè ad uno serpente il quale la morse nel calcagno e subito ne morí e andossene all’inferno. Per la quale il detto Orfeo andò all’inferno e tanto fece con suoi belli suoni che la riebbe, con patto che non si dovesse rivoltare indietro; ma lui poco savio rivoltandosi all’uscita della porta per vedere se ella uscìa fuori, la riperdé.
- ↑ [nel peccato d’Atreo]. Atreo fu fratello di Tieste e figliuolo di Tantalo, padre di Agamennone e di Menelao, il quale cacciò il detto suo fratello Tieste del regno perché esso usò carnalmente con la sua donna; del quale volendosi il detto Atreo vendicare, sotto spezie di volersi pacificare con lui, lo fe’ ritornare e usò questa iniqua crudeltá: che uccise due figliuoli del detto Tieste e dièglili a mangiare. Per la qual crudeltá gl’iddíi corrucciati fèro una notte durare due dí.
- ↑ [simile alle dèe vedute da Paris]. Qui madonna Fiammetta vuol dire che quando fu fatto quello convito ove furono invitati tutti gl’iddii e le dèe se non la dea della discordia nella valle d’Ida, per la qual cosa essa corrucciatasi e per mettere errore gittò intra costoro uno bellissimo pomo d’oro ove era scritto: «il pomo sia dato alla piú bella di costoro». Onde Pallas e Venus e Giunone, ciascuna il domandava dicendo che dovea essere suo. Di che il giudicio fu dato in mano di Paris come giusto giudice, e dovesse giudicare a chi di loro dovesse essere dato il pomo. Il quale giudicio esso rendè nella selva d’Ida appresso a Troia ove queste tre dèe andarono piú belle e piú ornate che poterono e seppero, promettendo ciascuna di costoro grande grazia al detto Paris, cioè: Pallas di farlo lo piú savio uomo del mondo; Venus gli promise di dargli la piú bella donna del mondo; e Giunone il piú potente e ricco uomo del mondo. Laonde esso rendè il giudicio che fosse dato a Venus. E cosí dice madonna Fiammetta che si ornò per parere piú bella a Panfilo.
- ↑ [Venere santissima ]. Due sono gli usi di Venere, cioè Venere licita e Venere illicita. Venere licita è di stare il marito con la moglie e però dice santissima; illicita si è d’appetere il marito altra donna che la sua, e la donna altro uomo che il suo marito.
- ↑ [Febo]: secondo li poeti è il sole.
- ↑ [Gange]: è uno fiume in oriente e pare che Febo esca la mattina da questo fiume.
- ↑ [l'onde d‘Esperia]: questo è il mare di Spagna.
- ↑ [Arturo]: è una stella la quale ha per dominio lo tempo del verno.
- ↑ [volante figliuolo]: cioè Cupido che signoreggia dalla ottava spera in giú per tutte sette le spere de’ pianeti.
- ↑ [Febo vincitore del gran Fitone]. Febo fu lo dio della sapienza e della eloquenza. Fitone fu uno serpente mandato da Giunone che dovesse perseguitare Latona madre del detto Febo: il quale, Febo uccise per vendicare la iniuria della madre.
- ↑ [accordatore delle celere di Parnaso]. Parnaso è uno monte il quale è in Boezia appresso alla cittá di Tebe ove anticamente fu lo studio de’ poeti al tempo del detto Febo ove era sacrificato come dio della sapienza ed eloquenza, e ove era una fonte sacrata alle muse della quale qualunque ne bevea diventava poeta.
- ↑ [accordatore delle celere di Parnaso]. Parnaso è uno monte il quale è in Boezia appresso alla cittá di Tebe ove anticamente fu lo studio de’ poeti al tempo del detto Febo ove era sacrificato come dio della sapienza ed eloquenza, e ove era una fonte sacrata alle muse della quale qualunque ne bevea diventava poeta.
- ↑ [ora per Danne]. Danne fu una bellissima giovinetta figliuola di Peneo della quale primamente s’innamorò Febo e andògli dietro assai; ed ella fuggendo per non avere a fare con lui, fuggí a Peneo suo padre e chiamato dal suo padre aiuto, lui la trasformò in arbore lo quale si chiamò lauro; del quale Febo sempre portò ghirlanda e anco se ne corona li poeti. voler governare li carri del sole, il quale Febo gli fece e lui li seppe mal governare, per la qual cosa morí.
- ↑ [Leucotoe]. fu una giovine figlia di Orcamo re di Achimenia e d’Eurimene, e di lei s’innamorò Febo, e non vedendo modo di potere aver a fare con essa, si trasformò nella forma della detta Eurimene sua madre, e cosí ebbe a fare con essa.
- ↑ [e per altre molte]: cioè che Febo s’innamorò di molte altre che qui non fa menzione: né di Circe, né di Clitie la quale il detto Febo convertí in mirasole. Onde dice Ovidio: Vertitur ad Solem mutataque servat amorem.
- [ Met., IV, 270.]
- ↑ [pastore innamorato guardò gli armenti]. Febo s’innamorò della figlia d’Ameto re di Tessaglia, e volendo seguitare il suo amore si trasformò in forma d’uno pastore e posesi a guardare l’armento del detto Ameto, e per questo modo lui ebbe a fare con lei.
- ↑ [in forma di candido uccello]. Giove s’innamorò di Leda, e non potendo avere a fare con lei si trasformò in forma d’un cigno; e andando la detta Leda per la riva del mare, Giove in forma di cigno le si gittò in grembo ed ebbe a far con lei, e nacque Castore e Polluce ed Elena, la quale tolse Paris etc.
- ↑ [altra volta divenuto giovenco ]. Giove ancora s’innamorò di Europa figliuola di re Agenore e sorella di Cadmo e di Fenice con la quale non potendo avere a fare, stando la detta Europa in uno prato a cogliere fiori, lui si trasformò in giovenco e faccendo atti piacevoli ad essa li quali molto le piacquero; e per umiltá del detto giovenco li montò addosso da pie’, e lui subito la portò via e passò il mare e andò a Creti ed ebbe a fare con lei.
- ↑ [quello che per Semelé]. Semelé fa una ninfa con la quale ebbe a fare Giove, e fu figliuola di Cadmo, e ingravidando nacquene Bacco.
- ↑ [per Almeno mutato in Anfitrione]. Almena fu moglie di Anfitrione della quale Giove innamorò, e volendo stare con lei si trasformò nella forma di Anfitrione e stette con lei ed ebbene Ercule.
- ↑ [quello che per Calisto mutato in Diana]. Calisto fu una giovinetta d’Arcadia figliuola di Licaone e fu donzella di Diana dea delle selve e delle cacciagioni; della quale Giove s’innamorò e trasmutossi in forma di Diana ed ebbe a far con lei, e ’ngravidolla e nacque Arcas il quale fu pur cacciatore. E Giunone volendosi vendicare dello strupo che avea commesso con Giove la trasmutò in orsa, la quale, Arcas predetto suo figliuolo andando a cacciare, non credendo che la madre fosse orsa, la volle sagittare per ucciderla; ma Giove per ricompensa dell’amore ch’ella avea avuto per lui la trasmutò in cielo e anche lo detto Arcas; e però si chiama Orsa maggiore e Orsa minore.
- ↑ [o per Danae divenuto pioggia]. Danae fu figliuola di re Acrissio, della quale Giove s’innamorò; stando essa serrata in una torre, Giove si trasformò in aere pluvio ed ebbe a far con lei. Della quale nacque Perseo il quale fu virtuosissimo uomo e tagliò il capo a Medusa che col suo isguardo convertia gli uomini in pietra.
- ↑ [iddio dell’armi]. Marte, iddio delle battaglie, s’innamorò di Venere moglie di Vulcano fabbro di Giove, e avendo a far con essa, fu accusato da Febo al detto Vulcano. Onde il detto Vulcano volendosi vendicare del detto dio Marte, fece reti di ferro sottilissime che non si poteano vedere, e misele intorno al letto ove faceano il fatto; e quando Marte andò a fare il fatto con Venere, furono tutti e due presi dalle dette reti a modo d’uccelli. Onde il detto Vulcano avendoli cosí presi, per vituperarli bene, mentre stavano cosí presi nelle reti, chiamò tutti gli altri dii che venissero a vedere, e cosí ivi vennero.
- ↑ [trisulche ]: dice «trisulche» però che sono tre le generazioni di saette, cioè: una fende, l’altra arde, e l’altra scaccia.
- ↑ [nella morte d’Adone]. Adone fu figliuolo di Mirra che fu figliuola di Cinara di cui essa s’innamorò, e fraudolentemente usò col suo padre; dalli quali fu ingenerato Adone il quale fu gran cacciatore, e di esso s’innamorò Venere dea della lussuria, lo quale fu morto cacciando da uno cignale. Essa Venere correndo a lui per aiutarlo, non potette, ma fe’ gran pianto sopra il suo corpo e lo fe’ trasmutare in fiore; e questo pone Ovidio nella fine del decimo libro Metamorfoseos.
- ↑ [la pelle del gran leone]. Ercule andò per comandamento di Giunone sua matrigna che gli dimandò ogni cosa monstruosa del mondo, alla selva Nemea dove era un leone che divorava ogni persona che passava ivi, il quale leone con gran fatica ammazzò e scorticollo, e per segno di vittoria portò per sopravesta sempre la pelle del detto leone.
- ↑ [il grande Anteo]. Ercule ancora per comandamento di Giunone fu mandato in Libia dove combatteo col forte Anteo gigante, il quale ogni fiata che toccava la terra se li raddoppiava la forza; ma pure con gran fatica l’ammazzò.
- ↑ [lo ’nfernale cane]: cioè Cerbero il quale stava nella porta della entrata dello ’nferno con tre teste, e quando Ercule andò allo ’nferno per compagnia di Teseo il quale andò per tôrre Proserpina, secondo che pone Seneca in la prima tragedia, alla ritornata per forza menò legato il detto Cerbero cane infernale.
- ↑ [ Clitennestra ]: fu moglie di Agamennone, la quale rimase a casa quando Agamennone andò a Troia. S’innamorò di Egisto, e poi che essa stette con lui carnalmente, quando Agamennone tornò vincitore di Troia, ella l’ammazzò, vestendosi una camicia senza capo.
- ↑ [Silla], Silla fu figliuola di re Niso; s’innamorò di Minos re di Creti essendo esso ad oste contra del re Niso suo padre, il quale avea un capello d’oro in capo che mentre che li durava non potea perdere la sua guerra col detto capello reggendosi. Onde essa per compiacere al detto Minos di cui era innamorata, tagliò la testa al suo padre e presentolla al detto Minos. Onde pone Ovidio ch’ella si converti in lodola e ’l padre in fringuello, e però il fringuello è nemico della [lodola].
- ↑ [le nostra colombe ]. Le colombe secondo li poeti sono consacrate a Venere.
- ↑ [Nettuno]: iddio del mare, innamorossi d’una bellissima giovane figliuola di Niteo di Tessaglia la quale ebbe nome Fenice, e andandosi un dí per la riva del mare, esso Nettuno la prese ed ebbe a fare con essa. E volendole far grazia disse che domandasse qual grazia volesse che elli faria. Onde essa domandò essere uomo, e cosí fu fatto, e poi l’aggiunse che non potesse essere ferito né morto di ferro. Da poi morí nella battaglia de’ Lapiti ricoperto di legname che li fu gittato addosso, e trasmutato in uccello che si chiama la fenice che uno solo se ne trova.
- ↑ [Alfeo]: è un fiume nelle parti di Grecia cioè di Acaia, e s’innamorò di Aretusa, la quale, invocato l’aiuto di Diana però che era delle sue donzelle, non potendo fuggire la forza del detto Alfeo, si convertí in fiume detto dal suo nome.
- ↑ [Semiramis]: fu moglie di re Nino e regina di Babillonia, la quale s’innamorò del figliuolo e fe’ iniquissime leggi, cioè che la madre potesse usare col figlio e la sorella col fratello.
- ↑ [Biblis]: fu figliuola di Mileto e la madre ebbe nome Ciana, ed ebbe un fratello ch’ebbe nome Cauno del quale essa s’innamorò, e non potendo avere a fare con esso si converti in fonte del suo nome, secondo Ovidio: Sic lacrimis consumpta suis Phoebeia Biblis
- Vertitur in fontem, qui nunc quoque vallibus illis
- Nomen liabet dominae nigraque sub ilice manat.
- [ Met., IX, 663-665.]
- ↑ [Cleopatras]: fu sorella di Tolomeo re d’Egitto, lussuriosissima femina tanto che ricercò il detto fratello di lussuria, per la qual cosa esso la mise in prigione e privolla della sua parte del reame. Ma poi che Cesare andò in Egitto per seguitare Pompeo, essa s’innamorò di lui, e cavolla di prigione ed ebbe a fare con lei e restituilla del reame; e però, morto il fratello, essa rimase reina.
- Note
- CAPITOLO II
- Nel quale madonna Fiammetta descrive la cagione del dipartire del suo amante da lei, e la partita di lui, e ’l dolore che a lei ne seguitò nel partire.
- Mentre che io, o carissime donne, in cosí lieta e graziosa vita, sí come di sopra è descritta, menava i giorni miei, poco alle cose future pensando, la nemica fortuna a me di nascoso temprava li suoi veleni, e me con animositá continua, non conoscendolo io, seguitava. Né bastandole d’avermi, di donna di me medesima, fatta serva d’Amore, veggendo che dilettevole giá m’era cotal servire, con piú pungente ortica s’ingegnò d’affliggere l’anima mia. E venuto il tempo da lei aspettato, m’apparecchiò, sí come appresso udirete, li suoi assenzii, i quali a me mal mio grado convenuti gustare, la allegrezza in tristizia, e ’l dolce riso in amaro pianto mutarono. Le quali cose, non che sostenendole, ma pur pensando il doverle altrui scrivendo mostrare, tanta di me stessa compassione m’assalisce che, quasi ogni forza togliendomi, e infinite lagrime agli occhi recandomi, appena il mio proposito lascia ad effetto producere; il quale, quantunque male io possa, pur m’ingegnerò di fornire.
- Noi, egli e io, come caso venne, essendo il tempo per piove e per freddo noioso, nella mia camera, menando la tacita notte le sue piú lunghe dimore, riposando nel ricchissimo letto insieme dimoravamo; e giá Venere, da noi molto faticata, quasi vinta ci dava luogo, e uno lume grandissimo in una parte della camera acceso gli occhi suoi della mia bellezza faceva lieti, e i miei similmente faceva della sua. Li quali, mentre che di quella, parlando io cose varie, essi soperchia dolcezza beveano, quasi d’essa inebriata la luce loro, non so come per picciolo spazio da ingannevole sonno vinti, toltemi le parole, stettero chiusi. Il quale cosí soave da me passando, come era entrato, del caro amante ramarichevoli mormorii sentirono li miei orecchi, e subito della sua sanitá in varii pensieri messa, volli dire: «Che ti senti?». Ma vinta da nuovo consiglio mi tacqui, e con occhio acutissimo, e con orecchie sottili, lui nell’altra parte del nostro letto rivolto cautamente mirandolo per alcuno spazio l’ascoltai. Ma nulla delle sue voci presero gli orecchi miei, benché lui in singhiozzi di gravissimo pianto affannato, e il viso parimente e il petto bagnato di lagrime conoscessi.
- Oimè! quali voci mi sariano sufficienti ad esprimere quale in tale aspetto, la cagione ignorando, l’anima mia divenisse mirandolo? E’ mi corsero mille pensieri per la mente in uno momento, e quasi tutti terminavano in uno, cioè che egli, amando altra donna, contra voglia dimorasse in tal modo. Le mie parole furono piú volte infino alle labbra per domandarlo qual fosse la sua noia; ma, dubitando che vergogna non gli porgesse l’esser da me trovato piagnendo, si ritraevano indietro; e similmente trassi gli occhi piú volte da riguardarlo, acciò che le calde lagrime cadenti da quelli, venendo sopra di lui, non gli dessero materia di sentire ch’el fosse da me veduto. Oh quanti modi, impaziente, pensai d’adoperare, acciò che egli desta mi sentisse non averlo sentito, e a niuno m’accordava! Ma ultimamente, vinta dal disio di sapere la cagione del suo pianto, acciò che egli a me si volgesse, quale coloro che ne’ sogni o da caduta, o da bestia crudele, o da altro spaventati, subitamente pavidi si riscuotono, il sogno e il sonno ad un’ora rompendo, cotale súbita con voce pavida mi riscossi, l’uno de’ miei bracci gittando sopra li suoi omeri. E certo l’inganno ebbe luogo, perciò che egli, lasciando le lagrime, con infinta letizia subito a me si volse, e disse, con voce pietosa:
- — O anima mia bella, che temesti? —
- Al quale io senza intervallo risposi:
- — Parevami che io ti perdessi. —
- Oimè! che le mie parole, non so da che spirito pinte fuori, furono del futuro e agurio e verissime annunziatrici, come io ora veggio. Ma egli rispose:
- — O carissima giovane, morte, non altri potrá che tu mi perda operare. —
- E queste parole senza mezzo seguí un gran sospiro del quale non fu sí tosto, da me udito, che de’ primi pianti disi derava saper la cagione, dimandato, che abbondanti lagrime da’ suoi occhi, come da due fontane, cominciarono a scaturire, e il mal rasciutto petto di lui a bagnare con maggiore abbondanza; e me in grieve doglia e giá lagrimante tenne per lungo spazio sospesa, sí l’impediva il singhiozzo del pianto, anzi che alle mie molte dimande potesse rispondere. Ma poi che libero alquanto dall’émpito si sentio, con voce spesso rotta dal pianto, cosí mi rispose:
- — O a me carissima donna e da me amata sopra tutte le cose, sí come gli effetti aperto ti possono mostrare, se i miei pianti meritano fede alcuna, creder puoi non senza cagione amara con tanta abbondanza spandano lagrime gli occhi miei, qualora nella memoria mi torna quello che ora in tanta gioia con teco stando mi vi tornò, e ciò è solamente il pensare che di me far due non posso, com’io vorrei, acciò che ad Amore e alla debita pietá ad un’ora satisfare potessi qui dimorando, e lá dove necessitá strettissima mi tira per forza, andando. Dunque non potendosi, in afflizione gravissima il mio cuore misero ne dimora, sí come colui che da una parte traendo pietá, è fuori delle tue braccia tirato, e dall’altra in quelle con somma forza da Amore ritenuto. —
- Queste parole m’entrarono nel misero cuore con amaritudine mai non sentita, e ancora che bene non fossero prese dallo intelletto, nondimeno quanto piú di quelle ricevevano le orecchie attente a’ danni loro, tanto piú in lagrime convertendosi m’uscivano per gli occhi, lasciando nel cuore il loro effetto nemico. Questa fu la prima ora, che io sentii dolori al mio piacer piú nemichevoli; questa fu quell’ora, che senza modo lagrime mi fece spandere, mai prima da me simili non sparte, le quali niuna sua parola, né conforto, di che assai era fornito, poteva ristringere. Ma poi che per lungo spazio ebbi pianto amaramente, quanto potei ancora il pregai che piú chiaro qual pietá il traeva delle mie braccia mi dimostrasse: onde egli, non ristando però di piangere, cosí mi disse.
- — La inevitabile morte, ultimo fine delle cose nostre, di piú figliuoli nuovamente me solo ha lasciato al padre mio, il quale d’anni pieno e senza sposa, solo d’alcuno fratello sollecito a’ suoi conforti rimaso, senza speranza alcuna di piú averne, me a consolazione di lui, il quale egli giá sono piú anni passati non vide, richiama a rivederlo. Alla qual cosa fuggire per non lasciarti, giá sono piú mesi, varie maniere di scuse ho trovate; e ultimamente non accettandone alcuna, per la mia puerizia nel suo grembo teneramente allevata, per l’amore da lui verso di me continuamente portato e per quello che a lui portar debbo, per la debita obbedienza filiale, e per qualunque altra cosa piú grave puote, continuo mi scongiura che a rivedere lo vada. E oltre a ciò da amici e da parenti con prieghi solenni me ne fa stimolare, dicendo in fine sé la misera anima cacciare del corpo sconsolata, se me non vede. Oimè, quanto sono le naturali leggi forti! Io non ho potuto fare, né posso, che nel molto amore che io ti porto non abbia trovato luogo questa pietá; onde, avendo in me, con licenza di te, diliberato d’andare a rivederlo, e con lui dimorare a consolazione sua alcun picciolo spazio di tempo, non sappiendo come senza te viver mi possa, di tal cosa ricordandomi, tuttavia meritamente piango. — E qui si tacque.
- Se alcuna di voi fu mai, o donne a cui io parlo, alla quale, ferventemente amando, tale caso avvenisse, colei sola spero che possa conoscere quale allora fosse la mia tristizia; all’altre non curo di dimostrarlo, però che cosí come ogn’altro esemplo che il detto, cosí ogni parlare ci sarebbe scarso. Io dico sommariamente che, udendo io queste parole, l’anima mia cercò di fuggire da me, e senza dubbio credo fuggita sariesi, se non che essa di colui nelle braccia cui piú amava si sentiva stare; ma nondimeno paurosa rimasa, e occupata da grieve doglia, lungamente mi tolse il poter dire alcuna cosa. Ma poi che per alquanto spazio si fu assuefatta a sostenere il mai piú non sentito dolore, a’ miseri spiriti rendè le paurose forze, e gli occhi rigidi divenuti ebbero copia di lagrime, e la lingua di dire alcuna parola. Per che, al signore della mia vita rivolta, cosí dissi:
- — O ultima speranza della mia mente, entrino le mie parole nella tua anima con forza di mutare il proposito, acciò che, se cosí m’ami come dimostri, e la tua vita e la mia cacciate non siano dal tristo mondo prima che venga il di segnato. Tu, da pietá tirato e da amore, in dubbio poni le cose future; ma certo, se le tue parole per addietro sono state vere, con le quali me da te essere stata amata non una volta, ma molte hai affermato, niun’altra pietá a questa potenza dèe potere resistere, né mentre ch’io vivo, altrove tirarti; e odi perché. Egli t’è manifesto, se tu séguiti quello che parli, in quanto dubbio tu lasci la vita mia, la quale appena per addietro s’è sostenuta quel giorno che io non t’ho potuto vedere: dunque puoi esser certo che, cessandoti tu, ogni allegrezza da me si partirá. E ora bastasse questo! Ma chi dubita che ogni tristizia mi sopravverrá, la quale, forse e senza forse, mi ucciderá? Ben dèi tu oramai conoscere quanta forza sia nelle tenere giovani a potere cosí avversi casi con forte animo sostenere. Se forse vogli dire che io per addietro, amando saviamente e con forza, gli sostenni maggiori, certo io il consento in parte, ma la cagione era molto diversa da questa: la mia speranza posta nel mio volere mi faceva lieve quello che ora nell’altrui mi graverá. Chi mi negava, quando il disio m’avesse pure oltre ad ogni misura costretta, che io te, cosí di me come io di te innamorato, non avessi potuto avere? Certo nessuno: quello che, essendomi tu lontano, non m’avverrá. Oltre a ciò, io allora non sapeva, piú che per vista, chi tu ti fossi, benché io t’estimassi da molto; ma ora io il conosco, e sento per opera, che tu se’ d’avere troppo piú caro che non mi mostrava allora il mio immaginare, e se’ divenuto mio con quella certezza che gli amanti possono essere dalle donne tenuti loro. E chi dubita che egli non sia molto maggiore dolore il perdere ciò che altri tiene, che quello che egli spera di tenere, ancora che la speranza debba riuscire vera? E però, bene considerando, assai aperta si vede la morte mia. Dunque, la pietá del vecchio padre preposta a quella che di me dèi avere mi sará di morte cagione, e tu non amatore, ma nemico, se cosí fai. Deh, vorrai tu, o potrail fare, pur che io il consenta, i pochi anni al vecchio padre serbati, a’ molti, che ancora a me ragionevolmente si debbono, anteporre? Oimè! Che iniqua pietá sará questa? È egli tua credenza, o Panfilo, che niuna persona, sia di te quantunque egli vuole o puote per parentado di sangue, o per amistá congiunta, t’ami sí come io t’amo? Male credi, se di sí credi: veramente niuno t’ama cosí come io. Dunque, se io piú t’amo, piú pietá merito, e perciò degnamente antiponmi, e di me essendo pietoso, di ogni altra pietá ti dispoglia che offenda questa, e senza te lascia riposare il tuo padre; e cosí come, tu non con lui, lungamente è vivuto, se gli piace, per innanzi si viva, e se non, muoiasi. Egli è fuggito molti anni al mortal colpo, s’io odo il vero, e piú ci è vivuto che non si conviene: e se egli con fatica vive, come i vecchi fanno, sará vie maggior pietá di te verso lui lasciarlo morire, che piú in lui con la tua presenza prolungare la fatichevole vita.
- «Ma me, che guari senza te vivuta non sono, né vivere saprei senza te, si conviene aiutare, la quale, giovanissima ancora, con teco aspetto molti anni di vivere lieti. Deh, se la tua andata quello nel tuo padre dovesse operare che in Esone i medicamenti di Medea operarono, io direi la tua pietá giusta, e comanderei che s’adempiesse, ancora che duro mi fosse; ma non sará cotale, né potrebbe essere, e tu il sai. Or ecco, se a te, forse piú che io non credo crudele, di me, la quale per tua elezione, non isforzato, hai amata e ami, sí poco ti cale, che tu vogli pure al mio amore preporre la pietá perduta del vecchio padre, il quale è tale quale il ti diè la fortuna, almeno di te medesimo t’incresca piú che di me o di lui, il quale, se i tuoi sembianti in prima, e poi le tue parole non m’hanno ingannata, piú morto che vivo ti se’ mostrato, quale ora, per accidente, senza vedermi hai trapassata; e ora a sií lunga dimora, chente richiede la mal venuta pietá, senza vedermi ti credi potere dimorare? Deh, per Dio, attentamente riguarda, e vedi te possibile a morte ricevere, se per lungo dolore avviene che l’uomo si muoia, come io intendo per l’altrui vita, di questa andata, la quale che a te sia durissima, le tue lagrime, e del tuo cuore il movimento, il quale nell’ansio petto senza ordine battere ti sento, dimostrano; e se morte non te ne segue, vita peggiore che morte non te ne falla. Oimè! che lo innamorato mio cuore insieme dalla pietá che a me medesima porto, e da quella che per te sento è ad un’ora costretto. Per che io ti priego che tu sí sciocco non sii che, movendoti a pietá d’alcuna persona, e sia chi vuole, tu vogli te a grave pericolo di te medesimo sottoporre. Pensa che chi sé non ama, niuna cosa possiede. Tuo padre, di cui tu se’ ora pietoso, non ti diede al mondo perché tu stesso divenissi cagione di tòrtene. E chi dubita che, se a lui fosse la nostra condizione licito di scuoprire, che egli, essendo savio, non dicesse piuttosto: ‘rimanti’ che ‘vieni’? E se a ciò discrezione non lo inducesse, egli ve lo inducerebbe pietá; e questo credo che assai ti sia manifesto. Dunque fa’ ragione che quel giudicio che egli darebbe, se la nostra causa sapesse, che egli l’abbia saputa e dato, e per la sua medesima sentenza lascia stare questa andata, a me e a te parimente dannosa.
- «Certo, carissimo signor mio, assai possenti cagioni sono le giá dette da doverle seguire, e rimanerti, considerando ancora dove tu vai; ché, posto che colá vadi ove nascesti, luogo naturalmente oltre ad ogni altro amato da ciascuno, nondimeno, per quello che io abbia giá da te udito, egli t’è per accidente noioso, però che, sí come tu medesimo giá dicesti, la tua cittá è piena di voci pompose e di pusillanimi fatti, serva non a mille leggi, ma a tanti pareri quanti v’ha uomini, e tutta in arme, e in guerra, cosí cittadina come forestiera, fremisce, e di superba, avara e invidiosa gente fornita, e piena di innumerabili sollecitudini: cose tutte male all’animo tuo conformi. E quella che di lasciare t’apparecchi so che conosci lieta, pacifica, abbondevole, magnifica, e sotto ad un solo re: le quali cose, se io alcuna conoscenza ho di te, assai ti sono gradevoli; e oltre a tutte le cose contate, ci sono io, la quale tu in altra parte non troverai. Dunque, lascia l’angosciosa proposta, e, mutando consiglio, alla tua vita e alla mia insieme, rimanendo, provvedi; io te ne priego. —
- Le mie parole in molta quantitá le sue lagrime aveano cresciute, delle quali co’ baci mescolate assai ne bevvi. Ma egli dopo molti sospiri cosí mi rispose:
- — O sommo bene dell’anima mia, senza niuno fallo vere conosco le tue parole, e ogni pericolo in quelle narrato m’è manifesto; ma acciò che io, non come io vorrei, ma come la necessitá presente richiede, brievemente risponda, ti dico che il potere con un corto affanno solvere un debito grande, credo da te mi si debbia concedere. Pensar déi ed essere certa che, benché la pietá del vecchio padre mi stringa assai e debitamente, non meno, ma molto piú, quella di noi medesimi mi costrigne, la quale, se licita fosse a discoprire, scusato mi parrebbe essere, presumendo che non che da mio padre solo, ma ancora da qualunque altro fosse giudicato quel che dicesti, e lascerei il vecchio padre, senza vedermi, morire. Ma convenendo questa pietá essere occulta, senza quella palese adempiere, non veggio come senza gravissima riprensione e infamia, far lo potessi. Alla quale riprensione fuggire, adempiendo il mio dovere, tre o quattro mesi ci torrá di diletto fortuna, dopo li quali, anzi innanzi che compiuti siano, senza fallo mi rivedrai nel tuo cospetto tornato, a me come te medesima rallegrare. E se il luogo al quale io vo è cosí spiacevole come fai, che è cosí a rispetto di questo, essendoci tu, ciò ti dée esser molto a grado, pensando che, dove altra cagione a partirmi quindi non mi movesse, per forza le qualitá del luogo al mio animo avverse me ne farebbono partire, e qui tornare. Dunque concedasi questo da te, che io vada; e come per addietro ne’ miei onori e utili se’ stata sollecita, cosí ora in questa divieni paziente, acciò che io, conoscendo a te gravissimo l’accidente, piú securo per innanzi mi renda, che in qualunque caso ti sia l’onor mio quant’io stato caro. —
- Egli avea detto, e tacevasi, quando io cosí ricominciai a parlare:
- — Assai chiaro conosco ciò che fermato nell’animo non pieghevole porti, e appena mi pare che in quello raccogliere vogli pensando di quante e quali sollecitudini l’anima mia lasci piena da me lontanandoti, la quale niuno giorno, niuna notte, niuna ora sará senza mille paure: io starò in continuo dubbio della tua vita, la quale io priego Iddio che sopra i miei dí la distenda quando tu vuoi. Deh, perché con soperchio parlar mi voglio io stendere dicendole ad una ad una? Egli non ha brievemente il mare tante arene, né il cielo stelle, quante cose dubbiose e di pericolo piene possono tutto di intervenire a’ viventi, le quali tutte, partendoti tu, senza dubbio spaventandomi m’offenderanno. Oimè! trista la vita mia! Io mi vergogno di dirti quello che nella mia mente mi viene; ma però che quasi possibile per le cose udite mi pare, costretta tel pur dirò. Or se tu ne’ tuoi paesi, ne’ quali ho udito piú volte essere quantitá infinita di belle donne e vaghe, atte bene ad amare e ad essere amate, una ne vedessi che ti piacesse e me dimenticassi per quella, qual vita sarebbe la mia? Deh! se cosí m’ami come dimostri, pensalo come faresti tu se io per altrui ti cambiassi. La qual cosa non sará mai; certo io con le mie mani, anzi che ciò avvenisse, m’ucciderei.
- «Ma lasciamo stare questo, e di quello che noi non desideriamo che avvenga, non tentiamo con tristo annunzio gl’iddíi. Se a te pur fermo giace nell’animo il partire, con ciò sia cosa che niun’altra cosa mi piaccia, se non piacerti, a ciò volere di necessitá mi conviene disporre. Tuttavia, se essere può, io ti priego che in questo tu séguiti il mio volere, cioè in dare alla tua andata alcuno indugio, nel quale io immaginando il tuo partire, con continuo pensiero possa apparare a sofferire d’essere senza te. E certo questo non ti deve essere grave: il tempo medesimo, il quale ora la stagione mena malvagio, m’è favorevole. Non vedi tu il cielo pieno d’oscuritá, continuo minacciare gravissimi pestilenze alla terra con acque, con nevi, con venti e con ispaventevoli tuoni? E come tu déi sapere, ora per le continue piove ogni picciolo rivo è divenuto un grande e possente fiume. Chi è colui che si poco se medesimo ami, che in cosí fatto tempo si metta a camminare? Dunque, in questo fa’ il mio piacere, il quale se far non vogli, fa’ il tuo dovere. Lascia i dubbiosi tempi passare, e aspetta il nuovo nel quale e tu meglio e con meno pericolo andrai, e io, giá co’ tristi pensieri costumata, piú pazientemente aspetterò la tua ritornata. —
- A queste parole egli non indugiò la risposta, ma disse:
- — Carissima giovane, l’angosciose pene e le sollecitudini varie nelle quali io contro a mio piacere ti lascio, e meco senza dubbio ne porto l’une e l’altre, mitighi la lieta speranza della futura tornata; né di quello che cosí qui come altrove, quando tempo sará, mi deve giungere, cioè la morte, è senno d’averne pensiero, né de’ futuri accidenti a nuocere possibili e a giovare. Ovunque l’ira e la grazia di Dio coglie l’uomo, quivi e il bene e il male, senza potere altro, gli conviene sostenere. Adunque queste cose senza badarci, nelle mani di lui, meglio di noi consapevole de’ nostri bisogni, le lascia stare, e a lui con prieghi solamente addimanda che vengano buone. Che mai di niuna donna io sia altro che di Fiammetta, appena pure se io il volessi, il potrebbe fare Giove, con sí fatta catena ha il mio cuore Amore legato sotto la tua signoria. E di ciò ti rendi sicura, che prima la terra porterá le stelle, e il cielo arato da’ buoi producerá le mature biade, che Panfilo sia d’altra donna che tuo. L’allungare di spazio che chiedi alla mia partita, se io il credessi a te e a me utile, piú volentieri che tu nol chiedi il farei; ma tanto quanto quello fosse piú lungo, cotanto il nostro dolore sarebbe maggiore. Io, ora partendomi, prima sarò tornato, che quello spazio sia compiuto il quale chiedi per apparare a sofferire; e quella noia in questo mezzo avrai, non essendoci io, che avresti pensando al mio dovermi partire. E alla malvagitá del tempo, sí come altra volta uso di sostenerne, prenderò io salutevole rimedio, il quale volesse Iddio che cosí ritornando giá l’operassi come partendomi il saprò operare. E perciò con forte animo ti disponi a ciò che, quando pure far si conviene, è meglio subito operando passare, che con tristizia e paura di farlo aspettare. —
- Le mie lagrime quasi nel mio parlare allentate altra risposta attendendo, udendo quella, crebbero in molti doppii; e sopra il suo petto posata la grave testa, lungamente dimorai senza piú dirgli, e varie cose nell’animo rivolgendo, né affermare sapea, né negare ciò che e’ diceva. Ma oimè! chi avrebbe a quelle parole risposto se non: «Fa quel che ti piace, torni tu tosto?». Niuna credo. E io, non senza gravissima doglia e molte lagrime, dopo lungo indugio cosí gli risposi, aggiungendogli che gran cosa, se egli viva mi trovasse nel suo tornare, senza dubbio sarebbe.
- Queste parole dette, l’uno confortato dall’altro, rasciugammo le lagrime, e a quelle ponemmo sosta per quella notte. E servato l’usato modo, anzi la sua partita, che pochi giorni fu poi, me piú volte venne a rivedere; benché assai d’abito e di volere trasmutata dal primo mi rivedesse. Ma venuta quella notte la quale dovea essere l’ultima de’ miei beni, con ragionamenti varii non senza molte lagrime trapassammo; la quale, ancora che per la stagione del tempo fosse delle piú lunghe, brevissima mi parve che trapassasse. E giá il giorno agli amanti nemico cominciato aveva a tôrre la luce alle stelle, del quale vegnente poi che ’l segno venne alle mie orecchie, strettissimamente lui abbracciai, e cosí dissi:
- — O dolce signor mio, chi mi ti toglie? Quale iddio con tanta forza la sua ira verso di me adopra, che, me vivente, si dica «Panfilo non è lá dove la sua Fiammetta dimora?». Oimè! che io non so ora ove ne vai tu. Quando sará che io piú ti debba abbracciare? Io dubito che non mai. Io non so ciò che il cuore miseramente indovinando mi si va dicendo. —
- E cosí amaramente piangendo, e riconfortata da lui, piú volte il baciai. Ma dopo molti stretti abbracciari ciascuno pigro a levarsi, la luce del nuovo giorno strignendoci, pur ci levammo. E apparecchiandosi egli giá di darmi li baci estremi, prima lagrimando cotali parole gli cominciai:
- — Signor mio, ecco tu te ne vai, e in brieve la tornata prometti; facciami di ciò, se ti piace, la tua fede sicura, sí che io, a me non parendomi invano pigliare le tue parole, di ciò prenda, quasi come di futura fermezza, alcuno conforto aspettando. —
- Allora egli le sue lagrime con le mie mescolando, al mio collo, credo per la fatica dell’animo, grave pendendo, con debole voce disse:
- — Donna, io ti giuro per lo luminoso Apollo, il quale ora surgente oltre a’ nostri disii con velocissimo passo di piú tostana partita dando cagione, e li cui raggi io attendo per guida; e per quello indissolubile amore che io ti porto, e per quella pietá che ora da te mi divide, che il quarto mese non uscirá che, concedendolo Iddio, tu mi vedrai qui tornato. —
- E quindi, presa con la sua destra la mia destra mano, a quella parte si volse, dove le sacre immagini dei nostri iddii figurate vedeansi, e disse:
- — O santissimi iddii, ugualmente del cielo governatori e della terra, siate testimonii alla presente promessione, e alla fede data dalla mia destra; e tu, Amore, di queste cose consapevole, sii presente; e tu, o bellissima camera, a me piú a grado che ’l cielo agl’iddii, cosí come testimonia segreta de’ nostri disii se’ stata, cosí similmente guarda le dette parole, alle quali, se io per difetto di me vengo meno, cotale verso di me l’ira d’iddio si dimostri, quale quella di Cerere in Erisitone1, o di Diana in Atteone, o in Semelé di Giunone apparve giá nel passato. —
- E questo detto, me con volontá somma abbracciò ultimamente dicendo «addio» con rotta voce. Poi che egli cosí ebbe parlato, io misera, vinta dall’angoscioso pianto, appena potè’ rispondere alcuna cosa; ma pure sforzandomi, tremanti parole pinsi fuori della trista bocca in cotale forma:
- — La fede a’ miei orecchi promessa, e data alla mia destra mano dalla tua, fermi Giove in cielo con quello effetto che Iside2 fece li prieghi di Teletusa, e in terra, come io disidero e come tu chiedi, la faccia intera. —
- E accompagnato lui infino alla porta del nostro palagio, volendo dire «addio», subito fu la parola tolta alla mia lingua, e il cielo agli occhi miei. E quale succisa rosa negli aperti campi infra le verdi fronde sentendo i solari raggi cade perdendo il suo colore, cotale semiviva caddi nelle braccia della mia serva, e dopo non picciolo spazio, aiutata da lei fedelissima, con freddi liquori rivocata al tristo mondo, mi risentii; e sperando ancora d’essere alla mia porta, quale il furioso toro ricevuto il mortal colpo furibondo si leva saltando, cotale io stordita levandomi, appena ancora veggendo, corsi, e con le braccia aperte la mia serva abbracciai credendo prendere il mio signore, e con fioca voce e rotta dal pianto in mille parti dissi: «O anima mia, addio».
- La serva tacque, conoscendo il mio errore; ma io poi, ricevuta veduta piú libera, il mio avere fallito sentendo, appena un’altra volta in simile smarrimento non caddi.
- Il giorno era giá chiaro per ogni parte, onde io nella mia camera senza il mio Panfilo veggendomi, e intorno mirandomi per ispazio lunghissimo, come ciò avvenuto si fosse ignorando, la serva dimandai che di lui avvenuto fosse, ed ella piagnendo rispose:
- — Giá è gran pezza, che egli qui nelle sue braccia recatavi, da voi il sopravvegnente giorno con lagrime infinite a forza il divise. —
- A cui io dissi:
- — Dunque si è egli pure partito? —
- — Sí, — rispose la serva.
- Cui io ancora seguendo addimandai:
- — Or con che aspetto si partí? Con grave? —
- A cui ella rispose:
- — Niuno mai piú dolente ne vidi. —
- Poi seguitai: — Quali furono gli atti suoi? E che parole disse nella partenza? —
- Ed ella rispose:
- — Voi quasi morta nelle mia braccia rimasa, vagando la vostra anima non so dove, egli vi si recò, tosto che tale vi vide, nelle sue teneramente: e con la sua mano nel vostro petto cercato se con voi fosse la paurosa anima, e trovatala forte battendo, piagnendo, cento volte e piú agli ultimi baci credo vi richiamasse. Ma poi che voi immobile non altramente che marmo vide, qui vi recò, e, dubitando di peggio, lagrimando piú volte bagnò il vostro viso, dicendo: «O sommi iddii, se nella mia partenza peccato alcuno si contiene, venga sopra di me il giudicio, non sopra la non colpevole donna. Rendete a’ luoghi suoi la smarrita anima, sí che di questo ultimo bene, cioè di vedermi nella mia partita, e di darmi gli ultimi baci dicendo addio, ed ella e io siamo consolati». Ma poi che vide voi non risentirvi, quasi senza consiglio, ignorando che farsi, pianamente in sul letto posatavi, quale le marine onde, da’ venti e dalla pioggia sospinte, ora innanzi vengono e quando addietro si tornano, cotale da voi partendosi infino in sul limitare dell’uscio della camera pigramente andando, mirava per le finestre il minacciante cielo nemico alla sua dimora; e quindi subitamente verso voi ritornava, da capo chiamandovi e aggiugnendo lagrime e baci al vostro viso. Ma poi che cosí ebbe fatto piú volte, vedendo che piú lunga non poteva essere con voi la sua dimora, abbracciandovi disse: «O dolcissima donna, unica speranza del tristo cuore, la quale io, a forza partendomi, lascio in dubbia vita, Iddio ti renda il perduto conforto, e te a me tanto servi che insieme felici ancora ci possiamo rivedere, sí come sconsolati ne divide l’amara partenza». E cosí come le parole diceva, cosí continuamente piangeva forte, tanto che i singhiozzi del suo pianto piú volte mi fecero paura che non che da’ nostri di casa, ma che da’ vicini sentiti non fossero. Ma poi, piú non potendo dimorare per la nemica chiarezza sopravvegnente, con maggiore abbondanza di lagrime disse «addio», e quasi a forza tirato, percotendo forte il piede nel limitar dell’uscio, uscí delle nostre case. Onde uscito, appena si saria detto che egli potesse andare, anzi ad ogni passo volgendosi, quasi pareva sperasse che, voi risentita, io il dovessi chiamare a rivedervi. —
- Tacque allora quella; e io, o donne, quale voi potete pensare, cotale dolendomi della partita del caro amante, sconsolata rimasi piangendo.
- ↑ [di Cerere in Erisitone ]. Erisitone fu di Tessaglia, grandissimo ispregiatore delli iddíi, il quale per ispregiare la detta Cerere tagliò una selva dove era una grandissima quercia consacrata ad essa. Per la qual cosa Cerere corrucciatasi contra di lui, gli mise una fame sí grande in corpo, che veruna cosa li bastava a saziarlo, e manicò se medesimo a poco a poco. La quale Cerere fu dea dell’abbondanza.
- ↑ [Iside]. Essendo uno omo chiamato Ligdo dell’isola di Creti poverissimo, e’ ebbe una sua moglie chiamata Teletusa; la quale essendo gravida, esso le comandò che se facea figlio maschio lo dovesse nutricare, e se facea femina la dovesse annegare però che non l’averia potuto maritare per povertá. Per la qual cosa essa ne fu assai grama, e stando con gran malinconia le apparve in sogno Iside dea delli Egizii appresso del Nilo fiume, e sí la confortò e comandolle che non dovesse ammazzare la creatura fernina che facesse. Donde essa da poi partorio; e partorendo femina disse a Ligdo che era maschio e poseli nome Ifi per nome dell’avolo suo, e nutricollo come maschio fino in etá di otto anni e si li diè moglie una putta chiamata Iante; e venendo il tempo del matrimonio, Teletusa predetta fece orazione divotamente a Iside, che come di suo comando l’avea campata dalla morte, così li piacesse di trasformarla di femina in maschio acciò che potesse usare con la Iante sua moglie. E cosí fu esaudita che la prima notte dormendo con essa diventò maschio.
- Note
- CAPITOLO III
- Nel quale si dimostra chenti e quali fossero di questa donna i pensieri e l’opere, trascorrendo il tempo a lei dal suo amante promesso di ritornare.
- Quale voi avete di sopra udito o donne, cotale, dipartito il mio Panfilo, rimasi, e piú giorni con lagrime di tal partenza mi dolsi, né altro era nella mia bocca, benché tacitamente fosse, che: «O Panfilo mio, come può egli essere che tu m’abbi lasciata?». Certo intra le lagrime mi dava tal nome, ricordandolo, alcuno conforto. Niuna parte della mia camera era che io con disiderosissimo occhio non riguardassi, fra me dicendo: «Qui sedette il mio Panfilo, qui giacque, quivi mi promise di tornare tosto, quivi il baciai io». E brievemente ciascuno luogo m’era caro. Io alcuna volta meco medesima fingeva lui dovere ancora, indietro tornando, venirmi a vedere, e quasi come se venuto fosse, gli occhi all’uscio della mia camera rivolgeva, e rimanendo dal mio consapevole immaginamento beffata, cosí ne rimaneva crucciosa come se con veritá fossi stata ingannata. Io piú volte per cacciare da me i non utili ragguardamenti cominciai molte cose a voler fare; ma vinta da nuove immaginazioni, quelle lasciava stare. Il misero cuore con non usato battimento continuamente m’infestava. Io mi ricordava di molte cose, le quali io gli vorrei aver dette, e quelle che dette gli aveva, e le sue ripetendo con meco stessa; e in tal maniera, non fermando l’animo a nulla cosa piú giorni mi stetti dogliosa.
- Poi che la doglia gravissima per la nuova partenza incominciò per interposizione di tempo alquanto ad allenare, a me incominciarono a venire piú fermi pensieri; e venuti, se medesimi con ragioni verisimili difendevano. Egli, non dopo molti dí dimorando io nella mia camera sola, m’avvenne ch’io con meco a dir cominciai: «Ecco, ora l’amante è partito, e vassene; e tu, misera, non che dire addio, ma rendergli i baci dati al morto viso o vederlo nel suo partire non potesti; la quale cosa egli forse tenendo a mente, se alcuno caso noioso gli avviene, della tua taciturnitá malo agurio prendendo, forse di te si biasimerá». Questo pensiero mi fu nel principio nell’animo molto grave, ma nuovo consiglio da me il rimosse, perciò che meco pensando dissi: «Di qui non dée biasimo alcuno cadere, perciò che egli, savio, piuttosto il mio avvenimento prenderá in agurio felice, dicendo: «Ella non disse addio, sí come si suol dire a quelli, i quali o per lungamente dimorare o per non tornare si sogliono partire d’altrui; ma tacendo, me seco quasi riputando d’avere, brevissimo spazio disegnò alla mia dimora». E cosí, me con meco racconsolata, lascio questo andare, intrando in altri.
- Alcun’altra volta con piú gravezza mi venne pensato lui avere il piè percosso nel limitare dell’uscio della nostra camera, sí come la fedele serva m’avea ridetto; e ricordandomi che a niuno altro segnale Laudomia prese tanta fermezza, quanta a cosí fatto del non redituro Protesilao, giá molte volte ne piansi, quello medesimo di ciò sperando che n è avvenuto. Ma, non capendomi allora nell’animo che avvenire mi dovesse, quasi vani cotali pensieri immaginai da dover lasciare andar via. I quali però non si partiano a mia posta, ma talvolta altri sopravvegnendone, questi m’uscivano di mente, pensando a’ giá venuti, i quali tanti e tali erano che di quelli il numero, non che altro, graverebbe a ricordarsi.
- Egli non mi venne una volta sola nell’animo l’avere giá letto ne’ versi di Ovidio che le fatiche traevano a’ giovani amore delle menti, anzi mi veniva tante quante volte io mi ricordava lui essere in cammino. E sentendo quello non picciolo affanno, e massimamente a chi è di riposo uso, o il fa contro voglia, forte meco dubitava in prima non quello avesse forza di tôrlomi, e appresso non la invita fatica né il noioso tempo gli fossero cagione d’infermitá, o di peggio. E in questo molto mi ricorda piú che negli altri dimorare occupata, benché sovente io e dalle sue medesime lagrime da me vedute, e dalle mie fatiche, le quali mai non mutarono la mia fermezza, argomentai non potere essere vero, che per sí picciolo affanno si spegnesse amore cosí grande, sperando ancora che la sua giovane etá e la discrezione da altro accidente noioso me ’l guarderebbono.
- Cosí adunque a me opponendo, e rispondendo, e solvendo, trapassai tanti giorni, che non che lui alla sua patria pervenuto pensai solamente, ma ancora ne fui per sua lettera fatta certa. La quale essendo a me per molte cagioni graziosissima, lui ardere come mai mi fece palese, e con maggiori promesse vivificò la mia speranza del suo tornare.
- Da questa ora innanzi, partiti i primi pensieri, nuovi in luogo di quelli subitamente ne nacquero. Io alcuna volta diceva: «Ora Panfilo unico figliuolo del vecchio padre, da lui, il quale giá è molti anni nol vide, con grandissima festa ricevuto, non che egli di me si ricordi, ma io credo che egli maledice i mesi i quali qui con diverse cagioni per amor di me si ritenne; e ricevendo onore ora da questo amico e ora da quell’altro, biasima forse me, che altro che amarlo non sapea quando c’era. E gli animi pieni di festa sono atti a potere essere tolti d’uno luogo, e obbligarsi in un altro. Deh, ora potrebbe egli essere che io in cosí fatta maniera il perdessi? Certo appena che io il possa credere. Iddio cessi che questo avvenga; e come egli ha me tenuta e tiene, tra’ miei parenti e nella mia cittá, sua, cosí lui tra’ suoi e nella sua conservi mio». Oimè! con quante lagrime erano mescolate queste parole, e con quante piú sarebbono state, se vero avessi creduto ciò che esse medesime vero indovinavano, avvegna che quelle che allora non vennero, io poi in molti doppii l’abbia sparte invano.
- Oltre a cotal ragionare l’anima, spesse volte conoscitrice de’ suoi futuri mali, presa da non so che paura, tremava forte, la qual paura piú volte in cotale pensiero si risolvette: «Panfilo ora nella sua cittá, piena di templi eccellentissimi e per molte grandissime feste pomposi, visita quelli li quali senza niuno dubbio trova di donne pieni, le quali sí come ho molte fiate udito, ancora che bellissime siano, di leggiadria e di vaghezza tutte l’altre trapassano, né alcune ne sono con tanti lacciuoli da pigliare animi quanto loro. Deh, chi può essere sí forte guardiano di se medesimo, dove tante cose concorrono, che, posto che egli pure non voglia, egli non sia almeno per forza preso alcuna volta? E io medesima fui per forza presa. E oltre a ciò le cose nuove sogliono piú che l’altre piacere. Adunque è leggier cosa che egli a loro nuovo ed esse a lui, e’ possa ad alcuna piacere, e a lui similmente alcuna piacerne. Oimè! quanto m’era grave cotale immaginare, il quale, che egli non dovesse avvenire, appena poteva da me cacciare, dicendo: «Or come potrebbe Panfilo, che te piú che sé ama, ricevere nel cuore da te occupato un altro amore? Non sai tu qui alcuna essere stata ben degna di lui, la quale con maggior forza che con quella degli occhi s’ingegnò d’entrarvi, né vi potè onde trovare? Certo appena, non essendo egli tuo sí come egli è, trapassando ancora qualunque donne si sono di bellezza e d’arte le dèe, egli che cosí tosto, come tu di’, innamorare si potesse. E oltre a questo, come credi tu che egli la fede a te promessa volesse rompere per alcun’altra? Egli nol farebbe giammai; e similemente nella sua discrezione ti dèi fidare.
- «Tu dèi ragionevolmente pensare che egli non è sí poco savio, che egli non conosca che mattamente fa chi lascia quel ch’egli ha, per acquistare quello che non ha; se giá quello che lasciasse non fosse piccolissima cosa per acquistare una grandissima, e di ciò speranza avere infallibile; il che in questo non può avvenire, però che se tu hai il vero udito, tu saresti nel numero delle belle nella sua terra, la quale niuna piú ricca di te ne tiene o gentile; e oltre a questo, cui troverebbe egli, che sí amasse come tu l’ami? Esso, sí come in ciò esperto, conosce quanta fatica sia il disporre una donna, che di nuovo piaccia, a farsi amare, le quali, ancora che amino, il che di rado avviene, sempre il contrario mostrano di ciò che disiano. Egli, quando pure te non amasse, intorno a molte cose da altri suoi fatti impedito, non potrebbe ora vacare a dimesticare novelle donne, e però di ciò non pensare, ma tieni per certa regola, che quanto tu ami, cotanto se’ amata.»
- Oimè! quanto falsamente argomentava, fatta sofistica contro al vero! Ma con tutto il mio argomentare mai non mi pote’ dell’animo cacciare la miserabile gelosia, entratavi per giunta degli altri miei danni. Ma pure, quasi veramente arguissi, alquanto alleviata, a mio potere da tale pensiero mi scostava.
- Carissime donne, acciò ch’io non metta il tempo in raccontare ciascuno mio pensiero, quali le mie opere piú sollecite fossero ascolterete; né di ciò piglierete ammirazione, se furono nuove, perciò che non quali io l’avrei volute, ma quali Amore le mi dava, seguire le mi conveniva. Egli trapassavano poche mattine che io, levata, non salissi nella piú eccelsa parte della mia casa, e quindi non altramente che li marinari, sopra la gabbia del loro legno saliti, speculano se scoglio o terra vicina scorgono che gli impedisse, riguardo tutto il cielo; poi verso l’oriente fermata, considero quanto il sole, sopra l’orizzonte levato, abbia del nuovo giorno passato; e tanto quanto io il veggio piú innalzato, cotanto diceva piú il termine avvicinarsi della tornata di Panfilo. E quasi con diletto quello molte volte rimirava salire, né discernendolo, ora alla mia ombra fatta minore, e quando dallo spazio del suo corpo alla terra fatta maggiore, di lui la salita quantitá estimava, e meco stessa diceva lui piú pigramente che mai andare, e piú dare a’ giorni di spazio nel Capricorno che nel Cancro dar non solea; e cosí similmente lui al mezzo cerchio salito, dicea a diletto starsi a riguardare le terre, e quantunque egli velocemente si calasse all’occaso, sí mi parea tardo. Il quale, poi che tolta al nostro mondo la luce sua alle stelle la loro lasciava mostrare, io contenta molte volte meco i dí trapassati annoverando, quello con gli altri passati con una picciola pietra segnava, non altramente che gli antichi, i lieti dalli dolenti spartendo, con bianche e nere petruzze solevano fare. Oh quante volte giá mi ricorda che anzi tempo io lá vi giunsi, parendomi tanto del termine dato scemare, quanto piú tosto raggiungeva al trapassato, ora le petruzze per li passati segnate, e ora quelle, che per quelli che erano a passare stavano, annoverando; benché di ciascuna ottimamente il numero nella mente avessi, ma quasi ogni volta sperava l’une cresciute e l’altre dover trovare scemate. Cosí il disio mi trasportava volonterosa alla fine del tempo dato.
- Usata adunque questa sollecitudine vana, il piú delle volte nella mia camera mi tornava, e quivi piú volentieri sola che accompagnata. Per fuggire i pensieri nocevoli, quando sola mi vi trovava, aprendo uno mio forziere, di quello molte cose giá state sue ad una ad una traeva, e quelle, con quello disiderio ch’io soleva giá lui riguardare, le mirava, e miratele, appena le lagrime ritenute, sospirando le baciava; e quasi come se intelligenti creature state fossero, le dimandava: «Quando ci fia il signor vostro?». Quindi, riposte queste, infinite sue lettere a me da lui mandate traeva fuori, e quelle quasi tutte leggendo, quasi con lui parendomi ragionare, sentiva non poco conforto. E molte volte fu che io, la mia serva chiamata, varii parlamenti con lei tenni di lui, ora dimandandola qual fosse la sua speranza della tornata di Panfilo, ora dimandandola quello che di lui le paresse, e talvolta se di lui avesse udito alcuna cosa. Alle quali cose essa, o per piacermi, o pure secondo il suo parere, il vero rispondendomi, non poco mi consolava; e cosí molte volte gran parte del dí trapassava con poca noia.
- Non meno che le giá dette cose, o pietose donne, m’era caro il visitare li templi, e il sedere alla mia porta con le mie compagne, dove spesso da ragionamenti varii alquanto erano da me rimosse le mie sollecitudini infinite; nelli quali luoghi stando, piú volte m’avvenne che io vidi di quelli giovani i quali io molte volte con Panfilo avea veduti, né mai che io gli vedessi avvenia che io tra loro non mirassi, quasi tra essi dovessi Panfilo rivedere. Oh quante volte io fui in ciò avvedutamente ingannata! E come, ancora che ingannata fossi, mi giovava di loro vedere! Li quali, se il loro aspetto non mi mentiva io gli vedea della mia compassione medesima pieni, e quasi del loro compagno rimasi soli, mi pareano non cosí lieti come soleano. Oh, che voler fu piú volte il mio di dimandarli che fosse del loro compagno, se la ragione non m’avesse tenuta! Ma certo la fortuna in ciò alcuna volta mi fu benigna, ché, non credendo essi, di lui in alcuno luogo essere da me intesi, dissero la sua tornata essere vicina. Quanto ciò mi piacesse, invano mi faticherei ad esprimerlo. E in questa maniera con cotali pensieri, e con cosí fatte opere, e con molte altre a queste simili m’ingegnava di trapassare li giorni, a me nella loro picciolezza gravosi, la notte appetendo, non perché io a me piú utile la sentissi, ma perché, venuta, meno era del tempo a trapassare.
- Poi che ’l dí, le sue ore finite, era dalla notte occupato, nuove sollecitudini le piú volte mi s’apprestavano. Io dalla mia puerizia nelle notturne tenebre paurosa, accompagnata da Amore era divenuta sicura; e sentendo giá nella mia casa ciascuno riposare, sola alcuna volta lá onde la mattina il sole montante avea veduto, me ne saliva, e quale Arunte1 tra’ bianchi marmi de’ monti Lucani i corpi celesti e i loro moti speculava, cotale io la notte lunghissime ore traente, sentendo alli miei sonni le varie sollecitudini essere nemiche, da quella parte il cielo mirava, e i suoi moti piú ch’altri veloci, meco tardissimi reputava. E alcuna volta vòlti gli occhi attenti alla cornuta luna, non che alla sua ritonditá corresse, ma piú aguta l’una notte che l’altra la giudicava, tanto era piú il mio disio ardente, che tosto le quattro volte si consumassero, che veloce il córso suo. Oh quante volte, ancora che freddissima luce porgesse, la rimirai io a diletto lunga fiata, immaginando che cosí in essa fossero allora gli occhi del mio Panfilo fissi come i miei! Il quale io ora non dubito che, essendogli io giá uscita di mente, non che egli alla luna mirasse, ma solo un pensiero non avendone, forse nel suo letto si riposava. E ricordami che io, della lentezza del córso di lei crucciandomi, con varii suoni, seguendo gli antichi errori, aiutai i córsi di lei alla sua ritonditá pervenire; alla quale poi che pervenuta era, quasi contenta dello intero suo lume, alle nuove corna non pareva che di tornare si curasse, ma pigra nella sua ritonditá dimorava, avvegna che io di ciò l’avessi quasi in me medesima talvolta per iscusata, piú grazioso reputando lo stare con la sua madre, che negli oscuri regni del suo marito tornare. Ma bene mi ricordo che spesso giá le voci in prieghi per li suoi agevolamenti usate io le rivolsi in minacce, dicendo:
- «O Febea, mala guiderdonatrice de’ ricevuti servigi, io con pietosi prieghi le tue fatiche m’ingegno di menomare, ma tu con pigre dimoranze le mie non ti curi d’accrescere. E però, se piú a’ bisogni del mio aiuto cornuta ritorni, me cosi allora sentirai pigra, come io ora te discerno. Or non sai tu, che quanto piú tosto quattro volte cornuta, e altrettante tonda t’avrai mostrata, cotanto piú tosto il mio Panfilo tornerammi? Il quale tornato, cosí tarda o veloce come ti piace corri per li tuoi cerchi».
- Certo quella demenza medesima che me a fare cotali prieghi induceva, quella stessa tolse sí me a me, che ella mi fece parere alcuna volta che essa temorosa delle mie minacce, s’avacciasse nel córso suo a’ miei piaceri, e altre volte, quasi non curantesi di me, piú che l’usato parea che tardasse. Questo riguardarla sovente me si nota del suo andamento rendeo, che ella né di corpo piena o vota, in alcuna parte era del cielo, o con qualunque stella congiunta, che io non avessi il tempo della notte passato, e l’avvenire giudicato dirittamente; similemente l’una e l’altra Orsa, se essa non fosse paruta, per lunga notizia me ne facevano certa. Deh, chi crederebbe che Amore m’avesse potuto mostrare astrologia, arte da solennissimi ingegni, e non da menti occupate dal suo furore? Quando il cielo, d’oscurissimi nuvoli pieno trascorso da varii e sonanti venti, per ogni parte questa veduta mi toglieva, alcuna volta, se altro affare non mi occorreva, ragunate le mie fanti con meco nella mia camera, e raccontava e facea raccontare storie diverse, le quali quanto piú erano di lungi dal vero, come il piú cosí fatte genti le dicono, cotanto parea che avessero maggior forza a cacciare i sospiri e a recare festa a me ascoltante, la quale alcuna volta, con tutta la malinconia, di quelle lietissimamente risi. E se questo forse per cagione legittima non potea essere, in libri diversi ricercando l’altrui miserie, e quelle alle mie conformando, quasi accompagnata sentendomi, con meno noia il tempo passava. Né so qual piú grazioso mi fosse, o vedere i tempi trascorrere, o trovarli, in altro essendo stata occupata, essere trascorsi.
- Ma poi che le operazioni predette e altre me aveano per lungo spazio tenuta occupata, quasi a forza, assai bene conoscendo che invano, ancora me n’andava a dormire, anzi piuttosto a giacere per dormire. E nel mio letto dimorando sola, e da niuno romore impedita, quasi tutti i preteriti pensieri del dí mi venivano nella mente, e mal mio grado con molti piú argomenti e pro e contra mi si faceano ripetere, e molte volte volli entrare in altri, e rade furono quelle che io il potessi ottenere; ma pure alcuna volta, loro a forza lasciati, giacendo in quella parte ove il mio Panfilo era giaciuto, quasi sentendo di lui alcuno odore, mi pareva essere contenta, e lui tra me medesima chiamava e, quasi mi dovese udire, il pregava che tosto tornasse.
- Poi lui immaginava tornato, e meco fingendolo, molte cose gli dicea, e di molte il dimandava, e io stessa in suo luogo mi rispondea; e alcuna volta m’avvenne che io in cotali pensieri m’addormentai. E certo il sonno m’era alcuna volta piú grazioso che la vigilia, perciò che quello che io con meco falsamente vegghiando fingeva, esso, se durato fosse, non altramente che vero mel concedeva. Egli mi pareva alcuna volta con lui tornato, vagare in giardini bellissimi, di frondi, di fiori e di frutti varii adorni, con lui insieme quasi d’ogni temenza rimoti, come giá facemmo, e quivi lui per la mano tenendo, ed esso me, farmi ogni suo accidente contare; e molte volte avanti che ’l suo dire avesse fornito, mi parea baciandolo rompergli le parole, e quasi appena vero parendomi ciò che io vedea, diceva: «Deh, è egli vero che tu sii tornato? Certo si è, io ti pur tengo». E quindi da capo il baciava. Altra volta mi pareva essere con lui sopra i marini liti in lieta festa, e tal fu che io affermai meco medesima, dicendo: «Ora pur non sogno io d’averlo nelle mie braccia». Oh, quanto m’era discaro quando ciò m’avveniva che ’l sonno da me si partisse! Il quale partendosi, sempre seco se ne portava ciò che senza sua fatica in’avea prestato, e ancora ch’io ne rimanessi malinconosa assai, non per tanto tutto il dí seguente bene sperando contentissima dimorava, disiderando che tosto la notte tornasse, acciò ch’io, dormendo, quello avessi che vegghiando aver non poteva. E benché cosí grazioso alcuna volta mi fosse il sonno, nondimeno non sofferse egli che io cotale dolcezza senza amaritudine mescolata sentissi, perciò che furono assai di quelle volte che egli il mi parea vedere in vilissimi vestimenti vestito, tutto non so di che macchie oscurissime maculato, pallido e pauroso, e come se cacciato fosse, inverso me gridare: «Aiutami». Altre, mi pareva udir parlare a piú persone della sua morte; e volta fu ch’io mel vidi morto davanti e in altre molte e varie forme a me spiacenti. Il che ninna volta avvenne che il sonno avesse maggiori le forze che il dolore; e subitamente risvegliata, e la vanitá del mio sogno conoscendo, quasi contenta d’avere sognato, ringraziava Iddio; non che io turbata non rimanessi, temendo non le cose vedute, se non tutte, almeno in parte fossero vere o figure di vere. Né mai, quantunque io meco dicessi, e da altrui udissi vani essere i sogni, di ciò non era contenta, se io di lui non sapea novelle, delle quali io astutissimamente era divenuta sollecita dimandatrice.
- In cotal guisa, quale udito avete, i giorni e le notti trapassava aspettando. Vero è che, avvicinandosi il tempo della promessa tornata io estimai che utile consiglio fosse il vivere lieta, acciò che le mie bellezze, alquanto smarrite per l’avuto dolore, ritornassero ne’ loro luoghi acciò che egli tornando, io essendo sformata non gli potessi spiacere. E questo mi fu assai agevole a fare, però che il giá essermi negli affanni adusata, quelli con pochissima fatica portava, e oltre a ciò la propinqua speranza del promesso tornare con non usata letizia ogni di mi si faceva piú sentire. Io le feste non poco intralasciate, dando di ciò al sozzo tempo cagione, venendo il nuovo, ricominciai ad usare: né prima l’animo da gravissime amaritudini ristretto si cominciò in lieta vita ad ampliare, ch’io piú bella che mai ritornai; e li cari vestimenti e li preziosi ornamenti, non altramente che il cavaliere per la futura battaglia risarcisce le sue forti armi dove bisogna, li feci belli, acciò che in quelli piú ornata paressi nel suo tornare, il quale io invano e ingannata aspettava.
- Adunque, sí come gli atti si tramutarono, cosí si fecero i miei pensieri. A me il non averlo nel suo partir veduto, né il tristo agurio del piè percosso, né le sostenute fatiche di lui, né li dolori ricevuti, né la nemica gelosia piú nella mente venivano, anzi giá forse a otto dí alla sua promessa vicina, fra me diceva:
- «Ora al mio Panfilo rincresce l’essere a me stato lontano, e sentendo il tempo vicino a ciò che promise, di tornar s’apparecchia; e forse ora, lasciato il vecchio padre, è nel cammino». Oh quanto m’era cotal ragionare caro, e quanto sopr’esso volentieri mi volgeva, molte volte entrando in pensiero con che atto a lui piú grazioso mi dovessi ripresentare! Oimè! quante volte dissi:
- «Egli fia nella sua tornata da me centomilia volte abbracciato, e i miei baci multiplicheranno in tanta quantitá, che niuna parola intera lasceranno della sua bocca uscire; e in cento doppii renderò quelli che esso, senza riceverne nullo, diede al tramortito viso».
- E nel pensiero piú volte dubitai di non poter raffrenare l’ardente disio d’abbracciarlo, quando prima il vedessi innanzi a qualunque persona. Ma a queste cose provvidero gl’iddíi per modo a me notevole piú che troppo. Io ancora nella mia camera stando, quante volte in quella alcuna persona entrava, tante credeva che venuta mi fosse a dire: «Panfilo è venuto». Io non udiva voce alcuna in alcun luogo, che io con gli orecchi levati non le raccogliessi tutte, pensando che di lui tornato dovessero dire. Io mi levai, credo, piú di cento volte giá da sedere correndo alla finestra, quasi d’altro sollecita, in giú e ’n su rimirando, avendo prima a me medesima pensando scioccamente fatto credere: «Egli è possibile che Panfilo ora venuto ti venga a vedere». E vano ritrovando il mio avviso quasi confusa dentro mi ritornava. Io dicendo che esso alcune cose dovea al mio marito recare nella sua tornata, spesso e se venuto fosse, o quando s’aspettasse e dimandava e facea dimandare. Ma di ciò niuna lieta risposta mi pervenia, se non come di colui che mai piú venire non dovea, se non come ha fatto.
- ↑ [e quale Arunte]. Arunte secondo che pone Lucano fu grandissimo astrolago il quale per contemplare meglio il cielo delle stelle stava nelli monti della cittá dove fu Luni, e che sono in quello di Lucca dove si cava il marmo bianco. Esso essendo in questi monti, predisse la battaglia di Cesare e di Pompeo, che fu in Tessaglia.
- Note
- CAPITOLO IV
- Nel quale questa donna dimostra quali pensieri e che vita fosse la sua, essendo il termine venuto, e Panfilo suo non veniva.
- Cosí, o pietose donne, sollecita, come udito avete, non solamente al molto disiderato e con fatica aspettato termine pervenni, ma ancora di molti dí il passai; e meco medesima incerta se ancora il dovessi biasimare, o no, allentata alquanto la speranza, lasciai in parte i lieti pensieri, ne’ quali forse troppo allargandomi era rientrata, e nuove cose ancora non istatevi, mi si cominciarono a volgere per lo capo. E fermando la mente a volere, s’io potessi, conoscere qual fosse o essere potesse la cagione della sua piú lunga dimora che la impromessa, cominciai a pensare, e innanzi all’altre cose in iscusa di lui tanti modi truovo, quanti esso medesimo, se presente fosse, potrebbe trovare, e forse piú. Io dicea alcuna volta:
- «O Fiammetta, deh, credi tu il tuo Panfilo dimorare senza tornare a te, se non perché egli non puote? Gli affari inopinati opprimono sovente altrui, né è possibile cosí preciso termine dare alle cose future come altri crede. Or chi dubita ancora che la presente pietá non istringa piú assai che la lontana? Io son ben certa che egli me sommamente ama, e ora pensa alla mia amara vita, e di quella ha compassione, e da amore sospinto, piú volte n’è voluto venire; ma forse il vecchio padre con lagrime e con prieghi ha alquanto il termine prolungato, e opponendosi a’ suoi voleri, l’ha ritenuto; egli verrá quando potrá».
- Da cosí fatti ragionamenti e scuse mi sospignevano sovente i pensieri ad immaginare piú gravi cose. Io alcuna volta dicea:
- «Chi sa se egli, volonteroso piú che il dovere di rivedermi e pervenire al posto termine, posposta ogni pietá di padre, e lasciato ogni altro affare, si mosse, e forse, senza aspettare la pace del turbato mare, credendo a’ marinari bugiardi e arrischievoli per voglia di guadagnare, sopra alcun legno si mise, il quale venuto in ira a’ venti e all’onde, in quelle è forse perito? Niuna altra cagione tolse Leandro ad Ero. Or chi puote ancora sapere se esso, da fortuna sospinto ad alcuno inabitato scoglio, quivi la morte fuggendo dell’acqua, quella della fame o delle rapaci bestie ha acquistata? O in su quelli come Achemenide1, forse per dimenticanza lasciato, aspetta chi qua nel rechi? Chi non sa ancora che il mare è pieno d’insidie? Forse esso da mimiche mani preso, o da pirate, è nell’altrui prigioni con ferri stretto e ritenuto. Tutte queste cose essere possono, e molte volte giá le vedemmo avvenire».
- Dall’altra parte poi mi si parava nella mente non essere per terra piú sicuro il suo cammino, e in quello similmente mille accidenti possibili a ritenerlo vedea. Io, subitamente correndo con l’animo pure alle piggiori cose, estimando a lui piú giusta scusa trovare, quanto piú grave la cosa poneva, alcuna volta pensava:
- «Ecco il sole, piú che l’usato caldo, dissolve le nevi negli alti monti, onde i fiumi furiosi e con onde torbide corrono de’ quali egli non pochi ha a passare. Or se egli in alcuno, volonteroso di trapassare, s’è messo, e in quello caduto e col cavallo insieme tirato e ravvolto ha renduto lo spirito, come può egli venire? Li fiumi non apparano ora di nuovo a fare queste ingiurie a’ camminanti, né a tranghiottire gli uomini. Ma se pur da questo è campato, forse negli agguati de’ ladroni è incappato e rubato, e ritenuto è da loro: o forse nel cammino infermato in alcuna parte ora dimora, e ricuperata la sanitá, senza fallo qui ne verrá».
- Oimè! che qualora cotali immaginazioni mi teneano, un freddo sudore m’occupava tutta, e sí di ciò divenia paurosa, che sovente in prieghi a Dio che ciò cessasse rivolgea il pensiero, né piú né meno, come se egli davanti agli occhi in quello pericolo mi fosse presente. E alcuna volta mi ricorda che io piansi, quasi come con ferma fede in alcuno de’ pensati mali il vedessi. Ma poi fra me diceva:
- «Oimè! che cose sono queste, che i miseri pensieri mi porgono davanti? Cessi Iddio che alcuna di queste sia: innanzi dimori quanto gli piace, o non torni, che, per contentarmi, a caso si metta che alcuna di queste cose avvenga, le quali ora veramente m’ingannano. Però che, posto che possibili siano, impossibili sono ad essere occulte, e molto credibile è la morte di cotale giovane non potere essere nascosa, e massimamente a me, la quale, sollecita, continuamente di lui fo domandare con investigazioni non poco sottili. E chi dubita ancora che, se le cose male da me pensate alcuna ne fosse vera, che la fama, velocissima rapportatrice de’ mali, giá qui non l’avesse condotta? Alla quale la fortuna in ciò ora poco mia amica, avrebbe data apertissima via per farmi tristissima. Certo io credo piuttosto che egli in gravissimo affanno, come io sono se egli non viene, ora a forza ritenuto dimori, e tosto verrá, o della dimora in mia consolazione, scusandosi, scriverá la cagione».
- Certo li giá detti pensieri, ancora che fierissimi m’assalissero pure assai lievemente erano vinti, e la speranza, che per lo passato termine da me di fuggire si sforzava, con ogni mio potere ritenea, ponendole innanzi il lungo amore da me a lui e da lui a me portato, la data fede, i giurati iddíi, e le infinite lagrime; le quali cose io affermava essere impossibile che inganno coprissero. Ma io non poteva fare che essa cosí ritenuta non desse luogo alli lasciati pensieri, i quali con lento passo e tacitamente lei a poco a poco pignendo fuori del mio cuore, s’ingegnavano di tornare nel loro primo luogo, a mente riducendomi e li malvagi agurii, e l’altre cose; né quasi me n’avvidi prima che io, e la speranza quasi cacciata e loro potentissimi vi sentia. Ma tra gli altri che me piú forte gravava, niuna cosa in processo di piú giorni udendo della tornata di Panfilo, era gelosia. Questa piú che io non voleva mi spronava; questa ogni scusa che meco di lui faceva, quasi consapevole de’ suoi fatti, annullava; questa spesso ne’ ragionamenti per addietro da me dannati mi rimetteva dicendo;
- «Deh, come se’ tu cosí stolta che pietá di padre, o altro qualunque stretto affare o dilettto, ora potesse Panfilo sopratenere, se cosí t’amasse come diceva? Non sai tu che Amore vince tutte le cose? Egli fermamente d’un’altra innamorato, t’avrá dimenticata, il cui piacere molto possente sí come nuovo lá ora il ritiene, come il tuo qua il teneva. Quelle donne, si come tu giá dicesti, per ogni cosa atte ad amare, ed egli altresí naturalmente a ciò disposto e degno per ciascuna cosa da essere amato, conformatesi al suo piacere ed egli al loro, di nuovo l’avranno innamorato. Non credi tu che l’altre donne abbiano occhi in capo, sí come tu, e conoscano in queste cose quanto tu conosci? Sí fanno bene. E a lui altresi non credi tu che ne possa piú che una piacere? Certo io credo che, se potesse te vedere, malagevole gli sarebbe alcuna altra amarne; ma egli non ti può ora vedere, né ti vide giá sono cotanti mesi passati. Tu dèi sapere che niuno mondano accidente è eterno; cosí come egli s’innamorò di te, e come tu gli piacesti, cosí è possibile che un’altra ne gli sia piaciuta, e che egli, avendo il tuo amore abbandonato, n’ami un’altra. Le cose nuove piacciono con piú forza che le molto vedute, e sempre quello che l’uomo non ha, si suole con maggiore affezione disiderare che quello che l’uomo possiede, e niuna cosa è tanto dilettevole, che per lungo uso non rincresca. E chi non amerá piú volentieri a casa sua una nuova donna, che una antica nell’altrui contrade? Egli altresí forse non t’amava con cosí fervente amore, come mostrava, e alle sue lagrime né a quelle d’alcuno altro non è da credere cosí caro pegno come è cotanto amore, quanto tu forse estimi che egli ti portasse.
- «Eziandio gli uomini alcuna volta, non avendosi mai piú veduti che alcuno giorno, sono crucciosi e piangono spartendosi; e molte cose similmente si giurano e impromettono le quali altri ha fermo intendimento di fare; ma poi, nuovo caso sopravvenendo, fa quelli giuramenti uscire di mente. Le lagrime, e’ giuramenti e le promessioni de’ giovani non sono ora di nuovo arra di inganno futuro alle donne? Essi generalmente sanno prima fare queste cose che amare; la loro volontá vagabonda li tira a questo; niuno n’è che non volesse piuttosto ogni mese mutare dieci donne che essere dieci dí d’una. Essi continuamente credono e costumi nuovi e nuove forme trovare, e gloriansi d’avere avuto l’amore di molte. Dunque che speri? Perché vanamente ti lasci menare alla vana credenza? Tu non se’ in atto da poterlo da ciò ritrarre: rimanti d’amarlo, e dimostra che con quell’arte che egli ha te ingannata tu abbi ingannato lui.»
- E dietro a queste con molte altre séguito a me dicendo, e in esse accendevami di fiera ira, la quale con tumorosissimo caldo sí m’infiammava l’animo, che quasi ad atti rabbiosissimi m’induceva. Né prima il concreato furore trapassava, che le lagrime, abbondevolissimamente per gli occhi uscissero, con le quali, molto alcuna volta duranti, esso del petto m’usciva, nel quale per conforto di me medesima dannando ciò che l’indovina anima mi diceva, quasi a forza la giá fuggita speranza con ragioni vanissime rivocava. E in cotal guisa, quasi ogni ripresa allegrezza lasciata, stetti sperando e disperando molto spesso piú giorni, sempre sollecita oltremodo a potere acconciamente sapere che di lui fosse che non veniva.
- ↑ [Achemenide]. Secondo pone Virgilio, Omero e Ovidio, fu uno de’ compagni d’Ulisse, il quale rimase in Cicilia appiè delli scogli del monte d’Etna, quando Ulisse arrivò per fortuna nel detto loco dopo la distruzione di Troia. E tanto stette ivi perfino che passò Enea quando venne in Italia per far Roma, e da lui fu tolto per misericordia in sulle navi non ostante fosse greco; e cosí scampò dalle mani di Polifemo gigante che avea voluto divorare Ulisse con tutti li suoi compagni.
- Note
- CAPITOLO V
- Nel quale la Fiammetta dimostra come alli suoi orecchi pervenne Panfilo aver presa moglie, mostrando appresso quanto del suo non tornare disperata e dolorosa vivesse.
- Lievi sono state infino a qui le mie lagrime, o pietose donne, e i miei sospiri piacevoli a rispetto di quelli, i quali la dolente penna, piú pigra a scrivere che il cuore a sentire, s’apparecchia di dimostrarvi. E certo, se bene si considera, le pene infitto a qui trapassate, piú di lasciva giovane che di tormentata quasi si possono dire; ma le seguenti vi parranno d’un’altra mano. Adunque, fermate gli animi, né vi spaventino le mie promesse, che, le cose passate parendovi gravi, voi non vogliate ancora vedere le seguenti gravissime; e in veritá io non vi conforto tanto a questo affanno, perché voi piú di me divegniate pietose, quanto perché piú la nequizia di colui per cui ciò m’avviene conoscendo, divegniate piú caute in non commettervi ad ogni giovane. E cosí forse ad un’ora a voi m’obbligherò ragionando, e disobbligherò consigliando, ovvero per le cose a me avvenute ammonendo e avvisando.
- Dico adunque, donne, che con cosí varie immaginazioni, quali poco avanti avete potute comprendere nel mio dire, io stava continuo, quando di piú d’uno mese essendo il tempo trapassato promesso a me cosí dall’amato giovane un di novelle pervennero. Io andata a visitare con animo pio sacre religiose, e forse per fare per me porgere a Dio pietose orazioni, che o rendendomi Panfilo o cacciandolmi della mente mi ritornasse il perduto conforto, avvenne che, sedendo io con le giá dette donne, assai discrete e piacevoli nel loro ragionare, e a me molto per parentado e per antica amistá congiunte, quivi venne un mercatante, né altramente che Ulisse1 e Diomedes a Deidamia e alle suore, cominciò diverse gioie e belle, quali a cosí fatte donne si conveniano, a mostrare.
- Egli, sí come io alla sua favella compresi, ed esso medesimo da una di quelle dimandatone confessò, era della terra di Panfilo mio. Ma poi che egli mostrate molte delle sue cose, e di quelle da esse alcune per lo convenuto pregio prese, e l’altre rendutegli, entrati in nuovi motti e lieti, e esse ed esso, mentre che egli il pagamento aspettava, una di loro d’etá giovane e di forma bellissima, e chiara di sangue e di costumi, quella medesima ch’avanti dimandato l’avea onde fosse, il dimandò se egli Panfilo suo compatriotta conosciuto avesse giammai. Oh, quanto cotale dimanda diè per lo mio disio!
- Certo io ne fui contentissima, e gli orecchi alla risposta levai. Il mercatante senza indugio rispose:
- — E chi è quegli che meglio di me il conosca? —
- A cui segui la giovane quasi infignendosi di sapere che di lui fosse:
- — E che è egli ora di lui? —
- — Oh, — disse il mercatante — egli è assai che il padre, non essendogli rimaso altro figliuolo, il richiamò a casa sua. —
- Il quale ancora la giovine dimandò:
- — Quanto ha che tu di lui sapesti novelle? —
- — Certo, — disse egli — non poi che da lui mi partii, che ancora non credo che siano quindici giorni compiuti. —
- Continuò la donna:
- — E allora che era di lui? —
- Alla quale esso rispose:
- — Molto bene; e dicovi che il di medesimo che io mi partii, vidi con grandissima festa entrare di nuovo in casa sua una bellissima giovane, la quale, secondo che io intesi, era a lui novellamente sposata. —
- Io, mentre che il mercatante queste cose diceva, ancora che con amarissimo dolore l’ascoltassi, fiso nel viso la dimandante giovane riguardava, meravigliandomi quale cagione potesse essere che costei inducesse a dimandare cosí strette particolaritá di colui, cui io appena credeva che altra donna il conoscesse che io, e vidi che prima a’ suoi orecchi non venne Panfilo avere moglie sposata, che, gli occhi bassati, tutta nel viso si tinse, e la pronta parola le morí in bocca, e per quello che io presumessi, essa con fatica grandissima le lagrime giá agli occhi venute ritenne. Ma io prima, ciò udendo, da uno gravissimo dolore presa, subito, ciò vedendo, fui da un altro non minore assalita, e appena mi ritenni che io con gravissima villania la turbazione di colei non riprendessi, invidiosa che da lei sí aperti segnali d’amore verso Panfilo si mostrassero, dubitando, non meno che essa, cosí, come io, non avesse legittima cagione di dolersi delle udite parole. Ma pure mi tenni, e con noiosa fatica, alla quale non credo che simigliarne si truovi, il turbato cuore sotto non cambiato viso servai, di piangere piú disiosa che di piú ascoltare.
- Ma la giovane, forse con quella medesima forza che io, ritenendo dentro il dolore, come se stata non fosse quella che s’era davanti turbata, fattasi far fede di quelle parole, quanto piú domandava piú trovava la cosa contraria al suo disio e al mio. Onde, dato al mercatante commiato che ’l domandava, e ricoperta con infinte risa la sua tristizia, con ragionamenti diversi insieme quivi per piú lungo spazio ch’io non averei voluto ci rimanemmo.
- Venuti meno i nostri ragionamenti, ciascuna si diparti, e io con anima piena d’angosciosa ira, non altramente fremendo che il lione libico poscia che nelle sue insidie scuopre i cacciatori, ora nel viso accesa e ora pallida divenendo, quando con lento passo e quando con piú veloce che la donnesca onestá non richiede, tornai alla mia casa. E poi che licito mi fu di potere di me fare a mio senno, entrata nella mia camera, amaramente cominciai a piangere, e quando per lungo spazio le molte lagrime parte della gran doglia ebbero gata, essendomi alquanto piú libero il parlare, con voce assai debole incominciai:
- «Ora, o misera Fiammetta, sai perché il tuo Panfilo non ritorna; ora sai la cagione della sua dimora tanto da te disiata; ora hai quello che tu andavi cercando di trovare. Che, misera, chiedi piú? che piú addimandi? Bastiti questo; Panfilo non è piú tuo. Gitta via ornai i disiderii di riaverlo, abbandona la mal ritenuta speranza, poni giú il fervente amore, lascia i pensieri matti; credi omai agli agurii e alla tua divinante anima, e comincia a conoscere gl’inganni de’ giovani. Tu se’ a quello punto venuta, lá dove l’altre sogliono venire che troppo si fidano».
- E con queste parole mi raccesi nell’ira, e rinforzai il pianto; e da capo con parole troppo piú fiere ricominciai cosí a parlare:
- «O iddii ove siete? Ove ora mirano gli occhi vostri? Ov’è ora la vostra ira? Perché sopra lo schernitore della vostra potenza non cade? O spergiurato Giove, che fanno le folgori tue? Ove ora le adoperi? Chi piú empiamente l’ha meritate? Come non scendono esse sopra il pessimo giovane, acciò che gli altri per innanzi di spergiurarti abbiano temenza? O luminoso Febo, dove sono ora le tue saette, male inerite di ferire il Fitone, a rispetto di colui che falsamente te a’ suoi inganni chiamò testimonio? Privalo della luce de’raggi tuoi, e non meno gli torna nemico che tu fosti al misero Edippo2. O voi altri qualunque dii e dèe, e tu Amore, la cui potenza ha schernita il falso amante, come ora non mostrate le vostre forze e la dovuta ira? Come non convertite voi il cielo e la terra contra il novello sposo, sí che egli nel mondo per esemplo d’ingannatore e d’annullatore della vostra potenza non rimanga a piú schernirvi? Molto minori falli mossero giá l’ira vostra a vendetta men giusta. Dunque ora perché tardate? Voi non potreste appena tanto incrudelire verso di lui, che egli debitamente punito fosse.
- «Oimè misera! Perché non è egli possibile che voi l’effetto de’ suoi inganni cosí sentiate come io, acciò che cosí in voi come in me s’accendesse l’ardore della punizione? O iddii, rivolgete in lui alcuni di quelli pericoli, o tutti, de’ quali io giá dubitai; uccidetelo di qualunque generazione di morte piú vi piace, acciò che io ad un’ora tutta e l’ultima doglia senta, che mai debba sentire per lui, e voi e me vendichiate ad un’ora. Non consentite che io sola per li peccati di lui pianga la pena, ed egli, voi e me avendo beffati, lieto si goda con la nuova sposa, e cosí per contrario tagli la vostra spada».
- Poi, non meno accesa d’ira, ma con pianto piú fiero rivolgendo a Panfilo le parole, mi ricorda che io cominciai:
- «O Panfilo, ora la cagione della tua dimora conosco, ora i tuoi inganni mi sono palesi, ora veggo che ti ritiene, e qual pietá. Tu ora celebri i santi imenei, e io, dal tuo parlare e da te e da me medesima ingannata, mi consumo piangendo, e con le mie lagrime apro la via alla mia morte, la quale con titolo della tua crudeltá, debitamente segnerá la sua dolente venuta; e gli anni, i quali io cotanto disiderai d’allungare, si mozzeranno, essendone tu cagione. O scellerato giovane e pronto ne’ miei affanni! Or con che cuore hai tu presa la nuova sposa? Con intendimento d’ingannare lei, come tu hai me fatto? Con quali occhi la riguardasti tu? Con quelli con li quali miseramente me credula troppo pigliasti? Qual fede le promettesti tu? Quella che tu avevi a me promessa? Or come potevi tu? Non ti ricordi tu, che piú che una volta la cosa obbligata non si può obbligare? Quali iddii giurasti? Gli spergiurati da te? Oimè misera! che io non so quale avverso piacere l’animo t’accecò, sentendoti mio, che tu d’altrui divenissi. Oimè! per qual colpa meritai io d’esserti cosí poco a cura? Dove è fuggito di noi cosí tosto il lieve amore? Oimè! che la trista fortuna cosí miseramente costrigne i dolenti! Tu ora la promessa fede e a me dalla tua destra data, e li spergiurati iddii per li quali tu con sommo disio giurasti di ritornare, e le tue lusinghevoli parole delle quali molto eri fornito, e le tue lagrime con le quali non solamente il tuo viso bagnasti, ma ancora il mio, tutte insieme raccolte hai gittato a’ venti, e me schernendo, lieto vivi con la nuova donna.
- «Oimè! or chi averebbe mai potuto credere che falsitá fosse nelle tue parole nascosa, e che le tue lagrime fossero con arte mandate fuori? Certo non io: anzi cosí come fedelmente parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva. E se forse in contrario dicessi, e le lagrime vere, e i saramenti e la fede prestati con puro cuore, concedasi; ma quale scusa darai tu al non averli servati cosí puramente come promessi? Dirai tu la piacevolezza della nuova donna ne è stata cagione? Certo debole fia, e manifesta dimostrazione di mobile animo. E oltre a tutto questo, sará egli per ciò satisfatto a me? Certo no. O malvagissimo giovane! Non t’era egli manifesto l’ardente amore che io ti portava e porto ancora contro a mia voglia? Certo sí era; dunque molto meno d’ingegno ti bisognava ad ingannarmi. Ma tu, acciò che piú sottile ti mostrassi poi ne’ tuoi parlari ogni arte volesti usare; ma tu non pensavi quanto poco di gloria ti seguita ad ingannare una giovane, la quale di te si fidava. La mia semplicitá meritò maggior fede che la tua non era. Ma che? Io ciò credetti non meno agl’iddii da te giurati, che a te, li quali io priego che facciano che questa sia la piú somma parte della tua fama, cioè avere ingannata una giovane che piú che sé t’amava.
- «Deh, Panfilo, dimmi ora: avea io commesso alcuna cosa per la quale io meritassi da te d’essere con cotanto ingegno tradita? Certo niuno altro fallo feci verso di te giammai se non che poco saviamente di te innamorai, e oltre al dovere ti portai fede e t’amai; ma questo peccato almeno da te non meritava ricevere cotale penitenza. Veramente una iniquitá in me conosco, per la quale l’ira degl’iddii, faccendola, giustamente impetrai; e questa fu di ricevere te, scellerato giovane e senza alcuna pietá, nel letto mio, e avere sostenuto che il tuo lato al mio s’accostasse; avvegna che di questo, come essi medesimi videro, non io, ma tu se’ colpevole, il quale col tuo ardito ingegno, me presa nella tacita notte secura dormendo, come colui che altre volte eri uso d’ingannare, prima nelle braccia m’avesti e quasi la mia pudicizia violata, che io fossi dal sonno interamente sviluppata. E che doveva io fare, questo veggendo? Doveva io gridare, e col mio grido a me infamia perpetua, e a te, il quale io piú che me medesima amava, morte cercare? Io opposi le forze mie, come Iddio sa, quanto io potei; le quali, alle tue non potendo resistere, vinte, possedesti la tua rapina. Oimè! orami fosse il dí precedente a quella notte stato l’ultimo, nel quale io sarei potuta morire onesta!
- «Oh, quante doglie e come acerbe m’assaliranno oggimai! E tu con la menata giovane stando, per piú piacerle, i tuoi antichi amori racconterai, e me misera farai in molte cose colpevole, e la mia bellezza avvilendo e i miei costumi, la quale e li quali da te con somma laude solevano sopra tutti quelli e quelle dell’altre donne essere esaltati, sommamente le sue loderai; e quelle cose, le quali io pietosamente verso di te da molto amore sospinta operai, da focosa libidine dirai nate.
- «Ma ricòrdati, tra le cose che non vere racconterai, di narrare i tuoi veri inganni, per li quali me piangevole e misera potrai dire aver lasciata, e con essi i ricevuti onori, acciò che bene facci la tua ingratitudine manifesta all’ascoltante. Né t’esca di mente di raccontare quanti e quali giovani giá d’avere il mio amore tentassero, e i diversi modi, e le inghirlandate porte da’ loro amori, e le notturne risse e le diurne prodezze per quelli operate; né mai dal tuo ingannevole amore mi poterono piegare. E tu per una giovane appena da te ancora conosciuta, subito mi cambiasti; la quale, se come me non fia semplice, i tuoi baci prenderá sempre sospetti e guarderassi da’ tuoi inganni, da’ quali io guardare non mi seppi. La quale io priego che tale con teco sia, quale con Atreo fu la sua, o le figliuole di Danao3 con li nuovi sposi, o Clitennestra con Agamennone, o almeno quale io, operandolo la tua nequizia, col mio marito, non degno di queste ingiurie, sono dimorata; e te a tale miseria perduca, che come io ora per la pietá di me medesima piango, cosí mi sforzi di spandere lagrime per te: e questo, se dagl’iddíi verso i miseri con pietá nulla si mira, priego che tosto sia».
- Come che io fossi molto da queste dolenti ramaricazioni offesa, e sovente sopra esse, tornassi, e non solamente quello dí ma molti altri seguenti, nondimeno mi pungeva d’altra parte non poco la turbazione veduta della giovane sopradetta, la quale alcuna volta m’indusse a cosí con grieve doglia pensare; io, sí come molte volte era usata, diceva con meco stessa:
- «Deh, perché, o Panfilo, mi dolgo io del tuo essere lontano, e che tu di nuova giovane sii divenuto, con ciò sia cosa che, essendo tu qui presente, non mio ma d’altrui dimoravi? O pessimo giovane, in quante parti era il tuo amore diviso, o atto a potersi dividere? Io posso presumere che come questa giovane con meco insieme, alle quali hai ora aggiunta la terza, t’eravamo donne, che tu a questo modo n’avevi molte, dove io sola mi credeva essere; e cosí avveniva che, credendo le mie medesime cose trattare, occupava l’altrui. E chi può sapere, se questo giá si seppe per alcuna la quale piú della grazia degl’iddii di me degna, pregando per le ricevute ingiurie, per li miei mali impetrò che io cosí sia, come io sono, d’angoscie piena? Ma qualunque ella è, s’alcuna è, perdonimi, che ignorantemente peccai, e la mia ignoranza merita il perdono. Ma tu con quale arte queste cose fingevi? Con quale coscienza l’adoperavi? Da quale amore o da quale tenerezza eri a ciò tirato? Io ho piú volte inteso non potersi amare piú che una persona in un medesimo tempo, ma questa regola mostra che in te non avesse luogo: tu n’amavi molte ovvero facevi vista d’amare.
- «Deh, desti tu a tutte, o almeno a questa una, che male ha saputo celare quello che tu hai bene celato, quella fede, quelle promessioni, quelle lagrime che a me donasti? Se ciò facesti, tu puoi, sí come a niuna obbligato, dimorarti sicuro, perciò che quello che a molti indistintamente si dona, non pare che ad alcuno sia donato. Deh, come può egli essere, che chi di tante piglia i cuori non sia il suo alcuna volta preso? Narciso4, amato da molte, essendo a tutte durissimo, ultimamente fu preso dalla sua forma; Atalanta5, velocissima nel suo corso, rigida superava i suoi amanti, infino che Ipomenes con maestrevole inganno, come ella medesima volle, la vinse. Ma perché vo io per gli esempli antichi? Io medesima, non potuta mai da alcuno essere presa, fui presa da te. Tu adunque come tra le molte non hai trovato chi t’abbia preso? La qual cosa io non credo, anzi sicura sono che preso fosti; e se fosti, chi che colei si fosse che con tanta forza ti prese, come a lei non torni? Se tu non vuogli a me tornare, torna a costei che celare non ha saputo il vostro amore: se la fortuna vuogli che a me sia contraria, che forse secondo la tua oppinione l’ho meritato, non nocciano all’altre li miei peccati. Torna almeno ad esse, e serva loro la promessa fede forse prima che a me; non volere, per far noia a me, offenderne tante quante io credo che in isperanza qua n’abbi lasciate, né possa costá una sola piú che qua molte. Cotesta è oramai tua, né può, volendo, non essere: dunque, lei sicuramente lasciando, vieni, acciò che quelle, che non tue si possono fare, per tue con la tua presenza le conservi».
- Dopo questi molti parlari e vani, però che né l’orecchie degl’iddíi toccavano né quelle del giovane ingrato, avveniva alcuna volta che io subitamente mutava consiglio, dicendo:
- «O misera, perché disideri tu che Panfilo qui torni? Credi tu con maggiore pazienza sostenere vicino quello che gravissimo t’è lontano? Tu disideri il tuo danno. E cosí come ora in forse dimori che egli t’ami o no, cosí, lui tornando, potresti divenire certa che non per te, ma per altrui fosse tornato. Stinsi, e innanzi, essendo lontano, te tenga del suo amore in forse, che, venendo vicino, del non amarti ti faccia certa. Sii almeno contenta che sola non dimori in cotali pene, e quello conforto piglia che i miseri sogliono fare nelle miserie accompagnati».
- Egli mi sarebbe duro il potere, o donne, mostrare con quanta focosa ira, con quante lagrime, con quanta strettezza di cuore, io quasi ogni di cotali pensieri e ragionamenti solessi fare; ma però che ogni dura cosa in processo di tempo si pur matura e ammollisce, avvenne che, avendo io piú giorni cotale vita tenuta, né potendo piú oltre nel dolore procedere che proceduta mi fossi, esso alquanto si cominciò a cessare. E tanto quanto egli della mente disoccupava, cotanto, fervente amore e tiepida speranza ne raccendevano, e cosí a poco a poco con esso il dolore dimorandovi, me fecero di voglia cambiare, e il primo disiderio di riavere il mio Panfilo ritornò. E quantunque in ciò mi fosse alcuna speranza di mai dover riaverlo contraria, tanto ne divenne maggiore il disio; e cosí come le fiamme da’ venti agitate crescono in maggiore vampa, cosí amore, per li contrarii pensieri stati, tutte le sue forze contra di loro adoperate, si fece maggiore. Laonde delle cose dette subito pentimento mi venne.
- Io, riguardando a quello a che m’avea l’ira condotto a dire, quasi come se udita m’avesse, mi vergognai, e lei forte biasimai, la quale ne’ primi assalti con tanto fervore piglia gli animi, che alcuna veritá a loro essere palese non lascia. Ma nondimeno quanto piú viene grave, tanto piú in processo di tempo diventa fredda, e lascia chiaro conoscere quello che seco male ha fatto adoperare; e riavuta la debita mente, cosí incominciai a dire:
- «O stoltissima giovane, di che cosí ti turbi? Perché senza certa cagione in ira t’accendi? Posto che vero sia ciò che il mercatante disse, il che è forse non vero, cioè che egli abbia moglie sposata, è questo cosí gran fatto o cosa nuova, o che tu non dovessi sperare? Egli è di necessitá che i giovani in cosí fatte cose compiacciano a’ padri. Se il padre ha voluto questo, con che colore il potea esso negare? E credere déi che né tutti coloro che moglie prendono e che l’hanno, l’amano, come fanno dell’altre donne: la soperchia copia che le mogli fanno di sé a’ loro mariti, è cagione di tostano rincrescimento, quando pure nel principio sommamente piacesse, e tu non sai quanto costei si piaccia. Forse che sforzato Panfilo la prese, e amando ancora te piú di lei, gli è noia d’essere con essa; e se ella gli pur piace, tu puoi sperare che ella gli rincrescerá tosto. E certo della sua fede e de’ suoi giuramenti tu non ti puoi con ragione biasimare, però che egli a te tornando nella tua camera l’uno e l’altro adempie.
- «Priega adunque Iddio che Amore, il quale piú che saramento o promessa fede puote, il costringa a tornarci. E oltre a questo, perché per la turbazione della giovane di lui prendi sospetto? Non sai tu quanti giovani te amano invano, i quali, sappiendo te essere di Panfilo, senza dubbio si turberebbero? Cosí déi credere possibile lui essere amato da molte, alle quali pare duro di lui udire quello che a te dolse, benché per diverse ragioni a ciascuna ne incresca.»
- E in cotale modo me medesima dimentendo, quasi in su la prima speranza tornando, dove molte bestemmie mandate aveva, con orazioni supplico in contrario.
- Questa speranza in cotal guisa tornata, non avea però forza di rallegrarmi, anzi con tutta essa con turbazione continua e nell’animo e nell’aspetto era veduta, e io medesima non sapeva che farmi. Le prime sollecitudini erano fuggite; io avea nel primo impeto della mia ira gittate via le pietre, le quali de’ giorni stati erano memorevoli testimonie, e aveva arse le lettere da lui ricevute, e molte altre cose guastate. Il rimirare il cielo piú non mi gradiva, sí come a colei che incerta era della tornata allora, sí come certa me ne pareva essere avanti. La volontá del favoleggiare se n’era ita, e il tempo, che molto aveva le notti abbreviate, nol concedea, le quali sovente, o tutte o gran parte di loro, io passava senza dormire, continuamente o piangendo o pensando passandole; e qualora pure avveniva che io dormissi, diversamente era da’ sogni occupata, alcuna lieti vegnenti, e alcuna tristissimi. Le feste e i templi m’erano noievoli, né mai se non di rado, quasi non potendo altro fare, li visitava. E il mio viso, pallido ritornato, faceva tutta malinconosa la casa mia, e da varii variamente di me parlare: e cosí, aspettando, e quasi che non sappiendo, malinconica e trista mi stava.
- Li miei dubbiosi pensieri il piú mi traevano tutto il giorno incerta di dolermi o di rallegrarmi; ma vegnendo la notte, attissimo tempo alli miei mali, trovandomi nella mia camera sola, avendo prima e pianto e molte cose con meco dette, quasi mossa da consiglio migliore, le mie orazioni a Venere rivolgea, dicendo:
- «O del cielo speziale bellezza, o pietosissima dea, o santa Venere, la cui effigie nel principio de’ miei affanni in questa camera fu manifesta, porgi conforto alli miei dolori, e per quello venerabile e intrinseco amore che tu portasti ad Adone, mitiga i miei mali. Vedi quanto per te io tribulo; vedi quante volte per te la terribile immagine della morte sia giá stata innanzi agli occhi miei; vedi, se tanto male ha la mia pura fede meritato, quanto io sostegno. Io, lasciva giovane, non conoscendo li tuoi dardi, al primo tuo piacere senza disdire mi ti feci suggetta. Tu sai quanto per te mi fu promesso di bene, e certo io non niego che parte giá non n’avessi; ma, se questi affanni che tu mi dái, di quel bene parte s’intendono, perisca il cielo e la terra ad un’otta, e rifacciansi col mondo che seguirá le leggi nuove a queste simili. Se egli è pur male, come a me il pare sentire, venga, o graziosa dea, il bene promesso, acciò che la santa bocca non si possa dire come gli uomini avere apparato a mentire.
- «Manda il tuo figliuolo con le sue saette e con le tue fiaccole al mio Panfilo, lá dove egli ora da me dimora lontano, e lui se forse per non vedermi nel mio amore è raffreddato, o di quello d’alcun’altra è fatto caldo, rinfiammilo per tal maniera che, ardendo come io ardo, niuna cagione il ritenga che egli non torni, acciò che io, riprendendo conforto, sotto questa gravezza non muoia. O bellissima dea, vengano le mie parole a’ tuoi orecchi, e se lui riscaldar non vuoi, trai a me di cuore i dardi tuoi acciò che io, cosí come egli, possa senza tante angoscie passare li giorni miei».
- In questi cosí fatti prieghi, ancora che vani gli vedessi poi riuscire, pure allora quasi esauditi credendomi, alquanto con isperanza alleviava il mio tormento, e nuovi mormorii ricominciando, diceva:
- «O Panfilo, dove se’ tu ora? Deh, che fai tu ora? Hatti la tacita notte senza sonno e con tante lagrime quante me, o forse nelle braccia ti tiene della giovane male per me udita? O pure senza alcuno ricordo di me soavissimamente dormi? Deh, come può questo essere che Amore due amanti con disuguali leggi governi, ciascuno ferventemente amando, come io fo, e forse come tu fai? Io non so, ma se cosí è, che quelli pensieri te che me occupino, quali prigioni o quali catene ti tengono, che quelle rompendo a me non torni? Certo io non so chi mi si potesse tenere di venire a te, se la mia forma sola, la quale senza dubbio d’impedimento e di vergogna in piú luoghi mi sarebbe cagione, non mi tenesse. Qualunque affari, qualunque altre cagioni costá trovasti, giá deono essere finite; e il tuo padre, giá di te dée essere sazio, il quale, come gl’iddíi sanno, io priego sovente per la sua morte, fermamente credendo lui cagione della tua dimora; e se cosí non è, almeno del tôrmiti pur fu. Ma io non dubito che, della morte pregando, non gli si prolunghi la vita, tanto mi sono gl’iddii contrarii e male esaudevoli in ogni cosa. Deh, vinca il tuo amore, se cotale è quale essere solea, le sue forze, e vienne. Non pensi tu, me sola gran parte delle notti giacere, nelle quali tu fida compagnia mi faresti, se tu ci fossi, come giá facesti? Oimè! quante il passato verno lunghissime senza te fredda nel grandissimo letto, sola n’ho trapassate! Deh, ricòrdati de’ varii diletti da noi molte volte in varie cose presi, de’ quali ricordandoti tu, sono certa niuna altra donna mai mi ti potrá tôrre. E quasi questa credenza piú che altra mi rende secura che falsa sia l’udita novella della nuova sposa, la quale, ancora che vera fosse, non spero mi ti potesse tôrre, se non un tempo. Dunque ritorna; e se i graziosi diletti non hanno forza di qua tirarti, tiritici il volere da morte turpissima liberare colei che sopra tutte le cose t’ama. Oimè! che se tu ora tornassi, appena ch’io creda che tu mi riconoscessi, sií m’ha trasformata l’angoscia. Ma certo, ciò che infinite lagrime m’hanno tolto, brieve letizia, veggendo il tuo bel viso, mi renderebbe, e senza fallo tornerei quella Fiammetta che giá fui.
- «Deh, vieni, vieni, che ’l cor ti chiama: non lasciar perire la mia giovinezza presta a’ tuoi piaceri. Oimè! ch’io non so con che freno io temperassi la mia letizia, se tu tornassi, in modo che a tutti manifesta non fosse; perché io, e meritamente, dubito che ’l nostro amore, lungamente e con grandissimo senno e sofferenza celato, non si scoprisse a ciascuno. Ma ora pur venissi tu a vedere, se cosí ne’ prosperi casi come negli avversi l’ingegnose bugie avessero luogo! Oimè! or fossi tu giá venuto, e se meglio non potesse essere, sapesselo chi volesse, ché a tutto mi crederei dare riparo».
- E questo detto, quasi come se egli le mie parole avesse intese, subito mi levava e correva alla finestra, me nell’estimazione ingannando d’udire quello che io udito non avea, cioè che egli la nostra porta toccasse, come era usato. Oh quante volte, se i solleciti amanti avessero saputo questo, forse sarei stata potuta ingannare, se alcuno malizioso sé Panfilo avesse finto a cotali punti! Ma poi che la finestra aperta aveva, e riguardata la porta, gli occhi del conosciuto inganno mi faceano piú certa; e cotale la vana letizia in me con turbazione súbita si volgeva, quale, poi che il forte albero rotto da’ potenti venti con le vele ravviluppate in mare a forza da quelli è trasportato, la tempestosa onda cuopre senza contrasto il legno periclitante. E nel modo usato alle lagrime ritornando, miseramente piango, e sforzandomi poi di dare alla mente riposo, con gli occhi chiusi allettando gli umidi sonni, tra me medesima in cotal guisa gli chiamo:
- «O Sonno, piacevolissima quiete di tutte le cose, e degli animi vera pace, il quale ogni cura fugge come nemico, vieni a me, e le mie sollecitudini alquanto col tuo operare caccia del petto mio. O tu, che i corpi ne’ duri affanni gravati diletti, e ripari le nuove fatiche, come non vieni? Deh, tu dái ora a ciascun altro riposo: donalo a me, piú che altra di ciò bisognosa. Fuggi degli occhi alle liete giovani, le quali ora tenendo i loro amanti in braccio nelle palestre di Venere esercitandosi, te rifiutano e odiano, ed entra negli occhi miei, che sola e abbandonata, e vinta dalle lagrime e da’ sospiri dimoro. O domatore de’ mali e parte migliore dell’umana vita, consolami di te, e lo stare a me lontano riserba quando Panfilo co’ suoi piacevoli ragionari diletterá le mie avide orecchie di lui udire. O languido fratello della dura morte6, il quale le false cose alle vere rimescoli, entra negli occhi tristi! Tu giá i cento d’Argo7 volenti vegghiare occupasti; deh, occupa ora i miei due che ti disiderano! O porto di vita, o di luce riposo, e della notte compagno, il quale parimente vieni grazioso agli eccelsi re e agli umili servi, entra nel tristo petto, e piacevole alquanto le mie forze ricrea. O dolcissimo Sonno, il quale l’umana generazione pavida della morte costringi ad apparare le sue lunghe dimore, occupa me con le forze tue e da me caccia gl’insani movimenti, ne’ quali l’animo se medesimo senza pro fatica».
- Egli, piú pietoso che alcuno altro iddio a cui io porga prieghi, avvegna che indugio ponga alla grazia chiesta da’ prieghi miei, pure dopo lungo spazio, quasi piú a servirmi costretto che volonteroso, pigro viene, e senza dire alcuna cosa, non avvedendomene io, sottentra al lasso capo, il quale di lui bisognoso, quello volonteroso pigliando, tutto in lui si ravvolge.
- Non viene, posto che il sonno venga, però in me la disiata pace, anzi, in luogo de’ pensieri e delle lagrime, mille visioni piene d’infinite paure mi spaventano. Io non credo che niuna furia rimanga nella cittá di Dite, che in diversi modi e terribili giá piú volte mostrata non mi si sia, diversi mali minacciando, e spesso col loro orribile aspetto li miei sonni rotti, di che io quasi, per non vederle, mi sono contentata. E poche sono brievemente state quelle notti, dopo la male udita novella della menata sposa, che rallegrata m’abbiano dormendo, come davanti mostrandomi lietamente il mio Panfilo assai sovente solean fare: il che senza modo mi doleva, e ancora duole. Di tutte queste cose, delle lagrime e del dolore dico, ma non della cagione, s’avvide il caro marito; e considerando il vivo colore del mio viso in pallidezza essere cambiato, e gli occhi piacevoli e lucenti veggendo di purpureo cerchio intorniati e quasi della mia fronte fuggiti, molte volte giá si maravigliò perché fosse; ma pure vedendo me e il cibo e il riposo avere perduto, alcuna volta mi dimandò che fosse di ciò la cagione. Io gli rispondea lo stomaco averne colpa, il quale, non sappiendo io per quale cagione guastatomisi, a quella deforme magrezza m’avea condotta. Oimè! che egli intera fede dando alle mie parole, il mi credeva, e infinite medicine giá mi fece apparecchiare, le quali io per contentarlo usava, non per utile che di quelle aspettassi. E quale alleviamento di corpo puote le passioni dell’anima alleviare? Niuno credo: forse che quelle dell’animo via levate potrebbero il corpo alleviare. La medicina utile al mio male non era piú che una, la quale troppo era lontana a potermi giovare.
- Poi che l’ingannato marito vedea le molte medicine poco giovare, anzi niente, di me piú tenero che il dovere, da me in molte nuove e diverse maniere la malinconia s’ingegnava di cacciare via, e la perduta allegrezza restituire, ma invano le molte cose adoperava. Egli alcuna volta mi mosse cotali parole:
- — Donna, come tu sai, poco di lá dal piacevole monte Falerno in mezzo dell’antiche Cume e di Pozzuolo sono le dilettevoli Baie sopra li marini liti, del sito delle quali piú bello né piú piacevole ne cuopre alcuno il cielo. Egli di monti bellissimi tutti d’alberi varii e di viti coperti è circundato, fra le valli de’ quali niuna bestia è a cacciare abile, che in quelle non sia; né a quelli lontana la grandissima pianura dimora, utile alle varie caccie de’ predanti uccelli e sollazzevole; quivi vicine l’isole Pittaguse e Nisida di conigli abbondante, e la sepoltura del gran Miseno8, dante via a’ regni di Plutone; quivi gli oracoli della Cumana Sibilla9, il lago d’Averno, e ’l Teatro, luogo comune degli antichi giuochi, e le Piscine, e monte Barbaro, vane fatiche dello iniquo Nerone: le quali cose antichissime e nuove, a’ moderni animi sono non picciola cagione di diporto ad andarle mirando. E oltre a tutte queste, vi sono bagni sanissimi ad ogni cosa e infiniti, e il cielo quivi mitissimo, in questi tempi ci dá di visitarle materia. Quivi non mai senza festa e somma allegrezza con donne nobili e cavalieri si dimora. E però tu, non sana dello stomaco, e nella mente, per quel che io discerna, di molesta malinconia affannata, con meco per l’una sanitá e per l’altra voglio che venghi; né fia fermamente senza utile il nostro andare. —
- Io allora, queste parole udendo, quasi dubbiosa non nel mezzo della nostra dimora tornasse il caro amante, e cosí nol vedessi, lungamente penai a rispondere; ma poi, vedendo il suo piacere, immaginando che, vegnendo egli, esso dove che io fossi verrebbe, risposi me al suo volere apparecchiata, e cosí v’andammo.
- Oh, quanto contraria medicina operava il mio marito alle mie doglie! Quivi, posto che i languori corporali molto si curino, rade volte o non mai vi s’andò con mente sana, che con sana mente se ne tornasse, nonché l’inferme sanitá v’acquistassero. E in veritá di ciò non è maraviglia, che o il sito vicino alle marine onde, luogo natale di Venere, che il dia, o il tempo nel quale egli piú s’usa, cioè nella primavera, si come a quelle cose piú atto, che il faccia, non so: ma per quello che giá molte volte a me paruto ne sia, quivi eziandio le piú oneste donne, posposta alquanto la donnesca vergogna, piú licenza in qualunque cosa mi pareva si convenisse, che in altra parte; né io sola di cotale oppinione sono, ma quasi tutti quelli che giá vi sono costumati. Quivi la maggior parte del tempo ozioso trapassa, e qualora piú è messo in esercizio, si è in amorosi ragionamenti, o le donne per sé, o mescolate co’ giovani; quivi non s’usano vivande se non dilicate, e vini per antichitá nobilissimi, possenti non che ad eccitare la dormente Venere, ma risuscitare la morta in ciascuno uomo; e quanto ancora in ciò la virtú de’ bagni diversi adoperi, quegli il può sapere che l’ha provato; quivi i marini liti e i graziosi giardini e ciascun’altra parte sempre di varie feste, di nuovi giuochi, di bellissime danze, d’infiniti strumenti, d’amorose canzoni, cosí da giovani come da donne fatti, suonate e cantate risuonano. Tengasi adunque chi può quivi, tra tante cose, contra Cupido, il quale quivi, per quello che io creda, sí come in luogo principalissimo de’ suoi regni, aiutato da tante cose, con poca fatica usa le forze sue.
- In cosí fatto luogo, o pietosissime donne, mi solea il mio marito menare a guarire dell’amorosa febbre; nel quale, poi pervenimmo, non usò Amore vêr me altro modo che vêr l’altre facesse; anzi l’anima che presa piú pigliare non si potea, alquanto, certo assai poco, rattiepidita, e per lo lungo dimorare lontano a me che Panfilo fatto aveva, e per molte lagrime e dolori sostenuti, raccese in sí gran fiamma, che mai tale non mi ve la pareva avere avuta. E ciò non solamente dalle predette cagioni procedeva, ma il ricordarmi quivi molte volte essere stata da Panfilo accompagnata, amore e dolore, vedendomivi senza esso, senza dubbio nessuno mi cresceva. Io non vedea né monte né valle alcuna, che io da molti e da lui accompagnata, quando le reti portando, e quando i cani menando, ponendo insidie alle selvatiche bestie, e pigliandone, non conoscessi per testimonio e delle mie e delle sue allegrezze essere stata. Niuno lito, né scoglio, né isoletta ancora si vedea, che io non dicessi: «Qui fui io con Panfilo, e cosí mi disse, e cosí quivi facemmo». Similmente niun’altra cosa vedere vi potea, che prima non mi fosse cagione di ricordarmi con piú efficacia di lui, e poi di piú fervente disio di rivederlo o quivi o in altra parte, e ritornare in ieri.
- Come al caro marito aggradiva, cosí quivi varii diletti a prendere si cominciarono. Noi alcuna volta, levati prima che il giorno chiaro apparisse, saliti sopra i portanti cavalli, quando con cani e quando con uccelli e quando con amenduni, ne’ vicini paesi di ciascuna caccia copiosi, ora per l’ombrose selve e ora per gli aperti campi, solleciti n’andavamo; e quivi varie caccie vedendo, ancora che esse molto rallegrassero ciascuno altro, in me sola alquanto minuivano il mio dolore. E come alcuno bello volo o notabile corso vedeva, cosí mi ricorreva alla bocca: «O Panfilo, ora fossi tu qui a vedere, come giá fosti!». Oimè! che infino a quel punto alquanto avendo con meno noia sostenuto il riguardare e l’operare, per tale ricordarmi quasi vinta nel nascoso dolore, ogni cosa lasciava stare. Oh, quante volte e’ mi ricorda che in tale accidente giá l’arco mi cadde e le saette di mano, nel quale, né in reti distendere o in lasciare cani, niuna che Diana seguisse fu piú di me ammaestrata giammai. E non una volta, ma molte, nel piú spesso uccellare qualunque uccello si fu a ciò convenevole, quasi essendo io a me medesima uscita di mente, non lasciandolo io, si levò volando dalle mie mani; di che io, giá in ciò studiosissima, quasi niente curava. Ma poi che ciascuna valle e ogni monte, e li spaziosi piani erano da noi ricercati, di preda carichi i miei compagni e io a casa ne tornavamo, la quale lieta per molte feste e varie trovavamo le piú volte.
- Noi alcuna volta sotto gli altissimi scogli sopra il mare estendentisi e facienti ombra graziosissima, sulle arene poste le mense con compagnia di donne e di giovani grandissima mangiavamo. Né prima eravamo da quelle levate, che sonantisi diversi strumenti, i giovani varie danze incominciavano, nelle quali me medesima, quasi sforzata, alcuna volta convenne pigliare; ma in esse, sí per l’animo non a quelle conforme, e sí per lo corpo debole, per piccolo spazio durava; per che indietro trattami, sopra gli stesi tappeti con alcune altre mi ponea a sedere. Quivi ad un’ora i suoni ascoltando entranti con dolci note nell’animo mio, e a Panfilo pensando, discorde, festa con noia comprendo; perciò che i piacevoli suoni ascoltando, in me ogni tramortito spiritello d’amore fanno risuscitare, e nella mente tornare i lieti tempi, ne’ quali io al suono di quelli variamente con arte non picciola, in presenza del mio Panfilo laudevolmente soleva operare, ma quivi Panfilo non vedendo, volentieri, con tristi sospiri, pianti l’averei dolentissima, se convenevole mi fasse paruto. E oltre a ciò, questo medesimo le varie canzoni quivi da molte cantate mi solevano fare; delle quali se forse alcuna n’era conforme alli miei mali, l’ascoltava intentissima, di saperla disiderando, acciò che poi fra me ridicendola, con piú ordinato parlare e piú coperto mi sapessi e potessi in pubblico alcuna volta dolere, e massimamente di quella parte de’ danni miei che in essa si contenesse.
- Ma poi che le danze in molti giri volte e reiterate hanno le giovani donne rendute stanche, tutte postesi con noi a sedere, piú volte avvenne che i giovani vaghi, di sé d’intorno a noi accumulati, quasi facevano una corona, la quale mai né quivi né altrove avvenne che io vedessi, che ricordandomi del primo giorno, nel quale Panfilo a tutti dimorando di dietro, mi prese, che io invano non levassi piú volte gli occhi fra loro rimirando, quasi tuttavia sperando in simile modo Panfilo rivedere. Tra questi adunque mirando, vedea alcuna volta alcuni con occhi intentissimi mirare il suo disio, e io in quegli atti sagacissima per addietro con occhio perplesso ogni cosa mirava, e conosceva chi amava e chi scherniva; e talora l’uno laudava e talora l’altro, e in me diceva talvolta che il mio migliore sarebbe stato se cosí io come quelle facevano avessi fatto, servando l’anima libera come quelle gabbando servavano; poi dannando cotal pensiero, piú essendo contenta, se essere si può contenta di male avere, se non d’avere fedelmente amato. Ritorno adunque e gli occhi e ’l pensiero agli atti vaghi de’ giovani amanti, e quasi alcuna consolazione prendendo di quelli, li quali ferventemente amare discerno piú con meco stessa di ciò li commendo, e quelli lungamente con intero animo avendo mirati, cosí fra me medesima tacita incomincio:
- «O felici voi a’ quali, come a me, non è tolta la vista di voi stessi! Oimè! che cosí come voi fate, soleva io per addietro fare. Lunga sia la vostra felicitá, acciò che io sola di miseria possa esemplo rimanere a’ mondani. Almeno, se Amore, faccendoni mal contenta della cosa amata da me, sará cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirá che io, come Dido, con dolorosa fama diventerò eterna».
- E questo detto, tacendo torno a riguardare quello che diversi diversamente adoperino. Oh quanti giá in simili luoghi ne vidi, li quali dopo avere mirato, e non avendo la loro donna veduta, reputando meno che bello il festeggiare, malinconosi si partivano! De’ quali alcuno, avvegna che debole, riso, nel mezzo de’ miei mali trovava luogo, veggendomi compagnia ne’ dolori, e conoscendo per li miei mali stessi li guai altrui.
- Adunque, carissime donne, cosí disposta, quale le mie parole dimostrano, m’aveano li dilicati bagni, le faticose caccie e li marini liti d’ogni festa ripieni: per che dimostrando il mio pallido viso, li sospiri continui e il cibo parimente col sonno perduti, allo ingannato marito e alli medici la mia infermitá non curabile, quasi della mia vita disperandosi, alla cittá lasciata ne tornavamo; nella quale la qualitá del tempo molte e diverse feste apprestate, con quelle, cagioni di varie angoscie m’apparecchiava. Egli avvenne, non una volta ma molte, che dovendo novelle spose andare a’ loro mariti, primieramente io, o per parentado stretto, o per amistá, o per vicinanza fui invitata alle nuove nozze, alle quali andare piú volte mi costrinse il mio marito, credendosi in cotale guisa la manifesta mia malinconia alleggiare. Adunque in questi cosí fatti giorni li lasciati ornamenti mi convenia ripigliare, e i negletti capelli, d’oro per addietro da ognuno giudicati, allora quasi a cenere simili divenuti, come io poteva in ordine rimetteva. E ricordandomi con piú piena memoria, a cui essi oltre ad ogni altra bellezza soleano piacere, con nuova malinconia riturbava il turbato animo; e alcuna volta avendo io me medesima obliata, mi ricorda che non altramente che da infimo sonno rivocata dalle mie serve, ricogliendo il caduto pettine, ritornai al dimenticato uficio. Quindi volendomi, sí come usanza è delle giovani donne, consigliare col mio specchio de’ presi ornamenti, vedendomi in esso orribile quale io era, avendo nella mente la forma perduta, quasi non quella la mia che nello specchio vedeva, ma d’alcuna infernal furia pensando, intorno volgendomi, dubitava. Ma pure, poi che ornata era, non dissimile alla qualitá dell’animo con l’altre andava alle liete feste, liete dico per l’altre, ché, come colui sa a cui niuna cosa è nascosa, nulla ne fu mai, dopo la partita del mio Panfilo, che a me non fosse di tristizia cagione.
- Pervenute adunque alli luoghi diputati alle nozze, ancora che diversi e in diversi tempi fossero, non altramente che in una sola maniera mi videro, cioè con viso infinto, qual io poteva, ad allegrezza, e con l’animo al tutto disposto a dolersi, prendendo cosí dalle liete cose come dalle triste che gli avveniano, cagione alla sua doglia. Ma poi che quivi dall’altre con molto onore ricevute eravamo, l’occhio disideroso non di vedere ornamenti, de’ quali li luoghi tutti risplendevano, ma se stesso col pensiero ingannando se forse quivi Panfilo vedesse, come piú volte giá in simile luogo veduto aveva, intorno solea girare; e non vedendolo, come fatta piú certa di ciò di che io prima era certissima, quasi vinta, con l’altre mi poneva a sedere, rifiutando gli offerti onori, non vedendovi io colui per lo quale essere mi soleano cari. E poi che la nuova sposa era giunta, e la pompa grandissima delle mense celebrata si toglieva via, come le varie danze, ora alla voce d’alcuno cantante guidate e ora al suono di diversi strumenti menate, erano cominciate, risonando ogni parte della sposaresca casa di festa, io, acciò che non isdegnosa, ma urbana paressi, data alcuna volta in quelle, mi riponeva a sedere entrando in nuovi pensieri.
- Egli mi ritornava a mente quanto solenne fosse stata quella festa, la quale a questa simile giá per me s’era fatta, nella quale io semplice e libera senza alcuna malinconia lieta mi vidi onorare, e quelli tempi con questi altri misurando in me medesima, e oltremodo veggendoli variati, con sommo disio, se il luogo conceduto l’avesse, provocata era a lagrimare. Correvami ancora nell’animo con pensiero prontissimo, veggendo li giovani parimente e le donne far festa, quant’io giá in simili luoghi, il mio Panfilo me mirando, con atti varii e maestrevoli a cotali cose, festeggiato avessi; e piú meco della cagione del far festa, che tolta m’era, che del non far festa medesimo mi doleva. Quindi orecchie porgendo a’ motti, alle canzoni e alli suoni, ricordandomi de’ preteriti, sospirava, e con infinto piacere, disiderando la fine di cotale festa, meco medesima mal contenta con fatica passava. Nondimeno, riguardando ogni cosa, essendo intorno alle riposanti donne la moltitudine de’ giovani a rimirarle sopravvenuti, manifestamente scorgea molti di quelli, o quasi tutti, in me rimirare alcuna volta, e quale una cosa del mio aspetto, e quale un’altra fra sé tacito ragionava, ma non sí, che de’ loro occulti parlari, o per immaginazione o per udita, non pervenissero gran parte alle mie orecchie. Alcuni l’uno verso l’altro dicevano:
- — Deh, guarda quella giovane, alla cui bellezza nulla ne fu nella nostra cittá simigliante, e ora vedi quale ella è divenuta! Non miri tu come ella ne’sembianti pare sbigottita, quale che la cagione si sia? —
- E detto questo, mirandomi con atto umilissimo quasi dalla compassione delli miei mali compunti, partendosi, me di me lasciavano piú che l’usato pietosa. Altri intra sé dimandavano: «Deh, è questa donna stata inferma?», e poi a se medesimi rispondevano: «Egli mostra di sí, sí è magra tornata e iscolorita; di che egli è gran peccato, pensando alla sua smarrita bellezza». Certi ve n’erano di piú profondo conoscimento, il che mi dolea, li quali dopo lungo parlare dicevano:
- — La pallidezza di questa giovane dá segnali d’innamorato cuore. E quale infermitá mai alcuno assottiglia, come fa il troppo fervente amore? Veramente ella ama, e se cosí è, crudele è colui che a lei è di sí fatta noia cagione, per la quale essa cosí s’assottigli. —
- Quando questo avvenne, dico che io non potei ritenere alcuno sospiro, vedendo di me molta piú pietá in altrui che in colui che ragionevolmente avere la dovria. E dopo li mandati sospiri, con voce tacita pregai per li coloro beni umilemente gl’iddii. E certo egli mi ricorda la mia onestá avere avute tra quelli che cosí ragionavano tante forze che alcuni mi scusavano, dicendo:
- — Cessi Iddio che questo di questa donna si creda, cioè che amore la molesti; ella, piú che alcuna altra onesta, mai di ciò non mostrò sembiante alcuno, né mai ragionamento nessuno tra gli amanti si potè di suo amore ascoltare: e certo egli non è passione da potere lungamente occultare. —
- «Oimè!» diceva io allora fra me medesima «quanto sono costoro lontani alla veritá, me innamorata non reputando, perciò che come pazza negli occhi e nelle bocche de’ giovani non metto li miei amori, come molte altre fanno!»
- Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovani nobili, e di forma belli, e d’aspetto piacevoli, li quali per addietro piú volte con atti e modi diversi tentati aveano gli occhi miei, ingegnandosi di trarre quelli a’ loro disii. Li quali poi che me cosí diforme un pezzo aveano mirata, forse contenti che io non gli avessi amati, si dipartivano dicendo: «Guasta è la bellezza di questa donna».
- Perché nasconderò io a voi, o donne, quel che non solamente a me, ma generalmente a tutte dispiace d’udire? Io dico che, ancora che ’l mio Panfilo non fosse presente, per lo quale era a me sommamente cara la mia bellezza, con gravissima puntura di cuore, d’avere quella perduta ascoltava. Oltre a queste cose ancora mi ricordo io essermi alcuna volta in cosí fatte feste avvenuto che io in cerchio con donne d’amore ragionanti mi sono ritrovata lá dove con disiderio ascoltando quali gli altrui amori siano stati, agevolmente ho compreso niuno sí fervente né tanto occulto né con sí grievi affanni essere stato come il mio, avvegna che de’ piú felici e de’ meno onorevoli il numero ne sia grande. Adunque in cotal guisa una volta mirando, e un’altra ascoltando ciò che nelli luoghi ne’ quali stava s’adoperava, pensosa passava il discorrevole tempo.
- Essendo adunque per alcuno spazio le donne, sedendosi, riposate, m’avvenne alcuna volta che, rilevatesi esse alle danze, avendo me piú volte a quelle invitata indarno, e dimorando esse e li giovani parimente in quelle, con cuore d’ogni altra intenzione vacuo, molto attente, quale forse da vaghezza di dimostrare sé in quelle essere maestra, e quale dalla focosa Venere a ciò sospinta, io quasi sola rimasa a sedere, con isdegnoso animo li nuovi atti e le qualitá di molte donne mirava. E certo d’alcune avvenne che io le biasimai, benché sommamente disiderassi, se essere fosse potuto, di fare io, se il mio Panfilo fosse stato presente; il quale tante volte quante a mente mi tornava o torna, tante di nuova malinconia m’era ed è cagione: il che, come Iddio sa, non merita il grande amore ch’io gli porto e ho portato.
- Ma poi che quelle danze con gravissima noia di me alcuna volta per lungo spazio rimirate avea, essendomi divenute per altro pensiero tediose, quasi da altra sollecitudine mossa, del pubblico luogo levatami, volonterosa di sfogare il raccolto dolore, se fatto mi veniva acconciamente, in parte solitaria me n’andava; e quivi dando luogo alle volonterose lagrime, delle vanitá vedute alli miei folli occhi rendea guiderdone. Né quelle senza parole accese d’ira uscivano fuori, anzi, conoscendo io la misera mia fortuna, verso lei mi ricorda d’avere alcuna volta cosí parlato:
- «O Fortuna10, spaventevole nemica di ciascuno felice, e de’ miseri singulare speranza, tu, permutatrice de’ regni e de’ mondani casi adducitrice, sollevi e avvalli con le tue mani, come il tuo indiscreto giudicio ti porge; e non contenta d’essere tutta d’alcuno, o in uno caso l’esalti, o in uno altro il deprimi, o dopo alla data felicitá aggiugni agli animi nuove cure, acciò che i mondani in continue necessitá dimorando, secondo il parere loro, te sempre prieghino, e la tua deitá orba adorino. Tu, cieca e sorda, li pianti de’ miseri rifiutando, con gli esaltati ti godi, li quali te ridente e lusingando abbracciando con tutte le forze, con inopinato avvenimento da tesi trovano prostrati, e allora miseramente te conoscono aver mutato viso. E di questi cotali io misera mi trovo, né so quale inimicizia o cosa da me commessa inverso te a ciò t’inducesse, o mi ci noccia. Oimè! chiunque nelle grandi cose si fida, e potente signoreggia negli alti luoghi, l’animo credulo dando alle cose liete, riguardi me, d’alta donna picciolissima serva tornata, e peggio, che disdegnata sono dal mio signore, e rifiutata. Tu non desti mai, o Fortuna, piú ammaestrevole esemplo di me de’ tuoi mutamenti, se con sana mente si riguarderá. Io da te, o Fortuna mutabile, nel mondo ricevuta fui in copiosa quantitá de’ tuoi beni, se la nobiltá e le ricchezze sono di quelli, sí come io credo; e oltre a ciò in quelle cresciuta fui, né mai ritraesti la mano. Queste cose certo continuamente magnanima possedei, e come mutabili le trattai, e oltre alla natura delle temine, liberalissimamente l’ho usate.
- «Ma io, ancora nuova, te delle passioni dell’animo donatrice non sappiendo che tanta parte avessi ne’ regni d’Amore, come volesti, m’innamorai, e quello giovane amai, il quale tu sola, e altri no, parasti davanti agli occhi miei allora che io piú ad innamorare mi credea essere lontana. Il piacere del quale poi che nel cuore con legame indissolubile mi sentisti legato, non stabile,’piu volte hai cercato di farmene noia; e alcuna volta hai li vicini animi con vani e ingannevoli ingegni sommossi, e talvolta gli occhi, acciò che palesato nocesse il nostro amore. E piú volte, sí come tu volesti, sconcie parole dell’amato giovane alli miei orecchi pervennero, e alli suoi di me sono certa che facesti pervenire, possibili, essendo credute, a generare odio; ma esse non vennero mai al tuo intendimento seconde, ché, posto che tu, dèa, come ti piace guidi le cose esteriori, le virtú dell’anima non sono sottoposte alle tue forze: il nostro senno continuamente in ciò t’ha soperchiata. Ma che giova però a te opporsi? A te sono mille vie da nuocere a’ tuoi nemici, e quello che per diritto non puoi, conviene che per obliquo forniscili. Tu non potesti ne’ nostri animi generare nimicizia, e ’ngegnastiti di mettervi cosa equivalente, e oltre a ciò gravissima doglia e angoscia.
- «I tuoi ingegni, per addietro rotti col nostro senno, si risarcirono per altra via, e inimica a lui parimente e a me, con li tuoi accidenti porgesti cagione di dividere da me l’amato giovane con lunga distanza. Oimè! quando avrei io potuto pensare che in luogo a questo tanto distante e da questo diviso da tanto mare, da tanti monti e valli e fiumi, dovesse nascere, te operante, la cagione de’ miei mali? Certo non mai, ma pure è cosí; ma con tutto questo, avvegna che egli sia lontano a me, e io a lui, non dubito che egli m’ami, sí come io lui, il quale io sopra tutte le cose amo. Ma che vale questo amore ad effetto piú che se fossimo nemici? Certo niuna cosa: dunque al tuo contrasto niente valse il senno nostro. Tu in siememente con lui ogni mio diletto, ogni mio bene e ogni mia gioia te ne portasti, e con questi le feste, li vestimenti, le bellezze e ’l vivere lieto, in luogo de’ quali pianti, tristizia e intollerabile angoscia lasciasti; ma certo che io non l’ami non m’hai tu potuto tôrre, né puoi. Deh, se io giovane ancora avea contro alla tua deitá commessa alcuna cosa, l’etá semplice mi dovea rendere scusata. Ma se tu pure di me volevi vendetta, perché non l’operavi tu nelle tue cose? Tu ingiusta hai messa la tua falce nell’altrui biade. Che hanno le cose d’amore a fare con teco? A me sono altissime case e belle, ampissimi campi e molte bestie, a me tesori conceduti dalla tua mano; perché in queste cose, o con fuoco o con acqua, o con rapina, o con morte non si distese la tua ira? Tu m’hai lasciate quelle cose che alla mia consolazione non possono valere, se non come a Mida la ricevuta grazia11 da Bacco alla fame, e haitene portato colui solo, il quale io piu che tutte l’altre cose avea caro.
- «Ahi, maladette siano l’amorose saette, le quali ardirono di prendere vendetta di Febo12, e da te tanta ingiuria sostengono! Oimè! che se esse t’avessero mai punta, come elle pungono ora me, forse tu con piú diliberato consiglio offenderesti agli amanti. Ma, ecco, tu m’hai offesa, e a quello condotta che io ricca, nobile e possente, sono la piú misera parte della mia terra, e ciò vedi tu manifesto. Ogni uomo si rallegra e fa festa, e io sola piango; né questo ora solamente comincia, anzi è lungamente durato tanto, che la tua ira doveria essere mitigata. Ma tutto il ti perdòno, se tu solamente, di grazia, il mio Panfilo, come da me il dividesti, con meco il ricongiungi; e se forse ancora la tua ira pur dura, sfoghisi sopra il rimanente delle mie cose. Deh, increscati di me, o crudele! vedi che io sono divenuta tale che quasi come favola del popolo sono portata in bocca, dove con solenne fama la mia bellezza soleva essere narrata. Comincia ad essere pietosa verso di me, acciò che io, vaga di potermi di te lodare, con parole piacevoli onori la tua maestá, alla quale, se benigna mi torni nel dimandato dono, infino ad ora prometto, e qui sieno testimonii gl’iddíi, di porre la mia immagine ornata quando potrassi ad onore di te, in qualunque tempio piú ti fia caro, e quella, con versi soscritti che diranno: Questa è Fiammetta dalla Fortuna di miseria infima recata in somma allegrezza, si vedrá da tutti».
- Oh quante piú altre cose ancora dissi piú volte, le quali lungo e tedioso sarebbe il raccontarle, ma tutte, brievemente, in amare lagrime terminavano, delle quali alcuna volta avvenne che io, dalle donne sentita, con varii conforti levatane, alle festevoli danze fui rimenata a mal mio grado.
- Chi crederebbe possibile, o amorose donne, tanta tristizia nel petto capere d’una giovane che niuna cosa fosse, la quale non solamente non rallegrar la potesse, ma eziandio cagione di maggior doglia le fosse continuo? Certo egli pare incredibile a tutti, ma io misera, sí come colei che ’l pruovo, sento e conosco ciò essere vero. Egli avvenía spesse volte che essendo, sí come la stagione richiedeva, il tempo caldissimo, molte altre donne e io, acciò che piú agevolmente quello trapassassimo, sopra velocissima barca, armata di molti remi, solcando le marine onde, cantando e sonando, li rimoti scogli, e le caverne ne’ monti dalla natura medesima fatte, essendo esse e per ombra e per li venti recettissime, cercavamo. Oimè, che questi erano al corporale caldo sommissimi rimedii a me offerti, ma al fuoco dell’anima per tutto questo niuno alleggiamento era prestato, anzi piuttosto tolto; però che, cessati li calori esteriori, li quali senza dubbio alli dilicati corpi sono tediosi, incontanente piú ampio luogo si dava agli amorosi pensieri, li quali non solamente materia sostentante le fiamme di Venere sono, ma aumentante, se bene si mira.
- Venute adunque ne’ luoghi da noi cercati, e presi per li nostri diletti ampissimi luoghi, secondo che il nostro appetito richiedeva, ora qua e ora lá, e ora questa brigata di donne e di giovani, e ora quell’altra, delle quali ogni picciolo scoglietto o lito, solo che d’alcuna ombra di monte da’ solari raggi difeso fosse, erano piene, veggendo andavamo. Oh quanto e quale è questo diletto grande alle sane menti! Quivi si vedevano in molte parti le mense candidissime poste e di cari ornamenti sí belle, che solo il riguardarle aveva forza di risvegliare l’appetito in qualunque piú fosse stato svogliato; e in altra parte, giá richiedendolo l’ora, si discernevano alcuni prendere lietamente li mattutini cibi, da’ quali e noi e quale altro passava, con allegra voce alle loro letizie eravamo convitati.
- Ma poi che noi medesimi avevamo, sí come gli altri, mangiato con grandissima festa, e dopo le levate mense piú giri date in liete danze al modo usato, risalite sopra le barche, subitamente or qua e ora colá n’andavamo. E in alcuna parte cosa carissima agli occhi de’ giovani n’appariva, ciò erano vaghissime giovani in giubbe di zendado spogliate, e scalze e isbracciate nell’acqua andanti, dalle dure pietre levanti le marine conche; e a cotale uficio bassandosi, sovente le nascose delizie dell’uberifero petto mostravano. E in alcuna altra con piú ingegno, altri con reti, e quali con piú nuovi artifici, alli nascosi pesci si vedeano pescare. Che giova il faticarsi in voler dire ogni particolare diletto che quivi si prende? Egli non verrebbono meno giammai. Pensi seco chi ha intelletto, quanti e quali essi debbano essere, non andandovi, e se vi pur va, non vi si vede alcuno altro che giovane e lieto. Quivi gli animi aperti e liberi sono, e sono tante e tali le cagioni per le quali ciò avviene che appena alcuna cosa addimandata negare vi si puote. In questi cosí fatti luoghi confesso io, per non turbare le compagne, d’avere avuto viso coperto di falsa allegrezza, senza avere ritratto l’animo da’ suoi mali; la qual cosa quanto sia malagevole a fare, chi l’ha provato ne può testimonianza donare. E come potrei io nell’animo essere stata lieta ricordandomi giá e meco e senza me avere in simili diletti veduto il mio Panfilo, il quale io sentiva da me oltremodo essere lontano, e oltre a ciò senza speranza di rivederlo? Se a me non fosse stata altra noia che la sollecitudine dell’animo, la quale me continuamente teneva sospesa a molte cose, sí m’era ella grandissima, che è egli a pensare che il fervente disio di rivederlo avesse sí di me tolta la vera conoscenza, che, certamente sappiendo lui in quelle parti non essere, pur possibile che vi fosse argomentassi, e come se ciò fosse senza alcuna contradizione vero, procedea a riguardare se io il vedessi? Egli non vi rimaneva alcuna barca, delle quali quale in una parte volante e quale in un’altra, era cosí il seno di quel mare ripieno come il cielo di stelle qualora egli appare piú limpido e sereno, che io, prima a quella con gli occhi che con la persona, riguardando, non pervenissi. Io non sentiva alcuno suono di qualunque strumento, quantunque io sapessi lui se non in uno essere ammaestrato, che con gli orecchi levati non cercassi di sapere chi fosse il sonatore, sempre immaginando quello essere possibile d’essere colui il quale io cercava. Niuno lito, niuno scoglio, niuna grotta da me non cercata vi rimaneva, né ancora alcuna brigata. Certo io confesso che questa talora vana e talora infinta speranza mi toglieva molti sospiri, li quali, poi che da me era partita, quasi come se nella concavitá del mio cerebro raccolti si fossero, quelli che uscire doveano fuori, convertiti in amarissime lagrime per li miei dolenti occhi spiravano. E cosí le finte allegrezze in verissime angoscie si convertiano.
- La nostra cittá, oltre a tutte l’altre italiche, di lietissime feste abbondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con uno ora con un altro letifica la sua gente. Ma tra l’altre cose nelle quali essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare. Suole adunque essere questa a noi consuetudine antica, che poi che i guazzosi tempi del verno sono trapassati e la primavera con li fiori e con la nuova erba ha al mondo rendute le sue perdute bellezze, essendo con questo li giovaneschi animi per la qualitá del tempo raccesi e piú che l’usato pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li di piú solenni alle logge de’ cavalieri le nobili donne, le quali, ornate delle loro gioie piú care, quivi s’adunano. Né credo che piú nobile o ricca cosa fosse a riguardare le nuore di Priamo con l’altre frigie donne, qualora piú ornate davanti al suocero loro a festeggiare s’adunavano, che sono in piú luoghi della nostra cittá le nostre cittadine a vedere; le quali poi che alli teatri in grandissima quantitá ragunate si veggono, ciascuna quanto il suo potere si stende dimostrandosi bella, non dubito che qualunque forestiere intendente sopravvenisse, considerate le contenenze altiere, li costumi notabili, gli ornamenti piuttosto reali che convenevoli ad altre donne, non giudicasse noi non donne moderne, ma di quelle antiche magnifiche essere al mondo tornate: quella per alterezza, dicendo, Semiramis somigliare13; quell’altra, agli ornamenti guardando, Cleopatras14 si crederebbe; l’altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe dissimigliare a Didone.
- Perché andrò io somigliandole tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestá, non che d’umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, piú volte udii tra li giovani quistionare, a quale io fossi piú da essere assomigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna Venere15, dicenti alcuni di loro essere troppo assomigliarmi a dea, e altri rispondenti in contrario, essere poco il somigliarmi a femina umana. Quivi, tra cotanta e cosí nobile compagnia non lungamente si siede, né vi si tace, né mormora; ma stanti gli antichi uomini a riguardare, li chiari giovani, prese le donne per le dilicate mani, danzando, con altissime voci cantano i loro amori; e in cotal guisa con quante maniere di gioia si possono divisare, la calda parte del giorno trapassano. E poi che ’l sole ha cominciato a dare piú tiepidi li suoi raggi, si veggono quivi venire gli onorevoli principi del nostro Ausonico regno, in quell’abito che alla loro magnificenza si richiede; li quali, poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le loro danze, quasi con tutti li giovani cosí cavalieri come donzelli partendosi, dopo non lungo spazio in abito tutto al primo contrario con grandissima comitiva ritornano.
- Quale lingua sí d’eloquenza splendida, o sí di vocaboli eccellenti facunda sarebbe quella che interamente potesse li nobili abiti e di varietá pieni interamente narrare? Non il greco Omero, non il latino Virgilio, li quali tanti riti di Greci, di Troiani e d’italici giá ne’ loro versi descrissero. Lievemente adunque, a comparazione del vero, m’ingegnerò di farne alcuna particella a quelle che non gli hanno veduti palese. E ciò non fia nella presente materia dimostrato invano; anzi si potrá per le savie comprendere la mia tristizia essere oltre a quella d’ogni altra donna preterita o presente continua, poi la dignitá di tante e si eccelse cose vedute non l’hanno potuta intrarompere con alcuno lieto mezzo. Dico, adunque, al proposito ritornando, che li nostri principi sopra cavalli tanto nel correre veloci, che non che gli altri animali, ma li venti medesimi, quantunque piú si crede festino, di dietro correndo si lascerieno, vengono, la cui giovanetta etá, la speziosa bellezza, e la virtú espettabile d’essi, graziosi li rende oltre modo a’ riguardanti. Essi di porpora o di drappi dalle indiane mani tessuti con lavori di colori varii e d’oro intermisti, e oltre a ciò soprapposti di perle, e di care pietre vestiti, e i cavalli coverti, appariscono; de’ quali i biondi crini penduli sopra li candidissimi omeri, da sottiletto cerchiello d’oro, o da ghirlandetta di fronda novella sono sopra la testa ristretti; quindi la sinistra un leggerissimo scudo, e la destra mano arma una lancia, e al suono delle tostáne trombe l’uno appresso l’altro, e seguiti da molti, tutti in cotale abito cominciano davanti alle donne il giuoco loro, colui lodando piú in esso, il quale con la lancia piú vicino alla terra con la sua punta, e meglio chiuso sotto lo scudo, senza muoversi sconciamente, dimora correndo sopra il cavallo.
- A queste cosí fatte feste, e piacevoli giuochi, come io solea, ancora, misera, sono chiamata; il che senza grandissima noia di me non avviene, perciò che, queste cose mirando, mi torna a mente d’avere giá, intra li nostri piú antichi e per etá reverendi cavalieri, veduto sedere il mio Panfilo a riguardare, la cui sufficienza alla sua etá giovinetta impetrava sí fatto luogo. E alcuna volta fu che, stante egli non altramente che Daniello tra gli antichi sacerdoti ad esaminare la causa di Susanna, intra li predetti cavalieri togati, de’ quali per autoritá alcuno Scevola somigliava16, e alcuno altro per la sua gravezza si saria detto il censorino Catone, o l’Uticense17, e alcuni si nel viso appariano favorevoli, che appena altramente si crede che fosse il Magno Pompeo, e altri, piú robusti, fingono Scipione Africano18, o Cincinnato19, rimirando essi parimente il correre di tutti, e quasi delli loro piú giovani anni rimemorandosi, tutti fremendo, or questo or quell’altro commendavano, affermando Panfilo i detti loro, al quale io alcuna volta, ragionando esso con essi, quanti ne correvano udii agli antichi cosí giovani, come valorosi vecchi assomigliare.
- Oh quanto m’era ciò caro ad udire, sí per colui che ’l diceva, e sí per quelli che ciò ascoltavano intenti, e sí per li miei cittadini, de’ quali era detto certo tanto, che ancora m’è caro il rammentarlo! Egli soleva delli nostri principi giovanetti, li quali nel li loro aspetti ottimamente li reali animi dimostravano, alcuno dire essere ad Arcadio Partenopeo20 simigliarne, del quale non si crede che altro piú ornato all’assedio di Tebe venisse che esso fu dalla madre mandato, essendo egli ancora fanciullo; l’altro appresso il piacevole Ascanio21 parere confessava, del quale Virgilio tanti versi, d’ottima testificanza del giovanetto descrisse; il terzo comparando a Deifebo22; il quarto per bellezza a Ganimede. Quindi alla piú matura turba che loro seguiva vegnendo, non meno piacevoli simiglianze donava. Quivi venente alcuno colorito nel viso con rossa barba e bionda chioma sopra gli omeri candidi ricadente, e non altramente che Ercule23 fare solesse, ristretta da verde fronda in ghirlanderá protratta assai sottile, vestito di drappi sottilissimi serici, non occupanti piú spazio che la grossezza del corpo, ornati di lavori varii fatti da maestra mano, con un mantello sopra la destra spalla con fibula d’oro ristretto, e con iscudo coperto il manco lato, portando nella destra un’asta lieve quale all’apparecchiato giuoco conviensi, ne’ suoi modi simile il diceva al grande Ettore24; appresso al quale traendosi un altro avanti in simile abito ornato, e con viso non meno ardito, avendo del mantello l’un lembo sopra la spalla gittatosi, con la sinistra maestrevolmente reggendo il cavallo, quasi un altro Achille25 il giudicava; seguendone alcuno altro, pallando la lancia, e postergato lo scudo, li biondi capelli avendo legati con sottile velo forse ricevuto dalla sua donna, Protesilao26 gli si udia chiamare; quindi seguendone un altro con leggiadro cappelletto sopra i capelli, bruno nel viso, e con barba prolissa, e nell’aspetto feroce, nomava Pirro27; e alcuno piú mansueto nel viso, biondissimo e pulito, e piú che altro ornatissimo, lui credere il troiano Paris, o Menelao28 dicea possibile. Egli non è di necessitá il piú in ciò prolungare la mia novella: egli nella lunghissima schiera mostrava Agamennone29, Aiace30, Ulisse, Diomedes, e qualunque altro greco, frigio o latino fu degno di lode. Né poneva a beneplacito cotali nomi, anzi con ragioni accettevoli fermando li suoi argomenti sopra le maniere de’ nominati, loro debitamente assomigliati mostrava: per che, non era l’udire cotali ragionamenti meno dilettevole, che il vedere coloro medesimi di cui si parlava.
- Essendo adunque la lieta schiera due o tre volte, cavalcando con picciolo passo, dimostratasi a’ circustanti, cominciavano i loro aringhi; e diritti sopra le staffe, chiusi sotto gli scudi, con le punte delle lievi lance tuttavia egualmente portandole quasi rasente terra, velocissimi piú che aura alcuna, corrono i loro cavalli; e l’aere esultante per le voci del popolo circustante, per li molti sonagli, per li diversi strumenti, e per la percossa del riverberante mantello del cavallo e di sé, a meglio e piú vigoroso correre li rinfranca. E cosí tutti veggendoli, non una volta ma molte, degnamente ne’ cuori de’ riguardanti si rendono laudevoli. Oh, quante donne, quale il marito, quale l’amante, quale lo stretto parente veggendo tra questi, ne vidi giá piú fiate sommissimamente rallegrare! Certo assai, e non che esse, ma ancora le strane. Io sola, ancora che ’l mio marito vi vedessi o vi veggia, e con esso i miei parenti, dolente li riguardava, Panfilo non veggendovi, e lui essere lontano ricordandomi. Deh, or non è questa mirabile cosa, o donne, che ciò ch’io veggio mi sia materia di doglia, né mi possa rallegrare cosa alcuna? Deh, quale anima è in inferno con tanta pena, che, queste cose veggendo, non dovesse sentire allegrezza? Certo niuna, credo. Esse, pur prese dalla piacevolezza della cetera d’Orfeo31, obliarono per alquanto spazio le pene loro; ma io tra mille strumenti, tra infinite allegrezze, e in molte e varie maniere di feste, non posso la mia pena, non che dimenticare, ma solamente un poco alleviare.
- E posto che io alcuna volta a queste feste o a simiglianti con infinto viso la celi, e dèa sosta a’ sospiri, la notte poi, o qualora soletta trovandomi prendo spazio, non perdona parte delle sue lagrime, anzi piú tante ne verso, quanti per avventura ho il giorno risparmiati sospiri. E inducendomi queste cose in piú pensieri, e massimamente in considerare la loro vanitá, piú possibile a nuocere che a giovare, sí come io manifestamente, provandolo, conosco, alcuna volta, finita la festa e da quella partitami, meritamente contra alle mondane apparenze crucciandomi, cosí dissi:
- «Oh, felice colui32 il quale innocente dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere, e lacciuoli a’ semplici uccelli, da affanno nell’animo essere stimolato non puote, e se grave fatica per avventura nel corpo sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in questo lito del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li luoghi suoi, ne’ quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento, quasi fermo tenenti alle loro note! Deh, cotale vita, o fortuna, avessi tu a me conceduta, alla quale le tue disiderate larghezze sono di sollecitudine assai dannosa! Deh, a che mi sono utili gli alti palagi, i ricchi letti e la molta famiglia, se l’animo da ansietá è occupata, errando per le contrade da lui non conosciute dietro a Panfilo, non concedendo a’ lassi membri quiete alcuna?
- «Oh come è dilettevole, e quanto è grazioso con tranquillo e libero animo il premere le ripe de’ trascorrenti fiumi, e sopra i nudi cespiti menare li lievi sonni, li quali il fuggente rivo con mormorevoli suoni e dolci senza paura nutrica! Questi senza alcuna invidia sono conceduti al povero abitante le ville, molto piú da disiderare che quelli, li quali, allettati con piú lusinghe sovente o da pronte sollecitudini cittadine o da strepiti di tumultuante famiglia sono rotti. La costui fame, se forse alcuna volta lo stimola, li colti pomi nelle fedelissime selve raccolti la scacciano, e le nuove erbette di loro propria volontá fuori della terra uscite sopra li piccioli monti ancora gli ministrano saporosi cibi. Oh quanto gli è, a temperare la sete, dolce l’acqua della fonte presa e del rivo con concava mano. Oh infelice sollecitudine de’ mondani, a sostentamento de’ quali la natura richiede e apparecchia leggierissime cose! Noi nell’infinita moltitudine di cibi la sazietá del corpo crediamo compiere, non accorgendoci in quelli essere le cagioni nascose, per le quali gli ordinati umori spesse volte sono piuttosto corrotti che sostentati; e alli lavorati beveraggi apprestando l’oro e le cavate gemme, sovente in essi veggiamo gustare li veleni frigidissimi, e se non questi, almeno Venere pur si bee; e talvolta per quelli a sicurtá soverchia si viene, per la quale, o con parole o con fatti, misera vita o vituperevole morte s’acquista. E spesse volte avviene che, molti di quelli avendo bevuti, assai peggio che insensato corpo n’è renduto il bevitore. A costui li Satiri, li Fauni, le Driadi, le Naiadi, le Ninfe33 fanno semplice compagnia; costui non sa che si sia Venere né il suo biforme figliuolo34, e se pur la conosce, rozzissima sente la forma sua, e poco ama.
- «Deh, or fosse stato piacere d’Iddio, che io similmente mai conosciuta l’avessi, e da semplice compagnia visitata, rozza mi fossi vivuta! Io sarei lontana da queste insanabili sollecitudini che io sostengo, e l’anima insieme con la mia fama santissime non curerebbono di vedere le mondane feste simili al vento che vola, né da quelle vedute avrebbero angoscie come io ho. A costui non l’alte torri, non l’armate case, non la molta famiglia, non i dilicati letti, non i risplendenti drappi, non i correnti cavalli, non centomilia altre cose involatrici della miglior parte della vita, sono cagione d’ardente cura. Questi, de’ malvagi uomini, non cercanti ne’ luoghi rimoti e oscuri li furti loro, vive senza paura; e, senza cercare nell’altissime case i dubbiosi riposi, l’aere e la luce dimanda, e alla sua vita è il cielo testimonio. Oh, quanto è oggi cotale vita male conosciuta, e da ciascuna cacciata come nemica, dove piuttosto dovrebbe essere, come carissima, cercata da tutti! Certo io arbitro che in cotale maniera vivesse la prima etá, la quale insieme gli uomini e gl’iddii produceva. Oimè! Niuna è piú libera né senza vizio o migliore che questa, la quale li primi usarono e che colui ancora oggi usa, il quale, abbandonate le cittá, abita nelle selve. Oh felice il mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno, e ancora l’etá aurea durasse sotto caste leggi! Però che tutti alli primi simili viveremmo. Oimè! che chiunque è colui li primi riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore della non sana Venere, come io sono; né è colui che sé dispose ad abitare ne’ colli de’ monti, suggetto ad alcuno regno: non al vento del popolo, non all’infido vulgo, non alla pestilenziosa invidia, né ancora al favore fragile di fortuna, al quale io troppo fidandomi, in mezzo l’acque per troppa sete perisco. Alle picciole cose si presta alta quiete, come che grandissimo fatto sia senza le grandi potere sostenere di vivere. Quegli che alle grandissime cose soprasta, o disidera soprastare, seguita li vani onori delle trascorrenti ricchezze; e certo le piú volte alli falsi uomini piacciono gli alti nomi, ma quegli è libero da paura e da speranza, né conosce il nero lividore dell’invidia divoratrice e mordente con dente iniquo, che abita le solitarie ville, né sente gli odii varii, né gli amori incurabili, né li peccati de’ popoli mescolati alle cittadi, né, come conscio di tutti gli strepiti ha dottanza, né gli è a cura il comporre fittizie parole, le quali lacci sono ad irretire gli uomini di pura fede: ma quell’altro, mentre sta eccelso, mai non è senza paura, e quello medesimo coltello, che arma il lato suo, teme.
- «Oh quanto buona cosa è a niuno risistere, e sopra la terra giacendo, pigliare li cibi securo! Rade volte, o non mai, entrano li peccati grandissimi nelle picciole case. Alla prima etá niuna sollecitudine d’oro fu, né niuna sacrata pietra fu arbitra a dividere i campi alli primi popoli. Essi con ardita nave non secavano il mare; solamente ciascuno si conoscea li liti suoi, né li forti steccati, né li profondi fossi, né radissime mura con molte torri cignevano i lati delle cittá loro, né le crudeli armi erano acconce né trattate da’ cavalieri, né era alcuno edificio che con grave pietra rompesse le serrate porte; e se forse tra loro era alcuna picciola guerra, la mano ignuda combatteva, e li rozzi rami degli alberi e le pietre si convertivano in armi. Né ancora era la sottile e lieve asta di cornio armata di ferro nell’aguto spuntone, né la tagliente spada cigneva lato alcuno, né la comante cresta ornava i lucenti elmi; e quello che piú e meglio era a costoro, era Cupido non essere ancora nato, per la qual cosa li casti petti, poi da lui pennuto e per lo mondo volante stimolati, potevano vivere sicuri.
- «Deh, or m’avesse Iddio donata a cotal mondo, la gente del quale, di poco contenta e di niente temente, sola salvatica libidine conosceva! E se niuno di cotanti beni quanti essi possedevano non me ne fosse seguito, altro che non aver cosí affannoso amore e cotanti sospiri sentito, come io sento, si sarei io da dire piú felice che quale io sono ne’ presenti secoli pieni di tante delizie, di tanti ornamenti e di cotante feste. Oimè! che l’empio furore del guadagnare, e la strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la molesta libidine di sé accese, ruppono li primi patti cosí santi, cosí agevoli a sostenere, dati dalla natura alle sue genti. Venne la sete del signoreggiare, peccato pieno di sangue, e il minore diventò preda del maggiore, e le forze si diedero per leggi; venne Sardanapallo35, il quale Venere, ancora che dissoluta da Semiramis fosse fatta, primieramente la fe’ dilicata, dando a Cerere e a Bacco forme ancora da loro non conosciute; venne il battaglievole Marte, il quale trovò nuove arti e mille forme alla morte, e quinci le terre tutte si contaminarono di sangue, e il mare similmente ne diventò rosso. Allora senza dubbio li gravissimi peccati entrarono per tutte le case, e niuna grave scelleratezza in brieve fu senza esemplo: il fratello dal fratello, il padre dal figliuolo, il figliuolo dal padre furono uccisi; e il marito giacque per lo colpo della moglie; e l’empie madri hanno piú volte li loro medesimi parti morti. La rigidezza delle matrigne ne’ figliastri non dico, che è manifesta ciascuno giorno. Le ricchezze adunque, avarizia, superbia, invidia e lussuria, e ogni altro vizio parimente seco recarono; e con le predette cose ancora entrò nel mondo il duca e facitore di tutti li mali, e artefice de’ peccati, il dissoluto amore, per li cui assediamenti degli animi, infinite cittá cadute e arse ne fumano, e senza fine genti ne fanno sanguinose battaglie, e fecero; e li sommersi regni36 ancora priemono molti popoli. Oimè! tacciatisi tutti gli altri suoi pessimi effetti, e quelli li quali egli usa in me siano soli esempli de’ suoi mali e della sua crudeltá, la quale si agramente mi strigne, che a niuna altra cosa che a lei posso volgere la mente mia».
- Queste cose cosí fra me ragionate, alcuna volta, pensando che le cose da me operate siano appo Iddio gravi molto, e le pene a tue senza comparazione noiose, hanno forza d’alleviare alquanto le mie angoscie, in quanto li molti maggiori mali giá per altrui operati, me quasi innocente fanno apparere, e le pene da altrui sostenute, benché io non creda da nessuno cosí gravi come da me, pur veggendomi non essere prima né sola, alquanto piú forte divengo a comportarle; alle quali io sovente priego Iddio che, o con morte o con la tornata di Panfilo, ponga fine.
- A cosí fatta vita e a peggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí picciola, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sí come l’altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l’altre giovani della mia cittá di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l’antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
- — O donna, adornati; venuta è la solennitá di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento. —
- Oimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l’addentato cinghiaro alla turba de’ cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d’ogni dolcezza vòta, giá dissi:
- — Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v’è cara.—
- Oh, quante volte giá, come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per devozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla, dicendo, senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come giá feci, cerco, ma, rifiutando li giá voluti onori, umile, ne’ piú bassi luoghi tra le donne m’assetto; e quivi diverse cose, ora dall’una ora dall’altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che io vi dimoro. Oimè! quante volte giá m’ho io udito dire assai d’appresso:
- — Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare ornamento della nostra cittá, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite? —
- Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volentieri risposto:
- «Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo dipartendosi».
- Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L’una con cotali voci mi stimola:
- — O Fiammetta, senza fine di te me e l’altre donne fai maravigliare, ignorando quale, sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovane etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualitá. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d’artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata. —
- A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta:
- — Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l’anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati, per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si riechieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanitá, volonterosa d’ammendare nel cospetto d’iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri. —
- E quinci le lagrime dell’intrinseca veritá cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
- «O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m’imputare in peccato. Come tu vedi, non volontá d’ingannare, ma necessitá di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che ’l malvagio esemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m’è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso».
- Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquitá pietose lagrime ricevute, dicendo le circustanti donne me devotissima giovane di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell’animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l’opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene: ma non si puote.
- Come io ho a quella, che prima addimandata m’avea, risposto, l’altra dal mio lato, veggendo le mie lagrime rasciugare, dice:
- — O Fiammetta, dov’è fuggita la vaga bellezza del viso tuo? Dove l’acceso colore? Quale è la cagione della tua pallidezza? Gli occhi tuoi, simili a due mattutine stelle, ora intorniati di purpureo giro, perché appena nella tua fronte si scernono? E gli aurei crini con maestrevole mano ornati per addietro, ora perché chiusi appena si veggono senza alcuno ordine? Dilloci, tu ne fai senza fine maravigliare. —
- Da questa con poche parole sciogliendomi, dico:
- — Manifesta cosa è l’umana bellezza essere fiore caduco, e da un giorno ad un altro venire meno, la quale se di sé dá fidanza ad alcuna, miseramente a lungo andare se ne truova prostrata. Quegli che la mi diede, con sordo passo sottomettendomi le cagioni da cacciarla, se l’ha ritolta, possibile a renderlami, quando gli pur piacesse. —
- E questo detto, non potendo le lagrime ritenere, chiusa sotto il mio mantello, copiosamente le spando, e meco con cotali parole mi dolgo:
- «O bellezza, dubbioso bene de’ mortali, dono di picciolo tempo, la quale piú tosto vieni e partiti, che non fanno ne’ dolci tempi della primavera i piacevoli prati risplendenti di molti fiori, e gli eccelsi arbori carichi di varie frondi, li quali, ornati dalla virtú d’Ariete37, dal caldo vapor della state sono guasti e tolti via; e se forse alcuni pure ne risparmia il caldo tempo, niuno dall’autunno è risparmiato; cosí e tu bellezza, le piú volte nel mezzo de’ migliori anni da molti accidenti offesa perisci, alla quale, se forse pure ti perdona la giovinezza, la matura etá a forza te resistente ne porta. O bellezza, tu se’ cosa fugace, non altramente che l’onde mai non tornanti alle sue fonti, e in te fragile bene niuno savio si dée confidare. Oimè! quanto giá t’amai, e quanto a me misera fosti cara, e con sollecitudine riguardata, ora, e meritamente, ti maledico. Tu prima cagione de’ miei danni, e prenditrice prima dell’animo del caro amante, lui non hai avuto forza di ritenere, né lui partito di rivocare. Se tu non fossi stata, io non sarei piaciuta agli occhi vaghi di Panfilo; e, non essendo piaciuta, egli non si sarebbe ingegnato di piacere alli miei; e non essendo egli piaciuto, sí come piacque, ora non avrei queste pene. Dunque tu sola cagione e origine se’ d’ogni mio male. Oh, beate quelle che senza te li rimproveri della rustichezza sostengono! Esse caste le sante leggi osservano, e senza stimoli possono vivere con l’anime libere dal crudele tiranno Amore; ma tu a noi cagione di continuo infestamento ricevere da chi ci vede, a forza ci conduci a rompere quello che piú caramente si dée guardare. O felice Spurinna38, e degno d’eterna fama, il quale, li tuoi effetti conoscendo, nel fiore della sua gioventude da sé con mano acerba ti discacciò, eleggendo piuttosto volere da’ savii per virtuosa opera essere amato, che dalle lascive giovani per la sua concupiscevole bellezza. Oimè! Cosí avessi fatto io! Tutti questi dolori, questi pensieri e queste lagrime sarebbono lontane, e la vita per addietro corrotta ancora ne’ termini primi laudevoli si sarebbe».
- Quinci mi richiamano le donne, e biasimano le mie soperchi lagrime, dicendo:
- — O Fiammetta, che maniera è questa? Dispériti tu della misericordia di Dio? Non credi tu lui pietoso a perdonarti le piú picciole offese senza tante lagrime? Questo che tu fai è piuttosto cercare morte che perdono. Lieva su, asciuga il viso tuo, e attendi al sacrificio porto al sommo Giove dalli nostri sacerdoti. —
- A queste voci io, le lagrime restringendo, alzo la testa, la quale giá in giro non volgo come io soleva, fermamente sappiendo che quivi non è il mio Panfilo per mirarlo, né per vedere se da altrui, o da cui sono mirata, o quello che di me pare agli occhi de’ circustanti; anzi attenta a colui, che per la salute di tutti diede se medesimo, porgo pietosi prieghi per lo mio Panfilo, e per la sua tornata, con cotali parole tentandolo:
- «O grandissimo rettore del sommo cielo e generale arbitro di tutto il mondo, poni oramai alle mie gravi fatiche modo, e fine alli miei affanni. Vedi niuno giorno a me essere sicuro; continuamente il fine dell’uno male è a me principio dell’altro. Io, che giá mi dissi felice, non conoscendo le mie miserie, prima ne’ vani affanni d’ornare la mia giovinezza, piú che ’l debito ornata dalla natura, te non sapevole offendendo, per penitenza all’indissolubile amore che ora mi stimola mi sottoponesti; quinci la mente non usa a cosí gravi affanni riempiesti per quello di nuove cure, e ultimamente colui, cui io piú che me amo, da me dividesti, onde infiniti pericoli sono cresciuti l’uno dopo l’altro alla mia vita. Deh, se li miseri sono da te uditi alcuna volta, porgi li tuoi pietosi orecchi alli miei prieghi, e senza guardare a’ molti falli da me verso te commessi, i pochi beni, se mai ne feci alcuno, benigno considera, e in merito di quelli le mie orazioni e preghiere esaudisci, le quali, cose a te assai leggiere, e a me grandissime, conterranno: io non ti cerco altro, se non che a me sia renduto il mio Panfilo. Oimè! quanto e come conosco bene questa preghiera nel cospetto di te giustissimo giudice essere ingiusta!
- «Ma dalla tua giustizia medesima si dée muovere il meno male piuttosto volere che ’l maggiore. A te, a cui niente s’occulta, è manifesto a me per niuna maniera potere uscire della mente il grazioso amante né li preteriti accidenti, del quale e de’ quali la memoria a sí fatto partito mi reca con gravi dolori, che giá per fuggirli mille modi di morte ho dimandati, li quali tutti un poco di speranza, che di te m’è rimasa, m’ha levati di mano. Dunque, se minore male è il mio amante tenere, come io giá tenni, che insieme col corpo uccidere l’anima trista, sí come io credo, torni e rendamisi. Siati piú caro li peccatori vivere, e possibili a te conoscere, che morti, senza speranza di redenzione, e vogli innanzi parte che tutto perdere delle creature da te create.
- «E se questo è grave ad essermi conceduto, concedamisi quella che d’ogni male è ultimo fine, prima che io costretta da maggiore doglia, da me con diterminato consiglio la prenda. Vengano le mie voci nel tuo cospetto, le quali se te toccare non possono, o qualunque altri iddíi tenenti le celestiali regioni, s’alcuno di voi vi si truova, il quale mai, quaggiú vivendo, quell’amorosa fiamma provasse la quale io pruovo, ricevetele, e per me le porgete a colui, il quale da me non le prende, sí che impetrandomi grazia, prima quaggiú lietamente, e poi nella fine de’ miei giorni costassú con voi io possa vivere, e innanzi tratto alli peccatori dimostrare convenevole l’uno peccatore all’altro perdonare, e dare aiuto».
- Queste parole dette, odorosi incensi e degne offerte per farli abili a’ prieghi miei e alla salute di Panfilo, pongo sopra li loro altari; e, finite le sacre cerimonie, con l’altre donne partendomi, torno alla trista casa.
- ↑ [Ulisse etc.]. Qui è da sapere quello che pone Stazio nell’Achilleidos il quale scrive che da poi che Tetis ebbe partorito Achille, gittò sorti per vedere che fortuna dovea avere il detto Achille, per le quali conobbe che dovea essere morto nell’oste di Troia; e però quando venne il tempo che li Greci voleano andare a oste a Troia, essa sentendo che Achille era cercato, lo tolse da Chirone a cui l’avea dato perché l’ammaestrasse in fatto d’arme, e si lo portò nell’isola di Schiros e sí l’accomandò al padre di Deidamia e fello vestire in abito di femina acciò non si conoscesse che fosse maschio. E stando con questa Deidamia nel tempo ebbe a fare con essa e ingravidolla, della quale nacque Pirro. E sentendo li Greci che il detto Achille era nella detta isola e portava abito di femina e però non si conosceva, fûr mandati il detto Ulisse e Diomede che ’l cercassero, li quali andaro alla detta isola in forma di mercatanti, e dismontati delle navi andaro a visitare il re padre della detta Deidamia, ove portaro dilettissime gioie le quali mostraro alla detta Deidamia e alle sorelle, con le quali era Achille predetto. Ed esse prendendo gioie feminili, Achille inbracciò subito uno scuto e prese una spada in mano e cominciolla a brandire: li quali scudo e spada costoro aveano portato a studio di riconoscerlo. E cosí lo riconobbero e menaronlo via nell’oste a Troia ove fu morto.
- ↑ [al misero Edippo]. Edippo, secondo pone Seneca e Stazio, fu figlio di Laio re della cittá di Tebe, e di Giocasta sua madre, la quale essendo gravida, il detto Laio ebbe responso dalli dii che doveva partorire un figliuolo che lo dovea uccidere, e però comandò alla detta sua donna che come avea partorito la creatura la dovesse far morire. Da poi partorí un bellissimo figlio maschio lo quale vedendolo essa sí bello, nol volle far morire, ma fello portare alli servi suoi che lo portassero in un bosco, e foraronli li piedi e con ritorte l’appiccarono a uno arbore; lo quale ritrovato da pastori fu nutricato da Polibo re di Foci, e venendo a etá virile, scontrandosi sventuratamente nel detto re Laio suo padre, l’uccise, e come piacque alla fortuna prese per moglie la detta Giocasta sua madre, della quale prima che la riconoscesse ebbe quattro figliuoli, due maschi e due femine: delli quali l’uno ebbe nome Etiocle, l’altro Pollinice; delle femine l’una Ismene, l’altra Antigone. Dopo li quali avuti figliuoli riconoscendo Edippo come avea morto il detto suo padre e avea per moglie la detta sua madre, considerata l’abominevole iniquitá in che esso stava con la madre, e lo padre ch’avea morto, per disperazione s’accecò. Da poi li detti suoi figliuoli vennero a divisione del regno tebano, s’uccisero insieme etc. Della qual morte contra d’essi esclama Stazio nel libro XI dove dice: Ite truces animae funestaque Tartara leto
- Polluite, et cunctas Rrebi consumite poenas!
- Vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae:
- Omnibus in terris scelus hoc omnisque sub aevo
- Viderit una dies, monstrumque infame futuris
- Excidat, et soli memorent haec proelia reges.
- [Theb., XI, 574 579]
- ↑ [le figliuole di Danao]. Danao ebbe cinquanta figliuole femine, ed ebbe un fratello il quale ebbe nome Egisto ch’ebbe cinquanta figliuoli maschi, li quali presero per loro spose le dette cinquanta loro consobrine; alle quali Danao comandò che ciascuna dovesse la prima notte ammazzare lo suo marito, e questo fe’ acciò che rimanesse senza erede per tutto lo reame [e lo reame] rimanesse a lui. E cosí fecero tutte eccetto una la quale ebbe nome Ipermestra che fu maritata col fratello minore ch’ebbe nome Lino, che non l’ammazzò. Sí che di cinquanta ne campò uno solo etc. Il detto Danao fu figliuolo di Belo.
- ↑ [Narciso]: fu figlio d’una ninfa chiamata Liriope e il padre ebbe nome Cefiso, e volendo sapere che fortuna dovea avere il detto Narciso, dimandarono consiglio a uno indovino che si chiamò Tiresia padre di Manto che edificò la cittá di Mantova; ed esso rispose che il detto Narciso viverebbe lungo tempo se esso non conoscesse se medesimo. Della qual cosa fu fatto beffe; ma poi venne tempo nella sua iuventute che una ninfa chiamata Eco s’innamorò di lui ed esso non di lei, onde ella il biastimò che esso si potesse innamorare di cosa che mai non potesse usare. E cosí fu che andando esso a bere ad una fontana perché era cacciatore ed era stanco, mirando nella fontana vide la sua figura bellissima, e innamorossi di se stesso, e non conoscendosi si consumò d’amore, e cosí dagl’iddíi fu trasmutato in fiore, di cui dice Ovidio: Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?
- Quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes.
- [Met., III, 432-433.]
- ↑ [Atalanta]: fu figliuola di Ceneo re, la quale fu bellissima e velocissima in correre, in tanto che avanzava ogni uomo, e però avea fatta legge che qualunque corresse piú di lei la dovesse aver per moglie, e se no gli dovesse essere tagliata la testa. La qual cosa intervenne a molti, ma Ipomenes figliuolo di Megareo vedendo la bellezza di costei, volle correre con essa non ostante il pericolo. E però che esso era bellissimo di corpo, essa quando il vide disposto a correre con lei, mossa quasi a pietá averebbe voluto essere vinta da lui. Ma pur essa ed esso corsero insieme, e vinse Ipomenes però che Venere li donò tre pomi d’oro e disseli: «Quando sarai alla metá del corso butterai uno de’ detti pomi, lo quale essa vedendo si ristará per ricòrlo, e tu allora passerai dinanzi, e cosí farai del secondo, e il terzo butterai quando sarai appresso al termine del corso acciò che giungi prima di lei». E cosí fe’, e a questo modo vinse e fulli data per moglie; e menandola a casa sua, arrivaro ad uno tempio consacrato alla dea Cibele ch’è detta madre delli iddii, ed entrando nel detto tempio per riposarsi, il giovine predetto, per poca continenzia, non avendo rispetto alla religione, ebbe a far con la detta Atalanta. Per la qual cosa Cibele disdegnatasi, amendui li trasmutò in lioni li quali tirano li suoi carri. E però dice Ovidio questi versi: Pro thalamis celebrant silvas; aliisque timendi
- Dente premunt domito Cybeleia frena leones.
- [Met., X, 703-704.]
- ↑ [fratello della dura morte]: cioè il Sonno del quale parla Ovidio nel Metamorfoseos ove dice: Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
- Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
- Fessa ministeriis mulces reparasque labori!
- Somnia, quae veras aequent imitamine formas....
- [Met., XI, 623-626.]
- ↑ [i cento d’Argo]. A dichiarazione di questo si deve sapere quel che pone Ovidio nel primo libro del Metamorfoseos, cioè che Inaco re d’Arcadia ebbe una sua figliuola bellissima che si chiamò Io della quale s’innamorò Giove; e avendo a far con essa coperto d’una nuvola, Giunone sua moglie vedendolo, per l’inganni che Giove le solea fare, sappiendo quel che era, cioè che Giove avesse a far con qualche sua amica: onde discese del cielo e andò ov’era la detta nuvola per vedere quel ch’era. Della qual cosa Giove avvedendosi, trasmutò la detta Io in una vacchetta, e Giunone vedendo quel che facea, lo domandò, e lui rispose che riguardava questa bella vacchetta la quale dicea essere generata dalla terra, ed essa Giunone, ciò udendo, la dimandò di grazia in dono perché conosceva bene che non era così come Giove dicea. La quale Giove le donò, ed essa la diè in guardia a un suo pastore lo quale ebbe nome Argo ch’ebbe cento occhi, acciò che la guardasse bene acciò che Giove non la potesse ritòrre, sí che quando dormissero cinquanta occhi, gli altri cinquanta vegliassero. Per la qual cosa Giove vinto dall’amore per la pena che vedea patire alla detta sua amorosa, andò a Mercurio iddio della musica che dovesse andare in forma di pastore al detto Argo, e sí sonasse tanto dolce che lo facesse addormentare con tutti gli occhi. E cosí fe’, e addormentato lo detto Argo, Mercurio gli tagliò la testa; onde Giunone ciò sentendo e vedendo il detto Argo così morto, il trasmutò in pavone, lo quale è uccello consacrato a Giunone, e però il pavone ha tanti occhi nella coda. E da poi la detta Giunone mise uno assillo alla detta vacca, e fecela andare fuggendo perfino in Egitto dove dopo molte fatiche Giove mosso a misericordia commutò con Giunone di non avere a fare mai piú con essa, e la fe’ nella prima forma ritornare, e la fe’ maritare a Nubi iddio d’Egitto, ed essa fu chiamata Isi iddea del Nilo fiume etc.
- ↑ [Miseno]: fu trombetta di Ettore e figlio di Eolo, e da poi di Enea quando si partí da Troia per venire nelle parti d’Italia, lo quale affogò in mare per fortuna. Onde Enea da poi che l’ebbe fatto seppellire per comandamento della Sibilla Cumana, andando allo ’nferno lo trovò, e di lui parla Virgilio nel sesto in questa forma [Aen., VI, 164-5]: Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter
- Aere ciere viros Martemque accendere cantu.
- Alla quale Sibilla Enea quando venne in Italia andò per consiglio in che modo potesse andare allo ’nferno per andare al padre suo Anchise, dove essa il menò con gran fatica, sí come pone Virgilio nel sesto.
- ↑ [l’oracoli della Sibilla Cumana]. La Sibilla Cumana fu bellissima giovane della quale innamorò Febo dio della sapienza, al quale se avesse voluto consentire sarebbe stata divina. E pure esso Febo sollecitandola con prieghi che domandasse ciò che ella volesse che ’l farebbe, essa prese un pugno d’arena marina e domandò di grazia di potere vivere tanti anni quanti quelli granelli erano d’arena. La quale grazia Febo le fé’, ma essa poi si fe’ beffe di lui; e avrebbele conceduto che fosse vissuta sempre giovine, ma non lo domandò. Abitò costei alla cittá di Cuma e ivi era l’abitazione in forma d’una spelunca dove essa dava risposta delle cose future a chi v’andava a dimandare, e scrivevale nelle foglie e ponevate per ordine in sul limitare della porta della spelunca, e quando riserrava, le dette porte faceano vento e facea spargere le dette foglie sí che non si potea sapere sentenzia che esse dicessero. Visse anni, secondo che pone Ovidio: ... nam iam mihi saecula septem
- Acta vides; superest, numeros ut pulveris aequem
- Ter centum messes, ter centum musta videre.
- [Met., XIV, 144-146.]
- ↑ [o Fortuna etc.]. Seneca nel principio della tragedia che comincia Trohas pone le parole d’Ecuba alla fortuna: Quicumque regno fidit et magna potens
- Dominatur aula nec leves metuit deos
- Animumque rebus credulum laetis dedit
- Me videat et te Troia...
- ↑ [se non come a Mida la ricevuta grazia]. Mida fu re nelle parti d’Africa, il quale avendo onorato molto in casa sua Silleno sacerdote di Bacco iddio del vino, arrivando a casa sua il detto dio Bacco e rendendogli il detto suo sacerdote e simile onore faccendo a lui, il detto dio Bacco volendolo rimunerare gli disse che esso Mida domandasse qual grazia esso volea ch’e’ gli la faria. Onde esso Mida come avarissimo e cupidissimo domandò che ciò che toccasse diventasse oro; e cosí fu fatta la grazia: per la qual cosa ciò che toccava diventava oro, sí che bisognava che misero morisse in tanta ricchezza. Onde conoscendo esso la sua cupiditá e domanda dannosa che avea fatta, ripregò il detto iddio Bacco che gli piacesse ritôrgli la grazia, ed esso esaudendolo gli comandò che se volea essere liberato andasse al fiume Pattolo e dentro vi si lavasse e allora sarebbe libero della detta sconcia grazia per lui domandata; e così fe’. Per la qual cosa il detto fiume ha sempre menato vena d’oro. E vergognandosi poi esso Mida e avendo in odio la gente, abitò nelle ville e nel li boschi, ove esso stando ed essendo pur poco savio, volle contendere con lo iddio Pan dio de’ pastori e maestro delli suoni, che esso Mida sonava meglio di lui; e furono alla pruova e fu giudicato che lo dio Pan sonava meglio di lui. Laonde Febo per correggere la sua pazzia gli fe’ l’orecchie dell’asino le quali tenne ascose lungo tempo, ma uno suo famiglio vedendogli tondere li capelli vide che avea l’orecchie dell’asino, e non potendolo ritenere per paura lo disse alla Terra ove subito nacquero cannuccie le quali traendo il vento e percotendosi insieme diceano: «lo re ha l’orecchie dell’asino». Onde dice Ovidio: Creber harundinibus tremulis ibi surgere lucus
- Coepit, et ut primum pieno maturuit anno
- Prodidit agricolam: leni narri motus ab austro
- Obruta verba refert, dominique coarguit aures.
- [Met., XI, 190-193].
- ↑ [di prendere vendetta di Febo]. Febo come fu detto dinanzi fu iddio della sapienza e uccise Fitone il gran serpente il quale la terra produsse dopo il diluvio di Pirra e Deucalione. Vedendo un dí Cupido iddio dell’amore con l’arco in mano, si fe’ beffe di lui gloriandosi che esso Febo avea morto il detto serpente e dicendogli: «Perché porti tu l’arco e le saette le quali si convengono a noi?». A cui Cupido rispose: «Io ti farò provar la possanza dell’arco e delle saette mie». E mise mano all’arco e alle saette e prese una saetta d’oro la quale induce l’amore, e ferí il detto Febo. Onde Febo innamorò subito d’una giovinetta la quale ebbe nome Danne, figliuola di Peneo, ed essa il detto Cupido saettò e ferí con una saetta di piombo la quale ha questa virtú che caccia ogni amore; e però Febo l’amava con ardentissimo amore ed essa non lui per nullo modo, e pur perseguitandola ed ella pure fuggendo e non possendo un dí fuggirgli piú dinanzi e domandando e gridando l’aiuto del detto suo padre, esso suo padre la fe’ convertire in lauro: laonde Febo se ne fe’ ghirlanda per amore e ordinò che li poeti se ne dovessero incoronare e ancora gl’imperatori. Del quale parla Dante nel principio della terza cantica [ove] disse cosí invocando Febo: O buon Appollo, all’ultimo lavoro
- fammi del tuo valor si fatto vaso
- come dimandi a dar l’amato alloro.
- . . . . . . . . . . . . . .
- Sí rade volte, padre, se ne coglie
- per triunfar o Cesare o poeta
- colpa e vergogna dell’umane voglie...
- E simile tocca Ovidio dicendo:
- Arbor eris certe — dixit — mea. Semper habebunt
- Te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae;
- Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
- Vox canet et visent longas Capitolia pompas.
- [Met., I, 558-561.]
- ↑ [Semiramis simigliare]. Questa fu regina di Babillonia e fu alterissima e lussuriosissima sí che volle avere a fare col figliuolo, secondo pone Iustino nel libro primo.
- ↑ [ Cleopatras ]. Questa fu figliuola di re Tolomeo re d’Egitto il quale fe’ decapitare Pompeo. Fu bellissima e lussuriosissima, con la quale ebbe a fare Cesare ed ebbene uno figliuolo chiamato Cesarione; poi fu moglie di Antonio nipote del detto Cesare e fratello di Ottaviano imperadore, e fu ornatissima donna la quale si uccise con l’aspide.
- ↑ [alla Ciprigna Venere]. Ciprigna è detta cosí perché in Cipri fu molto sacrificata.
- ↑ [Scevola somigliava]. Questo fu Romano compagno di Scipione Africano Maggiore e di Lelio vero amico del detto Scipione. Esso Scevola fu omo savissimo e governatore di grandi uficii di Roma, e fu chiamato Quinto Muzio secondo che pone Tullio in libro De amicitia, quando disse: «Quintus Mutius aghur Scevola» etc.
- ↑ [il Censorino Catone o l’Uticense]. Due furono li Catoni, cioè Cato Censorino e l’altro Cato Uticense. Questo Uticense fu il piú diritto omo che mai fosse al tempo suo e per salvare la repubblica di Roma seguitò Pompeo, e dopo la morte di Pompeo rimase capitaneo dello esercito. Da poi sconfitto in Africa insieme con re Iuba, dimorando esso in Utica cittá, leggendo De immortalitate animi, uccise se medesimo. Il detto Cato Censorino fu valentissimo omo e
- ↑ [Scipione Africano]: fu Romano e fu sopra tutti il piú valente omo che mai avesse Roma e le sue virtú sono innumerabili delle [quali] non si possono saziare li scrittori.
- ↑ [ Cincinnato]: fu pur Romano valentissimo omo e robustissimo.
- ↑ [Arcadio Partenopeo ]. Partenopeo fu figliuolo di Atalanta regina d’Arcadia e fu re essendo giovinetto. Fu bellissimo del corpo tanto che passò di bellezza nella sua etá ogni altro, e cosí similemente fu di grande animo, in tanto che quando Adrasto di Grecia andò ad oste alla cittá di Tebe per acquistarla a Etiocle figliuolo di Edippo del quale fu detto dinanzi, essendo il detto Partenopeo giovinetto di quattordici anni, fu uno delli sette re che andaro ad oste alla cittá di Tebe e lí fu morto.
- ↑ [Ascanio]. Questo fu figliuolo di Enea e fu piacevolissimo e bellissimo.
- ↑ [Deifebo]: fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo in arme e peregrinò nell’Attica, e perciò dice Virgilio [Aen., VI, 500]: Deiphebe armipotens genus alto a sanguine Teucri.
- ↑ [Ercule]. Come fu detto, fu figliuolo di Giove e d’Almena, il quale fu il piú forte omo del mondo, e per segno di fortezza portava una ghirlandetta verde di quercia o d’oppio a dimostrare la sua grandezza.
- ↑ [al grande Ettor]. Questo fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo ed espertissimo in arme, e fu morto da Achille.
- ↑ [Quasi un altro Achille]. Questo fu figliuolo di Pelleo figliuolo di Eaco re di Tessaglia il quale fu fortissimo e valorosissimo in arme e fu morto a Troia.
- ↑ [Protesilao]. Questo fu re e come fu detto dinanzi s’innamorò di Laudomia, e quando andò ad oste a Troia esso fu il primo ucciso da Ettor perché prima discese delle navi loro. Onde disse Ovidio: Troes, et Hectorea primus fataliter hasta,
- Protesilae, cadis...
- [Met., XII, 67-68.]
- ↑ [Pirro]: fu figliuolo di Achille e fu crudelissimo in arme e con fiero aspetto, il quale ammazzò re Priamo con gran crudeltá. Però dice Virgilio: At non ille, satum quo te mentiris, Achilles
- Talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque
- Supplicis erubuit, corpusque exsangue sepulchro
- Reddidit Hectoreum, meque in mea regna remisit.
- [Aen., II, 540-543.]
- ↑ [Menelao]: fu fratello di Agamennone re in Grecia e fu marito della detta Elena e fu figliuolo di Atreo.
- ↑ [Agamennone]: fu fratello del detto Menelao e figliuolo del detto Atreo e fu ferissimo in arme e fu capitano di tutta l’oste greca contra di Troia perfino a tanto che la vinsero e guastaronla. Poi Clitennestra sua moglie l’ammazzò com’è detto dinanzi.
- ↑ [Aiace]: fu figliuolo di Talamone figliuolo di Eaco com’è detto dinanzi e fratello di Pelleo padre di Achille, e fu figliuolo di Essiona sorella di re Priamo la quale tolse Talamone nella prima distruzione di Troia quando fu guasta per Ercule e per Giasone quando andavano a conquistare il vello d’oro. [Aiace] fu fortissimo e valorosissimo in arme il quale uccise se medesimo per disperazione non potendo avere l’arme di Achille.
- ↑ [Orfeo]: fu di Tracia e fu figliuolo di Appollo il quale prese per moglie Euridice la quale morendo, esso pel grande amore che le portava andò allo ’nferno per averla con la sua cetera con la quale sonava molto bene. Essendo lí sonò tanto bene che la detta Euridice li fu conceduta con patto che non si dovesse mai voltare indietro; e voltandosi all’uscire della porta dello ’nferno, la riperdé e per questo non volle mai piú usare con femina. Laonde fu ammazzato dalle femine perché abbandonò il coito delle donne e badava alli giovani, come dice Ovidio: Ille etiam Thracum populis fuit auctor, amorem
- In teneros transferre mares, citraque iuventam
- Aetatis breve ver et primos carpere fiores.
- [Met., X, 83-85.]
- ↑ [O felice colui etc.]. Di questa beata vita attribuita alli villani lavoratori secondo pone qui l’autore, parla Virgilio nel libro secondo Georgicon ove loda per la piú beata vita che si possa menare in questo mondo se il villano ci stesse contento, ove dice: O fortunatos nimium, sua si bona norint
- Agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
- Fundit humo facilem victum iustissima tellus.
- [vv. 457-459]
- A dimostrare come la natura dell’omo si poria contentare di poco e non appetere cose superflue che sono la morte dell’omo, come che chiaro dimostra l’autore di questo, scrive Lucano in questa forma:
- ........ O prodiga rerum
- Luxuries, numquam paro contenta paratis
- Et quaesitorum terra pelagoque ciborum
- Ambitiosa fames et lautae gloria mensae
- Discite, quam parvo liceat producere vitam
- Et quantum natura petat. Non erigit aegros
- Nobilis ignoto diffusus consule Bacchus:
- Non auro murrhaque bibunt, sed gurgite puro
- Vita redit...
- [Bell. civ., IV, 373 sgg.]
- ↑ [li satiri etc.]. Li Satiri secondo li poeti sono gl’iddii delle ville; li Fauni secondo li poeti sono gl’iddii delle selve; le Driadi secondo li poeti sono le dèe delli boschi; le Naiadi secondo li poeti sono le dèe delle fonti; le Ninfe secondo li poeti sono le dèe delli fiumi.
- ↑ [al suo biforme figliuolo ]: cioè Cupido figliuolo di Venere, dio dell’amore, il quale si pone nudo e cieco.
- ↑ [Sardanapallo]. Secondo pone Iustino istoriografo e abreviatore di Trogo Pompeo, fu il terzo re che signoreggiò la cittá di Babilonia dopo la morte di Semiramis regina la quale fu detta dinanzi che fe’ vita lascivissima; e regnando il detto Sardanapallo, trovando il vivere degli uomini cosí corrotto per leggi che avea fatte la detta Semiramis, esso come uomo di buona vita corresse il detto vituperoso vivere ponendo regula al mangiare e al bere cioè a Cerere e a Bacco che sono due cose cagioni grandissime di lussuria; e però disse Terenzio: «Sine Cerere et Bacho friget Venus».
- ↑ [li sommersi regni]. Troia fu guasta per amore di Paris e di Elena, e però dice qui li sommersi regni.
- ↑ [Ariete], Ariete è uno delli dodici segni del Zodiaco, nel quale segno entra il sole a mezzo marzo e sta fino a mezzo aprile.
- ↑ [ Spurinna]. Secondo pone Valerio Massimo in rubrica De Verecundia, fu uno giovine ateniese (?) il quale fu tanto bellissimo del corpo che per natura non poria essere stato piú bello prodotto, della cui bellezza era quasi presa ogni femina che lo riguardava; la qual cosa conoscendo esso che era cagione di fare peccare molte donne, esso come pudico e casto volle levare la cagione la quale inclinava l’animo delle predette donne a peccare, e sí si guastò ogni sua bellezza del suo viso, tagliandosi il naso, guastandosi la bocca e ogni altra bellezza del viso per volere vivere casto e non volere mai avere a far con donna.
- Note
- CAPITOLO VI
- Nel quale madonna Fiammetta, avendo sentito Panfilo non aver moglie presa, ma d’altra donna essere innamorato, e però non tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse.
- Quale voi avete potuto comprendere, pietosissime donne, per le cose davanti dette, è stata nelle battaglie d’amore la vita mia, e ancora assai piggiore; la quale certo a rispetto della futura forse non ingiustamente si potrebbe dire dilettevole, bene pensando. Io, ancora paurosa ricordandomi di quello a che egli ultimamente mi condusse e quasi ancora tiene, per piú prendere indugio di pervenirvi, sí perché del mio furore mi vergogno, e sí perché, scrivendolo, in esso mi parrá rientrare, con lenta mano, le cose men gravi, distendendomi molto, v’ho scritte; ma ora, piú non potendo a quelle fuggire, tirandomi l’ordine del mio ragionare, paurosa vi pur verrò. Ma tu, o santissima pietá, abitante ne’ dilicati petti delle morbide giovani, reggi li tuoi freni in quelli con piú forte mano che infino a qui non hai fatto, acciò che trascorrendo, e di te piú parte che ’l convenevole dando, non forse di quello che io cerco ti convertissi in contrario, e di grembo togliessi alle leggenti donne le lagrime mie.
- Egli era giá un’altra volta il sole tornato nella parte del cielo1, che sí cosse allora che male li suoi carri guidò il presuntuoso figliuolo, poi che Panfilo fu da me partito; e io misera per lunga usanza aveva apparato a sostenere li dolori, e piú temperatamente mi doleva che l’usato, né credeva che piú si potesse durare di male, che quello che io durava, quando la fortuna, non contenta de’ danni miei, mi volle mostrare ch’ancora piú amari veleni aveva che darmi. Avvenne, adunque, che de’ paesi di Panfilo alle nostre case tornò un nostro carissimo servidore, il quale da tutti, e massimamente da me, graziosamente fu ricevuto. Questi, narrando i casi suoi e le vedute cose, mescolando le prospere con l’avverse, per avventura gli venne Panfilo ricordato; del quale molto lodandosi, ricordando l’onore da lui ricevuto, me nell’ascoltare faceva contenta, e appena potè la ragione la volontá raffrenare di correre ad abbracciarlo, e del mio Panfilo dimandare con quell’affezione che io sentiva; ma pure ritenendomi, e quello essendo dello stato di lui dimandato da molti, e avendo bene essere di lui a tutti risposto, io sola il dimandai con viso lieto, quello che egli faceva e se suo intendimento era di tornarci, alla quale egli cosí rispose:
- — Madonna, e a che fare tornerebbe qua Panfilo? Niuna piú bella donna è nella terra sua, la quale oltre ad ogni altra è di bellissime copiosa, che quella la quale lui ama sopra tutte le cose, per quello che io da alcuno intendessi; ed egli, secondo che io credo, ama lei; altramente io il riputerei folle, dove per addietro savissimo l’ho tenuto. —
- A queste parole mi si mutò il cuore, non altramente che ad Oenone2 sopra gli alti monti d’Ida aspettante, veggendo la greca donna col suo amante venire nella nave troiana; e appena ciò nel viso nascondere potei, avvegna che io pur lo facessi, e con falso riso dissi:
- — Certo tu di’ il vero: questo paese a lui male grazioso, non gli potè concedere per amanza una donna alla sua virtú debita; però se colá l’ha trovata, saviamente fa, se con lei si dimora. Ma dimmi, con che animo sostiene ciò la sua novella sposa?—
- Egli allora rispose:
- — Niuna sposa è a lui; e quella, la quale non ha lungo tempo ne fu detto che venne nella sua casa, non a lui, ma al padre è vero che venne. —
- Mentre che egli queste parole da me ascoltato diceva, io d’una angoscia uscita, ed entrata in un’altra molto maggiore, da ira subita stimolata e da dolore, cosí il tristo cuore si cominciò a dibattere, come le preste ali di Progne, qualora vola piú forte, battono i bianchi lati; e li paurosi spiriti non altramente mi cominciarono per ogni parte a tremare, che faccia il mare da sottile vento ristretto nella sua superficie minutamente, o li pieghevoli giunchi lievemente mossi dall’aura; e cominciai a sentire le forze fuggirsi via. Per che quindi, come piú acconciamente potei, nella mia camera mi ricolsi.
- Partita adunque dalla presenza d’ogni uomo, non prima sola in quella pervenni, che per gli occhi non altramente che vena che pregna sgorghi nell’umide valli, amare lagrime cominciai a versare, e appena le voci ritenni degli alti guai, e sopra al misero letto de’ nostri amori testimonio, volendo dire «O Panfilo, perché m’hai tradita?», mi gittai, ovvero piuttosto caddi supina, e nel mezzo della loro via furono rotte le mie parole, si subito alla lingua e agli altri membri furono le forze tolte; e quasi morta, anzi morta da alcune creduta, quivi per lunghissimo spazio fui guardata; né valse a farmi tornare la vita errante ne’ suoi luoghi di fisico alcuno argomento.
- Ma poi che la trista anima, la quale piangendo piú volte li miseri spiriti aveva per partirsi abbracciati, pure si rifermò nell’angoscioso corpo, e le sue forze rivocate di fuori sparse, agli occhi miei ritornò il perduto lume; e alzando la testa, sopra me vidi piú donne, le quali con pietoso servigio piangendo, con preziosi liquori m’aveano tutta bagnata; e piú altri strumenti vidi atti a cose varie a me vicini: onde io de’ pianti delle donne e delle cose ebbi non picciola maraviglia; e poi che il potere parlare mi fu conceduto, qual fosse la cagione di quelle cose esser quivi addimandai; ma alla mia dimanda rispose una di loro, e disse:
- — Per ciò qui quelle cose erano venute, per fare in te la smarrita anima ritornare. —
- Allora, dopo un lungo sospiro, con fatica dissi:
- — Oimè! con quanta pietá crudelissimo uficio operavate voi contrario alla mia volontá! Credendomi servire, diservita m’avete; e l’anima, disposta a lasciare il piú misero corpo che viva, sí com’io veggio, meco a forza ritenuta avete. Oimè! che egli è assai che niuna cosa da me né da altrui con pari affezione fu disiata come da me quella che voi m’avete negato; io, giá disciolta da queste tribulazioni, vicina era al mio disio, e voi me n’avete tolta. —
- Varii conforti dalle donne dati, seguirono queste parole; ma di quelli l’operazioni furono vane. Io m’infinsi riconfortata, e nuove cagioni diedi al misero accidente, acciò che, partendosi quelle, luogo mi rimanesse a dolermi. Ma poi che di loro alcuna si fu partita, e all’altre fu dato commiato, essendo io quasi lieta nell’aspetto tornata, sola con la mia antica balia e con la consapevole serva de’ danni miei, quivi rimasi, delle quali ciascuna alla mia vera infermitá porgeva confortevali unguenti, da doverla guarire, se ella non fosse mortale. Ma io l’animo avendo solamente alle parole udite, subitamente nemica divenuta d’una di voi, o donne, non so di quale, gravissime cose cominciai a pensare, e il dolore, che tutto dentro stare non poteva, con rabbiosa voce in cotal guisa fuori del tristo petto sospinsi:
- «O iniquo giovane, o di pietá nemico, o piú che altro pessimo Panfilo il quale ora me misera avendo dimenticata con nuova donna dimori, maladetto sia il giorno che io prima ti vidi, e l’ora, e ’l punto nel quale tu mi piacesti! Maladetta sia quella dèa che, apparitami, me, fortemente resistente ad amarti, rivolse con le sue parole dal giusto intendimento! Certo io non credo che essa fosse Venere, ma piuttosto in forma di lei alcuna infernal furia, me non altramente empiente d’insania, che facesse il misero Atamante3. O crudelissimo giovane, da me tra molti nobili e belli e valorosi solo eletto pessimamente per lo migliore, ove sono ora li prieghi, li quali tu piú volte a me per iscampo della tua vita piangendo porgesti, affermando quella e la tua morte stare nelle mie mani?
- Ove sono ora li pietosi occhi co’ quali a tua posta, misero, lagrimavi? Ove è ora l’amore a me mostrato? Ove le dolci parole? Ove li gravi affanni ne’ miei servigi profferti? Sono essi del tutto della tua memoria usciti? O haigli nuovamente adoperati ad irretire la presa donna?
- «Ahi maledetta sia la mia pietá, la quale quella vita da morte prosciolse, che di sé faccendo lieta altra donna, la mia dovea recare a morte oscura! Ora gli occhi, che nella mia presenza piagnevano, davanti alla nuova donna ridono, e il mutato cuore ha ad essa rivolte le dolci parole e le profferte. Oimè! dove sono ora, o Panfilo, gli spergiurati iddii? Dove la promessa fede? Dove le infinte lagrime, delle quali gran parte miseramente bevvi, pietose credendole, ed esse erano piene del tuo inganno? Tutte queste cose nel seno della nuova donna rimesse, con teco insieme m’hai tolte.
- «Oimè! quanto mi fu giá grave udendo te per giunonica legge dato ad altra donna! Ma sentendo che li patti da te a me donati non erano da preporre a quelli, posto che faticosamente il portassi, pur vinta dal giusto colore, con meno angoscia il sostenea. Ma ora, sentendo che per quelle medesime leggi, per le quali tu a me se’ stretto, tu ti sii, a me togliendoti, dato ad altra donna, m’è importabile supplicio a sostenere. Ora le tue dimoranze conosco, e similmente la mia semplicitá, con la quale sempre te dovere tornare ho creduto, se tu avessi potuto. Oimè! ora abbisognavanti, o Panfilo, tante arti ad ingannarmi? Perché li giuramenti grandissimi e la fede interissima cosí mi porgevi, se d’ingannarmi per cotal modo intendevi? Perché non ti partivi tu senza commiato cercare, o senza promessa alcuna di ritornare? Io, come tu sai, fermissimamente t’amava, ma io non t’aveva perciò in prigione, che tu a tua posta senza le infinte lagrime non ti fossi potuto partire. Se tu cosí avessi fatto, io mi sarei senza dubbio di te disperata, subitamente conoscendo il tuo inganno, e ora, o morte o dimenticanza averebbe finiti li miei tormenti, li quali tu, acciò che fossero piú lunghi, vana speranza donandomi, nutricare li volesti; ma questo non aveva io meritato.
- «Oimè! come mi furono giá le tue lagrime dolci! Ma ora conoscendo il loro effetto, mi sono amarissime ritornate. Oimè! se Amore cosí fieramente ti signoreggia, come egli fa me, non t’era egli assai una volta essere stato preso, se di nuovo la seconda incappare non volevi? Ma che dico io? Tu non amasti giammai, anzi di schernire le giovani donne ti se’ dilettato. Se tu avessi amato, come io credeva, tu saresti ancora mio. E di cui potresti tu mai essere che piú t’amasse di me? Oimè! chiunque tu se’, o donna, che tolto me l’hai, ancora che nemica mi sii, sentendo il mio affanno, a forza di te divengo pietosa. Guardati da’ suoi inganni, però che chi una volta ha ingannato ha per innanzi perduta l’onesta vergogna, né per innanzi d’ingannare ha coscienza. Oimè! iniquissimo giovine, quanti prieghi e quante offerte agl’iddii ho io porte per la salute di te, che tôrre mi ti dovevi e darti ad altra!
- «O iddii, li miei prieghi sono esauditi, ma ad utilitá d’altra donna; io ho avuto l’affanno, e altri di quello si prende il diletto. Deh, non era, o pessimo giovane, la mia forma conforme a’ tuoi disii, e la mia nobiltá non era alla tua convenevole? Certo molto maggiore. Le ricchezze mie furonti mai negate, o da me tolte le tue? Certo no. Fu mai amato in atto, o in fatto o in sembiante, da me altro giovane, che tu? E questo ancora che no confesserai, se ’l nuovo amore non t’ha tolto dal vero. Dunque qual fallo mio, qual giusta cagione a te, quale bellezza maggiore della mia, o piú fervente amore mi t’ha tolto e datoti ad altrui? Certo niuno: e a questo mi siano testimonii gl’iddii, che mai verso di te niuna cosa operai, se non che oltre ad ogni termine di ragione t’ho amato. Se questo merita il tradimento da te verso me operato, tu il conosci.
- «Oh iddii, giusti vendicatori de’ nostri difetti, io dimando vendetta e non ingiusta. Io non voglio né cerco di colui la morte, che giá da me fu scampato e vuole la mia, né altro sconcio dimando di lui, se non che, se egli ama la nuova donna come io lui, che ella, togliendosi a lui e ad un altro donandosi, come egli a me s’è tolto, in quella vita il lasci che egli ha me lasciata».
- E quinci, torcendomi con movimenti disordinati, su per il letto impetuosa mi gitto e mi rivolgo.
- Quel giorno tutto non fu in altre voci che nelle predette o in simili consumato; ma la notte, assai piggiore che ’1 giorno ad ogni doglia, in quanto le tenebre sono piú alle miserie conformi che la luce, sopravvenuta, avvenne che, essendo io nel letto a lato al caro marito, tacita per lungo spazio ne’ pensieri dolorosi vegghiando, e nella memoria ritornandomi, senza essere da alcuna cosa impedita, tutti li tempi passati, cosí li lieti come li dolenti, e massimamente l’avere Panfilo per nuovo amore perduto, in tanta abbondanza mi crebbe il dolore che, non potendolo ritenere dentro, piangendo forte con voci misere lo sfogai, sempre di quello tacendo l’amorosa cagione. E sí fu alto il pianto mio che essendo giá per lungo spazio nel profondo sonno stato involto il mio marito, costretto da quello si risvegliò, e a me, che tutta di lagrime era bagnata, rivoltosi, nelle braccia recandomisi, con voce benigna e pietosa cosí mi disse:
- — O anima mia dolce, qual cagione a questo pianto cosí doloroso nella quieta notte ti muove? Qual cosa, giá è piú tempo, t’ha sempre malinconica e dolente tenuta? Niuna cosa, che a te dispiaccia, dèe essere a me celata. È egli alcuna cosa, la quale il tuo cuore disideri, che per me si possa, che dimandandola tu, fornita non sia? Non se’ tu solo mio conforto e bene? Non sai tu che io sopra tutte le cose del mondo t’amo? E di ciò non una prova, ma molte ti possono far vivere certa. Dunque perché piangi? Perché in dolore t’affliggi? Non ti paio io giovane degno alla tua nobiltá? O rèputimi colpevole in alcuna cosa, la quale io possa ammendare? Dillo, favella, scuopri il tuo disio: niuna cosa sará che non s’adempia, solo che si possa. Tu, tornata nell’aspetto, nell’abito e nelle operazioni angosciosa, mi dai cagione di dolorosa vita, e se mai dolorosa ti vidi, oggi mi se’ piú che mai apparuta. Io pensai giá che corporale infermitá fosse della tua pallidezza cagione; ma io ora manifestamente conosco che angoscia d’animo t’ha condotta a quello in che io ti veggio; per che io ti priego che quello che di ciò t’è cagione mi scuopra. —
- Al quale io con feminile subitezza preso consiglio al mentire, il quale mai per addietro mia arte non era stata, cosí rispondo:
- — Marito a me piú caro che tutto l’altro mondo, niuna cosa mi manca la quale per te si possa, e te piú degno di me senza fallo conosco, ma solo a questa tristizia per addietro e al presente recata m’ha la morte del mio caro fratello, la quale tu sai. Essa a questi pianti, ogni volta che a memoria mi torna, mi strigne; e non certo tanto la morte, alla quale noi tutti conosco che dobbiamo venire, quanto il modo di quella piango, il quale disavventurato e sozzo conoscesti, e oltre a ciò le male andate cose dopo lui a maggior doglia mi stringono. Io non posso sí poco chiudere o dare al sonno gli occhi dolenti, come egli pallido, di squallore coperto e sanguinoso, mostrandomi l’acerbe piaghe m’apparisce davanti. E pure testé, allora che tu pianger mi sentisti, di prima m’era egli nel sonno apparito con immagine orribile, stanco, pauroso, e con ansio petto, tale che appena pareva che potesse le parole riavere; ma pur con fatica grandissima mi disse: «O cara sorella, caccia da me la vergogna, che con turbata fronte mirando la terra, mi fa tra gli altri spiriti andare dolente». Io, ancora che di vederlo alcuna consolazione sentissi, pure vinta dalla compassione presa dell’abito suo e delle parole, subito riscotendomi, fuggí il sonno, al quale a mano a mano le mie lagrime, le quali tu ora consoli, solvendo il debito dell’avuta pietá, seguitarono; e, come gl’iddii conoscono, se a me l’armi si convenissero, giá vendicato l’averei, e lui tra gli altri spiriti renduto con alta fronte, ma piú non posso. Adunque, caro marito, non senza cagione miseramente m’attristo. —
- Oh quante pietose parole egli allora mi porse, medicando la piaga, la quale assai davanti era guarita, e li miei pianti s’ingegnò di rattemperare con quelle vere ragioni, che alle mie bugíe si confaceano! Ma poi che egli, me racconsolata credendosi, si diede al sonno, io, pensando alla pietá di lui, con piú crudele doglia tacitamente piangendo, ricominciai la tramezzata angoscia, dicendo:
- «O crudelissime spelonche abitate dalle rabbiose fiere, o inferno, o eterna prigione decretata alla nocente turba, o qualunque altro esilio maggiore piú giú si nasconde, prendetemi, e me a’ meritati supplica date nocente. O sommo Giove, contro a me giustamente adirato, tuona e con tostissima mano in me le tue saette discendi; o sacra Giunone, le cui santissime leggi io scelleratissima giovane ho corrotte, vendicati; o caspie rupi, lacerate il tristo corpo; o rapidi uccelli, o feroci animali, divorate quello; o cavalli crudelissimi dividitori dell’innocente Ipolito4, me nocente giovane squartate; o pietoso marito, volgi nel petto mio con debita ira la spada tua, e con molto sangue la pessima anima di te ingannatrice ne caccia fuori. Niuna pietá, niuna misericordia in me sia usata, poiché la fede debita al santo letto posposi all’amore di strano giovane. O piú che altra iniqua femina di questi e d’ogni maggiori supplicii degna, qual furia ti si parò davanti agli occhi casti, il di che prima Panfilo ti piacque? Dove abbandonasti tu la pietá debita alle sante leggi del matrimonio? Dove la castitá, sommo onore delle donne, cacciasti allora che per Panfilo il tuo marito abbandonasti? Ove è ora verso te la pietá dell’amato giovane? Ove li conforti da lui dati a te nella tua miseria si trovano? Egli nel seno d’un’altra giovane lieto trascorre il fuggevole tempo, né di te si cura; e a ragione e meritamente cosí ti doveva avvenire, e a te e a qualunque altra li legittimi amori pospone alli libidinosi. Il tuo marito, piú debito ad offenderti che ad altro, s’ingegna di confortarti, e colui che ti doveria confortare, non cura d’offenderti.
- «Oimè! or non era egli bello come Panfilo? Certo sí. Le sue virtú, la sua nobiltá e qualunque altra cosa non avanzano molto quelle di Panfilo? Or chi ne dubita? Dunque perché lui per altrui abbandonasti? Qual cecitá, quale tracutanza, quale peccato, quale iniquitá vi ti condusse? Oimè! che io medesima noi conosco. Solamente le cose liberamente possedute sogliono essere riputate vili, quantunque elle sieno molto care; e quelle che con malagevolezza s’hanno, ancora che vilissime sieno, sono carissime riputate. La troppa copia del mio marito, a me da dovere essere cara, m’ingannò, e io, forse potente a resistere, quello che io non feci miseramente piango; anzi senza forse era potente, se io voluto avessi, pensando a quello che gl’iddíi e dormendo e vigilando m’aveano mostrato la notte, e la mattina precedente alla mia ruina.
- «Ma ora che da amare, per ch’io voglia, non mi posso partire, conosco qual fosse la serpe che me sotto il sinistro lato trafisse, e piena si partí del mio sangue; e similmente veggo quello che la corona caduta del tristo capo volle significare: ma tardi mi giugne questo avvedimento. Gl’iddii forse a purgare alcuna ira contra me concreata, pentuti de’ dimostrati segni, di quelli mi tolsero la conoscenza, non potendo indietro tornarli, altresí come Apollo all’amata Cassandra5, dopo la data divinitá tolse l’essere creduta: laond’io, in miseria costituta non senza ragionevole colore, consumo la mia vita».
- E cosí dolendomi e voltandomi e rivoltandomi per lo letto, quasi tutta la notte passai senza potere alcuno sonno pigliare, il quale, se forse pure entrava nel tristo petto, sí debole in quello dimorava, che ogni picciolo mutamento l’avrebbe rotto; e come che egli ancora fievole fosse, senza fiere battaglie nelle sue dimostrazioni alla mia mente non dimorava con meco. E questo non solamente quella notte, della quale di sopra parlo, m’avvenne, ma prima molte volte, e poi quasi continuamente m’è avvenuto; per che eguale tempesta, vegghiando e dormendo, sente e ha sentito l’anima tuttavia. Non tolsero le notturne querele luogo alle diurne, anzi quasi come del dolermi scusata, per le bugie dette al mio marito, quasi da quella notte innanzi non mi sono ridottata di piangere e di dolermi in pubblico molte volte. Ma pure venuta la mattina la fida nutrice, alla quale niuna parte de’ danni miei era nascosa, però che essa era stata la prima che nel mio viso aveva gli amorosi stimoli conosciuto e ancora in esso aveva i casi futuri immaginati, veggendomi quanto detto mi fu Panfilo avere altra donna, di me dubitando e istantissima a’ miei beni, come prima il mio marito della camera uscí, cosí v’entrò; e me veggendo per l’angoscie della notte preterita quasi semiviva ancora giacere, con parole diverse si cominciò ad ingegnare di mitigare li furiosi mali, e in braccio recatamisi, con la tremante mano m’asciugava il tristo viso, movendo ad ora ad ora cotali parole:
- — Giovane, oltremodo m’affliggono li tuoi mali, e piú m’affliggerebbono, se davanti non te ne avessi fatta avvedere; ma tu, piú volonterosa che savia, lasciando li miei consigli, seguisti li tuoi piaceri, onde al fine debito a cotali falli con dolente viso ti veggo venuta. Ma però che sempre, solo che altri voglia, mentre si vive si può ciascuno da malvagio cammino dipartire e al buono ritornare, mi sarebbe caro che tu omai gli occhi alla tua mente dalle tenebre di questo iniquo tiranno occupati svelassi, e loro della veritá rendessi la luce chiara. Chi egli sia assai li brievi diletti e li lunghi affanni che per lui hai sostenuti e sostieni ti possono fare manifesto. Tu, sí come giovane, piú la volontá seguitante che la ragione, amasti, e amando, quel fine che da amore si può disiare, prendesti; e, come giá è detto, brieve diletto essere il conoscesti, né piú avanti che quello che avuto n’hai, mai avere né disiare se ne puote. E se egli pure avvenisse che ’l tuo Panfilo nelle tue braccia tornasse, non altramente che l’usato diletto ne sentiresti.
- Li ferventi disiderii sogliono essere nelle cose nuove, nelle quali molte volte sperandosi che quello bene sia nascoso, il quale forse non v’è, fanno con noia sostenere il fervente disio, ma le conosciute piú temperatamente si sogliono disiderare; ma tu troppo nel disordinato appetito trascorsa e tutta dispòstati al perire, fai il contrario. Sogliono le discrete persone, trovandosi ne’ faticosi luoghi e pieni di dubbii, tirarsi indietro, volendo anzi avere la fatica, la quale infino al luogo dove giá pervenuti s’avveggono, perduta, e ritornare sicuri, che piú avanti andando mettersi a rischio di guadagnare la morte. Segui adunque tu, mentre che tu puoi, cotale esemplo, e piú ora temperata che tu non suoli, metti la ragione innanzi alla volontá, e te medesima saviamente cava de’ pericoli e dell’angoscie, nelle quali mattamente ti se’ lasciata trascorrere. La fortuna a te benivola, se con sano occhio riguarderai, non t’ha rinchiusa la via di dietro, né occupata si che bene discernendo ancora le tue pedate, non possi per quelle tornare lá onde tu ti movesti, ed essere quella Fiammetta che tu ti solevi. La tua fama è intera, né da alcuna cosa da te stata fatta è nelle menti delle genti commaculata, la quale essendo corrotta, a molte giovani fu giá cagione di cadere nell’infima parte de’ mali. Non volere piú procedere, acciò che tu non guasti quello che la fortuna t’ha riserbato: confòrtati, e teco medesima pensa di non avere veduto mai Panfilo, o che ’l tuo marito sia desso. La fantasia s’adatta ad ogni cosa, e le buone immaginazioni sostengono leggiermente d’essere trattate. Sola questa via ti può rendere lieta; la qual cosa tu déi sommamente disiderare, se cotanto l’angoscie t’offendono, quanto gli atti e le tue parole dimostrano. —
- Queste parole, o somiglianti, non una volta ma molte, senza rispondervi alcuna cosa, ascoltai io con grave animo, e avvegna che io oltremodo turbata fossi, nondimeno vere le conosceva; ma la materia mal disposta ancora, senza alcuna utilitá le riceveva; anzi, ora in una parte e ora in un’altra voltandomi, avvenne alcuna volta che, da impetuosa ira commossa, non guardandomi dalla presenza della mia balia, con voce oltre alla donnesca gravezza rabbiosa, e con pianto oltre ad ogni altro grandissimo cosí dissi:
- «O Tesifone, infernale furia, o Megera, o Aletto, stimolataci delle dolenti anime, dirizzate li feroci crini, e le paurose idre con ira accendete a nuovi spaventamenti, e veloci nell’iniqua camera entrate della malvagia donna, e ne’ suoi congiugnimenti con l’involato amante accendete le misere facelline, e quelle intorno al dilicato letto portate in segno di funesto agurio a’pessimi amanti; o qualunque altro popolo delle nere case di Dite6, o iddii degl’immortali regni di Stige7, siate presenti qui, e co’ vostri tristi ramarichii porgete paura ad essi infedeli. O misero gufo, canta sopra l’infelice tetto; e voi, o Arpie8, date segno di futuro danno; o ombre infernali, o eterno Caos, o tenebre d’ogni luce nemiche, occupate l’adultere case, sí che gl’iniqui occhi non godano d’alcuna luce; e li vostri odii, o vendicatrici delle scellerate cose, entrino negli animi acconci a’ mutamenti, e impetuosa guerra generate fra loro».
- Appresso questo, gittato un ardente sospiro, aggiunsi alle rotte parole:
- «O iniquissima donna, qualunque tu se’ da me non conosciuta, tu ora l’amante, il quale io lungamente ho aspettato, possiedi, e io misera languisco a lui lontana. Tu delle mie fatiche possiedi il guiderdone, e io vacua senza frutto dimoro de’ seminati prieghi. Io ho porte l’orazioni e gl’incensi agl’iddii per la prosperitá di colui il quale furtivamente tu mi dovevi sottrarre, e quelle furono udite per utile di te. Or ecco, io non so con quale arte né come tu me gli abbi tratta del cuore e messavi te, ma pure so che cosí è; ma cosí ne possi tu tosto rimanere contenta, come tu n’hai me lasciata. E se forse a lui la terza volta innamorarsi è malagevole, gl’iddii non altramente dividano il vostro amore che quel della greca donna e del giudice d’Ida divisero, o quel del giovane abideo dalla sua dolente Ero, o de’ miseri figliuoli d’Eolo, volgendosi contro di te l’aspro giudicio, ed egli rimanendo salvo. O pessima femina, tu dovevi, bene la sua faccia mirando, pensare che egli senza donna non era; dunque, se ciò pensasti, che so che ’l pensasti, con quale animo procedesti a tôrre quel che d’altrui era? Certo con nemico animo, avviso; e io sempre come nemica e occupatrice de’ miei beni ti seguirò e sempre, mentre ci viverò, mi nutricherò della speranza della tua morte, la quale io non comune priego che sia come l’altre, ma, posta in luogo di pesante piombo o di pietra nella concava fionda, tu sia intra li nemici gittata, né al tuo lacerato corpo sia dato o fuoco o sepoltura, ma, diviso e sbranato, sazii gli agognanti cani, li quali io priego che, poi che consumate avranno le molli polpe, delle tue ossa commettano asprissime zuffe, acciò che, rapinosamente rodendole, te di rapina dilettata in vita dimostrino. Niuno giorno, niuna notte, niuna ora sará la mia bocca senza esser piena delle tue maladizioni, né a questo mai si porrá fine: prima si tufferá la celestiale Orsa9 in Oceano, e la rapace onda della ciciliana Cariddi10 stará ferma, e taceranno li cani di Silla11, e nell’Ionio mare surgeranno le mature biade, e l’oscura notte dará nelle tenebre luce, e l’acqua con le fiamme, e la morte con la vita, e il mare co’ venti saranno concordi con somma fede; anzi, mentre che Gange durerá tiepido e l’Istro freddo, e li monti porteranno le quercie, e li campi li morbidi paschi, con teco avrò battaglie. Né finirá la morte questa ira, anzi tra li morti spiriti seguitandoti, con quelle ingiurie che di lá s’adoperano m’ingegnerò di noiarti. E se tu forse a me sopravvivi, quale che si sia della mia morte il modo, dovunque il misero spirito se n’andrá, di quindi a forza m’ingegnerò di scioglierlo, e in te entrando, furiosa ti farò divenire non altramente che siano le vergini dopo il ricevuto Apollo; o venendo nel tuo cospetto, vegghiando orribile mi vedrai, e ne’ sonni spaventevole sovente ti desterò nelle tacite notti; e, brievemente, ciò che tu farai, continuamente volerò dinanzi agli occhi tuoi, e lamentandomi di questa ingiuria, te in niuna parte lascerò quieta; e cosí, mentre viverai, da cotal furia, me operante, sarai stimolata, e, morta, poi di peggiori cose ti sarò cagione.
- «Oimè misera! in che si stendono le mie parole? Io ti minaccio, e tu mi nuoci, e il mio amante tenendoti, quello delle minacciate offese ti curi che gli altissimi re de’ meno possenti uomini. Oimè! ora fosse a me lo ’ngegno di Dedalo12, o li carri di Medea13, acciò che per quello aggiugnendo ali alle mie spalle, o per l’aere portata, subitamente dove tu gli amorosi furti nascondi mi ritrovassi! Oh quante e quali parole al falso giovane e a te rubatrice degli altrui beni direi con viso turbato e minaccevole! Oh con quanta villania i vostri falli riprenderei! E poi che te e lui delle commesse colpe vergognosi avessi renduti, senza alcuno freno o indugio procederei alla vendetta, e li tuoi capelli con le proprie mani pigliandoli e laniandoli forte, te ora qua e ora lá tirando per quelli, davanti al perfido amante sazierei le mie ire, e con essi tutti li vestimenti ti straccerei. Né questo mi basterebbe, anzi, con tagliente unghia il viso piaciuto agli occhi falsi arerei in molte parti, lasciando eterni segnali in quello delle mie vendette; e il misero corpo tutto con li bramosi denti lacererei, il quale poi lasciando a colui che ora ti lusinga a medicare, lieta ricercherei le triste case».
- Mentre che io queste parole dico, con gli occhi sfavillanti e co’ denti serrati, e con le pugna strette, quasi a’ fatti fossi, dimoro, e pare che parte della disiata vendetta mi rechino; ma la vecchia balia quasi piangendo mi dice:
- — O figliuola, poscia che tu conosci la fiera tirannia dello iddio che ti molesta, tempera te medesima, e li tuoi pianti raffrena; e se la debita pietá di te stessa a ciò non ti muove, muovati il tuo onore, al quale nuova vergogna d’antica colpa potrebbe nascere di leggieri; o almeno taci, non forse il tuo marito senta le triste cose, e per doppia cagione meritevolmente si dolga del fallo tuo. —
- Allora al ricordato sposo pensando, da nuova pietá mossa, piú forte piango, e nell’anima volgendo la rotta fede, e le male servate leggi, cosí dico alla mia balia:
- — O fidissima compagna delle nostre fatiche, di poco si può dolere il mio marito. Colui che fu del nostro peccato cagione, di quello è stato agrissimo purgatore; io ho ricevuto e ricevo secondo i meriti il guiderdone. Niuna pena mi poteva il marito dare maggiore, che quella che m’ha porta l’amante: sola la morte, se la morte è penosa come si dice, mi puote il marito per pena accrescere. Venga adunque, e déalami: ella non mi fia pena, anzi diletto, però che io la disidero, e piú dalla sua mano, che dalla mia mi fia graziosa. Se egli non la mi dá, o ella da sé non viene, il mio ingegno la troverá, però che io per quella spero ogni mia doglia finire. Lo ’nferno, de’ miseri supremo supplicio, in qualunque luogo ha in sé piú cocente, non ha pena alla mia somigliante. Tizio ci è porto14 per gravissimo esemplo di pena dagli antichi autori, dicenti a lui sempre essere pizzicato dagli avoltori il ricrescente fegato, e certo io non la stimo picciola, ma non è alla mia somigliante; ché se a colui avoltori pizzicano il fegato, a me continuo squarciano il cuore cento milia sollecitudini piú forti che alcuno rostro d’uccello. Tantalo15 similmente dicono tra l’acque e li frutti morirsi di fame e di sete; certo e io posta nel mezzo di tutte le mondane delizie, con affettuoso appetito il mio amante disiderando, né potendolo avere, tal pena sostengo quale egli, anzi maggiore, però che egli con alcuna speranza delle vicine onde e de’ propinqui pomi pure si crede alcuna volta potere saziare, ma io ora del tutto disperata di ciò che a mia consolazione sperava, e piú amando che mai colui che nell’altrui forza con suo volere è ritenuto, tutta di sé m’ha fatto di fuori. E ancora il misero Issione16 nella fiera ruota voltato non sente doglia sí fatta, che alla mia si possa agguagliare: io in continuo movimento da furiosa rabbia per gli avversarli fati rivolta, patisco piú pena di lui assai. E se le figliuole di Danao17 ne’ forati vasi con vana fatica continuo versano acqua credendoli empiere, e io con gli occhi, tirate dal tristo cuore, sempre lagrime verso.
- Perché ad una ad una le infernali pene mi fatico io di raccontare? Con ciò sia cosa che in me maggior pena tutta insieme si trova, che quelle in diviso o congiunte non sono. E se altro in me piú che in loro d’angoscia non fosse, se non che a me conviene tenere occulti li miei dolori, o almeno la cagione d’essi, lá dove essi con voci altissime e con atti conformi alle loro doglie li possono mostrare, si sarieno le mie pene maggiori che le loro da giudicare. Oimè! quanto piú fieramente cuoce il fuoco ristretto, che quello il quale per ampio luogo manda le fiamme sue! E quanto è grave cosa e di guai piena il non potere nelle sue doglie spandere alcuna voce, o dire la nociva cagione, ma convenirle sotto lieto viso nascondere solo nel cuore! Dunque non doglia, ma piuttosto di doglia alleggiamento mi sarebbe la morte. Venga adunque il caro marito, e sé ad un’ora vendichi, e me cacci di doglia; apra il suo coltello il mio misero petto, e fuori la dolente anima, amore e le mie pene ad un’ora ne tragga con molto sangue; e il cuore, di queste cose ritenitore, sí come ingannatore principale e ricettatore de’ suoi nemici, laceri come merita la commessa nequizia. —
- Dappoi che la vecchia balia me tacita del parlare, e nel profondo delle lagrime vide, cosí con voce sommessa mi cominciò a dire:
- — O cara figliuola, che è quello che tu favelli? Le tue parole sono vane, e pessimi sono gl’intendimenti. Io in questo mondo vecchissima molte cose ho vedute, e gli amori di molte donne senza dubbio ho conosciuti; e ancora che io tra ’l numero di voi da mettere non sia, non per tanto io pur giá conobbi gli amorosi veleni, li quali cosí vengono gravi, e molto piú tal fiata, alle menome genti come alle piú possenti, in quanto piú alle indigenti sono chiuse le vie a’ loro piaceri, che a coloro che con le ricchezze le possono trovare per lo cielo; né quello che tu quasi impossibile e tanto a te penoso favelli, non udii, né sentii mai essere duro come ne porgi. Il quale dolore, pure posto che gravissimo sia, non è perciò da consumarsene come fai, e quindi cercare la morte, la quale tu piú adirata che consigliata domandi. Bene conosco io che la rabbia dalla focosa ira stimolata è cieca, e non cura di coprirsi, né freno alcuno sostiene, né teme morte, anzi essa medesima da se stessa sospinta, si fa contro alle mortali punte dell’agute spade; la quale, se alquanto raffreddare fia lasciata, non dubito che l’accesa follia saria manifesta al raffreddato. E però, figliuola, sostieni il suo grave impeto, e da’ luogo al furore, e alquanto nota le mie parole; e negli esempli da me detti ferma l’animo tuo.
- «Tu ti duoli con gravi ramarichii, se io ho bene le tue parole raccolte, dell’amato giovane da te dipartito e della rotta fede, e d’Amore e della nuova donna, e in questo dolerti niuna pena alla tua reputi eguale; e certo, se tu savia sarai come io disidero, a tutte queste cose con effetto raccogliendo le mie parole prenderai tu utile medicina. Il giovane, il quale tu ami, senza dubbio secondo l’amorose leggi, come tu lui, te dée amare; ma se egli nol fa, fa male, ma niuna cosa a farlo il può costrignere. Ciascheduno il beneficio della sua libertá, come gli pare, può usare. Se tu fortemente ami lui tanto che di ciò pena intollerabile sostieni, egli di ciò non t’ha colpa, né giustamente di lui ti puoi dolere: tu stessa di ciò ti se’ principalissima cagione. Amore, ancora che potentissimo signore sia, e incomparabili le sue forze, non però, te invita, ti poteva il giovine pignere nella mente; il tuo senno e gli oziosi pensieri di questo amore ti furono principio, al quale se tu vigorosamente ti fossi opposta, tutto questo non avvenia, ma libera lui e ogni altro averesti potuto schernire, come tu di’ che egli di te non curantesi ti schernisce. Egli adunque t’è bisogno, poi la tua libertá gli sommettesti, di reggerti secondo li suoi piaceri: piacegli ora di stare a te lontano, a te similemente senza ramaricarti si conviene che egli piaccia; se egli intera fede lagrimando ti diede, e di tornare impromise, non cosa nuova, ma antichissima usanza fe’ degli amanti; questi sono de’costumi che s’usano nella corte del tuo iddio.
- «Ma se egli attenuta non te l’ha, niuno giudice si trovò mai che di ciò tenesse ragione, né di ciò piú si puote che dire «male ha fatto», e darsi pace, sappiendo che a lui sia da fare, se mai a tal partito la fortuna tel desse, a quale ella ha te a lui conceduta. Egli ancora non è il primo che questo fa, né tu la prima a cui avviene. Giasone si parti di Lemnos18 d’Isifile, e tornò in Tessaglia di Medea19; Paris si parti di Oenone20 delle selve d’Ida e ritornò a Troia di Elena; Teseo si partí21 di Creti di Adriana, e giunse ad Atene di Fedra: né però Isifile, o Oenone, o Adriana s’uccisero, ma posponendo li vani pensieri, misero in oblio li falsi amanti. Amore, come io di sopra ti dissi, niuna ingiuria ti fa o t’ha fatto, piú che tu t’abbi voluto pigliare. Egli usa il suo arco e le sue saette senza provvedimento alcuno, sí come noi tutto giorno veggiamo; e déeti per manifesti e infiniti esempli la sua maniera essere chiara, che niuno meritamente di cosa che gli avvenga per lui, non si dovria di lui ma di sé condolere. Egli fanciullo lascivo, ignudo e cieco, vola e gitta, e non sa dove: per che il dolersene, non consolazione averne, o di modo rimuoverlo, è anzi piuttosto un perdersi le parole.
- «La nuova donna, dal tuo amante presa o forse da lei preso il tuo amante, alla quale tu con tante ingiurie minacci, forse non con sua colpa l’ha fatto suo, ma egli forse di lei con improntitudine è divenuto, e come tu a’ prieghi di lui non potesti resistere, per avventura né ella medesima, non meno di te pieghevole, li potè senza pietá sostenere. Se egli cosí sa piangere, come narri, quando gli piace, siati manifesto le lagrime e la bellezza congiunte avere grandissime forze. E oltre a ciò, poniamo pure che la gentil donna con le sue parole e atti l’abbia irretito: cosí s’usa oggi nel mondo, che ciascuna persona cerca il suo vantaggio, e senza altrui riguardare, quando il truova sel piglia come egli puote. La buona donna, non forse meno di te savia in queste cose, lui destro alla milizia di Venere conoscendo, sel recò a sé. E chi tiene te che tu non possi fare il simigliante d’un altro? La qual cosa non lodo, ma pure, se piú non si puote e di seguire Amore se’ costretta, ove tu la tua libertá da colui vogli ritrarre, ché potrai, infiniti giovani ci sono piú di lui degni, per quello che io creda, che volentieri a te diverranno suggetti: il diletto de’ quali cosí lui trarranno della tua mente, come la nuova donna ha forse te della sua tratta.
- Di queste fedi promesse e giuramenti fatti intra gli amanti, Giove se ne ride quando si rompono; e chi tratta altrui secondo che egli è trattato, forse non falla soverchio, anzi usa il mondo secondo li modi altrui. Il servare fede a chi a te la rompe, è oggi reputata mattezza, e lo ’nganno compensare con lo ’nganno si dice sommo sapere. Medea da Giasone abbandonata si prese Egeo, e Adriana da Teseo lasciata si guadagnò Bacco per suo marito, e cosí li loro pianti mutarono in allegrezza. Dunque piú pazientemente le tue pene sostieni, poiché meritamente d’altrui che di te non t’hai a dolere, e a quelle truovansi molti modi a lasciarle, quando vorrai, considerando ancora che giá ne furono sostenute per altre delle sí gravi, e trapassate. Che dirai tu di Deianira22 essere abbandonata per Iole da Ercule, e Filis23 da Demofonte, e Penelope24 da Ulisse per Circe? Tutte queste furono piú gravi che le tue pene, in quanto cosí o piú era fervente l’amore, e se si considera il modo e gli uomini piú notabili e le donne; e pure si sostennero. Dunque, a queste cose non se’ sola né prima, e quelle alle quali l’uomo ha compagnia, appena possono essere importabili o gravi, come tu le dimostri. E però rallégrati e le vane sollecitudini caccia, e del tuo marito dubita; al quale forse se questo pervenisse agli orecchi, posto, come tu di’, che nulla piú oltre te ne potesse per pena dare che la morte, quella medesima, con ciò sia cosa che piú che una volta non si muoia, si dée, quando l’uomo può, pigliare la migliore. Pensa, se quella come adirata la dimandi ti seguisse, di questo di quanta infamia ed eterna vergogna rimarrebbe la tua memoria fregiata. Egli si vogliono le cose del mondo cosí apparare ad usare come mobili; e per innanzi né tu né niuno in esse molto si confidi se vengono prospere, né nell’avverse prostrato delle migliori si disperi. Cloto25 mescola queste cose con quelle, e vieta che la fortuna sia stabile, e ciascuno fatto rivolge; niuno ebbe mai gl’iddíi sí favorevoli che nel futuro li potesse obbligare; Iddio le nostre cose, da’ peccati incitato, con turbazione rovescia; la fortuna similmente teme li forti, e avvilisce li timidi.
- Ora è tempo da provare se in te ha luogo niuna virtú, avvegna che a quella in niuno tempo si possa tôrre luogo, ma le prosperitá la ricuoprono assai spesso. La speranza ancora ha questa maniera, che ella nelle cose afflitte non mostra alcuna via: e però chi in niuna cosa puote sperare, di nulla si disperi. Noi siamo agitati da’ fati; e credimi che non di leggieri si possono con sollecitudine mutare le cose apparecchiate da loro. Ciò che noi generazione mortale facciamo e sosteniamo, quasi la maggior parte viene da’ cieli; Lachesis serva alla sua rocca la decretata legge, e ogni cosa mena per limitata via: il primo dí ci diede lo stremo, né è licito d’avere le avvenute cose rivolte in altro corso. L’avere voluto il mobile ordine tenere nocque giá a molti, e a molti ancora l’averlo temuto; però che mentre essi li loro fati temono, giá a quelli sono pervenuti. Adunque lascia li dolori li quali volontaria hai eletti, e vivi lieta negl’iddíi sperando, e opera bene, però che spesso avvenne giá che qualora l’uomo piú alla felicitá si crede lontano, allora in quella con disavveduto passo è entrato. Molte navi, correndo felicemente per gli alti mari, giá ruppero all’entrata de’ salvi porti; e cosí alcune, di salute disperate del tutto, salve in quelli alla fine si ritrovarono. E io ho giá veduti molti alberi dalle fiammifere folgori di Giove percossi, ivi a pochi tempi pieni di verdi frondi; e alcuni, con sollecitudine riguardati, da non conosciuto accidente essersi secchi. La fortuna dá varie vie, e cosí come ella di noia t’è stata cagione, cosí, se sperando la tua vita nutrichi, ti sará similmente di gioia. —
- Non una sola volta ma molte usò verso me la savia balia cotali parole, credendosi da me potere cacciare li dolori, e l’ansietá riserbate solamente alla morte; ma di quelle poco o nulla toccava con frutto l’occupata mente, e la maggior parte perduta si smarria tra l’aure, e il mio male di giorno in giorno piú comprendea la dolente anima: per che spesso supina sopra il ricco letto col viso tra le braccia nascoso, nella mente varie cose e grandi rivolgea. Io dirò crudelissime cose, e quasi da non dovere essere credute da donna essere pensate, se avvenire per addietro cosí fatte, o maggiori, non si fossero vedute. Essendo io nel cuore vinta da incomparabile doglia, sentendomi dal mio amante disperata lontana, cosí fra me a dire cominciai:
- «Ecco, quella cagione che la sidonia Elissa ebbe d’abbandonare il mondo, quella medesima m’ha Panfilo donato, e molto peggiore. A lui piace che io, abbandonate queste, nuove regioni cerchi; e io, poiché suggetta gli sono, farò quello che gli piace, e al mio amore e al commesso male e all’offeso marito ad un’ora sodisfarò degnamente; e se agli spiriti sciolti dalla corporal carcere e al nuovo mondo è alcuna libertá, senza alcuno indugio con lui mi ricongiugnerò, e dove il corpo mio esser non puote, l’anima vi stará in quella vece. Ecco, adunque morrò, e questa crudeltá, volendo l’aspre pene fuggire, si conviene usare a me in me stessa, però che niuna altra mano potrebbe sí essere crudele, che degnamente quella che io ho meritata operasse. Prenderò adunque senza indugio la morte, la quale, ancora che oscurissima cosa sia a pensare, piú graziosa l’aspetto che la dolente vita».
- E poi che io ultimamente fui in questo proponimento diliberata, fra me cominciai a cercare quale dovesse de’ mille modi esser l’uno che mi togliesse di vita: e prima m’occorsero ne’ pensieri li ferri, a molti di quella stati cagione, tornandomi a mente la giá detta Elissa26 partita di vita per quelli. Dopo questo mi si parò davanti la morte di Biblis27 e d’Amata28, il modo delle quali s’offeriva a finire la mia vita; ma io, piú tenera della mia fama che di me stessa, e temendo piú il modo del morire che la morte, parendomi l’uno pieno d’infamia, e l’altro di crudeltá soverchia nel ragionare delle genti, mi fu cagione di schifare e l’uno e l’altro. Poi immaginai di voler fare sí come fecero li Saguntini29 o gli Abidei30, gli uni tementi Annibale Cartaginese e gli altri Filippo Macedonico, li quali le loro cose e se medesimi alle fiamme commisero; ma veggendo in questo del caro marito, non colpevole de’ miei mali, gravissimo danno, come gli altri precedenti modi avea rifiutati, cosí e questo ancora rifiutai. Vennermi poi nel pensiero li velenosi sughi31, li quali per addietro a Socrate e a Sofonisba e ad Annibale e a molti altri principi l’ultimo giorno segnarono, e questi assai a’ miei piaceri si confecero; ma veggendo che a cercare d’averli tempo si convenia interporre, e dubitando non in quel mezzo si mutasse il mio proponimento, di cercare altra maniera immaginai, e pensato mi venne di volere intra le ginocchia, come molti giá fecero, rendere il tristo spirito: dubitando d’impedimento, che ’l vedea, ad altra specie di pensiero trapassai. E questa cagion medesima gli accesi carboni di Porzia mi fece lasciare: ma venutami nella mente la morte d’Ino e di Melicerte, e similmente quella di Erisitone, il bisognarmi lungo spazio all’una ad andare, all’altra ad aspettare, me le fece lasciare, immaginando dell’ultima il dolore lungamente nutricare i corpi. Ma oltre tutti questi modi, m’occorse la morte di Pernice caduto dell’altissima arce cretense, e questo solo modo mi piacque di seguitare per infallibile morte e vôta d’ogni infamia, fra me dicendo:
- «Io dell’alte parti della casa gittandomi, il corpo rotto in cento parti, per tutte e cento renderá l’infelice anima maculata e rotta a’ tristi iddíii, né fia chi quinci pensi crudeltá o furore in me stato di morte, anzi a fortunoso caso imputandolo, spandendo pietose lagrime per me, la fortuna maladiranno».
- Questa diliberazione nell’animo mio ebbe luogo, e sommamente mi piacque di seguitarla, pensando in me grandissima pietá usare, se forte spietata contro a me divenissi.
- Giá era il pensiero fermo, né altra cosa aspettava che tempo, quando un freddo subito entrato per le mie ossa, tutta mi fece tremare, il quale con seco recò parole cosí dicenti:
- «O misera, che pensi tu di fare? Vuoi tu per ira e per corruccio divenire nulla? Or se tu fossi pure ora per morire da infermitá grave costretta, non ti dovresti tu ingegnare di vivere, acciò che almeno una volta innanzi la morte tua tu potessi vedere Panfilo? Non pensi tu che morta noi potrai vedere? Né la pietá di lui verso te ninna cosa potrá operare? Che valse a Filis32 non paziente la tarda tornata di Demofonte? Essa fiorendo senza alcuno diletto sentií la venuta sua, la quale se sostenere avesse potuto, donna, non albero l’averia ricevuto. Vivi adunque, ché egli pure tornerá qui alcuna volta, o amante o nemico che egli ci torni; e quale che egli d’animo ci torni, tu pur l’amerai, e per avventura il potrai vedere, e farlo pietoso de’ casi tuoi: egli non è di quercia, o di grotta, o di dura pietra scoppiato, né bevve latte di tigre o di qualche altro piú fiero animale, né ha cuore di diamante o d’acciaio, che egli a quelli non sia pietoso e pieghevole; ma se pure da pietá non fia vinto, vivendo tu, allora di morire piú licito ti sará. Tu hai oltre ad uno anno senza lui sostenuta la trista vita; bene la puoi ancora sostenere oltre ad uno altro. In niuno tempo falla la morte a chi la vuole. Ella fia cosí presta, e molto meglio allora che non è ora; e potraine andare con isperanza che egli alcuna lagrima, quantunque nemico e crudele sia, porgerá alla tua morte. Ritira adunque indietro il troppo subito consiglio, però che chi di consigliare s’affretta, si studia di pentère. Questo che tu vuoi fare, non è cosa che pentimento ne possa seguire, e, se egli pur ne seguisse, da poterlo indietro tornare».
- Cosí da queste cose l’anima occupata, il proponimento subito lungamente in libra tenne; ma stimolandomi Megera con aspre doglie, vinsi di seguire il proposto, e tacitamente pensai di mandarlo ad effetto; e con benigne parole alla mia balia, che giá tacea, nel tristo viso mostrai infinto conforto, alla quale, acciò che quindi si dipartisse, dissi:
- — Ecco, carissima madre, li tuoi parlari verissimi con utile frutto luogo nel petto mio hanno trovato, ma acciò che ’1 cieco furore esca della pazza anima, alquanto di qui ti cessa, e me di dormire disiderosa al sonno lascia. —
- Ella sagacissima, e quasi de’ miei intendimenti indovina, il mio dormire loda, e da me dilungatasi alquanto per lo ricevuto comandamento, della camera uscire non volle in niuno modo. Ma io, per non farla del mio intendimento sospetta, oltre al mio piacere sostenni la sua dimora, immaginando che, dopo alquanto, quieta veggendomi, si dovesse partire. Fingo adunque con riposo tacito il pensato inganno, nel quale, benché di fuori niuna cosa appaia, cosí nell’ore le quali a me ultime doveano essere pensava, fra me dogliosa dicea cotali parole:
- «O misera Fiammetta, o piú che altra dolorosissima donna, ecco che ’l tuo ultimo di è venuto! oggi, poi che dall’alto palagio ti sarai gittata in terra, e l’anima avrá lasciato il rotto corpo, terminate fieno le lagrime tue, li sospiri, l’angoscie e li disiri, e ad un’ora te e il tuo Panfilo libero farai della promessa fede. Oggi avrai da lui li meritati abbracciari; oggi le militari insegne d’Amore copriranno il corpo tuo con disonesto strazio; oggi il tuo spirito il vedrá; oggi conoscerai per cui t’abbia abbandonata; oggi a forza pietoso il farai; oggi comincerai le vendette della nemica donna. Ma, o iddii, se in voi niuna pietá si truova, negli ultimi miei prieghi siatemi graziosi: fate la mia morte senza infamia passare tra le genti. Se in quella alcuno peccato, prendendola, si commette, ecco che di quello la sodisfazione è presente, cioè che io muoio senza osare manifestare la cagione, la quale cosa non piccola consolazione mi sarebbe, se io credessi, ciò dicendo, passare senza biasimo. Fatela ancora con pazienza sostenere al caro marito, il cui amore se io debitamente avessi guardato, ancora lieta senza porgervi questi prieghi, di vivere chiederei. Ma io, sí come femina mal conoscente del ricevuto bene, e come l’altre sempre il peggio pigliando, ora questo guiderdone me ne dono. O Atropos, per lo tuo infallibile colpo a tutto il mondo, umilmente ti priego che il cadente corpo guidi nelle tue forze, e con non troppa angoscia l’anima sciogli dalle fila della tua Lachesis; e tu, o Mercurio33, di quella ricevitore, io ti priego per quell’amor che giá ti cosse, e per lo mio sangue, il quale io da ora offero a te, che tu benignamente la guidi a’ luoghi a lei disposti dalla tua discrezione, né si aspri glieli apparecchi, che lievi reputi i mali avuti».
- Queste cose cosí fra me dette, Tesifone venne dinanzi agli occhi miei, e con non intendevole mormorio, e con minaccevole aspetto mi fe’ pavida di peggiore vita che la preterita. Ma poi, con piú sciolta favella dicendo niuna cosa una sola volta provata può essere grave, il turbato animo alla morte infiammò con piú focoso disio. Per che, veggendo io che ancora non si partia la vecchia balia, dubitando non troppo aspettare me apparecchiata a morire indietro traesse il proposto, o che accidente via noil togliesse, stese le braccia sopra il mio letto quasi abbracciandolo, dissi piangendo:
- «O letto, rimanti con Dio, il quale io priego che alla seguente donna, piú che a me non t’ha fatto, ti facci grazioso».
- Poi, gli occhi rivolti per la camera, la quale piú mai non sperava vedere, presa da dolore subito il cielo perdei, e quasi palpando oppressa da non so che tremito mi volli levare, ma le membra vinte da paura orribile non mi sostennero; anzi ricaddi, e non solo una, ma tre fiate sopra il mio viso, e in me fierissima battaglia sentiva tra li paurosi spiriti e l’adirata anima, li quali lei volente fuggire a forza teneano. Ma pure l’anima vincendo, e da me la fredda paura cacciando, tutta di focoso dolore m’accese, e riebbi le forze. E giá nel viso del colore pallido della morte dipinta, impetuosamente su mi levai, e, quale il forte toro ricevuto il mortal colpo furioso in qua e in lá saltella, sé percotendo, cotale dinanzi a gli occhi miei errando Tesifone, del letto, non conoscendo gl’impeti miei, come baccata mi gittai in terra, e dietro alla furia correndo, verso le scale saglienti alla somma parte delle mie case mi dirizzai; e giá fuori della camera trista saltata, forte piangendo, con disordinato sguardo tutte le parti della casa mirando, con voce rotta e fioca dissi:
- «O casa, male a me felice, rimani eterna, e la mia caduta fa’ manifesta all’amante, se egli torna; e tu, o caro marito, confortati e per innanzi cerca d’una piú savia Fiammetta. O care sorelle, o parenti, o qualunque altre compagne e amiche, o servitrici fedeli, rimanete con la grazia degl’iddii».
- Io rabbiosa intendeva con tutte le parole al tristo corso, ma la vecchia balia, non altramente che chi dal sonno a’ furori è escitato, lasciato della rocca lo studio, subito stupefatta questo veggendo, levò li gravissimi membri, e gridando, come poteva mi cominciò a seguire. Ella con voce appena da me creduta diceva:
- — O figliuola, ove corri? Qual furia ti sospigne? È questo il frutto che tu dicevi che le mie parole in te aveano di preso conforto messo? Ove vai tu? Aspettami.—
- Poi con voci ancora maggiori gridava:
- — O giovani, venite, occupate la pazza donna, e ritenete li suoi furori. —
- Il suo romore era nulla, e molto meno il grave corso. A me parea che fossero ali cresciute, e piú veloce che alcuna aura correva alla mia morte. Ma li non pensati casi, si a’ buoni come a’ rei proponimenti opponentisi, furono cagione che io sia viva, però che li miei panni lunghissimi, e al mio intendimento nemici, non potendo con la loro lunghezza raffrenare il mio corso, ad uno forcuto legno, mentre io correva, non so come, s’avvilupparono, e la mia impetuosa fuga fermarono, né per tirare che io facessi, di sé parte alcuna lasciarono; per che, mentre io tentava di riaverli, la grave balia mi sopraggiunse, alla quale io con viso tinto mi ricorda che io dissi con alto grido:
- — O misera vecchia, fuggi di qui, se la vita t’è cara! Tu ti credi aiutarmi, e offendimi; lasciami usare il mortale ufício ora a ciò disposta con somma voglia; però che niuna altra cosa fa chi colui di morire impedisce che disidera di morire, se non che egli l’uccide: tu di me diventi micidiale, credendomi tôrre dalla morte, e come nemica tenti di prolungare i danni miei.—
- La lingua gridava, e il cuore ardeva d’ira, e le mani per la fretta credendosi sviluppare, avviluppavano; né prima a me occorse il rimedio dello spogliarmi, che sopraggiunta dalla gridante balia, come ella potea cosí da lei era impedita; ma la sua forza in me giá sviluppata niente valeva, se le giovani serve al colei grido da ogni parte non fossero córse, e me avessero ritenuta, delle mani delle quali piú volte con guizzi diversi e con forze maggiori mi credetti ritrarre, ma, vinta da loro, stanchissima fui nella camera, la quale mai piú vedere non credeva, menata. Oimè! quante volte loro dissi con piagnevole voce:
- — O vilissime serve, quale ardire è questo, che vi concede che la vostra donna da voi violentemente sia presa? Qual furia, o misere, v’ha spirate? E tu, o iniqua nutrice del misero corpo, futuro esemplo di tutti li dolori, perché all’ultimo disio m’hai impedita? Ora non sai tu ch’egli mi sarebbe maggior grazia comandarmi la morte che da quella difendermi? Lascia la misera impresa da me adempiere, e me di me a mio senno lascia fare, se cosí m’ami come io credo; e se cosí se’ pietosa come dimostri, adopera la tua pietá in salvare la dubbia fama, che dopo me di me rimarrá, però che in questo in che tu ora m’impedisci, la tua fatica fia vana. Credimi tu potere tôrre gli aguti ferri, nelle punte de’ quali consiste il mio disio, o li dolenti lacci, o le mortali erbe o il fuoco? Che profitto adopera questa tua cura? Prolunga un poco la dolorosa vita, e forse alla morte, che ora senza infamia mi veniva, indugiata, aggiungerá vergogna. Tu, o misera, non la mi potrai per guardia tôrre, però che la morte è in ogni luogo, e consiste in tutte le cose, ed eziandio ne’ vitali argomenti fu giá trovata: dunque, lasciami morire prima che piú divenendo dolente che io mi sia, con piú feroce animo la domandi. —
- Io, mentre che queste parole miseramente diceva, non teneva le mie mani in riposo, ma ora questa ora quella serva rabbiosamente pigliando, a quale levate le treccie tutta la testa pelava, e a quale ficcando le unghie nel viso, miseramente graffiandola, la faceva filare sangue, e ad alcuna mi ricorda che io tutti i poveri vestimenti in dosso le squarciai. Ma oimè! che né la vecchia balia né le lacerate serve ad alcuna cosa mi rispondevano, anzi piangendo in me usavano pietoso uficio. Io allora piú mi sforzava vincerle con parole, ma nulla valeano; per che con romore a gridare cominciai:
- «O mani inique e possenti ad ogni male, voi ornatrici della mia bellezza foste gran cagione di farmi tale che io fossi disiderata da colui il quale io piú amo: dunque, poiché male del vostro uficio m’è seguito, in guiderdone di ciò ora l’empia crudeltá usate nel vostro corpo, laceratelo, apritelo, e quindi la crudele anima e inespugnabile ne traete con molto sangue. Tirate fuori il cuore ferito dal cieco Amore; e poiché tolti vi sono i ferri, lui con le vostre unghie, sí come di tutti i vostri mali cagione principale, senza alcuna pietá laniate».
- Oimè! che le mie voci mi minacciavano li disiderati mali, e comandavanlo alle volonterose mani ad eseguire; ma le preste fanti m’impedirono, tenendole contro a mia voglia.
- Poi la trista balia e importuna con dolenti voci incominciò cotali parole:
- — O cara figliuola, io ti priego per questo misero seno onde tu li primi alimenti traesti, che con umiliata mente alquante mie poche parole m’ascolti. Io non cercherò in quelle di tôrti che tu non ti dolghi, o che forse la degna ira che a questo furore t’accende, tu la cacci da te, o per dimoranza la rompi, o con rimesso petto e piacevole la sostenghi; ma quello solo che vita ti sará e onore, riducerò alla smarrita memoria. Egli si conviene a te, famosa giovane di tanta virtú quanta tu se’, il non stare suggetta al dolore, né come vinta dare le spalle a’ mali. Egli non è virtú il chiedere la morte, come se la vita si temesse come tu fai, ma a’ sopravvegnenti mali contrastare, né a quelli davanti fuggire, è virtú somma. Chi li suoi fati abbatteo, e li beni della sua vita da sé gittò e divise, sí come tu hai fatto, non so perché uopo gli sia di cercare morte, né so perché la domandi: l’una e l’altra è volontá di timido. Dunque se tu te in somma miseria porre disideri, non cercare la morte per quella, però che essa è ultima cacciatrice di quella; fuga questo furore della tua mente, per lo quale ad un’ora d’avere e di perdere mi pare che cerchi l’amante. Credi tu, nulla divenendo, acquistarlo? —
- Io non risposi alcuna cosa; ma intanto il romore si sparse per la spaziosa casa e per la contrada circunvicina, e non altramente che all’urlare d’un lupo si sogliono tutti i circustanti in uno convenire, corsero quivi li servidori d’ogni parte, e tutti dolenti dimandavano che ciò fosse. Ma giá era stato vietato da me a chi ’l sapeva di dirlo, per che con menzogna ricoprendo l’orribile accidente, sodisfatti erano. Corsevi il caro marito, e corsonvi le sorelle, e li cari parenti e gli amici, ed egualmente tutti da uno inganno occupati, lá dove io era iniqua, pietosa fui reputata; e ciascuno dopo molte lagrime la mia vita riprese cosí dolente, ingegnandosi appresso di confortarmi. Oimè! che quinci avvenne che alcuni me stimolata da alcuna furia credettero, e me quasi furiosa guardavano; ma altri piú pietosi la mia mansuetudine riguardando, dolore, sí come era, stimandolo, di ciò che quelli dicevano si fecero beffe, portandomi compassione. E cosí visitata da molti, piú giorni stupefatta rimasi, e sotto discreta custodia della sagace balia fui tacitamente guardata.
- Niuna ira è si focosa che per passamento di tempo freddissima non divenga. Io alcuni giorni cosí dimorata come io disegno, mi riconobbi, e manifestamente le parole della savia balia vidi vere, e certo io la mia passata follia piansi amaramente. Ma posto che il mio furore nel tempo si consumasse e ritornasse nulla, il mio amore per questo non ebbe alcuno mutamento, anzi mi pur rimase la malinconia usata negli altri accidenti d’avere, e gravemente portava l’essere stata per altra donna abbandonata; e spesse volte sopra ciò con la discreta balia ebbi consiglio, volendo modo trovare per lo quale a me rivocassi l’amante. E alcuna volta proponemmo con lettere pietosissime i miei casi dolenti narranti, e altra volta piú utile essere pensammo che per savio messaggio con viva voce gli annunziassimo li miei mali; e certo che, ancora che vecchia fosse la balia, e il cammino lungo e malvagio, per me si volle disporre ad andarvi: ma bene riguardando ogni cosa, le lettere, quantunque fossero state pietose, efficaci non reputammo a rispetto de’ presenti e nuovi amori; sí che per perdute le giudicammo, avvegna che con tutto questo pure ne scrivessi alcuna, che quello uscimento ebbe che divisammo. Il mandarvi la balia chiaramente conobbi lei non viva potere a lui pervenire, né ad altrui da fidarsene reputai; sií che frivoli furono li primi avvisi, e solamente nell’animo mi rimase niuna via esserci a riaverlo, se non se io per lui andassi, alla qual cosa fare diversi modi per la mente m’occorsero, li quali ultimamente tutti furono per cagioni legittime annullati dalla mia balia. Io pensai alcuna volta di prendere abito di peregrino con alcuna fida compagna, e in quello cercare li suoi paesi; e benché questo mi paresse possibile, non per tanto in esso pericolo grandissimo conobbi del mio onore, sapendo come le viandanti pellegrine, alle quali alcuna forma si vede, siano sovente ne’ cammini trattate dagli scedanti; e oltre a questo, me al caro marito sentendo obbligata, senza lui non vidi come essere potesse l’andata o senza sua licenza, la quale da sperare non era giammai; per la qual cosa questo pensiero come vano abbandonai, e subitamente in un altro non poco malizioso mi trasportai, e fatto mi credetti ch’el venisse, e sarebbe, se alcuno caso avvenuto non fosse, ma nel futuro spero non mancherá, solo che io viva. Io mi infinsi d’avere in queste mie predette avversitá, se Iddio mi traesse di quelle, fatto alcuno vóto, il quale volendo fornire, con giusta cagione poteva e posso volere, passare per lo mezzo della terra del mio amante, per la quale passando non mi mancava cagione di lui volere e dover vedere, e a quello rivocare per che io andava.
- E certo, come io dico, io lo scopersi al caro marito, il quale a ciò fornire sé lietamente offerse, ma tempo a ciò competente, come è detto, disse volea che attendessi; ma l’indugio a me gravissimo, e temendolo vizioso, mi fu cagione d’entrare in altri avvisi, e tutti mi vennero meno, fuori solamente d’Ecate34 le mirabili cose, le quali, acciò che a’ paurosi spiriti sicurissima mi commettessi, piú volte con diverse persone, vantantisi ciò sapere operare, ebbi ragionamenti; e alcune di trasportarmi subitamente impromettendomi, altre di sciogliere la sua mente da ogni altro amore e nel mio ritornarlo, altre dicendo di rendere a me la pristina libertá, volendo io d’alcuni di questi all’effetto venire, piú di parole che d’opere li trovai pieni; onde non una volta, ma molte rimasi da loro nella mia speranza confusa, e, per lo migliore, senza piú a queste cose pensare, mi diedi ad aspettare il tempo congruo dal caro marito promesso a fornire il vóto fittizio.
- ↑ [il sole tornato etc.]: cioè il sole era tornato un’altra volta nel segno di Scorpione che è uno delli dodici segni del Zodiaco, e però vuol dire ch’era giá passato uno anno che Panfilo s’era partito da Fiammetta, ch’era stato del mese di ottobre, perciò che il sole entra nel detto segno a mezzo ottobre, e in quello segno era allora che Fetone figliuolo di Febo e di Climenes guidò il carro del sole onde arse tutto il mondo; e questo prova Ovidio nel secondo libro Metamorphoseos: Est locus in geminos ubi bracchia concavat arcus
- Scorpius et cauda flexisque utrimque lacertis.
- [Met., II, 195-196.]
- ↑ [Oenone]: fu una giovinetta pastorella delle ville di Troia, della quale s’innamorò Paris figliuolo di Priamo e presela per moglie prima che ritornasse alle delizie reali; e ritornato e riconosciuto per figliuolo di re Priamo, andò da poi in Grecia e tolse Elena moglie di Menelao, e menolla a Troia, la quale vedendo Oenone ebbe grandissima doglia.
- ↑ [il misero Atamante]. Questo fu re di Tebe, il quale ebbe una sua moglie chiamata Ino della quale ebbe due figliuoli: l’uno si chiamava Learco, l’altro Melicerte. E perché Giunone sempre fu nemica di tutti quelli che discesono di Cadmo che edificò Tebe, come è stato detto dinanzi per Semelé della quale Giove s’innamorò, cosí inimicando fe’ mettere furia addosso al detto Atamante per sí fatta forma che vedendo esso la detta sua moglie con li figliuoli in braccio, gli parve una lionessa e correndo incontro a lei gridando «tendete le reti acciò che sia presa», e giuntala, tolse di braccio il detto figliuolo Learco dicendo ch’era uno leoncino e stoppiollo nel muro e ucciselo. Onde la madre fuggendo con l’altro chiamato Melicerte, giunta sopra uno scoglio del mare, si gettò con esso suo figliuolo. Per la qual cosa Nettuno iddio del mare a’ prieghi di Venere sí la trasmutò insieme col figlio in dea marina che fu poi chiamata Leuocotoe e lo figlio Palemone, e perciò dice Ovidio: Annuit oranti Neptunus et abstulit illis
- Quod mortale fuit, maiestatemque verendam
- Inposuit, nomenque simul faciemque novavit:
- Leucotheeque deum cum matre Palaemona dixit.
- [Met., IV, 539-542]
- ↑ [dello innocente Ipolito ]. Questo fu figliuolo di Teseo duca d’Atene e figliuolo d’Ipolita regina dell’Amazone, la quale poi che fu morta, andando esso Teseo per essere divorato dal Minotauro e scampato per l’aiuto di Adriana e di Fedra figliuole di re Minos, si prese per moglie la detta Fedra. E però qui è da sapere quello che pone Seneca nella terza tragedia, che essendo andato Teseo in compagnia di Peritoo suo compagno allo ’nferno ed essendo rimaso il detto Ipolito in luogo del padre insieme con Fedra sua matrigna, essa s’innamorò di lui tanto fieramente che lo richiese d’amore, ed esso ch’era castissimo non volle consentire. Onde ella tenendosene svergognata e volendo sua vergogna ricoprire, quando Teseo fu tornato, l’accusò che l’avea voluta sforzare. La qual cosa udendo Teseo mattamente credette, e prendendo il detto suo figlio per farlo morire, e non potendolo avere, lo isbandí di tutto il suo reame. Onde esso fuggendo per andare alla cittá di Corinto, andando per la riva del mare, di subito levato in gran fortuna escia del detto mare un toro il quale parea che gittasse uno mare per la bocca e per le nari; onde li cavalli suoi che tiravano il carro spaventati per gran paura in lá e in qua fori d’ogni via il detto carro violentemente tirando, si ruppe il meditullo, cioè quello che muntene le rote, e cadendo il carro e Ipolito insieme con esso, le rote gli andarono addosso e tutto il dilaniaro. Da poi per aiuto delli medici resuscitò e fu chiamato Virbio vel bis vir, e perciò dice Ovidio in libro Metamorphoseos: Hipolitus — dixit — nunc idem Virbius esto.
- [Met., XV, 544.]
- ↑ [ Cassandra ]: fu figliuola di re Priamo e fu assai bella del corpo, e d’essa s’innamorò Appollo iddio della sapienza che conosce ciò che deve venire e quel ch’è passato. Seguitando questa Cassandra per avere a fare con essa ed essa fuggendolo, pur vinta da molte promesse disse che volea consentire alla sua volontá se esso le dava grazia che essa potesse conoscere e indovinare le cose future. La qual cosa Appollo le concedette, e volendo avere a fare con essa, essa si fe’ beffe di lui e non gli volle osservare la promessa. Per la qual cosa Appollo vedendosi schernito da lei, non potendole togliere la grazia data, le tolse che quello che essa indovinasse non le fosse creduto, ma fosse riputata insana.
- ↑ [Dite]. Questo è re dello ’nferno.
- ↑ [Stige ]. Questa è una palude nello ’nferno, la quale è interpretata tristizia.
- ↑ [Arpie]: sono uccelli che hanno collo e viso umano e furono tre, cioè Aellopo, Occipito e Celeno; le quali quando Enea arrivò nell’isola di Strofade e pigliando rinfrescamento e cibo, queste Arpie vennero alle loro tavole e rapirono le lor vivande, e col loro putrido sterco imbrattarono tutte le mense; laonde Enea prese uno arco per cacciarle via e sagittolle. Di che esse come nunziatrici di male fuggendogli innanzi predissero ad esso Enea che innanzi che giugnesse in Italia ove dovea acquistare nuovo regno e li discendenti suoi dovieno edificare Roma, loro bisognava per fame mangiare le mense. Del quale agurio fu Enea molto tristo e però dice Virgilio nel terzo di Eneidos: Ibitis Italiani portusque intrare licebit;
- Sed non ante datam cingetis moenibus urbem
- Quam vos dira fames nostraeque iniuria caedis
- Ambesas subigat malis absumere mensas.
- [vv. 254 - 257.]
- ↑ [la celestiale Orsa]. In Arcadia fu una giovine bellissima ch’ebbe nome Calisto e fu serviziale di Diana; della quale Calisto s’innamorò Giove, e trasformatosi nella forma di Diana ebbe a fare con essa e ’ngravidolla, e nacquene uno figliuolo che si chiamò Arcas come fu detto dinanzi, ed essendo trasmutati in stelle fu chiamata Orsa maggiore e Orsa minore, le quali perché non tramontano come fanno l’altre, fingono li poeti che per comandamento di Giunone non si possano rinfrescar nel mare oceano come l’altre stelle.
- ↑ [e la rapace onda della ciciliana Cariddi]. Questo Cariddi è uno luogo di mare pericoloso in Cicilia, nel quale è sempre gran tempesta; onde le navi che vi vanno tutte periscono, però che quello luogo non ha mai posa. Onde dice Ovidio: Scylla latus dextrum, laevum inrequieta Charibdis.
- [Met., XIII, 730.]
- ↑ [e taceranno li cani di Silla ]. Silla fu figliuola di Forco, la quale fu bellissima vergine e vagheggiata da molti li quali essa tutti rifiutava fuggendo alle ninfe marine e spezialmente a Galatea della quale era innamorato Ciclope detto Polifemo. La quale Silla standosi un dí lavandosi su nel lito del mare, Glauco iddio marino che prima fu omo pescatore e da poi diventò iddio gustata certa erba la quale avea fatti tutti li pesci ch’avea presi resuscitare, vedendola, subito s’innamorò di lei, ed essa schifandolo lo fuggia come suo nemico. Laonde il detto Glauco se ne andò a madonna Circe figliuola del Sole, la quale con suoi incanti e per virtú d’erbe facea venire gli uomini e le donne alla sua volontá, e narrando il detto Glauco il suo amore, raccomandandosi elli che lo dovesse aiutare, essa vedendolo, perché era bellissimo, s’innamorò di lui e richieselo d’amore. A cui Glauco rispose che il suo amore volea che fosse di Silla. Per la qual cosa Circe disdegnatasi, sapendo il luogo del mare ove la detta Silla pigliava rinfrescamento bagnandosi, essa Circe andò al detto luogo e per dispetto di Glauco, acciò che di lei avesse abominazione, quello luogo fece con sughi d’erbe e con suoi incanti infetto e maladetto. Al qual luogo quando la detta Silla andò com’era usata, e intrata dentro fino al corpo per bagnarsi, li peli ch’essa avea addosso tutti diventarono cani che sempre abbaiavano e latravano, e da poi fu trasformata in uno scoglio marino; il quale luogo è pericolosissimo in mare; onde di lei parla Ovidio: Scylla venit: mediaque tenus descenderat alvo
- Cum sua foedari latrantibus inguina monstris
- Aspicit; ac primo non credens corporis illas
- Esse sui partes, refugitque abigitque pavetque
- Ora proterva canum: sed quos fugit, attrahit una...
- [Met., XIV, 59 63.]
- ↑ [Dedalo]’, fu ingegnosissimo uomo e fece il Laberinto per suo ingegno, nel quale fu messo il Minotauro. Poi che Teseo l’ebbe ammazzato, il re Minos vi fe’ imprigionare dentro il detto Dedalo perché conobbe che per suo magisterio Pasife moglie del detto re Minos concepette del toro il detto Minotauro; ed essendo esso nella detta prigione e non potendone uscire perché era ben guardato, si fe’ ale per sua industria per sé e per Icaro suo figliuolo che era in prigione con esso, e postelesi alle loro spalle volarono fuori del detto Laberinto, ammonendo prima il detto suo figliuolo che non dovesse andare troppo alto per certe ragioni che gli assegnò. E non volendo fare li comandamenti del padre ei volle andare piú alto che non se li convenia, e cadde in mare e affogossi, onde quel mare d’allora in qua fu chiamato il mare Icaro.
- ↑ [li carri di Medea], Medea fu figliuola di re Oete dell’isola di Colcos; come fu detto dinanzi, s’innamorò di Giasone e con lui se n’andò, del quale ebbe due figliuoli li quali essa Medea, poi che Giasone ebbe presa altra donna, li uccise per rabbia, e però ella volendo scampare, per incanti d’arte magica si fe’ portare in uno carro il quale era da dragoni menato. E però dice Ovidio: Sed postquam Colchis arsit nova nupta venenis
- Flagrantemque domum regis mare vidit utrumque,
- Sanguine natorum perfunditur inpius ensis,
- Ultaque se male mater Iasonis effugit arma.
- Hinc Titaniacis ablata draconibus intrat
- Palladias arces...
- [Met., VII, 394-399-]
- ↑ [Tizio c’è posto etc.]. Tizio fu gigante e bellissimo del corpo tanto ch’ebbe ardire di richiedere Giunone moglie di Giove, di lussuria, a cui essa rispose ch’era contenta; ma venendo al fatto essa Giunone interpose tra lei e ’l detto Tizio una nuvola nella quale, credendo avere a fare con la detta Giunone, mise il seme suo, onde ne nacquero li centauri. Per la qual cosa Giunone volendosi vendicare del detto ardito Tizio lo fe’ mettere nello ’nferno a sostenere questa pena: che gli avoltoi i sempre gli stracciassero il fegato; il quale fegato quando è consumato sempre ricresce. Però sempre ha pena perpetua. Onde dice Ovidio: Viscera praebebat Tityos lanianda novemque
- Iugeribus distentus erat...
- [Met., IV, 457-458.]
- ↑ [Tantalo]. Fu padre di Pelope, avarissimo, e però è posto nello ’nferno con questa pena: che esso è messo nell’acqua fino alla bocca e non può bere perché l’acqua li fugge dinanzi, e simile li pomi c’ha sempre presso alla bocca, e non ne può gustare. Sí che per pena nell’abbondanzia muore di fame e di sete. Onde dice Ovidio: ...tibi, Tantale, nullae
- Deprenduntur aquae, quaeque imminet, effugit arbor.
- [Mel., IV, 458-459.]
- ↑ [e ancora il mísero Issione]. Questo è posto nello ’nferno su in una rota e ha questa pena: che sempre si volta e mai non ha fine. Onde dice Ovidio: Volvitur Ixion et se sequiturque fugitque.
- [Met., IV, 461.]
- ↑ [le figliuole di Danao] perché uccisero li loro mariti e consobrini sono poste nello ’nferno con questa pena: che debbono vuotare uno gran fiume con li corbelli, e però non hanno mai posa. Onde dice Ovidio: Molirique suis letum patruelibus ausae
- Adsiduae repetunt, quas perdant, Belides undas.
- [Met., IV, 463 - 64.]
- ↑ [Giasone si partí di Lemnos]. A dichiarazione di questo è da sapere quello che pone Stazio nel quinto libro del Tebaidos, cioè che Isifile fu figliuola di re Toante dell’isola di Lemnos il quale andando per acquistare certi popoli a lui inimici e stando mollo tempo a ciò fare, le donne spregiavano il sacrificio di Venere dea della lussuria; e di ciò essa corrucciandosi verso di loro, quando ritornarono, avuta ch’ebbero la vittoria, alla detta isola di Lemnos, volendo la detta Venere vendicarsi di loro, mise una puzza di bocca tra loro donne, per la qual cosa essi le fuggiano come cose putride. Onde esse donne corrucciatesi diliberaro d’ammazzare tutti li loro mariti e ogni altro uomo. Alla quale diliberazione fu richiesta questa Isifile e promise ammazzare il detto Toante suo padre. La qual cosa non fe’ ma per pietá lo salvò, fatta a lui palese la detta diliberazione. Laonde le dette donne avendo ammazzati tutti li loro uomini e credendo che la detta Isifile avesse ammazzato il padre, fecero lei loro regina, reggendosi loro senza volere uomo. In questo tempo andando Giasone per acquistare il vello d’oro arrivò al porto della detta isola, il quale gli convenne vincere per forza, e fatta gran battaglia con le dette femine e poi ricevuto con grande onore dalla detta Isifile, promettendole toglierla per sua moglie, stette con lei e ingravidolla di due figliuoli, la quale poi esso abbandonò per Medea. Di che essa Isifile fu scacciata dal reame dalle dette femine per ch’avea campato il padre e rotta la fede. Sconosciuta fuggendo arrivò a casa di re Licurgo col quale s’acconciò per sua balia, e nutricando uno suo figliuolo il quale fu chiamato Archemoro il quale fu morto da uno serpente avendolo essa lasciato per mostrare l’acqua ove bevve l’esercito di re Adrasto e di Pollinice quando andaro ad oste alla cittá di Tebe, e tornando trovò il detto citello morto dal serpente. E il detto Adrasto volendola consolare, domandolla prima cui ella era, ed essa narrandogli, per consolazione della morte del citello [fece fare onori] quasi nella simile forma che fe’ fare Enea alla sepoltura di Anchise suo padre, come pone Virgilio. Nelli quali onori a caso o a fortuna essa Isifile conobbe i due predetti suoi figliuoli che avea avuti di Giasone.
- ↑ [e tornò in Tessaglia a Medea]. Medea, come fu detto dinanzi, fu abbandonata da Giasone per un’altra donna, come pone Seneca nelle tragedie, per la qual cosa essa corrucciatasi uccise due figli che ebbe di Giasone e arse il palagio regale con la nuova sposa e fuggí da esso e andossene a Egeo padre di Teseo, il quale ricevendola con grande onore se la tolse per moglie; e da poi perché volle fare attossicare il detto Teseo, conosciuta la iniquitá sua, si fuggi da Egeo, onde dice Ovidio: Excipit hanc Aegeus, facto damnandus in uno,
- Nec satis hospitium est: thalami quoque foedere iungit.
- [Met., VII, 403 - 404.]
- ↑ [Paris si partí]. Questo, come fu detto dinanzi, fu figliuolo di re Priamo, il quale essendo pastore s’innamorò di Oenone e presela per moglie. Da poi il detto Paris riconosciuto figliuolo di re Priamo, abbandonò la detta Oenone perché avea tolto la reina Elena.
- ↑ [Teseo si partí]. Questo fu figliuolo di re Egeo e andando per essere divorato dal Minotauro nel Laberinto di Creti, scampò per aiuto di Adriana figliuola di re Minos e promise menarlasi con lui; e menandola la lasciò nel cammino per amore di Fedra sua sorella perché gli parve più bella Fedra, la quale Fedra avea promessa dare per moglie a Ipolito, ed essa Adriana prese poi per marito l’iddio Bacco. Per che, tornato Teseo disposò per moglie la detta Fedra, benché Fedra fosse malcontenta che la sorella fosse stata abbandonata. Standosi un dí la detta Fedra isguardando a Ipolito suo figliastro, s’innamorò di lui e richieselo di lussuria. A che lui non volle consentire perché era casto e non volea rompere la promessione fatta alla dea della castitá etc.
- ↑ [che dirai tu di Deianira]. Questa Deianira fu moglie di Ercule la quale esso abbandonò perché s’innamorò d’una donna ch’ebbe nome Iole e funne innamorato sí fieramente che essa Iole lo minacciava come fosse stato uno fanciullo, e comandavali talora che filasse stoppa e voltasse le fusa, e di tutto era ubbidiente alla detta Iole
- ↑ [Filis]. Questa fu figliuola di Licurgo re di Tracia e fu dell’isola di Rodope; innamorossi di Demofonte figliuolo di Teseo col quale ebbe a fare. E partendosi da essa con promessione di tornare infra due mesi ed esso non tornando al termine e ancora aspettandolo altrettanto, essa per disperazione s’impiccò e convertissi in mandorlo. Onde il detto Demofonte tornando la trovò arbore e non femina. Questo pone Ovidio nella seconda pistola.
- ↑ [Penelope]. Questa fu moglie di Ulisse, la quale fu castissima servando sempre la fede al detto suo marito aspettandolo che esso tornasse dopo la distruzione di Troia come gli altri erano tornati; ma esso rivolto in mare da molta fortuna, arrivò ove regnava Circe figliuola del Sole la quale s’innamorò d’esso e ritennelo assai tempo che non curava tornare a sua donna Penelope.
- ↑ [Cloto Lachesis e Atropos]. Queste sono tre fate secondo li poeti c’hanno a disponere della vita umana, cioè Cloto inconocchia la rocca, che tanto è a dire quanto nascimento d’uomo, Lachesis fila, cioè a dire che mena la vita, Atropos taglia il filato, cioè la morte dell’uomo.
- ↑ [Dido]: ebbe tre nomi, cioè Elissa, Fenissa e Dido; come fu detto dinanzi si uccise per amore di Enea.
- ↑ [Biblis]: della quale fu detto dinanzi, s’innamorò del fratello ch’ebbe nome Cauno, col quale non potendo avere a fare, per disperazione s’impiccò.
- ↑ [Amata]: come pone Virgilio, fu moglie di re Latino e madre di Lavinia la quale essa Amata volea che fosse moglie di Turno re de’ Rutuli, e aveala promessa con la volontá del detto re Latino, però che esso avea avuta risposta dalli iddii che convenia che la maritasse a omo che venisse di stranii paesi. Il quale fu Enea che quando venne in Italia per fare Roma venendo alla cittá di Laurento al detto re Latino, esso conobbe che questo era quello a cui esso dovea dare la detta sua figlia per moglie, e cosí fece. Però seguitò la guerra grande e le fiere battaglie tra Enea e il detto re Turno. Laonde la detta reina Amata vedendo che non potea seguire la volontá sua, per disperazione s’impiccò, vedendo la detta sua figlia moglie di Enea e non di Turno.
- ↑ [come li Saguntini]. Sagunto, secondo pone Tito Livio in secundo bello punico fu una cittá in Spagna la quale fu fedelissima alla cittá di Roma, e però Annibale figliuolo d’Amilcare signore di Cartagine passando in Spagna nel principio della detta guerra pose assedio alla detta cittá di Sagunto; la quale struggendo per lungo assedio e li Romani non dando a loro soccorso, essi si tennero tanto per salvare loro fede, che mancando a loro la vettovaglia si condussero a mangiare ogni sozzura fino alli topi. E pur vedendo non potersi difendere, diliberaro di ardere loro e la detta cittá prima che venissero sotto la signoria del detto Annibale, e così fecero etc.
- ↑ [o gli Abidei]. Abido fu un’isola abitata, ed essendo assediata da Filippo re di Macedonia fecero il simile come li sopradetti Saguntini.
- ↑ [li velenosi sughi etc.]: cioè che Fiammetta si diliberò di attossiccarsi come fece Annibale e Socrate filosofo; il quale Annibale, secondo pone il detto Tito Livio, partendosi d’Italia ove era stato diciassette anni inimichevolmente con li Romani per andare a soccorrere la cittá di Cartagine la quale Scipione Africano maggiore osteggiava per lo popolo di Roma, esso Annibale fu sconfitto, laonde la detta Cartagine fu vinta per li Romani: per la qual cosa Annibale si fuggí al re di Prusia suo amico credendo essere da lui aiutato e favoreggiato. E conoscendo dopo molte cose la gran sua gloria e fama essere trasmutata in infelicissima disavventura, avvelenò se medesimo con uno anello il quale portava in dito, su la pietra del quale avea fatto porre il veleno.
- ↑ [Filis]. Questa, come pone Ovidio nella seconda Epistola, ricevette in casa sua Demofonte e subito lei s’innamorò del detto Demofonte ed ebbe a fare con lui ed esso la sposò per sua donna e poi si partí da lei con promessione di tornare a lei come a sua sposa, il quale mai non tornò etc.
- ↑ [e tu, o Mercurio]. Questo fu figliuolo di Maia figliuola di Atalante, e fu figliuolo di Giove e messaggiere degl’iddii come pone Ovidio nel secondo libro ove dice: «Pleionesque nepos ego sum, qui iussa per auras | Verba patris porto; pater est mihi Iupiter ipse». Questo Mercurio s’innamorò d’una giovine figlia d’uno centauro la quale ebbe nome Erse e fu bellissima quanto a quel tempo si trovasse; e perché dormia nel mezzo di due sue sorelle che l’una ebbe nome Pandroso e l’altra Aglauros, esso non vedendo modo di poter aver a fare con la detta Erse appalesossi alla detta Aglauros ed essa gli promise che consentiria che esso Mercurio dormisse con Erse. Ma mossa da invidia del bene che pensò che dovesse avere la detta sua sorella, ingannò il detto Mercurio che non potè avere a fare con Erse. Per la qual cosa Mercurio corrucciatosi la trasmutò in pietra. Onde dice Ovidio: Nec conata loqui est nec, si conata fuisset,
- Vocis habebat iter: saxum iam colla tenebat
- Oraque duruerant, signumque exsangue sedebat
- Nec lapis albus erat: sua mens infecerat illam.
- [Met., II, 829-832.]
- Mercurio ancora è ricevitore dell’anime di comandamento di Giove e menale allo ’nferno e mettele nelli luoghi deputati secondo debbano ricevere debita punizione. E però dice ora Fiammetta pregando il detto Mercurio che riceva l’anima sua e mettala in luogo dove sia poca pena.
- ↑ [Ecate ]. Ecate, Trivia e Diana è una medesima cosa, cioè la luna, ma è cosí nominata da’ poeti per diversi effetti però che Ecate è invocata dalle incantatrici in aiuto perciò c’ha predominio di notte, e queste arti si fanno generalmente di notte. E questo prova Ovidio in libro Metamorphoseos negli incanti di Medea ove dice: Nox, — ait — arcanis fidissima quaeque diurnis
- Aurea cum luna succeditis ignibus astra,
- Tuque triceps Hecate, quae coeptis conscia nostris
- Adiutrixque venis cantusque artisque magorum,
- Quaeque magos, Telius, pollentibus instruis herbis.
- [Met. VII, 192-196.]
- Note
- CAPITOLO VII
- Nel quale madonna Fiammetta dimostra come, essendo un altro Panfilo, non il suo, tornato lá dove ella era, ed essendole detto, prese vana letizia, e ultimamente, ritrovando lui non esser desso, nella prima tristizia si ritornò.
- Continuavansi le mie angoscie non ostante la speranza del futuro viaggio, e il cielo con movimento continuo seco menando il sole, l’uno di dopo l’altro traeva senza intervallo, e me in affanni e in amore non iscemante, in piú lungo tempo che io non volea mi tenne la vana speranza. E giá quello Toro che trasportò Europa1 tenea Febo con la sua luce, e li giorni alle notti togliendo luogo, di brevissimi, grandissimi diveniano; e il florigero Zefiro2 sopravvenuto, col suo lene e pacifico soffiamento aveva le impetuose guerre di Borea3 poste in pace, e cacciati del frigido aere li caliginosi tempi e dall’altezze de’ monti le candide nevi, e li guazzosi prati rasciutti dalle cadute piove, ogni cosa d’erbe e di fiori avea rifatta bella; e la bianchezza per la soprastante freddura del verno venuta negli alberi era da verde vesta ricoperta in ogni parte, ed era giá in ogni luogo quella stagione, nella quale la lieta primavera graziosamente spande in ciascun luogo le sue ricchezze, e che la terra di varii fiori, di viole e di rose quasi stellata, di bellezza contrasta col cielo ottavo4, e ogni prato teneva Narciso5; e la madre di Bacco6 giá aveva della sua pregnezza cominciato a mostrar segni, e piú che l’usato gravava il compagno olmo, giá da sé ancora divenuto piú grave per la presa vesta; Driope e le misere sirocchie di Fetone7 mostravano similmente letizia, cacciato il misero abito del canuto verno; li gai uccelli s’udivano con dilettevole voce per ogni parte, e Cerere negli aperti campi lieta venia con li frutti suoi. E oltre a queste cose, il mio crudel signore piú focosi faceva li suoi dardi sentire nelle vaghe menti, onde li giovani e le vaghe donzelle, ciascuno secondo la sua qualitá ornato, s’ingegnava di piacere all’amata cosa.
- Le liete feste rallegravano ciascuna parte della nostra cittá, piú copiosa di quelle che non fu mai l’alma Roma, e li teatri ripieni di canti e di suoni invitavano a quella letizia ciascuno amante. Li giovani quando sopra li correnti cavalli con le fiere armi giostravano, e quando circundati da’ sonanti sonagli armeggiavano, quando con ammaestrata mano lieti mostravano come gli arditi cavalli con ispumante freno si debbano reggere. Le giovani donne, vaghe di queste cose, inghirlandate delle nuove frondi, lieti sguardi porgevano a’ loro amanti, ora dall’alte finestre e quando dalle basse porte, e quale con nuovo dono, e tale con sembiante, e tale con parole confortava il suo del suo amore; ma me sola solitaria parte teneva quasi romita, e sconsolata per la fallita speranza, de’ lieti tempi avea noia. Niuna cosa mi piaceva, nulla festa mi poteva rallegrare, né conforto porgere pensiero né parola; niuna verde fronda, niuno fiore, niuna lieta cosa toccavano le mie mani, né con lieto occhio le riguardava. Io era divenuta dell’altrui letizie invidiosa, e con sommo disiderio appetiva che ciascuna donna cosí fosse da Amore e dalla fortuna trattata come io era. Oimè! con quanta consolazione piú volte giá mi ricorda d’avere udite le miserie e le disavventure degli amanti nuovamente avvenute!
- Ma mentre che in questa disposizione mi tenevano dispettosa gl’iddíi, la fortuna ingannevole, la quale alcuna volta per affliggere con maggior doglia li miseri loro nel mezzo dell’avversitá quasi mutata si mostra con lieto viso, acciò che essi piú abbandonandosi a lei caggiano in maggiore sconcio, cessando la sua letizia, li quali, se come folli s’appoggiano allora ad essa, cotale abbattuti si trovano, quale il misero Icaro8 nel mezzo del cammino, presa troppa fidanza nelle sue ali, salito all’alte cose, da quelle nell’acque cadde del suo nome ancora segnate; questa, me sentendo di quelli, non contenta de’ dati mali, apparecchiandomi peggio, con falsa letizia indietro trasse le cose avverse e il suo corruccio, acciò che, piú movendosi di lontano, non altramente che facciano li montoni africani per dare maggiore percossa, piú m’offendesse; e in questa maniera con vana allegrezza alquanto diede sosta alle mie doglie.
- Essendo giá per ogni mese promesso troppo piú di quattro dimorato il poco fedele amante, avvenne che un giorno, dimorando io ne’ pianti usati, la vecchia balia, con passo piú spesso che la sua etá non prestava, tutta nel vizzo viso di sudore molle, entrò nella camera nella quale io era, e postasi a sedere, battendole forte il petto, negli occhi lieta, piú volte cominciò a parlare; ma l’ansietá del polmone precedente ogni volta nel mezzo le rompea le parole. Alla quale io piena di maraviglia dissi:
- — O cara nutrice, che fatica è questa che t’ha cosí presa? Qual cosa disideri tu di dire con tanta fretta, che prima l’affannato spirito non lasci posare? È ella lieta o dolente? Apparecchiomi io di fuggire o di morire, o che debbo fare? Il tuo viso alquanto, non so di che né per che, rinverdisce la mia speranza, ma le cose lungamente state contrarie mi porgono quella paura di peggio che ne’ miseri suole capére. Di’ adunque tosto, non mi tenere piú sospesa: qual fu la cagione della tua rattezza? Dimmi se lieto Iddio, o infernal furia, qui t’ha sospinta. —
- Allora la vecchia, ancora appena riavuta la lena, intrarompendo le mie parole, assai piú lieta disse:
- — O dolce figliuola, rallégrati, niuna paura è ne’ nostri détti; gitta via ogni dolore, e la lasciata letizia ripiglia: il tuo amante torna. —
- Questa parola entrata nell’animo mio súbita allegrezza vi mise, sí come li miei occhi mostrarono; ma la miseria usata in brieve la tolse via e nol credetti, anzi piangendo dissi:
- — O cara balia, per li tuoi molti anni e per li tuoi vecchi membri, li quali ornai l’eterno riposo domandano, non ischernire me misera, li cui dolori in parte dovrebbero essere tuoi. Prima torneranno li fiumi alle fonti, ed Espero9 recherá il chiaro giorno, e Febea10 co’ raggi del suo fratello dará luce la notte, che torni lo ’ngrato amante. Chi non sa che egli ora ne’ lieti tempi, con altra donna, piú amando che mai si rallegra? Ove che egli fosse ora, si tornerebbe egli a lei, non che egli da lei si partisse per venir qua. —
- Ma ella subito seguitò:
- — O Fiammetta, se gl’iddii lieta ricevano l’anima di questo vecchio corpo, la tua balia di niente ti mente; né si conviene alla mia etá omai andare di cosí fatte cose nessuna persona gabbando, e te massimamente, la quale io amo sopra tutte le cose.
- — Adunque, — dissi io — come è ciò pervenuto alle tue orecchie, e onde il sai? Dillo tosto, acciò che, se verisimile mi parrá, io mi rallegri della lieta novella. —
- E levatami del luogo ove io stava, giá piú lieta m’appressai alla vecchia, ed ella disse:
- — Io, sollecita alli fatti familiari, questa mattina sopra li salati liti, quelli eseguendo, andava con lento passo, e intenta sopra quelli dimorando con le reni al mare rivolta, uno giovane d’una barca saltato, sí come io vidi poi, disavvedutamente portato dall’impeto del suo salto, me urtò gravemente; per che io contra di lui gl’iddii scongiurando, crucciosa rivoltatami contra lui per dolermi della ricevuta ingiuria, egli con parole umili subitamente mi chiese perdono. Io il riguardai, e nel viso e nell’abito del paese del tuo Panfilo lo stimai, e dimandalo:
- «— Giovane, se Iddio bene ti dia, dimmi, vieni tu di paese lontano?
- «— Sí, donna, — rispose.
- «Allora diss’io:
- «— Deh, dimmi donde, s’egli è licito? —
- «Ed egli:
- « — Delle parti d’Etruria, e della piú nobile cittá di quella vengo, e quindi sono. —
- Come io udii questo, d’una patria col tuo Panfilo il conobbi, e dimandailo se egli il conosceva, e che di lui era; e quegli rispose di si, e di lui molto bene mi narrò, e oltre a ciò disse che egli con lui ne sarebbe venuto, se alcuno picciolo impedimento non l’avesse tenuto, ma che senza fallo in pochi dí qua sarebbe. In questo mezzo, mentre queste parole avevamo, li compagni del giovane tutti in terra scesi con le loro cose, ed egli con esso loro, si partirono. Io, lasciato ogni altro affare, con tostissimo passo, appena tanto vivere credendomi che io te ’l dicessi, qui ne venni ansando, come vedesti, e però lieta dimora, e caccia la tua tristizia. —
- Presila allora, e con lietissimo cuore baciai la vecchia fronte, e con dubbioso animo poi piú volte la scongiurai e dimandai da capo se questa novella vera fosse, disiderando che non il contrario dicesse, e dubitando che non m’ingannasse; ma poi che piú volte sé dire il vero con piú giuramenti m’ebbe affermato, benché ’l sí e ’l no, credendolo, nel capo mi vacillasse, lieta con cotali voci gl’iddíi ringraziai:
- — O superno Giove, de’ cieli rettore solennissimo, o luminoso Apollo a cui niente s’occulta, o graziosa Venere pietosa de’ tuoi suggetti, o santo fanciullo portante li cari dardi, lodati siate voi. Veramente chi in voi sperando persevera, non può perire a lungo andare. Ecco che per la grazia di voi, non per li meriti miei, il mio Panfilo torna, il quale io non vedrò prima che li vostri altari, stati per addietro incitati per li miei ferventissimi prieghi e bagnati d’amare lagrime, d’accettevoli incensi saranno onorati, dandoli io. E a te, o Fortuna, pietosa tornata de’ miei danni, la promessa immagine testante li tuoi beneficii donerò di presente. Priegovi non per tanto con quella umiltá e divozione che piú vi puote esaudevoli rendere, che voi ogni accidente possibile a disturbare la proposta tornata del mio Panfilo sturbiate e togliate via, e lui sano e senza impedimento qui produciate, come egli fu mai. —
- Finita l’orazione, non altramente che falcone uscito di cappello, plaudendomi, cosí a dire cominciai:
- — O amorosi petti, lungamente da’ mali indeboliti, omai ponete giú le sollecite cure, poscia che ’l caro amante di noi ricordantesi torna come promise. Fuggasi il dolore, la paura e la grave vergogna nell’affiitte cose abbondante, né come per addietro la fortuna v’abbia guidati vi venga in pensiero, anzi cacciate via le nebbie de’ crudeli fati, e ogni sembiante del misero tempo da voi si parta, e torni il lieto viso al presente bene, e la vecchia Fiammetta della rinnovata anima del tutto si spogli fuori. —
- Mentre che io cotali parole lieta fra me dicea, il cuore divenne dubbio, e non so onde né come tutta m’occupasse una súbita tiepidezza, che indietro tirò la volontá presta a rallegrarsi; per che quasi smarrita rimasi nel mezzo del mio parlare. Oimè! che questo vizio propriamente li miseri sèguita, cioè il non potere mai credere alle cose liete; e avvegna che la felice fortuna ritorni, non pertanto agli afflitti incresce di rallegrarsi, e quasi sognare credendosi, quella come non fosse usano mollemente; per che io fra me quasi come attonita cominciai:
- «Chi mi richiama o vieta dalla cominciata allegrezza? Non torna egli il mio Panfilo? Certo sí: dunque chi mi comanda di piangere? Da niuna parte m’è ora giunta di tristizia cagione; ora adunque chi mi vieta d’adornarmi di nuovi fiori e delle ricche robe? Oimè! che io non so, e pur vietato m’è, né so da chi».
- E cosí stando, quasi in me non fossi, intra li miei errori, non volendo io, da’ miei occhi caddero lagrime, e in mezzo le voci mie venne l’usato pianto; e cosí il lungamente afflitto petto ancora amava gli assuefatti lagrimari. La mente mia, quasi del futuro indovina, col pianto, di ciò che avvenire doveva mandò fuori aperti segni, per li quali io ora veramente conosco allora a’ navicanti grandissima tempesta essere apparecchiata, quando senza vento enfiano li mari tranquilli; ma pure, vaga di vincere quello che l’anima non voleva, dissi:
- — O misera, quali annunzii, quali impeti, non bisognandoti, venturi t’infigni? Presta la credula mente a’ beni venuti: che che questo sia che tu t’annunzi, tardi temi e senza profitto. —
- Adunque, da questo ragionare innanzi io mi diedi sopra la cominciata letizia, e li tristi pensieri, come potei, da me cacciai; e sollecitata la cara balia che intenta stesse della tornata del nostro amante, trasmutai li tristi vestimenti in lieti, e di me cominciai ad avere cura, acciò che da lui tornato per afflitto viso rifiutata non fossi. La pallida faccia cominciò a riprendere il perduto colore, e la partita grassezza cominciò a ritornare, e le lagrime, del tutto andate via, se ne portarono con loro il purpureo cerchio fatto d’intorno agli occhi miei; e gli occhi nel debito luogo tornati riebbero intera la luce loro, e le guancie per lo lagrimare divenute aspre si ritornarono nella prístina loro morbidezza; e li nostri capelli, avvegna che subitamente aurei non tornassero, nondimeno l’ordine usato ripresero; e li cari e preziosi vestimenti, lungamente senza essere stati adoperati, m’adornarono. Che piú? Io con meco insieme rinnovai ogni cosa, e nella prima bellezza e stato quasi mi ridussi tutta, tanto che le vicine donne, e li parenti, e il caro marito n’ebbero ammirazione, e ciascheduno in sé disse: «Quale spirazione ha di costei tratta la lunga tristizia e malinconia, la quale né per prieghi, né per conforti mai per addietro da lei si potè cacciar via? Questo non è meno che gran fatto»; e con tutto il maravigliare n’erano lietissimi. La nostra casa lungamente stata trista per la mia tribulazione, tutta meco ritornò lieta; e cosí come il mio cuore era mutato, cosí tutte le cose di triste in liete pareva che si mutassero.
- Li giorni, che piú che l’usato mi pareano lunghi, per la presa speranza della futura tornata di Panfilo, trapassavano con passo lento; né piú volte furono li primi da me contati, che fossero quelli, ne’ quali io alcuna volta in me raccolta, alle preterite tristizie pensando e agli avuti pensieri, sommamente in me li dannava, cosí dicendo:
- — Oh quanto male per addietro ho pensato del caro amante, e come perfidamente ho dannate le sue dimoranze, e follemente ho creduto a chi lui essere d’altra donna che mio m’ha detto alcuna volta! Maladette siano le loro bugie! O Iddio, come possono gli uomini con cosí aperto viso mentire? Ma certo dalla mia parte ciascuna di queste cose era da fare con piú pensato consiglio che io non faceva. Io doveva contrappesare la fede del mio amante tante volte a me promessa, e con tante lagrime e cosí affettuosamente, e l’amore il quale egli mi portava e porta, con le parole di coloro li quali senza alcuno saramento e non curantisi d’avere piú investigato, di quello che essi parlavano, che solamente il loro primo e superficiale parere; il che assai manifestamente appare: l’uno veggendo entrare una novella sposa nella casa di Panfilo, però che altro giovane di lui in quella non conosceva, non considerando alla biasimevole lascivia de’ vecchi, sua la credette, e cosí ne disse, a che assai appare lui poco di noi curarsi; l’altro, però che forse alcuna volta o riguardarlo, o motteggiarlo il vide ad alcuna bella donna, la quale per avventura era o sua parente o onestamente dimestica, sua la credette, e cosí con semplici parole affermandolo, gliele credetti. Oh se io avessi queste cose debitamente considerate, quante lagrime, quanti sospiri, e quanto dolore sarebbe da me stato lontano!
- Ma qual cosa possono gl’innamorati dirittamente fare? Come gli émpiti vengono, cosí si muovono le nostre menti. Gli amanti credono ogni cosa, però che amore è cosa sollecita e piena di paura. Essi, per usanza continua, sempre s’adattano gli accidenti nocivi, e, molto disideranti, ogni cosa credono possibile ad essere contraria a’ loro disii, e alle seconde prestano lenta fede. Ma io sono da essere scusata, però che io pregai sempre gl’iddíi che me de’ miei disii facessero mentitrice. Ecco che le mie preghiere sono state udite: egli ancora non saprá queste cose, le quali se pure le sapesse, che altro se ne potrá per lui dire, se non «ferventemente m’amava costei»? E’ gli dovrá essere caro sapere le mie angoscie, e li córsi pericoli, però che essi gli fiano verissimo argomento della mia fede, e appena che io dubiti che egli ad altro fine sia dimorato cotanto, se non per provare se con forte animo, senza cambiarlo, lui ho potuto aspettare.
- «Ecco che fortemente l’ho aspettato: dunque di quinci, sentendo egli con quanta fatica e lagrime e pensieri atteso l’abbia, nascerá amore e non altro. O Iddio, quando sará che egli venuto mi vegga, e io lui? O Iddio che vedi tutte le cose, potrò io temperare l’ardente mio disio d’abbracciarlo in presenza d’ogni uomo, come io primieramente il vedrò? Certo appena che io il creda. O Iddio, quando sará che io, nelle mie braccia tenendolo stretto, gli renda li baci, i quali egli nel suo partire diede al mio tramortito viso senza riaverli? Certo l’agurio preso da me del non potergli dire addio è stato vero, e bene m’hanno in quello gl’iddíi mostrata la sua futura tornata. O Iddio, quando sará che io le mie lagrime e le mie angoscie gli possa dire, e ascoltare le cagioni della sua lunga dimoranza? Vivrò io tanto? Appena che io il creda. Deh, venga tosto quel giorno, però che la morte, molto da me per addietro non solamente chiamata, ma cercata, ora mi spaventa: la quale, se possibile è che alcuno priego alle sue orecchie pervenga, la priego che, da me lontanandosi, col mio Panfilo li miei giovani anni in allegrezza lasci trascorrere. —
- Io era sollecita che niuno giorno passasse che io della tornata di Panfilo non sentissi vera novella, e piú volte la cara balia sollecitai a ritrovare il giovane nunziatore della lieta novella, acciò che con piú fermezza si facesse accertare di ciò che detto m’avea, ed ella il fece non una volta sola, ma molte, e tuttavia secondo li procedenti tempi piú prossimana tornata mi nunziava. Io non solamente il tempo promesso aspettava, ma precorrendo innanzi, immaginava possibile lui essere venuto, e infinite volte il giorno, ora alle mie finestre, ora alla mia porta correva, in giú e in su riguardando per la lunga via, se io lui venire vedessi; né per quella di lontano vedeva alcuno uomo venire, che io non immaginassi possibile essere esso, e quello con disiderio aspettava infino a tanto che, fattomisi vicino, lui conosceva non essere desso; di che alquanto meco rimanendo confusa, agli altri, se alcuno ne veniva, attendeva, e ora questo e ora quello trapassando mi tenevano sospesa; e se forse io richiamata dentro in casa, o per altra cagione da me v’andava, come da infiniti cani fossi nell’anima addentata, mi stimolavano centomilia pensieri dicendo: «Deh! forse passa egli testé, o è passato mentre che tu a riguardare non se’ stata: ritorna». E cosí ritornava, e poi mi levava, e da capo vi ritornava a vedere, poco altro tempo mettendo in mezzo che ad andare dalla finestra alla porta, e dalla porta alla finestra. O misera me, quanta fatica per quello che mai avvenire non doveva, d’ora in ora aspettando, sostenni!
- Ma poi che venne il giorno stato detto alla mia balia che egli dovea venire, il quale essa piú volte m’avea predetto, non altramente che Almena11 alla fama del suo venturo Anfitrione m’adornai, e con maestrissima mano niuna parte in me lasciai senza bellezza nell’essere suo; e appena mi pote’ ritenere d’andare a’ marini liti, acciò che io lui piú tosto potessi vedere, nunziandosi fermamente quelle galee giugnere sopra le quali la mia balia era stata accertata lui dovere venire; ma meco pensando la prima cosa la quale egli fará sará ch’egli mi verrá a vedere, per questo adunque raffrenai il caldo disio. Ma egli, sí come io immaginava, non veniva: ond’io oltremodo mi cominciai a maravigliare, e nel mezzo dell’allegrezza mi sursero nella mente varie dubitazioni, le quali non leggermente furono vinte da’ lieti pensieri. Rimandai adunque dopo alquanto la vecchia a sapere che di lui fosse, e se venuto fosse o no; la quale andatavi, per quel che a me paresse piú pigramente che mai, per la qual cosa piú volte maladissi la sua tarda vecchiezza. Ma dopo alquanto spazio ella a me ritornò con tristo viso e lento passo. Oimè! che quando io la vidi, appena vita rimase nel tristo petto, e subito pensai non morto nel cammino, o infermo venuto fosse l’amante. Il mio viso mutò mille colori in un punto, e fattami incontro alla pigra vecchia dissi:
- — Di’ tosto: che novelle rechi tu? Vive l’amante mio? —
- Ella non mutò il passo né rispose alcuna cosa, ma postasi nella prima giunta a sedere, mi riguardava nel viso; ma io giá tutta come novella fronda agitata dal vento tremava, e appena le lagrime ritenente, messemi le mani nel petto, dissi:
- — Se tu non di’ tosto che vuole significare il tristo viso che porti, niuna parte de’ nostri vestimenti rimarrá salda: quale cagione ti tiene tacita, se non rea? Non la celare piú, manifestala, mentre che io spero peggio; vive il nostro Panfilo? —
- Ella, stimolata dalle mie parole, con voce sommessa, mirando la terra disse:
- — Vive. —
- — Dunque — diss’io allora — perché non di’ tosto quale accidente l’occupi? Perché sospesa mi tieni in mille mali? E egli d’infermitá occupato? o quale accidente il ritiene che egli a vedermi della galea smontato non viene? —
- Ed ella disse:
- — Non so se infermitá o altro accidente l’occupa.
- — Dunque — diss’io — non l’hai tu veduto, o forse non è venuto? —
- Ella allora disse:
- — Veramente l’ho io veduto, ed è venuto, ma non quello che noi attendevamo. —
- Allora diss’io:
- — E chi t’ha fatta certa che quegli che è venuto non sia desso? Vedestil tu altra volta, e ora con occhio chiaro il rimirasti?
- — Veramente — disse ella — io nol vidi altra volta costui, che io sappia; ma ora, a lui venuta, da quello giovane menata che della sua tornata m’aveva prima parlato, dicendogli egli che io piú volte di lui avea dimandato, mi dimandò che dimandassi, al quale io risposi la sua salute; e dimandatalo io come il vecchio padre stesse, e in che stato l’altre cose sue fossero, e quale era stata la cagione di sí lunga dimora dopo la sua partita, rispose sé padre mai non avere conosciuto, però che postumo era, e che le sue cose, degl’iddii grazia, tutte prosperamente stavano, e che mai piú quivi non era dimorato, e ora intendeva di dimorarci poco. Queste cose mi fecero maravigliare, e dubitando non fossi gabbata, dimandai del suo nome, il quale egli semplicemente mi disse; il quale io non udii prima, che da somiglianza di nome me con teco conobbi ingannata. —
- Udite io queste cose, il lume fuggí agli occhi miei, e ogni spirito sensitivo per paura di morte se n’andò via, e appena sopra le scale cadendo lá dove io era, tanta forza rimase in tutto il corpo che mi bastasse a dire oimè! La misera vecchia piagnendo, e l’altre servigiali della casa chiamate, me per morta nella trista camera sopra il mio letto portarono, e quivi con acque fredde rivocando gli smarriti spiriti, per lungo spazio credendo e non credendo me viva guardarono; ma poi che le perdute forze tornarono, dopo molte lagrime e sospiri, un’altra volta dimandai la dolente balia se cosí era come avea detto.
- E oltre a ciò, ricordandomi quanto cauto essere solesse Panfilo, dubitando non egli si celasse dalla balia, con la quale mai non aveva parlato, aggiunsi che le fattezze di quel Panfilo, col quale ella era stata in ragionamento, mi dichiarasse. Ed essa primieramente con saramento affermandomi cosí essere come detto aveva, ordinatamente e la statura e le fattezze de’ membri, e massimamente quelle del viso e l’abito di colui mi dimostrò, li quali intera fede mi fecero cosí essere come la vecchia diceva. Per che, cacciata ogni speranza, rientrai ne’ primi guai, e levata, quasi furiosa, le liete robe mi trassi, e li cari ornamenti riposi, e gli ordinati capelli con inimica mano trassi dell’ordine loro, e senza niuno conforto a piangere cominciai duramente, e con amare parole a biasimare la fallita speranza e li non veri pensieri avuti dell’iniquo amante, e in brieve tutta nelle prime miserie tornai, e troppo piú fervente disio di morte ebbi che prima; né da quella sarei fuggita, come giá feci, se non che la speranza del futuro viaggio da ciò con forza non picciola mi ritenne.
- ↑ [Europa ]. Come detto è dinanzi, Giove trasmutato in forma di tauro la rapí, e da poi esso Giove trasmutò il tauro in segno celeste che si chiama Tauro nel quale il sole entra a mezzo aprile; e però dice qui venuta la primavera.
- ↑ [Zefiro], Questo è uno vento dolce e soave che fa venire tutte le piante in frutto la primavera onde fanno li fiori; e però dice florigero.
- ↑ [Borea], Questo è vento settentrionale freddissimo il quale fa il contrario di Zefiro che arreca le frondi agli arbori, e ’l detto Borea le fa cadere.
- ↑ [al cielo ottavo]-, cioè l’ottava spera; secondo li filosofi e astrolaghi sono le stelle fisse, come noi vedemo.
- ↑ [Narciso]. Come fu detto dinanzi s’innamorò di se medesimo ad una fonte e poi fu trasmutato in fiore.
- ↑ [la madre di Bacco]-, come fu detto dinanzi, fu Semelé con la quale ebbe a fare Giove, onde nacque Bacco iddio del vino; ma qui tocca l’autore la veritá della finzione poetica, cioè che Semelé è la vite, e impregnandosi di Giove cioè dell’aere, fa al tempo le frondi e l’uve.
- ↑ [le misere sirocchie di Fotone]. Fetone come fu detto dinanzi fu figliuolo di Climenes e di Febo, il quale perché steppe mal guidare il carro del sole, arse tutto il mondo ed esso cadde nel fiume che si chiama Po in Lombardia; e andandolo cercando la madre con le sue figliuole e sorelle del detto Fetone, le quali ebbero nome Fetusa e Iapece, arrivando sopra al detto Po trovando la sepoltura del detto Fetone, sopra essa faccendo gran lamento, per misericordia degl’iddii furono trasmutate in salci delli quali è gran copia sopra al fiume del detto Po.
- ↑ [Icaro ]. Fu figliuolo di Dedalo; come fu detto dinanzi, uscendo del Laberinto per magisterio d’ale, cioè volando, volendo volare troppo alto, cadde in mare e annegò, e da poi fu chiamato dal suo nome il mare Icaro. Onde dice Ovidio: Tabuerant cerae: nudos quatit ille lacertos
- Remigioque carens non ullas percipit auras,
- Oraque caerulea patrium clamanti a nomen
- Excipiuntur aqua, quae nomen traxit ab ilio.
- [Met., VIII, 227-230.]
- ↑ [Espero]. Secondo li strolaghi è stella in cielo la quale è chiamata ancora lucifer, e volgarmente è chiamata stella diana. Espcro è chiamata quando apparisce la sera cioè nel tempo dell’inverno; e che questa sia una medesima stella e abbia diversi nascimenti prova Virgilio (?).
- ↑ [Febea]: Cioè la luna con li raggi del suo fratello, cioè del Sole; e però dice Febea che fu sorella di Febo.
- ↑ [Almena]: fu moglie di Anfitrione il quale essendo andato a studio e dovendo tornare, essa per meglio piacere al suo marito si adornò nobilissimamente; e cosí fece Fiammetta quando le fu detto che il suo Panfilo tornava.
- Note
- CAPITOLO VIII
- Nel quale madonna Fiammetta le pene sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori dimostra, e poi finalmente a’ suoi lamenti conchiude.
- Sono adunque, o pietosissime donne, rimasa in cotale vita, qual voi potete nelle cose udite presumere; e tanto opera piú verso me che l’usato il mio ingrato signore, che quanto piú vede la speranza da me fuggire, tanto piú con disiderii soffiando nelle sue fiamme, le fa maggiori, le quali come crescono, cosí le mie tabulazioni s’aumentano; ed esse mai da unguento debito non essendo allenite, piú ognora inaspriscono, e piú aspre, piú affliggono la trista mente. Né dubito che ad esse secondo il loro córso seguendo, che giá esse alla mia morte da me tanto per addietro disiderata con dicevole modo avessero aperta la via; ma avendo io ferma speranza posta di dovere, come giá dissi, nel futuro viaggio rivedere colui che di ciò m’è cagione, non di mitigarle m’ingegno, ma piuttosto di sostenerle; alla qual cosa fare solo un modo possibile ho trovato intra gli altri, il quale è le mie pene con quelle di coloro che sono dolorosi passati commensurare, e in ciò mi seguiranno due acconci: l’uno è che sola nelle miserie mie non mi veggio né prima, come giá confortandomi la mia nutrice mi disse; l’altro è che, secondo il mio giudicio, compensata ogni cosa degli altrui affanni, li miei ogni altri trapassare di gran lunga di libero; il che a non picciola gloria mi reco, potendo dire che io sola sia colei, che viva abbia sostenute piú crudeli pene che alcuna altra. E con questa gloria, fuggita sí come somma miseria da ognuno e da me, se io potessi, al presente in cotale guisa quale udirete il tempo malinconosa trapasso.
- Dico adunque che ne’ miei dolori affannata gli altrui ricercando, primieramente gli amori della figliuola d’Inaco1, la quale io morbida e vezzosa donzella primieramente figuro, quindi la sua felicitá, sentendosi amata da Giove, con meco penso; la qual cosa ad ogni donna per sommo bene senza dubbio dovria essere assai; quindi lei trasmutata in vacca e guardata da Argo ad instanzia di Giunone rimirandola, in grandissima ansietá oltremodo essere la credo. E certo io giudico li suoi dolori li miei in molto avanzare, se ella non avesse avuto continuamente a sua protezione l’amante iddio. E chi dubita, se io il mio amante avessi aiutatore ne’ danni miei, o pure di me pietoso, che pena niuna mi fosse grave? Oltre a ciò il fine di costei fa le sue passate fatiche levissime, però che, morto Argo, con grave corpo leggerissimamente trasportata in Egitto, e quivi in propria forma tornata e maritata ad Osiri, felicissima reina si vide. Certo se io potessi sperare pure nella mia vecchiezza rivedere mio il mio Panfilo, io direi le mie pene non essere da mescolare con quelle di questa donna; ma solo Iddio il sa se essere dèe, come che io con isperanza falsa me stessa di ciò inganni.
- Appresso costei, mi si para davanti l’amor della sventurata Biblis2, la quale ogni suo bene mi pare veder lasciare, e seguitare il non pieghevole Cauno. E con questa insieme considero la scellerata Mirra3, la quale, dopo li suoi mal goduti amori, fuggendo la morte dall’adirato padre minacciatale, in quella, misera, incappò. Veggio ancora la dolorosa Canace4, a cui, dopo il miserabile parto mal conceputo, niuna altra cosa che ’l morir fu conceduto; e meco stessa pensando bene all’angoscia di ciascheduna, senza niuno dubbio grandissima la discerno, avvegna che abominevoli fossero li loro amori. Ma se bene considero, io le veggo finite, o per finire in corto spazio, però che Mirra nell’albero del suo nome, avendo gl’iddii secondi al suo disio, senza alcuno indugio fuggendo, fu permutata, né piú, posto che egli sempre lagrimi sí come ella allora che mutò forma faceva, alcuna delle sue pene sente; e cosí come la cagione da dolersi le venne, cosí quella le giunse che le tolse la doglia. Biblis similmente, secondo che alcuno dice, col capestro le terminò senza indugio, avvegna che altri tenga che ella, per beneficio delle ninfe pietose de’ suoi danni, in fonte, ancora il suo nome servante, si convertisse; e questo avvenne, come conobbe a sé da Cauno negato del tutto il suo piacere. Che dunque dirò, mostrando la mia pena molto maggiore che quella di queste donne, se non che la brevitá della loro è dalla mia molto lunga avanzata?
- Considerate adunque costoro, mi venne la pietá dello sfortunato Piramo5 e della sua Tisbe, a’ quali io porto non poca compassione, immaginandoli giovinetti, e con affanno lungamente avere amato, ed essendo per congiugnere i loro disii, perdere se medesimi. Oh, quanto è da credere che con amara doglia fosse il giovinetto trafitto nella tacita notte, sopra la chiara fontana appiè del gelso trovando li vestimenti della sua Tisbe laniati da salvatica fiera e sanguinosi, per li quali segnali egli meritamente lei divorata comprese! Certo l’uccidere se medesimo il dimostra. Poi, in me rivolgendo i pensieri della misera Tisbe guardante davanti da sé il suo amante pieno di sangue, e ancora con poca vita palpitante, quelli e le sue lagrime sento, e sí le conosco cocenti, che appena altre piú che quelle, fuori che le mie, mi si lascia credere che cuocano, però che questi due, sí come li giá detti, nel cominciare de’ loro dolori quelli terminarono. Oh, felici anime le loro, se cosí nell’altro mondo s’ama come in questo! niuna pena di quello si potrá adeguare al diletto della loro eterna compagnia.
- Vienmi poi innanzi, con molta piú forza che alcuno altro, il dolore dell’abbandonata Dido6, però che piú al mio simigliarne il conosco quasi che altro alcuno. Io immagino lei edificante Cartagine, e con somma pompa dare leggi nel tempio di Giunone a’ suoi popoli, e quivi benignamente ricevere il forestiere Enea naufrago, ed essere presa della sua forma, e sé e le sue cose rimettere nell’arbitrio del troiano duca; il quale, avendo le reali delizie usate al suo piacere, e lei di giorno in giorno piú accesa del suo amore, abbandonatala si diparte. Oh quanto senza comparazione mi si mostra miserevole, mirando lei riguardante il mare pieno di legni del fuggente amante! Ma ultimamente, piú impaziente che dolorosa la tengo, considerando alla sua morte. E certo io nel primo partire di Panfilo sentii per mio avviso quel medesimo dolore, che ella nella partita di Enea; cosí avessero allora gl’iddii voluto che io poco sofferente mi fossi subitamente uccisa! Almeno, sí come lei, sarei stata fuori delle mie pene, le quali poi continuamente sono diventate maggiori.
- Oltre a questi pensieri miserabili mi si para davanti la tristizia della dolente Ero7 di Sesto, e vedere la mi pare discesa dell’alta torre sopra li marini liti, ne’ quali essa era usata di ricevere il faticato Leandro nelle sue braccia, e quivi con gravissimo pianto la mi pare vedere riguardare il morto amante sospinto da uno dalfino, ignudo giacere sopra la rena, e poi essa con li suoi vestimenti asciugare il morto viso della salata acqua, e bagnarlo di molte lagrime. Ahi! con quanta compassione mi strigne costei nel pensiero! In veritá con molta piú che nessuna delle donne ancora dette, tanto che talvolta fu che, obliati li miei dolori, de’ suoi lagrimai. E ultimamente alla sua consolazione modo alcuno io non conosco, se non de’ due l’uno: o morire, o lui, sí come gli altri morti si fanno, dimenticare. Qualunque di questi si prende, è il dolore finire; niuna cosa perduta, la quale di riavere non si possa sperare, può lungamente dolere. Ma cessi Iddio, però, che questo avvenga a me, il che se pure avvenisse, niuno consiglio se non la morte ci piglierei. Ma mentre che il mio Panfilo vive, la cui vita lunghissima facciano gl’iddii come egli stesso disia, non mi puote quello avvenire, però che, veggendo le mondane cose in continuo moto, sempre mi si lascia credere che egli alcuna volta debba ritornare mio, sí come egli fu altra fiata; ma questa speranza non venendo ad effetto, gravissima fa la mia vita continuamente, e però me di maggior doglia gravata tengo.
- Ricordami alcuna volta avere letti li franceschi romanzi, a’ quali se fede alcuna si puote attribuire, Tristano e Isotta, oltre ad ogni altro amante essersi amati, e con diletto mescolato a molte avversitá avere la loro etá piú giovane esercitata, li quali, però che molto amandosi insieme vennero ad un fine, non pare che si creda che senza grandissima doglia e dell’uno e dell’altro li mondani diletti abbandonassero: il che agevolmente si può concedere, se essi con credenza si partirono del mondo, che altrove questi diletti non si potessero avere; ma se questa oppinione ebbero d’essere altrove, come di qua erano, piuttosto a loro nel loro morire letizia si dée credere che tristizia la ricevuta morte, la quale, benché da molti sia fierissima e dura tenuta, non credo che sia cosí. E che certezza di doglia puote uno rendere testimoniando cosa che egli non provò mai? Certo niuna. Nelle braccia di Tristano era la morte di sé e della sua donna; se quando strinse gli fosse doluto, egli avrebbe aperte le braccia, e saria cessato il dolore. E oltre a ciò, diciamo pure che gravissima sia ragionevolmente: che gravezza diremo noi che possa essere in cosa che non avvenga se non una volta, e quella occupi pochissimo spazio di tempo? Certo niuna. Finirono adunque Isotta e Tristano ad un’ora li diletti e le doglie, ma a me molto tempo in doglia incomparabile è sopra gli avuti diletti avanzato.
- Aggiugne ancora il mio pensiero al numero delle predette la misera Fedra8, la quale, col suo mal consigliato furore, fu cagione di crudelissima morte a colui il quale ella piú che se medesima amava. E certo io non so quello che a lei si seguí di cotale fallo, ma certa sono, se a me mai avvenisse, niuna altra cosa che rapinosa morte il purgherebbe; ma se essa pure in vita si sostenne cosí come giá dissi, agevolmente il mise in oblio, come mettere si sogliono le cose morte.
- E oltre a ciò con costei accompagno la doglia che senti Laudomia9, e quella di Deifile e d’Argia10 e di Evannes11 e di Deianira12 e d’altre molte, le quali o da morte o da necessaria dimenticanza furono racconsolate. E che può cuocere il fuoco, o il caldo ferro, o li fonduti metalli a chi dentro subitamente vi tuffa il dito, e subito fuori nel trae? Senza dubbio credo che molto, ma nulla è a rispetto di chi per lungo spazio vi sta dentro con tutto il corpo; il che a quante ne ho di sopra in pene descritte, si può dire il simigliarne essere incontrato nelle loro doglie, lá dove io in esse sono stata e sto continuamente.
- Sono state le predette noie amorose; ma, oltre a queste, lagrime non meno triste mi si parano davanti, mosse da miserabili e inopinati assalti della fortuna, se quello è vero che egli sia generazione di sommo infortunio l’essere stato felice. E queste sono quelle di Giocasta, d’Ecuba, di Sofonisba, di Cornelia e di Cleopatras. Oh quanta miseria, bene investigando di Giocasta gli avvenimenti, vedremo noi avvenuta tutta a lei pertinente ne’ giorni suoi, possibile a turbare ogni forte animo! Ella, giovane maritata a Laio re tebano, il primo suo parto convenne che alle fiere mandasse a divorare, credendo per quello il misero padre fuggire quello che li cieli con córso infallibile gli apprestavano. Oh cliente dolore dobbiamo pensare che questo fosse, pensando il grado di colei che mandava! Ella poi da’ portanti il tristo figliuolo certificata di ciò che fatto aveano, lui reputando morto, dopo certo tempo da colui medesimo cui ella avea partorito le fu il marito miseramente ucciso, e del non conosciuto figliuolo divenne sposa, e generògli quattro figliuoli: e cosí madre e moglie ad un’ora del patricida si vide, e ’l riconobbe poi che egli, del regno e degli occhi privatosi insiememente, la sua colpa fece palese.
- Chente l’animo di lei giá d’anni piena allora fosse, essendo piú di riposo vaga che di angoscia, pensare si può che fosse dolorosissimo; ma la sua fortuna, ancora non perdonante, piú guai aggiunse alla sua miseria. Ella vide con patti tra’ due figliuoli del regno diviso il tempo, poi al non servante fratello nella cittá rinchiuso vide dintorno gran parte di Grecia sotto sette re, e ultimamente l’uno l’altro de’ due figliuoli, dopo molte battaglie e incendii, vide uccidere, e sotto altro reggimento, scacciato il marito figliuolo, vide cadere le mura antiche della sua terra edificate al suono della cetera d’Anfione, e perire il regno suo; e impiccatasi, in forse lasciò le figliuole di vituperevole vita. Che poterono piú gl’iddíi, il mondo e la fortuna contro a costei? Certo nulla mi pare: cerchisi tutto l’inferno, appena che in esso tanta miseria si truovi. Ogni parte d’angoscia provò, e cosí di colpa. Niuna sarebbe che giudicasse la mia potere a questa aggiugnere; e certo io direi che cosí fosse se ella non fosse amorosa. Chi dubita che costei, sé e la sua casa e il marito degno dell’ira degl’iddii conoscendo, non riputasse li suoi accidenti degni? Certo niuno che lei senta discreta. Se ella fu pazza, vie meno li suoi danni conobbe, li quali non conoscendo non le dolevano. E chi sé degno conosce del male che egli sostiene, senza noia, o con poca, il comporta.
- Ma io mai non commisi cosa onde giustamente verso me si potessero o dovessero turbare gl’iddii: continuamente gli ho onorati, e con vittime sempre la loro grazia ho cercata, né sono di quelli stata dispregiatrice, come giá furono li Tebani. Bene potrebbe forse dire alcuna: «Come di’ tu non avere meritata ogni pena né mai avere fallito? Or non hai tu rotte le sante leggi e con adultero giovane violato il matrimoniale letto?». Certo sí. Ma, se bene si guarderá, questo fallo solo è in me, il quale però non merita queste pene, che pensare si dée me tenera giovane non potere resistere a quello che gl’iddii e li robusti uomini non poterono. E in questo io non sono prima, né sarò ultima, né sono sola, anzi quasi tutte quelle del mondo ho in compagnia, e le leggi contro alle quali io ho commesso, sogliono perdonare alla moltitudine. Similmente la mia colpa è occultissima, la qual cosa gran parte dée della vendetta sottrarre. E oltre a tutto questo, posto che gl’iddii pure debitamente contro a me crucciati fossero, e vendetta del mio fallo cercassero, non saria da commettere il pigliar la vendetta a colui che del perccato m’è stato cagione. Io non so chi mi conducesse a rompere le sante leggi, o Amore o la forma di Panfilo: qualunque si fosse, l’uno e l’altro avea maggiori forze a tormentarmi aspramente, sí che giá questo non m’avvenne per lo fallo commesso, anzi è un dolore nuovo e diviso dagli altri, piú aspramente che alcuno tormentante il suo sostenitore; il quale ancora se per lo peccato commesso mel dessero gl’iddii, essi fariano contro al loro diritto giudicio e usato costume, ché essi non compenseriano col peccato la pena; la quale, se a’ peccati di Giocasta si mira e alla pena data, e al mio e alla pena che io soffero si guarda, ella poco punita, e io di soperchio sarò conosciuta.
- Né a questo s’appicchi alcuna dicendo a lei privato il regno, i figliuoli e il marito, e ultimamente la propria persona essere stato, e a me solamente l’amante. Certo io il confesso; ma la fortuna con questo amante trasse ogni felicitá, e ciò che forse alla vista degli uomini m’è felice rimaso, è il contrario, però che il mio marito, le ricchezze, li parenti e l’altre cose tutte mi sono gravissimo peso, e contrarie al mio disio: le quali se come l’amante mi tolse m’avesse tolte, a fornire il mio disio mi rimaneva apertissima via, la quale io avrei usata; e se fornire non l’avessi potuta, mille generazioni di morte m’erano presenti a potere usare per termine de’ miei guai. Dunque piú gravi le pene mie che alcuna delle predette meritamente giudico.
- Ecuba appresso vegnente nella mia mente, oltre modo mi pare dolorosa, la quale sola rimase a vedere le dolenti reliquie scampate di sí gran regno, di sí mirabile cittá, di sí fatto marito, di tanti figliuoli, di tante figliuole e cosí belle, di tante nuore, di tanti nipoti e di cosí grande ricchezza, di tanta eccellenza, di tanti tagliati re, di cosí crudeli opere, e dello sperso popolo troiano, de’ caduti templi de’ fuggiti iddíi, vecchia mirandole; e nella memoria riducendo chi fosse il potente Ettore, chi Troiolo, chi Deifebo e chi Polidoro, chi gli altri e come miseramente tutti li vedesse morire; tornandosi a mente il sangue del suo marito, poco avanti reverendo e da temere da tutto il mondo, spandere nel tristo grembo, e l’avere veduta Troia d’altissimi palagi e di nobile popolo piena, accesa di greco fuoco e abbattuta tutta; e oltre a ciò il misero sacrificio fatto da Pirro della sua Pulissena, con quanta tristizia si dèe pensare che il riguardasse? Certo con molta. Ma brieve fu la sua doglia; ché la debole e vecchia mente, non potendo ciò sostenere, in lei smarritasi, la rendè pazza, sí come il suo latrare per li campi fe’ manifesto.
- Ma io con piú ferma e piú sostenente memoria che non mi bisogna, a mio danno, continuo rimango nel tristo senno, e piú discerno le cagioni da dolermi; per che, piú lungamente perseverando in male, come io fo, estimo quello, quantunque leggiero sia, da parere molto piú grave, sí come piú volte ho giá detto, che il gravissimo il quale in brieve tempo si finisce e termina.
- Sofonisba, mescolata tra l’avversitá del vedovatico e le letizie delle nozze, in un medesimo momento di tempo dolente e lieta, prigione e sposa, spogliata del regno e rivestitane, e ultimamente in queste medesime brievi permutazioni bevente il veleno, piena di noiosa angoscia m’apparisce. Videsi costei reina altissima dei Numidi, quindi, andando avversamente le cose de’ suoi parenti, vide preso Siface suo marito, e prigione divenire di Massinissa re, e ad un’ora caduta del regno, e prigione del nemico nel mezzo dell’armi, facendolasi Massinissa moglie, in quello restituita. Oh, con quanto sdegno d’animo si dée credere che ella queste mutabili cose mirasse, né sicura della volubile fortuna, con tristo cuore celebrasse le nuove nozze! il che il suo ardito finire assai chiaro dimostra; però che non essendo dopo le sue sponsalizie ancora uno di naturale valicato, appena credendosi ella rimanere nel reggimento e seco di ciò combattente, non accostandosi ancora al suo animo il nuovo amore di Massinissa, come l’antico di Siface, ricevette dal servo, mandato dal nuovo sposo, con ardita mano lo stemperato veleno, e quello, premesse sdegnose parole, senza paura bevve, poco appresso rendendo lo spirito. Oh, quanto amara si puote immaginare che stata saria la vita di costei, se spazio avesse avuto di pensare! la quale però tra le poco dolenti è da porre, considerando che la morte quasi prevenne alla sua tristizia, dove ella a me ha prestato tempo lunghissimo, e presta oltre a mia voglia, e presterá per farla maggiore.
- Dietro a questa, cosí piena di tristizia come fu, mi si para Cornelia, la quale la fortuna avea tanto levata in alto, che prima di Crasso, e poi moglie del magno Pompeo, il cui valore quasi sommo principato in Roma avea acquistato, si vide; la quale prima di Roma, poi di tutta Italia quasi in fuga, rivolgendo la fortuna le cose, col marito da Cesare seguitato miseramente uscí, e dopo molti casi in Lesbo lasciata da lui, quivi lui medesimo sconfitto in Tessaglia, e le sue forze dal suo avversario abbattute, ricevette. E oltre a tutto questo, lui ancora con isperanza di rintegrare la sua potenza nel conquistato oriente, il mare solcando, ne’ regni d’Egitto arrivato, da lui medesimo conceduti al giovane re, seguitò, e quivi il suo busto senza capo infestato dalle marine onde vide. Le quali cose ciascuna per sé, e tutte insieme, dobbiamo pensare che senza comparazione afflissero l’anima sua; ma li sani consigli dell’Uticense Catone, e la perduta speranza di piú riaver Pompeo, lei in picciolo tempo di molto poco renderono dogliosa, lá dove io, vanamente sperando, né da me potendo questa speranza cacciare, senza alcuno consiglio o conforto, fuor che della vecchia mia balia consapevole de’ miei mali, nella quale io conosco piú fede che senno, perché spesso credendomi dare alle mie pene rimedio, m’accresce doglia, dimoro piangendo.
- Sono ancora molti che crederebbono Cleopatras reina d’Egitto pena intollerabile e oltre alla mia assai maggiore avere sofferta, però che prima veggendosi col fratello insieme regnante e di ricchezza abbondante, e da questo in prigione messa, senza modo si crede dolente; ma questo dolore futura speranza di quel che avvenne l’aiutò agevolmente a portare. Ma poi di prigione uscita e divenuta di Cesare amica, e da lui poi abbandonata, sono chi pensano ciò da lei con gravissimo affanno essere passato, non riguardando essere corta noia d’amore in colui, o in colei, il quale a diletto si può tôrre ad uno e darsi ad uno altro, come essa mostrò spesse volte di potere. Ma cessi Iddio che in me mai tale consolazione possa avvenire! Egli non fu né fia giammai, da colui in fuori di cui io ragionevolmente esser dovrei, chi potesse dire, o possa, che io mai fossi sua, o sia, se non Panfilo; e sua vivo e viverò; né sperò che mai alcuno altro amore abbia forza di potermi il suo spegnere della mente. Oltre a ciò, se ella di Cesare rimase sconsolata nel suo partire, sarebbono, chi non sapesse il vero, di quelli che crederebbono ciò esserle doluto: ma egli non fu cosí; ché, se essa del suo partire si doleva, d’altra parte con allegrezza avanzante ogni tristizia la racconsolava Tesserle rimaso di lui uno figliuolo e il restituito regno. Questa letizia ha forza di vincere troppo maggiori doglie che non sono quelle di chi lentamente ama, come io giá dissi che ella faceva.
- Ma quello ché per sua gravissima ed estrema doglia s’aggiugne, è l’essere stata moglie d’Antonio, il quale ella con le sue libidinose lusinghe avea a cittadine guerre incitato contro al fratello; quasi di quelle vittoria sperando, aspirava all’altezza del romano imperio, ma venutale di ciò ad un’ora doppia perdita, cioè quella del morto marito, e della spogliata speranza, lei dolorosissima oltre ad ogni altra femina essere rimasa si crede. E certo, considerando sí alto intendimento venire meno per una disavventurata battaglia, quale è il dovere essere generale donna di tutto il circuito della terra, senza aggiugnervi il perdere cosí caro marito, è da credere essere dolorosissima cosa; ma ella a ciò trovò subitamente quella sola medicina che v’era a spegnere il suo dolore, cioè la morte, la quale ancora che rigida fosse, non si distese però in lungo spazio, però che in piccola ora possono per le poppe due serpenti trarre d’un corpo il sangue e la vita. Oh quante volte io, non minore doglia sentendo di lei, posto che per minore cagione secondo il parere di molti, avrei volentieri fatto il simigliarne se io fossi stata lasciata, o pure paura di futura infamia da ciò non m’avesse ritratta!
- Con questa e con le predette m’occorrono la eccellenzia di Ciro da Tamiris morto nel sangue; il fuoco e l’acqua di Creso; li ricchi regni di Persio; la magnificenza di Pirro; la potenza di Dario; la crudeltá di Giugurta; la tirannia di Dionisio; l’altezza d’Agamennone, e altri molti. Tutti da doglie simili alle predette o furono stimolati, o altrui lasciarono sconsolati; li quali similmente furono da súbiti argomenti aiutati, né lungamente in quelle dimorando, sentirono intera la loro gravezza, come io faccio.
- Mentre che io vado gli antichi danni in cotal guisa, quale avanti vedete, nella mia mente cercando per trovare lagrime o fatiche meritamente alle mie simigliami, acciò che avendo compagni mi dolga meno, mi vengono innanzi quelle di Tieste e di Tereo, li quali amenduni furono misera sepoltura de’ loro figliuoli. E senza dubbio io non conosco qual temperanza a’ riluttanti figliuoli nelle interiora paterne per uscir fuori, abominando il luogo donde erano entrati, di ritornarvi, ancora dubitando i crudeli morsi, non avendo altro luogo per altra parte, li ritenne di loro aprire con li taglienti ferri. Ma questi con ciò che poterono ad un’ora l’odio e il dolore sfogarono, e quasi ne’ danni prendevano conforto, sentendo che senza colpa erano tenuti miseri da’ loro popoli: quello chea me non avviene. A me è portata compassione di ciò onde io non ho doglia niuna, né oso scoprire quello onde io mi doglio; la qual cosa se fare osassi, non dubito che, come agli altri dolenti è stato alcuno rimedio, che a me similmente si trovasse.
- Vengonmi ancora nella mente talvolta le pietose lagrime di Licurgo e della sua casa, meritamente avute del morto Archemoro, e con queste quelle della dolente Atalanta madre di Partenopeo morto ne’ tebani campi; e sí proprie a me con li loro effetti s’accostano e sí mi si fanno conoscere, che appena piú sapere le potrei, se io non le provassi, come giá da me un’altra volta provate furono. Dico che di tanta mestizia sono piene, che piú non potrebbono, ma ciascune con tanta gloria sono in eterno ritratte, che quasi liete si potriano dire: quelle di Licurgo con le mortali esequie onorate da sette re e da infiniti giuochi fatti da loro, e quelle d’Atalanta dalla laudevole vita e morte vittoriosa del figliuolo. A me non è niuna cosa che le mie lagrime bene impiegate faccia contente, però che se questo fosse, lá dove io piú che alcuna mi chiamo dogliosa, e sono, forse al contrario affermare m’accosterei.
- Mostranmisi ancora le lunghe fatiche d’Ulisse, e li mortali pericoli, e gli strabocchevoli fatti essere a lui non senza gravissime angoscie d’animo intervenute; ma in me ripetute piú volte, le mie fanno piú gravi estimare; e udite perché. Egli prima e principalmente uomo, dunque di natura piú forte a sostenere di me tenera giovane; egli robusto e fiero, sempre negli affanni e ne’ pericoli usato, quasi naturato fra loro, allora che egli faticava gli pareva avere sommo riposo; ma io nella mia camera tra le morbide cose dilicata e usa di trastullarmi col lascivo amore, ogni picciola pena m’è grave molto; egli da Nettuno stimolato, in varie parti portato, e da Eolo similmente le sue fatiche ricevette; ma io sono infestata da sollecito Amore, da signore il quale giá molestò e vinse coloro che infestarono Ulisse; e se a lui erano imminenti li mortali pericoli, egli li andava cercando; e chi si può ramaricare, se egli truova quello che cerca? Ma io misera volentieri viverei quieta, se io potessi; e quelli fuggirei, se ad essi non fossi sospinta. Oltre a ciò, egli non temeva la morte, e però sicuramente si metteva nelle sue forze, ma io la temo, e da doglia sforzata, alcuna volta non senza speranza di grave doglia corsi verso lei. Egli ancora della sua fatica e pericoli sperava eterna gloria e fama, ma io delle mie vituperio temo e infamia, se avvenisse che si scoprissono. Sií che giá non avanzano le sue le mie, anzi sono dalle mie molto le sue avanzate; e in tanto piú, in quanto di lui molto piú che non fu se ne scrive, ma le mie sono molto piú che io non posso contare.
- Dopo tutti questi, quasi da se medesimi riserbati, come molto gravi mi si fanno sentire i guai d’Isifile, di Medea, d’Oenone e d’Adriana, le lagrime delle quali e i dolori assai con le mie simigliano le giudico; però che ciascuna di queste, dal suo amante ingannata, cosí come io, sparse lagrime, gittò sospiri, e amarissime pene senza frutto sostenne; le quali, avvegna che, come è detto, sí come io si dolessero, pure ebbero termine con giusta vendetta le lagrime loro, la qual cosa ancora non hanno le mie. Isifile avvegna che molto avesse onorato Giasone, e suo per debita legge se lo avesse obbligato, veggendolsi da Medea tolto, come io posso, ragionevolmente si potè dolere; ma la provvidenza degl’iddii con occhio giusto guardante ad ogni cosa, se non a’ miei danni, le rendè gran parte della disiderata letizia, però che ella vide Medea, che Giasone le aveva tolto, da Giasone per Creusa abbandonata. Certo io non dico che la mia miseria finisse, se questo vedessi a colei avvenire che m’ha tolto il mio Panfilo, eccetto se io non fossi giá colei che gliel togliessi, ma ben dico che gran parte mancherebbe di quella. Medea similmente si rallegrò di vendetta, posto che essa cosí crudele divenisse contro di sé, come contro l’ingrato amante, uccidendo li comuni figliuoli in presenza di lui, ardendo li reali ostieri con la nuova donna. Oenone ancora, lungamente dolutasi, alla fine sentí l’infedele e disleale amante avere sostenuta meritamente pena delle rotte leggi, e la sua terra per la mal mutata donna vide in fiamme consumarsi miseramente. Ma certo io amo meglio li miei dolori che cotal vendetta del mio.
- Adriana ancora, divenuta moglie di Bacco, vide dal cielo furiosa Fedra dell’amor del figliastro, la quale prima era stata consenziente al suo abbandonamento nell’isola per divenire di Teseo. Sí che, ogni cosa pensata, io sola tra le misere mi truovo ottenere il principato, e piú non posso.
- Ma se forse, o donne, li miei argomenti frivoli giá tenete, e ciechi come da cieca amante li reputate, l’altrui lagrime piú che le mie infelici estimando, quest’uno solo e ultimo a tutti gli altri déa supplimento: se chi porta invidia è piú misero che colui a cui la porta, io sono di tutti li predetti de’ loro accidenti, meno miseri che li miei reputandoli, invidiosa.
- Ecco adunque, o donne, che per gli antichi inganni della fortuna io sono misera; e oltre a questo, essa, non altramente che come la lucerna vicina al suo spegnersi suole alcuna vampa piena di luce maggiore che l’usato gittare, ha fatto: però che, dandomi in apparenza alcuno rifrigerio, me poi nelle separate lagrime ritornante, ha miserissima fatta. E acciò che io, posposta ogni altra comparazione, con una sola m’ingegni di farvi certe de’ nuovi mali, v’affermo con quella gravitá che le misere mie pari possono maggiore affermare, cotanto essere le mie pene al presente piú gravi, che esse avanti la vana letizia fossero, quanto piú le febbri sogliono, con egual caldo o freddo vegnendo, offendere li ricaduti infermi che le primiere. E perciò che accumulazione di pene, ma non di nuove parole, vi potrei dare, essendo alquanto di voi diventata pietosa, per non darvi piú tedio in piú lunga dimoranza traendo le vostre lagrime, s’alcuna di voi forse leggendo n’ha sparte o spande, e per non ispendere il tempo che me a lagrimare richiama in piú parole, di tacere omai dilibero, faccendovi manifesto non essere altra comparazione del mio narrare verissimo a quello che io sento, che sia dal fuoco dipinto a quello che veramente arde. Al quale io priego Iddio, che o per li vostri prieghi, o per li miei, sopra quello salutevole acqua mandi, o con trista morte di me, o con lieta tornata di Panfilo.
- ↑ [la figliuola d’Inaco]: ebbe nome Io, come fu detto dinanzi, della quale s’innamorò Giove. Copertala da una nube ebbe a fare con essa e trasmutolla in vacca la quale, contro sua voglia donò a Giunone sua moglie, ed essa la diede in guardia ad Argo suo pastore che aveva cento occhi; il quale Argo fu poi ammazzato da Mercurio. Laonde la detta Giunone cacciò questa vacca perfino in Egitto ove ritornata in pristina forma, divenne moglie di Osiri re d’Egitto.
- ↑ [Biblis]. Come fu detto dinanzi, fu sorella di Cauno del quale ella s’innamorò; ma non potendo avere a fare con esso per disperazione s’impiccò, e per miserazione dell’iddii fu trasmutata in fonte, come piú chiaro fu detto dinanzi.
- ↑ [Mirra]. Come fu detto dinanzi fu figliuola di re Cinara del quale essa s’innamorò e avuto a fare con lui fraudolentemente per aiuto e consiglio della sua nutrice e fuggendo da poi l’ira del detto suo padre, per miserazione degl’iddii fu trasmutata in arbore del suo nome. Onde dice Ovidio: Flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae.
- Est honor e lacrimis, stillataque robore murra
- Nomen erile tenet nullique tacebitur aevo.
- [Met., X, 500-502.]
- ↑ [ Cenace ]. Come fu detto dinanzi fu figliuola di Eolo re delli venti e innamorossi d’uno suo fratello carnale ch’ebbe nome Macareo col quale avendo a fare ingravidò e partorí: la qual cosa sentendo il detto suo padre, la mise in prigione, ed essa s’uccise se medesima.
- ↑ [Piramo]: fu uno giovane bellissimo della cittá di Babillonia; innamorossi d’una sua vicina giovinetta e assai bella che si chiamava Tisbe con la quale si convenne per avere a fare con lei d’andare di notte fuori della cittá a certo luogo diterminato ove era una fontana. E lí aspettando l’uno l’altro, Tisbe giunse prima alla detta fontana, e aspettando Piramo, venne uno leone per bevere alla detta fontana: onde essa per paura fuggí e lasciovvi uno pannicello che portava in capo, il quale il detto leone trovando, tutto stracciò e insanguinò. Da poi venendo Piramo trovò il detto pannicello cosí sanguinoso, credette che Tisbe fosse stata divorata dalla detta fiera; onde esso per disperazione con la sua spada s’uccise. Alla qual cosa Tisbe correndo, e trovandolo quasi morto, con la detta sua spada per disperazione se medesima uccise. Per li quali morti uno celso ch’era ivi ch’avea li pomi bianchi diventaro neri. Onde dice Ovidio: At tu quae ramis arbor miserabile corpus
- Nunc tegis unius, inox es tectura duorum
- Sigila tene caedis pullosque et luctibus aptos
- Semper habe fetus, gemini monimenta cruoris.
- [Met., IV, 158-161.]
- ↑ [Dido]. Come fu detto dinanzi, fu di Sidonia, ed essendo stato morto il suo marito Sicheo da Pignaleone suo fratello, perciò che volea il suo tesoro, essa se ne fuggí portandosene il detto tesoro e arrivò nelle parti d’Africa ove edificò la cittá di Cartagine; alla quale arrivando Enea dopo la distruzione di Troia, essa s’innamorò di lui, e partendosi lui pervenire in Italia ad edificare Roma, essa Dido per disperazione si uccise; benché la veritá della storia fu altramente, come pone Iustino.
- ↑ [Ero]. Come fu detto dinanzi fu dell’isola di Sesto e di lei s’innamorò Leandro di Abido alla quale volendo andare, andava per mare notando alla detta isola. Di che una notte s’affogò in mare e per fortuna fu apportato al lito del mare ove la detta Ero il solea aspettare; la quale trovandolo morto sopra di lui fece gran pianto. Onde della temeritá del grande amore di Leandro parla Virgilio in libro terzio Georgicon.
- ↑ [Fedra]. Come è stato detto, fu figliuola di Minos e moglie di Teseo duca d’Atene; innamorossi d’Ipolito suo figliastro, ma esso non volle consentire a sua vituperosa volontá, onde ella l’accusò a Teseo suo padre. Per la qual cosa fuggendo fu isquartato dalli suoi cavalli che tiravano il carro suo, come chiaro fu detto dinanzi.
- ↑ [Laudomia ]. Come fu detto dinanzi, fu moglie di Protesilao a cui essa volle molto bene come dimostra Ovidio nelle pistole; e fu il primo uomo che fosse morto all’oste di Troia, onde essa n’ebbe grandissima doglia.
- ↑ [Deifile e Argia]. Come pone Stazio nel Tebaidos furono sorelle e figliuole di re Adrasto d’Argo cittá in Grecia; alla quale arrivarono insieme una notte con grande fortuna di rio tempo Pollinico figliuolo di re Edippo partitosi dal suo fratello Etiocle a cui toccava il reggimento di Tebe per uno anno, e Tideo fuggitosi dal padre però ch’avea morto uno suo fratello isventuratamente. E faccendo insieme questi due grandissima battaglia per volere bene alloggiare, il detto re che dormia si risvegliò al romore e levatosi per cercare quel ch’era trovò questi due che faceano cruda battaglia, e domandandoli chi essi erano, ed essi dicendolo, li ricevè graziosamente: e guardando nelli scudi loro all’armi che portavano, che l’uno portava uno leone e l’altro uno porco per segnale, subito si ricordò del sogno ch’avea fatto poche notti dinanzi, che sognava che dovea dare per moglie le dette sue figliuole cioè Deifile e Argia ad uno leone e ad uno porco, e conoscendo esso la veritá del sogno per questo fu assai contento e diede a loro per moglie le dette sue figliuole. Li quali andando per racquistare Tebe con l’aiuto del detto re Adrasto, Tideo figlio di Eneo di Calidonia dopo molte prodezze fu morto, e il detto Etiocle s’ammazzò insieme col fratello Pollinice come fu detto dinanzi, sí che le dette Deifile e Argia rimasero triste di loro.
- ↑ [Evannes]. Questa fu moglie di re Capaneo l’uno delli sette re ch’andò ad oste alla detta cittá di Tebe, uomo ferissimo in fatto d’arme e spregiatore degl’iddii; e uno di combattendo alle mura di Tebe biasimando Giove, [Giove] lo flagellò d’una folgore che subito morí; e da poi essendo rotta l’oste e scampando solo lo detto re Adrasto e tutti gli altri morti, Creonte prese la signoria di Tebe e per crudeltá comandò che niuno corpo morto fosse sepellito. La qual cosa udendo la detta Evannes radunatesi insieme Deifile e Argia e tutte l’altre donne greche per dare sepoltura al li loro mariti, e questo fecero con l’aiuto di Teseo duca d’Atene che uccise il detto Creonte e guastò la detta cittá di Tebe.
- ↑ [Deianira]. Come fu detto dinanzi, fu moglie di Ercule, e sentendo come esso era innamorato di Iole, volendolo ritrarre dal detto amore gli mandò una camicia tinta nel sangue di Nesso centauro il quale fu morto dal detto Ercule, e innanzi che morisse volendosi vendicare di Ercule, diede questa camicia a Deianira dicendole ch’avea questa virtú: che facea cacciare via ogni amore e ritornare al primo. La qual cosa credendo fare la detta Deianira, fe’ il contrario, perché essa camicia era avvelenata, e come Ercule la si mise addosso arsero le carni del detto Ercule: e però ove credette di far bene, fe’ molto male e rimasene molto trista. Della cui morte parla Ovidio: Nec mora, letiferam conatur scindere vestem,
- Qua trahitur, trahit ille cutem, foedumque relatu,
- Aut haeret membris frustra temptata revelli,
- Aut laceros artus et grandia detegit ossa.
- [Met., IX, 166-169.]
- Note
- CAPITOLO IX
- Nel quale madonna Fiammetta parla al libro suo, imponendogli in che abito, e quando e a cui egli debba andare, e da cui guardarsi; e fa fine.
- O picciolo mio libretto, tratto quasi della sepoltura della tua donna, ecco, sí come a me piace, la tua fine è venuta con piú sollecito piede che quella de’ nostri danni; adunque, tale quale tu se’ dalle mie mani scritto, e in piú parti dalle mie lagrime offeso, dinanzi dalle innamorate donne ti presenta, e se pietá guidandoti sí come io fermissimamente spero, ti vedranno volentieri, se Amore non ha mutate leggi poi che noi misera divenimmo. Né ti sia in questo abito cosí vile come io ti mando, vergogna d’andare a ciascheduna, quantunque ella sia grande, pure che essa te avere non ricusi. A te non si richiede abito altramente fatto, posto che io pure dare tel volessi. Tu déi essere contento di mostrarti simigliante al tempo mio, il quale, essendo infelicissimo, te di miseria veste, come fa me, e però non ti sia cura d’alcuno ornamento, sí come gli altri sogliono avere, cioè di nobili coverte di colori varii tinte e ornate, o di pulita tonditura, o di leggiadri minii, o di gran titoli; queste cose non si convengono a’ gravi pianti, li quali tu porti; lascia e queste e li larghi spazii e li lieti inchiostri e l’impomiciate carte a’ libri felici; a te si conviene d’andare rabbuffato con isparte chiome, e macchiato e di squallore pieno, lá dove io ti mando, e co’ miei infortuni negli animi di quelle che ti leggeranno destare la santa pietá. La quale se avviene che per te di sé ne’ bellissimi visi mostri segnali, incontanente di ciò rendi merito qual tu puoi. Io e tu non siamo sí dalla fortuna avvallati, che essi non siano grandissimi in noi da poter dare; né questi sono però altri, se non quelli li quali essa a niuno misero può tôrre, cioè esemplo di sé donare a quelli che sono felici, acciò che essi pongano modo a’ loro beni, e fuggano di divenire simili a noi; il quale, sí come tu puoi, sí fatto dimostra di me, che, se savie sono, ne’ loro amori savissime ad ovviare agli occulti inganni de’ giovani diventino per paura de’ nostri mali.
- Va’ adunque: io non so qual passo si convenga a te piuttosto, o sollecito o quieto, né so quali parti prima da te siano da essere cercate, né so come tu sarai né da cui ricevuto. Cosí come la fortuna ti pigne, cosí procedi: il tuo corso non può essere guari ordinato. A te occulta il nuvoloso tempo ogni stella, le quali se pure tutte paressono, niuno argomento t’ha l’impetuosa fortuna lasciato a tua salute; e perciò in qua e in lá ributtato, come nave senza temone e senza vela dall’onde gittata, cosí t’abbandona, e come li luoghi richieggiono, cosí usa varii li consigli. Se tu forse alle mani d’alcuna pervieni, la quale sí felici usi li suoi amori che le nostre angoscie schernisca, e per folle forse riprendane, umile sostieni li gabbi fatti, li quali menomissima parte sono de’ nostri mali, e a lei la fortuna essere mobile torna a mente, per la qual cosa noi lieta, e lei come noi potrebbe rendere in brieve, e risa e beffe per beffe le renderemmo. E se tu alcuna troverai che, leggendoti, li suoi occhi asciutti non tenga, ma dolente e pietosa de’ nostri mali con le sue lagrime multiplichi le tue macchie, quelle in te, sí come santissime, con le mie raccogli, e piú pietoso e afflitto mostrandoti, umile priega che per me prieghi colui il quale con le dorate piume in un momento visita tutto il mondo, sí che egli forse da piú degna bocca che la nostra pregato, e piú ad altrui pieghevole che a noi, allevii le nostre angoscie. E io, chiunque ella sia, priego da ora con quella voce che a’ miseri piú esaudevole è data, che ella mai a tali miserie non pervenga, e che sempre le siano gl’iddii placabili e benigni, e li suoi amori secondo li suoi disii felici produca per lunghi tempi.
- Ma se per avventura tra l’amorosa turba delle vaghe donne, delle mani d’una in altra cambiandoti, pervieni a quelle dell’inimica donna usurpatrice de’ nostri beni, come di luogo iniquo fuggi incontanente, né parte di te non mostrare agli occhi ladri, acciò che ella la seconda volta, sentendo le nostre pene, non si rallegri d’averci nociuto. Ma se pure avviene che essa per forza ti tenga, e pure ti voglia vedere, per modo ti mostra, che non risa, ma lagrime le venga de’ nostri danni, e a conscienza tornando, ci renda il nostro amante. Oh, quanto felice pietá sarebbe questa, e come fruttuosa la tua fatica!
- Gli occhi degli uomini fuggi, da’ quali se pure se’ veduto di’: «O generazione ingrata e detrattrice delle semplici donne, non si convengono a voi di vedere le cose pie». Ma se a colui che è de’ nostri mali radice pervieni, sgridalo dalla lunga e di’: «O tu, piú rigido che alcuna quercia, fuggi di qui, e noi con le tue mani non violare: la tua rotta fede è di tutto ciò che io porto cagione, ma se con umana mente leggere mi vuogli, forse riconoscendo il fallo commesso contro a colei, che, tornando tu ad essa, di perdonarti disidera, vedimi; ma se ciò fare non vuogli, non si conviene a te di vedere le lagrime che date hai, e spezialmente se d’accrescerle dimori nel volere primo». E se forse alcuna donna delle tue parole rozzamente composte si maraviglia, di’ che quelle ne mandi via, però che li parlari ornati richieggiono gli animi chiari e li tempi sereni e tranquilli. E però piuttosto dirai che prenda ammirazione come a quel poco che narri disordinato, bastò lo ’ntelletto e la mano, considerando che dall’una parte amore, e dall’altra gelosia con varie trafitte in continua battaglia tengono il dolente animo, e in nebuloso tempo favoreggiandogli la contraria fortuna.
- Tu puoi da ogni aguato andar sicuro, sí come io credo, però che nulla invidia te morderá con aguto dente; ma se pure piú misero di te si trovasse, che no ’l credo, il quale quasi a te come a piú beato di sé la portasse, làsciati mordere. Io non so bene qual parte di te nuova offesa possa ricevere, sí per tutto dalle percosse della fortuna ti veggio essere lacerato. Egli non ti può guari offendere, né farti d’alto tornare in basso luogo, sí è infimo quello ove dimori. E posto ancora che non bastasse alla fortuna d’averci con la superficie della terra congiunti, e ancora sotto quella cercasse di sotterrarci, sí siamo nell’avversitá amicati, che con quelle spalle con le quali le maggiori cose abbiamo sostenute e sosteniamo, sosterremo le minori, e però entra dove ella vuole.
- Vivi adunque: nullo ti può di questo privare; ed esemplo eterno a’ felici e a’ miseri dimora dell’angoscie della tua donna.
- * * *
- CHIOSE
- Al capitolo primo.
- [i denti seminati da Cadmo ]. Cadmo fu figliuolo di re Agenore re di Sidonia ed ebbe uno fratello chiamato Fenice e una sorella chiamata Europa, la quale Giove trasmutato in forma di tauro la rapí. Mandato il detto Cadmo col detto Fenice dal detto lor padre Agenore per ritrovare la detta Europa loro sorella, non trovandola, arrivaro in Boezia ove esso Cadmo uccise un serpente ad una fontana; del quale serpente seminò li denti dalli quali nacquero uomini armati, e gittata la terra ove furono seminati, infra loro subito s’uccisero l’uno con l’altro.
- [Lachesis]: è una delle tre dèe c’hanno in potestate la vita umana.
- [Proserpina]: fu figliuola di Cerere, la quale fu allevata in Cicilia. Andando a cogliere fiori appiè del monte di Etna, Pluto signore dell’inferno la rapí e menolla con seco e tolsela per moglie. E però dice Dante:
- Tu mi risembri si come qual era
- Proserpina nel tempo che perdette
- la madre lei, ed ella primavera.
- [Euridice]: fu moglie di Orfeo la quale andandosi a sollazzo per un prato, pose i piè ad uno serpente il quale la morse nel calcagno e subito ne morí e andossene all’inferno. Per la quale il detto Orfeo andò all’inferno e tanto fece con suoi belli suoni che la riebbe, con patto che non si dovesse rivoltare indietro; ma lui poco savio rivoltandosi all’uscita della porta per vedere se ella uscìa fuori, la riperdé.
- [nel peccato d’Atreo]. Atreo fu fratello di Tieste e figliuolo di Tantalo, padre di Agamennone e di Menelao, il quale cacciò il detto suo fratello Tieste del regno perché esso usò carnalmente con la sua donna; del quale volendosi il detto Atreo vendicare, sotto spezie di volersi pacificare con lui, lo fe’ ritornare e usò questa iniqua crudeltá: che uccise due figliuoli del detto Tieste e dièglili a mangiare. Per la qual crudeltá gl’iddíi corrucciati fèro una notte durare due dí.
- [simile alle dèe vedute da Paris]. Qui madonna Fiammetta vuol dire che quando fu fatto quello convito ove furono invitati tutti gl’iddii e le dèe se non la dea della discordia nella valle d’Ida, per la qual cosa essa corrucciatasi e per mettere errore gittò intra costoro uno bellissimo pomo d’oro ove era scritto: «il pomo sia dato alla piú bella di costoro». Onde Pallas e Venus e Giunone, ciascuna il domandava dicendo che dovea essere suo. Di che il giudicio fu dato in mano di Paris come giusto giudice, e dovesse giudicare a chi di loro dovesse essere dato il pomo. Il quale giudicio esso rendè nella selva d’Ida appresso a Troia ove queste tre dèe andarono piú belle e piú ornate che poterono e seppero, promettendo ciascuna di costoro grande grazia al detto Paris, cioè: Pallas di farlo lo piú savio uomo del mondo; Venus gli promise di dargli la piú bella donna del mondo; e Giunone il piú potente e ricco uomo del mondo. Laonde esso rendè il giudicio che fosse dato a Venus. E cosí dice madonna Fiammetta che si ornò per parere piú bella a Panfilo.
- [Venere santissima ]. Due sono gli usi di Venere, cioè Venere licita e Venere illicita. Venere licita è di stare il marito con la moglie e però dice santissima; illicita si è d’appetere il marito altra donna che la sua, e la donna altro uomo che il suo marito.
- [Febo]: secondo li poeti è il sole.
- [Gange]: è uno fiume in oriente e pare che Febo esca la mattina da questo fiume.
- [l'onde d‘Esperia]: questo è il mare di Spagna.
- [Arturo]: è una stella la quale ha per dominio lo tempo del verno.
- [volante figliuolo]: cioè Cupido che signoreggia dalla ottava spera in giú per tutte sette le spere de’ pianeti.
- [Febo vincitore del gran Fitone]. Febo fu lo dio della sapienza e della eloquenza. Fitone fu uno serpente mandato da Giunone che dovesse perseguitare Latona madre del detto Febo: il quale, Febo uccise per vendicare la iniuria della madre.
- [accordatore delle celere di Parnaso]. Parnaso è uno monte il quale è in Boezia appresso alla cittá di Tebe ove anticamente fu lo studio de’ poeti al tempo del detto Febo ove era sacrificato come dio della sapienza ed eloquenza, e ove era una fonte sacrata alle muse della quale qualunque ne bevea diventava poeta.
- [ora per Danne]. Danne fu una bellissima giovinetta figliuola di Peneo della quale primamente s’innamorò Febo e andògli dietro assai; ed ella fuggendo per non avere a fare con lui, fuggí a Peneo suo padre e chiamato dal suo padre aiuto, lui la trasformò in arbore lo quale si chiamò lauro; del quale Febo sempre portò ghirlanda e anco se ne corona li poeti.
- [ora per Climenes]. Climenes fu la madre di Fetone, della quale s’innamorò Febo e ’ngravidolla e nacque il detto Fetone; il quale dimandò di grazia al detto Febo suo padre di voler governare li carri del sole, il quale Febo gli fece e lui li seppe mal governare, per la qual cosa morí.
- [Leucotoe]. fu una giovine figlia di Orcamo re di Achimenia e d’Eurimene, e di lei s’innamorò Febo, e non vedendo modo di potere aver a fare con essa, si trasformò nella forma della detta Eurimene sua madre, e cosí ebbe a fare con essa.
- [e per altre molte]: cioè che Febo s’innamorò di molte altre che qui non fa menzione: né di Circe, né di Clitie la quale il detto Febo convertí in mirasole. Onde dice Ovidio:
- Vertitur ad Solem mutataque servat amorem.
- [ Met., IV, 270.]
- [pastore innamorato guardò gli armenti]. Febo s’innamorò della figlia d’Ameto re di Tessaglia, e volendo seguitare il suo amore si trasformò in forma d’uno pastore e posesi a guardare l’armento del detto Ameto, e per questo modo lui ebbe a fare con lei.
- [in forma di candido uccello]. Giove s’innamorò di Leda, e non potendo avere a fare con lei si trasformò in forma d’un cigno; e andando la detta Leda per la riva del mare, Giove in forma di cigno le si gittò in grembo ed ebbe a far con lei, e nacque Castore e Polluce ed Elena, la quale tolse Paris etc.
- [altra volta divenuto giovenco ]. Giove ancora s’innamorò di Europa figliuola di re Agenore e sorella di Cadmo e di Fenice con la quale non potendo avere a fare, stando la detta Europa in uno prato a cogliere fiori, lui si trasformò in giovenco e faccendo atti piacevoli ad essa li quali molto le piacquero; e per umiltá del detto giovenco li montò addosso da pie’, e lui subito la portò via e passò il mare e andò a Creti ed ebbe a fare con lei.
- [quello che per Semelé]. Semelé fa una ninfa con la quale ebbe a fare Giove, e fu figliuola di Cadmo, e ingravidando nacquene Bacco.
- [per Almeno mutato in Anfitrione]. Almena fu moglie di Anfitrione della quale Giove innamorò, e volendo stare con lei si trasformò nella forma di Anfitrione e stette con lei ed ebbene Ercule.
- [quello che per Calisto mutato in Diana]. Calisto fu una giovinetta d’Arcadia figliuola di Licaone e fu donzella di Diana dea delle selve e delle cacciagioni; della quale Giove s’innamorò e trasmutossi in forma di Diana ed ebbe a far con lei, e ’ngravidolla e nacque Arcas il quale fu pur cacciatore. E Giunone volendosi vendicare dello strupo che avea commesso con Giove la trasmutò in orsa, la quale, Arcas predetto suo figliuolo andando a cacciare, non credendo che la madre fosse orsa, la volle sagittare per ucciderla; ma Giove per ricompensa dell’amore ch’ella avea avuto per lui la trasmutò in cielo e anche lo detto Arcas; e però si chiama Orsa maggiore e Orsa minore.
- [o per Danae divenuto pioggia]. Danae fu figliuola di re Acrissio, della quale Giove s’innamorò; stando essa serrata in una torre, Giove si trasformò in aere pluvio ed ebbe a far con lei. Della quale nacque Perseo il quale fu virtuosissimo uomo e tagliò il capo a Medusa che col suo isguardo convertia gli uomini in pietra.
- [iddio dell’armi]. Marte, iddio delle battaglie, s’innamorò di Venere moglie di Vulcano fabbro di Giove, e avendo a far con essa, fu accusato da Febo al detto Vulcano. Onde il detto Vulcano volendosi vendicare del detto dio Marte, fece reti di ferro sottilissime che non si poteano vedere, e misele intorno al letto ove faceano il fatto; e quando Marte andò a fare il fatto con Venere, furono tutti e due presi dalle dette reti a modo d’uccelli. Onde il detto Vulcano avendoli cosí presi, per vituperarli bene, mentre stavano cosí presi nelle reti, chiamò tutti gli altri dii che venissero a vedere, e cosí ivi vennero.
- [trisulche ]: dice «trisulche» però che sono tre le generazioni di saette, cioè: una fende, l’altra arde, e l’altra scaccia.
- [nella morte d’Adone]. Adone fu figliuolo di Mirra che fu figliuola di Cinara di cui essa s’innamorò, e fraudolentemente usò col suo padre; dalli quali fu ingenerato Adone il quale fu gran cacciatore, e di esso s’innamorò Venere dea della lussuria, lo quale fu morto cacciando da uno cignale. Essa Venere correndo a lui per aiutarlo, non potette, ma fe’ gran pianto sopra il suo corpo e lo fe’ trasmutare in fiore; e questo pone Ovidio nella fine del decimo libro Metamorfoseos.
- [la pelle del gran leone]. Ercule andò per comandamento di Giunone sua matrigna che gli dimandò ogni cosa monstruosa del mondo, alla selva Nemea dove era un leone che divorava ogni persona che passava ivi, il quale leone con gran fatica ammazzò e scorticollo, e per segno di vittoria portò per sopravesta sempre la pelle del detto leone.
- [il grande Anteo]. Ercule ancora per comandamento di Giunone fu mandato in Libia dove combatteo col forte Anteo gigante, il quale ogni fiata che toccava la terra se li raddoppiava la forza; ma pure con gran fatica l’ammazzò.
- [lo ’nfernale cane]: cioè Cerbero il quale stava nella porta della entrata dello ’nferno con tre teste, e quando Ercule andò allo ’nferno per compagnia di Teseo il quale andò per tôrre Proserpina, secondo che pone Seneca in la prima tragedia, alla ritornata per forza menò legato il detto Cerbero cane infernale.
- [ Clitennestra ]: fu moglie di Agamennone, la quale rimase a casa quando Agamennone andò a Troia. S’innamorò di Egisto, e poi che essa stette con lui carnalmente, quando Agamennone tornò vincitore di Troia, ella l’ammazzò, vestendosi una camicia senza capo.
- [Silla], Silla fu figliuola di re Niso; s’innamorò di Minos re di Creti essendo esso ad oste contra del re Niso suo padre, il quale avea un capello d’oro in capo che mentre che li durava non potea perdere la sua guerra col detto capello reggendosi. Onde essa per compiacere al detto Minos di cui era innamorata, tagliò la testa al suo padre e presentolla al detto Minos. Onde pone Ovidio ch’ella si converti in lodola e ’l padre in fringuello, e però il fringuello è nemico della [lodola].
- [Nettuno]: iddio del mare, innamorossi d’una bellissima giovane figliuola di Niteo di Tessaglia la quale ebbe nome Fenice, e andandosi un dí per la riva del mare, esso Nettuno la prese ed ebbe a fare con essa. E volendole far grazia disse che domandasse qual grazia volesse che elli faria. Onde essa domandò essere uomo, e cosí fu fatto, e poi l’aggiunse che non potesse essere ferito né morto di ferro. Da poi morí nella battaglia de’ Lapiti ricoperto di legname che li fu gittato addosso, e trasmutato in uccello che si chiama la fenice che uno solo se ne trova.
- [Alfeo]: è un fiume nelle parti di Grecia cioè di Acaia, e s’innamorò di Aretusa, la quale, invocato l’aiuto di Diana però che era delle sue donzelle, non potendo fuggire la forza del detto Alfeo, si convertí in fiume detto dal suo nome.
- [Semiramis]: fu moglie di re Nino e regina di Babillonia, la quale s’innamorò del figliuolo e fe’ iniquissime leggi, cioè che la madre potesse usare col figlio e la sorella col fratello.
- [Biblis]: fu figliuola di Mileto e la madre ebbe nome Ciana, ed ebbe un fratello ch’ebbe nome Cauno del quale essa s’innamorò, e non potendo avere a fare con esso si converti in fonte del suo nome, secondo Ovidio:
- Sic lacrimis consumpta suis Phoebeia Biblis
- Vertitur in fontem, qui nunc quoque vallibus illis
- Nomen liabet dominae nigraque sub ilice manat.
- [ Met., IX, 663-665.]
- [Cleopatras]: fu sorella di Tolomeo re d’Egitto, lussuriosissima femina tanto che ricercò il detto fratello di lussuria, per la qual cosa esso la mise in prigione e privolla della sua parte del reame. Ma poi che Cesare andò in Egitto per seguitare Pompeo, essa s’innamorò di lui, e cavolla di prigione ed ebbe a fare con lei e restituilla del reame; e però, morto il fratello, essa rimase reina.
- [le nostra colombe ]. Le colombe secondo li poeti sono consacrate a Venere.
- Al capitolo secondo.
- [di Cerere in Erisitone ]. Erisitone fu di Tessaglia, grandissimo ispregiatore delli iddíi, il quale per ispregiare la detta Cerere tagliò una selva dove era una grandissima quercia consacrata ad essa. Per la qual cosa Cerere corrucciatasi contra di lui, gli mise una fame sí grande in corpo, che veruna cosa li bastava a saziarlo, e manicò se medesimo a poco a poco. La quale Cerere fu dea dell’abbondanza.
- [Iside]. Essendo uno omo chiamato Ligdo dell’isola di Creti poverissimo, e’ ebbe una sua moglie chiamata Teletusa; la quale essendo gravida, esso le comandò che se facea figlio maschio lo dovesse nutricare, e se facea femina la dovesse annegare però che non l’averia potuto maritare per povertá. Per la qual cosa essa ne fu assai grama, e stando con gran malinconia le apparve in sogno Iside dea delli Egizii appresso del Nilo fiume, e sí la confortò e comandolle che non dovesse ammazzare la creatura fernina che facesse. Donde essa da poi partorio; e partorendo femina disse a Ligdo che era maschio e poseli nome Ifi per nome dell’avolo suo, e nutricollo come maschio fino in etá di otto anni e si li diè moglie una putta chiamata Iante; e venendo il tempo del matrimonio, Teletusa predetta fece orazione divotamente a Iside, che come di suo comando l’avea campata dalla morte, così li piacesse di trasformarla di femina in maschio acciò che potesse usare con la Iante sua moglie. E cosí fu esaudita che la prima notte dormendo con essa diventò maschio.
- Al capitolo terzo.
- [e quale Arunte]. Arunte secondo che pone Lucano fu grandissimo astrolago il quale per contemplare meglio il cielo delle stelle stava nelli monti della cittá dove fu Luni, e che sono in quello di Lucca dove si cava il marmo bianco. Esso essendo in questi monti, predisse la battaglia di Cesare e di Pompeo, che fu in Tessaglia.
- Al capitolo quarto.
- [Achemenide]. Secondo pone Virgilio, Omero e Ovidio, fu uno de’ compagni d’Ulisse, il quale rimase in Cicilia appiè delli scogli del monte d’Etna, quando Ulisse arrivò per fortuna nel detto loco dopo la distruzione di Troia. E tanto stette ivi perfino che passò Enea quando venne in Italia per far Roma, e da lui fu tolto per misericordia in sulle navi non ostante fosse greco; e cosí scampò dalle mani di Polifemo gigante che avea voluto divorare Ulisse con tutti li suoi compagni.
- Al capitolo quinto.
- [Ulisse etc.]. Qui è da sapere quello che pone Stazio nell’Achilleidos il quale scrive che da poi che Tetis ebbe partorito Achille, gittò sorti per vedere che fortuna dovea avere il detto Achille, per le quali conobbe che dovea essere morto nell’oste di Troia; e però quando venne il tempo che li Greci voleano andare a oste a Troia, essa sentendo che Achille era cercato, lo tolse da Chirone a cui l’avea dato perché l’ammaestrasse in fatto d’arme, e si lo portò nell’isola di Schiros e sí l’accomandò al padre di Deidamia e fello vestire in abito di femina acciò non si conoscesse che fosse maschio. E stando con questa Deidamia nel tempo ebbe a fare con essa e ingravidolla, della quale nacque Pirro. E sentendo li Greci che il detto Achille era nella detta isola e portava abito di femina e però non si conosceva, fûr mandati il detto Ulisse e Diomede che ’l cercassero, li quali andaro alla detta isola in forma di mercatanti, e dismontati delle navi andaro a visitare il re padre della detta Deidamia, ove portaro dilettissime gioie le quali mostraro alla detta Deidamia e alle sorelle, con le quali era Achille predetto. Ed esse prendendo gioie feminili, Achille inbracciò subito uno scuto e prese una spada in mano e cominciolla a brandire: li quali scudo e spada costoro aveano portato a studio di riconoscerlo. E cosí lo riconobbero e menaronlo via nell’oste a Troia ove fu morto.
- [al misero Edippo]. Edippo, secondo pone Seneca e Stazio, fu figlio di Laio re della cittá di Tebe, e di Giocasta sua madre, la quale essendo gravida, il detto Laio ebbe responso dalli dii che doveva partorire un figliuolo che lo dovea uccidere, e però comandò alla detta sua donna che come avea partorito la creatura la dovesse far morire. Da poi partorí un bellissimo figlio maschio lo quale vedendolo essa sí bello, nol volle far morire, ma fello portare alli servi suoi che lo portassero in un bosco, e foraronli li piedi e con ritorte l’appiccarono a uno arbore; lo quale ritrovato da pastori fu nutricato da Polibo re di Foci, e venendo a etá virile, scontrandosi sventuratamente nel detto re Laio suo padre, l’uccise, e come piacque alla fortuna prese per moglie la detta Giocasta sua madre, della quale prima che la riconoscesse ebbe quattro figliuoli, due maschi e due femine: delli quali l’uno ebbe nome Etiocle, l’altro Pollinice; delle femine l’una Ismene, l’altra Antigone. Dopo li quali avuti figliuoli riconoscendo Edippo come avea morto il detto suo padre e avea per moglie la detta sua madre, considerata l’abominevole iniquitá in che esso stava con la madre, e lo padre ch’avea morto, per disperazione s’accecò. Da poi li detti suoi figliuoli vennero a divisione del regno tebano, s’uccisero insieme etc. Della qual morte contra d’essi esclama Stazio nel libro XI dove dice:
- Ite truces animae funestaque Tartara leto
- Polluite, et cunctas Rrebi consumite poenas!
- Vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae:
- Omnibus in terris scelus hoc omnisque sub aevo
- Viderit una dies, monstrumque infame futuris
- Excidat, et soli memorent haec proelia reges.
- [Theb., XI, 574 579]
- [le figliuole di Danao]. Danao ebbe cinquanta figliuole femine, ed ebbe un fratello il quale ebbe nome Egisto ch’ebbe cinquanta figliuoli maschi, li quali presero per loro spose le dette cinquanta loro consobrine; alle quali Danao comandò che ciascuna dovesse la prima notte ammazzare lo suo marito, e questo fe’ acciò che rimanesse senza erede per tutto lo reame [e lo reame] rimanesse a lui. E cosí fecero tutte eccetto una la quale ebbe nome Ipermestra che fu maritata col fratello minore ch’ebbe nome Lino, che non l’ammazzò. Sí che di cinquanta ne campò uno solo etc. Il detto Danao fu figliuolo di Belo.
- [Narciso]: fu figlio d’una ninfa chiamata Liriope e il padre ebbe nome Cefiso, e volendo sapere che fortuna dovea avere il detto Narciso, dimandarono consiglio a uno indovino che si chiamò Tiresia padre di Manto che edificò la cittá di Mantova; ed esso rispose che il detto Narciso viverebbe lungo tempo se esso non conoscesse se medesimo. Della qual cosa fu fatto beffe; ma poi venne tempo nella sua iuventute che una ninfa chiamata Eco s’innamorò di lui ed esso non di lei, onde ella il biastimò che esso si potesse innamorare di cosa che mai non potesse usare. E cosí fu che andando esso a bere ad una fontana perché era cacciatore ed era stanco, mirando nella fontana vide la sua figura bellissima, e innamorossi di se stesso, e non conoscendosi si consumò d’amore, e cosí dagl’iddíi fu trasmutato in fiore, di cui dice Ovidio:
- Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?
- Quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes.
- [Met., III, 432-433.]
- [Atalanta]: fu figliuola di Ceneo re, la quale fu bellissima e velocissima in correre, in tanto che avanzava ogni uomo, e però avea fatta legge che qualunque corresse piú di lei la dovesse aver per moglie, e se no gli dovesse essere tagliata la testa. La qual cosa intervenne a molti, ma Ipomenes figliuolo di Megareo vedendo la bellezza di costei, volle correre con essa non ostante il pericolo. E però che esso era bellissimo di corpo, essa quando il vide disposto a correre con lei, mossa quasi a pietá averebbe voluto essere vinta da lui. Ma pur essa ed esso corsero insieme, e vinse Ipomenes però che Venere li donò tre pomi d’oro e disseli: «Quando sarai alla metá del corso butterai uno de’ detti pomi, lo quale essa vedendo si ristará per ricòrlo, e tu allora passerai dinanzi, e cosí farai del secondo, e il terzo butterai quando sarai appresso al termine del corso acciò che giungi prima di lei». E cosí fe’, e a questo modo vinse e fulli data per moglie; e menandola a casa sua, arrivaro ad uno tempio consacrato alla dea Cibele ch’è detta madre delli iddii, ed entrando nel detto tempio per riposarsi, il giovine predetto, per poca continenzia, non avendo rispetto alla religione, ebbe a far con la detta Atalanta. Per la qual cosa Cibele disdegnatasi, amendui li trasmutò in lioni li quali tirano li suoi carri. E però dice Ovidio questi versi:
- Pro thalamis celebrant silvas; aliisque timendi
- Dente premunt domito Cybeleia frena leones.
- [Met., X, 703-704.]
- [fratello della dura morte]: cioè il Sonno del quale parla Ovidio nel Metamorfoseos ove dice:
- Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
- Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
- Fessa ministeriis mulces reparasque labori!
- Somnia, quae veras aequent imitamine formas....
- [Met., XI, 623-626.]
- [i cento d’Argo]. A dichiarazione di questo si deve sapere quel che pone Ovidio nel primo libro del Metamorfoseos, cioè che Inaco re d’Arcadia ebbe una sua figliuola bellissima che si chiamò Io della quale s’innamorò Giove; e avendo a far con essa coperto d’una nuvola, Giunone sua moglie vedendolo, per l’inganni che Giove le solea fare, sappiendo quel che era, cioè che Giove avesse a far con qualche sua amica: onde discese del cielo e andò ov’era la detta nuvola per vedere quel ch’era. Della qual cosa Giove avvedendosi, trasmutò la detta Io in una vacchetta, e Giunone vedendo quel che facea, lo domandò, e lui rispose che riguardava questa bella vacchetta la quale dicea essere generata dalla terra, ed essa Giunone, ciò udendo, la dimandò di grazia in dono perché conosceva bene che non era così come Giove dicea. La quale Giove le donò, ed essa la diè in guardia a un suo pastore lo quale ebbe nome Argo ch’ebbe cento occhi, acciò che la guardasse bene acciò che Giove non la potesse ritòrre, sí che quando dormissero cinquanta occhi, gli altri cinquanta vegliassero. Per la qual cosa Giove vinto dall’amore per la pena che vedea patire alla detta sua amorosa, andò a Mercurio iddio della musica che dovesse andare in forma di pastore al detto Argo, e sí sonasse tanto dolce che lo facesse addormentare con tutti gli occhi. E cosí fe’, e addormentato lo detto Argo, Mercurio gli tagliò la testa; onde Giunone ciò sentendo e vedendo il detto Argo così morto, il trasmutò in pavone, lo quale è uccello consacrato a Giunone, e però il pavone ha tanti occhi nella coda. E da poi la detta Giunone mise uno assillo alla detta vacca, e fecela andare fuggendo perfino in Egitto dove dopo molte fatiche Giove mosso a misericordia commutò con Giunone di non avere a fare mai piú con essa, e la fe’ nella prima forma ritornare, e la fe’ maritare a Nubi iddio d’Egitto, ed essa fu chiamata Isi iddea del Nilo fiume etc.
- [Miseno]: fu trombetta di Ettore e figlio di Eolo, e da poi di Enea quando si partí da Troia per venire nelle parti d’Italia, lo quale affogò in mare per fortuna. Onde Enea da poi che l’ebbe fatto seppellire per comandamento della Sibilla Cumana, andando allo ’nferno lo trovò, e di lui parla Virgilio nel sesto in questa forma [Aen., VI, 164-5]:
- Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter
- Aere ciere viros Martemque accendere cantu.
- Alla quale Sibilla Enea quando venne in Italia andò per consiglio in che modo potesse andare allo ’nferno per andare al padre suo Anchise, dove essa il menò con gran fatica, sí come pone Virgilio nel sesto.
- [l’oracoli della Sibilla Cumana]. La Sibilla Cumana fu bellissima giovane della quale innamorò Febo dio della sapienza, al quale se avesse voluto consentire sarebbe stata divina. E pure esso Febo sollecitandola con prieghi che domandasse ciò che ella volesse che ’l farebbe, essa prese un pugno d’arena marina e domandò di grazia di potere vivere tanti anni quanti quelli granelli erano d’arena. La quale grazia Febo le fé’, ma essa poi si fe’ beffe di lui; e avrebbele conceduto che fosse vissuta sempre giovine, ma non lo domandò. Abitò costei alla cittá di Cuma e ivi era l’abitazione in forma d’una spelunca dove essa dava risposta delle cose future a chi v’andava a dimandare, e scrivevale nelle foglie e ponevate per ordine in sul limitare della porta della spelunca, e quando riserrava, le dette porte faceano vento e facea spargere le dette foglie sí che non si potea sapere sentenzia che esse dicessero. Visse anni, secondo che pone Ovidio:
- ... nam iam mihi saecula septem
- Acta vides; superest, numeros ut pulveris aequem
- Ter centum messes, ter centum musta videre.
- [Met., XIV, 144-146.]
- [o Fortuna etc.]. Seneca nel principio della tragedia che comincia Trohas pone le parole d’Ecuba alla fortuna:
- Quicumque regno fidit et magna potens
- Dominatur aula nec leves metuit deos
- Animumque rebus credulum laetis dedit
- Me videat et te Troia...
- [se non come a Mida la ricevuta grazia]. Mida fu re nelle parti d’Africa, il quale avendo onorato molto in casa sua Silleno sacerdote di Bacco iddio del vino, arrivando a casa sua il detto dio Bacco e rendendogli il detto suo sacerdote e simile onore faccendo a lui, il detto dio Bacco volendolo rimunerare gli disse che esso Mida domandasse qual grazia esso volea ch’e’ gli la faria. Onde esso Mida come avarissimo e cupidissimo domandò che ciò che toccasse diventasse oro; e cosí fu fatta la grazia: per la qual cosa ciò che toccava diventava oro, sí che bisognava che misero morisse in tanta ricchezza. Onde conoscendo esso la sua cupiditá e domanda dannosa che avea fatta, ripregò il detto iddio Bacco che gli piacesse ritôrgli la grazia, ed esso esaudendolo gli comandò che se volea essere liberato andasse al fiume Pattolo e dentro vi si lavasse e allora sarebbe libero della detta sconcia grazia per lui domandata; e così fe’. Per la qual cosa il detto fiume ha sempre menato vena d’oro. E vergognandosi poi esso Mida e avendo in odio la gente, abitò nelle ville e nel li boschi, ove esso stando ed essendo pur poco savio, volle contendere con lo iddio Pan dio de’ pastori e maestro delli suoni, che esso Mida sonava meglio di lui; e furono alla pruova e fu giudicato che lo dio Pan sonava meglio di lui. Laonde Febo per correggere la sua pazzia gli fe’ l’orecchie dell’asino le quali tenne ascose lungo tempo, ma uno suo famiglio vedendogli tondere li capelli vide che avea l’orecchie dell’asino, e non potendolo ritenere per paura lo disse alla Terra ove subito nacquero cannuccie le quali traendo il vento e percotendosi insieme diceano: «lo re ha l’orecchie dell’asino». Onde dice Ovidio:
- Creber harundinibus tremulis ibi surgere lucus
- Coepit, et ut primum pieno maturuit anno
- Prodidit agricolam: leni narri motus ab austro
- Obruta verba refert, dominique coarguit aures.
- [Met., XI, 190-193].
- [di prendere vendetta di Febo]. Febo come fu detto dinanzi fu iddio della sapienza e uccise Fitone il gran serpente il quale la terra produsse dopo il diluvio di Pirra e Deucalione. Vedendo un dí Cupido iddio dell’amore con l’arco in mano, si fe’ beffe di lui gloriandosi che esso Febo avea morto il detto serpente e dicendogli: «Perché porti tu l’arco e le saette le quali si convengono a noi?». A cui Cupido rispose: «Io ti farò provar la possanza dell’arco e delle saette mie». E mise mano all’arco e alle saette e prese una saetta d’oro la quale induce l’amore, e ferí il detto Febo. Onde Febo innamorò subito d’una giovinetta la quale ebbe nome Danne, figliuola di Peneo, ed essa il detto Cupido saettò e ferí con una saetta di piombo la quale ha questa virtú che caccia ogni amore; e però Febo l’amava con ardentissimo amore ed essa non lui per nullo modo, e pur perseguitandola ed ella pure fuggendo e non possendo un dí fuggirgli piú dinanzi e domandando e gridando l’aiuto del detto suo padre, esso suo padre la fe’ convertire in lauro: laonde Febo se ne fe’ ghirlanda per amore e ordinò che li poeti se ne dovessero incoronare e ancora gl’imperatori. Del quale parla Dante nel principio della terza cantica [ove] disse cosí invocando Febo:
- O buon Appollo, all’ultimo lavoro
- fammi del tuo valor si fatto vaso
- come dimandi a dar l’amato alloro.
- . . . . . . . . . . . . . .
- Sí rade volte, padre, se ne coglie
- per triunfar o Cesare o poeta
- colpa e vergogna dell’umane voglie...
- E simile tocca Ovidio dicendo:
- Arbor eris certe — dixit — mea. Semper habebunt
- Te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae;
- Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
- Vox canet et visent longas Capitolia pompas.
- [Met., I, 558-561.]
- [Semiramis simigliare]. Questa fu regina di Babillonia e fu alterissima e lussuriosissima sí che volle avere a fare col figliuolo, secondo pone Iustino nel libro primo.
- [ Cleopatras ]. Questa fu figliuola di re Tolomeo re d’Egitto il quale fe’ decapitare Pompeo. Fu bellissima e lussuriosissima, con la quale ebbe a fare Cesare ed ebbene uno figliuolo chiamato Cesarione; poi fu moglie di Antonio nipote del detto Cesare e fratello di Ottaviano imperadore, e fu ornatissima donna la quale si uccise con l’aspide.
- [alla Ciprigna Venere]. Ciprigna è detta cosí perché in Cipri fu molto sacrificata.
- [Scevola somigliava]. Questo fu Romano compagno di Scipione Africano Maggiore e di Lelio vero amico del detto Scipione. Esso Scevola fu omo savissimo e governatore di grandi uficii di Roma, e fu chiamato Quinto Muzio secondo che pone Tullio in libro De amicitia, quando disse: «Quintus Mutius aghur Scevola» etc.
- [il Censorino Catone o l’Uticense]. Due furono li Catoni, cioè Cato Censorino e l’altro Cato Uticense. Questo Uticense fu il piú diritto omo che mai fosse al tempo suo e per salvare la repubblica di Roma seguitò Pompeo, e dopo la morte di Pompeo rimase capitaneo dello esercito. Da poi sconfitto in Africa insieme con re Iuba, dimorando esso in Utica cittá, leggendo De immortalitate animi, uccise se medesimo. Il detto Cato Censorino fu valentissimo omo etc.
- [Scipione Africano]: fu Romano e fu sopra tutti il piú valente omo che mai avesse Roma e le sue virtú sono innumerabili delle [quali] non si possono saziare li scrittori.
- [ Cincinnato]: fu pur Romano valentissimo omo e robustissimo.
- [Arcadio Partenopeo ]. Partenopeo fu figliuolo di Atalanta regina d’Arcadia e fu re essendo giovinetto. Fu bellissimo del corpo tanto che passò di bellezza nella sua etá ogni altro, e cosí similemente fu di grande animo, in tanto che quando Adrasto di Grecia andò ad oste alla cittá di Tebe per acquistarla a Etiocle figliuolo di Edippo del quale fu detto dinanzi, essendo il detto Partenopeo giovinetto di quattordici anni, fu uno delli sette re che andaro ad oste alla cittá di Tebe e lí fu morto.
- [Ascanio]. Questo fu figliuolo di Enea e fu piacevolissimo e bellissimo.
- [Deifebo]: fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo in arme e peregrinò nell’Attica, e perciò dice Virgilio [Aen., VI, 500]:
- Deiphebe armipotens genus alto a sanguine Teucri.
- [Ercule]. Come fu detto, fu figliuolo di Giove e d’Almena, il quale fu il piú forte omo del mondo, e per segno di fortezza portava una ghirlandetta verde di quercia o d’oppio a dimostrare la sua grandezza.
- [al grande Ettor]. Questo fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo ed espertissimo in arme, e fu morto da Achille.
- [Quasi un altro Achille]. Questo fu figliuolo di Pelleo figliuolo di Eaco re di Tessaglia il quale fu fortissimo e valorosissimo in arme e fu morto a Troia.
- [Protesilao]. Questo fu re e come fu detto dinanzi s’innamorò di Laudomia, e quando andò ad oste a Troia esso fu il primo ucciso da Ettor perché prima discese delle navi loro. Onde disse Ovidio:
- Troes, et Hectorea primus fataliter hasta,
- Protesilae, cadis...
- [Met., XII, 67-68.]
- [Menelao]: fu fratello di Agamennone re in Grecia e fu marito della detta Elena e fu figliuolo di Atreo.
- [Agamennone]: fu fratello del detto Menelao e figliuolo del detto Atreo e fu ferissimo in arme e fu capitano di tutta l’oste greca contra di Troia perfino a tanto che la vinsero e guastaronla. Poi Clitennestra sua moglie l’ammazzò com’è detto dinanzi.
- [Pirro]: fu figliuolo di Achille e fu crudelissimo in arme e con fiero aspetto, il quale ammazzò re Priamo con gran crudeltá. Però dice Virgilio:
- At non ille, satum quo te mentiris, Achilles
- Talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque
- Supplicis erubuit, corpusque exsangue sepulchro
- Reddidit Hectoreum, meque in mea regna remisit.
- [Aen., II, 540-543.]
- [Aiace]: fu figliuolo di Talamone figliuolo di Eaco com’è detto dinanzi e fratello di Pelleo padre di Achille, e fu figliuolo di Essiona sorella di re Priamo la quale tolse Talamone nella prima distruzione di Troia quando fu guasta per Ercule e per Giasone quando andavano a conquistare il vello d’oro. [Aiace] fu fortissimo e valorosissimo in arme il quale uccise se medesimo per disperazione non potendo avere l’arme di Achille.
- [Orfeo]: fu di Tracia e fu figliuolo di Appollo il quale prese per moglie Euridice la quale morendo, esso pel grande amore che le portava andò allo ’nferno per averla con la sua cetera con la quale sonava molto bene. Essendo lí sonò tanto bene che la detta Euridice li fu conceduta con patto che non si dovesse mai voltare indietro; e voltandosi all’uscire della porta dello ’nferno, la riperdé e per questo non volle mai piú usare con femina. Laonde fu ammazzato dalle femine perché abbandonò il coito delle donne e badava alli giovani, come dice Ovidio:
- Ille etiam Thracum populis fuit auctor, amorem
- In teneros transferre mares, citraque iuventam
- Aetatis breve ver et primos carpere fiores.
- [Met., X, 83-85.]
- [O felice colui etc.]. Di questa beata vita attribuita alli villani lavoratori secondo pone qui l’autore, parla Virgilio nel libro secondo Georgicon ove loda per la piú beata vita che si possa menare in questo mondo se il villano ci stesse contento, ove dice:
- O fortunatos nimium, sua si bona norint
- Agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
- Fundit humo facilem victum iustissima tellus.
- [vv. 457-459]
- A dimostrare come la natura dell’omo si poria contentare di poco e non appetere cose superflue che sono la morte dell’omo, come che chiaro dimostra l’autore di questo, scrive Lucano in questa forma:
- ........ O prodiga rerum
- Luxuries, numquam paro contenta paratis
- Et quaesitorum terra pelagoque ciborum
- Ambitiosa fames et lautae gloria mensae
- Discite, quam parvo liceat producere vitam
- Et quantum natura petat. Non erigit aegros
- Nobilis ignoto diffusus consule Bacchus:
- Non auro murrhaque bibunt, sed gurgite puro
- Vita redit...
- [Bell. civ., IV, 373 sgg.]
- [li satiri etc.]. Li Satiri secondo li poeti sono gl’iddii delle ville; li Fauni secondo li poeti sono gl’iddii delle selve; le Driadi secondo li poeti sono le dèe delli boschi; le Naiadi secondo li poeti sono le dèe delle fonti; le Ninfe secondo li poeti sono le dèe delli fiumi.
- [al suo biforme figliuolo ]: cioè Cupido figliuolo di Venere, dio dell’amore, il quale si pone nudo e cieco.
- [Sardanapallo]. Secondo pone Iustino istoriografo e abreviatore di Trogo Pompeo, fu il terzo re che signoreggiò la cittá di Babilonia dopo la morte di Semiramis regina la quale fu detta dinanzi che fe’ vita lascivissima; e regnando il detto Sardanapallo, trovando il vivere degli uomini cosí corrotto per leggi che avea fatte la detta Semiramis, esso come uomo di buona vita corresse il detto vituperoso vivere ponendo regula al mangiare e al bere cioè a Cerere e a Bacco che sono due cose cagioni grandissime di lussuria; e però disse Terenzio: «Sine Cerere et Bacho friget Venus».
- [li sommersi regni]. Troia fu guasta per amore di Paris e di Elena, e però dice qui li sommersi regni.
- [Ariete], Ariete è uno delli dodici segni del Zodiaco, nel quale segno entra il sole a mezzo marzo e sta fino a mezzo aprile.
- [ Spurinna]. Secondo pone Valerio Massimo in rubrica De Verecundia, fu uno giovine ateniese (?) il quale fu tanto bellissimo del corpo che per natura non poria essere stato piú bello prodotto, della cui bellezza era quasi presa ogni femina che lo riguardava; la qual cosa conoscendo esso che era cagione di fare peccare molte donne, esso come pudico e casto volle levare la cagione la quale inclinava l’animo delle predette donne a peccare, e sí si guastò ogni sua bellezza del suo viso, tagliandosi il naso, guastandosi la bocca e ogni altra bellezza del viso per volere vivere casto e non volere mai avere a far con donna.
- Al capitolo sesto.
- [il sole tornato etc.]: cioè il sole era tornato un’altra volta nel segno di Scorpione che è uno delli dodici segni del Zodiaco, e però vuol dire ch’era giá passato uno anno che Panfilo s’era partito da Fiammetta, ch’era stato del mese di ottobre, perciò che il sole entra nel detto segno a mezzo ottobre, e in quello segno era allora che Fetone figliuolo di Febo e di Climenes guidò il carro del sole onde arse tutto il mondo; e questo prova Ovidio nel secondo libro Metamorphoseos:
- Est locus in geminos ubi bracchia concavat arcus
- Scorpius et cauda flexisque utrimque lacertis.
- [Met., II, 195-196.]
- [Oenone]: fu una giovinetta pastorella delle ville di Troia, della quale s’innamorò Paris figliuolo di Priamo e presela per moglie prima che ritornasse alle delizie reali; e ritornato e riconosciuto per figliuolo di re Priamo, andò da poi in Grecia e tolse Elena moglie di Menelao, e menolla a Troia, la quale vedendo Oenone ebbe grandissima doglia.
- [il misero Atamante]. Questo fu re di Tebe, il quale ebbe una sua moglie chiamata Ino della quale ebbe due figliuoli: l’uno si chiamava Learco, l’altro Melicerte. E perché Giunone sempre fu nemica di tutti quelli che discesono di Cadmo che edificò Tebe, come è stato detto dinanzi per Semelé della quale Giove s’innamorò, cosí inimicando fe’ mettere furia addosso al detto Atamante per sí fatta forma che vedendo esso la detta sua moglie con li figliuoli in braccio, gli parve una lionessa e correndo incontro a lei gridando «tendete le reti acciò che sia presa», e giuntala, tolse di braccio il detto figliuolo Learco dicendo ch’era uno leoncino e stoppiollo nel muro e ucciselo. Onde la madre fuggendo con l’altro chiamato Melicerte, giunta sopra uno scoglio del mare, si gettò con esso suo figliuolo. Per la qual cosa Nettuno iddio del mare a’ prieghi di Venere sí la trasmutò insieme col figlio in dea marina che fu poi chiamata Leuocotoe e lo figlio Palemone, e perciò dice Ovidio:
- Annuit oranti Neptunus et abstulit illis
- Quod mortale fuit, maiestatemque verendam
- Inposuit, nomenque simul faciemque novavit:
- Leucotheeque deum cum matre Palaemona dixit.
- [Met., IV, 539-542]
- [dello innocente Ipolito ]. Questo fu figliuolo di Teseo duca d’Atene e figliuolo d’Ipolita regina dell’Amazone, la quale poi che fu morta, andando esso Teseo per essere divorato dal Minotauro e scampato per l’aiuto di Adriana e di Fedra figliuole di re Minos, si prese per moglie la detta Fedra. E però qui è da sapere quello che pone Seneca nella terza tragedia, che essendo andato Teseo in compagnia di Peritoo suo compagno allo ’nferno ed essendo rimaso il detto Ipolito in luogo del padre insieme con Fedra sua matrigna, essa s’innamorò di lui tanto fieramente che lo richiese d’amore, ed esso ch’era castissimo non volle consentire. Onde ella tenendosene svergognata e volendo sua vergogna ricoprire, quando Teseo fu tornato, l’accusò che l’avea voluta sforzare. La qual cosa udendo Teseo mattamente credette, e prendendo il detto suo figlio per farlo morire, e non potendolo avere, lo isbandí di tutto il suo reame. Onde esso fuggendo per andare alla cittá di Corinto, andando per la riva del mare, di subito levato in gran fortuna escia del detto mare un toro il quale parea che gittasse uno mare per la bocca e per le nari; onde li cavalli suoi che tiravano il carro spaventati per gran paura in lá e in qua fori d’ogni via il detto carro violentemente tirando, si ruppe il meditullo, cioè quello che muntene le rote, e cadendo il carro e Ipolito insieme con esso, le rote gli andarono addosso e tutto il dilaniaro. Da poi per aiuto delli medici resuscitò e fu chiamato Virbio vel bis vir, e perciò dice Ovidio in libro Metamorphoseos:
- Hipolitus — dixit — nunc idem Virbius esto.
- [Met., XV, 544.]
- [Penelope]. Questa fu moglie di Ulisse, la quale fu castissima servando sempre la fede al detto suo marito aspettandolo che esso tornasse dopo la distruzione di Troia come gli altri erano tornati; ma esso rivolto in mare da molta fortuna, arrivò ove regnava Circe figliuola del Sole la quale s’innamorò d’esso e ritennelo assai tempo che non curava tornare a sua donna Penelope.
- [ Cassandra ]: fu figliuola di re Priamo e fu assai bella del corpo, e d’essa s’innamorò Appollo iddio della sapienza che conosce ciò che deve venire e quel ch’è passato. Seguitando questa Cassandra per avere a fare con essa ed essa fuggendolo, pur vinta da molte promesse disse che volea consentire alla sua volontá se esso le dava grazia che essa potesse conoscere e indovinare le cose future. La qual cosa Appollo le concedette, e volendo avere a fare con essa, essa si fe’ beffe di lui e non gli volle osservare la promessa. Per la qual cosa Appollo vedendosi schernito da lei, non potendole togliere la grazia data, le tolse che quello che essa indovinasse non le fosse creduto, ma fosse riputata insana.
- [Dite]. Questo è re dello ’nferno.
- [Stige ]. Questa è una palude nello ’nferno, la quale è interpretata tristizia.
- [Arpie]: sono uccelli che hanno collo e viso umano e furono tre, cioè Aellopo, Occipito e Celeno; le quali quando Enea arrivò nell’isola di Strofade e pigliando rinfrescamento e cibo, queste Arpie vennero alle loro tavole e rapirono le lor vivande, e col loro putrido sterco imbrattarono tutte le mense; laonde Enea prese uno arco per cacciarle via e sagittolle. Di che esse come nunziatrici di male fuggendogli innanzi predissero ad esso Enea che innanzi che giugnesse in Italia ove dovea acquistare nuovo regno e li discendenti suoi dovieno edificare Roma, loro bisognava per fame mangiare le mense. Del quale agurio fu Enea molto tristo e però dice Virgilio nel terzo di Eneidos:
- Ibitis Italiani portusque intrare licebit;
- Sed non ante datam cingetis moenibus urbem
- Quam vos dira fames nostraeque iniuria caedis
- Ambesas subigat malis absumere mensas.
- [vv. 254 - 257.]
- [la celestiale Orsa]. In Arcadia fu una giovine bellissima ch’ebbe nome Calisto e fu serviziale di Diana; della quale Calisto s’innamorò Giove, e trasformatosi nella forma di Diana ebbe a fare con essa e ’ngravidolla, e nacquene uno figliuolo che si chiamò Arcas come fu detto dinanzi, ed essendo trasmutati in stelle fu chiamata Orsa maggiore e Orsa minore, le quali perché non tramontano come fanno l’altre, fingono li poeti che per comandamento di Giunone non si possano rinfrescar nel mare oceano come l’altre stelle.
- [e taceranno li cani di Silla ]. Silla fu figliuola di Forco, la quale fu bellissima vergine e vagheggiata da molti li quali essa tutti rifiutava fuggendo alle ninfe marine e spezialmente a Galatea della quale era innamorato Ciclope detto Polifemo. La quale Silla standosi un dí lavandosi su nel lito del mare, Glauco iddio marino che prima fu omo pescatore e da poi diventò iddio gustata certa erba la quale avea fatti tutti li pesci ch’avea presi resuscitare, vedendola, subito s’innamorò di lei, ed essa schifandolo lo fuggia come suo nemico. Laonde il detto Glauco se ne andò a madonna Circe figliuola del Sole, la quale con suoi incanti e per virtú d’erbe facea venire gli uomini e le donne alla sua volontá, e narrando il detto Glauco il suo amore, raccomandandosi elli che lo dovesse aiutare, essa vedendolo, perché era bellissimo, s’innamorò di lui e richieselo d’amore. A cui Glauco rispose che il suo amore volea che fosse di Silla. Per la qual cosa Circe disdegnatasi, sapendo il luogo del mare ove la detta Silla pigliava rinfrescamento bagnandosi, essa Circe andò al detto luogo e per dispetto di Glauco, acciò che di lei avesse abominazione, quello luogo fece con sughi d’erbe e con suoi incanti infetto e maladetto. Al qual luogo quando la detta Silla andò com’era usata, e intrata dentro fino al corpo per bagnarsi, li peli ch’essa avea addosso tutti diventarono cani che sempre abbaiavano e latravano, e da poi fu trasformata in uno scoglio marino; il quale luogo è pericolosissimo in mare; onde di lei parla Ovidio:
- Scylla venit: mediaque tenus descenderat alvo
- Cum sua foedari latrantibus inguina monstris
- Aspicit; ac primo non credens corporis illas
- Esse sui partes, refugitque abigitque pavetque
- Ora proterva canum: sed quos fugit, attrahit una...
- [Met., XIV, 59 63.]
- [e la rapace onda della ciciliana Cariddi]. Questo Cariddi è uno luogo di mare pericoloso in Cicilia, nel quale è sempre gran tempesta; onde le navi che vi vanno tutte periscono, però che quello luogo non ha mai posa. Onde dice Ovidio:
- Scylla latus dextrum, laevum inrequieta Charibdis.
- [Met., XIII, 730.]
- [Dedalo]’, fu ingegnosissimo uomo e fece il Laberinto per suo ingegno, nel quale fu messo il Minotauro. Poi che Teseo l’ebbe ammazzato, il re Minos vi fe’ imprigionare dentro il detto Dedalo perché conobbe che per suo magisterio Pasife moglie del detto re Minos concepette del toro il detto Minotauro; ed essendo esso nella detta prigione e non potendone uscire perché era ben guardato, si fe’ ale per sua industria per sé e per Icaro suo figliuolo che era in prigione con esso, e postelesi alle loro spalle volarono fuori del detto Laberinto, ammonendo prima il detto suo figliuolo che non dovesse andare troppo alto per certe ragioni che gli assegnò. E non volendo fare li comandamenti del padre ei volle andare piú alto che non se li convenia, e cadde in mare e affogossi, onde quel mare d’allora in qua fu chiamato il mare Icaro.
- [li carri di Medea], Medea fu figliuola di re Oete dell’isola di Colcos; come fu detto dinanzi, s’innamorò di Giasone e con lui se n’andò, del quale ebbe due figliuoli li quali essa Medea, poi che Giasone ebbe presa altra donna, li uccise per rabbia, e però ella volendo scampare, per incanti d’arte magica si fe’ portare in uno carro il quale era da dragoni menato. E però dice Ovidio:
- Sed postquam Colchis arsit nova nupta venenis
- Flagrantemque domum regis mare vidit utrumque,
- Sanguine natorum perfunditur inpius ensis,
- Ultaque se male mater Iasonis effugit arma.
- Hinc Titaniacis ablata draconibus intrat
- Palladias arces...
- [Met., VII, 394-399-]
- [Tizio c’è posto etc.]. Tizio fu gigante e bellissimo del corpo tanto ch’ebbe ardire di richiedere Giunone moglie di Giove, di lussuria, a cui essa rispose ch’era contenta; ma venendo al fatto essa Giunone interpose tra lei e ’l detto Tizio una nuvola nella quale, credendo avere a fare con la detta Giunone, mise il seme suo, onde ne nacquero li centauri. Per la qual cosa Giunone volendosi vendicare del detto ardito Tizio lo fe’ mettere nello ’nferno a sostenere questa pena: che gli avoltoi i sempre gli stracciassero il fegato; il quale fegato quando è consumato sempre ricresce. Però sempre ha pena perpetua. Onde dice Ovidio:
- Viscera praebebat Tityos lanianda novemque
- Iugeribus distentus erat...
- [Met., IV, 457-458.]
- [Tantalo]. Fu padre di Pelope, avarissimo, e però è posto nello ’nferno con questa pena: che esso è messo nell’acqua fino alla bocca e non può bere perché l’acqua li fugge dinanzi, e simile li pomi c’ha sempre presso alla bocca, e non ne può gustare. Sí che per pena nell’abbondanzia muore di fame e di sete. Onde dice Ovidio:
- ...tibi, Tantale, nullae
- Deprenduntur aquae, quaeque imminet, effugit arbor.
- [Mel., IV, 458-459.]
- [e ancora il mísero Issione]. Questo è posto nello ’nferno su in una rota e ha questa pena: che sempre si volta e mai non ha fine. Onde dice Ovidio:
- Volvitur Ixion et se sequiturque fugitque.
- [Met., IV, 461.]
- [le figliuole di Danao] perché uccisero li loro mariti e consobrini sono poste nello ’nferno con questa pena: che debbono vuotare uno gran fiume con li corbelli, e però non hanno mai posa. Onde dice Ovidio:
- Molirique suis letum patruelibus ausae
- Adsiduae repetunt, quas perdant, Belides undas.
- [Met., IV, 463 - 64.]
- [Giasone si partí di Lemnos]. A dichiarazione di questo è da sapere quello che pone Stazio nel quinto libro del Tebaidos, cioè che Isifile fu figliuola di re Toante dell’isola di Lemnos il quale andando per acquistare certi popoli a lui inimici e stando mollo tempo a ciò fare, le donne spregiavano il sacrificio di Venere dea della lussuria; e di ciò essa corrucciandosi verso di loro, quando ritornarono, avuta ch’ebbero la vittoria, alla detta isola di Lemnos, volendo la detta Venere vendicarsi di loro, mise una puzza di bocca tra loro donne, per la qual cosa essi le fuggiano come cose putride. Onde esse donne corrucciatesi diliberaro d’ammazzare tutti li loro mariti e ogni altro uomo. Alla quale diliberazione fu richiesta questa Isifile e promise ammazzare il detto Toante suo padre. La qual cosa non fe’ ma per pietá lo salvò, fatta a lui palese la detta diliberazione. Laonde le dette donne avendo ammazzati tutti li loro uomini e credendo che la detta Isifile avesse ammazzato il padre, fecero lei loro regina, reggendosi loro senza volere uomo. In questo tempo andando Giasone per acquistare il vello d’oro arrivò al porto della detta isola, il quale gli convenne vincere per forza, e fatta gran battaglia con le dette femine e poi ricevuto con grande onore dalla detta Isifile, promettendole toglierla per sua moglie, stette con lei e ingravidolla di due figliuoli, la quale poi esso abbandonò per Medea. Di che essa Isifile fu scacciata dal reame dalle dette femine per ch’avea campato il padre e rotta la fede. Sconosciuta fuggendo arrivò a casa di re Licurgo col quale s’acconciò per sua balia, e nutricando uno suo figliuolo il quale fu chiamato Archemoro il quale fu morto da uno serpente avendolo essa lasciato per mostrare l’acqua ove bevve l’esercito di re Adrasto e di Pollinice quando andaro ad oste alla cittá di Tebe, e tornando trovò il detto citello morto dal serpente. E il detto Adrasto volendola consolare, domandolla prima cui ella era, ed essa narrandogli, per consolazione della morte del citello [fece fare onori] quasi nella simile forma che fe’ fare Enea alla sepoltura di Anchise suo padre, come pone Virgilio. Nelli quali onori a caso o a fortuna essa Isifile conobbe i due predetti suoi figliuoli che avea avuti di Giasone.
- [e tornò in Tessaglia a Medea]. Medea, come fu detto dinanzi, fu abbandonata da Giasone per un’altra donna, come pone Seneca nelle tragedie, per la qual cosa essa corrucciatasi uccise due figli che ebbe di Giasone e arse il palagio regale con la nuova sposa e fuggí da esso e andossene a Egeo padre di Teseo, il quale ricevendola con grande onore se la tolse per moglie; e da poi perché volle fare attossicare il detto Teseo, conosciuta la iniquitá sua, si fuggi da Egeo, onde dice Ovidio:
- Excipit hanc Aegeus, facto damnandus in uno,
- Nec satis hospitium est: thalami quoque foedere iungit.
- [Met., VII, 403 - 404.]
- [Paris si partí]. Questo, come fu detto dinanzi, fu figliuolo di re Priamo, il quale essendo pastore s’innamorò di Oenone e presela per moglie. Da poi il detto Paris riconosciuto figliuolo di re Priamo, abbandonò la detta Oenone perché avea tolto la reina Elena.
- [Teseo si partí]. Questo fu figliuolo di re Egeo e andando per essere divorato dal Minotauro nel Laberinto di Creti, scampò per aiuto di Adriana figliuola di re Minos e promise menarlasi con lui; e menandola la lasciò nel cammino per amore di Fedra sua sorella perché gli parve più bella Fedra, la quale Fedra avea promessa dare per moglie a Ipolito, ed essa Adriana prese poi per marito l’iddio Bacco. Per che, tornato Teseo disposò per moglie la detta Fedra, benché Fedra fosse malcontenta che la sorella fosse stata abbandonata. Standosi un dí la detta Fedra isguardando a Ipolito suo figliastro, s’innamorò di lui e richieselo di lussuria. A che lui non volle consentire perché era casto e non volea rompere la promessione fatta alla dea della castitá etc.
- [che dirai tu di Deianira]. Questa Deianira fu moglie di Ercule la quale esso abbandonò perché s’innamorò d’una donna ch’ebbe nome Iole e funne innamorato sí fieramente che essa Iole lo minacciava come fosse stato uno fanciullo, e comandavali talora che filasse stoppa e voltasse le fusa, e di tutto era ubbidiente alla detta Iole.
- [Filis]. Questa fu figliuola di Licurgo re di Tracia e fu dell’isola di Rodope; innamorossi di Demofonte figliuolo di Teseo col quale ebbe a fare. E partendosi da essa con promessione di tornare infra due mesi ed esso non tornando al termine e ancora aspettandolo altrettanto, essa per disperazione s’impiccò e convertissi in mandorlo. Onde il detto Demofonte tornando la trovò arbore e non femina. Questo pone Ovidio nella seconda pistola.
- [Cloto Lachesis e Atropos]. Queste sono tre fate secondo li poeti c’hanno a disponere della vita umana, cioè Cloto inconocchia la rocca, che tanto è a dire quanto nascimento d’uomo, Lachesis fila, cioè a dire che mena la vita, Atropos taglia il filato, cioè la morte dell’uomo.
- [Dido]: ebbe tre nomi, cioè Elissa, Fenissa e Dido; come fu detto dinanzi si uccise per amore di Enea.
- [Biblis]: della quale fu detto dinanzi, s’innamorò del fratello ch’ebbe nome Cauno, col quale non potendo avere a fare, per disperazione s’impiccò.
- [Amata]: come pone Virgilio, fu moglie di re Latino e madre di Lavinia la quale essa Amata volea che fosse moglie di Turno re de’ Rutuli, e aveala promessa con la volontá del detto re Latino, però che esso avea avuta risposta dalli iddii che convenia che la maritasse a omo che venisse di stranii paesi. Il quale fu Enea che quando venne in Italia per fare Roma venendo alla cittá di Laurento al detto re Latino, esso conobbe che questo era quello a cui esso dovea dare la detta sua figlia per moglie, e cosí fece. Però seguitò la guerra grande e le fiere battaglie tra Enea e il detto re Turno. Laonde la detta reina Amata vedendo che non potea seguire la volontá sua, per disperazione s’impiccò, vedendo la detta sua figlia moglie di Enea e non di Turno.
- [come li Saguntini]. Sagunto, secondo pone Tito Livio in secundo bello punico fu una cittá in Spagna la quale fu fedelissima alla cittá di Roma, e però Annibale figliuolo d’Amilcare signore di Cartagine passando in Spagna nel principio della detta guerra pose assedio alla detta cittá di Sagunto; la quale struggendo per lungo assedio e li Romani non dando a loro soccorso, essi si tennero tanto per salvare loro fede, che mancando a loro la vettovaglia si condussero a mangiare ogni sozzura fino alli topi. E pur vedendo non potersi difendere, diliberaro di ardere loro e la detta cittá prima che venissero sotto la signoria del detto Annibale, e così fecero etc.
- [o gli Abidei]. Abido fu un’isola abitata, ed essendo assediata da Filippo re di Macedonia fecero il simile come li sopradetti Saguntini.
- [li velenosi sughi etc.]: cioè che Fiammetta si diliberò di attossiccarsi come fece Annibale e Socrate filosofo; il quale Annibale, secondo pone il detto Tito Livio, partendosi d’Italia ove era stato diciassette anni inimichevolmente con li Romani per andare a soccorrere la cittá di Cartagine la quale Scipione Africano maggiore osteggiava per lo popolo di Roma, esso Annibale fu sconfitto, laonde la detta Cartagine fu vinta per li Romani: per la qual cosa Annibale si fuggí al re di Prusia suo amico credendo essere da lui aiutato e favoreggiato. E conoscendo dopo molte cose la gran sua gloria e fama essere trasmutata in infelicissima disavventura, avvelenò se medesimo con uno anello il quale portava in dito, su la pietra del quale avea fatto porre il veleno.
- [Filis]. Questa, come pone Ovidio nella seconda Epistola, ricevette in casa sua Demofonte e subito lei s’innamorò del detto Demofonte ed ebbe a fare con lui ed esso la sposò per sua donna e poi si partí da lei con promessione di tornare a lei come a sua sposa, il quale mai non tornò etc.
- [e tu, o Mercurio]. Questo fu figliuolo di Maia figliuola di Atalante, e fu figliuolo di Giove e messaggiere degl’iddii come pone Ovidio nel secondo libro ove dice: «Pleionesque nepos ego sum, qui iussa per auras | Verba patris porto; pater est mihi Iupiter ipse».
- Questo Mercurio s’innamorò d’una giovine figlia d’uno centauro la quale ebbe nome Erse e fu bellissima quanto a quel tempo si trovasse; e perché dormia nel mezzo di due sue sorelle che l’una ebbe nome Pandroso e l’altra Aglauros, esso non vedendo modo di poter aver a fare con la detta Erse appalesossi alla detta Aglauros ed essa gli promise che consentiria che esso Mercurio dormisse con Erse. Ma mossa da invidia del bene che pensò che dovesse avere la detta sua sorella, ingannò il detto Mercurio che non potè avere a fare con Erse. Per la qual cosa Mercurio corrucciatosi la trasmutò in pietra. Onde dice Ovidio:
- Nec conata loqui est nec, si conata fuisset,
- Vocis habebat iter: saxum iam colla tenebat
- Oraque duruerant, signumque exsangue sedebat
- Nec lapis albus erat: sua mens infecerat illam.
- [Met., II, 829-832.]
- Mercurio ancora è ricevitore dell’anime di comandamento di Giove e menale allo ’nferno e mettele nelli luoghi deputati secondo debbano ricevere debita punizione. E però dice ora Fiammetta pregando il detto Mercurio che riceva l’anima sua e mettala in luogo dove sia poca pena.
- [Ecate ]. Ecate, Trivia e Diana è una medesima cosa, cioè la luna, ma è cosí nominata da’ poeti per diversi effetti però che Ecate è invocata dalle incantatrici in aiuto perciò c’ha predominio di notte, e queste arti si fanno generalmente di notte. E questo prova Ovidio in libro Metamorphoseos negli incanti di Medea ove dice:
- Nox, — ait — arcanis fidissima quaeque diurnis
- Aurea cum luna succeditis ignibus astra,
- Tuque triceps Hecate, quae coeptis conscia nostris
- Adiutrixque venis cantusque artisque magorum,
- Quaeque magos, Telius, pollentibus instruis herbis.
- [Met. VII, 192-196.]
- Al capitolo settimo.
- [Europa ]. Come detto è dinanzi, Giove trasmutato in forma di tauro la rapí, e da poi esso Giove trasmutò il tauro in segno celeste che si chiama Tauro nel quale il sole entra a mezzo aprile; e però dice qui venuta la primavera.
- [Zefiro], Questo è uno vento dolce e soave che fa venire tutte le piante in frutto la primavera onde fanno li fiori; e però dice florigero.
- [Borea], Questo è vento settentrionale freddissimo il quale fa il contrario di Zefiro che arreca le frondi agli arbori, e ’l detto Borea le fa cadere.
- [al cielo ottavo]-, cioè l’ottava spera; secondo li filosofi e astrolaghi sono le stelle fisse, come noi vedemo.
- [Narciso]. Come fu detto dinanzi s’innamorò di se medesimo ad una fonte e poi fu trasmutato in fiore.
- [la madre di Bacco]-, come fu detto dinanzi, fu Semelé con la quale ebbe a fare Giove, onde nacque Bacco iddio del vino; ma qui tocca l’autore la veritá della finzione poetica, cioè che Semelé è la vite, e impregnandosi di Giove cioè dell’aere, fa al tempo le frondi e l’uve.
- [le misere sirocchie di Fotone]. Fetone come fu detto dinanzi fu figliuolo di Climenes e di Febo, il quale perché steppe mal guidare il carro del sole, arse tutto il mondo ed esso cadde nel fiume che si chiama Po in Lombardia; e andandolo cercando la madre con le sue figliuole e sorelle del detto Fetone, le quali ebbero nome Fetusa e Iapece, arrivando sopra al detto Po trovando la sepoltura del detto Fetone, sopra essa faccendo gran lamento, per misericordia degl’iddii furono trasmutate in salci delli quali è gran copia sopra al fiume del detto Po.
- [Espero]. Secondo li strolaghi è stella in cielo la quale è chiamata ancora lucifer, e volgarmente è chiamata stella diana. Espcro è chiamata quando apparisce la sera cioè nel tempo dell’inverno; e che questa sia una medesima stella e abbia diversi nascimenti prova Virgilio (?).
- [Febea]: Cioè la luna con li raggi del suo fratello, cioè del Sole; e però dice Febea che fu sorella di Febo.
- [Almena]: fu moglie di Anfitrione il quale essendo andato a studio e dovendo tornare, essa per meglio piacere al suo marito si adornò nobilissimamente; e cosí fece Fiammetta quando le fu detto che il suo Panfilo tornava.
- [Icaro ]. Fu figliuolo di Dedalo; come fu detto dinanzi, uscendo del Laberinto per magisterio d’ale, cioè volando, volendo volare troppo alto, cadde in mare e annegò, e da poi fu chiamato dal suo nome il mare Icaro. Onde dice Ovidio:
- Tabuerant cerae: nudos quatit ille lacertos
- Remigioque carens non ullas percipit auras,
- Oraque caerulea patrium clamanti a nomen
- Excipiuntur aqua, quae nomen traxit ab ilio.
- [Met., VIII, 227-230.]
- Al capitolo ottavo.
- [la figliuola d’Inaco]: ebbe nome Io, come fu detto dinanzi, della quale s’innamorò Giove. Copertala da una nube ebbe a fare con essa e trasmutolla in vacca la quale, contro sua voglia donò a Giunone sua moglie, ed essa la diede in guardia ad Argo suo pastore che aveva cento occhi; il quale Argo fu poi ammazzato da Mercurio. Laonde la detta Giunone cacciò questa vacca perfino in Egitto ove ritornata in pristina forma, divenne moglie di Osiri re d’Egitto.
- [Biblis]. Come fu detto dinanzi, fu sorella di Cauno del quale ella s’innamorò; ma non potendo avere a fare con esso per disperazione s’impiccò, e per miserazione dell’iddii fu trasmutata in fonte, come piú chiaro fu detto dinanzi.
- [Mirra]. Come fu detto dinanzi fu figliuola di re Cinara del quale essa s’innamorò e avuto a fare con lui fraudolentemente per aiuto e consiglio della sua nutrice e fuggendo da poi l’ira del detto suo padre, per miserazione degl’iddii fu trasmutata in arbore del suo nome. Onde dice Ovidio:
- Flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae.
- Est honor e lacrimis, stillataque robore murra
- Nomen erile tenet nullique tacebitur aevo.
- [Met., X, 500-502.]
- [ Cenace ]. Come fu detto dinanzi fu figliuola di Eolo re delli venti e innamorossi d’uno suo fratello carnale ch’ebbe nome Macareo col quale avendo a fare ingravidò e partorí: la qual cosa sentendo il detto suo padre, la mise in prigione, ed essa s’uccise se medesima.
- [Piramo]: fu uno giovane bellissimo della cittá di Babillonia; innamorossi d’una sua vicina giovinetta e assai bella che si chiamava Tisbe con la quale si convenne per avere a fare con lei d’andare di notte fuori della cittá a certo luogo diterminato ove era una fontana. E lí aspettando l’uno l’altro, Tisbe giunse prima alla detta fontana, e aspettando Piramo, venne uno leone per bevere alla detta fontana: onde essa per paura fuggí e lasciovvi uno pannicello che portava in capo, il quale il detto leone trovando, tutto stracciò e insanguinò. Da poi venendo Piramo trovò il detto pannicello cosí sanguinoso, credette che Tisbe fosse stata divorata dalla detta fiera; onde esso per disperazione con la sua spada s’uccise. Alla qual cosa Tisbe correndo, e trovandolo quasi morto, con la detta sua spada per disperazione se medesima uccise. Per li quali morti uno celso ch’era ivi ch’avea li pomi bianchi diventaro neri. Onde dice Ovidio:
- At tu quae ramis arbor miserabile corpus
- Nunc tegis unius, inox es tectura duorum
- Sigila tene caedis pullosque et luctibus aptos
- Semper habe fetus, gemini monimenta cruoris.
- [Met., IV, 158-161.]
- [Dido]. Come fu detto dinanzi, fu di Sidonia, ed essendo stato morto il suo marito Sicheo da Pignaleone suo fratello, perciò che volea il suo tesoro, essa se ne fuggí portandosene il detto tesoro e arrivò nelle parti d’Africa ove edificò la cittá di Cartagine; alla quale arrivando Enea dopo la distruzione di Troia, essa s’innamorò di lui, e partendosi lui pervenire in Italia ad edificare Roma, essa Dido per disperazione si uccise; benché la veritá della storia fu altramente, come pone Iustino.
- [Ero]. Come fu detto dinanzi fu dell’isola di Sesto e di lei s’innamorò Leandro di Abido alla quale volendo andare, andava per mare notando alla detta isola. Di che una notte s’affogò in mare e per fortuna fu apportato al lito del mare ove la detta Ero il solea aspettare; la quale trovandolo morto sopra di lui fece gran pianto. Onde della temeritá del grande amore di Leandro parla Virgilio in libro terzio Georgicon.
- [Fedra]. Come è stato detto, fu figliuola di Minos e moglie di Teseo duca d’Atene; innamorossi d’Ipolito suo figliastro, ma esso non volle consentire a sua vituperosa volontá, onde ella l’accusò a Teseo suo padre. Per la qual cosa fuggendo fu isquartato dalli suoi cavalli che tiravano il carro suo, come chiaro fu detto dinanzi.
- [Laudomia ]. Come fu detto dinanzi, fu moglie di Protesilao a cui essa volle molto bene come dimostra Ovidio nelle pistole; e fu il primo uomo che fosse morto all’oste di Troia, onde essa n’ebbe grandissima doglia.
- [Deifile e Argia]. Come pone Stazio nel Tebaidos furono sorelle e figliuole di re Adrasto d’Argo cittá in Grecia; alla quale arrivarono insieme una notte con grande fortuna di rio tempo Pollinico figliuolo di re Edippo partitosi dal suo fratello Etiocle a cui toccava il reggimento di Tebe per uno anno, e Tideo fuggitosi dal padre però ch’avea morto uno suo fratello isventuratamente. E faccendo insieme questi due grandissima battaglia per volere bene alloggiare, il detto re che dormia si risvegliò al romore e levatosi per cercare quel ch’era trovò questi due che faceano cruda battaglia, e domandandoli chi essi erano, ed essi dicendolo, li ricevè graziosamente: e guardando nelli scudi loro all’armi che portavano, che l’uno portava uno leone e l’altro uno porco per segnale, subito si ricordò del sogno ch’avea fatto poche notti dinanzi, che sognava che dovea dare per moglie le dette sue figliuole cioè Deifile e Argia ad uno leone e ad uno porco, e conoscendo esso la veritá del sogno per questo fu assai contento e diede a loro per moglie le dette sue figliuole. Li quali andando per racquistare Tebe con l’aiuto del detto re Adrasto, Tideo figlio di Eneo di Calidonia dopo molte prodezze fu morto, e il detto Etiocle s’ammazzò insieme col fratello Pollinice come fu detto dinanzi, sí che le dette Deifile e Argia rimasero triste di loro.
- [Evannes]. Questa fu moglie di re Capaneo l’uno delli sette re ch’andò ad oste alla detta cittá di Tebe, uomo ferissimo in fatto d’arme e spregiatore degl’iddii; e uno di combattendo alle mura di Tebe biasimando Giove, [Giove] lo flagellò d’una folgore che subito morí; e da poi essendo rotta l’oste e scampando solo lo detto re Adrasto e tutti gli altri morti, Creonte prese la signoria di Tebe e per crudeltá comandò che niuno corpo morto fosse sepellito. La qual cosa udendo la detta Evannes radunatesi insieme Deifile e Argia e tutte l’altre donne greche per dare sepoltura al li loro mariti, e questo fecero con l’aiuto di Teseo duca d’Atene che uccise il detto Creonte e guastò la detta cittá di Tebe.
- [Deianira]. Come fu detto dinanzi, fu moglie di Ercule, e sentendo come esso era innamorato di Iole, volendolo ritrarre dal detto amore gli mandò una camicia tinta nel sangue di Nesso centauro il quale fu morto dal detto Ercule, e innanzi che morisse volendosi vendicare di Ercule, diede questa camicia a Deianira dicendole ch’avea questa virtú: che facea cacciare via ogni amore e ritornare al primo. La qual cosa credendo fare la detta Deianira, fe’ il contrario, perché essa camicia era avvelenata, e come Ercule la si mise addosso arsero le carni del detto Ercule: e però ove credette di far bene, fe’ molto male e rimasene molto trista. Della cui morte parla Ovidio:
- Nec mora, letiferam conatur scindere vestem,
- Qua trahitur, trahit ille cutem, foedumque relatu,
- Aut haeret membris frustra temptata revelli,
- Aut laceros artus et grandia detegit ossa.
- [Met., IX, 166-169.]
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- NOTA
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- Quando accettai da Luigi Russo l’incarico per questa edizione dell’Elegia di Madonna Fiammetta1, ero persuaso che un’attenta revisione del testo quale si leggeva nelle piú recenti edizioni, sui manoscritti fiorentini, sarebbe bastata per offrire un nuovo testo certamente ridotto a miglior lezione, ma senza sostanziali novitá. Ma le cose mi si cominciarono a complicare subito quando volli rendermi conto dei criteri con cui G. Gigli aveva fatta l’edizione per la «Bibliotheca Romanica» di Strasburgo. Il Gigli, dopo avere accennato all’edizione Giuntina del 1517 e alla ristampa del 1524, dice: «Il testo di questa veramente pregevole edizione fu poi comunemente seguito nella maggior parte delle posteriori ristampe, da una delle quali abbiamo noi tolto quello che presentiamo ai lettori della Bibliotheca Romanica e le cui varianti con la Giuntina del 1524 abbiamo registrate in nota». È strano che il Gigli non dia l’indicazione precisa dell’edizione di cui egli si serví, ma piú strano ancora è che siano date in nota le varianti di quella edizione dalla quale si afferma che siano derivate la maggior parte delle posteriori ristampe, e fra queste, è da credere, quella scelta dal Gigli. Ma le varianti date in nota dimostrano in modo lampante che le differenze fra il testo della Giuntina del 1524 e quello ristampato dal Gigli, non sono né poche né soltanto formali, e che in molti passi si tratta di periodi completamente diversi. Quale dei due testi è da ritenere originale?
- Prima di ricorrere all’edizione del Moutier, yolli vedere il testo pubblicato da P. Fanfani nel 1859 per la collezione «Diamante» del Barbèra. Merita sentire il nuovo editore: «Questa opera, la quale fra quelle di Boccaccio non è certamente l’ultime di pregio, è per altro la piú tartassata dagli editori; ché tutti hanno avuto mania di correggere e correggere: né sempre sulla fede di codici, come asseriscono, ma spesso, e troppo spesso, a fantasia e contro l’uso buono degli antichi scrittori. Il piú scapigliato per altro fra tutti gli editori non dubito punto di affermare che fosse il Moutier, il quale trascurate le buone edizioni antiche, ed avuto poco rispetto a que’ codici de’ quali tanto e con tanto pro asserisce di essersi servito, ha per forma rabberciata a casaccio il testo in moltissimi luoghi, che il fatto suo è una maraviglia ed una pietá: e maraviglia maggiore e maggior pietá è il vedere che la edizione da esso rimpasticciata si è pur citata nella Tavola del Vocabolario della Crusca». Aggiunge il Fanfani che per il suo testo egli si era servito dell’edizione Giuntina del 1533, di quella Fiorentina del 1826, e che aveva consultata l’edizione del 1472, e, per i luoghi che l’avevano richiesto, i migliori manoscritti fiorentini. Non mi parve possibile che il Moutier, che conoscevo con diretta esperienza per un onesto editore delle opere del Boccaccio, meritasse tutto il male che il Fanfani ne diceva, e notai intanto che il testo dato dal Gigli coincideva con questo dato dal Fanfani. A che cosa gli era servito dunque il controllo con l’edizione Giuntina del 1533, ristampa di quella del 1524?
- Un po’ di luce mi venne dall’edizione Moutier pubblicata nel 1829, nella cui prefazione si legge che Filippo Giunti, riproducendo nel 1594 l’edizione Giuntina del 1517, vi apportò molti emendamenti arbitrar! di cui non c’era testimonianza nei manoscritti, e che le edizioni posteriori al 1594 non erano che ristampe dell’edizione di Filippo Giunti. Per provare le sue affermazioni il Moutier cita in una lunga nota una serie di quegli emendamenti arbitrari, e segnala un passo intero del capitolo terzo che stampa in corsivo e che sospetta apocrifo, «e probabilmente un’aggiunta dell’editore del 1594». L’elenco degli emendamenti ritenuti arbitrar! offerto dal Moutier, mi diede l’occasione di controllare che alcuni di essi si trovavano ancora nell’edizione del Fanfani e in quella del Gigli.
- Còmpito non lieve per un editore che non volesse lasciare le cose al punto di prima: controllare se le innovazioni indicate dal Moutier apparvero per la prima volta nella stampa del 1594; controllare il maggior numero possibile di manoscritti per rintracciarne le eventuali tracce.
- È quello che ho fatto, ottenendo risultati che posso affermare sicuri: la maggior parte delle innovazioni della stampa del 1594 erano giá nell’edizione di messer Tizzone Gaetano di Pofi pubblicata a Venezia nel 1524 e da allora riprodotta nella maggior parte delle edizioni del sec. XVI; tutte le edizioni anteriori al 1524 e tutti i manoscritti esaminati confermano che quelle innovazioni si debbono all’intervento arbitrario di messer Tizzone, e che quindi vanno escluse dal testo genuino, compreso quel passo del capitolo terzo segnalato dal Moutier; le edizioni moderne dell’Elegia, posteriori a quella del Moutier (oltre a quelle giá citate del Fanfani e del Gigli, l’edizione Sonzogno, 1883, e quella Salani, 1934), conservano nel testo buona parte degli interventi arbitrari di messer Tizzone.
- Per il mio lavoro ho avuto bisogno di consultare edizioni e manoscritti che si trovano fuori di Firenze. Sono lieto di poter qui manifestare la mia gratitudine per la liberalitá e la sollecitudine con cui mi sono stati inviati manoscritti o edizioni rare dalle Biblioteche: Universitaria di Bologna, Nazionale di Milano, Estense di Modena, Nazionale di Napoli, Universitaria di Padova, Nazionale di Palermo, Nazionale di Parma, Nazionale di Roma, Nazionale di Venezia. Un ringraziamento particolare debbo al Bibliotecario Direttore della R. Biblioteca Marucelliana di Firenze, E. Jahier, che mi ha spontaneamente offerto il suo prezioso aiuto per la ricerca di stampe e manoscritti nelle Biblioteche fuori di Firenze e per la richiesta del prestito, dandomi modo di consultare tutto nella Biblioteca da lui diretta.
- Durante l’esplorazione dei manoscritti dell’Elegia, la fortuna mi è stata favorevole nel mettermene subito sotto gli occhi uno contenente delle chiose marginali, che un attento esame e il confronto con chiose analoghe che si trovano nell’autografo del Teseida, mi rivelarono per sostanzialmente autentiche del Boccaccio. Interessante in queste chiose il criterio nuovo con cui furono stese, rispetto a quelle del Teseida: il Boccaccio cita la sua fonte trascrivendo versi di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Seneca, etc. Testimonianza dell’amorosa cura e predilezione per questa sua opera.
- EDIZIONI
- L’Elegia fu stampata per la prima volta a Padova nel 1472. Un esemplare di questa edizione si trova presso la R. Biblioteca di Parma, segnato col n. 647. Prima del testo del Prologo si legge: «Iohannis Bochacii Viri eloquentissimi ad Flamettam Panphili amatricem libellus materno sermone aeditus: Incipit Prologus artificiosus». In volgare è invece il sommario del primo capitolo: «C. primo in nel quale Fiametta si duole del suo nascimento et chome poi che è nata è stata felice insino che non cognobbe Cupido et come sarebbe stata felice se l’amore fussi stato secundo». Segue il testo del primo capitolo con le suddivisioni in paragrafi come generalmente si trovano nei manoscritti, con un po’ di spazio fra l’uno e l’altro. È probabile che l’autografo del Boccaccio contenesse delle brevi rubriche ad ogni paragrafo, ma la tradizione manoscritta che conosciamo non ce l’ha conservate integre (quelle che si trovano nel codice Riccardiano 1065 e nel Magliab. II, II 22 sono incomplete, e il testo di quelle che ci sono lascia dei dubbi sulla sua genuinitá). In questa edizione, per i primi quindici paragrafi, ci sono delle brevissime indicazioni in latino sul contenuto di ognuno di essi. Per ordine: «Fata iniqua malum portendentia; Somnium infortunatum; Signa futuri mali; Laudes ipsius connumerat; Primum Panphili amorem exponit; Fatetur se ipsius Panphili amore captam; Hic primi amoris infelicitatem diei exponit; Alloquitur mulieres admirative quod tam cito in ignotum arderet; Hic amorem suum celare cogitat; Hic sui corporis cultura et forme superbiam declarat; Hic insolita verba et furiosa loquitur; Hic nutricem suam alloquitur ut sibi consulat; Nutricis ad Flamettam saluberrimum consilium; Aliud consilium multis exemplis coroboratum et responsio falsa». Per tutto il resto dell’opera mancano i sommarii non solo ai paragrafi ma anche ai capitoli; la divisione sussiste tuttavia per lo spazio in bianco.
- Alla fine del testo: «M.CCCC.LXXII. Die. XXI. March. Finis Fuit Fiamete.
- Bar. Val. Patavus F. F.
- Martinus de septem arboribus Pritenus.»
- È molto probabile che la fonte manoscritta di questa edizione fosse giá alquanto alterata formalmente da caratteristiche tali venete, ma l’editore deve averle accresciute e deve aver commesso di suo moltissimi errori di lettura. Per le rubriche latine si rimane nell’incertezza se esistessero tali e quali nella fonte manoscritta, o fossero in volgare e tradotte dall’editore. Meno probabile, ma non da escludere del tutto, mi pare una terza ipotesi, che cioè siano opera originale dell’editore.
- Una ristampa di questa edizione, che a me non è riuscito rintracciare, sembra debba essere quella che porta la data del 20 settembre 1480 senza indicazione del luogo. Il prologo, infatti, è preceduto dalla seguente rubrica: «Ioannis Boccacii ad Flametam Pamphili amatricem libellus materno sermone editus», che è nell’edizione del 14722.
- Delle altre tre edizioni conosciute del sec. XV, due furono stampate a Venezia, rispettivamente, nel 1481 e nel 1491, la terza non porta né la data né il luogo3. Il testo dell’Elegía si presenta con le medesime caratteristiche in tutte e tre le edizioni, e, in particolare, quella del 1491 è una ristampa dell’edizione del 1481. In questa l’opera è divisa in nove capitoli per ognuno dei quali c’è un breve sommario quale si trova in quasi tutti i manoscritti. Ogni capitolo è a sua volta diviso in paragrafi che si distinguono dallo spazio lasciato vuoto per la lettera iniziale. Prima del prologo si legge: «Incomincia il libro di madonna Fiammetta da lei alle innamorate mandato». Al testo dell’Elegia segue una epistola di Hieronymo squarzafico Alexandrino alle donne innamorate: «mi pare giusto et convenevole...», scritta a Venezia ex Aedibus solite habitationis die. 19 Iunii 1481. Alla fine della lettera: «Finisse il libro di madonna fiameta a l’amorose donne mandato composto per misser boccazo poeta illustre et impresso in ne l’alma citade di Vinesia per magistro Philippo de piero negli anni del signore MCCCCLXXXI. Iohanne mozenicho felicissimo ducha imperante». Lo Squarciafico vuole illustrare con la sua epistola alle donne innamorate il «sugetto» del libro e la cagione «la quale mosse il... ligiadro poeta Iovanne boccazo» a scriverlo, ma gli piace prima accennare ad «una assai degna fitione poetica». Ed eccolo alle citazioni erudite di Nicandro «anticho poeta greco», di «Apuleio madaurense» e di «Ausonio gallo», il quale scrisse la favola di Cupido che era andato all’Èrebo, e, veduto «da le herodiade matrone», alle quali egli in questa vita «havea facto de molti gravissimi affanni suffrire», fu da esse preso e posto in croce sopra un mirto. Di tanta efficacia sono «gli amorosi advenimenti che sustengono gli innamorati pecti, che doppo questa vita cierchano anchora di quelle fiamme amorose vindicarsi». E questo ancora dimostra Virgilio nell’atteggiamento di Didone verso Enea nell’inferno. Dai pensieri amorosi procedono «tanti cocenti martiri, tante suspitione d’animo, tante mutatione di mente che meritamente quello di Plauto nella Cistellaria possiamo dire: «Io son tutto d’amore squassato, e me cruccio e sono agittato e non so dove. E son senza anima tirato e non tirato, e cosí nulla di fermo ho in l’animo mio. Sonno in un loco dove non sono e lá e l’animo mio. Sí che l’animo amoroso è come il refluxo de l’eurippo mare che mai non sta forte». Il Boccaccio scrisse quest’opera «per amore de madonna Maria figliola naturale de l’inclito re Roberto di Neapoli signore, la quale essendo in Franza maridata in uno nipote del re, per certe differenze come negli signori sogliono accadere, non fu troppo del marito contenta, ma d’uno siculo innamorata lungamente da lui abandonata si dolse; o vero d’alcuna altra de piú bassa conditione, o vero che tal cosa senza nessuno pensare egli l’abbia fatto, ch’io nol credo; pur la prima opinione mi pare essere vera. Scripsi ancora il Philostrato per costei quando il padre di madonna Maria non volse che l’andasse in Franza dal suo marito... Questo è che nel dicto libro finge Chriseida havere Troylo abandonato e essere possia de Diomede innamorata». Per il Filocolo lo Squarciafico rimanda a quanto egli aveva scritto sulla vita del Boccaccio per l’edizione di quell’opera nel 1467. In fine, l’elogio del Boccaccio come prosatore in volgare: «Quanto sia polito, terso e eloquente il nostro Boccacio, in questo suo idioma volgare ciaschuno huomo d’ingegno il può e debbe per il piú excellente che alcuno altro iudicare, dico in soluta orazione. E tutti li suoi libri quali in questa vernacula lingua egli ha scripto testimonianza verissima ni mostrano. E questo tu Phedrone che in questo e in ogni altra cosa ti reputi havere iudicio, questo per il dovere, e non ti muova l’origine di Firenze dove tu sei e de la quale il poeta di cui scriviamo fu citadino; ma la veritá ti muova a questo diffendere: perché molte fiade vi vedo a la bibliotecha del nostro Antimaco brixiense di molte cose degne di memoria disceptare. Sí che se mai di questo nulla intervenisse, tu con Antimaco principe di l’achademia vi priego che la veritate voliati diffensare. E voi, amorose donne con Dio e felice ne li vostri amori stative in pace».
- L’edizione del 1491 porta nel frontespizio il titolo di Fiammetta. Prima del prologo: «Commenda il libro ditato a Fiammetta da essa alla innamorata mandato explecto per lo illustre poeta et oratore gravissimo Giovani Boccacio». Alla fine dell’opera segue l’epistola dello Squarciafico senza l’indicazione del luogo né della data, e quindi: «Finisse il libro di madonna fiammeta a l’amorose donne mandato composto per miser Iohanne boccazo poeta illustre et impresso in Venesia per Maximo de Papia negli anni del signore MccccLxxxxi Adi xxiii Septembre». Come si è giá detto, è una materiale ristampa dell’edizione del 1481.
- L’edizione che non porta indicazione di luogo né di data, ha prima del prologo la medesima rubrica che si trova in quella del 1481 («Incomincia il libro di madonna frammetta da lei alle innamorate mandato»). Alla fine del testo dell’opera, dopo le parole «finis Deo Gratias Amen» che si trovano anche nell’edizione del 1481, non c’è altro. Il testo dell’Elegia si legge con le medesime caratteristiche nelle due edizioni, ma qua e lá qualche piccolo errore dell’una non si trova nell’altra, e viceversa. Quella senza data nel complesso è piú corretta. Vagliando ad una ad una tutte le differenze del testo, sará forse possibile stabilire quale delle due edizioni è piú antica (a me pare che l’edizione senza data derivi da quella del 1481), ma al caso nostro basta avere stabilito che rappresentano una fonte unica.
- Nei primi anni del sec. XVI l’edizione con l’epistola dello Squarciafico fu ristampata due volte: nel 1503 e nel 1511. La prima ha per titolo: Fiammetta | Opera gentile et elegante nominata | Fiammetta che fiamma d’amore | a l‘amorose donne mandato | composto per lo illu | stre poeta et orato | re Iohanne | Boccacio. Prima del prologo si trova la medesima rubrica che è nell’edizione del 1491. In fine, dopo l’epistola dello Squarciafico: «Finisse il Libro di madonna Fiammeta a l’amorose donne mandato composto per Miser Iohanne Boccazo poeta illustre et Impresso in Venesia negli anni del signore MDIII Adi xxvmiii Luio»4. È evidente che il nuovo editore ha tenuto presente l’edizione del 1491.
- Nel 1511 fu ristampata l’edizione del 1503 col medesimo titolo e sottotitolo (dal sottotitolo furono eliminate le parole «che fiamma d’amore» che non davano senso; e infatti nel testo della lettera dello Squarciafico dalla quale provengono, seguiva ad esse la parola «significa»), ma con l’aggiunta «cum grande diligentia novamente emendata». In fine, dopo l’epistola dello Squarciafico: «Finisse il Libro di madonna fiametta a l’amorose donne mandato composto per Misser Ioanne Boccazo illustre poeta et Impresso in Venetia negli anni del signore MDXI Adi xxiii Decembrio»5.
- L’edizione Giuntina del 15176 porta il titolo: Fiammetta del Boccaccio. Precede l’opera una breve lettera di dedica di Bernardo di Giunta a Cosimo Rucellai, della quale ecco il passo che può avere qualche interesse: «Voi leggendo il presente trattato troverrete una donna ne’ lacci d’Amore involta, e in essi miserissima quanto alcuna altra non ne fu giamai. Li cui sospiri, le cui lagrime, le cui dolenti rammaricationi, e a voi, e a qualunque, altro che quinci leggiera per aventura potranno essere utilissimo exemplo di non mettersi incautamente negli amorosi pericoli. Appresso quanto la lingua nostra habbi, e frutti e fiori, apertissimamente vederete. Il che anchora a ciascuno, che come voi di quella si diletta (benché pochi ne sieno) di non piccola consolatone gli fia cagione. Noi ci siamo ingiegnati quanto sono bastate le forze nostre di ridurla nella primiera perfettione, e massimamente poi che io feci pensiero di mandarla fuori sotto a il nome vostro. Alla qual cosa fare, n’è bisognato usare non poca diligenza per essere ella stata pel passato da molti stampatori externi lacerata e guasta, e in oltre qui scritta da huomini poco pratichi e trascurati, e in lettera piuttosto per far memoria de’ baratti su pe’ libri de’ mercatanti buona, che per iscrivere poesia, dove di qualche parte d’ingegno s’habbia a dare inditio. Pure l’habbiamo racconcia in maniera che voi paragonandola con qualunque altro bollissimo testo commenderete la opera nostra e terrete questo picciolo dono charo appresso di voi. Il che faccendo io che altro non cerco mi terrò d’ogni mia fatica oltre appagato».
- Prima del prologo: «Incomincia il libro chia | mato elegia di madon | na Fiammetta da lei | alle innamora | te donne mandato.
- L’opera è divisa in nove capitoli ognuno dei quali è preceduto dal solito sommario. I capoversi corrispondono alle suddivisioni dei capitoli in paragrafi come nei manoscritti.
- Alla fine dell’opera si legge: «Qui finisce la Elegia di Madonna Fiammetta composta per Messer Giovanni Bocchacci Fiorentino». Segue un elenco degli errori di stampa con le rispettive correzioni, e il richiamo al lettore perché «dovunque nella distintone dell’opera si trova stampato libro, legga capitolo», e quindi l’indicazione del luogo e della data: «Stampato in Firenze per Philippo di Giunta l’anno del Signore M.D.XVII, del mese d’aprile, Leone decimo Pontifice».
- Per stabilire il testo pubblicato nella sua edizione, il Giunti tenne poco conto delle edizioni precedenti, e ricorse direttamente alle fonti manoscritte servendosene, in genere, con acume e con discernimento sia per la parte formale, sia per il contenuto. Ma, come vedremo, l’edizione avrá poca fortuna. Fu ristampata infatti, insieme con la lettera del Giunti al Rucellai, un anno dopo a Venezia «per Cesare Arrivabene Venetiano» in una edizione col frontespizio: Fiammetta del facon | dissimo orator et poeta Giovanni Boccaccio. Do | po la ultima e piú fedel firentina impressione no | vamente revista. Correti prima gli errori | scorsi per incuria del impressor a suoi | lochi segnati: et redutta etiam a | piú leggibili charattere et \ commoda forma: come \ facilmente si vede7. Dagli stessi Giunti fu ristampata nel 1524 e nel 15338; e fu tenuta presente per l’edizione veneziana di Nicolò Zoppino, nel 1525 (Fiammetta Amoro | sa del M. Giovanni | Boccaccio Ri | corretta | di nuovo)9. Le correzioni sono limitate alle innovazioni ortografiche di cui lo Zoppino si vanta in una epistola al lettore, che precede l’opera. Ma ecco nel 1524 l’edizione che dominerá incontrastata per tutto il sec. XVI e per i secoli successivi: La Fiammetta del Boc' | caccio. Per Messer | Tizzone. Gaeta| no di Pofi. No | vamente | Revista. L’opera è preceduta da una lettera di dedica di messer Tizzone «a la illustrissima et excellentissima Signora Dorothea di Gonzaga Marchesana di Bitonto», che è importante trascrivere:
- «Essendomi io per fede gran tempo fa senza altra consideratione obbligato a voi illustrissima et excellentissima Signora Dorothea nel vero fermo sostegno d’ogni valore, di corregger la Fiammetta (peso oltre al devere agli homeri miei gravissimo) et non volendo venir meno a voi sola, né a la fede, la quale in me tal luogo possiede che non mai da gli infiniti valori de la nemica fortuna offesa ricevette, né da que’ de l’inevitabil morte ricever la potrebbe, molti giorni sono che conchiusi (che che avenir ne devesse) a gran rischio, et in mano di tutto l’altro mondo, metter l’honor mio sodisfacendo a voi et quella osservando. Veramente di quanto male sono io per soffrirne, doler non mi potrò d’altri che di voi, che cosa a me non convenevole commandaste, e di me, che udita la cosa diffidi molto piú che troppo al commandamento di presente consenti. Ma che deveva io rispondere altro che volentieri, havendolomi commandato chi interamente allhora commandar mi poteva sí come al presente può? Donde altro far non potendo, né volendo, l’opra in lungo tempo, in quel modo che saputo ho migliore, da me posta in effetto, et in fino a qui con tema non picciola rattenuta, hora, senza altrimenti pensarvi, ho fermato al destinato luogho suo liberamente consegnare. Et ove io non possa (essendo per lunghissima distanza mal mio grado col corpo diviso) con la lingua far l’opra, et il venire, dal non potere interdetto veggendomi, e mandandola, sí come ad una vostra pari far conviensi, con l’animo da la vostra servitú non mai lontano reverentemente dico. A due bellissime mani, e divine anzi che no, da un fidelissimo servo, questa leggiadrissima et amorosissima opra si presenta. E di cotal presente altro ristoro non cheggio, che degniate imprima per iscusa mia almeno dir publicamente queste poche parole: Io come quella che commandar li poteva, quel che ha fatto gli ordinai. E poi col vostro ingegno da la natura diligentemente polito e condotto con la sua piú fina lima in quella acutezza che si possa maggiore, scaltritamente sopplire in quello, in che col mio rozzo mancai. Ma che meraviglia è s’io mancai, risarcendo io tutto solo quella Fiammetta, la quale da molti scrittori e stampatori stracciandosi quanto si possa piú, sí sparuta era, che non piú per bellissima, anzi homai (di lei ognun gabbandosi) per bruttissima si giudicava? Hora s’amendue queste dimande da voi veramente dono di Dio per gratia de’ mortali al mondo conceduto, impetrerò, primieramente piú grado sarò a voi che a tutto l’altro mondo, et appresso, i morsi di qualunque maldicente da molto poco stimerò. Ma se per disgratia mia, forse per aggiunger questa a tante altre che mi soprastanno, o forse per non voler voi tanta fatica torre, l’addimandate gratie si negasseno, io, per margine del libro, tanto di spazio lascio, che in quello gli huomini experti, lontani da la animositá, de la lingua amadori, et inchinati al bene amare l’excellentissimo autor de l’opra (non prendendone io punto disdegno) potranno e col tempo, cosí al pristino luogo suo riducerla, come io al potere essere agevolmente bene intesa, l’ho ridotta. Donde s’ad alcun gentile et innamorato spirito cadesse ne l’animo di veder l’industriosa arte, con la molta dottrina del radissimo messer Giovanni Boccaccio, la forza infinita d’Amore, i modi bellissimi et dolcissimi di parlare, la vera osservanza de l’utilissima nostra commune lingua, gli argutissimi andamenti in un perfetto amare adoperati, gli affetti amorosi, et non infiniti da una donna adoperati, uno infelicissimo fine d’amore nato da felicissimo principio fra duo amanti accaduto, un continovo dolere et con pianto amarissimo, et con lamento assai degno di compassione, et in brieve quanta forza ha sopra i mortali la non pieghevole fortuna, legga e bene et attentamente legga questa rinata Fiammetta, rinata dico, perciò che morta era da tanti infino a qui laceramenti sofferti. Questa veramente, senza animositá leggendosi, a gli huomini et a le donne di ciascuna etá e d’ogni qualitá porgerá sommissimi soccorsi: de’ quali hora essere io vorrei, a ciò che soccorrendomi ella imprima appo voi gratia a me convenevole haver mi facesse, e poi l’animo d’alcun disponesse sí che per lettera s’adoperasse a guisa che io sapessi, al ricevere di cotal presente, il sembiante che farete, grato o sdegnoso, e le parole che userete, dolci o pur d’amaritudine colme; a ciò che io co’ vostri diletti, se ne riceverete, possa allegrarmi, e co’ vostri dispiaceri, se ne havrete, attristandomi, possa in qualche parte rimediar nel futuro. Il quale (sallo Dio) che per voi, per tutte le persone ad Amor soggette, per tutti que’ che per la loro bontá la mia fatica non biasimeranno, e per me vorrei che lungo fosse e con letizia compiuta, senza piú.»
- Un primo accomodamento di carattere esteriore fu apportato alla distribuzione dei capitoli che nei manoscritti e nelle edizioni precedenti sono nove con relativi sommari. Messer Tizzone elimina i sommari e riduce i nove capitoli a sette libri. Il perché è facile supporlo: i capitoli quali li trovava nelle edizioni precedenti non avevano nessuna proporzione fra di loro perché ce n’erano due (il IV e il IX) che comprendevano poche pagine, e uno (il V) che aveva una estensione di circa metá dell’opera intera. Messer Tizzone volle rimediare a tali evidenti sproporzioni, e, lasciando intatti i primi due capitoli, fuse insieme il III e il IV, fece diventare IV, V e VI libro, rispettivamente i capitoli V, VI e VII, e per il VII e ultimo aggregò il capitolo IX all’ VIII. Occorre rilevare che questa distribuzione è del tutto arbitraria? Chi non sa che era nella consuetudine del Boccaccio distribuire le sue opere in capitoli o libri molto lunghi accomunati con altri brevi o brevissimi?
- Alla fine del testo dell’Elegia c’è l’errata-corrige che comprende poco piú di cinque pagine, e in fine c’è l’indicazione: «Impressa in Vinegia per Bernardino di Vitale, e compiuta a duo di settembre de l’anno MDXXIIII».
- Con quali criteri messer Tizzone eseguisse la promessa di corregger la Fiammetta, è presto detto: tenendo presenti un paio di edizioni di cui una a me par certo che dovesse essere la Giuntina del 1517 o una ristampa, il nuovo editore corregge come gli pare e qualche volta si lascia sedurre a inserire qualche piccolo pezzo interamente suo. Trascrivo qui il principio del Prologo mettendo in corsivo le parole che hanno risentito dell’intervento dell’editore: «Suole a’ miseri crescer di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono in alcuno compassione. Adunque acciò che in me volonterosa piú che altra di dolermi [omesso: di ciò] per lunga usanza non si menomi la cagione ma s’aumenti, mi piace o nobili donne, ne’ cuori de le quali Amore piú che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei tentare di farvi, s’io posso, pietose. Né mi curo che ’l mio parlare agli uomini [omesso: non] pervenga».
- Correzioni di tal genere abbondano per tutto il testo, e bisogna riconoscere che spesso sono fatte in modo che apparentemente il senso riesce piú chiaro. Per esempio, a pag. 68 della nostra edizione, il passo «Certo non io: anzi cosí come fedelmente parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva», nel quale concordano i manoscritti e le edizioni anteriori a quella di messer Tizzone, fu da costui corretto in questa forma: «Certo non io: anzi cosí come fedelmente pareva che parlassi e che piangessi, cosí con fede...». Messer Tizzone non rimase persuaso di quel parlava che secondo lui doveva essere riferito a Panfilo, e rimaneggiò secondo la sua interpretazione.
- Altre volte gli capita di rimaneggiare piú infelicemente. Per esempio, a pag. 52 della nostra edizione, il passo «... tanto era piú il mio disio ardente che tosto le quattro volte si consumassero, che veloce il corso suo», parve oscuro al nuovo editore, e fu cosí modificato: «...tanto era il mio disio piú ardente, quanto piú tosto le quattro volte del suo veloce corso voluto avrei che consumate fossero». E potremmo ancora continuare con esempi simili, ma ci preme di piú fermarci alle interpolazioni vere e proprie, che sono due: una è di poche parole, ma cosí ben trovata che può lasciare perplessi. A pag. 81 della nostra edizione si legge: «...per che indietro trattami, sopra gli stesi tappeti con alcune altre mi ponea a sedere»; nell’edizione di messer Tizzone: «... per che indietro trattami sopra i distesi tappeti, e tra me dicendo: — Ove sei, o Panfilo? — con alcune...». L’interpolazione, e non c’è dubbio che sia tale, è intonata al contesto: basta leggere nella pagina precedente: «...cosi mi ricorreva alla bocca: — O Panfilo, ora fossi tu qui a vedere, come giá fosti! — ...». Ma messer Tizzone s’era provato a ben altro nel capitolo terzo, pag. 47 della nostra edizione. Al passo «... lascio questo andare, intrando in altri», messer Tizzone aggiunge: «varii e nuovi pensieri. Io dolorosa stava sola, e pur di lui del tutto pensosa dimorava, e or qua e or lá per la camera mi voltava, e alcuna fiata fra me stessa diceva, dandomi con la mano sotto ’l capo appoggiata al mio letto: — Ora giugnesse qui il mio Panfilo! — E cosí stando, in questi e in altri pensieri entrava». Non c’è che dire: l’episodietto è inventato bene, ma la saldatura lascia un po’ a desiderare perché a distanza di poche righe c’è una ripetizione inutile. La concorde lezione dei manoscritti e delle stampe precedenti non ammette discussione. E si badi che messer Tizzone nella lettera di dedica non accenna a manoscritti, e che la collazione da me fatta fra il testo della sua edizione e quello delle edizioni precedenti, non mi ha offerto nessun elemento positivo per dedurre che l’editore ne avesse presente qualcuno10.
- Quale fosse la pretesa di messer Tizzone nell’accingersi a mescolare un po’ del suo nell’opera degli altri quando ciò non fosse giustificato né dall’oscuritá del passo né dal desiderio di sostituire forme piú moderne, non si può dire: vanitá, o scopo preciso di imporre la sua edizione che cosí riparava a ipotetiche lacune delle precedenti? È certo che il sistema fu messo in pratica anche per l’edizione del Teseida (1528), con l’aggiunta di una intera ottava fra la 17a e la 18a del libro IV11; e anche in questo caso l’interpolazione è fatta con giudizio. Fra le ristampe di questa edizione (Venezia, Vitali, 1525; Venezia, De Gregori, 1525; Venezia, Vitali, 1534; Venezia, Padovano, 1540), ce n’è una senza indicazione del luogo né della data12. Lo Zambrini la mette fra le edizioni del ’400, ma è da escludere senz’altro tale ipotesi, perché l’edizione di messer Tizzone presuppone la Giuntina del 151713; quindi potrá esser questione se sia anteriore o posteriore all’edizione del 1524, ma poiché il testo è identico nell’una e nell’altra, per noi la cosa non ha alcun interesse14.
- Nel 1542 l’edizione di messer Tizzone fu ristampata da Gabriel Giolito de Ferrari, col titolo: L’Amorosa | Fiammetta di | M. Giovanni Boccaccio | nuovamente per M. Lodo | vico Dolce da ogni er | rore emendata | et dal medesimo ag | giuntovi una nuova tavo | la delle cose degne | di memoria.
- La lettera dedicatoria di messer Tizzone fu sostituita con una di Gabriel Giolito «alle gentili et valorose donne della cittá di Casale di Monferrato». La tavola del Dolce premessa al testo dell’opera, è come un indice-sommario col richiamo delle pagine. Per il resto il Giolito si attiene fedelmente all’edizione di messer Tizzone.
- Non occorre tener dietro alle numerose ristampe dell’edizione del Giolito per tutto il ’50015, fino alla nuova edizione Giuntina del 1594, nel cui frontespizio si legge: La | Fiammetta | di M. Giovanni | Boccacci | di nuovo ristampata | e riveduta con ogni diligenza | con testi a penna con pos | tille in margine | e con la tavola nel | fine delle cose piú notábili. In Firenze | per Filippo Giunti | M.D.XCIIII.
- Ecco che cosa dice di questa nuova edizione Filippo Giunti nella lettera a Iacopo di Francesco Nerli nobilissimo fiorentino, Reggente dell’Accademia de’ Desiosi:
- «Tre son le ragioni, s’io non m’inganno, per le quali io mi credo far cosa grata alla memoria di questo splendientissimo lume di nostra Patria, ancorché, per se medesimo, egli abbia con l’egregie sue opere, lasciataci in guisa chiara la luce sua, che poco gli dee calere, che altri piú cerchi chiarificarla. Non per tanto non è che ’l tempo non si sia ingegnato, con la sua costumata voracitá, non dirò di trangugiar né di spegnere (essendo stata da’ bianchi cigni condotta salva al tempio la medaglia del nome suo), ma con alcun neo bruttar la sua candidezza, e con qualche maglia, come si dice, offuscargli alquanto di questa sua chiarissima luce. I nei e le maglie, che nella bianchezza e nella chiarezza delle sue opere si ritruovano, per via delle stampe e forse prima, per l’ignoranza de’ copiatori, in esse ha potuto inducerle il tempo, ma non ve l’ha giá potuto poi mantenere. Ed io ora mi credo d’esser stato assai buon contrastator di sua pessima volontá, rendendole al Mondo, suo malgrado, purgate da ogni macchia, e chiare, e lucenti come fur mai, avendo in questa operato, senza riguardo di spesa né d’altra cosa, e nell’altre opere altresí, operando pur tuttavia che con testi a penna, e da persone intendenti, sieno riscontre, e ridotte alla lor prima e vera lettura: e questa delle tre ragioni è la prima. La seconda è questa altra, senza contrasto, che mandando fuori novellamente questa sua opera da lui intitolata Fiammetta, nella quale, sotto nome di Panfilo, egli descrive un amor di sua gioventú, e amor veramente da gloriarsene, io la mandi fuora segnata in fronte dal nome d’uno de’ rami del materno suo albero, qual siete voi, estratto del chiaro sangue dell’antica stirpe de’ Nerli, e giovane, e forse non men che si foss’egli in quel tempo, ora acconcio ad amare. La terza sí è il contrassegnarla di nome studioso di questa lingua come ce ne fa ampia fede la vostra Desiosa Accademia che, sotto ’l vostro reggimento, dando opera conti nova a tali studi, con progressi degni di tutta quella nobilissima gioventú, si viene avanzando. Ricevete adunque si fatto dono, cosí volentier com’io il vi presento, e dietro alle vestigie d’un cotanto chiaro parente, sforzatevi, si come egli, di poggiare a famosa gloria, che N. S. vi doni intera felicitá.»
- La mancata esplorazione delle edizioni precedenti a questa del 1594 ha fatto si che si ripetesse dal Moutier in poi l’affermazione che in essa per la prima volta era apparsa la divisione dell’opera in sette libri, e che il testo aveva subito delle forti modificazioni rispetto alla lezione dei manoscritti. Ma la divisione in sette libri risale all’edizione di messer Tizzone, e la novitá apportata da Filippo Giunti consiste soltanto nei sommari premessi ai vari libri quali si trovavano giá nell’edizione Giuntina del 1517 e in quelle anteriori a quest’ultima. Quanto al testo, si segue prevalentemente l’edizione di messer Tizzone, ma qua e lá anche la Giuntina del 1517. Dico la Giuntina, ma se si vuol dar credito a quanto dichiara Filippo Giunti nella epistola a Iacopo de’ Nerli, si può anche pensare a qualche manoscritto. Ciò che bisogna escludere è che la dichiarazione di Filippo Giunti possa far credere che la concordanza quasi completa col testo dell’edizione di messer Tizzone, debba attribuirsi a testimonianze di manoscritti. La tavola delle cose piú notabili è quella del Dolce apparsa giá nell’edizione Giolito del 1542 e poi sempre riprodotta nelle edizioni successive, ed anche le postille in margine derivano da una delle tante ristampe dello stesso Giolito. E si può aggiungere inoltre che il tentativo di accomodare il testo della Giuntina del 1517 con quello dell’edizione di messer Tizzone, era giá stato fatto nell’edizione veneziana del 1527.
- Le edizioni posteriori a questa del 1594 16 sono una riproduzione di essa fino all’edizione Moutier (1829), tranne una, che ripete per conto proprio il terzo tentativo di accomodare il testo della Giuntina del 1517 con quello dell’edizione di messer Tizzone. Si tratta dell’edizione fiorentina, tanto esaltata dal Fanfani, del 1826: La | Fiammetta | di messer | Giovanni Boccaccio | In firenze dalla tipografia di Jacopo Ciardetti e C. MDCCCXXVI. L’opera è preceduta dalla lettera di Bernardo di Giunta a Cosimo Rucellai che si trova nell’edizione Giuntina del 1517 e nelle ristampe del 1524 e I533, e ciò ha fatto credere che questa edizione fosse una ristampa della Giuntina del 1517. La divisione in libri corrisponde con quella dell’edizione di messer Tizzone e Giuntina del 1594; i sommari con quelli dell’edizione Giuntina 1594; il testo è contaminato fra quello della Giuntina 1517 e l’altro della Giuntina 1594. Si capisce che non vi mancano le interpolazioni di messer Tizzone.
- Di edizioni antiche il Moutier ebbe conoscenza limitatissima: cita quella Padovana del 1472 e quella senza data descritta dal De Bure, e confessa di non avere avuto possibilitá di riscontrarle; conosce invece l’edizione Giuntina del 1517 e le ristampe del 1524 e del 1533. Ignora del tutto le vicende del testo dell’Elegia nell’intervallo fra il 1517 e il 1594, e attribuisce quindi a Filippo Giunti tutte le variazioni che il testo dell’edizione del 1594 presenta rispetto a quello stampato nel 1517 e a quello che gli risultava dal confronto dei manoscritti Riccardiani. Come il Moutier stesso dichiara nella prefazione, il testo della sua edizione è fondato principalmente sul codice Riccardiano 1568, e, in via complementare su altri due Riccardiani: 1082 e 1110. Nessun conto tenne degli altri tre manoscritti Riccardiani.
- L’Elegia ritornava cosí nel suo appetto originale con la divisione in nove capitoli, e col testo in gran parte ricondotto alla vera lezione. Evidentemente il Moutier non poteva riparare a tutto: rimase cosí nella sua edizione, stampato in corsivo, tutto il passo aggiunto da messer Tizzone poco dopo il principio del capitolo III; e qua e lá dove le ristampe dell’edizione del 1594 gli pareva che dessero un senso piú chiaro, mantenne quella lezione. Qualche volta gli avvenne anche di ritenere errata la lezione esatta della stampa e di correggere con la scorta dei suoi manoscritti. In proposito non occorre che ci dilunghiamo di piú perché piú avanti daremo la tavola delle differenze fra l’edizione Moutier e la nostra. Purtroppo, dopo il Moutier, venne il Fanfani; e si ritornò cosí al punto di prima, cioè a un testo contaminato fra l’edizione Giuntina del 1517 e quella di messer Tizzone per mezzo della Giuntina del 1594. E il Fanfani fu seguito, non tenendo conto delle edizioni commerciali, dal Gigli nella sua edizione per la Bibliotheca Romanica di Strasburgo17.
- MANOSCRITTI
- R. Biblioteca Mediceo Laurenziana.
- 1. — Laurenziano XLII, 7. Cartaceo della fine del sec. XIV, di carte scritte e numerate 66. L’Elegia comincia a c. 1a col prologo, che non è preceduto da rubrica. L’opera risulta divisa in nove capitoli preceduti da appositi sommari tranne il primo e l’ultimo. La carta 16 è di scrittura piú recente sostituita ad una che mancava. È questo l’unico manoscritto dell’Elegia che ha ai margini le chiose che illustrano e spiegano gli accenni mitologici del testo. A c. 66aTesto in apice, alla fine del testo: «Qui finisce ebbro chiamato Elygia della nobele donna fiametta da ley a tutte le donne enamorate. Amen. Deo Gratias»18.
- 2. — Laurenziano XLII, 8. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 80. A c. 1a, prima del prologo: «Il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta dallei alle innamorate donne mandato». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari. A c. 80a, alla fine del testo: «Finito illibro di Madonna Fiametta mandato alle innamorate donne e belle a dí vi d’agosto MCCCCXXII».
- 3. — Laurenziano XLII, 9. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 152. Contiene l’Elegia e la traduzione in volgare delle Epistole di Ovidio. L’Elegia è acefala per la mancanza di alcune carte in principio.
- 4. — Laurenziano XC sup. 941. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 137. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madona fiameta da lei mandato a le inamorate donne e in prima il prologo». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. A c. 137a, alla fine del testo: «Explicit liber iste feliciter die vicesima nona aprillis noctis sub silentio a.° domini MccccLvii. E scrita de manu propria de Ihanne de la camara».
- 5. — Laurenziano XC sup. 942. Cartaceo del sec. XV, di carte 83 recentemente numerate in rosso nel margine inferiore. Di un’antica numerazione con le lettere dell’alfabeto è traccia nel margine superiore. La prima carta è segnata D=; le altre precedenti mancano, ma non tutte, perché qualcuna si trova spostata fra carte seguenti. Le carte 8 e 9, infatti, dovrebbero stare in principio perché contengono il capitolo IV quasi intero, e il seguito si trova appunto nell’attuale prima carta. L’Elegia finisce a c. 51b; da c. 52a a c. 56b contiene la Storia del calonacho di Siena; da c. 57a c. 83b, il Corbaccio, mutilo in fine.
- 6. — Laurenziano Ashburnhamiano 1257. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 106. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madona Fiameta da lei mandato alle inamorate donne. Et in prima il prologo». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Il testo finisce a c. 97a. Da c. 98aa c. 106b è trascritta la novella di Ippolito e Lionora.
- 7. — Laurenziano Ashburnhamiano 1258. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 75, a doppia colonna. Oltre l’Elegia (cc. 1a -45b ), contiene il Corbaccio (cc. 46a-68a ) e Rime di Dante. L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Prima del prologo: «Qui apresso incomincia lo libro che si chiama elegia di madonna frammetta dallei alle inamorate donne mandato prolagho».
- R. Biblioteca Riccardiana19.
- 8. — Riccardiano 1065. Cartaceo del sec. XV, di carte numerate in rosso recentemente 78, scritte a doppia colonna. Contiene l’Elegia e il Corbaccio. Dell’Elegia, per la perdita di 11 carte, manca tutto il capitolo I. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari; anche i paragrafi di ciascun capitolo hanno delle brevi indicazioni sul contenuto. Alla fine del testo, a c. 50b: «Qui finiscie il libro chiamato elegia della nobile donna madonna Fiammetta mandato dallei a tutte le donne innamorate si debbono, finis». Il codice è in cattivo stato di conservazione a causa dell’umiditá.
- 9. — Riccardiano 1072. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 73. A c. 1a comincia il prologo dell’Elegia senz’altro. La divisione in nove capitoli si arguisce dallo spazio lasciato vuoto, ma mancano le rubriche. Alla fine del testo, a c. 73a: «Qui finiscie il libro chiamato Elegia della nobile donna madonna fiammetta mandato dallei a tutte le donne innamorate. Deo gratias Amen».
- 10. — Riccardiano 1082. Cartaceo del sec.. XV, di carte 72. A c. 1a, prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta dallei alle innamorate donne mandato. Prologo. Composto per messer Giovanni Bocchacci da Ciertaldo, cittadino fiorentino». Subito dopo, la rubrica: «Copiato di mano di Giovanni Tolosini, del mese d’ottobre MCCCCXI». Il testo dell’Elegia è diviso in nove capitoli preceduti da rubriche. A c. 71b, alla fine dell’opera: «Qui finiscie il libro chiamato Elegia della nobile donna Madonna fiammetta mandato dalley alle innamorate donne. Deo grazias amen amen».
- 11. —Riccardiano 1110. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 155. A c. 1a, il prologo senz’altro. L’Elegia risulta divisa in otto capitoli, ma mancano le rubriche. A c. 155b, alla fine dell’opera, il copista (Pietro di Benedetto de’ Benedetti) trascrisse alcune lodi per la Vergine.
- 12. — Riccardiano 1148. Cartaceo del sec. XV, di carte 100. Manca in principio la carta che conteneva il prologo e buona parte del primo paragrafo del capitolo primo; anche in fine manca una carta che conteneva l’ultima parte del capitolo nono. I paragrafi si susseguono l’uno all’altro senza divisione in capitoli.
- 13. — Riccardiano 1568. Cartaceo del sec. XV, di carte 293, ma sono due codici riuniti insieme, il secondo dei quali contiene l’Elegia (cc. 236a-292íb). Il prologo è preceduto dalla rubrica: «Inchomincia ilibro chiamato Elegia di madonna Fiammetta, dallei alle innamorate donne mandato». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da sommari. Alla fine del testo, a c. 292b: «Scritto per mano... di Iachopo a honore di Madonna Piera». Il primo nome fu abraso.
- R. Biblioteca Nazionale di Firenze20.
- 14. — Magliabechiano II, II, 22. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 73, (antica numerazione 107) senza contare 11 carte mancanti in principio che contenevano il Prologo, tutto il capitolo I e i primi quattro paragrafi del capitolo II dell’Elegia il cui testo finisce a c. 71b. Da c. 72a a c. 73b, il capitolo in terza rima Per gran forza d’amor commosso e spinto. Tra la c. 6 e la c. 7, manca una carta che conteneva buona parte dell’ultimo paragrafo del capitolo II e parte del primo paragrafo del capitolo III. Tra la c. 13 e la c. 14 mancano dalle tre alle quattro carte che contenevano gran parte dell’ultimo paragrafo del capitolo III, tutto il capitolo IV, e il primo paragrafo del capitolo V. Tra la c. 36 e la c. 37 manca una carta che conteneva parte del paragrafo che comincia «o felice colui...» (cap. V). Tra la c. 40 e la c. 41 manca una carta che conteneva parte deirultimo paragrafo del capitolo V, tutto il primo paragrafo e parte del secondo del capitolo VI. Tra la c. 49 e la c. 50 manca una carta che conteneva parte del paragrafo che comincia «da poi che la vecchia...» (cap. VI). Tra la c. 56 e la c. 57 manca una carta che conteneva gran parte del primo paragrafo del capitolo VII. Tra la c. 65 e la c. 67 mancano due carte che contenevano parte dell’ultimo paragrafo del capitolo VII e i primi tre e parte del quarto del capitolo VIII. Non può essere coincidenza casuale che la mancanza delle carte si ha per l’appunto nell’inizio di ciascun capitolo. Probabilmente qualche proprietario del codice che giá in qualche parte doveva essere mutilo, eliminò le carte che potevano testimoniare facilmente la incompletezza del manoscritto; ed è stato un vero peccato, perché cosí son venute a mancare non poche delle rubriche che precedono i vari paragrafi, conservate in buona lezione da questo codice.
- 15. — Magliabechiano II, II, 187. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 39, a doppia colonna. Il testo comincia senz’altro col prologo e seguita senza divisione in capitoli, ma è mantenuta la suddivisione in paragrafi per mezzo dei capiversi. Il testo rimane interrotto a c. 39a poco dopo il principio dell’ultimo paragrafo del capitolo VIII.
- 16. — Palatino 484. Cartaceo del sec. XV di carte scritte 51 a doppia colonna, ma la vecchia numerazione segna 58; mancano infatti le carte 4, 5, 6, 7, 51 e 52. A c. 1a: «Inchomincia il prolagho del libro di madonna fiammetta dalei alle innamorate donne mandato chonposto et chonpilato per messere giovanni bocchacci poeta fiorentino». Altra rubrica si trova prima del capitolo I, e e per gli altri capitoli fu lasciato lo spazio in bianco.
- 17. — Palatino 517. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 79. A c. 1a: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna fiammetta dallei alle inamorate donne mandato prologo conposto e conpilato per messere Giovanni bocchacci». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A. c. 79a, alla fine del testo: «finito il libro Ellegia di Madonna fiammetta fatto e compilato per Messer Giovanni bocchacci da ciertaldo poeta fiorentino deo gratias amen». Il codice appartenne a Piero del Nero.
- 18. — Palatino 658. Membranaceo del sec. XV, di carte scritte e numerate 49, a doppia colonna. A c. 1a: «Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna fiammetta da ley a le inanrorate donne mandato conposto per l’excellentissimo poeta misser giovanni Boccaccio, proemio». L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A c. 49b, alla fine del testo: «Qui finisse il libro chiamato Elegia de la nobil donna Madonna phiammetta mandato da lei a le inamorate compilato per l’excellentissimo poeta misser Giovanni boccaccio di certaldo nobilissimo Citadino di Firenze. Scripto per mi Arsenio plepiliça essendo in annual regimento capetanio a la barga nel mille quatrocento vinti nuove di xv genaro feliciter Amen Amen Amen». Il copista ebbe a disposizione piú di un codice poiché in qualche punto nota che altri codici leggono diversamente.
- 19. — Panciatichiano 19. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 42, a doppia colonna. Manca una carta in principio, che conteneva il prologo, e i primi due paragrafi del terzo del primo capitolo dell’Elegia. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. I paragrafi hanno la lettera iniziale grande colorata. A c. 42b, alla fine del testo: «Qui finiscie il libro chiamato elegia della nobile donna madonna fiammetta mandato dallei ad tutte le donne inamorate deo gratias amen».
- 20. — Panciatichiano 20. Cartaceo del sec. XV, di carte numerate 118; miscellaneo. L’Elegia, adesposta e anepigrafa, comincia a c. 39a e rimane interrotta a c. 81a, con le parole «che a lei posso volgere la mente» (cap. V, verso la fine del paragrafo che comincia «o felice colui»). Il codice è deteriorato per l’umiditá.
- Biblioteca Carducci21.
- 21. — Manoscritti 43. Cartaceo della seconda metá del sec. XV, di carte scritte 102. Nella carta di guardia è scritto di mano del Carducci: «Dono di Mario Menghini a me Giosuè Carducci in Madesimo, 27 ag. 1899». L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche. A c. 102b, alla fine del testo: «Ego Gerardus lugensis scripsi hunc librum tempore sanctissimi in Cristo patris et domini: Domini Sixti divina providentia Papae quarti die vero xxii mensis maij MCCCCLXXII. In amenissima et potentissima civitate Viterbij.
- Biblioteca Ambrosiana.
- 22. — Ambrosiano D, 29 inf. Cartaceo della fine del sec. XIV, di carte numerate 76. In una carta di guardia in principio è scritto: «La fiammetta di Gio: Boccaccio. Hic codex fuit aliquando Petri Bembi Card, ut colligitur ex nonnullis brevibus notis ad oram libri appositis; deinde Vincentii Pinelli a cuius heredibus tota eius bibliotheca Neapoli empta fuit anno 1609, iussu Ill.mi Card. Federici Borrom. Ambrosianae Bibliothecae fundatoris.
- Antonius Olgiatus primus eidem Bibliothecae Praefectus scripsit anno 1609».
- In una successiva carta di guardia si legge: «Questa fiameta è de mi And. mussolini mandadami per misser mio padre da... per Eg. chapitanio Misser pollo conttarini di 1442 adi 7 hott...».
- Piú sotto c’è la data 1443, 22 luglio, e piú sotto ancora: «Io. Vinc. Pinelli. La fiammetta di G. Boccacci ex libris Petri Bembi Cardinalis come si vede per le postille scritte di sua mano». L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Prima del prologo: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madonna fiammetta da lei ad le innamorate donne mandato prologo». Le postille del Bembo, pochissime, mettono in rilievo qualche vocabolo, o qualche particolare forma verbale o speciali locuzioni. Soltanto nel principio del prologo c’è il richiamo alla Vita Nuova di Dante. Qualche postilla: mammella; vaga vaga; grieve; sonnocchioso; rimirata; quanta di noia; dar luogo etc. Alla fine del testo: «Qui finisce il libro chiamato elegia della nobile Madonna Fiammetta mandato da lei ad tutte le donne Innamorate alleluja alleluja».
- 23. — Ambrosiano 183 inf. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 64 («ex libris Ioh. Ang. Marelli Bibliothecae Ambrosianae custodis»). L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche tranne il primo e il prologo. Alla fine del testo: «Qui finisce il libro chiamato Elygia della nobile donna Madonna Fiamecta mandato da ley a tucte le donne Namorate».
- R. Biblioteca Estense di Modena.
- 24. — Manoscritti, 825. Cartaceo della seconda metá del secolo XV, di carte scritte 57. Le prime 37 contengono l’Elegia, le altre 20, il Corbaccio, scritto dalla medesima mano. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti dai rispettivi sommari scritti in tempi piú recenti. Alla fine del testo: «A dí vi setembre MCCCCLXV In la Rocha de palaçol». Segue la poesia, anonima, O sommo di virtú fontana viva.
- R. Biblioteca di Parma.
- 25. — Manoscritti, 2806. Membranaceo della fine del sec. XIV o del principio del sec. XV, di carte numerate 65, scritte 60. A c. 2a, la rubrica: «Incomincia il libro chiamato Elegia di madopna Fiamecta da ley a le innamorate dopne mandato. Prologo». Segue il testo con scrittura calligrafica a tutta pagina. La lettera iniziale del Prologo è miniata con figura che rappresenta Fiammetta in atteggiamento doloroso. Nel margine inferiore della pagina c’è arabescato uno stemma principesco con le iniziali di Giovanni e Maria. L’opera è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche, e i capitoli in paragrafi con lettere iniziali grandi e colorate. Il codice proviene dalla Biblioteca di Ioh. Bern. De Rossi, è in ottimo stato di conservazione ed è fra i migliori per la correttezza generale del testo e per il mantenimento delle abitudini grafiche del Boccaccio. Insignificante l’influenza dialettale del copista caratterizzata dal continuo scambio fra e ed i.
- Alla fine del testo, a c. 61a: «Qui finisci il libro chiamato Elegia di la Nobile dompna Madopna Fiamecta mandato da ley a tucte le Inamorate dompne.
- Questo libro è di [spazio vuoto].
- Ego Iohannes matheus Caualinus Scripsi».
- Biblioteca Oliveriana di Pesaro22.
- 26. — Manoscritti, 805. Cartaceo del sec. XV, di carte 159. L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche. A c. 159b, alla fine del testo: «Questo libro chiamato Fiammetta fo scripto per me Francescho de Lello de Raniero degli Almerichi da Pesaro et finito adí xx. di marzo 1465.
- R. Biblioteca Nazionale di Roma.
- 27. — Manoscritti, 508. Cartaceo del sec. XV, di carte 122, scritte tutte a doppia colonna; miscellaneo. Da c. 1a a c. 33b contiene il volgarizzamento del Primo bello punico di Leonardo d’Arezzo, traslatato in vulgare per uno suo amico; da c. 35a a c. 70a, il volgarizzamento delle Epistole di Ovidio; da c. 71a a c. 122a, l’Elegia divisa in nove capitoli senza sommari per i quali fu lasciato lo spazio in bianco.
- R. Biblioteca Marciana.
- 28. — Manoscritti Italiani, X, 29. Cartaceo del sec. XV di carte numerate e scritte 71. A c. 1ai a: «Chomincia il libro chiamato elegia di madonna fiammetta dallei alle donne innamorate mandato. prolagho». Nel margine di sinistra, accanto alle prime linee del prologo, una mano diversa e piú recente scrisse: «Ioannis Boccaccii viri eloquentissimi ad Flamettam Ponphili amatricem libellus materno sermone editus». Tali parole si trovano nell’edizione Padovana del 1472 ed è probabile che dalla stampa siano passate nel codice. L’opera è divisa in nove capitoli senza rubriche per le quali fu lasciato lo spazio in bianco. Nel capitolo VI ci sono frequenti postille marginali in latino che vogliono mettere in rilievo alcuni passi. Per esempio: «Dico nota: hic nutrix dat bonum consilium»; eletio sue mortis cum deliberatione»; hic ratio loquitur»; hic dicit ultima verba ante quam vadat ad mortem deliberatam», etc.
- 29. — Manoscritti Italiani, X, 30. Cartaceo della seconda metá del sec. XV, di carte numerate 103, scritte 102. Mancano le prime tre carte, delle quali la terza conteneva il prologo e il principio del capitolo I. L’opera è divisa in nove capitoli senza rubriche per le quali fu lasciato lo spazio in bianco. Le lettere iniziali dei paragrafi sono grandi colorate; piú grandi e con fregi in oro le lettere iniziali dei capitoli. La carta 100 è mutila di un quarto. A c. 102a, alla fine del testo: «Finis presentis libelli, laus deo. 1469. die ultimo mensis octobris. pgom. I. B.».
- 30. — Manoscritti Italiani, X, 192. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 168. A c. 1a, il prologo dell’Elegia, senz’altro. La divisione in capitoli non è visibile, ma ogni paragrafo ha l’iniziale grande colorata. L’opera finisce a c. 61b, con la seguente rubrica: «Qui finiscie il libro indittulato Elegia di madonna Fiammetta mandato alle innamorate donne. Finis». Da c. 162a a c. 163b, la canzone Lasso che farò io poi che quel sole di maestro Antonio da Firenze; da c. 164a a c. 167a, il capitolo Piangi tu che pur dianzi eri felice di Bernardo Pulci; da c. 167b a c. 168a, la canzone Le cittá magnie fioride e civili di Mariotto Avanzati.
- 31. — Manoscritti Italiani, XI, 53. Cartaceo del sec. XV, di carte scritte 146, miscellaneo. L’Elegia si trova da c. 77a a c. 143b, scritta a doppia colonna. Nel margine superiore della c. 77a c’è l’indicazione della data e del copista: «MccccLv adí 18 auosto in Sibecha scritto per mano di Cristofallo Perazio». L’opera risulta divisa in nove capitoli, ma mancano le rubriche. In fine manca la carta che conteneva buona parte del capitolo nono.
- Biblioteca vaticana.
- 32. — Capponiano 216. Cartaceo della fine del sec. XV, di carte scritte 158. A c. 1a, il prologo dell’Elegia senz’altro. L’opera risulta divisa in nove capitoli, ma mancano le rubriche23.
- 33. — Urbinate-Latino 690. Cartaceo del sec. XV, di carte 126. L’Elegia è divisa in nove capitoli senza rubriche24.
- 34. — Urbinate-Latino 1170. Membranaceo del sec. XV, di carte 149. L’Elegia è divisa in nove capitoli preceduti da rubriche. Il codice ha delle miniature, ed è in ottimo stato di conservazione25.
- ⁂
- Mi limiterò ad accennare brevemente, ripromettendomi di trattarne presto piú ampiamente, alle questioni principali che presenta la classificazione dei manoscritti esaminati.
- Una prima constatazione che si può fare è che tutti concordano nel leggere: Ipomedon invece di Ipomenes (pag. 71); danna o donna invece di di Susanna (pag. 95). Inoltre è quasi generale la lacuna di una o piú parole al passo: «li quali, poi che alquanto hanno [mirato] e le bellezze delle donne...» (cap. V, pag. 93). Qualche codice legge mirato o guardato, o considerato, ma il confronto con gli altri manoscritti prova sicuramente che si tratta di congettura di copisti, come è avvenuto anche per il caso di Susanna. E si possono aggiungere ancora: «maggiore [di] lui la salita...» (pag. 50); «...di che io che giá in ciò studiosissima...» (pag. 81). Per Ipomedon è interessante notare che cosí si legge anche nella chiosa, e che quindi molto probabilmente l’errore era giá nell’autografo. Per gli altri casi occorrono particolari osservazioni. Il testo originale del Boccaccio leggeva veramente la causa di Susanna? Io ne dubito, anche perché la frase «esaminare la causa» non mi pare boccaccesca. D’altra parte bisogna tener conto che nei manoscritti si oscilla fra la causa e l’accusa. La frase originale non era per caso l’accusata donna? C’è un manoscritto che legge così, ma non è indipendente dagli altri. Certo l’errore dei manoscritti si spiega meglio ammettendo per lezione originale l’accusata donna. Per la lacuna a pag. 93, causa di dubbi è la lezione data dalla Giuntina del 1517: «...i quali poi che alquanto hanno e la bellezza delle donne e le loro danze considerate, quelle commendando...». Si spiega come l’editore dinanzi ad un passo lacunoso dei manoscritti e delle edizioni precedenti, abbia integrato con considerate, ma perché avrebbe aggiunto quelle commendando, che è un di piú, non necessario ad integrare la lacuna? Sarebbe questo l’unico punto della Giuntina non giustificato né dalla testimonianza dei manoscritti né da quella delle edizioni precedenti; ed io per ora credo che sia troppo poco per ammettere che la Giuntina del 1517 abbia attinto ad una fonte manoscritta indipendente da quella che si conosce.
- Per il passo a pag. 50 i casi sono due: o lui è una zeppa provocata da lui del rigo successivo, e allora sará da eliminare e il senso non ne soffrirebbe molto; o fa parte del testo, e allora è necessario congetturare [di]. La medesima situazione si presenta a pag. 81: se è una zeppa si elimina e il senso va benissimo; se fa parte del testo, allora bisogna ammettere una lacuna [fui] dopo studiosissima.
- Non mancano altri casi dubbi che avrebbero bisogno di essere discussi, ma due in particolar modo meritano di essere segnalati. Nel cap. I, a pag. 9, nel passo «... benché della loro salute porgano ad essi segno, elli privano loro del conoscimento debito», quasi tutti i manoscritti leggono lui invece di loro, e per mantenerlo bisognerebbe riferirlo a segno e dare a conoscimento senso passivo; e tutto il costrutto ne soffrirebbe molto nel senso e nella sintassi. Nel cap. V, a pag. 106, nel passo «... le quali, cose a te assai leggiere, e a me grandissime, conterranno», ho mantenuto la lezione comune a quasi tutti i manoscritti che però potrebbe risolversi anche in conteranno, ma il senso non è molto soddisfacente. Peggio che mai, a me pare, congetturando contenteranno, che è in qualche codice e che si trova nelle edizioni anteriori alla nostra26.
- Non m’indugio in altri casi, poiché qui a me interessa affermare che i codici esaminati fanno capo ad un manoscritto che aveva alcuni passi sicuramente errati. Si possono imputare tali errori ad un autografo? Certo la cosa non si può escludere dalle possibilitá, ma è poco probabile. Comunque, rimane assodato che la tradizione manoscritta che conosciamo proviene da un’unica redazione, e che qualche caso di varianti che lasciano incerti sulla scelta, trova la sua giustificazione nel fatto che il comune capostipite aveva le chiose marginali, alcune delle quali consistevano nel dichiarare con un sinonimo il significato di un vocabolo del testo.
- Ai fini della classificazione si distinguono nettamente due folti gruppi di manoscritti, uno dei quali ha un ottimo rappresentante nel codice Parmense che non ha l’equivalente in nessun altro rappresentante del secondo gruppo, al quale appartengono, oltre al Laurenziano XLII, 7, l’Ambrosiano 183 inf., il codice della Biblioteca Nazionale di Roma. Altri manoscritti hanno seguito una via indipendente dai due gruppi.
- Il nostro testo è il risultato del controllo fra i migliori rappresentanti dei due gruppi e fra i manoscritti indipendenti. Passi che hanno bisogno di essere discussi, ce ne sono, ma gli elementi forniti dalla tradizione manoscritta sono stati tutti vagliati. Per una maggior sicurezza su alcuni passi che possono dar luogo a dubbi o a soluzioni diverse, non c’è che da augurarsi che venga fuori qualche manoscritto che si riveli veramente indipendente dalla tradizione che conosciamo27.
- Ecco la tavola delle correzioni piú importanti rispetto al testo dell’edizione Moutier28:
- Edizione Moutier Nostra Edizione
- Prologo, » 3 Né mi curo però che il mio parlare agli uomini pervenga Nè m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga
- » » pietosa lagrima pietose lagrime
- » » le leggiate leggiate
- » » o tutte e tutte
- Cap. I » 5 conveniente si conviene
- » » trapassati trapassanti
- » 6 nobili e altri nobili
- » » mali danni
- » » me sola a me sola
- » 7 retinente renitente
- » » vaga vaga vaga
- » 8 vero veduti veri creduti
- » » avvenir doveva avvenne
- » » disposta di posta
- » 9 gloriava gloriavano
- » » mirando rimirando
- » 10 ragguardamento ri guard amento
- » » niuno niuno altro
- » 11 In cosí A cosí
- » » fermò mostrò
- » 15 mi rendè rendè
- » 16 le risposi pur le risposi
- » » cacci esturbi e cacci
- » 19 furono rifiutati rifiutai
- » 20 incomportabile importabile
- » 21 da quelle di costui piú possenti fu tocco da quel di costui piú possente fu cotto
- » » pendente precedente
- » 22 combattendo combattono
- » » si muove se ne venne
- » » si fa si fe’
- » 23 se tu tu
- » » sommamente solamente
- » 25 il volere nel il volerne
- » 26 fu lunga fu luogo lunga
- » 28 priegovi priegole
- » » se io dicessi che questa se questa
- » 30 senno se non
- Cap. II » 31 Poi Noi
- » 32 soperchia soperchia dolcezza
- » 36 sperava spera
- » » serbano debbono
- » » e siccome egli per addietro senza te e cosí come, tu non con lui
- » 37 del vecchio del vecchio padre
- » » la morte a morte
- Cap. III » 47 dal consapevole dal mio consapevole
- » » lasciai lasciava
- » » intrando in altri varii e nuovi pensieri. Io dolorosa stava sola e pur di lui del tutto pensosa dimorava, e or qua e or lá per la camera mi voltava, e alcuna fiata fra me stessa dieva, standomi con la mano sotto ’l capo appoggiata al mio letto: ora giugnesse qui il mio Panfilo. E cosí stando in questi e in altri pensieri entrava. Alcun’altra volta intrando in altri. Alcun’altra volta
- » » che avvenne che ll’è avvenuto
- » 49 o piú gentile o gentile
- » 52 di lui ragionando di lui
- » 53 e i prieghi in prieghi
- » » in qualunque parte in alcuna parte
- » 54 i libri in libri
- » » mi faceano mi si faceano
- » 55 quelle notti quelle volte
- » » e inverso me gridando inverso me gridare
- Cap. IV » 58 trovai truovo
- » 62 quasi ripresa ogni quasi ogni ripresa
- Cap. V » 64 essendo sedendo
- » » nel ragionare nel loro ragionare
- » 65 ripresi riprendessi
- » 66 male meritò il ferire di Pitone male merite di ferire il Fitone
- » 67 con la nuova sposa con la nuova sposa e cosí per contrario tagli la vostra spada
- » » seguirá segnerá
- » 68 veramente giustamente
- » 69 e che tu E tu
- » » mi sforzi cosí mi sforzi
- » 71 con isperanza in isperanza
- » 72 maggiore maggiore il disio
- » 73 adempirebbe adempie
- » » supplisco supplico
- » » ne le pareva me ne pareva
- » 77 ricerca ricrea
- » 78 dell’antica Cuma dell’antiche Cume
- » » vicina è l’isola Pitacusa vicine l’isole Pittaguse
- » 81 Poi . Noi
- » 83 ritogliendo ricogliendo
- » 87 venute divenute
- » » indusse inducesse
- » 89 la falce la tua falce
- » 90 recentissime recettissitne
- » 92 antiquata antica
- » 93 li direbbe si direbbe
- » » i cari li chiari
- » 95 escidio assedio
- » 98 poco amabile poco ama
- » 99 alla quale al quale
- » 100 né l’aguto spuntone né la tagliante spada cignevano nell’aguto spuntone, né la tagliante spada cigneva
- » 104 rasciutte rasciugare
- » 105 o tu bellezza e tu bellezza
- » » alle fonti alle sue fonti
- » 106 contenteranno conterranno
- » 107 sianti piú cari siati piú caro
- Cap. VI » 109 alla qual dimanda alla quale
- » 110 liti lati
- » » mi ricolsi acciocché di ciò niuno s’accorgesse mi ricolsi
- » 110 la vita errante la vita errante ne’ suoi luoghi
- » 111 contrarie contrario
- » » affetto affezione
- » 112 infinite infinte
- » 113 di te verso di me da te verso me
- » 116 alle bugie alle mie bugie
- » » o arpie e lupi o caspie rupi
- » 118 svegliassi svelassi
- » 125 niuna forza niuna cosa
- » 126 malizia milizia
- » 127 chi in alcuna cosa chi in niuna cosa
- » 128 ti diede ci diede
- » » l’immobile ordine temere il mobile ordine tenere
- » » credute credute da donna essere pensate
- » 131 oltre al suo piacere oltre al mio piacere
- » 133 palpitando palpando
- » 135 aggiungerai aggiungerá
- » 136 togliendole tenendole
- » 137 fossero pietose fossero state pietose
- » » mi corsero m’occorsero
- » 138 scellerati scedanti
- » » i paurosi a’ paurosi
- » » confusa confusa, e, per lo migliore
- Cap. VII » 139 fiorifero florigero
- » 142 egli fosse si egli fosse ora si
- » 143 credendolo e non creden-dolo credendolo
- » » supremo superno
- » » da’ miei per li miei
- » » che vi puote che piú vi puote
- » 144 tornò tirò
- » 145 che questo che che questo
- » 146 dicevano solamente che solamente
- » » di che assai appare di noi a che assai appare lui poco di noi
- » 148 mi doveva non doveva
- » » aspettandolo aspettando
- » 149 sanitá infermitá
- Cap. VIII » 151 opera in me opera più verso me che l’usato
- » » alla morte alla mia morte
- » 152 Dico che Dico adunque che
- » 153 si conservasse si convertisse
- » » il dimostrò il dimostra
- » 156 descritte in pene descritte
- » 158 s’appigli s’appicchi
- » 159 e con piú sostenuta e piú sostenente
- » » continua continuo
- » » nel tristo seno nel tristo senno
- » » il male in male
- » 161 se non di Panfilo se non Panfilo
- » 165 le seconde febbri le febbri
- Cap. XI » 166 Tale Adunque tale
- » 168 da lungi dalla lunga
- » » e continua in continua
- ⁂
- Le Chiose oltre che nei margini del codice Laurenziano XLII, 7, giá descritto, si trovano raggruppate insieme nelle carte 167-177 del codice Riccardiano 1126 (cartaceo, del sec. XV, miscellaneo). I due manoscritti hanno in comune errori e lacune, presentano il testo trascritto con le medesime deformazioni dialettali originariamente venete, ma contaminate con influenze meridionali, e coincidono nel dare la seguente avvertenza: «Per aver vera notizia di questo libro il quale non nomina onde fossero questi due amanti se non con latenti significazioni, è da sapere che madonna Fiammetta fu della cittá di Napoli dove essa si denomina in questo libro quando dice nella nostra Partenope, cioè Napoli, così denominata da una vergine che vi morio che ebbe nome Partenope; e Panfilo fu della cittá di Venezia, e questo dimostra il presente libro quando dice delle parti di Illiria però che Illiria è proprio quel paese ove è posta Venezia». Il compilatore veneto di questa avvertenza, per dare a Panfilo come patria Venezia, accomoda al suo scopo il testo dell’Elegia che non legge Illiria, ma Etruria.
- I due manoscritti sono tuttavia indipendenti l’uno dall’altro perché alcune chiose che non si trovano nell’uno sono nell’altro, e viceversa. Per dare il testo critico delle Chiose non basta ricostituire il capostipite dei due manoscritti, ma bisogna eliminare tutte le deformazioni dialettali che erano giá nel capostipite: e questo è stato fatto tenendo presente il testo dell’Elegia del codice Laurenziano XLII, 7, che presenta le medesime deformazioni del testo delle Chiose.
- A dimostrare l’autenticitá delle Chiose, basta il confronto di alcune di esse con altre corrispondenti dell’autografo del Teseida:
- Elegia, 174: «Due sono gli usi di Venere, cioè Venere licita e Venere illicita. Venere licita è di stare il marito con la moglie e però dice santissima; illicita si è d’appetere il marito altra donna che la sua, e la donna altro uomo che il suo marito».
- Teseida, 197:29 «La quale Venere è doppia, perciò che l’una si può e dee intendere per ciascuno onesto e licito disiderio, sì come è disiderare d’avere moglie per avere figliuoli, e simili a questo... La seconda Venere è quella per la quale ogni lascivia è disiderata».
- Elegia, 176: «Febo s’innamorò della figlia d’Ameto re di Tessaglia, e volendo seguitare il suo amore si trasformò in forma d’uno pastore e posesi a guardare l’armento del detto Ameto...».
- Teseida, 114: «Fu Febo innamorato d’una figliuola d’Ameto re di Tessaglia, la quale non potendo altrimenti avere, si trasformò in pastore e posesi col detto re, e stette con lui guardandogli il bestiame suo, in così fatta forma, sette anni».
- Elegia, 176: «Giove ancora s’innamorò di Europa figliuola di re Agenore e sorella di Cadmo e di Fenice, con la quale non potendo avere a fare, stando la detta Europa in uno prato a cogliere fiori, lui si trasformò in giovenco e faccendo atti piacevoli ad essa li quali molto le piacquero; e per umiltá del detto giovenco li montò addosso da pie’, e lui subito la portò via e passò il mare e andò a Creti ed ebbe a fare con lei».
- Teseida, 79: «Agenore, re di Fenicia, aveva una figliuola bellissima, la quale aveva nome Europa, la cui bellezza sappiendo Giove e piacendogli forte, si trasformò in forma d’uno bellissimo tauro, e andonne lá dove questa giovane era con altre compagne: e quivi si mostrò sì mansueto e sì bello, che a queste giovani e massimamente ad Europa piacque e venne volontá d’averlo, e accostoglisi, e vedendolo così mansueto lo prese per le corna, e dopo molto avere veduta la sua mansuetudine vi salì suso: il quale quando si senti adosso costei sì come egli disiderava, incontanente cominciò a correre verso il mare... ultimamente si mise in mare, e notando ne la portò in Creti, e quivi ebbe di lei piú figliuoli».
- Elegia, 177: «Calisto fu una giovinetta d’Arcadia figliuola di Licaone e fu donzella di Diana dea delle selve e delle cacciagioni; della quale Giove s’innamorò e trasmutossi in forma di Diana ed ebbe a far con lei, e ’ngravidolla e nacque Arcas il quale fu pur cacciatore. E Giunone volendosi vendicare dello strupo che avea commesso con Giove la trasmutò in orsa, la quale, Arcas predetto suo figliuolo andando a cacciare, non credendo che la madre fosse orsa, la volle sagittare per ucciderla; ma Giove per ricompensa dell’amore ch’ella avea avuto per lui la trasmutò in cielo e anche lo detto Arcas: e però si chiama Orsa maggiore e Orsa minore».
- Teseida, 202: «Fu questa Calisto una bellissima giovane d’Arcadia, la quale aveva botata a Diana la sua virginitá, e seguivala per li boschi cacciando; della quale Giove s’innamorò; e veggendola un giorno in uno bosco sola, si trasformò nella sembianza di Diana... di che ella ingravidò... E essa partorí uno figliuolo, il quale fu chiamato Arcas. La qual cosa Iuno conoscendo, discese in terra e trasmutolla in orsa. Poi essendo cresciuto questo Arcas, e andato un dì a cacciare, scontrò la madre, e non conoscendola la volle saettare; ma Giove avendo misericordia di lei, subitamente convertì Arcas in orsa, e trasportonne l’una e l’altra in cielo: e chiamatisi l’una Orsa maggiore e l’altra Orsa minore...».
- Elegia, 177: «Marte, iddio delle battaglie, s’innamorò di Venere moglie di Vulcano fabbro di Giove, e avendo a far con essa, fu accusato da Febo al detto Vulcano. Onde il detto Vulcano volendosi vendicare del detto dio Marte, fece reti di ferro sottilissime che non si poteano vedere, e misele intorno al letto ove facevano il fatto, e quando Marte andò a fare il fatto con Venere, furono tutti e due presi dalle dette reti a modo d’uccelli. Onde il detto Vulcano avendoli così presi, per vituperarli bene, mentre stavano così presi nelle reti, chiamò tutti gli altri dii che venissero a vedere, e così ivi vennero».
- Teseida, 187-88: «Scrivono i poeti che giaccendosi Marte con Venere, la quale egli amava sopra ogni altra cosa, il Sole se ne avvide e disselo a Vulcano, iddio del fuoco, il quale era marito di Venere. Per la qual cosa Vulcano, essendo ingegnosissimo fabro, acciò che egli vedesse se ciò era vero, fece una rete di ferro fortissima e fecela sì sottile che appena si discernea; poi la tese intorno al letto suo, in guisa che chiunque v’entrava rimaneva preso. Laonde avvenne che un giorno, non essendo egli a casa, Venere e Marte, sanza avvedersi della rete, se ne entraron ignudi nel letto, nel quale Vulcano tornando gli trovò, e mostrògli a tutti gl’iddíi, li quali vedendo ciò se ne risono».
- Elegia, 180: «Erisitone fu di Tessaglia, grandissimo ispregiatore delli iddíi, il quale per ispregiare la detta Cerere tagliò una selva dove era una grandissima quercia consacrata ad essa. Per la qual cosa Cerere corrucciatasi contra di lui, gli mise una fame sì grande in corpo, che veruna cosa li bastava a saziarlo, e manicò se medesimo a poco a poco».
- Teseida, 108-109: «Erisitone fu disprezatore delle forze degli iddíi, il quale per dispetto di Diana fece tagliare una quercia la quale era consecrata a Diana; di che Diana turbata, gli mise sì fatta fame adosso, che primieramente manicatosi ciò che egli aveva e non potendo torsi la fame... divenne magrissimo, e ultimamente morì di fame».
- Elegia, 183: «Danao ebbe cinquanta figliuole femine, ed ebbe un fratello, il quale ebbe nome Egisto ch’ebbe cinquanta figliuoli maschi, li quali presero per loro spose le dette cinquanta loro consobrine; alle quali Danao comandò che ciascuna dovesse la prima notte ammazzare lo suo marito, e questo fe’ acciò che rimanesse senza erede per tutto lo reame [e lo reame] rimanesse a lui. E così fecero tutte eccetto una la quale ebbe nome Ipermestra che fu maritata col fratello minore ch’ebbe nome Lino, che non l’ammazzò. Si che di cinquanta ne campò uno solo etc. Il detto Danao fu figliuolo di Belo».
- Teseida, 13-14: «Belo fu re in una parte di Grecia, e ebbe due figliuoli: l’uno ebbe nome Danao, il quale fu re dopo la morte del padre e ebbe cinquanta figliuole, l’altro ebbe nome Egisto e ebbe cinquanta figliuoli maschi; e di pari concordia diedono le cinquanta figliuole di Danao per mogli alli cinquanta figliuoli d’Egisto; e ordinò Danao, per tema lo quale aveva de’ figliuoli d’Egisto che non gli togliessero il regno, che ciascuna delle figliuole, la prima notte che co’ mariti giacessero, ciascuna uccidesse il suo, fuori che una etc. Ipermestra, Lino etc.».
- Credo che non occorra continuare in altri raffronti. Chi vuole può ancora confrontare: Argo ( Elegia, 185; Teseida, 168); Ariete (Elegia, 194; Teseida, 89); Atamante ( Elegia, 195; Teseida, 143); Siila (Elegia, 198; Teseida, 165); Dedalo (Elegia, 199; Teseida, 132); Cloto, Lachesis, Atropos ( Elegia, 203; Teseida, 298); Fetone ( Elegia, 207; Teseida, 274); Piramo e Tisbe (Elegia, 209; Teseida, 204) etc.
- È importante, per quanto sia un dato esterno, notare che nelle Chiose all’Elegia è conservata l’abitudine del Boccaccio nello stendere le Chiose per il Teseida, cioè di ripetere la chiosa quando nel testo ricorreva nuovamente la parola che aveva data occasione ad una prima chiosa, ma di farla molto piú breve (come fu detto dinanzi; etc.).
- Il lato nuovo e interessante delle Chiose all’Elegia rispetto a quelle al Teseida, è la citazione della fonte. Si può dire che in queste Chiose c’è la testimonianza di quasi tutta la cultura latina del Boccaccio: Virgilio, Ovidio, Stazio, Lucano, Seneca, Cicerone, Livio, Giustino, Valerio Massimo. È citato anche Terenzio (pag. 194), ma è da escludere che il Boccaccio ne conoscesse direttamente le opere30. La frase «Sine Cerere et Bacho friget Venus», deriva da un passo di Cicerone, Nat. deor., 2, 60: «Itaque tum illud quod erat a deo natum nomine ipsius dei nuncupabant, ut cum fruges Cererem appellamus, vinum autem Liberum ex quo illud Terentii: Sine Cerere et Libero friget Venus».
- Il testo delle citazioni latine, quale si trova nei due manoscritti, è diffusamente corrotto31: di qui la necessitá di ricostituirlo seguendo il testo di edizioni moderne delle opere latine a cui le citazioni appartengono. Ho lasciato soltanto un pavetque invece di timetque (pag. 199, Met., XIV, 62), e un robore invece di cortice (pag. 209, Met., X, 501). Più ampie giustificazioni di questo e di altri problemi che presenta il testo delle Chiose mi riprometto di darle in un prossimo articolo.
- ⁂
- L’Elegia fu composta dal Boccaccio a Firenze, verso il 1343, dopo l’Amorosa Visione, prima del Ninfale Fiesolano32. Non è forse casuale la coincidenza delle Chiose in quest’opera e nel Teseida. Il Boccaccio le doveva ritenere fra le opere più nobili da lui scritte; e in veritá è palese la preoccupazione del genere letterario tanto per il poema quanto per l’Elegia. Nel Teseida, alla fine dell’opera, il Boccaccio dichiara apertamente la sua ambizione:
- ma tu, o libro, primo a lor cantare
- di Marte fai gli affanni sostenuti,
- nel volgar lazio più mai non veduti;
- nell’Elegia la dichiarazione manca, ma è sottintesa nel tono che domina in tutta l’opera. Per il titolo si sará ricordato dell’Elegia sive miseria di Arrigo da Settimello, e delle parole di Dante nel De vulgari eloquentia (II, iv, 6): «per elegiam stilum intellegimus miserorum»33, ma il genere letterario ne esce rinnovato per l’influsso delle Eroidi ovidiane. È difficile dire quale fosse la consapevolezza del Boccaccio sullo stile della sua opera. A leggere il congedo al picciolo libretto, ove ci sono le parole: «E se forse alcuna donna delle tue parole rozzamente composte si maraviglia, di’ che quelle ne mandi via, però che li parlari ornati richieggiono gli animi chiari e li tempi sereni e tranquilli», si direbbe che egli fosse persuaso d’avere adoperato l’humile vulgare, come diceva Dante. Ma la realtá è ben diversa: nessun’altra opera del Boccaccio ha uno stile così meditato, sorvegliato, nobilitato dal principio alla fine. Al nuovo genere letterario egli sottopone la materia della sua esperienza amorosa con Fiammetta, della quale ora può scrivere con animo distaccato e con intendimento d’arte34.
- Firenze, Marzo 1939 - xvii.
- Vincenzo Pernicone.
- Note
- ↑ Questo è il titolo dato concordemente dalla tradizione manoscritta. Il titolo di Fiammetta apparve per la prima volta nell’edizione veneziana del 1491, e da allora fu ripetuto nelle edizioni successive.
- ↑ Cfr. F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, IV edizione, Bologna, 1884.
- ↑ Di tutte e tre queste edizioni c’è un esemplare presso il fondo Palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Marciana di Venezia (Rari, V. 701).
- ↑ Un esemplare si trova presso la Biblioteca Nazionale di Palermo (Rari, 411).
- ↑ In Firenze se ne trova un esemplare presso la Riccardiana, e un altro presso la Marucelliana.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Biblioteca Universitaria di Padova (54, a, 98).
- ↑ Dell’edizione del 1524. un esemplare si trova presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (XXI, E, 112); di quella del 1533, in Firenze, un esemplare presso la Nazionale (19. a. 7. 130), e un altro presso la Biblioteca della Facoltá di Lettere (fondo Bardi).
- ↑ Un esemplare si trova presso la Nazionale di Milano (25, 13, K, 8).
- ↑ Un altro passo che merita di essere segnalato è quello che nella nostra edizione, a pag. 110, si legge: «Per che quindi, come piú acconciamente potei, nella mia camera mi ricolsi». A messer Tizzone parve che qualche cosa mancasse, e aggiunse toltami dopo quindi, e infine completò coi) le parole: «acciò che di ciò niuno s’accorgesse».
- ↑ Cfr. G. Boccaccio, Teseida. Edizione critica per cura di S. Battaglia, «Autori classici e documenti di lingua pubblicati dalla R. Accademia della Crusca», Firenze, Sansoni, 1938, Introduzione, pag. xxxvii, ove si dá notizia di messer Tizzone, noto per La grammatica volgare trovata nelle opere di Francesco petrarca, di Giovan Boccaccio, di Cino da Pistoia, di Guitton da rezzo, pubblicata a Napoli, per Giovanni Sultzbach, nel 1538.
- ↑ Un esemplare si trova presso la Nazionale di Milano (SS, III, 31), e un altro nel fondo Nencini della Nazionale di Firenze.
- ↑ Dalla Giuntina infatti deriva il passo «i quali poi che alquanto hanno e la bellezza delle donne e le loro danze considerate, quelle commendando», che nella nostra edizione, a pag. 93, si legge: «li quali poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le loro danze». Le edizioni anteriori alla Giuntina concordano coi manoscritti nel mantenere il passo lacunoso, e cioè senza considerate, quelle commendando. Mirato della nostra edizione si trova in qualche codice, ma è congettura di copista (su questo passo si veda piú avanti).
- ↑ Un compromesso fra l’edizione Giuntina e quella di messer Tizzone fu tentato nel 1527 con l’edizione che porta il titolo: «Fiammetta | Amorosa | di M. Gio | vanni | Boc | catio | Nuovamente Ricorretta». L’opera è divisa in sette libri, ma preceduti dai sommari. Il testo segue prevalentemente la Giuntina e saltuariamente (nelle parti aggiunte e in molti passi apparentemente piú chiare) quella di messer Tizzone. L’edizione fu stampata a Venezia nel 1527 «per Francesco Bindoni e Mapheo Pasini». Un esemplare si trova presso il fondo Nencini della Nazionale di Firenze.
- ↑ Per la storia del testo non hanno nessuna importanza. Eccone l’elenco: Venezia, Giolito, 1545; 1546; 1551; 1558; 1562; Venezia, Cavalcalupo, 1564; Venezia, Giolito, 1565; Venezia, Angelieri, 1571; Venezia, Giolito, 1575; Venezia, Vidali, 1575; Venezia, Giolito, 1578; 1584; Venezia, Zoppino, 1584; Venezia, Giolito, 1585; Venezia, Bonfadio, 1586; Venezia, Giolito, 1586; 1589; Venezia, Farri, 1589. L’edizione Giolito 1558 si presenta con la novitá delle postille in margine (le postille non si trovano nell’edizione del 1545, ma sono incerto se erano giá nell’edizione del 1546 o in quella del 1551, perché non ho avuto possibilitá di vederle), consistenti in brevi cenni sugli argomenti trattati nelle varie pagine, e, qua e lá, anche in richiami culturali. Per esempio: «Tutte queste favole sono tocche da Ovidio nelle trasformazioni; Imita Virgilio nel quarto dell’Eneida; Queste parole sono poste dal Bembo negli Asolani; Il simile spiega il Petrarca in un sonetto leggiadramente; IL Boccaccio qui si dimostra non molto giudicioso; Di cui attende che ramante venga leggasi l’Ariosto; È forse il Boccaccio soverchio in raccontare tanti esempi; etc.». Nell’edizione 1558 non figura il nome dell’autore delle postille, ma è certo il Sansovino (cfr. De Sanctis, Storia della letteratura italiana), perché sue sono le postille del medesimo genere per YAmeto.
- ↑ Firenze, Giunti, 1596; Venezia, Bonfadio 1596; Venezia, Alberti, 1601; Venezia, Bisuccio, 1603; Paris, chez Abel l’Angelier, 1609 (traduzione col testo a fronte), Venezia, Perchacino, 1611; Venezia, 1620; Venezia, 1626; Firenze (Napoli), 1723-24 (Edizione delle opere del Boccaccio; furono pubblicati 6 volumi, nel terzo dei quali è La Fiammetta); Firenze, 1724; Parma, Amoretti, 1800 (Edizione dedicata a Sua Eccellenza D. Giuseppe Lopez de la Huerta, con una lettera di dedica in cui fra l’altro è detto che essendo divenuti rari i preziosi opuscoli del Boccaccio, si è creduto utile «multiplicare questi singolarissimi monumenti della toscana favella, rendendo un po’ piú familiare un cosí illustre maestro all’Italia, la quale in oggi ha corrotti i bei modi ingenui della sua lingua»); 1821.
- ↑ Leggo a pag. 91 del recentissimo volume dell’amico V. Branca, Linee di una storia detta critica al «Decameron» con Bibliografia boccaccesca completamente aggiornata, a proposito dell’edizione del Gigli: «È un’autorevole replica della Giuntina del 1517. con le varianti della Giuntina del 1524». Il Branca è caduto nell’equivoco provocato dalle confuse parole del Gigli nella Prefazione e che noi abbiamo riportato nella prima pagina della nostra Nota. L’edizione Giuntina del 1524 riproduce fedelmente quella del 1517, e quindi non è questione di varianti fra quelle due edizioni. Le varianti riportate dal Gigli, sono comuni a tutte e tre le Giuntine (1517; 1524; 1533).
- ↑ Cfr., per questo e per gli altri codici Laurenziani, A. M. Bandini, Catalogus codd. Biblioth, Medic. Laurent., Firenze, 1778, t. V.
- ↑ Cfr. S. Morpurgo, I codici Riccardiani descritti, Roma, 1883.
- ↑ Cfr. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, voll. VIII, IX, Forlí, 1898; L. Gentile, I codici Palatini descritti, vol. I, Roma, 1889; A. Bartoli, I codici Pancialichiani descritti, vol. I
- ↑ A. Cfr. Sorbelli, Inventari etc., vol. LXII.
- ↑ Cfr. A. Sorbelli, op. cit., vol. XLII.
- ↑ Cfr. G. Salvo-Cozzo, I codici Capponiani della Biblioteca Vaticana descritti, Roma, 1897.
- ↑ Cfr. C. Stornajolo, Codices Urbinates Latini, T. II, Roma, 1912.
- ↑ Cfr. C. Stornajolo, op. cit., T. III, Roma, 1921. — Un altro codice dell’Elegia si trova presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (Manoscritti Italiani, 987); Cfr. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia, 1886, vol. I, p. 174, e Marsand, I manoscritti italiani della R. Biblioteca Parigina descritti e illustrati, Parigi, 1835, vol. I, pag. 185.
- ↑ Mi preme giustificare qualche altro punto del testo: pag. 27: «...che lungamente non senza gravissimo...» (non è congetturale); pag. 34: «...la mia tristizia; all’altre...» (dopo tristizia, l’edizione Squarciafico, seguita dalla Giuntina e da quella di messer Tizzone, legge: nell’anima del suo amore giá cibata senza misura amando accesa; di questo passo non c’è traccia nei manoscritti ed è da ritenersi apocrifo); pag. 59: «...nella niente non essere per terra...» (non è congetturale); pag. 138: «...trattate dagli scedanti...» (la maggior parte dei manoscritti leggono scedali, ma qualcuno ha il segno dell’n, e l’ho accettato; scellerati è congettura di qualche codice, ma a me par certo che qui si tratti di scedanti, buffoni girovaghi); pag. 149: «Non so se infermitá o altro accidente...» (infermitá è congetturale; i codici leggono sanitá).
- ↑ Per la grafia seguo, in genere, i criteri adottati da S. Battaglia per il Filocolo in questa stessa collezione.
- ↑ Alcune delle nostre correzioni si trovano giá nel testo delle edizioni Fanfani, Gigli, e ne abbiamo giá detto il perché; ma l’elenco degli errori e degli arbitri che si trovano in tali edizioni e non in quella del Moutier, sarebbe di gran lunga molto piú nutrito.
- ↑ Edizione Battaglia, giá citata.
- ↑ Cfr. A. Hortis, Studi sulle opere latine del Boccaccio. Trieste, 1879, p. 392.
- ↑ La ricerca dei luoghi citati delle varie opere non è stata perciò molto facile. Per alcuni versi ho avuto il valido aiuto dell’amico W. Ferrari che ringrazio vivamente.
- ↑ L’Amorosa Visione è stata pubblicata in questa Collezione, insieme con le Rime e la Caccia di Diana, a cura di V. Branca; il Ninfale Fiesolano, insieme col Filostrato, a cura di V. Pernicone.
- ↑ È noto che nel medioevo elegia si faceva derivare da «eleyson» (cfr. il commento di A. Marigo al passo dantesco nella sua bella edizione del De vulgari eloquentia — opere di Dante, nuova edizione diretta da M. Barbi, vol. VI, Firenze, 1938-xvii —).
- ↑ L’Elegia merita uno studio approfondito che per ora manca. Fra le migliori pagine critiche si vedano quelle di N. Sapegno nel suo Trecento; per la parte stilistica, interessanti riferimenti si trovano nel volume di A. Schiaffini, Tradizione e Poesia, Genova, 1934; per la bibliografia aggiornata rimando al citato volume del Branca. Un saggio monografico sull’Elegia sta preparando per la sua tesi di laurea A. Roncaglia, allievo della Scuola Normale di Pisa.
- INDICE DEI NOMI
- Abidei, 129; Chiose:: 205.
- Abido, Chiose:: 204, 209.
- Acaia, Chiose:: 179.
- Achemenide, 59; Chiose:: 181.
- Achille, 22, 96; Chiose:: 182, 191, 192.
- Achimenia, Chiose:: 176.
- Acrissio (Acrisio), Chiose:: 177.
- Adone, 21, 74; Chiose:: 178.
- Adrasto, Chiose:: 190, 202, 210, 211.
- Adriana (Arianna), 22, 125, 126, 164; Chiose:: 196, 203.
- Aellopo, Chiose:: 197.
- Africa, Chiose:: 189, 209.
- Agamennone, 69, 96, 162; Chiose:: 174, 179, 191.
- Agenore, Chiose:: 173, 176.
- Aglauros, Chiose:: 205.
- Aiace, 96; Chiose:: 192.
- Alcmena (v. Almeno).
- Aletto, 119.
- Alfeo, 22; Chiose:: 179.
- Alighieri (v. Dante).
- Almena (Alcmena), 21, 148; Chiose:: 177, 191, 208.
- Amata, 129; Chiose:: 204.
- Ameto, 21; Chiose:: 176.
- Amilcare, Chiose:: 204.
- Amore, 17, 18, 22, 23, 24, 27, 29, 30, 31, 33, 40, 42, 50, 52, 53, 66, 73, 75, 80, 82, 88, 105, 113, 124, 125, 126, 132, 140, 158, 163, 166.
- Anchise, Chiose:: 186, 202.
- Anfione, 157.
- Anfitrione, 21, 148; Chiose:: 177, 208.
- Annibaie, 129; Chiose:: 205.
- Anteo, 21; Chiose:: 178.
- Antigone, Chiose:: 183.
- Antonio, 161; Chiose:: 189.
- Apollo, 42 (il sole), 117, 121, 143; Chiose:: 192, 197.
- Arcadia, Chiose:: 177, 185.
- Arcas, Chiose:: 177, 198.
- Archemoro, 162; Chiose:: 202.
- Aretusa, Chiose:: 179.
- Argia, 155; Chiose:: 201, 211.
- Argo, 77, 152; Chiose:: 185, 208.
- Arianna (v. Adriana).
- Ariete, 105; Chiose:: 194.
- Arpie, 120; Chiose:: 197.
- Arturo, 20; Chiose:: 175.
- Arunte, 52; Chiose:: 181.
- Ascanio, 24, 95; Chiose:: 190.
- Atalanta (madre di Partenopeo), 162, 163; Chiose:: 190.
- Atalanta (figlia di Ceneo), 70, Chiose:: 184.
- Atamante, m; Chiose:: 195.
- Atene, 125; Chiose:: 196.
- Atlante, 22.
- Atreo, 7, 69; Chiose:: 174, 191.
- Atropos, 132; Chiose:: 203.
- Atteone, 42.
- Attica, Chiose:: 191.
- Ausonico (regno), 93.
- Averno, 78.
- Babillonia, Chiose:: 179, 188, 193.
- Bacco, 89, 101, 126, 139, 164; Chiose:: 177, 187, 194, 203, 207.
- Baia, 78.
- Beozia (v. Boezia).
- Barbaro (monte), 78.
- Belo, Chiose:: 183.
- Biblis, 23, 129, 152, 153; Chiose::
- 180, 204, 208.
- Birria, 24.
- Boezia (Beozia), Chiose:: 173, 175.
- Borea, 139; Chiose:: 207.
- Cadmo, 5; Chiose:: 173, 176, 195.
- Calisto, 21; Chiose:: 177, 198.
- Canace, 23, 152; Chiose:: 209.
- Cancro, 50.
- Caos, 120.
- Capaneo, Chiose:: 211.
- Capricorno, 50.
- Cariddi, 121; Chiose:: 199.
- Cartagine, 153; Chiose:: 205, 210.
- Caspie (rupi), 116.
- Cassandra, 117; Chiose:: 197.
- Castore, Chiose:: 176.
- Catone (cens.), 95; Chiose:: 190.
- Catone (utic.), 95, 160; Chiose:: 190.
- Cauno, 152, 153; Chiose:: 180, 204, 208.
- Cefiso, Chiose:: 183.
- Celeno, Chiose:: 197.
- Ceneo, Chiose:: 184.
- Cerbero, 21 («lo ’nfernale cane»); Chiose:: 178.
- Cerere, 42, 100, 140; Chiose:: 173, 1S0, 194.
- Cesare, 160, 161; Chiose:: 180, i8r, 189.
- Cesarione, Chiose:: 189.
- Chirone, Chiose:: 182.
- Ciana, Chiose:: 180.
- Cibele, Chiose:: 184.
- Cicerone (Tullio); Chiose:: 190.
- Cicilia (Sicilia), Chiose:: 173, 181.
- Cinara (Ciniro), Chiose:: 178, 209.
- Cincinnato, 95; Chiose:: 190.
- Cipri, Chiose:: 189.
- Circe, 127; Chiose:: 176, 196, 198.
- Ciro, 162.
- Cleopatras, 23, 93, 156, 160; Chiose:: 180, 189.
- Climenes, 21; Chiose:: 175, 195.
- Clitennestra, 22, 69; Chiose:: 179, 191.
- Clitie, Chiose:: 176.
- doto, 128; Chiose:: 203.
- Colcos, Chiose:: 199.
- Corinto, Chiose:: 196.
- Cornelia, 156, 160.
- Crasso, 160.
- Creonte, Chiose:: 2x1.
- Creso, 162.
- Creti, 125; Chiose:: 176, 178, 1S0, 203.
- Creusa, 164.
- Cumana sibilla, 78.
- Cume (Cuma), 78; Chiose:: 186.
- Cupido, 80, 98 (il «biforme figliuolo» di Venere), 100, 143 (il «santo fanciullo»); Chiose:: 175, 188, 193.
- Dafne (v. Danne).
- Danae, 21; Chiose:: 177.
- Danaidi, 69 (le figliuole di Danao), 123; Chiose:: 183, 201.
- Danao, 69, 123; Chiose:: 183.
- Danne (Dafne), 21; Chiose:: 175, 188.
- Daniello, 95.
- Dante (Alighieri), Chiose:: 173, 188.
- Dario, 162.
- Dedalo, 121; Chiose:: 199.
- Deianira, 127, 156; Chiose:: 203, 211.
- Deidamia, 64; Chiose:: 182.
- Deifile, 155; Chiose:: 210, 211.
- Deifebo, 95, 158; Chiose:: 191.
- Demofonte, 127, 130; Chiose:: 203, 205.
- Deucalione, Chiose:: 188.
- Diana, 21, 42, 81; Chiose:: 177, 179, 198, 206.
- Didone, 22, 24, 82 (Dido), 93, 153 (Dido); Chiose:: 204, 210.
- Diomedes, 64, 96; Chiose:: 182.
- Dionisio, 162.
- Dite, 77, 120; Chiose:: 197.
- Driadi, 98; Chiose:: 193.
- Driope, 139.
- Eaco, Chiose:: 191, 192.
- Ecate, 138; Chiose:: 206.
- Eco, Chiose:: 184.
- Ecuba, 156, 158; Chiose:: 187.
- Edippo, 66; Chiose:: 182, 190.
- Egeo (padre di Teseo), 1 26; Chiose:: 202.
- Egisto, 22.
- Egitto, 152, 160; Chiose:: 180, 186, 188.
- Egizii, Chiose:: 180.
- Elena, 22, 93, 109 («la greca donna»), 120 (la «greca donna»), 125; Chiose:: 176, 191, 194, 193.
- Elissa (v. Bidone), 128, 129; Chiose:: 204.
- Enea, 154; Chiose:: 181, 185, 186, 190, 196, 202, 204, 210.
- Eneo, Chiose:: 210.
- Enone (v. Oenone).
- Eolo, 120, 163; Chiose:: 185, 209.
- Ercule, 21 («figliuolo di Almena»), 95, 127; Chiose:: 177, 178, 191, 192, 203, 211.
- Erisitone, 42, 130; Chiose:: 180.
- Ero, 59, 120, 154; Chiose:: 210.
- Erse, Chiose:: 205.
- Esone, 36.
- Esperia, 20; Chiose:: 175.
- Essiona (Esione), Chiose:: 192.
- Espero, 142; Chiose:: 207.
- Etiocle, Chiose:: 183, 190, 210.
- Etna, Chiose:: 173, 181.
- Etruria, 43.
- Ettore, 23, 96, 158; Chiose:: 185, 191.
- Euridice, 7; Chiose:: 173, 192.
- Eurimene, Chiose:: 176.
- Europa (figlia di Cadmo), 21 (per lei Giove si trasforma in «giovenco»), 139; Chiose:: 173, 176, 206.
- Evannes, 155; Chiose:: 211.
- Falerno (monte), 78.
- Fauni, 98; Chiose:: 193.
- Fato, io, 128.
- Febea, 53, 142; Chiose:: 208.
- Febo, 20, 23, 66, 89, 139 (il sole); Chiose:: 175, 176, 177, 186, 187, 188, 194.
- Fedra, 23, 125, 155, 164; Chiose:: I96, 203, 2J0.
- Fenice (figliuola di Niteo), Chiose:: 179.
- Fenice (figlio di Agenore), Chiose:: 173. 176.
- Fenissa (Didone), Chiose:: 204.
- Fetone (Fetonte), 108 («il presuntuoso figliuolo»), 139; Chiose:: 175. 194, 207.
- Fetusa, Chiose:: 207.
- Fiammetta, 26, 40, 41, 58, 66, 75, 90, 103, 104, 106, 119, 131, 133, 142, 144; Chiose:: 174, 194, 205, 206, 208.
- Filis (Filli), 127, 130; Chiose:: 203, 205.
- Filippo Macedonico, 129; Chiose:: 205.
- Firenze, 37 (la cittá «piena di voci pompose...»), 49 (la cittá «piena di templi eccellentissimi»), 143 (la piú nobile cittá d’Etruria). Fitone, 20, 66; Chiose:: 175, 188.
- Foci, Chiose:: 183.
- Fortuna, 87-90, 143; Chiose:: 187.
- Galatea, Chiose:: 198.
- Gange, 20, 121; Chiose:: 175.
- Ganimede, 95.
- Geta, 24.
- Giasone, 23, 126, 164; Chiose:: 192, 199, 201.
- Giganti, 21.
- Giocasta. 156, 158; Chiose:: 1 82, Giove, 21, 23, 40, 43, 66, 99, 106, 116, 126, 128, 143, 152; Chiose:: 173, 176, 177, 185, 190, 194, 198, 207, 208, 211.
- Giugurta, 162.
- Giunone, 23, 25, 42, 116, 152, 153; Chiose:: 174, 175, 177, 178, 185, 194. 197. 199, 208.
- Glauco, 22; Chiose:: 198.
- Grecia, 157; Chiose:: 179, 190, 194.
- Greci, 7, 94; Chiose:: 181, 182.
- Iante, Chiose:: 180, 181.
- Iapece, Chiose:: 207.
- Icaro, 141; Chiose:: 199, 208.
- Ida (monte), 8, 109, 125; Chiose:: 174.
- Ifi, Chiose:: 181.
- Inaco, 152; Chiose:: 185, 208,
- Ino, 130; Chiose:: 194.
- Io, 152 (la «figliuola d’Inaco»); Chiose:: 185, 208.
- Iole, 21, 22, 127; Chiose:: 203, 211.
- Ionio (mare), 121.
- Ipermestra, Chiose:: 183.
- Ipolita, Chiose:: 196.
- Ipolito, 116; Chiose:: 19 6, 203, 210.
- Ipomenes, 71; Chiose:: 184.
- Iside, 43; Chiose:: 181, 185.
- Isifile, 125, 163, 164; Chiose:: 201.
- Ismene, Chiose:: 183.
- Isotta, 155.
- Issione, 123; Chiose:: 201.
- Istro, 121.
- Italia, 160; Chiose:: 181, 185, 186, 197, 203.
- Italici, 94.
- Iuba, Chiose:: 189.
- Iustino, Chiose:: 189, 193, 209.
- Laberinto, Chiose:: 199.
- Lachesis, 5, 128, 132; Chiose:: 173, 203.
- Laio, 156; Chiose:: 182.
- Lapiti, Chiose:: 179.
- Latino (re), Chiose:: 204.
- Latona, Chiose:: 175.
- Laudomia, 47, 155; Chiose:: 191,2x0.
- Laurento, Chiose:: 204.
- Lavinia, Chiose:: 204.
- Leandro, 22, 59, 120 (il «giovane abideo»), 154; Chiose:: 210.
- Learco, Chiose:: 195.
- Leda, 21 (per lei Giove si trasforma in «candido uccello»); Chiose:: 176.
- Lelio, Chiose:: 190.
- Lemnos, 125; Chiose:: 201.
- Lesbo, 160.
- Leucotoe, 21; Chiose:: 176, 195.
- Libia, Chiose:: 178.
- Licaone, Chiose:: 177.
- Licurgo, 162, 163; Chiose:: 202,203.
- Ligdo, Chiose:: 180.
- Lino, Chiose:: 183.
- Liriope, Chiose:: 183.
- Lissa, 24.
- Livio (Tito), Chiose:: 204, 205.
- Lombardia, Chiose:: 207.
- Lucano, Chiose:: 181, 193.
- Lucani (monti), 52.
- Lucca, Chiose:: 181.
- Luna, 52-53.
- Luni, Chiose:: 181.
- Macareo, Chiose:: 209.
- Maia, Chiose:: 205.
- Manto, Chiose:: 184.
- Mantova, Chiose:: 184.
- Marte, 21 («il fiero iddio delle armi»), 101; Chiose:: 177.
- Massinissa, 159.
- Medea, 36, 121, 125, 126, 163, 164; Chiose:: 199, 202, 206.
- Medusa, Chiose:: 177.
- Megareo, Chiose, 184.
- Megera, 119, 131.
- Menelao, 96; Chiose:: 174, 191, 195.
- Melicerte, 130; Chiose:: 195.
- Mercurio, 132; Chiose:: 186, 205 206.
- Mida, 89; Chiose:: 187.
- Mileto, Chiose:: 179.
- Minerva, 9.
- Minos, Chiose:: 179, 196, 199, 203.
- Minotauro, Chiose:: 196, 199, 203.
- Mirra, 23, 152; Chiose:: 178, 209.
- Miseno, 78; Chiose:: 185.
- Naiadi, 98; Chiose:: 193.
- Napoli (v. Partenope ), 38 (la citta «pacifica... sotto ad un solo re»). Narciso, 70, 139; Chiose:: 183, 207.
- Nemea (selva), Chiose:: 178.
- Nerone, 78.
- Nesso, Chiose:: 211.
- Nettuno, 22, 163; Chiose:: 179, 195.
- Nilo, Chiose:: 180, 186.
- Ninfe, 98; Chiose:: 193.
- Nisida, 78.
- Niso (padre di Siila), Chiose:: 179.
- Niteo, Chiose:: 179.
- Nubi, Chiose:: 186.
- Numidi, 159.
- Occipite, Chiose:: 197.
- Oenone (Enone), 109, 125, 164; Chiose:: 195, 202.
- Oete, Chiose:: 199.
- Omero, 94; Chiose:: 181.
- Orcamo, Chiose:: 176.
- Orfeo, 97; Chiose:: 173, 192.
- Orsa (celestiale), 53, 121; Chiose:: 198.
- Orsa maggiore, Chiose:: 177, 198.
- Orsa minore, Chiose:: 177, 198.
- Osiri, 152; Chiose:: 208.
- Ottaviano, Chiose:: 189.
- Ovidio, 47; Chiose:: 176, 178, 180, 182, 184, 186, 187, 188, 189, 191, 195, 196, 198, 199, 200, 202, 203, 204, 205, 207, 208, 209, 210, 212.
- Palemone, Chiose:: 195.
- Pallas (Pallade), Chiose:: 174.
- Pan, Chiose:: 188.
- Pandroso, Chiose:: 205.
- Panfilo, 26, 36, 40, 41, 43, 46, 48, 49. So, Si, 52, 53, 54, 56, 57, 58, 61, 64, 65, 66, 67, 68, 70, 71, 72, 73, 74, 77, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 89, 91, 93, 94, 96, 97, 101, 103, 105, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 114, 116, 118, 119, 128, 130, 132, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 149, 150, 152, 154, 158, 161, 165; Chiose:: 174, 194, 208.
- Paris, 8, 22, 96, 120 (il «giudice d’Ida»), 125; Chiose:: 174, 176, 194, 195, 202.
- Parnaso, 20; Chiose:: 175.
- Partenope, 11.
- Partenopeo, 95, 162; Chiose:: 190.
- Pasife, 23; Chiose:: 198.
- Pattalo (fiume), Chiose:: 188.
- Pelleo (Peleo), Chiose:: 191, 192.
- Pelope, Chiose:: 200.
- Penelope, 127; Chiose:: 196.
- Peneo, Chiose:: 175, 188.
- Peritoo, Chiose:: 196.
- Pernice (Perdice), 130.
- Perseo, Chiose:: 177.
- Persio, 162.
- Pignaleone, Chiose:: 2io.
- Piramo, 153; Chiose:: 209.
- Pirra, Chiose:: 188.
- Pirro (re dell’Epiro), 162.
- Pirro (figlio di Achille), 96, 159; Chiose:: 182, 192.
- Piscine (le), 78.
- Pittaguse, 78.
- Pitone (v. Fifone).
- Pluto, 7, 78 (Plutone); Chiose:: 173.
- Po (fiume), Chiose; 207.
- Polibo, Chiose:: 183.
- Polidoro, 158.
- Polifemo, Chiose:: 181, 198.
- Polissena (v. Pulissena).
- Pollinice, Chiose:: 183, 201, 210.
- Polluce, Chiose:: 176.
- Pompeo Magno, 95, 160; Chiose::
- 180, 181, 189.
- Porzia, 130.
- Pozzuolo, 78.
- Priamo, 93; Chiose:: 191, 192, 195, 209.
- Progne, no.
- Proserpina, 7; Chiose:: 173, 178.
- Protesilao, 47, 96; Chiose:: 191,210.
- Prusia, Chiose:: 205.
- Pulissena, 93, 159.
- Rodope, Chiose:: 202.
- Roma, 140, 160; Chiose:: 181, 190, 197, 204, 205, 210.
- Romani, Chiose:: 205.
- Saguntini, 129; Chiose:: 203.
- Sagunto, Chiose:: 204.
- Sardanapallo, 100; Chiose:: 193.
- Satiri, 98; Chiose:: 193.
- Saturno, 99.
- Scevola, 95; Chiose:: 190.
- Schiros (Sciro), Chiose:: 182.
- Scilla (v. Siila).
- Scipione (Africano), 95; Chiose:: 190.
- Scorpione, Chiose:: 194.
- Semelé, 21, 25, 42; Chiose:: 177, 195, 207.
- Semiramis, 23, 93, 100; Chiose:: 179, 189, 193.
- Seneca, Chiose:: 178, 182, 187, 196, 202.
- Sesto, 154.
- Sibilla, 78; Chiose:: 186.
- Sicheo, Chiose:: 2 io.
- Sidonia, Chiose:: 173, 210.
- Siface, 159.
- Silla (Scilla, figliuola di Forco), 121; Chiose:: 198.
- Silla (Scilla, figliuola di Niso), 22; Chiose:: 179.
- Silleno (Sileno), Chiose:: 187.
- Socrate, 129; Chiose:: 205.
- Sofonisba, 129, 156, 159.
- Sole, Chiose:: 196, 197.
- Sonno, 76, 77; Chiose:: 185.
- Spagna (Esperia), Chiose:: 175, 203.
- Spurinna, 105; Chiose:: 194.
- Stazio, Chiose:: 182, 183, 201, 210.
- Stige, 120; Chiose:: 197.
- Strofade, Chiose:: 197.
- Susanna, 95 (ma cfr. Nota, pp. 242-243 ).
- Talamone, Chiose:: 192.
- Tamiris, 162.
- Tantalo, 123; Chiose:: 174, 200.
- Teatro, 78.
- Tebani, 157.
- Tebe, 95; Chiose:: 175, 190, 195, 201, 210, 211.
- Teletusa, 43; Chiose:: 180.
- Terenzio, Chiose:: 194.
- Tereo, 162.
- Teseo, 23, 125, 126, 164; Chiose:: 178, 196, 198, 202, 203, 210, 211.
- Tesifone, 25, 119, 132, 133.
- Tessaglia, 125, 160; Chiose:: 176, 179, 180, 181, 190.
- Tetis, Chiose:: 182.
- Tideo, Chiose:: 210.
- Tieste, 162; Chiose:: 174.
- Tiresia, Chiose:: 184.
- Tisbe, 153; Chiose:: 209.
- Tizio, 123; Chiose:: 200.
- Toante, Chiose:: 201.
- Tolomeo, Chiose:: 180, 189.
- Toro, 139; Chiose:: 206 (Tauro).
- Tracia, Chiose:: 191.
- Tristano, 155.
- Trivia, Chiose:: 206.
- Trogo (Pompeo), Chiose:: 193.
- Troia, 125, 159; Chiose:: 174, 178, 181, 182, 185, 190, 191, 192, 194,
- 195, 209, 210.
- Troiani, 94.
- Troiolo, 158.
- Turno, Chiose:: 204.
- Ulisse, 23, 64, 96, 127, 163; Chiose:: 181, 182, 196.
- Utica, Chiose:: 189.
- Valerio (Massimo), Chiose:: 194.
- Venere, 9, 17, 18, 19 (la «bellissima donna» apparsa a Fiammetta), 25, 29 («la santa dea»), 31, 74, 76, 79, 86, 90, 93, 98, 99, 100, 111, 126, 143; Chiose:: 174, 177» 178, 180, 184, 189, 193, i9S.
- Virbio (Ipolito), Chiose:: 196.
- Virgilio, 94, 95; Chiose:: 181, 186, 191, 192, 193, 197, 202, 204, 210.
- Vulcano, 21 («fabbro di Giove»); Chiose:: 177.
- Zefiro, 139; Chiose:: 207.
- Zodiaco, Chiose:: 194.
- * * *
- INDICE
- Prologo
- Capitolo I
- Nel quale la donna descrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella s’innamorasse, col seguito diletto.
- Capitolo II
- Nel quale madonna Fiammetta descrive la cagione del dipartire del suo amante da lei, e la partita di lui, e ’l dolore che a lei ne seguitò nel partire.
- Capitolo III
- Nel quale si dimostra clienti e quali fossero di questa donna i pensieri e l’opere, trascorrendo il tempo a lei dal suo amante promesso di ritornare.
- Capitolo IV
- Nel quale questa donna dimostra quali pensieri e che vita fosse la sua essendo il termine venuto, e Panfilo suo non veniva.
- Capitolo V
- Nel quale la Fiammetta dimostra come alli suoi orecchi pervenne Panfilo aver presa moglie, mostrando appresso quanto del suo non tornare disperata e dolorosa vivesse.
- Capitolo VI
- Nel quale madonna Fiammetta, avendo sentito Panfilo non aver moglie presa, ma d’altra donna essere innamorato, e però noti tornare, dimostra come ad ultima disperazione, volendosi uccidere, ne venisse.
- Capitolo VII
- Nel quale madonna Fiammetta dimostra come, essendo un altro Panfilo, non il suo, tornato lá dove ella era, ed essendole detto, prese vana letizia, e ultimamente, ritrovando lui non esser desso, nella prima tristizia si ritornò
- . Capitolo VIII
- Nel quale madonna Fiammetta le pene sue con quelle di molte antiche donne commensurando, le sue maggiori dimostra, e poi finalmente a’ suoi lamenti conchiude.
- Capitolo IX
- Nel quale madonna Fiammetta parla al libro suo, imponendogli in che abito e quando e a cui egli debba andare, e da cui guardarsi; e fa fine.
- Chiose
- Nota
- Indice dei nomi
- * * *
- finito di stampare
- il 15 aprile 1939 - xvii
- nello stabilimento d’arti grafiche
- gius. laterza & figli in bari
- (87678)
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- * * *
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