- Filocolo
- Giovanni Boccaccio
- 1336
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- Indice
- Libro Primo 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
- 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
- 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
- 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
- 41 42 43 44 45
- Libro secondo 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
- 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
- 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
- 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
- 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50
- 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60
- 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70
- 71 72 73 74 75 76
- Libro Terzo 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
- 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
- 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
- 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
- 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50
- 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60
- 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70
- 71 72 73 74 75 76
- Libro quarto 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
- 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
- 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
- 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
- 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50
- 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60
- 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70
- 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80
- 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90
- 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100
- 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110
- 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120
- 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130
- 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140
- 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150
- 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160
- 161 162 163 164 165
- Libro quinto 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
- 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
- 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
- 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
- 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50
- 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60
- 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70
- 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80
- 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90
- 91 92 93 94 95 96 97
- Mancate già tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la quale la morte della pattovita Didone cartaginese non avea voluta inulta dimenticare e all’altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli antichi peccati de’ padri sostenere a’ figliuoli aspra gravezza, possedendo la loro città, la cui virtù già l’universe nazioni si sottomise, sentì che quasi nelle streme parti dello ausonico corno ancora un picciolo ramo della ingrata progenie era rimaso, il quale s’ingegnava di rinverdire le già seccate radici del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di ridurcelo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori avea altra volta abbattuta con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli occhiuti uccelli, davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei tenea il santo uficio, e così disse: - O tu, il quale alla somma degnità se’ indegno pervenuto, qual negligenza t’ha messo in non calere della prosperità dei nostri avversarii? quale oscurità t’ha gli occhi, che più debbono vedere, occupati? levati su: e però che a te è sconvenevole a guidare l’armi di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra lo inutile ramo, le cui radici già è gran tempo furono secche, dimorano, e in maniera che di loro mai più ricordo non sia. Intra ’l ponente e i regni di Borrea sono fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso dell’antico sangue di colui che già i tuoi antecessori liberò dalla canina rabbia de’ longobardi, loro rendendo vinti con più altri nimici alla nostra potenza. Chiama costui però che noi gli abbiamo quasi l’ultima parte delle nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io gli farò li fauni e’ satiri e le ninfe graziose ne’ suoi affanni: Nettunno e Eolo disiderano di servirmi; e Marte a’ miei prieghi vigorosamente l’aiuterà; e il nostro Giove è di tutte queste cose contento, però c’ha preso isdegno, veggendo a gente portare per insegna quello uccello nella cui forma già molte volte si mostrò a’ mondani, che più a’ sacrifici di Priapo intendono che a governare la figliuola d’Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le infernali furie un’altra volta gli abondevoli regni in suo servigio, come già feci quando ne’ paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruinazione non permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse perdono, e ancora però che sentiva che di lui dovea discendere lo edificatore di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai, sanza più porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani -. E detto questo, si partì, discendendo a’ tenebrosi regni di Pluto; e con lamentevole voce chiamata Aletto, disse: - A te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti de’ discendenti di colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza del tutto sturbare che negli italici regni smisurate forze non prendesse: ma ciò fu nel principio delle loro prosperità; ma questo fia nell’ultima parte delle loro avversità, la quale ultima parte la loro fama spegnerà nel mondo -. E questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni, udendo tale novella si dolfero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare: ma al volere della santa dea non si potea resistere. Però Aletto, lasciati quelli tornò agli altri, i quali ella già a crudeli battaglie aveva commossi, e quivi gli animi de’ più possenti impregnò di volontà iniqua contra ’l principale signore, mostrando loro come venereamente le loro matrimoniali letta avea violate; e così, pregni d’iniquo volere e d’ira mormorando, gli lasciò focosi, ritornandosi donde partita s’era. Il vicario di Giunone sanza indugio chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a’ suoi servigi, il quale allora signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in tale servigio con le loro forze si mettesse; e ultimamente gli promise d’ornare la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maladetta pianta del tutto n’estirpasse. Non fece il valoroso giovane disdetta a sì fatta impresa, ma, disideroso di dare a sé e a’ suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con vigorose forze alla mirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e con gli promessi aiuti la recò a fine, posando il suo solio negli adimandati regni avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuova progenie generata, stato per alquanto spazio, rendeo l’anima a Dio. Quegli che dopo lui rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra’ quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituto, rimase integramente con l’aiuto di Pallade reggendo ciò che da’ suoi predecessori gli fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenza pervenisse, costui, preso del piacere d’una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei una bellissima figliuola; ben che volendo di sé e della giovane donna servare l’onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d’altro padre teneramente la nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento che avvenne per l’ardito gusto della prima madre. Questa giovane, come in tempo crescendo procedea, così di mirabile virtù e bellezza s’adornava, patrizzando così eziandio ne’ costumi, come nell’altre cose facea; e per le sue notabili bellezze e opere virtuose più volte facea pensare a molti che non d’uomo ma di Dio figliuola stata fosse. Avvenne che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo già Febo co’ suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi ritrovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificare sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata; e quivi con canto pieno di dolce melodia ascoltava l’uficio che in tale giorno si canta, celebrato da’ sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente essaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e già essendo, secondo che ’l mio intelletto estimava, la quarta ora del giorno sopra l’orientale orizonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza della prescritta giovane, venuta in quel luogo a udire quello ch’io attentamente udiva: la quale sì tosto com’io ebbi veduta, il cuore cominciò sì forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondea per li menomi polsi del corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che egli già s’imaginava che avvenire gli dovea per la nuova vista, incominciai a dire: - Oimè, che è questo? -; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo alquanto spazio rassicurato, un poco presi ardire, e intentivamente cominciai a rimirare ne’ begli occhi dell’adorna giovane; ne’ quali io vidi dopo lungo guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, cui lungamente a mia stanza avea risparmiato, fece tornare disideroso d’essergli per così bella donna suggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, così cominciai a dire: - Valoroso signore, alle cui forze non poterono resistere gl’iddii, io ti ringrazio, però che tu hai dinanzi agli occhi miei posta la mia beatitudine: e già il freddo cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che tu, mediante la virtù de’ begli occhi ove sì pietoso dimori, entri in me con la tua deitade. Io non ti posso più fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e divoto mi sottometto a’ tuoi piaceri -. Io non avea dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna sintillando guardarono ne’ miei con aguta luce, per la quale luce una focosa saetta, d’oro al mio parere, vidi venire, e quella, per li miei occhi passando, percosse sì forte il cuore del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo tremore ancora trema; e in esso entrata, v’accese una fiamma, secondo il mio avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell’anima ha rivolto a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di quindi col piagato cuore partito mi fui, e sospirato ebbi più giorni per la nuova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de’ celestiali uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri vestimenti vestite, cultivavano tiepidi fuochi divotamente; là dove io giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio cuore stare con festevole e allegro ragionamento, nel quale ragionamento io e alcuno compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d’un ragionamento in un altro, dopo molti venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice, grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali udendo la gentilissima donna, sanza comparazione le piacquero, e con amorevole atto inver di me rivolta, lieta, così incominciò a parlare: - Certo grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla grande costanza de’ loro animi, i quali in uno volere per l’amorosa forza sempre furono fermi servandosi debita fede, a non essere con debita ricordanza la loro fama essaltata da’ versi d’alcun poeta, ma lasciata solamente ne’ fabulosi parlari degli ignoranti. Ond’io, non meno vaga di potere dire ch’io sia stata cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de’ loro casi, ti priego che per quella virtù che fu negli occhi miei il primo giorno che tu mi vedesti e a me per amorosa forza t’obligasti, che tu affanni in comporre un picciolo libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, lo ’nnamoramento e gli accidenti de’ detti due infino alla loro fine interamente si contenga -. E questo detto, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole procedenti dalla graziosa bocca, e pensando che mai, cioè infino a questo giorno, di niuna cosa era stato dalla nobilissima donna pregato, il suo priego in luogo di comandamento mi riputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de’ miei disii, e così risposi: - Valorosa donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi stringe sì, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quello che detto avete sarà fornito -. Benignamente mi ringraziò, e io, costretto più da ragione che da volontà, col piacere di lei di quel luogo mi partii, e sanza niuno indugio cominciai a pensare di voler mettere ad essecuzione quello che promesso aveva. Ma però che, come di sopra è detto, insofficiente mi sento sanza la tua grazia, o donatore di tutti i beni, ad impetrar quella quanto più posso divoto ricorro, supplicandoti, con quella umiltà che più può fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora nelle sante leggi de’ tuoi successori spendo il tempo mio, che tu sostenghi la mia non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa volontà sanza alcun freno in cosa la quale fosse meno che degna essaltatrice del tuo onore, ma moderatamente in etterna laude del tuo nome la guida, o sommo Giove.
- Adunque, o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a’ venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti disiosi di pervenire a porto di salute con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che divotamente prestiate alquanto alla presente opera lo ’ntelletto, però che voi in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie permutazioni e tempestose, alle quali poi con tranquillo mare s’è lieta rivolta a’ sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non essere sostenitori primi delle avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi. Di che prendere potrete consolazione, se quello è vero, che a’ miseri sia sollazzo d’avere compagni nelle pene; e similemente ve ne seguirà speranza di guiderdone, la quale non verrà sanza alleggiamento delle vostre pene. E voi, giovinette amorose, le quali ne’ vostri dilicati petti portate l’ardenti fiamme d’amore più occulte, porgete le vostre orecchi con non mutabile intendimento a’ nuovi versi: li quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell’antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell’animo alcuna durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dello innamorato Florio e della sua Biancifiore, li quali vi fieno graziosi molto. E, udendoli, potrete sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua mente, sanza porgere a molti vano intendimento, però che molte volte si perde l’un per l’altro, e suolsi dire che chi due lepri caccia, talvolta piglia l’una e spesso non niuna. Dunque apprendete d’amare uno solo, il quale ami voi perfettamente, sì come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose, o voi, giovani e donzelle, generano ne’ vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere divote laudi a Giove e al nuovo autore.
- Quello eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de’ celestiali regni posseditore, tiene la imperiale corona e lo scettro, per la sua ineffabile providenza avendo a sé fatti cari fratelli e compagni a possedere il suo regno molti, conosceo lo iniquo volere di Pluto, il quale più grazioso e maggiore degli altri avea creato, che già pensava di volere il dominio maggiore che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua parte a lui e a’ suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circundata dalli stigi paduli, e loro etterno essilio segnò dal suo lieto regno; e provide di nuova generazione volere riempiere l’abandonate sedie, e con le propie mani formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo Pluto, dolente che strana prole fosse apparecchiata per andare ad abitare il suo natale sito, del quale elli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di far sì che le nuove creature da quella abitazione facesse essiliare; e con sottile inganno la sua imaginazione mise in effetto, e del santo giardino voltò le prime creature, le quali per suo consiglio il precetto del loro creatore miserabilemente prevaricarono, e seguentemente loro con tutti li loro discendenti rivolse alle sue case, e rallegrandosi d’avere per sottigliezza annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede questa ingiuria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietà inver di coloro che stoltamente s’aveano lasciato ingannare e che stavano ne’ tenebrosi luoghi rinchiusi, allora miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò in terra da’ celestiali regni, e disse: - Va, e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stata così lunga carcere, e appresso te lascia in terra sì fatte armi, che gli altri futuri, a’ quali ella ancora non s’è mostrata, prendendole, si possano valorosamente difendere dalle false insidie e occulte di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento nuove folgori, le quali, tu gittando, dimostrino quanta sia la nostra potenza, come già feciono -. Scese al comandamento del suo Padre l’unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a sostenere per noi la iniqua percossa d’Antropos, apportatore delle nuove armi, in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio come negli altri uomini. La terra, come sentì il nuovo carico della deità del figliuolo di Giove, diede per diverse parti della sua circunferenza allegri e manifesti segni di futura vittoria agli abitanti; e egli, già in età ferma pervenuto, cominciò a riempiere la terra delle aportate armi e a fare avedere coloro, che con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno, porto dall’antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riaveano, così delle nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti la verità moveano varie battaglie e molte; e verso loro alcuno che volesse non si trovava potere resistere, però che sanza cura d’affanno e di corporale morte gli trovavano. E già delle vittorie de’ nuovi cavalieri entrati contra Pluto in campo, tutto l’oriente ne risonava; ma ancora le loro magnifiche opere l’occidente non sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti prigionieri l’antica Dite, e essendo al suo padre ritornato, e mandato a’ prencipi de’ suoi cavalieri lo ’mpromesso dono del santo ardore, volendo che l’ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de’ suddetti prencipi, quello che più forte gli parve a potere resistere alle infinite insidie che ricevere dovea, e sopra l’onde di Speria trasportare il fece a un notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della somma deità, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi rivestì. Ma poi, dopo molto combattere, trovata più resistente schiera sanza volgere viso o sanza alcuna paura l’ultimo colpo d’Antropos umile e divoto sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e gloriosa anima. I cui seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in notabile luogo reverentemente le sepelliro non sanza molte lagrime. E ad etterna memoria di così fatto prencipe, poco lontano all’ultime onde d’occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio, il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. E esso, giusto essauditore, non fu tanto nella sua vita valoroso resistente a’ difenditori della falsa oppinione, quanto dopo il suo ultimo dì fu molto più grazioso conservatore de’ suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio essaudendo le debite orazioni, mirabili cose facea, onde la fama dell’occidentale Iddio risonava per l’universo. Certo ella passò in brieve tempo le calde onde dello orientale Ganges, e nelle boglienti arene di Libia fu manifesta, e dagli abitanti nelle ghiacciate nevi d’Aquilone fu saputa, però che egli non porgea risponsi, come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere operazioni ne’ bisogni soccorrea e soccorre i divoti domandatori: e per questo più la santa fama per il mondo risuona.
- Suona adunque la gran fama per l’universo della mirabile virtù del possente Iddio occidentale, e in te, o alma città, o reverendissima Roma, la quale igualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl’indomiti colli, tu sola permanendone vera donna, molto più che in alcun’altra parte risuona, sì come in degno luogo della cattedrale sedia de’ successori di Cefas. E tu di ciò dentro a te non poco ti rallegri, ricordando te essere quasi la prima prenditrice delle sante armi, però che conoscesti te in esse dovere tanto divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto più; onde contentati che come già per l’antiche vittorie più volte la tua lucente fronte ti fu ornata delle belle frondi di Pennea, così di questa ultima battaglia, con le nuove armi triunfando tu vittoriosamente, meriterai d’essere ornata d’etternal corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine tra le stelle onorevolemente sarà locata, tra le quali co’ tuoi antichi figliuoli e padri beata ti ritroverai. E i tuoi figliuoli già per la nuova fama prendono a’ lontani templi divozione, e adomandando allo Iddio dimorante in essi i bisognevoli doni, promettono graziosi boti: i quali doni ricevuti, ciascuno s’ingegna d’adempiere la volontaria promissione visitandoli, ancora che sieno lontani: la qual cosa appo Iddio grandissimo merito sanza fallo t’impetra.
- Risuona per Roma, com’è detto, la gran fama nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell’africana Cartagine. Era questo ornatissimo di belli costumi e abondante di ricchezze e di parenti, già per la sua virtù prescritto all’ordine militare, e avea, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana nobilissima, nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontà era molto da lui amata. E già era con lei, poi che Imineo coronato delle frondi di Pallade fu prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che Febo cinque volte era nella casa della celestiale Vergine rientrato, e ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de’ quali egli sopra tutte le cose era disideroso; e in molte maniere cercato com’egli potesse fare che la giovane concepesse, e niuna pervenuta ad effetto, sentiva nell’animo angoscioso tormento. Ma l’infinita pietà di Colui a cui nulla cosa si nasconde non sostenne che sanza parte del suo disio vedere egli finisse i giorni suoi, a’ quali poco più spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo: che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udì narrare di quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch’egli ebbe udite, se n’andò in uno santo tempio, là dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse così: - O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l’anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, degne d’essere essaudite, nella tua presenza. E così come a niuno, che divotamente giusto dono ti domandi, li nieghi, così a me la mia domanda, s’è giusta, non negare, ma perfettamente me la adempi. Io sono giovane d’eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la quale io sono stato tanto tempo ch’io veggio incominciare la sesta volta al sole l’usato cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo l’ultimo nostro giorno possa il nostro nome ritenere e possedere l’antiche ricchezze possedute lungamente per ereditaggio; di che nell’animo sostengo gravissima noia. Ond’io divotamente ti priego che nel cospetto dello onnipotente Signore grazia impetri, che se Egli dee essere della mia anima bene, e del suo e tuo onore essaltamento, che Egli uno solamente concedere me ne deggia, il quale dopo me me rapresenti. La qual cosa se Egli me la concede, io ti prometto e giuro per l’anima del mio padre e per la deità del sommo Giove che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati -. E fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento: "Così come niuno giusto priego può esser fatto sanza essere essaudito, così questo, però che era giusto, sanza essaudizione non pote trapassare". Ma già i disiosi cavalli del sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano nelle marine acque d’occidente, e le menome stelle si poteano vedere, essendo già Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel congiugale letto, nel quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il suo giusto priego, fatto il preterito dì, gli fosse a grado; e disceso dagli alti cieli, e entrato radiante di maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gl’incominciò a parlare, dormendo egli, e disse così: - O Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione chiamasti, pregando ch’io t’impetrassi grazia, nel conspetto di Colui che tutte le dona sanza rimproverare, che tu potessi avere degna erede del tuo nome, nel quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso essauditore de’ giusti prieghi, e di tutto bene benignissimo donatore, per me ti manda a dire che il tuo priego è essaudito da Lui, e che, la prima volta che tu con la tua sposa onestamente ti congiugnerai, veramente riceverai il dimandato dono -. E queste parole dette, ad un’ora egli e ’l sonno di Lelio si partirono. Lelio, svegliato, pieno di maraviglia e d’allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi per la camera per vedere se ancora l’aportatore della lieta novella vi fosse; ma poi che vide lui non esservi, umilemente cominciò a ringraziare colui che mandata aveva tanto disiata ambasciata; e chiamata Giulia, la quale ancora dormia, le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta quasi sanza fine incominciò a ringraziare Iddio. E non dopo molto spazio stato tra loro quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s’avide Giulia esser gravida, secondo che il santo Iddio avea annunziato.
- Non dopo molti giorni, mostrando già Calisto dintorno al polo quanto era lucente, incominciò Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo alquante parole, Giulia, che già avea sentito e sentia in sé il disiato frutto nascoso, disse: - Certo, Lelio, già per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, però che più grave esser mi pare che per lo preterito parere non solea -. Quando Lelio udì queste parole fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse: - Adunque niuno indugio si vuole porre a fare gl’impromessi doni; ma così tosto come i chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io con quella compagnia che mi parrà voglio prendere il lungo cammino e portare i graziosi incensi promessi a’ lontani altari -. Allora disse Giulia - Deh! ora sarà il tuo cammino sanza me fatto? -. Lelio rispose: - Giulia, tu se’ giovane, e sì fatto affanno sarebbe alla tua tenera età impossibile, e noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata -. Giulia, udendo queste parole, bagnò il suo viso d’amare lagrime, dicendo: - Certo, quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie più possente sostenitrice dell’armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non fu Issicratea a Mitridate, non che nelle felicità, nelle quali il venirti appresso mi porge smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai accompagnata di molti e varii pensieri: il mio petto sarà sempre pieno di molte sollecitudini, e nascosamente sosterrò maggior affanno, sempre di te dubitando, ch’io non potrei mai fare venendo teco -. O Tiberio Gracco, fu tanta la pietà che tu avesti di Cornelia, tua cara sposa, quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua propia, quanto fu quella di Lelio vedendo le lagrime della cara compagna? Certo appena! Ond’egli le rispose: - Giulia, poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me sanza te non saranno cercati; e però disponi il tuo virile animo al nuovo cammino, che al nuovo giorno credo cominceremo -. Giulia contenta si tacque.
- L’Aurora avea rimossi i notturni fuochi e Febo avea già rasciutte le brinose erbe, quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da’ notturni riposi, e comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, fossero sanza indugio apparecchiate. E mandato per quelli i quali a loro piacque d’eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto avvenimento, comandando ad essi che immantanente fossero presti d’andare con loro a mettere ad effetto le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad ogni loro piacere.
- Fu sanza alcuno indugio messo ad essecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e Giulia e la loro compagnia, tornando da’ santi templi da porgere pietosi prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a’ cari parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo cominciarono il disaventurato cammino.
- Il miserabile re, il cui regno Acheronta circunda, veggendo che lo essercizio era alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d’essa fuggivano le inique tentazioni e meritavano il mal conosciuto regno da lui, il quale egli, per disiderare oltre dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sì fatte imprese con paura; e convocati nel suo conspetto gl’infernali ministri, disse: - Compagni, voi sapete che Giove non dovutamente degli ampi regni, i quali egli possiede, ci privò, e diedeci questa strema parte sopra il centro dell’universo a possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi riempisse. Noi ingegnosamente li sottraemmo, sì che noi volgemmo i loro passi alle nostre case: e Egli ancora, non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò il suo Figliuolo a spogliarcene, al quale non potendo noi resistere, ci spogliò, e dopo tutto questo fece aveduti gli abitanti della terra de’ nostri lacciuoli, e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano. E che noi di questi oltraggi ci andiamo a vendicare sopra di lui, il salire in su c’è vietato, e Egli è più possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il nostro regno aumentare, e fare di riavere ciò che per adietro abbiamo perduto. Tra l’altre cose che il Figliuolo di Giove lasciò in terra al suo popolo, a noi più contraria, fu continuo essercizio, al quale del tutto si vuole intendere da noi, acciò che si spenga con volonteroso ozio delle loro menti, e li romani massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo essercizio molto impreso, e quasi ogni gente da loro lo ’mprende. Ond’io ho proposto di volerli almeno ritrarre dall’andare li strani templi visitando, con paura; e questo sanza fallo mi verrà fatto troppo bene sopra gran quantità d’essi, che ora al tempio che sopra l’ultime piagge di Speria dimora, vanno, sopra i quali io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque voi ne sentite alcuno -.
- Dette queste parole a’ suoi, prese vana forma simigliante d’un nobilissimo cavaliere, il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitore de’ regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de’ cieli, governava vicino a’ colli d’Appennino una città chiamata Marmorina. E salito sopra un cavallo, le cui ossa per magrezza quasi quante fossero apertamente mostrava, e correndo sopra esso, pervenne ne’ lontani regni, e trovato il re, il quale le silvestre bestie cacciando prendea diletto, fu davanti a lui. E come tal volta sogliono i corpi morti gravosi cadere alla terra sanza essere urtati, cotale costui fittivamente cadendo davanti gli si gittò, e con voce affannata, tanto che appena s’udiva, piangendo cominciò a dire: - O signor mio, tu vai l’innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro innocenti interiora metti aizzando gli aguti denti de’ feroci cani, ma io misero ho nella vostra città Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì com’io vidi già per li più alti luoghi, tutta la città guastava: e come ciò avvenisse a me è occulto; se non che avendo noi il giorno davanti celebrati i santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte, riposandosi, ciascuno avea già di sé la quarta parte passata, quando io, quasi dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto d’uomini, di garzoni e di femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora, abandonato del tutto il quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e vidi tutta la città piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono ripiene le mie orecchie. E già presso alla nostra casa udendo il terribile suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire armato nelle fortezze della nostra casa, scendendo contra i molti amici, i quali contra i crudeli osti, per lo bene della città s’apparecchiavano con le taglienti spade d’aspramente combattere. Allora dissi, quasi avendo nella loro vita compassione: "O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle presenti cose? Quelli iddii nei quali la forza in che la speranza della nostra signoria dimorava, sono fuggiti e hanno abandonato i loro altari; e però voi soccorrete indarno alla città. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi, andiamo, e in mezzo de’ nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo, o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie: "sola salute è a’ vinti non isperar salute"". La città, da tutte parti presa, era da’ nemici con gli aguti spuntoni guardata; ma noi poi, assicurati, ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via. Oimè! chi potrebbe mai narrare la ruina e la tempesta di quella notte? Chi potrebbe parlando dire la menoma parte della uccisione o con le lagrime agguagliare la fatica? L’antica città, la quale molti anni vittoriosa sotto le nostre braccia dimorò, fu da’ miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta in picciola ora; ma noi miseri, portati da’ miserabili fati, ovunque andavamo, per le larghe vie trovavamo cadere corpi gravati da mortale gelo: ad ogni passo trovavamo nuovo pianto, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E andando per diverse parti della città, dandone l’accese case aperti passaggi, più volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma già quasi propinqui all’ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci virilmente, vidi io gran parte de’ miei compagni bagnare la terra del loro sangue, e sanza niuna misericordia essere dagli avversarii uccisi. Onde non potendo noi più sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle, fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata più aspra battaglia, quasi furiosi, sanza alcuna speranza di salute, io e’ miei compagni tra gli aguti ferri de’ nemici ci gittammo. Quivi io, ferito in molte parti, rientrai nelle mie case, nelle quali alquanti de’ miei compagni vinti vilmente si fuggirono; e saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la città essere d’ardenti fiamme e di noiosi fummi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo assaliti di nuovo accidente, però che rotte le porti dell’antico palagio, salì uno grandissimo uomo romano con molti seguaci, il quale, sì come il fiero lupo le timide pecore sanza difesa strangola, così costui andava uccidendo qualunque davanti gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre e due miei figliuoli, e altri molti. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta, ricevetti infiniti colpi della sua spada; ma poi la vecchia madre e altre femine con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e ’l mio corpo, fortunosamente mi trassero delle sue mani. E uscito fuori della non già città, veggendo che per me più niuno soccorso vi si potea porgere, miserabilemente me verso queste parti mi dirizzai, e qui nel vostro conspetto mi sono fuggito. E dicovi che il vostro regno è sanza dubbio assalito da gente tanto acerba, che non che contro a voi, ma ancora contro i nostri iddii hanno prese armi; e che ciò ch’io ho narrato sia vero, manifestevelo il sangue mio, il quale per tante ferite potete vedere davanti da voi spandere. Io ho appena, fuggendo, potuta la mia vita ricuperare, la quale omai credo sarà brieve; e le mie ferite, le quali più tosto medico e riposo che affanno richiedevano, marcite costringono l’anima d’abandonare il misero corpo. E però vi priego che voi v’apparecchiate acciò che i vostri nemici, i quali credo che non sieno di qui guari lontani, possiate con più forte fronte ricevere che io non potei, e acciò che voi altressì vendichiate le mie ferite, acciò che io tosto tra gli altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte -. E appena finì queste parole con intera voce, che davanti al re il corpo sanza anima freddo lasciò.
- Con le mani prese, nell’aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltare le fitte parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abandonato il corpo e più non dire, mutato il natural colore, tornò palido, e, oppresso nel segreto petto di varie cure, quasi per greve doglia appena ritenne le lagrime. E non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, mostrandosi vigoroso per rincorare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e abandonata la cominciata caccia, volse i passi co’ suoi compagni verso le reali case. Alle quali poi che fu giunto sospirando, a’ suoi cavalieri comandò che sanza niuno dimoro prendessero l’usate armi; e sollecitamente fatti convocare i vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costringeano, adunò grandissimo essercito in pochi giorni, intendendo di volere obviare gli assalitori del suo regno.
- Poi che questo tutto fu fatto, e il giorno, il quale segretamente avea proposto di movere col suo essercito, fu venuto, egli comandò che divoti sacrificii s’apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deità, la quale verso loro parea indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; e esso personalmente volendo sacrificare acciò che il suo andare prosperamente si dirigesse verso i suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti agli altari di Marte, la cui effigie riguardando per più effettuosamente porgere pietosi prieghi, vide bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi, imaginando che Marte per compassione de’ suoi danni avesse lagrimato, alquanto riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra i detti altari sacrificare, disse così: - O vera deità, la quale a’ nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione, ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata -. E dette queste parole, ferì lo ’ndomito toro, il quale, sì tosto come sentì la puntura del freddo coltello, per duolo sì forte si scosse, che uscito delle mani di coloro che ’l teneano, furiosamente fuggì verso i marini liti d’occidente, il suo sangue spandendo, allungandosi, e torcendo i passi da quella parte onde i nimici, secondo il falso detto, doveano il reame avere assalito.
- Vedendo questo, il re non poté dentro per fortezza d’animo ritenere le lagrime, ma forte piangendo cominciò a dire: - Ora manifestamente possiamo noi ben vedere l’ira degl’iddii quanto ella verso noi adopera, e quanto i fortunosi fati ci si sono incontro rivolti! Oimè, che Marte, lagrimando, non de’ preteriti danni ma de’ futuri mostra d’aver compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, sì come di non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché già il toro ferito per mitigar la loro ira è fuggito dinanzi da’ loro altari delle nostre mani, e va dello innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i miseri meritano d’essere da voi in alcuno atto essauditi, non ischifate le mie piangenti voci, però che, come voi sapete, io non sono quello Dionisio, il quale più volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d’altri ornamenti degni a’ vostri altari. Io già mai, o Giove, non ti spogliai come costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all’uno tempo e all’altro. Né a te, o figliuolo d’Apollo, feci mai con tagliente ferro levare la cara barba; né a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, come Quinto Fulvio fece, per ricoprirne alcuno altro: per le quali cose, sì come sacrilego, io e ’l mio popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e’ vostri templi furono da noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a’ nostri antecessori benignamente conceduta, crudelmente sanza cagione si distrugga, e almeno da quel popolo, il quale con nuove armi alla vostra forza s’ingegna di contrastare. E se pure ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira giustamente contro a noi si muova la quale o io o ’l mio popolo abbia commessa contro la vostra deità, venga di grazia sopra me tutto il pondo. Deh! non mi fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani per lui molto essaltati, per la sua orazione la quale essaudiste, mandarono ivi a poco tempo in essilio: avvegna che l’arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e’ partiti spiriti de’ nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficiente sacrificio a mitigarvi. Sia da voi conceduto adunque che io prima, percosso da Antropos, renda lo spirito agl’iddii infernali co’ precedenti morti insieme; che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare -.
- Mentre che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto i lagrimosi occhi verso quella parte dalla quale il furioso toro era fuggito, vide il toro in uno vicino bosco per difetto di sangue caduto, e sopr’esso essere, come folgore volando, disceso da cielo il divino uccello, e sopr’esso toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare verso quelle parti onde doveano quello giorno prendere il loro cammino i suoi popoli. La qual cosa veduta, in se medesimo preso il volo di quello uccello per buono agurio, assai più d’allegrezza e di speranza si riempié, che non fece Paulo alla voce di Tarsia quando disse: - Persio è morto -, o Lucio Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne’ campi di Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce cominciò a dire al suo popolo: - Rallegratevi e prendete debito conforto, signori, però che Giove pietosamente ha mutato consiglio e, fatto verso noi pietoso, gli è de’ nostri danni incresciuto, però ch’io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che delle nostre mani fuggì, egli l’ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo uccello, al quale io vidi il toro, già con poca forza rimaso, abbattere nel vicino bosco, e sopr’esso per lungo spazio si pascé, levandosi poi, ha il suo volo ripreso, verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi dobbiamo fare. Onde pare che Giove benignamente ricevuto l’abbia, poi che alle nostre schiere ha mandato sì fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e pieni d’allegrezza accendete i fuochi sopra i santi altari, e date agl’iddii divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi sanza niuno indugio i nostri passi verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, però che già si manifesta agli occhi la disiderata vendetta dovere pervenire fatta a prosperevole fine -.
- Arsi i fatti fuochi e dissoluti i nebulosi fummi avvolti ne’ sacri templi, le trombe sonarono e i cavalli presti alle fiere battaglie, udito il suono, cominciarono a fremire; e allora il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del detto agurio, comandò che le reali bandiere fossero spiegate a’ venti e che tutti i suoi, abandonandosi a’ fortunosi fati, verso Marmorina dirizzassero il loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu sanza niuna dimoranza. Ma il misero Lelio, il quale dell’ultimo giorno, a lui ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a’ suoi compagni simigliantemente, non s’accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a’ dolenti fati; e già quattro volte cornuta e altretante tonda s’era mostrata la figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea rivedere, e camminando s’avea lasciate dietro le bianche spalle d’Appennino, affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da’ suoi occhi non dovea essere veduto, né da alcuno altro de’ suoi compagni.
- Entrava il sole nella rosata aurora con lento passo, e’ torbidi nuvoli occupavano il suo viso, per la qual cosa la sua luce, come usato era, non porgea chiara; forse a lui, che tutto vede, era già manifesta la fierità del crudel giorno, al quale egli s’apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti a’ loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia molto impediva le loro viste, tanto che appena l’uno vicino all’altro si poteano vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che parea che trapassando i nuvoli con le stelle si congiugnesse, la quale dovendo passare, già per la sua ertezza cominciava ad allentare i loro passi. Sopra la detta montagna l’avversario re, da loro non conosciuto, già era pervenuto con la sua gente, e quella notte sopr’essa per più sicurtà del suo essercito, sanza scendere al piano, s’era attendato. Ma già avendo il sole co’ suoi aguti raggi cominciato a dissolvere l’oscure nebbie; il re, che sopra l’alta sommità dimorava, nella sua mente imaginando i cammini che col suo popolo far dovea, ficcando gli occhi fra la folta nebbia nel fondo della oscura valle, vide la divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando, non altramenti essarse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della risonante rombola vola, e volando imbianca per l’impeti che davanti truova alla sua foga; e con alta voce voltato a’ suoi cavalieri gridò: - Venite, franchi campioni e cari amici e fratelli, però che già credo che i nostri nemici ci si manifestano -. E poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò loro così: - Signori, se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sì come mostrato v’ho, parte de’ nostri avversarii già essere nella profonda valle appiè del monte e venire verso di noi, e essi, sì com’io credo ancora di nostro movimento, né delle nostre armi prese niente sanno, né noi ancora qui non hanno potuto vedere per la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi fossero da essere obviati con aspro scontro sanza più dimorare, acciò che essi, avedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potesseno prendere rimedio a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io son certo che essi sono infino a questo luogo venuti sanza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso che essi cavalchino sanza alcuna paura dissolutamente; per che, assalendoli subito, li troverebbe l’uomo sanza alcuno argomento e di loro avrebbe o la morte o la vita, qual più gli piacesse: ond’io vi priego che sanza alcuno dimoro vigorosamente sieno da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E già vedeste voi, anzi che noi le nostre case abandonassimo, che gl’iddii ne mostrarono segni di riconciliazione e per più certezza di questo ci dierono il santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi dirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato. Appresso, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e per voler nelle nostre interiora bagnare le loro spade, sanza ragionevole cagione; e vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle estravaganti parti del mondo in doloroso essilio. Adunque, sì per lo laudevole agurio, il quale prospera fine ne dimostrò, sì per la ragione la quale è nostra perfettamente, sì per difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli, ciascuno sì come vigoroso cavaliere debba le sue armi adoperare. Pensate che voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma continuamente per la vostra maravigliosa fortezza acquistando molte vittorie, v’avete per adietro fatto temere. Simigliantemente ancora vi dee porgere molto più ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme, essendo oramai quasi negli anni della mia ultima età, alla quale più tosto riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi deono muovere ad esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello agurio che voi l’acquistiate -. E dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono segno di gran volontà di combattere, e le trombe sonarono, e corni e altri strumenti molti; e cavalieri sanza niuno ordine si mossero così furiosi, come tal volta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi dell’antico bosco, seguendo la preda corre sanza niuno ritegno, discendendo l’alpestro monte.
- Sì come gli impetuosi fiumi, i quali dell’alte montagne, turbati per la piovuta acqua, ruinosi impetuosamente caggiono sanza ritegno, menando seco alcuna volta grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l’acque; così giù per la straripevole montagna, sanza tener via o sentiero diritto, si dirupava lo iniquo essercito, goloso dello innocente sangue, con un romore e con una tempesta sì di suoni di corni e di trombe e d’altri crudeli strumenti, come del forte strepito dell’armi medesime e de’ cavalli, che tutta la valle faceano risonare. Giulia, meno piena di varie sollecitudini, sentendo il romore prima s’avvide della iniqua gente; la quale, vedendoli sì tempestosamente venire, temendo come la timida cerva davanti al leone divenne, e tornata fredda come i bianchi marmi, a Lelio temorosamente s’accostò, e con rotta voce cominciò a dire: - O Lelio, ove è fuggito il tuo lungo provedimento? Or non vedi tu quella gente armata che sì furiosamente verso noi discende dell’alto monte? Che gente può ella essere? Come non provedi tu al necessario rimedio ora, se elli vengono per offenderci? -. A queste voci alzò Lelio gli occhi e guardossi davanti, e vide il maladetto popolo ancora assai lontano, ma non tanto che fuga avesse potuto sé e’ suoi compagni trarre delle mani degli avversarii, ond’egli alquanto pavido nella mente, rivolto alla sua compagna disse: - Non dubitare, fatti sicura che questi non cercano noi - tenendo con forte viso nascosa la creata paura; e poi fra sé cominciò a pensare, dicendo: "Certo costoro scendono sì furiosi per prenderci al varco della montagna, e vogliono di noi l’una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori privandone noi, o elli vengono, sì come ribelli della nostra legge, per privarci di vita, essendosi già loro in alcuno atto manifestata la nostra condizione. E a dire che di qui noi fuggendo volessimo scampare, questo è impossibile, però che i loro cavalli, freschi e possenti, assai tosto sopragiugnerebbono i nostri, affannati; e il volere loro con l’arme resistere, noi siamo picciola quantità a sì gran moltitudine. Dunque solamente aspettare la lor pietà, misericordia chiamando, è il migliore, acciò che fuggendo noi non incrudeliamo più gli animi; la quale s’elli la concedono, avanzeremo con Dio il nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga l’ultima parte della nostra salute".
- Già tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, giunti per loro scampo in loro compagnia, disiderosi di pervenire a quel medesimo tempio ove costoro andavano, cominciavano fra loro a mormorare per la veduta gente, e quasi ciascuno dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopradetto pensiero occupato, quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza, si voltò verso essi con pietoso aspetto, così parlando:
- - O nobilissimi giovani e cari amici e compagni, i quali avete infino a questo luogo seguiti i miei passi, faccendo di me duca e principale capo di tutti voi, non per dovere, ma essendone perfetto amore mediante cagione, a’ miei orecchi sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente, che a’ nostri occhi giù per lo monte discendere si manifesta, avete dette. Onde io, essendo stato ne’ prosperevoli passi lieto conducitore, ne’ dubbiosi non sosterrò, in quanto piacere vi sia, d’essere per alcun altro condotto; ma, prendendo in questo caso luogo di franco e vero duca, prima il mio avviso vi narrerò, poi i miei passi secondo il vostro consiglio perseguirò. Quando prima agli occhi miei, per le parole di Giulia, questa gente che noi veggiamo corse, incontanente, pensando il luogo ove noi siamo, due pensieri nella mente mi vennero: l’uno de’ quali fu che costoro, forse indigenti delle mondane ricchezze, veggendo il nostro arnese molto, o forse avendone manifesta indetta, si mossero e vengono per volercene del tutto privare. La qual cosa se così avviene che sia, niuna resistenza se ne faccia loro a lasciarlo prendere, ma liberamente di piano patto sia tutto loro donato, però che, lodato sia Colui che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono a Roma copiose di molto oro, e però questo forse a loro fia molto e a noi poco sarebbe. L’altro pensiero fu questo, il quale molto più che ’l primo mi spaventa, che io dubito molto che costoro non rechino nelle loro mani la nostra morte, però che noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha più persecutori della nostra novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ancora me ne accerta più il vedere il modo per lo quale elli discendono a noi, ché voi vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate, e con terribile romore, il quale andare non suole esser de’ predoni. E però a questo ultimo, più che al primo pensando nella mia mente ogni via essaminata, e niuna utile per noi ci trovo, però che, come voi vedete, il voler fuggire niuna cosa sarebbe, se non accendere gli animi loro in maggiore ira, e forse dare loro materia d’offenderci, dove essi non l’avessero; e poi che noi volessimo pur fuggire, manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, però che d’alte montagne d’ogni parte in questa valle ci veggiamo racchiusi. E il volere con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a rispetto di loro; e però a me pare che qui sieno da aspettare. E convocata la loro misericordia, se essi si muovono a pietà di noi, ringraziando Iddio, il nostro cammino meneremo a perfezione, e se non, con le nostre braccia vigorosamente aiutandoci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali Giove per lungo tempo cessi da noi -.
- Mentre Lelio le sue pietose parole porgeva a’ cari compagni, ciascuno, portando a se medesimo e a lui compassione, amaramente piangea. Alcuni piangeano dicendo: - Oimè, vecchio padre, che vita sarà la tua dopo la mia morte, s’egli avviene ch’io muoia, il quale ora cresciuto dovea essere bastone che la tua vecchiezza sostenesse -. Altri piangeano i piccioli figliuoli rimasi a Roma con la giovane donna, ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l’abandonate ricchezze per seguire Lelio. E tutti generalmente piangeano la cara compagnia e amistà tra loro e Lelio sì dolcemente congiunta, che in così brieve tempo mostrava di doversi sì amaramente partire. Ma non dopo molto spazio per li conforti di Lelio, il quale diceva loro: - O vigorosi giovani, ove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Evvi sì tosto partita della memoria l’aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo, volendo più tosto morir libero che vivere servo de’ suoi nemici, dando insiememente essemplo a’ suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara libertà? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? Credo che vie più lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de’ vecchi padri, né delle giovani donne, né de’ piccioli figliuoli, né ancora dell’abondanti ricchezze, le quali voi avete abandonate in servigio di Colui che ve le donò, però che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, e Egli tutti a buon fine gli recherà. E non è gran fatto se in servigio di così largo donatore di grazie si pone alcuna volta il mortal corpo -; abandonate le lagrime, si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca e per signore continuamente aveano tenuto e teneano, e piacea loro per inanzi di tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ad ogni suo piacere erano disposti di metterlo con lui insieme in essecuzione, offerendosi di seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di resistere a’ nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli mise quelli giovani nelle cui forze più si confidava, fece guidare ad un giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo e ardito. La seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per lo cammino s’erano accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della sua terra, Ostazio, sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella quale la maggior parte della sua poca gente riservò, diede a conducere a Sculpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutte faccendo capitano e correggitore; e poi che così gli ebbe ordinati, parlò così verso loro:
- | - Cari signori e compagni, com’io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso di noi venire con tanta furia, a noi è di lor venuta la cagione occulta. Ma tanto mi par bene che essi sono iniqua gente e ribelli alla nostra legge, presumendo il luogo ove trovati gli abbiamo. E essendo tal gente, per niuna altra cagione si dee credere che elli s’affrettino tanto di venire a noi, se non per privarci di vita avanti che per noi niuno scampo si possa prendere. Onde se questo avviene, se essi in noi le lor mani voglion crudelmente distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminare la vostra fama etterna per viltà, ma continuamente nel preterito tempo voi e’ vostri predecessori avete poste l’anime e’ corpi per etternale onore. E che questo sia vero, la inestinguibile memoria de’ nostri antichi cel manifesta. Ahi, quanto dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran fortezza d’Orazio Codico vi torna a mente! Il quale, come voi sapete, al tempo che’ trusciani entrati in Roma con grandissime forze, già essendo per prendere il ponte Sublicio e per passare nell’altra parte della città, andato sopr’esso, ritenne la loro potenza con aspri combattimenti infino che ’l forte ponte gli fu dietro tagliato, e la città per lo tagliamento liberata. E similemente Marco Marcello, il quale assalì i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto con la sua forza operò, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quello che fece Publio Crasso per non essere suggetto ad Aristonico. Oh quanti e quali essempli de’ nostri antichi si potrebbono porre! E tutti non tanto per sé quanto per la republica sostennero gravosi affanni e pericoli. Or adunque noi, che qui per la salute di noi medesimi e per l’onore di tutti siamo a sì stretto partito, che dobbiamo fare? Certo più vigorosamente combattere, anzi che noi, che già molti servi francammo, divegnamo servi degli iniqui barbari o siamo da loro vilmente uccisi. Ma però che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattenti, porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sì come fanno le timide pecore a’ fieri lupi, sanza alcuna difesa, ma fate che essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi in questo luogo contro a costoro siete in luogo di campioni e forti difenditori della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell’impie mani di Pluto, nelle quali il primo nostro padre disubidendo miseramente ci mise, sapete quanto fosse obbrobriosa e crudele la morte che egli sostenne! Dunque non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in essaltamento della sua legge e per la salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s’avviene che muoiano, per la presente morte meriteranno perdono e etterna fama; e rimesseci le preterite offese, con ciò sia cosa che niuno viva sanza peccare, le nostre anime viveranno in etterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate, come visitavamo il santo tempio: al quale ancora spero che lietamente e tosto perverremo. E però ciascuno si porti vigorosamente -.
- Giulia, la quale dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a dolersi e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di cuore, vedendola, s’avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante; e parlava così a Lelio: - Oimè, dolce signor mio, questo non è lo ’ntendimento per lo quale noi abandonammo le nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire a’ santi templi del benedetto Iddio, posti in su li estremi liti d’occidente: e tu ora pare che voglia con arme commuovere nuove battaglie. Deh! or pensa se a’ pellegrini sta bene così fatto mestiero! Certo no. Deh! almeno perché t’affretti tu così di combattere? Che sai tu chi costoro si sieno? Non credi tu che le diverse nazioni del mondo abbiano fra sé altre nimistà che quelle dei romani? Io dubito forte, e è da dubitare, che essi veggendo armati te e’ tuoi compagni, forse credano che voi siate quelli nimici che essi vanno cercando, e per questo avranno cagione di cominciare la forse non pensata battaglia, e avranno ragione. Lascia adunque questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese armi, tu e’ tuoi compagni! E se tu disarmato temi le loro lance, chi credi tu che sia tanto crudele e sì vile, che andasse armato a ferire i disarmati? Certo non alcuno. E tu simigliantemente per adietro co’ tuoi prieghi solevi atutare l’acerbe volontà della romana giovanaglia, superba per troppo bene non conquistato da loro, e non ti fidi con le tue parole amollare l’ira di costoro se sopra te adirati venissero! Forse tu imagini di non essere ascoltato da loro: or credi tu che questi sieno nati delle dure querce o delle alpestre rocce, che essi non abbiano pietà, né che essi non ascoltino le tue parole, le quali sì tosto come l’udiranno piene di soavità, così daranno incontanente luogo alla nostra via? Deh! non ti recare a volere la forza del tuo piccolo popolo sperimentare con così grande essercito, ch’egli è fortuna e non ragione, quando di così fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i tuoi compagni volentieri sanza prendere armi si sarebbono stati, perché conoscono il pericolo, se a te non l’avessero vedute pigliare? Ma tu, prendendole, ne se’ loro stata cagione. E se tu pur dubiti della crudeltà di coloro, molto meglio è a fuggirci mentre che noi possiamo che voler combattere con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi valloni, ne’ quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi in un’altra. Deh! non aspettiamo più le punte di quelli ferri, i quali, veggendoli, già mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura. Niuno nimico dee più volere del suo avversario che vederlosi fuggire davanti, mostrando di temere la sua potenza. Però s’elli vengono per offenderci essi saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo fra loro, riterranno i correnti cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe noi non curiamo, solamente che noi scampiamo delle loro mani. Poi, se licito non c’è d’andar più avanti, tornianci inanzi a Roma che noi vogliamo morire e non sapere come, però che ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il più che puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del signore, né così fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati, lasciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio concedendolo Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte sia il mio consiglio udito e servato da voi, e non guardare per che feminile sia, che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente sono presi dall’uomo. Sia questa la prima e ultima grazia a me in questo viaggio, nel quale alcun’altra domandata non te n’ho -. Queste parole e molte altre piangendo Giulia fortemente diceva, abbracciando sovente Lelio e rompendogli le parole in bocca; alla quale Lelio, ascoltato un pezzo, rispose così:
- - Giulia, queste non sono le parole le quali a Roma nella nostra casa mi dicevi, quando di grazia mi chiedesti di volere venire meco nel presente viaggio. Ov’è il tuo virile ardire così tosto fuggito? Tu dicevi che più vigorosamente sosterresti ne’ bisogni l’armi e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate, e io avea intendimento d’aggiugnerti al numero de’ miei cavalieri con l’armi indosso, se non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente nella veduta d’uomini de’ quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo certi, né sappiamo se sono amici o nimici, vuogli, non sappiendo per che, pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu Cesare, il tuo antico avolo, il quale ardire e prodezza ebbe più che alcun altro romano avesse mai. Ora, cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato e essaminato, e niuno più utile che quello ch’è preso ne troviamo per la nostra salute. E credi che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s’acquistino, ma virtuosamente affannando: e però taciti, e nelle nostre virtù come noi medesimi ti confida -.
- Udendo Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, più amaramente piangendo gli si gittò al collo, dicendo: - Poi che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né mi vuoi far lieta della dimandata grazia, fammene un’altra, la quale sia ultima a me di tutte quelle che fatte m’hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate co’ non conosciuti nimici saranno, che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che verso te dirizzerà l’aguta lancia, io misera, sì come tuo scudo, riceva il primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri d’offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, però che un colpo terminerà infiniti dolori. Oimè sconsolata! Or s’egli avvenisse che io sanza te mi trovassi viva, qual dolore, quale angoscia fu mai per alcuna misera sentita sì noiosa, che alla mia si potesse assimigliare? E quello che più mi recherebbe pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se questo avvenisse, io sanza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe seguì il suo misero Piramo, così la mia anima, cacciata del misero corpo con aguto coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m’è serbata: e io, la quale spero d’andare ne’ santi regni di Giove, ti farò fare presto degno luogo alla tua virtù -. Mentre costei così pietosamente piangendo parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato il viso delle sue lagrime, il suo cuore per greve dolore temendo di morire, chiamate a sé tutte l’esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che lagrimando la volea confortare, vedendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la ne portò in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a giacere vi pose suso, e raccomandatala ad alquante damigelle di lei, prestamente risalito a cavallo, tornò a’ suoi compagni. Oimè, Lelio, or dove lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non dei rivedere? Deh! quanto Amore si portò tra voi villanamente, avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti! e ora nell’ultimo partimento non consentire che voi v’aveste insieme baciati, o almeno salutati! Tu vai, Lelio, al tuo pericolo correndo, e lei semiviva abandoni ne’ suoi danni. Oh! quanto le fia gravoso il ritornare in sé gli spiriti, i quali vagabundi pare che vadano per lo vicino aere, più che se mai non ritornassero, però che con minor doglia le parrebbe essere passata.
- A’ quali compagni ritornato, Lelio li trovò per le predette parole sì animosi della battaglia che, poco più che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per andare verso i loro nimici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale menato aveano con seco per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sì alto che tutti potevano vedere, voltato a’ suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero Giove per la loro salute. E così, sanza discendere de’ loro cavalli, in atto reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti, dicea così: - O sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtù con perpetua ragione si governa l’universo, se tu per alcuni prieghi ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente bisogno ne porgi il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, a cui niuna cosa si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente perché la tua santa legge per negligenza di noi non si occulti sotto la falsa volontà di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le siano ribelli. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, sanza il quale indarno s’affatica ciascuno operante, e appresso alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne’ tuoi servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene adoperare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, sanza dovere, nel nocente -. Appena ebbe finita Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una nuvoletta tanto lucente che appena poteano con li loro occhi sostenere tanta luce; della quale una voce uscì, e disse: - Sicuramente e sanza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi vendicare le vostre morti; e sanza alcuna ammirazione le presenti parole ascoltate, che tal volta conviene che ’l sangue d’uno uomo giusto per salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero tempio di Colui il cui voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate alla vostra vittoria vi donerò -. E questo detto, come subita venne, così subitamente sparve. Allora Lelio co’ suoi, lieti, si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro armi, s’apparecchiarono di resistere a’ loro nimici, i quali con grandissimo romore già s’appressavano a loro.
- Non credo che ancora i giovani compagni di Lelio avesseno riprese nelle destre mani le loro lance, ripieni per le parole di Lelio di vigoroso ardire, disideranti di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro si scontrò molto vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte poterono, essendo gittati, ferire i suoi avversarii, il nimico essercito. Gli aguti raggi del sole, il quale avea già dissolute le noiose nebbie, gli lasciava insieme apertamente vedere, e quelli che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte sanza alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati e con aguzzata schiera, superbi nell’aspetto, aspettarli fermati, dubitarono di correre alla mortale battaglia così subiti. I divoti giovani stavano feroci avendo già dannata la loro vita, sicuri della battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga; e niuno romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a piccolo passo mosse la prima schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all’altre che sanza bisogno non li seguissero. E già innumerabile quantità di saette e di tremanti dardi erano sopra i romani giovani discese, gittate dagli archi di Partia dalle arabe braccia, quando Lelio, nell’animo acceso di maravigliosa virtù, mosso il potente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto parea guidatore e maestro di tutti gli altri, al quale niuna arme fu difesa, ma morto cadde del gran destriere. Questi portò prima novelle della iniqua operazione commessa da Pluto a’ fiumi di Stige; questi prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li romani ferri. Sesto, che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone un altro, diede compagnia alla misera anima. E i valorosi giovani seguendo i loro capitani, niuno ve n’ebbe che peggiore principio facesse di Lelio, ma tutti valorosamente combattendo, abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. E già aveano la maggior parte di loro, per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le quali percosse da’ chiari raggi del sole, riflettendo minacciavano i sopravegnenti nimici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti sanza alcuna paura combatteano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti procedeano, combatteano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e resistenti trovarono. E mentre l’aspra pugna durava, la moltitudine della iniqua gente abondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da vera forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale avea già abbattuto il suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirarsi indietro: allora volto la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuì, dicendo loro: - L’ora della vostra virtù disiderata è presente: spandete le vostre forze. Alla vostra salute non manca altro che l’opera de’ ferri aiutata dalle vostre braccia: qualunque disidera di rivedere l’abandonata patria, e’ cari padri, e’ figliuoli, e la moglie, e i lasciati amici, con la spada gli domandi. Iddio ha poste tutte queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione ci dee porgere speranza di vittoria, e la nostra vittoria ha bisogno di pochi combattitori, però che la gran quantità de’ nemici impediranno se medesimi ristretti nel picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino li vostri padri, e le vostre madri, e’ vostri figliuoli piccolini e ginocchioni lagrimando vi prieghino che voi adoperiate sì l’arme, che voi vi rendiate a loro medesimi vincitori; sì che voi poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli facciate in una medesima ora -. Le parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de’ romani giovani: essi sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non picciola quantità della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gia riguardando la gente del suo signore per picciola quantità di combattenti invilita voltarsi verso le sue insegne; come stimolo de’ suoi e rabbia dell’empio popolo, per tema che ’l cominciato male non perisca, da alcuna parte si parò davanti a’ paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada, e chi avea le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatte bene e chi no; e questo veduto, parlò così: - Ahi! vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale merito di guiderdone rivolgi tu i tuoi passi verso le guardate bandiere? Certo la mia spada taglierà qualunque arditamente non combatterà co’ nimici -. Le spente fiamme de’ barbari cuori alquanto per le parole di costui si ravvivarono; e voltarono i visi. Scurmenide accende i furori con le sue voci: elli dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i contrarii volti sanza alcuna pietà sieno uccisi. Egli promuove e fa andare inanzi i suoi, e coloro che si cessano sollicita con la battitura della rivolta asta, e si diletta di veder bagnare i freddi ferri nell’innocente sangue. Grandissima oscurità di mali vi nasce, e tagliamenti e pianti, a similitudine di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori: l’armi sonano per lo peso de’ cadenti colpi, le spade sono rotte dalle spade. Sesto co’ suoi non possono più sostenere, però che la piccola quantità era tornata a minor numero d’uomini. Lelio, che i casi della battaglia tutti provede con sollicita cura, con altissima voce e con manifesti atti provoca la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che lungo spazio avea sostenuto il disio della battaglia, muove sé e’ suoi con dovuto ordine, e volonterosi sottentrano a’ gravi pesi della battaglia. E nel primo scontro si dirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo l’aguta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l’abbatté morto. Molti n’uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle sue mani una tagliente accetta, e sostenendo il sinistro corno della battaglia andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano; e Lelio e Sesto nel destro corno della battaglia combattevano. Uno ardito arabo, il quale Menaab si chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo del barbarico popolo faceva con la nuova arme, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l’avvisò sotto il braccio nell’alzare ch’egli facea dell’accetta, e quivi feritolo con una velenosa saetta il credette aver morto. Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi come se niuna doglia sentisse, con la propia mano trasse la saetta delle sue carni. E ripresa l’accetta, dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che già s’era apparecchiato di gittar l’altra, sopragiuntolo, gli diede sì gran colpo sopra la testa che in due parti gliele divise. Quivi fu egli da molti de’ nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra ’l quale, poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente. La furiosa gente premeva tutta adosso a lui: egli uccideva qualunque nimico gli s’appressava. E già n’avea tanti uccisi dintorno a sé che, quanto la sua accetta era lunga, per tanto spazio dintorno a sé avea di corpi morti ragguagliata l’altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto, ma in luogo di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri combattitori. Infinite saette e lance sanza numero ferivano sopra Artifilo: il suo forte elmo era in molti pezzi diviso; e già era più carico di saette, fitte per lo forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s’ardisse ad appressare; ma egli, sopra i corpi morti andando, s’appressava a’ suoi nimici uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che ’l soccorressero. Veggendo questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra’ suoi cavalieri, lui ferì con una grossa lancia nel petto, e egli, già debole per lo mancato sangue, cadde in terra, dove da’ compagni di Tarpelio fu morto sanza niuno dimoro. Lelio, che avea gli occhi volti in quella parte e molto si maravigliava della grande virtù di Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le lagrime, ma sotto l’elmo chetamente bagnò per pietà il suo viso; e abandonato Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de’ compagni d’Artifilo rimasi vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i pochi compagni. Ma poi ch’egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito, combattere, e sé male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse la terza schiera di Sculpizio Gaio, loro ultimo soccorso; alla quale Sesto e quelli che erano per la battaglia pochi rimasi delle due schiere prime, tutti s’accostarono, e rincominciarono sì forte la sventurata battaglia, che alcuna volta prima non v’era stata tale. E ben che i resistenti fossero molti, la loro moltitudine nel piccolo luogo nocea, però che l’uno impediva la spada dell’altro per istrettezza: onde Sesto e Sculpizio, i quali avanti agli altri vigorosamente combattevano con li loro pochi cavalieri, per forza, uccidendogli, gli fecero rinculare e fuggire in campi ancora non bagnati d’alcun sangue. Il re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto raffreddò l’ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili suoni de’ battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E tanta polvere coperse l’aria con la sua nebbia per la furia de’ correnti cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la superba e nuova compagnia de’ cavalieri sopravenne adosso agli stanchi combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, però che non fu licito a’ cavalieri di Lelio d’andare adosso a’ nimici, sì furono subitamente intorniati da lungi e da presso con le piegate e con le diritte lance. La piova delle saette mandate dagli africani bracci, e le gittate lance aveano coperta la luce alla picciola schiera de’ romani; ella si raccolse in piccola ritondità, tanto che quelli i quali per le sopravegnenti saette, sanza potere fare alcuna difesa, morivano, rimaneano ritti, i loro corpi sostenuti dagli stretti compagni. Sculpizio, il quale non avea ancora le sue forze provate, fu il primo che partito dalla ritonda schiera uscì correndo verso il re, il quale s’apparecchiava d’affrettare la loro morte, e ferillo sì vigorosamente sopra l’elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon soccorso de’ suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto rincominciarono la battaglia, faccendosi con le loro spade fare amplissimo luogo. Ma Sesto fortunosamente correndo tra’ nimici fu intorniato da loro, e mortogli il suo cavallo sotto, e caduto in mezzo il campo, anzi che egli, debile, si potesse rilevare fu miserabilmente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di grave dolore conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dello annunzio fatto loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il popolo, disse così: - O sommo Giove, e tu beato Iddio, i cui templi io visitare credea, poi che a voi è piaciuto che i nostri passi più avanti che questo luogo non si distendano, io non intendo di volere, co’ pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga abandonare l’anime di quelli che davanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se vostro piacere è -. E dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale volea spogliare le pertugiate armadure a Sesto, e lui ferì sì forte sopra il sinistro omero con la sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo in terra, e quelli cadde morto sopra Sesto. Egli incominciò a fare sì maravigliose cose, che nullo ve n’avea che non se ne maravigliasse; e Sculpizio non si portava male. E’ pochi compagni ricominciarono più aspramente a mostrare le loro forze che non aveano fatto davanti, ma poco poterono durare. Il re, che d’ira ardeva tutto dentro, vedendo Lelio sì maravigliosamente combattere e aver già perdute per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece vicino, e gittatagli una lancia il ferì nella gola, e lui cacciò morto in terra del debole cavallo. Sculpizio, vedendo questo, corse con la sua spada in mano per ferire il re e per vendicare la crudele morte del suo amico, ma un cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò davanti al colpo, al quale la spada scesa sopra il chiaro cappello d’acciaio, tagliandolo, lui fendé quasi infino a’ denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo colpo, non la poté riavere. Ond’egli, assalito di dietro, fu da’ nimici crudelmente ucciso. Nel campo non era più alcuno rimaso de’ miseri compagni, anzi sanza niuno combattimento più rimase il re Felice vittorioso nel misero campo, faccendo cercare se la misera fortuna n’avesse alcuno riposto con cheto nascondimento tra’ suoi medesimi. Ma poi che alcuno non ve ne fu vivo trovato, egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte; poi, al nuovo giorno, procederebbero.
- Vedendo il re che i fortunosi casi aveano conceduta la vittoria alle sue armi, in se medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche guardando con torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantità de’ suoi cavalieri giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l’allegrezza della dolente vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in amare lagrime, imaginando l’aspetto de’ suoi cavalieri, i quali tutti sanguinosi giaceano morti al campo, e udendo le dolenti voci e ’l triste pianto che i suoi medesimi feriti faceano per lo campo. Egli diede a’ suoi cavalieri libero albìtrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro rubate, e che ciò che ciascun si desse fosse suo; la qual cosa in brieve spazio fu fatta. Elli disarmarono tutti i romani con presta mano, e non ne trovarono alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantità di nimici morti né che non fosse passato di cento punte. E i miseri cavalieri, i quali questo andavano faccendo, aveano perduta la conoscenza de’ loro padri e fratelli e compagni che morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi che essi, nettandoli co’ propii panni per riconoscerli, ve n’ebbero ritrovati molti, e tutti i più valorosi, il pianto e ’l romore cominciò sì grande, che il re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti, ricogliendoli dentro ne’ chiusi campi.
- O misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane cose! Ove è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu all’ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove la gran famiglia? Ove i molti amici? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo sanza sepoltura giace morto negli strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lagrime, e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e l’ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!
- Avea già, nel brieve giorno, Pean, che nell’ultima parte della guizzante coda d’Almatea, nutrice dell’alto Giove, dimorava, trapassato il meridiano cerchio, e con più studioso passo cercava l’onde di Speria, quando Giulia misera dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentì piangere le dolenti compagne, che già i loro danni aveano veduti; alle cui voci subitamente levatasi disse: - Oimè misera, qual è la cagione del vostro pianto? -. E riguardandosi dintorno non vide il caro marito, nelle cui braccia avea perdute le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime, disse: - Oimè! or dov’è fuggito il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute le ’nsegne al mio marito contra i non conosciuti nimici! -. E dicendo queste parole, quasi uscita di sé si drizzò, e i miseri fati le volsero gli occhi verso quella parte, la quale le dovea mostrare il suo dolore manifestamente; e verso quella mirando, sentì lo spiacevole romore degli spogliatori e vide il secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno della nimica gente. Allora il dubitante cuore di quello che avvenuto era, manifestamente conobbe i suoi gran danni. Ella non fu dalla feminile forza delle sue compagne potuta ritenere, che ella non andasse tra’ morti corpi sanza alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani ne’ biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a trarre dell’usato ordine. E i vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere. E bagnando le sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente sicura contra’ nemici ferri, incominciò a cercare tra’ morti corpi del suo caro marito, dicendo alle sue compagne: - Lasciatemi andare: e’ non è convenevole che così valoroso uomo rimanga ne’ lontani campi alla sua città, sanza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha negate le lagrime del suo padre e de’ suoi parenti e del romano popolo, non gli vogliate anche torre quelle della misera moglie -. E andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi morti con le propie mani rivolgea per ritrovare il suo misero marito, ma i sanguinosi visi nascondeano la manifesta sembianza allo ’ntelletto. E poi che ella molti n’ebbe rivolti, riconosciuto alle chiare armadure il suo Lelio, il quale di molti morti nimici morto attorniato giacea, quivi sopr’esso semiviva piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente s’incominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le tenere gote. E aveasi già sì concia, che tra ’l vivo e ’l morto sangue che sopra il viso le stava, non Giulia, ma più tosto uno de’ brutti corpi morti nel campo parea. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell’ampie piaghe di Lelio, anzi l’avea già quasi tutte piene d’amare lagrime. Ella spesse volte il baciava e abbracciava strettamente, e nell’amaro pianto, riguardandolo, diceva così: - Oimè, Lelio, ove m’hai tu abandonata? ove m’hai tu lasciata? Tra gente araba diversa da’ nostri costumi, de’ quali niuno io non conosco! Almeno mi facesse Giove tanta di grazia, che la loro crudeltà fosse con le loro mani operata in me, come elli l’operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietà in quelli petti ov’ella non fu mai. Almeno sarei io più contenta che la mia anima seguisse la tua ovunque ella fosse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte. Deh! perché non fu licito al tuo virile animo di credere al feminile consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo lieti insieme vivuti. Deh! ove fuggì la tua pietà, quando tu in dubbio di morte nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi alle tue schiere? Come non aspettasti tu che io almeno t’avessi veduto inanzi che tu fossi entrato nell’amara battaglia, e che io con le propie mani t’avessi allacciato l’elmo, il quale mai per mia voglia non sarebbe stato legato, perché io conoscea sola la fuga essere rimedio alla nostra salute? Oimè dolente, quanto è sconvenevole cosa di volere adempiere l’uomo i suoi disideri contra ’l piacer di Giove! Noi desiderammo miseramente i nostri danni quell’ora che noi domandammo d’aver figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella allegrezza Giove sanza alcun boto ce l’avrebbe conceduto. O iniquo pensiero e sconvenevole volontà, recate la morte in me, che non l’ho meno meritata che costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato licito di pararmi dinanzi a’ crudeli colpi, i quali costui innocente sostenne, sì com’io avea di grazia adimandato! Omai non è al mio dolore niuno rimedio se non tu, morte! La quale io sì come misera priego che tu non mi risparmi, ma vieni a me sanza niuno indugio. Tu non dei omai potere più esser crudele, e massimamente a’ prieghi delle giovani donne, in tal luogo se’ stata! Deh! piacciati inanzi di farmi fare compagnia ne’ miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo essemplo di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar più! Oimè dolente! come i’ ho malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti di bestial sangue, temendo non fosse stato offeso, costrinse l’anima di partirsi dal misero corpo, subitamente rendendola a’ suoi iddii. Oh quanto le fu prosperevole il morire, però che morendo poté dire: "Io non vedrò quella cosa la quale per dolore mi conducerebbe a maggior pena, e poi a morte, ma morendo vincerò il dolore". E io, misera!, davanti agli occhi miei veggio il mio dolore, e non m’è licito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per paura sento che cerca l’ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltà. Oimè, morte, io ti domando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i disprezzatori delle loro potenze s’ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fideli: e tu coloro che più ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori della tua potenza lungamente, e di questi sempre più tardi che degli altri ti vendichi. Oh quanto è misero colui che così comunal cosa, come tu se’, gli manca ad uno bisogno! -. Ella, piangendo, più volte con aguti ferri caduti per lo campo si volle ferire il tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri rubatori e dicea: - Deh! crudeli cavalieri, i quali sanza alcuna pietà metteste l’agute lance per l’innocente corpo, deh!, ammendate il vostro fallo tornando pietosi: uccidete me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava! Fate che io sia del numero degli uccisi! Questa pietà sola usando vi farà meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente adoperato -. E dette queste parole, ritornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si potea veder sazia, anzi l’avea già quasi tutto con le amare lagrime lavato, e piangendo forte sopr’esso si dimorava dolente.
- Ma poi che il sole nascose i suoi raggi nelle oscure tenebre e le stelle cominciarono a mostrare la loro luce, il campo si cominciò con taciturnità a riposare, sì per l’affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva agli affannati membri riposo, sì per l’allegrezza della vittoria che molte menti avea nel vino sepellite. Solo l’angoscioso pianto di Giulia e delle sue compagne facea risonare la trista valle, e questo risonava nelle orecchie al vittorioso re. E egli, che ne’ tesi padiglioni si riposava, udendo queste voci, chiamò un nobile cavaliere il quale s’appellava Ascalion, e disseli: - Deh, or di cui sono le misere voci che io odo, che non lasciano partire della nostra mente in alcuno modo la crudele uccisione fatta nel passato giorno? -. - Sire - disse Ascalion - io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie d’alcuno del morto popolo, e così mi pare avere inteso da’ compagni, e similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta -. Allora gli comandò il re che elli andasse ad essa, e comandassele ch’ella tacesse acciò che ’l suo pianto non gli accrescesse più dolore che il preterito danno. Mossesi Ascalion con alquanti compagni, e per l’oscura notte con picciol lume, per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andarono in quella parte ove essi sentirono le dolenti voci, e pervennero a Giulia; la quale, come Ascalion la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso, mosso dentro a pietà, quasi lagrimando disse: - O giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io ti priego, per quella nobiltà che il tuo aspetto ne rapresenta, che tu ti conforti e ponghi fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch’ella sia, io non credo che per lo tuo pianto si possa emendare, ma più tosto piangendo aumentare la potresti. E noi medesimi, i quali, se al ricevuto danno volessimo ben pensare, certo noi non faremmo mai altro che piagnere; e considerando quello che è detto, ci ingegnamo di dimenticare quello che ancora non vuole fuggire delle nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi dinanzi al suo cospetto -. Giulia, udendo la romana loquela, la quale Ascalion, lungamente dimorato a Roma, impresa avea, alzò il viso verso lui, forse credendo che fosse alcun de’ miseri compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere e vedendo ch’egli era della iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro, disse: - Niun conforto sentirà l’anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m’avete con le vostre spietate braccia ucciso colui il quale era mio conforto e mia ultima speranza. Acciò che l’anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio Lelio, questo graziosamente vi domando, questo fia l’ultimo bene che io spero, e a voi non fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanti sangui, che io non accrescerò la somma del vostro peccato per la mia morte, ma la farò più lieve per la pietà che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste numero, acciò che si possa dire: "Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella fu del numero de’ corpi morti con lui insieme ne’ sanguinosi campi". E se voi non volete usar questa pietà, almeno prestate alle mie mani la tagliente spada, e consentite che sanza briga di queste mie compagne io possa morire, essendone le mie mani cagione -. Ascalion e’ suoi compagni, che vedeano il chiaro viso tutto rigare di vermiglio sangue, lagrimavano tutti per pietà di costei; e piangendo le rispose e disse: - Giovane, gl’iddii facciano le mie mani di lungi da sì fatto peccato. Certo io fuggii oggi per non bagnarmi nella dolente occisione: ma tu, perché piangendo e sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché desideri d’incrudelire contra te medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? Questo sarebbe impossibile. Ma levati su, e non volere qui però nelle sopravegnenti tenebre apparecchiare la tua bella persona alle salvatiche bestie, le quali alla tua salute potrebbono essere contrarie, però che vivendo ancora potrai forse riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar di venire a’ reali padiglioni con le tue compagne, ch’io ti giuro, per quelli iddii ch’io adoro, che, mentre che essi mi concederanno vita, il tuo onore e delle tue compagne sarà sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia. Ora ti leva, non dimorare più qui, vieni nella presenza del nostro signore, il quale, ancora che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onorerà sì come degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventano gl’infiniti spiriti de’ morti corpi, sparti per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli scelerati uomini che sogliono essere ne’ tumultuosi esserciti, i quali, trovandoti qui, non si curerebbono di contaminare il tuo onore e delle tue compagne? Deh! vieni adunque, che vedi che io e’ miei compagni per compassione di te righiamo i nostri visi d’amare lagrime -. Giulia non facea altro che piagnere; e ben ch’ella fosse molto dolorosa, non per tanto dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle nelle avversità parere villana a’ divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso con le sue mani un bianco velo, coperse il palido viso di Lelio e con un suo mantello tutto il corpo, e poi si voltò ad Ascalion e disse: - I vostri prieghi hanno sì presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere al niego di quello che dimandato m’avete. E poi che Iddio e voi mi negate la morte, quella cosa che io più disidero, io m’apparecchio di venire in quelle parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando in prima me e le mie compagne e ’l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che guida i vostri membri, che come di care sorelle il serviate e non consentiate che di quello che le misere anime de’ nostri mariti, rinchiuse ne’ mortali corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare -. E volendosi levare, per debolezza fra le sue compagne supina ricadde. Allora Ascalion teneramente per lo destro braccio la prese; e dall’altra parte un suo compagno sostenendola e con dolci parole confortandola, e con lento passo andando, pervennero alle reali tende, nelle quali entrati, il re vedendo costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo già udito da Ascalion gran parte della condizione di lei, comandò ch’ella fosse onorata. Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pur gli s’inginocchiò davanti e lagrimando disse: - Alto signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto, nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuta avere. Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne’ loro danni sentissero maggiore doglia che io fo in quello che da voi ho ricevuto, né credo che effettuosamente alcuna di loro disiderasse de’ suoi nimici vendetta, com’io disidero di voi, solo che prendere ne la potessi. Ma poi che la fortuna m’ha il potere levato, e fattami vostra prigione, datemi, per guiderdone della fiera volontà ch’io ho verso di voi, la morte -. Non sofferse il re che Giulia stesse in terra davanti a lui, ma con la propia mano levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e risposele così: - Giovane donna, il vostro lagrimoso aspetto m’ha fatto divenire pietoso e quasi m’invita con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare, il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole essere de’ miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell’ora che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E però che io conosco che voi ora più adirata che consigliata domandate la morte, e mostrate ver me crudel volontà, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora le adirate parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro di voi del tutto adirata, né ch’ella v’abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che sia suto il migliore rimanere in vita sì per voi e sì per l’anima del vostro marito. Ma ditemi, se vi piace, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi voi siete, e onde e ove voi andavate -. Giulia, piangendo, con pietosa voce gli rispose: - Io sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le propie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al santo Iddio, posto nell’ultime fini de’ vostri regni, per lo ricevuto dono della mia pregnezza -. Udendo questo, il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse: - Oimè! or dunque non foste voi con gli assalitori del mio regno, i quali all’entrare in esso arsero la ricca Marmorina? -. - Signore no - rispose Giulia, - ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di nobile popolo -. Allora dolfe al re molto di quello che era fatto e sospirando le disse: - Giovane donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quello che omai non può tornare adietro, e che ci duole. E non è dubbio che voi avete nel preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma però che il nostro lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a cui che il lagrimare stia bene, a noi e’ si disdice, i quali co’ propii visi abbiamo a confortare i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo il preso conforto, se a voi piacerà altro marito, io ho nella mia corte assai nobili cavalieri, de’ quali quello che più vi piacerà in guiderdone dell’offesa che fatta v’ho, vi donerò volontieri; e se voi alle ceneri del morto marito vorrete pure servar castità, continuamente in compagnia della mia sposa come cara parente vi farò onorare. E se l’esser meco non vi piacerà, io vi giuro per l’anima del mio padre che dopo l’alleviamento del vostro peso, infino in quella parte ove più vi piacerà d’andare, onorevolemente vi farò accompagnare. A dire quanto mi dolga di quello ch’è fatto per lo mio subito furore, sarebbe troppo lungo a narrare, però ch’io ci ho perduto un caro nipote e molti buoni cavalieri, e voi ho sanza vostra colpa offesi -. Giulia non rattemperava per tutte queste parole il dolente pianto, anzi, piangendo, nel savio animo diliberò che molto valea meglio di rimanere al proferto onore, fingendo il suo mal talento, infino che la fortuna la recasse nel pristino stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta da dolenti singhiozzi, rispose: - Signor mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal vostro piacere -. Comandò allora il re che ella in alcuno padiglione, sotto la fidata guardia di Ascalion, ella e le sue compagne fossero onorate.
- Come il nuovo sole uscì nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia, verso Sibilia, antica città negli esperii regni, presero il cammino; ma avanti che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia domandò che ’l corpo del suo Lelio non rimanesse esca de’ volanti uccelli. Al quale il re comandò che onorevole sepoltura fosse data, ad esso e a tutti gli altri che piacesse a lei, e agli altri del campo. Fu allora Lelio, e molti altri, con molte lagrime sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.
- Rimaso solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero a pascersi sopra’ mortali pasti. E i leoni africani corsero al tristo fiato tignendo gli aguti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il fiato della bruttura dello ’nsanguinato tagliamento, lasciarono l’antiche selve e i segreti nascondimenti delle lor caverne. E i fedeli cani abandonaron le case de’ lor signori: e ciò che con sagace naso sente la non sana aria si mosse a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avean seguitati i celestiali pasti, si raunarono; e l’aria mai non si vestì di tanti avoltoi, e mai non furono più uccelli veduti adunati insieme, se ciò non fosse stato nella misera Farsaglia, quando i romani prencipi s’afrontarono. Ogni selva vi mandò uccelli: e i tristi corpi, a cui la fortuna non avea conceduto né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le lor carni pasceano gli affamati rostri. Ogni vicino albero parea che gocciolasse sanguinose lagrime per li sanguinosi unghioni che premeano gli spogliati rami: il passato autunno gli aveva spogliati di foglie, e’ crudeli uccelli col morto sangue premuto da’ lor piedi gli aveano rivestiti di color rosso, e’ membri portati sopra essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abandonati dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de’ morti non era tutto mangiato infino all’ossa, ancor che squarciato tra le fiere si partisse; gran parte ne giace rifiutato, ben che dilacerato sia tutto: il quale il sole e la pioggia e ’l vento macera sopra la tinta terra, fastidiosamente mescolando le romane ceneri con l’arabiche non conosciute.
- Entrò il re Felice vittorioso con gran festa in Sibilia; e poi che egli fu smontato del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti abbracciamenti dell’aspettante sposa, egli prese l’onesta giovane Giulia per la mano destra, e davanti alla reina sua sposa la menò dicendo: - Donna, te’ questa giovane la quale è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando, e priegoti che ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinità congiunta in ogni onore -. Teneramente a’ prieghi del re ricevette la reina Giulia e le sue compagne; ma non dopo molti giorni, partendosi il re di Sibilia, con lui se n’andarono in Marmorina: la quale quando il re vide non essere quello che falsamente Pluto in forma di cavaliere gli aveva narrato, e trovò ancor vivo colui il quale morto credeva aver lasciato ne’ lontani boschi, forte in se medesimo si maravigliò, e dicea: "O gl’iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato. A me pur con vera voce pervenne che la presente città era da romano fuoco arsa, e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di così fatte cose pur morì nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti vivo mi si rapresenta". In questi pensieri lungamente stato, non potendo più la nuova ammirazione sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale già credeva che nell’arene di Spagna fosse dissoluto, e dissegli: - Le tue non vere parole t’hanno degna morte guadagnata, però che esse non è ancora passato il secondo mese poi mossero il nostro costante animo a grandissima ira e ad inique operazioni sanza ragione. Or non ci narrasti tu la distruzione della presente città con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo sanza niuno difetto? Tu fosti cagione di farci commuovere tutto il ponente contra la inestimabile potenza de’ romani, del qual movimento ancora non sappiamo che fine seguire ce ne debbia -. Maravigliossi molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilemente: - Signor mio, in voi sta il farmi morire o il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai io non mi partii, e a ciò chiamo testimonii gl’iddii e ’l vostro popolo della presente città, il quale seco mi ha continuamente veduto; né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna novità -. Allora si maravigliò il re molto più che mai, dicendo fra se medesimo: "Veramente hanno gl’iddii voluto tentar le mie forze e aggiungere la presente vittoria alle nostre magnificenzie". E allegro della salva città abandonò i pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.
- La reina, gravida di prosperevole peso, affannata per lo lungo cammino, volontieri si riposava, e con lei Giulia molto più affaticata, ma quasi continuamente o il bel viso bagnato d’amare lagrime o la bocca piena di sospiri teneva; alla quale un giorno la reina, vedendola dirottamente piangere, disse così: - Giulia, sanza dubbio io so che tu, sì come io, in te nascondi disiato frutto, e’ manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo piangere gravemente te e lui offendi. Tu hai già quasi il bel viso tutto consumato e guasto, e le tue lagrime l’hanno occupato d’oscura caligine e di palidezza; onde io ti priego che tu non facci più questo: anzi ti conforta, e spera che noi insieme avremo gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare il ricevuto danno non menoma? Poi che i fati ti sono stati avversi, appara a sostenere con forte animo le contrarie cose e’ dolenti casi della fortuna. Deh! or tu m’hai già detto, se io ho bene le tue parole a mente, che tu se’ nata di nobilissima prole romana; or se questo è il vero, come io credo, e’ ti dovrebbe tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto Marzio, tornato da’ fuochi dell’unico figliuolo, diede quel giorno sanza lagrimare le leggi al popolo. Questi e molti altri vostri antichi avoli con fermo animo nelle avversità mostrarono la loro virtù, per la quale il mondo lungamente si contentò d’essere corretto da cotali reggitori. Adunque, poi che di tal gente hai tratta origine, si disdicono a te, più che ad un’altra, le lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversità sostenessero doglia, come tu fai? Certo sì fecero; ma volsero anzi seguire la magnanimità de’ loro nobili animi, i quali conosceano la natura delle caduche e transitorie cose, che la pusillanimità della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero essemplo a’ loro successori in ciascuno atto -. Queste e molte altre parole usava spesso la reina in conforto di Giulia.
- Giulia conoscea veramente che la reina l’amava molto, e da grande amore procedeano queste parole, le quali vere la reina le diceva, ond’ella incominciò a riprender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire ozio, il quale di trista memorazione de’ suoi danni l’era cagione, con le propie mani lavorando, sovente faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate, allato alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate da nebulose macchie, come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di lavorare a pruova. Queste opere aveano sanza fine multiplicato l’amore della reina in lei, però che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l’amore, così l’onore a lei e alle sue compagne multiplicare fece.
- Non parve a Pluto avere ancora fornito il suo iniquo proponimento posto ch’egli avesse con le sue false parole commosse l’occidentali rabbie sopra gl’innocenti romani; ma poi ch’egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato vilmente disfatto il falso corpo, un’altra volta riprese vana forma d’una giovane damigella di Giulia chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava, e con sollicito passo entrò nell’ampio circuito delle romane mura. E già Calisto mostrando le sue luci, tacitamente, disciolti i capelli, entrò negli alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne’ quali poi che ella fu ricevuta dal padre del morto Lelio e da’ cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti tutti di tale accidente, taciti si maravigliavano, forte piangendo così cominciò loro a parlare:
- - Poi che gli avversari movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicità, trassero della dolente città il vostro caro figliuolo e la sua moglie, a me carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e da cui voi, porgendo teneri baci e le vostre destre mani, piangendo vi dipartiste, noi avventurosamente, fin che a’ miseri fati piacque, camminammo. Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicità, noi una mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantità di predoni, vaghi del copioso arnese, il quale a noi non molto lontano andava, e del nostro sangue: e l’assalirci e ’l privarci dell’arnese non occupò più che un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi, Lelio co’ suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io pavida piangendo, non so come delle inique mani fuggii; e fuggendo, per tema non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino più volte ho sostenuto mortal dolore -. E co’ pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddi liquori le forze esteriori.
- Incominciossi nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangea. L’aere risonava tutto di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo che tu appena, o Bruto, riformatore della libertà del romano popolo, vi fosti tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell’ora inanzi ciascun romano cominciò ad essere pauroso d’andar cercando gli strani altari o di portare gl’incensi a’ lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, così gli altri romani come i suoi distretti parenti.
- Mentre la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s’appressò il termine del partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno eletto per festa de’ cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una medesima ora quelle doglie che partorendo per l’altre femine si sogliono sentire. Dopo molte grida, essendo già la terza ora del giorno trapassata, e la reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta molto in se medesima di tal grazia, sanza fine lodando i celestiali iddii; e similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, però che sanza alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. Niuno altare fu in Marmorina negli antichi templi sanza divoto fuoco. E i freschi giovani con varii suoni, cantando, andavano faccendo smisurata festa. L’aere risonò d’infiniti sonagli per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni grandissima gioia.
- Avea già il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con grandissime voci invocando il divino aiuto, sostenea grandissima doglia. Ma tra la erronea gente si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese, resistendo a’ suoi parti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da Galanta la convertì in mustella; e con divoti fuochi s’ingegnavano di mitigare la colei ira, per liberare Giulia di tale pericolo. Ma poi che a Giove piacque di dar fine a’ suoi dolori, egli, ella partorendo, le concedette una figliuola non variante di bellezza dalla sua madre; la quale come fu nata, Giulia, sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere di Dio, domandò che la sua unica figliuola, avanti la morte sua, le fosse posta nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di Giulia, coperta la picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale, poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo voltata a Glorizia gliele rendé dicendo: - Cara compagna, sanza dubbio di presente sento mi converrà rendere l’anima a Dio, e nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sì come della dimandata progenie e della disiderata morte. Ond’io ti raccomando la cara figliuola, e, per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sii sempre madre -; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell’un braccio tenea la picciola fanciulla e nell’altro il capo di lei parlante, rendé l’anima al suo fattore umile e divota.
- Cominciossi nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea: - O sventurata figliuola, inanzi alla tua natività cagione della morte del tuo padre, e nascendo hai la tua madre morta! Oimè! quanta sarebbe l’allegrezza de’ miseri parenti, se in vita t’abbracciassero, come io fo! O figliuola di lagrime e d’angoscia, quanto ha Giove mostrato che la tua natività non gli piacea! Oimè, di che amaro peso sono io ancora sanza umano conoscimento divenuta madre! -. E poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietà porgea a chi morto il riguardava, che per vivere ciascuno ne torcea le luci, e dicea: - O cara donna, ove m’hai tu misera con la tua figliuola lasciata? Deh! perché non m’è elli licito poterti seguire? Già era uscito della mia mente il gravoso dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m’hai doppia doglia rinnovata. Oimè misera! omai niuno conforto più per me s’aspetta -. Così piangendo questa, e l’altre che con lei nella camera dimoravano pervennero le dolorose voci alle orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo, prima si maravigliò, dicendo. - Chi piange invidioso de’ nostri beni? -, poi più efficacemente domandando, volle sapere la cagione di cotal pianto. E fatta chiamare alcuna femina della camera ove le misere piangeano, domandò qual fosse la cagione del loro pianto. Quella rispose: - Madonna, quando Febo lasciò il nostro emisperio sanza luce, Giulia si diliberò, partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio, rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato fra noi il grazioso corpo sì pieno d’umiltà nell’aspetto, che alcuno che il guardi non può ritenere in sé l’amaro pianto; e questo è quello che voi udito avete -.
- Quando la reina udì queste parole, sospirando disse: - Oimè!, dunque ci ha la piacente Giulia abandonati? -; e comandò che ’l corpo di Giulia fosse nel suo cospetto recato; sopra ’l quale, poi che ella il vide, sparse amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non era il presente giorno tanto rallegratosi della natività dell’unico figliuolo, quanto la morta Giulia col suo pietoso aspetto l’attristò più. Ella comandò ch’ella fosse il vegnente giorno onorevolemente sepellita e presa nelle sue braccia la bella figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo: - Poi che alla tua madre non è piaciuto d’esser più con noi, certo tu in luogo di lei e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e parente del continuo -. Molte fiate nel futuro pianse queste parole la reina, le quali nescientemente profetico spirito l’avea fatta parlare.
- Sparsesi per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la quale con la sua piacevolezza aveva sì presi gli animi di coloro che sua notizia aveano, che niuno fu che per pietà non spandesse molte lagrime. E il re similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito tra’ freddi marmi, con quello onore che a sì nobile giovane si richiedea, elli scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:
- Qui d’Antropòs il colpo ricevuto,
- giace di Roma Giulia Topazia,
- dell’alto sangue di Cesare arguto
- discesa, bella e piena d’ogni grazia,
- che, in parto, abandonati in non dovuto
- modo ci ha: onde non fia già mai sazia
- l’anima nostra il suo non conosciuto
- Iddio biasmar, che fé sì gran fallazia.
- Assai sturbò la gran festa incominciata della natività del giovane la compassione che ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e entrato con alcuno barone nella camera della reina, prima dolcemente la confortò domandandola di suo stato, poi comandò che le due creature gli fossero arrecate davanti. Furongli arrecati amenduni garzonetti involti in preziosi drappi: i quali, poi ch’egli gli ebbe amenduni nelle sue braccia, per lungo spazio li riguardò, e vedendoli amenduni pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti insieme, disse così: - Certo piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua bellezza: i cavalieri simigliantemente e le gaie donne si rallegrano faccendo gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra natività, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da così fatto giorno nominati. E però tu, caro figliuolo, sì come primo nato, sarai da tutti universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome Biancifiore -; e così comandò che da quella ora in avanti fossero continuamente chiamati. E voltatosi alla reina, principalmente Florio le raccomandò; dopo questo la pregò molto che Biancifiore tenesse cara, però che aspetto avea di dovere ogni altra donna passare di bellezza, e che egli in luogo di Giulia sempre la volea tenere. E dopo queste parole, contento di sì bella erede, si partì dalla reina.
- Teneramente raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le facea nudrire. Ma poi che, lasciato il nudrimento delle balie, vennero a più ferma età, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente vestir li facea; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezza ciascun giorno crescea, men cara che fosse il suo Florio. E vedendo che già Citerea, donna del loro ascendente, s’era dintorno a loro ne’ suoi cerchi voltata la sesta volta, provide di volere che, se la natura in senno gli avesse in alcuno atto fatti difettosi elli, studiando, per la scienza potessero ricuperare cotal difetto. E fatto chiamare un savio giovane, nominato Racheio, nell’arti di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovinetti effettuosamente dovesse in saper leggere ammaestrare. E appresso chiamato Ascalion, simigliantemente amendue glieli raccomandò, dicendo: - Questi sieno a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o donne si convenga, sia che tu a costoro non insegni, però che in loro ogni mia speranza è fissa: e essi sono l’ultimo termine del mio disio -. Ascalion e Racheio presero i commessi uficii; e sanza alcuna dimoranza incominciò Racheio a mettere il suo in essecuzione con intera sollecitudine. E loro in brieve termine insegnate conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro d’Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si deano ne’ freddi cuori con sollecitudine accendere.
- Adunque cominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne’ primi anni puerili, ad imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa dea, madre del volante fanciullo, nominare con tanto effetto, non poco negli alti regni con gli altri dei se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano fossero da’ giovani petti sapute così alte cose come i laudevoli versi narravano, ma, involti i candidi membri in una violata porpore, circundata di chiara nuvoletta, discese sopra l’alto monte Citerea, là ove ella il suo caro figliuolo trovò temperante nuove saette nelle sante acque, a cui ella con benigno aspetto cominciò così: - O dolce figliuolo, non molto distante agli aguti omeri d’Appennino, nell’antica città Marmorina chiamata, secondo che io ho ne’ nostri alti regni sentito, ha due giovinetti, i quali effettuosamente studiando i versi che le tue forze insegnano acquistare, invocano con casti cuori il nostro nome, disiderando d’essere del numero de’ nostri suggetti. E certo il loro aspetto, pieno della nostra piacevolezza, molto più s’appresta a’ nostri servigi che a cultivare i freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori cose, e solo il rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le leggieri ali. E come già nella non compiuta Cartagine prendesti forma del giovane Ascanio, così ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di Florio; e quando se’ là ove essi sono, sì come egli quando va a loro gli abbraccia e bacia costretto da pura benivolenza, così tu, abbracciandoli e baciandoli, metti in loro il tuo segreto fuoco, e infiamma sì l’un dell’altro, che mai il tuo nome de’ loro cuori per alcuno accidente non se ne spenga. E io in alcuno atto occuperò sì il re, che la tua mentita forma per sua venuta non si manifesterà -.
- Mossesi Amore a’ prieghi della santa madre, poi che spogliate s’ebbe le lievi penne; e pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali tetti, passando con lento passo nella segreta camera, ove egli Florio e Biancifiore trovò soletti puerilmente giuocare insieme. Essi si levarono verso lui come fare soleano, e egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo seno, e porgendoli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo disio: il quale Florio poi, guardando ne’ lucenti occhi di Biancifiore con diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancifiore, e spirandole nel viso con piccolo fiato, l’accese non meno che Florio avesse davanti acceso. E dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro li lasciò stare, e rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, rimasi pieni di nuovo disio, riguardandosi, si cominciarono a maravigliare stando muti. E da quell’ora in avanti la maggior parte del loro studio era solamente in riguardar l’un l’altro con temorosi atti; né mai l’un dall’altro, per alcuno accidente che avvenisse, partir si volea, tanto il segreto veleno adoperò in loro subitamente.
- Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l’aere pervenne a’ medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d’un soave sonno l’occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le propie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva. Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sé: e di ciò pareva che l’uno e l’altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co’ propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all’usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de’ vicini mari due girfalchi, i quali portavano a’ piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da’ piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d’oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n’andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l’uno e l’altro parea che divorar volesse co’ propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s’erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d’una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell’ora che Amore s’era da’ suoi nuovi suggetti partito.
- Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’un l’altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse: - Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancifiore da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti! -. Biancifiore rispose: - Io non so, se non che di te poss’io dire che in me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtù de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in altrui adoperarono -. - Veramente - disse Florio - io credo che come tu di’ sia, però che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci -. - Certo tu non piaci meno a me che io a te - rispose Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti, Racheio, che per dare a’ cari scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo, cominciò a dire: - Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine del vostro studio? -. Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell’effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare.
- Poi che più volte Racheio gli ebbe veduti nella soprascritta maniera, e alcuna volta gravemente ripresigliene, egli tra se medesimo disse: "Certo questa opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch’io fo, che pervenendo poi alle orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l’aver taciuto. Io manifestamente conosco ne’ sembianti e negli atti di costoro la fiamma di che elli hanno acceso i cuori: dunque perché non gli lascio io ardere sotto altrui protezione, che sotto la mia? Io pur ho infino a qui fatto l’uficio mio, riprendendoli più volte, né m’è giovato: e però per mio scarico è il meglio dirlo al re". E così ragionando Racheio, Ascalion sopravenne: il quale, in molte cose peritissimo, quando lo studio rincrescea loro, mostrava loro diversi giuochi, e tal volta cantando con essi si sollazzava, avendo già ciascuno da lui medesimo appresa l’arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheio pensando, a cui e’ disse: - Amico, qual pensiero sì ti grava la fronte, che occupato in esso, altro che rimirare la terra non fai? -. A cui Racheio narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalion intese questo, niente gli piacque, ma disse: - Andiamo, e sanza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene n’avvenisse, noi non possiamo essere ripresi -. E dette queste parole, voltati i passi, amenduni n’andarono nella presenza del re; al quale Ascalion parlò così:
- - Nella vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessità a narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato avremmo molto che dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma però che noi, disiderosi del vostro onore, non volendo anche il nostro contaminare, conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a noi noia né mancamento de’ vostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è generato ne’ semplici cuori del vostro caro figliuolo Florio e di Biancifiore. E questo nelli loro atti più volte abbiamo conosciuto, sì come l’iddii sanno: essi più volte effettuosamente abbracciarsi e darsi graziosi baci abbiamo veduti, e appresso sovente, guardandosi nel viso, l’un l’altro gittare sospiri accesi di gran disio. E ancora più manifesto segnale n’appare, il quale voi assai tosto potete provare, che niuna cosa è che l’uno sanza l’altro voglia fare, né li possiamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio abandonato: anzi, così tosto come noi della loro presenza siamo partiti, così incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell’altre cose, gravemente più volte ripresi gli abbiamo, credendo poterli da ciò ritrarre, ma poco giova la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi preso, v’abbiamo voluto questo palesare. Voi, sì come savio, anzi che più s’accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo, ché, quanto a noi, il nostro potere ci abbiamo adoperato -.
- Niente piacquero al re l’ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso, rispose: - Però non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti da ciò che l’uomo vuole; e io, quando per voi dell’incominciata follia rimaner non si volessono, prenderò in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro onore per vile cagione non diventi minore -. E detto questo, con l’animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera; e quivi da sé cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide, e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse: - O valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l’animo vostro, che io, pensando, nell’aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia, però che niuna felicità né avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi ’l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò -. Rispose il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse: - E’ mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia con la sua destra tirati nell’auge della sua volubile rota, accrescendo il numero de’ nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie, a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di queste cose, non s’ingegni con la sua sinistra d’avvallarci. E gl’iddii credo che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl’iddii lungamente pregati ricevemmo; e sapete che ne’ nostri regni nella sua natività niuno altare fu sanza divoto fuoco e sanza incensi, né niuno iddio fu che con divota voce non fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e tristizia, in vile modo s’ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa comincia, discenderà sanza fallo all’altre minori: e udite come ella s’è ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di Florio, l’ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i loro maestri m’hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami, ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobiltà è dispari. Se una giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d’una romana popolaresca femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io non avria avuta alcuna malinconia se gl’iddii l’avessero al loro servigio chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com’io avrei fatto o farei, se gl’iddii avessero consentito ch’io avessi per simile caso perduto Florio che Xenofonte perdé Gilo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere, però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito che, se io di tal fallo il riprendo, o m’ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m’abandoni e vada vagabundo per gli strani regni, fuggendo le mie riprensioni: e così avremmo sanza alcuno utile accresciuto il danno. E d’altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco ognora più s’accenderà, e così mai da lei partire nol potremo -.
- Molto fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando ne ’l dimostrò; ma, dopo poco spazio, con pietoso aspetto disse: - Caro signore, non è per questo accidente da disperarsi, né degl’iddii né della fortuna, però che non è mirabile cosa se Florio s’è della bellezza della vaga giovane inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo e continuamente con lei dimori, e ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio che, se questo amore s’avanzasse, come voi dite che egli è cominciato, che noi potremmo dire che ’l nostro figliuolo fosse vivendo perduto, pensando alla piccola condizione di Biancifiore. Ma quando le piaghe sono recenti e fresche, allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno. Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e sanza dubbio egli non può essere altramente e simigliantemente gli amanti novelli sono, né mai altro fuoco non li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere seguendo il parer mio, né niuna più legger via ci è che dividere l’uno dall’altro; la qual cosa in questa maniera si può fare. Florio, già ne’ santi studii dirozzato, è da mettere a più sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Ferramonte, duca di Montoro, a noi per consaguinità congiuntissimo, e in niuna parte del nostro regno più solenne studio si fa che a Montoro. Noi possiamo sotto spezie di studio mandar Florio là a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio dimorare, gli potrà agevolemente della memoria uscir questa giovane, non vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l’aggia, allora noi gli potremo dare sposa di real sangue sanza alcuno indugio, e così potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E già però esso non ci sarà tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond’io, caro signore, vi priego che questa malinconia cacciate da voi prendendo sanza indugio questo rimedio -.
- Piacque al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che quanto più si strigne, il fuoco con più forza cuoce; e poi ch’egli sopra ciò ebbe lungamente pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal pericolo fuggire non vedea. Ma, oh quanto fu tale imaginazione vana, con ciò sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de’ superiori corpi, avvegna che possibile! Venus era nell’auge del suo epiciclo, e nella sommità del differente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu donna, sanza alcuna resistenza d’opposizione o d’aspetto o di congiunzione corporale o per orbe d’altro pianeto, dello ascendente della loro natività; il saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero. Oimè, che mai acqua lontana non spense vicino fuoco! Ove credea il re potere mandar Florio sanza la sua Biancifiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente nel suo animo figurata con più bellezza che il vero viso non possedea, e quello che prende e lascia amore era sempre con Biancifiore? I corpi si doveano allontanare, ma le menti con più sollecitudine si doveano far vicine. Niuna cosa è più disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole, ad avere. Per quale altra cagione diventò il gelso vermiglio, se non per l’ardente fiamma costretta, la quale prese più forza ne’ due amanti costretti di non vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi esser negato il suo disio? Ella fu femina mentre ella ne stette in forse con isperanza. O re, tu credi apparecchiare fredde acque all’ardente fuoco, e tu v’aggiugni legne. Tu t’apparecchi di dare non conosciuti pensieri a’ due amanti sanza alcuna utilità di te o di loro, e affrettiti di pervenire a quel punto il quale tu con disio ti credi più fuggire. Oh quanto più saviamente adoperresti lasciandoli semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza fare sentire quanto sieno amari o dilettevoli i sospiri che da amoroso martiro procedono! Elli amano ora tacitamente. Né niuno disidera più avanti che solo il viso, il quale per forza conviene che per troppa copia, se stare gli lascia, rincresca, però che delle cose di che l’uomo abondevole si truova sfastidiano. Ma che si può qui più dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza riguarda la necessità degli abandonati, non volle che il nobile sangue, del quale Biancifiore era discesa, sotto nome d’amica divenisse vile, ma acciò che con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentì che le pensate cose sanza indugio si mettessero in effetto?
- Diede il giorno luogo alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce, ma poi che Febo co’ tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sé chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sé l’accolse, e così gli disse: - Bello figliuolo, a me sopra tutte cose caro, ascoltino le tue orecchi pazientemente le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere osservati, per te sieno messi ad effetto. Con ciò sia cosa che niuna speranza rimasa fosse alla mia lunga età di gloria, agl’iddii piacque di donarmi te, in cui la mia speme, sanza fallo già secca, ritornò verde, e dissi: "Omai la fama del nostro antico sangue non perirà, poi che gl’iddii ci hanno conceduto degna erede"; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, sì come sopra unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l’alto uficio a che gl’iddii t’hanno apparecchiato, sì come è a ornare la tua fronte di splendida corona degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancora che io nella tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura pervenire, nondimeno con essaminato animo imaginai che per le accidentali scienze molto t’avanzeresti. E dalla imaginazione nel dovuto tempo venni all’effetto; e infino a questo giorno, così come la tua età è stata per la gioventudine deboletta a sostenere, così con picciole scienze t’ho fatto nutricare. Ora che in più ferma età se’ pervenuto, disidero che tu a più alti studii disponghi il tuo intelletto, e massimamente a’ santi principii di Pittagora, de’ quali venendo con l’aiuto de’ nostri iddii a perfezione, sì come io estimo, ti seguirà grandissimo onore, con ciò sia cosa che la scienza in niuna maniera di gente tanto sia lucida e risplendente quanto ne’ prencipi. E ciò puoi tu per te medesimo considerare, ricordandoti quanta fosse eccellente la fama del gran re Salamone, ancora che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per imprendere questa scienza, certo a te non converrà andare cercando Elicona, né i solleciti studii d’Attene, né alcuno altro lontano paese, però che qui a noi molto vicina è una città chiamata Montoro, dotata di molti diletti, la quale per noi il valoroso duca Ferramonte governa, a noi congiuntissimo parente, non molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti sarà. Quivi con ordinato stile si leggono le sante scienze; quivi, secondo che io estimo, tu potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io voglio che sanza indugio vi vada. Né ciò ti dee parer grave, considerando principalmente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare niuno affanno né sconcio se ne dee rifiutare: appresso, tu non sarai però da noi diviso, però che ci se’ per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi venire a veder te e tu noi sanza sconcio dello studio: il quale noi non intendiamo che tu prenda in maniera che niuno tuo diletto se ne sconci dall’altra parte, tu sarai con persona che sanza fine t’ama e che disidera molto di vederti, cioè il duca. E però ora che il tempo è molto più atto allo studio che al sollazzo, però che sì come già vedi signoreggiare le stelle Pliade e la terra rivestire di bianco molto sovente avendo perduto il verde colore, prendi quella compagnia che più ti diletta, e vavvi -.
- Florio, udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, però che nemiche le sentia al suo disio, e lasciando parlare il padre, lungamente guardando la terra, mutolo sanza niente rispondere stette, e dimandatagli più volte dal padre risposta, dopo il trarre d’un grandissimo sospiro, disse così: - A me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione per che da voi sì giovane e con tanta fretta dividere mi volete, essendo voi pieno d’età, com’io vi veggo. Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non è meno da me disiderata. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio, da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate voi che io lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso, ma quasi continuo crederò che sconcio accidente occupi con infermità la vostra persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno dubbii per la mente che la vostra vita, a me molto da tener cara, non sia con insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, però che io non fui generato dalle querce del monte Appennino, né dalle dure grotte di Peloro, né dalle fiere tigre, ma da voi, cui io amo più che niuna altra cosa: e di quelle cose che sono amate si dee dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo petto, qual parte di scienza vi potrà mai entrare? E ancora manifestamente veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl’iddii, non essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a’ loro regni? la qual cosa sia lontana per molto tempo da noi; ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con più pietosa mano gli occhi nell’ultima ora gravati, che farei io? La qual cosa, se io vi sono lontano, come la farò? E se a me lontano da voi questo accidente avvenisse, che ’l veggiamo sovente avvenire, ché più tosto si secca il giovane rampollo che il vecchio ramo, chi porterebbe a’ miei fuochi l’acceso tizzone? Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete pensato, e vedete ancora s’è convenevole cosa che io, unico figliuolo di così fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però più utile e migliore consiglio mi pare il fare qui da Montoro o d’altra parte ove più sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale più v’aggrada che io appari, e qui in vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni dubbio, apprenderò e con più diletto studierò, vedendovi continuamente in prosperevole stato -.
- Quando il re udì la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le scuse da lui porte, non da pietà che di lui padre avesse, ma sola la forza d’amore che a Biancifiore lo stringea li facea questo dire; onde egli così gli disse: - Figliuolo, siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse mettevi futuri, però che se pure avvenissero, tanto ne sarai vicino, che ben potrai al pietoso uficio esser chiamato. Ma tu sanza dovere ti ramarichi, ponendolo in non convenevole cosa, che un figliuolo di tal re, quale tu se’, vada per le strane scuole studiando. Or ove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e nella tua città e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che ’l troppo amore de’ padri verso i figliuoli li fa le più volte pigri alle virtù certo io m’atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che niuno atto di pigrizia dal grande amore ch’io ti porto ti succedesse, mi fo io alquanto contra me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu il dei aver caro, però che la tua età richiede più tosto affanno che agio: il sole, poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, è quattordici volte ad un medesimo punto ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, e è entrato nel cammino usato per compiere la quintadecima, e è già al terzo della via, o più avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d’andar così vicino a noi, come poss’io presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, e’ non si disdice a’ giovani disiderosi di pervenire valorosi prencipi l’andare veggendo i costumi delle varie nazioni del mondo. Già sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi nella tua età, solo figliuolo maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò agli studii d’Attene, lasciando il padre pieno d’età forse più ch’io non sono, perché in Creti non era studio sofficiente al suo valoroso intendimento. E Giansone, più disposto all’armi che a’ filosofichi studii, con nuova nave prima tentò i pericoli del mare per andare all’isola de’ Colchi a conquistare il Montone con la cara lana, e con esso etterna fama, perché ne’ suoi paesi non potea mostrare la sua virtuosa forza, e giovanissimo abandonò i vecchi padre e ziano sanza alcuna erede: l’onore del mondo né i celestiali regni non s’acquistano sanza affanno. Io conosco manifestamente che effettuoso amore ti strigne a essere sempre meco, e niuna altra cagione ti fa scusare l’andata; ma l’andare a Montoro non sarà allontanarsi da me. Onde, caro figliuolo, va, e sì sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possi a me in brieve tempo sanza più avere a studiare ricongiugnerti valoroso giovane -.
- Allora Florio, non potendosi quasi più celare, però che ira e amore dentro l’ardeano, rispose: - Caro padre, né Androgeo né Giansone non seguirono l’uno lo studio e l’altro l’armi, se non per averne il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E veramente a me non sarebbe grave il provare le tempestose onde del mare, né i pericoli della terra, andando molto più lontano da voi, in qualunque parte del mondo, che niuno di loro fece, credendovi io trovare la cosa da me disiata a quietare la mia volontà. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo? Quel ch’io amo e quel ch’io disidero è meco; voglio io andare perdendomi, e non sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d’avere alcuna volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare! Io non posso fare che io non mi vi scuopra: egli è qui nella nostra reale casa la nobile Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo; e certo non sanza cagione: ella è l’ultimo fine de’ miei disii, e solamente vedere il suo bel viso, il quale più che matutina stella risplende, è quello che io disidero di studiare. Onde io caramente vi priego che voi della mia vita aggiate pietà sì come padre di figliuolo, la quale sanza fallo, dividendomi io da Biancifiore, si dividerà da me. E acciò che ’l tempo in lungo sermone non si occupi, vi dico che sanza lei io non sono disposto ad andare in alcuna parte del mondo, né vicina né lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi ove volete, ché tutto mi parrà leggiero e grazioso l’andare. E dell’amore ch’io porto a costei vi dovete voi molto contentare, pensando che Amore abbia tanto bene per noi proveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna lontana da’ nostri regni faccia come già fece Perseo, il quale tra li neri indiani scelse Andromeda, e similemente Paris degli altrui regni ne portò Elena insieme col fuoco che arse poi i suoi regni; e cercando lei abandoni voi vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una città e in una medesima casa m’ha conceduto dilettoso piacere, di sì grazioso dono gli siamo noi molto tenuti. E poi che così è, io vi priego che vi piaccia che graziosamente e sanza affanno voi mi lasciate questo singular bene possedere -.
- Sì tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato così gli rispose: - Ahi, caro figliuolo, che è quello che tu di’? Io non avrei mai creduto che sì vile cagione ti ritenesse da volere andare a pervenire a così alti effetti come lo studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Sola pietà di me vecchio credea ti ritenesse: ora hatti già tanto insegnato Amore, che sotto spezie di verità porgi inganno a me, tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io sotto la correzione di Racheio t’ho fatto fare? Oimè, che ora pur conosco io manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e ben conosco che la verità da’ tuoi maestri mi fu porta poi che così parli; e sanza fine di te mi maraviglio, il quale mi vuoi dare a vedere che quello di che tu e io più ci dovremmo dolere, ne dovremo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta sia la viltà, la quale ha il tuo animo occupato in disporti ad amare così fatta femina, come tu ami; della qual cosa doppiamente se’ da riprendere e principalmente d’aver avuta sì poca costanza in te, che a sì vile passione, com’è amare una femina oltre misura, hai lasciato vincere il tuo virile animo, non ponendo mente quanti e quali sieno i pericoli che da questo amare sieno già proceduti e procedano. Non udisti tu mai dire come miserabilmente Narcisso per amore si consumò, e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? E ancora gl’iddii sostennero noia di tal passione, e massimamente Apollo, il quale, di tutte cose grandissimo medico, a sé medicina non poté porgere, poi che ferire s’ebbe lasciato, forse non per viltà ma per provare; e in brieve, niuno non è a cui questo amore non dissecchi le medolle dell’ossa. E tu con disiderio il vai seguendo! Ma ancora di tutto questo, tenendo lo stile della più gente, ti potresti scusare; ma non consideri tu di cui tu ti sei innamorato, e per cui tu così faticosa passione sostieni? e ciò è d’una serva nata nelle nostre case, la quale a comparazione di te non ti si confarebbe in niuno atto. Deh! or ti fossi tu d’una valorosa e gran donna simile alla tua nobiltà innamorato! assai mi dorrebbe, ma ancora mi sarebbe alcuna consolazione. Io non ti potrei mai tanto sopra questo dire quanto io disidero; ma però ch’io so che ancora in te medesimo, sanza riprensione alcuna, ti riconoscerai del tuo errore, e rimarra’tene, mi taccio. E se io credessi che ciò non avvenisse, certo legger cosa mi sarebbe ora io medesimo ucciderti. Ma acciò che tu seguiti lo studio, io in questa parte, ancora che io conosca che manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sì tosto come tua madre, la quale alquanto non sana è stata, come tu puoi vedere, avrà intera sanità ricuperata, io la ti manderò a Montoro; e ora teco la ne manderei, se non fosse che sanza lei tua madre in cotale atto non vuol rimanere -.
- Turbossi alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando così li rispose: - Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, né sì crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io giovinetto contra così generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono io sì gravosamente da riprendere, come voi fate, ma emmi da rimettere, pensando che il mio spirito è stato sì volgare, che per rigidezza non ha rifiutato quello che ciascuno altro gentile ha sostenuto. E la mia forma la quale mercé degl’iddii è bellissima, richiede tale uficio, più tosto che alcuno altro. E che si potrà giustamente dire a me s’io amo, poi che ad Ercule e ad Aiace uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la qualità della femina che io amo però che popolaresca e serva la riputate, e voi credo che in parte ignoriate di qual sangue questa giovane, cui io amo, sia discesa, sì come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con picciola schiera alla vostra moltitudine di gente, uccideste, il quale forse non fu di minor qualità che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi nol sappiamo, noi pure avemo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste, discese dell’alto sangue del vittorioso Cesare, già conquistatore de’ nostri regni per adietro. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane esser vile si conoscesse, sì conosciamo noi lei esser tanto gentile o più, quanto se d’imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch’è sola virtù d’animo. E qualunque è quelli che con animo virtuoso si truova quelli debitamente si può e dee dire gentile. E in cui si vide già mai tanta virtù, quanta in costei si truova e vede manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la prudentissima evidenzia della cumana Sibilla ritornata; né fu la casta Penolope più temperata di costei, né Catone, più forte negli avversarii casi, né con più equalità d’animo: liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si potrebbe adeguare alla dolcissima eloquenzia dell’antico Cicerone. A cui mai tanta grazia concessero gl’iddii? Questa è sommamente virtuosa: adunque sanza comparazione gentile. Non fanno le vili ricchezze, né gli antichi regni, forse come voi, essendo in uno errore con molti, estimate, gli uomini gentili né degni posseditori de’ grandi uficii: ma solamente quelle virtù che costei tutte in sé racchiude. Deh, or come mi potea o potrebbe già mai Amore di più nobil cosa fare grazia? Questa ha in sé una singular bellezza, la quale passa quella che Venus tenea, quando ignuda si mostrò nelle profonde valli dell’antica selva chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m’accende nel cuore uno ardore virtuoso sì fatto, che s’io d’un vile ribaldo nato fossi, mi faria subitamente ritornare gentile. Né niuna volta è che io i suoi lucentissimi occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcuno n’avessi. Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi muove, non che ella è gentile, come di sopra detto è, ma se ella fosse la più vil feminella del mondo, sì è ella da dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v’aggrada che io studii, acciò che riputato non mi possa essere in vizio il non ubidirvi, farollo volentieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l’effetto: non vi mandate me, il quale sono presto d’andarvi, poi che a voi piace, e impromettetemi di mandarmi lei. Sieno del loro amore ripresi la trista Mirra e lo scelerato Tireo e la lussuriosa Semiramis, i quali sconciamente e disonestamente amarono, e me più non riprendete, se la mia vita v’aggrada -.
- Non rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si partì da esso e comandò che s’acconciasse l’arnese, acciò che Florio la seguente mattina n’andasse a Montoro.
- Alle parole state tra ’l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore, ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l’avea notate, ascoltando quello ch’ella non avrebbe voluto udire né che per altrui le fosse stato raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a Florio per l’amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò la vera e buona difensione di Florio fatta in aiuto di lei, le rendé molto il perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: - Poi che mandare mi dovete Biancifiore a Montoro, io v’andrò -, allora dolore intollerabile l’assalì, però che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re il quale questo impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sé così: "Oimè, Florio, solo conforto dell’anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t’hai tu lasciato ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perché tu consentissi, come tu hai fatto, all’andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii. Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te, ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste cose se’ stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo studio, ma di trarre me della tua memoria, t’allontana da me, acciò che per distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua Biancifiore? Ove n’andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più felice Fedra, che col suocero in nome d’amante finì il disiato cammino! Or mi fosse stata licita l’una di queste felicità: o l’essere stata da te con ingegno abandonata o d’averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m’hai più volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto della crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E’ non ti si disdicea, ché ciascuno sa che alcuno non può dar legge all’amorevole atto, però che la forza d’amore tiene l’uomo, più che alcun altro vinco, costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se ’l tuo amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per forza menare. Né in questo ti si disdicea l’essere al tuo padre disubidiente, però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per adietro non sono quali furono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la promessa fede e le vele della sua nave diede ad un’ora a’ volanti venti? O come potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch’io l’avea nelle mie mani e che io sola era l’anima e la vita tua: ora se tu sanza queste cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, né hai avuta alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia t’incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai, partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa che morte non ci falla! Tu te n’andrai a Montoro col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte sanza me sarai, e niun diletto da te ha preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti addesso. Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl’iddii hanno ragione d’essere avversi a’ nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto spazio di potere toccare l’ultime possanze d’amore, e mai non le tentammo: la qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte soluto, né mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso credo che forse gl’iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, né già per tale speranza il mio dolor non scema! Or volessono gl’iddii che, poi che dividere mi debbo da te, che se’ solo mio bene mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire! Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, né però si muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t’era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone, però ch’io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi iddii, se i miseri meritano d’essere uditi, io vi priego che di me v’incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più che crudele, te ne va’, ché in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti giuro per l’anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com’io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".
- Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch’egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m’avrebbe egli, ché io non m’avrei lasciato. Né niuna peggior cosa mi potea fare che da sé cacciarmi: la qual cosa egli non avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l’avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa, però che meco ove che io fossi andato l’avrei menata; la quale io più volontieri, sanza impedimento d’alcuno, liberamente possederei, che io non farei la grande eredità del reame che m’aspetta. Ma poi che promesso l’ho, io v’andrò, acciò che non paia ch’io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera. Egli m’ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima cagione di venirmene dicendo: "Voi non m’atteneste lo ’mpromesso dono: io non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d’esser con lei lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò d’avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea; a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse: - O dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare? -. La quale prestamente dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse: - Oimè, signor mio, tu m’hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O malvagio amante, non degno de’ doni della santa dea, alla quale i nostri cuori sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m’abandoni? Io, tenera pulcella, sono lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de’ bramosi lupi. Manifesta cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m’era per lo tuo amore fatto, non perché io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna, a me, per loro estimazione prospera e benivola tenuta per la tua presenza, ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl’iddii che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi lasci l’animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d’avere sanza te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi ha bene investita, però che, quando prima ne’ tuoi begli occhi vidi quel piacere, che poi a’ tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu, ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore, costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite, faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso né io né alcuno altro dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me: e certo io l’avrei per me volontieri fatto, ma dubitando d’offendere quella piccola particella d’amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la mia vita cara per piacere a te. Ma gl’iddii sanno quale ella sarà partendoti tu, però che io non credo che mai giorno né notte sia, che io non sofferi molti più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi’ io che tu con la tua bocca dicesti d’andare a Montoro! Oimè, or m’avessi tu detto davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d’abandonarti", però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita della tua mente -. Queste e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole il parlare, le disse così:
- - Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu di’? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli della menoma parte de’ nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che manchi, né similemente l’onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire, acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu di’ che io ti lascio l’anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi dolgono le parole le quali tu di’, avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di quello che io ora dirò, né me ne sforza amore né me n’inganna, ma è così la verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, né belli costumi fecero mai più gentilesca creatura nell’aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno te. La chiarità del tuo viso passa la luce d’Appollo né la bellezza di Venere si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia, e ancora più: ch’egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de’ ricchissimi re d’Oriente? Certo niuna cosa, né tanto, traendone il nome, che è chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se’ tu da me degnamente amata, sì com’io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl’iddii che tu in niuno atto o per nulla cagione t’avessi offesa o t’offendessi, però che niuna persona m’avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l’andata mia a Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e’ non dolfe più a te che a me. Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli m’ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti sarò con l’anima vicino, ché certo impossibile sarebbe ch’io ti dimenticassi, se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il lagrimare; e fa ragione ch’io sia sempre teco, e non pensare che ’l mio amore sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai altra che te, né mai altra donna signoreggerà l’anima mia se non Biancifiore -. E dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l’uno l’altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo del vestimento, le lagrime de’ chiari visi.
- Nel tempo della seconda battaglia stata tra ’l magnifico giovane Scipione Africano e Annibale cartaginese tiranno, essendo già la fama del valore di Scipione grandissima, avvenne che uscito del campo d’Annibale un cavaliere in fatto d’arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda nel terreno de’ romani, acciò che ’l campo d’Annibale copioso di vittuaglia tenessero, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro stata, gli sconfisse, e lui ferì mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede vedendosi abbattuto e sentendosi solo, da’ suoi abandonato e ferito a morte, alzò il capo e riguardò il giovane, il quale la sua lancia avea a sé ritratta, forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente parea robusto né forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò: - O cavaliere, non ferire, però che la mia vita non ha bisogno di più colpi a essere cacciata che quelli che io ho, né credo che il sole tocchi le sperie onde che l’anima mia fia a quelle d’Acheronta. Ma dimmi se tu se’ quel valoroso Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso -. Il quale Scipione, riguardandolo e udita la voce, il riconobbe, però che in altra parte aveva la sua forza sentita, e disse: - O Alchimede io sono Scipione -. Allora Alchimede gli porse la destra mano e con fievole voce gli disse: - Disarma il già morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai, prendilo e guardalo, però che in lui mirabile virtù troverai: che a qualunque persona tu il donerai, elli, riguardando in esso, conoscerà incontanente se noioso accidente avvenuto ti fia, però che il colore dell’anello vedrà mutato, e sì tosto come egli l’avrà veduto, la pietra tornerà nel primo colore bella. E a me per tale cagione il donò Asdrubal, fratello al mio signore Annibale, a cui tu tanto se’ avverso, quando di Spagna mi partii da lui, che più che sé m’amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e sola d’alcuno amico; onde, se io qui muoio con esso, o perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la sua virtù non conoscerà, o che forse non sarà degno d’averlo: e però io amo meglio che tu, posto che offeso m’abbi, il tenghi in guiderdone della tua virtù, che alcuno altro il possegga per alcuno de’ detti modi -. E detto questo, la debole testa sopra il destro omero bassò; e dopo picciolo spazio si morì. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro, più disioso della virtù dell’anello che del valore, trovò il detto anello bellissimo, e fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, molto chiara e bella: il quale egli prese, e mentre che viveo con gran diligenza il guardò. Ma poi, pervenendo d’uno discendente in altro della casa, pervenne al valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d’andare sovente per lo bene della republica, come valoroso cavaliere non tralignante da’ suoi antichi, fuori di Roma contro a’ resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la virtù, acciò che ella sanza cagione di lui non dubitasse. E quando lo infortunato caso da non ricordare l’avvenne, l’avea ella in mano, e per dolore il si trasse e diedelo a guardare a Glorizia, dicendo: - Omai non ho io di cui io viva più in dubbio, né per cui la virtù del presente anello più mi bisogni -. Ma dopo la morte di Giulia, Glorizia il donò a Biancifiore, dicendole come del padre di lei era stato e appresso della madre, e la virtù di lui: il quale Biancifiore lungo tempo caramente guardò. E ricordandosene allora, lo portò dove Florio era, e così cominciò piangendo a parlare:
- - Deh, perché s’affannano le nostre mani a rasciugare le lagrime de’ nostri visi nel principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai di lagrimare ristea, mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, che tu mi dì: "Comanda che io non vada a Montoro!". Deh, or perché bisognava egli che io il ti comandassi? Non sai tu come io volontieri vi ti vedrò andare? Tu il dovevi ben pensare. Ma volontieri i’ ’l farei, se convenevole mi paresse; ma però che io non disidero meno che ’l tuo dovere s’adempia che ’l mio volere, poi che tu promettesti d’andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperevole cosa non paia, volendosene rimanere, il disdire quello che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non paiano vento, io concedo, così volontieri come Amore mi consente, che tu vi vada, e ubidendo anzi adempi il piacere del tuo padre. Ma sopra tutte le cose del mondo ti priego che tu per assenza non mi dimentichi per alcuna altra giovane. Io so che Montoro è copioso di molti diletti: tutti ti priego che da te siano presi. Solamente a’ tuoi occhi poni freno quando le vaghe giovani scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere, cantando amorosi versi, però che a’ loro canti già molti giovani furono presi: però che se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t’infiammasse, come furiosa m’ingegnerei di venire dove tu e ella fosse; e se io la trovassi, con le propie mani tutta la squarcerei, né nel suo viso lascerei parte che graffiata non fosse dalle mie unghie, né niuno ordine varrebbe a’ composti capelli che io, tutti tirandoglieli di capo, non gli rompessi; e dopo questo, per vituperevole e etterna sua memoria, co’ propii denti del naso la priverei: e questo fatto, me medesima m’ucciderei. Questo non credo però che possibile sia di dovere avvenire: ma sì come leale amante ne dubito, e però il dico. Tu avrai molti altri diletti, e ciascuno s’ingegnerà di piacerti, acciò che io ti dispiaccia: ma io mi fido nella tua lealtà. E però che io sono certa che come tu in molti e varii diletti starai, così io in molte avversità, le quali forse io non ti potrò far note così com’io vorrei, ti voglio pregare, poi che gl’iddii adoperano verso noi tanta crudeltà, e la fortuna ne mostra le sue forze in dipartirci, che ti piaccia per amore di me portar questo anello, il quale, mentre che io sanza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare, Io ti priego che allora sanza niuno indugio mi venghi a vedere: e priegoti che tu sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu il vedi. Più non ti dico, se non che sempre il tuo nome sarà nella mia bocca, sì come quello che solo è nella memoria segnato, e nello innamorato cuore col tuo bel viso figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali io pregare debbo della mia felicità: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, sì come a quelli in cui i miei pensieri tutti si fermano per aver pace. Veramente una cosa ti ricordo: che s’egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te come promesso t’ha, che il tornare tosto facci a tuo potere, però che se troppo sanza vederti dimorassi, lagrimando mi consumerei -. E dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; né prima abbracciando si giunsero, che i loro cuori, da greve doglia costretti per la futura partenza, paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il suo sangue a render caldo, e i membri abandonati rimasero freddi e vinti, e essi caddero semivivi, avanti che Florio potesse alcuna parola rispondere. E così, col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sì che chi veduti gli avesse, più tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio, il cuore rendé le perdute forze a’ sopiti membri di Florio, e tornò in sé tutto debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto, e tirando a sé le braccia, gravate dal candido collo di Biancifiore, si dirizzò, e vide che questa non si movea, né alcun segnale di vita dimostrava. Allora elli, ripieno di smisurato dolore, appena che la seconda volta non ricadde, e disiderato avrebbe d’esser subitamente morto; ma veggendo che ’l dolore nol consentiva, piangendo forte si recò la semiviva Biancifiore in braccio, temendo forte che la misera anima non avesse abandonato il corpo e mutato mondo, e con timida mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di vita gli rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla verità, ché forse caldo trovava e pareagli essere ingannato, cominciò piangendo a baciarla, e dicea: - Oimè, Biancifiore, or se’ tu morta? Deh, ove è ora la tua bella anima? In quali parti va ella sanza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl’iddii essere tanto crudeli ch’elli abbiano la tua morte consentita? O Biancifiore, deh, rispondimi! Oimè ch’io sono il tuo Florio che ti chiamo! Deh, or tu mi parlavi ora inanzi con tanto effetto, disiderando di mai da me non ti partire, e ora solamente non mi rispondi! Or se’ tu così tosto sazia dell’essere meco? Oimè, che gl’iddii mi manifestano bene ora che di me sono invidiosi e hannomi in odio. Ma di questo male m’ha più cagione il mio crudel padre, il quale sì subitamente ha affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l’avrai interamente! Le parole da me dette stamattina ti saranno dolente agurio e oggi ti faranno dolente portatore del fuoco, ove tu miseramente ardere mi vedrai: la tua crudeltà è stata cagione della morte di costei, e ella e tu sarete cagione della mia. Vivere possi tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl’iddii prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che tu sii, rallegrati che io m’apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua congiunti, tali infra le non conosciute ombre in etterno amandoci staremo insieme. Una medesima ora e uno medesimo giorno perderà due amanti, e alle loro pene amare sarà principio e fine -. E già avea posto mano sopra l’aguto coltello, quando egli si chinò per prima baciare il tramortito viso di Biancifiore, e chinandosi il sentì riscaldato, e vide muovere le palpebre degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso di lui. E già il tiepido caldo, che dal cuore rassicurato movea, entrando per li freddi membri, recando le perdute forze, addusse uno angoscioso sospiro alla bocca di Biancifiore, e disse: - Oimè! -. Allora Florio, udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio e disse: - O anima mia dolce, or se’ tu viva? Io m’apparecchiava di seguitarti nell’altro mondo -. Allora si dirizzò Biancifiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma Florio, veggendola levata, disse: - O sola speranza della vita mia, ove se’ tu infino a ora stata? Qual cagione t’ha tanto occupata? Io estimava che tu fossi morta! Oimè, perché pigli tu tanto sconforto per la mia partita? Tu me la concedi con le parole, e poi con gli atti pieni di dolore il mi vieti. Io ti giuro per li sommi iddii che, s’io vi vado, che o tu verrai tosto a me come promesso m’ha il mio padre, o io poco vi dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io là dimorerò, o ancora, mentre ch’io starò in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e lascia tanto dolore: ché s’io credessi che questa vita dovessi tenere, io in niuno atto v’andrei; o s’io vi pure andassi credo che pensando al tuo dolore morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia mente, che il presente anello, il quale ora donato m’hai, sempre guarderò, tenendolo sopra tutte cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imaginerò di veder te. E se mai accidente avviene che egli si turbi, niuno accidente mi potrà ritenere che io non sia a te sanza alcuno indugio: e però io ti priego che tu ti conforti. Queste parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri furono tra Florio e Biancifiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi che egli chiudendola tornò tenebroso, i due amanti pensosi, teneramente dicendo "A Dio!" si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.
- Quella notte fu a’ due amanti molto gravosa, e non fu sanza molti sospiri trapassata, ancor che assai brieve la riputassero però che più tosto avrebbero quelle pene sostenute essendo così vicini che doversi il vegnente giorno partire. Ma poi che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui, Florio si levò e con lento passo n’andò davanti al re suo padre e alla reina, dove Biancifiore similmente pensosa già era venuta; e fatta la debita riverenza al padre, e preso congedo dalla madre, la quale in vista non sana, giaceva sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e poi verso la madre, e caramente raccomandò loro Biancifiore, pregandoli che tosto gliele mandassero, e poi abbracciata Biancifiore, in loro presenza la baciò dicendo: - A te sola rimane l’anima mia; chi onorerà te onorerà lei -; e appena così parlando, costrinse con vergogna le lagrime, che il greve dolore che il cuor sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera poté dire: - Rimanetevi con Dio -; e discese le scale, salì a cavallo e sanza più indugio si partì.
- Molto dolfe a tutti la partita di Florio, posto che il re e la regina contenti ne fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma sopra tutti dolfe a Biancifiore. Ella l’accompagnò infino in piè delle scale, sanza far motto l’uno all’altro; e poi che a cavallo il vide riguardato lui con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salì sopra la più alta parte della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto possibile le fu il vederlo. Ma poi che più veder nol poté, ella, accomandandolo agl’iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sì gran pianto che ne sarebbe presa pietà a chiunque udita l’avesse o veduta, e dicea: - Oimè, Florio, or pur te ne vai tu: or pure ho io veduto quello che io non credetti che mai gli occhi miei sostenessero di potere vedere! Deh, or quando sarà che io ti rivegga? Io non so com’io mi faccia; io non so come io sanza te possa vivere. Oimè, perché non morii io ieri nelle tue braccia, quando io fui sì presso alla morte, che tu credesti ch’io morta fossi? Io non sentirei ora questa doglia per la tua partenza: l’anima mia ne sarebbe andata lieta, in qualunque mondo fosse ita essendo io morta in sì beato luogo -. Glorizia, la quale allato le sedea, piangea forte per pietà di lei, e piangendo la confortava quanto più potea, dicendo: - O Biancifiore, deh, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo bel viso, e consumarti tutta? Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò che la tua bellezza, conservata, multiplicasse sì che, quando tu andrai a Montoro, tu potessi piacere a Florio, il quale, se consumata ti vede, ti rifiuterà: e io so che tu vi sarai tosto mandata, sì come io ho udito dire al re. Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli s’ucciderebbe. Or che faresti tu s’egli fosse andato molto più lontano, dove a te non fosse licito l’andare? E’ non si vuol far così! Usanza è che gli uomini e le donne innamorate spesso abbiano per partenze o per altri accidenti alcune pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che tu questa vita durare non potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire lui: adunque se per amore di te non vuoi prendere conforto prendilo per amor di lui, acciò ch’e’ viva -. E con cotali parole e con molte altre appena la poté racconsolare.
- Ma Florio, partito, alquanto si turbò nel viso, mostrando il dolore che l’angoscioso animo sentiva. Andavano i suoi compagni lasciando i volanti uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle paurose bestie. E così chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta più noia gli davano che diletto: però che egli alcuna volta imaginando andava d’essere stretto dalle dilicate braccia di Biancifiore, come già fu, e non gli parea cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la città, la quale egli mal volontieri abandonava, si rivolgea; e così volgendo s’andò infino che licito gli fu di poterla vedere. E così andando con lento passo, costoro s’erano molto avvicinati a Montoro quando il duca Ferramonte, che la sua venuta avea saputa, contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s’apparecchiò di riceverlo onorevolemente. E coverti sé e i loro cavalli di sottilissimi e belli drappi di seta, rilucenti per molto oro, circundati tutti di risonanti sonagli, con bigordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii e coronati tutti di diverse frondi, bigordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo risonare l’aere di molti suoni. Quando Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando allegrezza e festa, quella che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e i suoi compagni ricevette, e fu da loro ricevuto. E con questa festa, la quale quanto più alla terra appressavano tanto più crescea, n’andarono infino nella città, della quale trovarono tutte le rughe ornate di ricchissimi drappi, e piena di festante popolo. Né niuna casa v’era sanza canto e allegrezza: ogni uomo in qualunque età facea festa, e similemente le donne cantando versi d’amore e di gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi con tutto quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da’ più nobili della terra ricevuto. E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio riposatisi presero l’acqua e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio, molti giorni solennemente per la città festeggiarono.
- Biancifiore così rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate sopra l’alta casa, in parte onde vedeva Montoro apertamente, e quello riguardando dopo molti sospiri avea alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima: "Là è il mio disio e il mio bene". E tal volta avvenia che stando ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venire da quella parte e ferirla per mezzo della fronte, il quale ella con aperte braccia ricevea nel suo petto, dicendo: "Questo venticello toccò il mio Florio, com’egli fa ora me, avanti che egli giungesse qui"; e poi, quindi partendosi, andava in tutti quelli luoghi della casa ov’ella si ricordava d’avere già veduto Florio, e tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcune volte d’amare lagrime. Questi erano i templi degl’iddii e gli altari, i quali ella più visitava. E niuna persona venia da Montoro, che ella o tacitamente o in palese non dimandasse del suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio da lei non fosse molte fiate ricordato; e s’ella andava a dormire, non sanza ricordare più volte Florio vi si ponea, e niuna cosa sanza il nome di Florio non faceva; e se ella dormendo alcun sogno vedea, sì era di Florio, e per questo sempre avrebbe di dormire disiderato, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse trovata: ben che poi, trovandosi dal sonno ingannata, le fosse gravosa noia. E sempre pregava gl’iddii che ’l suo Florio da infortunoso caso guardassero e che le dessero grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a essa. Ella non si curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato ordine, ma quasi tutta rabuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Né mai curava di lavarsi lo splendido viso, o di vestire i preziosi e belli vestimenti, però che non v’era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare e l’allegrezza e la festa tutta avea lasciato per intendere a sospirare. Né niuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando di tosto riveder Florio prendea quel conforto che ella poteva, tenendo sempre l’anima nelle mani di Florio.
- E Florio simigliantemente a niuna cosa, stando a Montoro, avea tanto lo ’ntendimento fisso quanto alla sua Biancifiore, né era da lei una volta ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E così come Montoro era da Biancifiore vagheggiato e rimirato spesso, così egli riguardava sovente Marmorina. Né niuno suo ragionamento era già mai se non d’amore o della bellezza della sua Biancifiore, la quale sopra tutte le cose disiava di vedere. Egli da quel dì che Amore occultamente gli accese del suo fuoco infino a quell’ora non la baciò mai, né fece alcun altro amoroso atto, che cento volte il dì fra sé nol ripetesse, dicendo: "Deh, ora mi fosse licito pur di vederla solamente!"; e fra sé sovente piangea il tempo il quale indarno gli parea avere perduto stando con Biancifiore sanza baciarla e abbracciarla, dicendo che se mai più con lei per tal modo si ritrovasse, come già era trovato, mai più per ozio o per vergogna non perderebbe che egli non spendesse il tempo in amorosi baci. Egli si portava saviamente molto, prendendo col duca e con Ascalion e con altri molti varii diletti, quali nel iemale tempo prendere si possono, sperando sempre che il re di giorno in giorno gli dovesse mandar Biancifiore. E con questi diletti mescolati di speranza, sempre aspettando, assai leggiermente si passò tutto quel verno sanza troppa noia, però che alquanto l’amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel cuore rattiepidato e ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Monton frisseo, e la terra incominciò a spogliarsi le triste vestige del verno, e a rivestirsi di verdi e fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l’usate forze nell’amorose fiamme, e cominciarono a cuocere più che usate non erano per adietro nella mente allo innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi lontano a Biancifiore, incominciò a provare nuovo dolore da lui ancora non sentito in alcun tempo, che egli dicea così: "Ora pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancifiore, stando all’alte finestre della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra’ molti ne le piacerà, per lo quale non potendo ella veder me, e avendomi dimenticato, s’innamori di colui? Oimè, che questo m’è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilità la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse niuna cosa altro che la morte mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per li miei antichi si fece o si dee far cosa che alla vostra deità aggradi, cessate che questo non sia". E questo pensiero più che altro gli stava nella mente. Egli non vedea alcuna giovane che ’l riguardasse, che egli immantanente non dicesse: "Oimè, così fa la mia Biancifiore; i non conosciuti giovani ella li mira tutti, così come costoro fanno me, cui esse forse mai più non videro. E qual cagione recò Elena ad innamorarsi dello straniere Paris se non la follia del suo marito, che, andandosene all’isola di Creti, lasciò lei assediata da’ piacevoli occhi dello innamorato giovane? Né mai Clitemestra si sarebbe innamorata di Egisto, se Agamenon fosse con lei continuamente stato: il quale poi lei insieme con la vita per tale innamoramento perdé. Ma di questo non m’ha colpa se non la empia nequizia del mio padre, il quale gl’iddii consumino, così come egli fa me consumare. Egli m’impromise più volte di mandarlami sanza fallo qua brievemente, e mai mandata non me l’ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo inganno e truovo che vere sono le parole che Biancifiore mi disse, dicendo che mai non ce la manderebbe e che egli qua non mi mandava se non perch’ella m’uscisse di mente. Oh, come male è il suo avviso venuto al pensato fine, con ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsi com’io ardo ora". E istando Florio in questi pensieri, in tanto gl’incominciò a crescere il disio di volere vedere Biancifiore che egli non trovava luogo, né ad altro pensar poteva né giorno né notte. Egli avea per questo ogni studio abandonato, né di mangiare né di bere parea che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a Marmorina sanza licenza del re, acciò che egli a far peggio non si movesse, che egli volea avanti sostenere quella vita così noiosa; e era già tale nel viso ritornato, che di sé facea ogni uomo maravigliare. E non avendo ardire di tornare in Marmorina, andava il giorno sanza alcun riposo cercando gli alti luoghi, de’ quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli sapeva che Biancifiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente e solo se n’andava infino alle porti del palagio del suo padre, non dubitando d’alcun fiero animale, o d’ombra stigia, o d’insidie di ladroni, né d’altra cosa: e quivi giunto, si ponea a sedere e con sospiri e con pianto più volte le baciava, dicendo: "O ingrate porti, perché mi tenete voi che io non posso appressarmi al mio disio, il quale dentro da voi serrato tenete?". E certo egli più volte fu tentato o di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di romperle per passar dentro, ma per paura della fierità del padre, il cui intendimento già apertamente conoscere gli parea, se ne rimanea, tornandosi a Montoro per l’usata via. E sì lo stringea amore, che vita ordinata non potea tenere, ma sì disordinatamente la tenea, che più volte il duca e Ascalion avedendosene il ne ripresero; ma poco giovava. E pur da amore costretto, più volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio più intendere non potea, e però egli se ne volea con suo congedo tornare a Marmorina.
- Il re, il quale più volte avea inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e similemente avea udito a molti recitare la dolorosa vita che Florio a Montoro menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n’andò in una camera dove la reina era; il quale sì tosto come la reina il vide, il dimandò quello che egli avea, che sì pieno d’ira e di malinconia nell’aspetto si dimostrava. Il re rispose: - Noi ci allegrammo molto dell’andata di Florio a Montoro, credendo che egli incontanente dimenticasse Biancifiore, ma egli m’è stato detto da più persone che la sua vita è tanto angosciosa, perché egli non può venire a vederla, che ciò è maraviglia. E diconmi più, che egli del tutto lo studiare ha lasciato: la qual cosa fosse il maggior danno che mai seguire ce ne potesse! Ma egli ancora da grande amore costretto non mangia né dorme, ma in pianto e in sospiri consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso tornato tale che poco più fu Erisitone quando in ira venne a Cerere: e non pare Florio, sì è impalidito, e non vuole udire d’altrui parlare che di Biancifiore, né prendere vuole alcun conforto che porto gli sia. Né a questo vale alcuna riprensione che fatta gli sia; e ancora m’ha mandato più volte dicendo che venir se ne vuole; ond’io non so che mi fare, se non che d’ira e di malinconia mi consumo e ardo -.
- Grave parve molto alla reina udire quelle parole e accesa d’ira nel viso, subitamente rispose: - Ahi, come gl’iddii giustamente ti pagano! Or che avevi tu a fare co’ romani pellegrinanti, quando tu tanti n’uccidesti. E poi che tanti n’avevi uccisi, perché la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciasti? Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa essi nel ventre di quella occulto fuoco ti mandarono in casa. Or chi dubita che mentre che Biancifiore viverà, Florio mai non la dimenticherà? Certo no, e questo è manifesto. E così per la vita di costei perderemo Florio; e così per una vil femina potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque pensisi come costei muoia -. Rispose il re: - E avanti oggi che domani, ché certo mi pare che, come voi dite, mai mentre ella sarà in vita, non sarà dimenticata da Florio -. Allora disse la reina: - E come faremola noi subitamente morire sanza avere cagione che legittima paia? Se noi il facciamo, e’ ce ne potrà gran biasimo seguitare. E certo se Florio il risapesse, e’ sarebbe un dargli materia di disperarsi e d’uccidersi se medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni uomo giudicasse che ella giustamente morisse; e così saremo di mala fama e della vita di Biancifiore insieme disgravati -. E sanza guari pensare, la reina più avanti disse: - E la cagione potrà essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto il vostro regno si fa la gran festa della vostra natività, s’appressa; e dove ch’ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancifiore presentato, o che Biancifiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma veramente abbiate ordinato col siniscalco che qual che si sia quella cosa ch’ella apporterà, celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti a voi sarà posato, e ella partita del vostro cospetto, fate che in alcun modo o cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse: della qual cosa chiunque sarà il primo mangiatore, o subitamente morrà, o enfierà, per la potenza del veleno. E così a tutti fia manifesto che ella abbia voluto avvelenare voi; e come voi avrete questo veduto, fate che voi vi turbiate molto, e, faccendo il romore grande, la facciate prendere, e subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. Chi sarà colui che non dica che tale morte sia ragionevole, o che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua salute? E certo questo non vi sarà malagevole a fare, però che il siniscalco vostro l’ha in odio molto; e la cagione è questa, che egli più volte ha voluto il suo amore, e ella sempre l’ha rifiutato faccendosi di lui beffe -. - Certo - disse il re - voi avete ben pensato, e così sanza indugio si farà, né già pietà che la sua bellezza porga mi vincerà -.
- Partissi il re dalla reina e fece chiamare a sé incontanente Massamutino, suo siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse così: - Tu sai che mai a’ tuoi orecchi niuno mio segreto fu celato, né mai alcuna cosa sanza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran leanza la quale io ho trovata in te. Ora, poi che gl’iddii hanno te eletto a mio segretario, più che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale sanza manifestare mai ad alcuno, fa che tenghi occulta; però che se per alcun tempo fosse rivelata ad altrui, sanza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse danno. Ciascuno, il quale vuole sua vita saviamente menare seguendo le virtù, dee i vizi abandonare, acciò che fine onorevole gli seguisca; ma quando avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse, non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si fugga: e fra gli altri mondani prencipi che più nelle virtuose opere si sono dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu il sai. Ma ora nuovo accidente a forza mi conduce a cessarmi alquanto da virtuosa via, temendo di più grave pericolo che non sarà il fallo che fare intendo; e dicoti così, che a me ha la fortuna mandato tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio io ingiustamente far morire Biancifiore, la quale in verità io ho amata molto e amo ancora, o voglio che Florio, mio figliuolo, per lei vilmente si perda; e sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sarà la morte di Biancifiore che la perdenza di Florio, e più mio onore e di coloro che dopo la mia morte deono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perché. Tu sai manifestamente quanto Florio ama Biancifiore; e certo se egli, giovanissimo d’età e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, ché mai natura non adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancifiore risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sì come io estimo, è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per isposa; e io dubitando che tanto amore non l’accendesse della sua bellezza, che egli se la facesse sposa, per fargliele dimenticare il mandai a Montoro, sotto spezie di volerlo fare studiare. Ma egli già per questo non l’ha dimenticata, ma, secondo che a me è stato porto, egli per l’amore di costei si consuma, e, rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli, dare non me gliele convenga per isposa, e s’io non gliele do, che egli niuna altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliele donassi, o che egli da me occultamente la si prendesse, primieramente a me e a’ miei sanza fallo gran vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abassato per isposa discesa di sì vile nazione, come estimiamo che costei sia. Appresso, voi nol vi dovreste riputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi rimarrebbe nato di sì picciola condizione, come sarebbe nascendo di lei. E s’io non gliele dono per isposa, egli niun’altra ne vorrà, e non prendendone alcuna altra, sanza alcuna erede seguirà l’ultimo giorno: e così la nostra signoria mancherà, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che queste cose dette si cessino, è il migliore a fare che Biancifiore muoia, come detto ho, imaginando che com’ella sarà morta, egli per forza se la caccerà di cuore, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancifiore ci potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno possiamo aver cagione che parrà giusta e convenevole alla sua morte: e odi come. E’ non passeranno molti giorni che la gran festa della mia natività si farà, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno a onorarmi: in quel giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare uno paone bello e grasso, e pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancifiore il mi presenti da sua parte, quando io e’ miei baroni staremo alla tavola. E acciò che alcuno non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo più tosto recare a Biancifiore che ad alcuno altro scudiere o damigella, sì le dirai che a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col paone in mano vada domandando le ragioni del paone, le quali se non da gentile pulcella possono essere adimandate. E sì tosto come questo fatto avrai, e ella avrà lasciato davanti a me il paone, io, faccendone prendere alcuna stremità, e gittarla in terra, so che alcuno cane la ricoglierà, la quale mangiando subitamente morrà. E quinci sembrerà a tutti quelli che nella sala saranno, che Biancifiore m’aggia voluto avvelenare, e imagineranno che Biancifiore abbia voluto far questo, perché io la dovea mandare a Montoro, e non la vi ho mandata. E io mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di qualunque vi sarà, ella sarà giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che sanza indugio sia messa ad essecuzione, e così saremo fuori del dubbio nel quale io al presente dimoro -. Poi che il re ebbe così detto, e egli si tacque aspettando la risposta del siniscalco; la quale fu in questo tenore:
- - Signor mio, sanza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta avete, la quale sempre con quella debita lealtà che buon servidore dee a naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre in vita dimorerò. E l’avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe altro che piacere: onde io il lodo, e dicovi che saviamente proveduto avete, con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti con diritto stile è da riputare sapienza, tanto quanto è le future con perspicace intendimento riguardare. E sanza dubbio, se molto durasse la vita di Biancifiore, quello che narrato m’avete, n’avverrebbe; ma mandando inanzi cautamente le predette cose, credo sì fare che il vostro intendimento verrà fornito sanza che alcuno mai niente ne senta -. E questo detto, sanza più parlare, partirono il maladetto consiglio.
- Oimè, misera Biancifiore, or dove se’ tu ora? Perché non ti fu e’ lecito d’udire queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a riguardar que’ luoghi ove tu continuamente con l’animo corri e dimori disiderando d’esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d’andare a Montoro a veder Florio, o che Florio ritorni a veder te, nutrichi l’amorose fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna t’apparecchia a sostenere? A te pare ora stare nella infima parte della sua rota, né puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quello che tu hai per l’assenza di Florio, ma tu dimori nel più alto luogo, a rispetto che tu starai. Oimè, che tu, lontana allo iniquo consiglio, spandi amare lagrime per amore, le quali più tosto per pietà di te medesima spandere dovresti, avvegna che a coloro che semplicemente vivono, gl’iddii proveggono a’ bisogni loro, e molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che quando ella falsamente ride ad alcuno.
- La reale sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali sosteneano l’alte lammie che la coprivano, fatte con non picciolo artificio e gravi per molto oro, e le finestre divise da colonnelli di cristallo, i cui capitelli e d’oro e d’argento erano, per le quali la luce entrava dentro ad essa. Nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l’ossa degl’indiani elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v’erano per porte; e in quella sala si vedeano ne’ rilucenti marmi intagliate l’antiche storie da ottimo maestro. Quivi si potea vedere la dispietata ruina di Tebe, e la fiamma dei due figliuoli di Iocasta, e l’altre crudeli battaglie fatte per la loro divisione, insiememente con l’una e con l’altra distruzione della superba Troia. Né vi mancava alcuna delle gran vittorie del grande Alessandro. E con queste ancora vi si mostrava Farsalia tutta sanguinosa del romano sangue, e’ prencipi crucciati, l’uno in fuga e l’altro spogliare il ricco campo degli orientali tesori. E sopra tutte queste cose v’era intagliata la imagine di Giove, vestita di più ricca roba che quella che Dionisio fero già gli spogliò, intorniato d’alberi d’oro, le cui frondi non temevano l’autunno, e i loro pomi erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendeano copiosa quantità di vasella d’oro e d’argento; né fu alcuno strumento che là entro quel giorno non risonasse, accompagnato da dolcissimi e diversi canti. Né in tutta Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, né alcuno altare di qualunque iddio vi fu sanza divoto fuoco e debito sacrificio, da’ quali il re e gli altri gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza d’essa. E appressandosi l’ora del mangiare, presa l’acqua alle mani, andarono a sedere. Il re s’assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava tutte l’altre, e con seco chiamò sei de’ più nobili e maggiori baroni che seco avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra, stando di reali vestimenti in mezzo di loro vestito. E quelli che dalla sua dritta mano gli sedea allato, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso dell’antico Borea, re di Trazia; appresso del quale seguiva Ascalion, nobilissimo cavaliere e antico per età e per senno, degno d’ogni onore; e poi sedea un altro giovane chiamato Messaallino, figliuolo del gran re di Granata, piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Ferramonte duca di Montoro più presso gli sedea, il quale avea Florio quel giorno lasciato soletto per venire a tanta festa; appresso il quale uno chiamato Sara, ferocissimo nell’aspetto, e signore de’ monti di Barca, sedea con un giovane grazioso molto, chiamato Menedon, di Giarba re de’ Getuli disceso. Appresso, nelle più basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da nobilissimi giovani e di gran pregio.
- Massamutino, al quale non era già il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente e con molta sollecitudine apparecchiare un bel paone, il quale egli di sugo d’una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quello giorno per tale operazione si vedrebbe vendico di Biancifiore, che per amadore l’avea rifiutato. E fatto questo, avendo già la reale mensa e l’altre di più vivande servite, né quasi altro v’era rimaso a fare che mandare il paone, accompagnato con più scudieri andò per Biancifiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse niente di male pensare, avea fatta quel giorno vestire nobilmente d’un vermiglio sciamito e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avolti al capo, sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendea, e ’l chiaro viso, già lungamente di lagrime bagnato, lavato quel giorno per volere della reina, dava piacevole luce a chi il vedea, posto che questo Biancifiore avea mal volontieri fatto, pensando che ’l suo Florio non v’era. Ma perché bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo né ardito di fare ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua compagna, disse così: - Madonna, oggi si celebra, sì come voi sapete, la gran festa della natività del nostro re, per la qual cosa volendo noi la nostra festa fare maggiore e più bella, provedemmo di fare apparecchiare un paone il quale noi vogliamo fare davanti al re presentare e a’ suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la quale la festa divenga maggiore e più bella; né sì fatto uccello è convenevole d’esser portato alla reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; né io non ne conosco alcuna, né qua entro né in tutta la nostra città, che a Biancifiore si possa appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sì fatto servigio vi piaccia di concederle licenza, che con noi venga incontanente, però che l’ora del portarlo è venuta, né si può più avanti indugiare -. La reina, che ben sapeva come l’opera dovea andare, sì come quella che ordinata l’avea, stette alquanto sanza rispondere; ma poi che la crudele volontà vinse la pietà che di Biancifiore le venne, udendo ch’ella era richiesta ad andare a quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, e ella disse: - Certo questo ci piace molto -; e voltata verso Biancifiore, le disse: - Vavvi -, ammaestrandola che saviamente i debiti del paone adimandasse a tutti i baroni che alla reale tavola dimoravano, sanza andare ad alcuno altro, e poi davanti al re posasse il paone, e ritornassesene, tenendo bene a mente quello in che ciascuno si vantava. Biancifiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti, sanza aspettare più comandamenti se n’andò col siniscalco. Il quale, poi che presso furono all’entrare della sala, le pose in mano un grande piattello d’argento, sopra ’l quale l’avvelenato paone dimorava, dicendo: - Portalo avanti, però che più non è da stare -. Biancifiore, preso quello sanza farsene fare alcuna credenza, non avedendosi dello inganno, e con esso passò nella sala, nella quale, sì tosto com’ella entrò, parve che nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza che dal suo bel viso movea e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri che mangiavano salutati, s’appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto, dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l’aurora, il cielo in diverse parti dipinge, così disse:
- - Poi che gl’iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendomi conceduto che io a questo onore, più tosto che alcuna altra giovane, eletta fossi a portare davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per quella dea, al cui servigio già fu disposto, merita che qualunque alla sua mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e caramente vi priego che voi né i vostri compagni a ciò rendere mi siate ingrati, ma con benigni aspetti continuiate la valorosa usanza. E voi, altissimo signore, sì come più degno per la real dignità, e per senno e per età, prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per essemplo di voi debitamente procedano -. E qui si tacque.
- Al nuovo e mirabile splendore si voltarono tutti i dimoranti della gran sala, non meno che alla chiara voce di Biancifiore, piena di soavissima melodia; e a lei graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell’animo però che già vedea per la pensata via appressarsi il disiderato fine, con lieto viso, poi che tutta la sala tacque, le disse: - Certo, Biancifiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnità del santo uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; né a questi alcuno di noi può debitamente disdirsi: ond’io, sì come principale capo del nostro regno, comincerò, poi che la ragione e ’l tuo piacere l’adimanda -. E voltato verso l’antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiata, disse così: - E io giuro per la deità del sommo Giove, la cui figura dimora davanti da noi, e per qualunque altro iddio insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo mio antico avolo Atalante, sostenitore d’essi regni, e per l’anima del mio padre, che avanti che ’l sole ritocchi un’altra volta quel grado ove egli ora dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono vita, d’averti donato per marito uno de’ maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente paone ti sia da ora promesso -. Assai coperse il re con queste parole il suo malvagio volere, ignorando quello che i fati gli apparecchiavano; e ella sospirando tacitamente al suono di queste parole, notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono agurio, fra sé dicendo: "Dunque avrò io per marito Florio, il quale io solo per marito e per amico disidero, però che nullo barone è maggiore di lui in questo regno"; poi, ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il quale incontanente così disse: - Io prometto al paone che, se gl’iddii mi concedono che io vi vegga per matrimoniale patto donare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani, vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, adestreremo il vostro cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta nella nuova casa scavalcherete -. - Adunque - disse Biancifiore - più che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare -; e passò avanti ad Ascalion, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo: - O caro maestro, e voi che vantate al paone? -. Rispose Ascalion: - Bella giovine, posto che io sia pieno d’età e che la mia destra mano già tremante possa male balire la spada, sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel giorno che voi novella sposa sarete, la qual cosa gl’iddii anzi la mia morte mi facciano vedere, io con qualunque cavaliere sarà nella vostra corte disideroso di combattere meco, con le taglienti spade sanza paura combatterò, obligandomi di sì saviamente combattere, che sanza offendere io lui o egli me, o voglia egli o no, io gli trarrò la spada di mano e davanti a voi la presenterò -. Ciascuno che questo udì si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancifiore andando avanti venne in presenza di Messaallino, il quale vedendola, quasi della sua bellezza preso, disse: - Giovane graziosa, per amore di voi io vanto al paone che quel giorno che voi prima sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di dattero coperti di frondi e di frutti, non d’una natura con gli altri, però che quelli, de’ quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un bisante d’oro -. Inchinandogli, Biancifiore il ringraziò; e volto i passi suoi verso il duca Ferramonte, che alla sinistra del re sedea, e davanti a lui posato il paone, gli richiese quello che avanti agli altri avea richiesto. A cui il duca rispondendo disse: - E io imprometto al paone che per la piacevolezza vostra, il giorno che novella sposa sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerà, di mia mano della coppa vi servirò quanto vi piaccia -. - Certo - disse Biancifiore - di tal servidore Giove non che io, si glorierebbe -; e passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse: - Io voto al paone che quel giorno che gl’iddii vi concederanno onore di matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose pietre e di risplendente oro bellissima, e ove che io sia, se io saprò davanti la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani -. Il quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse: - E io prometto al paone che se gl’iddii mi concedono che io maritata vi veggia, tanto quanto la festa delle vostre nozze durerà, io con molti compagni, vestiti ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con aste in mano e con bandiere bigordando e armeggiando, a mio potere essalterò la vostra festa -. Ringraziollo Biancifiore, e tornata indietro, davanti al re posò il paone, e così disse: - Principalmente voi, o caro signore e singulare mio benefattore, e appresso questi altri baroni tutti, quanto io posso, degl’impromessi doni vi ringrazio, e priego gl’immortali iddii che, là dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, che essi con la loro benigna mente di ciò vi meritino -. E questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partì, e con lieto viso tornò alla reina narrandole gl’impromessi doni. A cui la reina disse: - Ben ti puoi omai gloriare, pensando che uno sì fatto prencipe qual è il nostro re, e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo onore e piacere obligati -.
- Rimase sopra la real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancifiore fu partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane chiamato Salpadin, al re per consanguinità congiuntissimo, il quale quel giorno davanti li serviva del coltello, prese con presta mano il paone, e, gittata in terra alcuna estremità, incominciò a volere smembrare il paone; ma non prima caddero le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese, e, mangiandole, incontanente gl’incominciò a surgere una tumorosità del ventre, e venirgli alla testa, la quale tanto gliele ingrossò subitamente, che quasi era più la testa fatta grande che essere non solea tutto il corpo; e similemente discorsa per gli altri membri, oltre a’ loro termini grossi e enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza parea che della testa schizzare gli dovessero, e con doloroso mormorio, mutandosi di più colori, disteso tal volta in terra e talora in cerchio volgendosi, in piccolo spazio scoppiando quivi morì. La qual cosa da molti veduta, la gran sala fu tutta a romore, e i soavissimi strumenti tacquero, mostrando questo al re, il quale incontanente gridò: - E che può ciò essere? -. E voltato a Salpadin, il quale già volea fare la credenza, disse: - Non tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi: prendasi un altro membro del presente paone e gittisi ad un altro cane, però che questo qui presente morto per veleno mostra che morisse, onde che egli il prendesse, o delle stremità da te gittate in terra, o d’altra parte -. Salpadin sanza alcuno dimoro gittò la seconda volta un maggiore membro ad un altro cane, il quale non prima mangiato l’ebbe, che, con simile modo voltandosi che ’l primo, del mortale dolore affannato, cadde e quivi in presenza di tutti morì. Onde il re con furioso atto gridando: - Chi ha la nostra vita con veleno voluta abreviare? -, e gittata in terra la tavola che davanti a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancifiore e ’l siniscalco e Salpadin fossero presi, però che di loro dubitava che alcuno d’essi tre avvelenare l’avesse voluto co’ suoi compagni. O sommo Giove, or non potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo ’ngannatore, avanti che la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente sostenesse? Or tu sofferesti che i tuoi compagni fossero co’ membri umani tentati alla tavola di Tantalo, quando a Pelopo, perduto l’omero, fu rifatto con uno d’avorio; e similemente sostenesti che il misero Tireo fosse sepoltura dell’unico suo figliuolo! Erati così grave per giusta vendetta abbagliare lo iniquo senso del re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperità, pruovi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.
- Furono presi i tre sanza niuno dimoro con noiosa furia, e messi in diverse prigioni. Ma poi che Biancifiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le potesse, né ella ad altrui. Del siniscalco e di Salpadin furono le scuse diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancifiore e non altri avere tal fallo commesso. Di questo ciascuno si maravigliò, non potendo alcuno pensare né credere che Biancifiore avesse tal malvagità pensata; ma pure il manifesto presentare del paone facea a molti non potere disdire quello che e’ medesimi non avrebbero voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto racchetato, e il siniscalco e Salpadin per le loro scuse sprigionati, il re fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui erano quella mattina stati alla tavola, e adunato con molti in una camera, disse così: - Sanza dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per molte ragioni che Biancifiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere che sanza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella mia corte l’ho fatto, sì come di recarla da serva a libertate, farla ammaestrare in iscienza e continuamente vestirla di vestimenti reali col mio figliuolo, datala in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nimica ma cara figliuola avere. E sì come avete potuto questa mattina udire, non si finiva questo anno che io intendea di maritarla altamente, però che vedea già la sua età richiedere ciò. E di tutto questo m’è avvenuto come avviene a chi riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi aquiloni soffiano, che egli è il primo morso da lei. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto onore m’ha voluto uccidere: e sì avrebbe ella fatto, se ’l vostro avedimento non fosse stato. Laonde io intendo, come detto v’ho, di volerla di ciò gravemente punire, acciò che mai alcuna altra a sì fatto inganno fare non si metta. Ma però che di ciò dubito non mi seguisse più vergogna che onore, se subitamente il facessi, però che parrà a molti impossibile a credere questo per la sua falsa piacevolezza, la quale ha molto presi gli animi, n’ho voluto e voglio primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fidelmente porgere mi dovete, disiderando il mio onore e la mia vita, sì come membri e vero corpo di me, vostro capo.
- Lungamente si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbero volontieri risposto il duca e Ascalion, però che a loro parea manifestamente conoscere chi questo veleno avea mandato e ordinato; ma però che la volontà del re conobbero, ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fecero tutti quelli che presente lui erano, fuori che Massamutino, il quale dopo lungo spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse: - Caro signore, io so che ’l mio consiglio sarà forse tenuto da questi gentili uomini qui presenti sospetto per la presura che di me subita fare faceste sanza colpa, e so che diranno che ciò che io consiglierò, io il faccia a fine di scaricare me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò già a quello che alcuno possa dire o dica, che io non vi dia quello consiglio in ciò che dimandato avete, che a legittimo e vero signore donar si dee, in tutto ciò che per me conosciuto sarà, sempre riservandomi allo ammendamento di voi dov’io fallissi. E così m’aiutino gl’immortali iddii, com’io se non quello che diritta coscienza mi giudicherà non dirò; e dico così: "Il fallo, il quale Biancifiore ha fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si puote, né simigliantemente si può occultare il grande onore da voi fatto a lei: per lo quale avendo ella voluto sì fatto fallo fare, merita maggiore pena. E certo, se quello che in effetto s’ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di morire". Onde per mio consiglio dico e giudico che misurando giustamente la pena col fallo che ella muoia: e sì come ella volle che la vostra vita per la focosa forza del veleno si consumasse, così la sua con ardente fuoco consumata sia. E certo tale giudicio pare a me medesimo crudele; e non volontieri il dono per consiglio che si dea, però che per la sua piacevole bellezza assai l’amava; ma nella giustizia, né amore, né pietà, né parentado, né amistà dee alcuno piegare dalla diritta via della verità. Non per tanto, voi siete savio, e appresso di molti più savii uomini che io non sono avete, e sì come signore potete ogni mio detto indietro rivocare e mettere ad essecuzione. Però là ove nel mio consiglio, il quale giusto al mio albitrio v’ho donato, si contenesse fallo, saviamente l’ammendate -. E più non disse.
- Non fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedeano, che si levasse a parlare contro a Biancifiore, ma tacendo tutti, di questa opera stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, posto che a molti sanza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancifiore era in prigione, per maniera che sua ragione scusandosi non potea usare: e volontieri per difender lei avrebbero parlato, ma quasi ciascuno s’era aveduto che al re piaceano queste cose e che con sua volontà eran fatte, onde per non spiacerli ciascuno taceva. Perché vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco niuno dicea, né a quello era alcuno che apponesse, disse: - Adunque, signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancifiore di fuoco deggia morire, e certo in tal parere n’era io medesimo; e però vengano immantanente i giudici, i quali di presente la giudichino, che sanza giudiciale sentenza io non intendo di farla di fatto morire, acciò che alcuno non potesse dire che io i termini della ragione in ciò trapassassi, né similemente voglio a fare la giustizia dare troppo indugio, però che le troppo indugiate giustizie molte volte sono da pietà impedite, né hanno poi loro compimento -. Furono di presente i giudici al cospetto del re, il quale loro comandò che sanza dimoro la crudele sentenza dessero contro a Biancifiore. Al quale i giudici risposero: - Signore, le leggi ne vietano di dover dare in dì solenne mortale sentenza contro ad alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennità, quanta voi sapete; ma noi scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo sanza fallo, e la faremo mettere in essecuzione -. A’ quali il re disse: - Poi che oggi le leggi il ne vietano, domattina per tempo sanza dimoro si faccia -. E questo detto, si partì dallo iniquo consiglio. Ma il duca e Ascalion sanza prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire la iniqua sentenza; e avanti che ’l sole le sue luci messe avesse sotto l’onde occidentali, giunsero a Montoro, ove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con molti pensieri trovarono.
- Era Biancifiore con la reina ancora recitando i vanti de’ gran baroni, quando i furiosi sergenti vennero impetuosamente sanza niuno ordine a prenderla e lei piangendo, sanza dire per che presa l’avessero, la ne portarono. O misera fortuna, subita rivolgitrice de’ mondani onori e beni, poco davanti niuno barone era nella real corte, che a Biancifiore avesse avuto ardire di porre la mano adosso, o di farne sembiante, ma ciascuno s’ingegnava di piacerle, e ora a vilissimi ribaldi sì disprezzare consentisti la sua grandezza, che, sanza narrare il perché, presala oltraggiosamente, la menaron via. Certo con poco senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento davanti ordinato. E veramente e’ ne le pur dolfe, posto che assai tosto di tal doglia prendesse consolazione imaginando che per la morte di lei, già messa in ordine da non poter fallire al suo parere, l’ardente amore si partirebbe del petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sì leale amore, quale era quello intra’ due amanti, sì corta fine né sì turpissima, come costoro loro voleano sanza cagione apparecchiare.
- Quel giorno nel quale la gran festa si facea in Marmorina, era Florio rimaso tutto soletto di quella compagnia che più gli piacea, ciò era del duca e di Ascalion, a Montoro; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in così fatto giorno egli con la sua Biancifiore, vestiti d’una medesima roba, soleano servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e d’altri sollazzi. Ond’egli sospirando, così cominciò a dire: - O anima mia, dolce Biancifiore, che fai tu ora? Deh, ora ricorditi tu di me, sì come io fo di te? Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia assenza. Oimè, perché non è egli licito solamente di poterti vedere a me, il quale mi ricordo che in sì fatto giorno più volte t’ho già abbracciata, porgendoti puerili e onesti baci? Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne’ quali Priapo più volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre mani? E ove sono le ricche camere, le quali de’ nostri dimoramenti si rallegravano? Deh, perché non sono io con teco, così come io soleva, continuamente, o almeno di tanti quanti giorni l’anno volge uno solo? O perché non mi se’ tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che ’l mio padre m’inganna, come tu mi dicesti. E tu ora credo che dimori nella gran sala, e dai col tuo bel viso nuova luce a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che più che altra cosa ti disidero, m’è tolto il vederti. Maladetta sia quella deità che sì m’ha fatto vile, che io per paura di mio padre dubito di venirti a vedere, e ora ch’io possa o vederti o esser veduto. Oimè, quanto m’offende quella piccola quantità di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno ch’io da te mi partii, che mai alcuno diletto non sentii, posto che tu alcuna volta dormendo io, essendomi tu con benigno aspetto apparita, m’hai alquanto consolato: la qual consolazione in gravoso tormento s’è voltata, sì tosto com’io mi sveglio dallo ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl’iddii mi concedano che io alcuna volta anzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa converrà che sia, se io dovessi muovere aspre battaglie contro al vecchio padre, o furtivamente rapirti delle sue case. E a questo, se egli non mi ti manda o non mi fa dove tu sia tornare, non porrò lungo indugio, però che più sostenere non posso l’esserti lontano -. E mentre che Florio queste parole e molte altre sospirando dicea, continuamente al caro anello porgea amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che donato glielo avea. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò la testa, e, chiusi gli occhi, s’addormentò; e dormendo nuova e mirabile visione gli apparve.
- A Florio parve subitamente vedere l’aere piena di turbamento, e i popoli d’Eolo, usciti del cavato sasso, sanza niuno ordine furiosi recare da ogni parte nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia della terra, mandandole più alte che la loro ragione, e fare sconci e spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il luogo dell’altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi suoni per isquarciate nuvole, le quali parea che accendere volessero la tenebrosa terra; e le stelle gli parea che avessero mutata legge e luoghi, e pareali che ’l freddo Arturo si volesse tuffare nelle salate onde, e la corona della abandonata Adriana fosse del suo luogo fuggita, e lo spaventevole Orione avesse gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i regni di Giove pieni di sconforto, e gl’iddii piangendo visitare le sedie l’uno dell’altro; e pareali che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella figura del sole, però che più non porgea luce; e la luna impalidita avea perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli pareano ripieni d’innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi guai sopr’essi. I paurosi animali e feroci insiememente per paura gli parevano fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, né parea che albero ne potesse uno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che di paura piangea, si mostrarono, gli parea veder davanti a sé la santa dea Venus, in abito sanza comparazione dolente, e vestita di neri e vilissimi vestimenti tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse: - O santa dea qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietà mi costringe a piagnere, come tu fai? E dimmi, perché è il subito mutamento de’ cieli e della terra avvenuto? Intende Giove di fare l’universo tornare in caos come già fu? Nol mi celare, io te ne priego, per la virtù del potente arco del tuo figliuolo -. - Oimè misera - rispose Venus, - or etti occulta la cagione del pianto degli uomini, dell’aere e degl’iddii? Levati su, che io la ti mostrerò -; e preso Florio, involtolo seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece vedere l’avvelenato paone posto in mano a Biancifiore dal siniscalco, e ’l pensato inganno, e la subita presura, e ’l crudele rinchiudimento, e la malvagia sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancifiore: le quali cose mostrategli, riposatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli disse: - Ora t’è manifesta la cagione del nostro pianto -. - Oimè! - rispose Florio, - quando io ti vidi, santa madre del mio signore, sanza la risplendente luce degli occhi tuoi e sanza gli adorni vestimenti, privata della bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all’animo la cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond’io ti priego che mi dichi qual morte più crudele io posso eleggere, poi che Biancifiore muore. Insegnalami, ché io non voglio vivere appresso la sua morte. Io sono disposto a volere seguire la sua anima graziosa ovunque ella andrà, e essere così congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi mostra qual via c’è alla difensione della sua vita, se alcuna ce n’è, però che nullo sì alto né sì grande pericolo fia, al quale io non mi sottometta per amore di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo -. A cui Citerea così rispose: - Florio, non credere che il pianto mio e degli altri dei sia perché noi crediamo che Biancifiore deggia morire, ché noi abbiamo già la sua morte cacciata con deliberato consiglio, e proveduto al suo scampo, come appresso udirai; ma noi piangiamo però che la natura, vedendosi sopra sì bella creatura, come è Biancifiore, offendere dalla crudeltà del tuo padre, quando a morte ordinò che sentenziata fosse, ci si mostrò sagliendo a’ nostri scanni, sì mesta e dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua diliberazione. E similmente l’aria e la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti costrinse. E però che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non estimi, dopo molte avversità vogliamo che in questa maniera al suo scampo t’esserciti. Tu, sì tosto come il sole avrà i raggi suoi compiendo l’usato cammino nascosi, occultamente di queste case ti partirai, e andranne a quelle di Ascalion, a te fidelissimo amico e maestro, e fidandoti sicuramente a lui, di tutto il tuo intendimento ti farai armare di fortissime armi e buone, e fara’ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai, sanza alcuna compagnia fuori che della sua, se egli la ti profferrà, celatamente prendi il cammino verso la Braa, però che in quel luogo sarà la tua Biancifiore menata da coloro che d’ucciderla intendono. La sorella di colui che mena i poderosi cavalli portanti l’etterna luce, la quale, ancora pochi dì sono, vi si mostrò sanza alcuno corno tutta nella figura del celestiale Ganimede, m’ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce; quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per le mani del mio marito Vulcano, quando bisognò alla battaglia degl’ingrati figliuoli della terra, a me prestata da Marte, mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto che la tua Biancifiore vedrai menare per esserle data l’ultima ora. E allora, sanza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito cuore ti trai avanti sanza farti a nullo conoscere, e contradì a tutto il presente popolo che Biancifiore ragionevolemente non è stata condannata a morte, né dee morire, e che ciò tu se’ acconcio a provare contro a qualunque cavaliere o altra persona di questo volesse dire altro; e non dubitare d’assalire tutto il piano pieno del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a questa spada che io ti dono, niuna arme potrà durare, e il mio Marte m’ha giurato e promesso per li fiumi di Stige di mai non abandonarti. Né v’è alcuno iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti abandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo ché la fortuna graziosamente t’apparecchia onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e levata Biancifiore dal mortal pericolo, prendera’la per mano e rendera’la al tuo padre, raccomandandogliele tutt’ora sanza farti conoscere; e ritornando a Montoro fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi fuochi con graziosi sacrificii, e quivi mi vedrai essere venuta del mio antico monte, della mia natività glorioso, con gli usati vestimenti significanti letizia, circundata di mortine e coronata delle liete frondi di Pennea, e stare sopra li miei altari a te manifestamente visibile; e coronerotti della acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per alcuno accidente; né per parole che Ascalion ti dicesse, da questa impresa ti rimanghi -. E dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada, si partì subitamente tornando al cielo.
- Tanto fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l’allegrezza della futura vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in piè, trovandosi il petto e ’l viso tutto d’amare lagrime bagnato, e nella destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua Biancifiore e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e della virtù d’esso, piangendo il riguardò dicendo: - Questo fia infallibile testimonio alla verità -; e riguardandolo, il vide turbatissimo e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo: - O dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi sono contentato di vivere sperando di rivederti in quella allegrezza e festa che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra? Or non bastava alla invidiosa fortuna d’averci dati tanti affannosi sospiri allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me? Vano pensiero lo ’nganna. Oimè, è questa la festa ch’io soglio in tal giorno avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata! Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la racquisterà a te e a me come promesso m’è stato, tenendola io nella mia mano combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna divenne a piè di Tebe -. E dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore amavano e come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v’era fallita, fuori solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s’era, e de’ vanti che dati s’aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si guardò di non dire l’ultima cosa che avvenuta v’era, cioè dell’avvelenato paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne desse troppa malinconia, e di ciò s’avvide ben Florio, che ’l duca si guardava di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e grande, e che volontieri vi sarebbe stato se agl’iddii fosse piaciuto.
- Già aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta nell’animo maggiore sollecitudine che di dormire, e sanza adormentarsi aspetta che gli altri s’addormentino della casa; i quali non così tosto come Florio avrebbe voluto s’andarono a letto, ma ridendo e gabbando e con diversi ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per ore, con angosciosa cura dubitando non s’appressasse l’ora che andare di necessità gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio e la casa fu d’ogni parte ripiena d’oscurità, Florio con cheto passo, aperte le porti del gran palagio con sottile ingegno, sanza farsi sentire passò di fuori, e tutto soletto pervenne all’ostiere di Ascalion, ove più voci chiamò acciò che aperto gli fosse. E ’l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalion, il quale sanza niuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua venuta, e del modo e dell’ora non meno. E poi che essi furono dentro alla fidata camera sanza altra compagnia, Ascalion disse: - Dimmi, quale è stata la cagione della tua venuta a sì fatta ora, e perché se’ venuto solo? -. E mentre che queste parole dicea, dubitava molto non il duca gli avesse detto lo ’nfortunio di Biancifiore. Ma Florio rispose: - La cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d’essere tutto armato e d’avere un buon cavallo. Onde io non sappiendo ove di tale bisogna fossi più fedelmente né meglio servito che qui, qui a venire mi dirizzai più tosto che in altra parte: priegovi che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente -. E mentre che diceva queste cose, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali dal premuto cuore, ricordandosi perché queste cose volea, si moveano. Disse Ascalion: - Niuna cosa ho né potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sì subita volontà d’armarti? Perché non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi l’uomo a questa ora, non veggendo alcuna necessità espressa, parrebbe un volere matto e subito, sì come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che hanno il natural senno perduto; ma se tu mi di’ perché a questo se’ mosso, la cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse avanti. Già sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia cosa che io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e amatoti come se caro figliuolo mi fossi stato: dunque non ti guardar da me -. Florio rispose: - Caro maestro, veramente se alcuna virtù è in me, dagl’iddii e da voi la riconosco; e sanza dubbio, se io non avessi avuto in voi somma fede, niuno accidente per tal cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace di sapere il perché a questa ora per l’armi io sia venuto, io il vi dico. A voi non è stato occulto l’ardente amore che io ho a Biancifiore portato e porto, della quale, oggi, dormendo io, mi furon mostrate dalla santa Venus di lei dolorose cose: però che io stando con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia semplice giovane, e porle uno avvelenato paone in mano, e vidiglielo portare per comandamento altrui alla reale mensa ove voi sedevate; e dopo questo vidi e udii il gran romore che si fece, aveggendosi la gente dello avvelenato paone, e lei vidi furiosamente mettere in uno cieco carcere; e ancora dopo lungo consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si dee domattina contra di lei. E queste cose tutte vedeste voi, né me ne dicevate niente. Ma io ne ringrazio gl’iddii che mostrate le m’hanno, e datomi vero aiuto e buono argumento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sì com’io credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la difensione di Biancifiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente vivendo stentare -. - Oimè, dolce figliuolo - disse Ascalion, - che è quello che tu vuoi fare? Per cui vuoi tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane età ancora è impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l’affanno delle gravanti armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore t’aspettiamo, e lascia dare i popolareschi uomini a’ fati. Tu vuoi combattere per Biancifiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d’una romana giovane, alla quale essendo stato ucciso il suo marito, per serva fu donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che tuo padre l’ha fatto per adietro, e quinci credi forse ch’ella sia nobilissima giovane: tu se’ ingannato, però che questo non le fu fatto se non perché ella fu tua compagna nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sì piccola condizione; e però lasciala andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha fatta l’offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sì fatte cose, né dare speranza a’ sogni, i quali per poco o per soperchio mangiare, o per imaginazione avuta davanti d’una cosa, sogliono le più volte avvenire, né mai però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto hai, nullo fia che non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di crucciarsi e d’infiammarsi più verso di lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne priego -. Allora Florio, con turbato viso riguardandolo nella faccia disse: - Ahi, villano cavaliere, e sconoscente e malvagio, qual cagione licita o ancora verisimile vi muove a biasimare Biancifiore e chiamarla figliuola di serva? Non v’ho io più volte udito raccontare che ’l padre di Biancifiore fu nobilissimo uomo di Roma, e d’altissimo sangue disceso? Certo si ho. E quando questo non fosse mai vero, natura mai non formò sì nobile creatura com’ella è, però che non le ricchezze o il nascere de’ possenti e valorosi uomini fanno l’uomo e la femina gentile, ma l’animo virtuoso con le operazioni buone. Essa per la sua virtù si confarebbe a molto maggior prencipe che io non sarò mai; e posto che di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i valorosi me ne loderanno, avvegna che io sì segretamente lo ’ntendo di fare, che alcuno nol saprà già mai. E se si pur sapesse e parlassesene, il robusto cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane poppio non può resistere a veloci aquiloni. Faccia l’uomo suo dovere, parli chi vuole. E sanza dubbio del cruccio del mio padre io mi curo poco, ch’è uomo di sì vile animo come io il sento, che s’è posto a volere con falsità vendicare le sue ire sopra una giovane donzella e innocente, sua benivolenza o amistà si dee poco curare, e in gran grazia mi terrei dagl’iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la salute di Biancifiore, acciò che io con quel braccio, col quale ancora, se fosse quell’uomo quale esser dovrebbe il dovrei aver sostenuto, gli levi la vita mandandolo ai fiumi d’Acheronta, ove la sua crudeltà avrebbe luogo: vecchio iniquissimo ch’egli è, che nell’ultima parte de’ suoi giorni, alla quale quando gli altri, che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si sogliono col bene operare riconciliare agl’iddii, incomincia a divenire crudele e a fare opere ingiuste. E di ciò che o piacere o dispiacere ch’io gliene faccia, mai della mia mente non si partirà Biancifiore, né altra donna avrò già mai; né mi parrà grave il peso dell’armi in servigio di lei. E certo Achille non avea molto più tempo ch’io abbia ora, quando egli abandonando i veli insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d’Ettore fortissimo combattitore, né Niso era di tanto tempo quanto io sono, quando sotto l’armi incominciò a seguire gli ammaestramenti d’Euriello. Io sono giovane di buona età, volonteroso alle nuove cose, innamorato e difenditore della ragione, e emmi stata promessa vittoria dagl’iddii, e veggo la fortuna disposta a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che in più alto luogo ci ponga della sua rota. Ora poi che ella con benigno viso mi porge i dimandati doni, follia sarebbe a rifiutarli, ché l’uomo non sa quando più a tal punto ritorni. Io m’abandonerò a prendere ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua rota; quivi, sanza insuperbire, quanto potrò in alto mantenermi, mi manterrò. E se avviene che alcuna volta scendere mi convenga, con quella pazienza che io potrò, sosterrò l’affanno. Né mi vogliate fare discredere quello che la vera visione m’ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d’ogni verità: poi che voi non me lo voleste dire, tacete del farmelo discredere, però che io n’ho più testimoni a questa verità, ché principalmente il mio anello con la perduta chiarezza mi mostrò l’affanno di Biancifiore: la celestiale spada, ritrovandomela nella destra mano quando mi svegliai, m’affermò la credenza delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di farmi il servigio, e però con tante contrarietà v’andate al mio intendimento opponendo. Onde io vi priego, sanza più andarmi con cotali circustanze faccendomi perder tempo, mi rispondiate se fare lo volete o no: ch’io vi prometto che mai io non sarò lieto, né dalla mia impresa mi partirò, infino a tanto che io con la destra mano non avrò liberata Biancifiore dal fuoco, e da qualunque altro pericolo le soprastesse -. Quando Ascalion udì così parlare Florio e videlo pur fermo in voler difendere Biancifiore, assai se ne maravigliò del gran cuore che in lui sentiva, e più della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera fatta per mano d’uomo, e fra sé disse: "Veramente la fortuna ti vuole recare a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e gl’iddii mostra che ’l consentano". E poi rispose a lui: - Florio, sanza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch’io ti dicea, io nol ti dicea che io non conoscessi bene ch’io non dicea vero, ma io il dicea acciò che da questa impresa ti ritraessi, se potuto avessi ritrartene. E se io avessi dal principio conosciuto che così fermamente t’avessi posto in cuore di far questo, certo sanza niuna altra parola io t’avrei detto: "andiamo"; ma io volea provare altressì con che animo ci eri disposto. E non dire ch’io dubiti di servirti, ch’io voglio che manifesto ti sia che alcuno disio non è in me tanto quanto quello fervente. Ond’io caramente ti priego, poi che del tutto alla difensione di Biancifiore se’ fermo, che, se ti piace, lasci a me questo peso, perché tu non sai chi avanti ti dee uscire a resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre sanza fallo ha molti valorosi cavalieri, e espertissimi e usati in fatto d’arme lungamente, a quali tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse così resistere come si converrebbe. E non ti voler rifidare in sola la forza della tua giovanezza, ché non solamente i forti bracci vincono le battaglie, ma i buoni e savi provedimenti danno vittoria le più volte. Posto che io, già vecchio, non ho forse i membri guari più poderosi di te, io pur so meglio di te quel colpo che è da fuggire e quello che è da aspettare e quando è da ferire e quando è da sostenere, sì come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci. E d’altra parte, se io fossi soperchiato, a te non manca il potere allora combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancifiore -. A cui Florio rispose brievemente: - Maestro, io ora novellamente porterò arme; io come detto v’ho, sono giovane, e amore mi sospinge, e la buona speranza: io voglio sanza niuno fallo essere il difenditore di quella cosa che io più amo, ché non m’è avviso che alcuno cavaliere, non tanto fosse valoroso e dotto in opera d’arme, potesse qui adoperare quanto potrò io. E se io consentissi che voi v’andaste voi a combattere, e foste vinto, a me non si converrebbe d’andare a volere racconciare quello che voi aveste guasto né potrei né mi sarebbe sofferto. Io voglio incominciare a provare quello affanno che l’armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben credo poter sofferire l’armi a una picciola battaglia. E nella giovanezza si deono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E se pure avvenisse che la speranza della vittoria mi fallisse, io farò sì che la vita e la battaglia perderò a un’ora, la qual cosa mi fia molto più cara che se io, dopo la morte di Biancifiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che poi Biancifiore non si curerebbe, sì che più ch’uno non bisognerà che combatta -. Disse Ascalion: - Poi ch’elli ti piace che così sia, e io ne son contento, ma veramente io non ti abandonerò mai; e se io vedessi che il peggio della battaglia avessi mai, chiunque ucciderà te, ucciderà me altressì, avanti che io la tua morte vedere voglia. Ma io priego gl’iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, che ti donino la disiderata vittoria, come promesso t’hanno, acciò che io teco insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e scampata Biancifiore, mi possa di sì prospero principio rallegrare -.
- Veduta Ascalion la ferma volontà di Florio, sanza più parlare, egli lo ’ncominciò ad armare di bella e buona arme; e poi ch’egli gli ebbe fatto vestire una grossa giubba di zendado vermiglio, gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e appresso i pungenti speroni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere lucenti come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente fattegli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d’un vermiglio sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova. E poi che gli ebbe armate le braccia di be’ bracciali e musacchini, gli fece cingere la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra ’l quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre preziose, sopra ’l quale un’aquila con l’alie aperte di fino oro risplendeva, gli mise, donandoli un paio di guanti quali a tanta e tale armadura si richiedevano, e appresso il sinistro omero gli armò d’un bello scudetto e forte e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie campeggiavano. E sì come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna, così Ascalion dicea a Florio: - Caro figliuolo mio, non schifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sì come nell’altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa maggiormente gli abbia, però che è cosa, che, non osservandola, porta più pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contra ’l disiderato nimico, quanto più puoi prendi la più alta parte del campo, acciò che andando verso lui, anzi il sopragiudichi che tu sii da lui sopragiudicato; però che gran danno tornò a’ greci la poca altezza, ché i troiani aveano vantaggio allo ’ncominciare le battaglie. E guarti non ti opporre a’ solari raggi, però che essi dando altrui negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di tenervi il viso. Né contro al polveroso vento ti metterai, però che dandoti negli occhi t’occuperebbe la vista. Né moverai il corrente cavallo con veloce corso lontano al tuo nimico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo, acciò che quando sarai presso al nimico, spronando forte, elli il suo corso impetuosamente cominci: però che le forze del volonteroso cavallo sono molto maggiori nel cominciare dello aringo che nel mezzo, quando col disteso capo corre alla distesa. Né ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte, quand’elle truovano alcun ritegno e trapassanlo. E chi fece Protesilao più volonteroso che ’l dovere, se non l’essere ritenuto contro alla calda volontà? Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava più temperatamente. Né non basserai la lancia nel principio dello aringo, però che il savio nimico prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio del peso sarebbe stanco avanti che tu a lui giugnessi; ma ponendo mente prima a lui, t’ingegna, se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con forte braccio abassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola che nella sommità dell’elmo ti ponghi: i bassi colpi nuocciono, posto che gli alti sieno belli. E s’egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se non fossi già molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, ché tal ferire sarà sanza danno di te. Ma poi che le lance più non adoperranno, non esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio però che tu meni molti colpi, ma maestrevolemente, quando luogo e tempo ti pare di ferire a scoperto, copertamente fieri, sempre intendendo a coprire bene te, più che al ferire molto l’avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di sotto di te, ché allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera’ti bene che per tutto questo niente di campo ti lasci torre, però che con vergogna sarebbe danno. Né ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le gambe: la qual cosa s’avviene, non volere troppo tosto sforzarti d’abbatterlo in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto affannato vedrai più leggiermente potrai allora mettere le tue forze e abbattere lui. E sopra tutte cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. Né niuno romore o di lui o del circustante popolo ti sgomenti, ma sanza niuna paura ti mostra vigoroso; incontanente la tua parte fia aiutata dal grido: e il nimico vedendoti ognora più vigoroso, dubiterà della tua vittoria, però che bene ti seggono l’armi indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, più che altro cavaliere già è gran tempo vedessi -. Florio con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe allora essere stato a’ fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo che a volgere era, e in se medesimo molto si gloriava veggendosi armato; e disse ad Ascalion: - Caro maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo, ove il bisogno sarà, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v’armiate, e vengano i cavalli, e andiamo, però che già mi pare che le stelle, che sopra l’orizonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio della mezza notte -.
- Armossi Ascalion; e mentre che egli s’armava, e Florio andava per l’ostiere ora correndo, ora saltava d’una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada faceva diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com’egli la potesse alzare e bassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose così destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l’avesse, avvegna che Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalion, lodando la sua leggerezza, si maravigliò molto e essendo già egli medesimo armato, tutto solo se n’andò alla stalla, e messe le selle e’ freni a due forti cavalli, li menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sé di due sopraveste verdi, e prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e sanza più dimorare presero il cammino verso la Braa.
- Già Febea con iscema ritondità tenea mezzo il cielo, quando Florio e Ascalion, lasciata la città, cominciarono a cavalcare per li solinghi campi. Ella porgea loro col freddo raggio grande aiuto, però ch’ella mitigava il caldo che le gravi armi porgeano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era usato, poi facea loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si rallegrava però che già gli parea incominciato avere a ricevere lo ’mpromesso aiuto degl’iddii. E più si rallegrava imaginando che egli s’appressava al luogo ove egli vedrebbe la sua Biancifiore in pericolo, e scampata da quello per la sua virtù. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all’aiuto degl’iddii, volto verso la figlia di Latona, così cominciò a dire: - O graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, lodata sii tu; tu alleviando la mia madre di me, piegandoti a’ suoi prieghi, le mi donasti, degna allegrezza dopo il ricevuto affanno. Dunque, poi che per te nel tempestoso mondo venni, aiutami nelle mie avversità, e priegoti per li tuoi casti fuochi, i quali io già ne’ miei teneri anni debitamente cultivai, che come tu hai nel mio aiuto incominciato, così perseveri. E ricordati quanto tu, già ferita di quello strale che io ora sono, ardesti di quel fuoco che io ardo! e priegoti per le oscure potenze de’ tuoi regni, ne’ quali mezzi i tempi dimori, che tu domane, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e fervente raggio mi renda alle abandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi togli. Tu m’hai porta speranza del futuro soccorso degl’iddii col tuo principio, onde io con più ardita fronte il dimanderò. E te, o sommo prencipe delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu già sopra i figliuoli della terra avesti, e per tutte l’altre, che tu sii a me favorevole aiutatore, però che io non cerco, sì come tu vedi, di volere per la presente battaglia possedere né acquistare le vostre celestiali case, né intendo di levare a Giove la santa Giunone; né similemente è mio intendimento d’occupare la fama delle tue grandi opere col tuo medesimo aiuto, ma d’accrescerla, e solamente cerco di difendere la vita di Biancifiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo più ardito per la promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi qui quanto la tua forza possa adoperare. E similmente tu, o santa Giunone, donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio inganno, il quale questi iniqui, contra i quali io ora vo, copersero col tuo santo uccello, non servandoti la debita reverenza. E voi, o qualunque deità abitate le celestiali regioni, siate al mio soccorso intente; e massimamente tu, Astrea, la cui giusta spada mio padre intende di sozzare con innocente sangue, aiutami -. E così dicendo e tutt’ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo spazio avanti dì: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
- La misera Biancifiore, non sappiendo perché con tanto furore né sì subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave ingiuria, entrando nell’oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v’era che forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava avanti, le porgeano molta paura, e ’l suo viso impalidito e smorto non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a piangere e a dire: - Oimè misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso? Certo in niuna cosa, ch’io sappia. Io mai né con parole né con operazioni non lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando né spogliando i santi templi e gli altari degl’iddii commisi sacrilegio, né mai si tinsero le mie mani né l’altrui per me d’alcun sangue: dunque questo perché m’è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare sazia delle mie avversità, pensando che divisa m’avevi da quella cosa nella quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora questa vergogna d’essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu avevi volontà di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane della real casa di portare il santo paone alla mensa dove il re sedea, accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si vantarono! E questa la fine che tu vuoi a’ loro vanti porre? Oimè, com’è laida e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me meritata. Oimè, che gl’iddii e ’l mondo m’hanno abandonata, e massimamente tu, o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se’ tu ora o che fai tu? Forse pensi che il tuo padre m’acconci per mandare a te, però che dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie sollecitudini, e non so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or non t’è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia! Immantanente io imagino che tu m’abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati, coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m’hai dimenticata, perché non mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu c’eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no, però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l’anello ch’io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l’animo mio è tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de’ tuoi santi raggi in compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutare non mi posso -. Non avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d’alloro, con un ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta, subitamente disse: - Ahi, bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati. Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura te ne seguisca -. Quando Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo: - O misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera rimaso, se tu venendo non m’avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de’ gloriosi regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m’hai renduto alquanto del perduto conforto, se licito m’è a saperlo, quale è la cagione per che fatta m’è questa ingiuria? -. A cui la dea rispose: - Niuna altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti; ma non sotto questa spezie s’ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E d’altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane -. Con questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo, infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.
- Cominciossi per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che tenuto avea del fallo che dovea aver fatto Biancifiore: e tutti i baroni e l’altra gente, chi in una parte e chi in un’altra ne ragionavano; e a tutti parea impossibile il credere che Biancifiore avesse già mai tanta malvagità pensata, con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri diceano che veramente mai Biancifiore non avrebbe tal fallo commesso né pensato, ma questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla morire, perciò che Florio più che altra femina l’amava, e ’l re che egli non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcuna altra. Alcuni diceano ciò non porria essere, ché, se il re l’avesse avuto animo adosso, per altro modo l’avria fatta morire, né mai si sarebbe vantato di maritarla, come la mattina avea fatto, affermando d’attenere il suo vanto con tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura del siniscalco, però che l’avea in odio perché rifiutato l’avea per marito. E altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendea il re e chi Biancifiore ma a tutti generalmente ne dolea, e niuno potea credere che difetto di Biancifiore fosse mai stato. E molti ve n’avea che, se non fosse stato per tema di dispiacere al re, avrebbero parlato molto avanti in difesa di Biancifiore, e ancora prese l’arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei e chi per amor di Florio. E così d’uno ragionamento in altro il giorno passò, e sopravennero le stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell’animo, sperando che il seguente giorno per la morte di Biancifiore terminerebbero il loro disio.
- Il re dormì poco quella notte, tanto il costringea l’ardente disio che il nuovo giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, più volte quella notte eccitato, disse: - O notte, come sono lunghe le tue dimoranze più che essere non sogliono! O il sole è contra ’l suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che tu la maggior parte del tempo nel nostro emisperio possiedi, o Biancifiore credo che con le sue orazioni priega gl’iddii che rallungare ti facciano, quasi indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente s’inframette, ché a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra altare né visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, però che quando tu ti partirai del nostro emisperio, io la farò ardere nelle cocenti fiamme, né di ciò alcuno pregato iddio la potrà aiutare, né trarla delle mie mani: adunque partiti, e lasciami tosto vedere l’apparecchiato fine al mio disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso suoli sì prestamente tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perché dimori tanto? Vienne, non dubitar di venire sopra l’orizonte, per che io deggia fare per la tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l’acerbissimo peccato del comune figliuolo de’ due fratelli mangiato da essi, porto dalla crudel madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti dare quel giorno luce alla terra, perché sopra sé sì fatta crudeltà avea sostenuta. Tu desti più volte luce a Licaon, operatore di maggior crudeltà che questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l’ucciso figliuolo, dandole tu lume, si fuggisse dalla giusta crudeltà di Tireo; né si celò la tua luce nella morte de’ due tebani fratelli. Adunque, poi che a Licaon, a Progne e ad Etiocle ne’ loro falli il tuo splendore concedesti, è così mirabile cosa se tu a me ne porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, né sarà l’ultima, né a te più che un’altra cara. Dunque vieni! Deh, non dimorare più! Fuggano omai le stelle per la tua luce. Non mi fare più disiderare quello che tu naturalmente suogli a tutti donare -. Così parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparì, subito si levò, e fece chiamare i giudici, e loro comandò che sanza indugio fosse giudicata Biancifiore.
- Quella mattina il sole coperto da oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l’aria da noiosa nebbia impedita parea che piangesse, quasi pietosa degli affanni di Biancifiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re e ebbero il comandamento ricevuto, stettero quasi stupefatti davanti al re. E conoscendo quasi il volere degl’iddii, e la ingiusta sentenza che dare doveano temendo, e mossi a pietà, s’ingegnarono d’aiutare Biancifiore, e dissero: - Altissimo signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicare dobbiamo, prima a’ nostri orecchi non confessa con la propia bocca il fallo per lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo udito ancora da Biancifiore alcuna cosa, o s’è vero o non vero quello di che voi volete che a morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest’opera secondo il giudiciale ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, sanza fare il debito modo, la sentenza non torni sopra i nostri capi -. Assai si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancifiore ascoltata non fosse, e per quello che il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non pervenisse a orecchie a Florio, rispose: - Questo fallo fatto da costei non ha bisogno di confessagione alcuna, però che è sì manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l’anima mia e de’ miei figliuoli la giudicate incontanente -. Comandarono adunque i giudici che Biancifiore fosse incontanente tratta di prigione e menata davanti da loro, vedendo essi la volontà del re essere disposta pur a volere che sanza alcuno indugio giudicata fosse.
- Fu adunque Biancifiore tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce che accompagnata l’avea da lei subito si partì, e questa vestita di neri drappi, i quali la reina mandati le avea, acciò che come nobile femina andasse a morire, venne tacitamente dinanzi a’ giudici, quasi perdendo ogni speranza che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de’ giudici levato in piè con empia voce così disse: - Sia a tutti manifesto che la presente iniqua giovane Biancifiore per suo inganno e tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signore re Felice avvelenare con un paone, sotto spezie d’onorarlo; e perciò, acciò che nullo uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s’ausi, noi condanniamo lei, ch’ella sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata -. E questo detto, comandò che al fuoco sanza indugio menata fosse.
- Biancifiore avea perduto il naturale colore per la paura e per lo digiuno; e il suo bel viso era tornato palido e smorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile giudicio contra lei dato sanza ragione, forte incominciò a piangere e a dire fra se medesima: "Oimè misera, or convienmi elli morire? Or che ho io fatto?". E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame congiunte, ella s’avrebbe i biondi capelli dilaniati e guasti, e ’l bel viso sanza niuna pietà lacerato con crudeli unghie, stracciando i nuovi drappi significanti la futura morte, e avrebbe riempiuta l’aere di dolorose e alte voci; ma vedendosi impedita e circundata da innumerabile popolo, costretta da savio proponimento, raffrenò le sue voci, e sanza nullo romore fra sé tacitamente ricominciò a dire: "Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata più graziosa nelle braccia di Florio, com’io credetti già che tu mi venissi! Deh, ora mi fossi tu almeno venuta in quell’ora ch’io chiamata fui a portare il male avventuroso uccello per me, però che io allora sarei morta onestamente e sanza vergogna d’alcuna infamia. Ahi, anime del mio misero padre e de’ suoi compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste, rallegratevi, che io, stata di sì crudel cosa cagione, sono punita degnamente. Niuna altra cosa credo che nuoccia a me misera, se non questa, insieme con l’aver portata troppa lealtà e onore a colui che ora mi fa morire. O crudelissimo re, perché mi rechi a sì vile fine? Che t’ho io fatto? Certo niuna colpa ho commessa, se non che io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh, or che mi faresti tu, o più crudele che Fisistrato, se io l’avessi odiato? Quale tormento m’avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai, né lui pregai ch’egli di me s’innamorasse. Se gl’iddii concedettero al mio viso tanta di piacevolezza che il suo gentile cuore fosse per quella preso, ho io però meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata agurio di sì doloroso fine, io con le mie mani l’avrei deturpata, seguendo l’essemplo di Spurima, romano giovane. Ma fuggano omai gli uomini i doni degl’iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei già potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volontà più m’avesse giudicato, o congiugnerlo meco per matrimoniale nodo, se io avessi voluto, se non fosse stata la pietà che ’l mio leale cuore ti portava. O vecchio re, per l’onore che io da te ricevea non ti volli mai del tuo unico figliuolo privare, e io del bene operare sono così meritata. A questo fine possano venire i servidori de’ crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove, il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la verità di questo fatto, e conosci che io non fallii mai: non consentire adunque che le pietose opere abbiano tale guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto, fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi il nome degli effetti del tuo cielo ricuopra la iniquità del re Felice contra di me, ma manifestamente fa nota la verità. E tu, o santa Giunone, nel cui uccello tanta falsità fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che questa cosa non rimanga inulta ma sia letta ancora tra l’altre vendette da te fatte, acciò che la tebana Semelè o la misera Ecco non si possano di te giustamente piangere. E tu, o sacratissima Venere, soccorri tosto col promesso aiuto; non indugiar più, però che, non vedendolo, a me fugge la speranza delle tue parole da tutte parti, però che io al fuoco mi sento condannare. Veggiomi i feroci sergenti dintorno armati, come se io fierissima nimica delle leggi mi dovessi torre loro per forza, e veggo il siniscalco, a me crudelissimo nimico, sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, né più né meno come se egli della mia salute dubitasse. Né veggio che per pietà di me cambi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque soccorri tosto, che io dubito che se troppo indugi, io non muoia di contraria morte che quella che apparecchiata m’hanno costoro, però che la molta paura m’ha già sì raffreddato il cuore, che egli gli è poco sentimento rimaso".
- Mentre che Biancifiore, ascoltando la crudele sentenza sì tacitamente fra sé si ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia vennero a vederla, già volendola i sergenti menare via. Ma Biancifiore col viso pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai rivedere non credea, vide ad un’alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora più la costrinse il dolore, e con più amare lagrime s’incominciò a bagnare il petto. Ma non per tanto così, com’ella poté, si sforzò di parlare, e con debole voce, rotta da molti singhiozzi di pianto disse: - O carissimo padre, re Felice, da cui io conosco l’onore e ’l bene che io per adietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre, essendo noi stranieri, rimani con la grazia degli iddii, tu e la tua compagna, i quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi sanza ragione. E certo più onore vi tornava a tutti l’essere degnamente stati pietosi, che ingiustamente crudeli verso me, che mai a’ vostri onori non ruppi fede; e ancora li priego che essi sieno a voi più prosperevoli che a me non sono stati -. E dicendo Biancifiore queste parole, il siniscalco su un alto cavallo, con un bastone in mano sopravenne, e dando su per le spalle a’ sergenti che la menavano, e a lei disse: - Via avanti, non bisognano al presente queste parole: priega per te, non per loro -. Onde Biancifiore piangendo bassò la testa, andando oltre sanza più parlare. Il re e la reina, che quelle parole aveano udite, alquanto più che l’usato modo costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e in tanto ne dolfe alla reina, che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato avea, e volontieri avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l’avesse potuto. I sergenti tiravano forte e vituperosamente Biancifiore verso la Braa, ove il fuoco apparecchiato già era; e ella che del cospetto dello iniquo re s’era piangendo partita, andava col capo basso, pianamente dicendo: "Oimè, Florio, ove se’ tu ora? Deh, se tu m’amassi come tu già m’amasti e come io amo te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sì vicina, che faresti tu? Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m’ami più. Io conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e buono fosse stato, come è stato il mio verso di te, niun legame t’avrebbe potuto tenere a Montoro, che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte da me, se lecita è o no; o solamente saresti venuto a vedermi inanzi ch’io morissi, mostrando che della mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io il ti mandi a dire, ma tu non pensi com’io posso, che non che mandare a dirtelo mi fosse lasciato, ma una picciola scusa non è voluta ascoltare da me, né consentito che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, né ti potresti scusare che tu nol sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho tacitamente udito ragionare a molti che il duca e Ascalione per non vedere la mia morte se ne sono venuti costà, e so che essi t’hanno contato tutto il mio disaventurato caso, come coloro che ’l sanno interamente. Dunque perché non mi vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti lievi? Forse tu dubiti d’aiutarmi, dicendo: "Ella muore giustamente: leverommi io a volere difendere la ingiustizia?". Certo tu se’ ingannato, che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte ch’io vo a prendere m’è ingiustamente data, e tu me ne se’ principale cagione. E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che io t’ho sempre portato, non mi dovresti tu ragionevolmente aiutare e difendere da sì sozza morte, acciò che la gente non dicesse: "Colei, cui Florio amava cotanto, fu arsa"? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niuna altra cosa si partì Ascalion di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non te l’avesse detto, il mio anello, il quale io ti donai quando da me ti partisti, non te lo dee aver celato, ma manifestamente col suo turbare ti dee aver mostrato le mie avversità; e credo che egli, del mio aiuto più sollecito di te, già te l’abbia mostrato. Ma io dubito che tu negligente al mio soccorso ti stai costà, forse contento d’abbracciare o di vedere alcun’altra giovane, e, dimenticata me, hai de’ miei impedimenti poca cura. Onde io, dolorosa, sanza conforto per te mi morrò, avvegna che uno solo ne porterà l’anima mia agl’infernali iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona dolere della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se gl’iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch’io ti potessi solamente un poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi questa ultima consolazione, se l’aiutarmi in altro t’è noia". Queste e molte altre parole andava fra sé dicendo Biancifiore, menata continuamente con istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale accidente non piangesse, e l’aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non potendola più oltre che ’l piangere mostrare che di lei gli dolesse, dicea: - Gl’iddii ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua graziosa anima nella pace de’ loro regni -. E giunti i sergenti al misero luogo dove era il fuoco acceso e ragunato infinito popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che sanza impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancifiore corse agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che già a lei s’avvicinavano per la sua difesa: e sanza sapere più avanti di loro essere che gli altri che quivi erano, imaginò che l’uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della ’mpromessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e cacciando da sé alquanto di paura, s’incominciò a riconfortare e a prendere speranza della sua salute.
- Florio e Ascalion, pervenuti al tristo luogo per grande spazio avanti che il giorno apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perché era giovane e non uso d’alcuna asprezza, e Ascalion per lunga età già tutto bianco, smontati ciascuno del suo cavallo, e legatolo a uno albero, dissero: - Qui alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia -. E cavatisi gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a dormire ciascuno di loro.
- O Florio, or che fai tu? Tu fai contro all’amorose leggi. Niuno sonno si conviene al sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli sottilmente sottentra ne’ disiderosi occhi e negli affannati petti? Or ove sono fuggite le sollecite cure, che stringevano il tuo animo poco avanti? Ora elli ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con l’armi indosso sopra la dura terra ti se’ addormentato? Credi tu forse Biancifiore aver tratta di pericolo perché tu sii armato? Ella è ancora in quel pericolo che ella si fu avanti che tu t’armassi. Ma forse tu credi il sonno a tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirà. E se alquanto ti tiene più che a Biancifiore non bisogna, a che sarà ella? Certo alla morte! Forse tu ti fidi che gl’iddii ogni volta ti deggiano con nuovi sogni destare? Forse non ti desteranno; e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, più tosto da dire pigrizia? Venus ha infino a qui fatto il suo dovere: se tu a quello ch’ella t’ha detto sarai pigro, ella si riderà di te, e terratti vile, e scherniratti con dovute beffe. Deh, come tu male, se tu soperchio dormi, avrai adoperata la ricevuta spada! Ora non ti stringe amore? Or non t’è a mente Biancifiore? Ogni sollecitudine è testé da te lontana! Ma la misera Biancifiore, forse già fuori della cieca prigione, ode la non giusta sentenza data contro di lei, o forse è vilmente menata allo acceso fuoco; e ripetendo tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or s’ella muore, che varrà la tua vita? Ella si potrà più tosto dire ombra di morte. Ora se Biancifiore sapesse che un poco di sonno, sopravenuto ne’ tuoi occhi, t’avesse fatto dimenticare li suoi affanni, or non avrebbe ella cagione di non amarti già mai, ma degnamente odiarti? E s’ella morisse, potendola tu aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai viver lieto non dovresti. Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai nullo pigro guadagnerà i graziosi doni.
- Nel piccolo spazio che Florio quivi adormentato stette, gli fu la fortuna molto graziosa, però che a lui parea, così dormendo, con le sue forze avere liberata Biancifiore da ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno d’erbe e di fiori, e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana coperta e circuita da giovanetti albuscelli, in maniera che appena i chiari raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli parea con lei sedere con due strumenti in mano sonando: e cantando amorosi versi, insieme si traevano allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e tal volta disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e ch’ella abbracciasse lui, e dessorsi amorosi baci. E già non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il parergli averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima gli avea nel sogno narrato ch’era stata. E così Florio, che dormendo disiderava di non dormire, si stava, quando il giorno s’incominciò alquanto a rischiarare. Allora l’altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese del suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai, sopragiunse a costoro; e ismontato da cavallo, prese per lo braccio Florio, che ancora dormiva, e disse: - Ahi, cavaliere, non dormire, leva su: vedi colui, il cui figliuolo seppe sì mal guidare l’ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni, che già co’ suoi raggi ha cacciate le stelle! -. Allora Florio, tutto stupefatto subitamente si dirizzò in piè guardandosi dintorno, e forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l’avea, che della rossa luce di che era coperto tutto parea che ardesse, e disse: - Cavaliere, chi siete voi che queste parole mi dite e che m’avete il dolce sonno rotto? -. - Io sono guidatore e maestro delle celestiali armi - rispose Marte - e insieme sono in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che novello cavaliere se’ entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e te’ questo arco con questa saetta: niuno tuo nimico ti sarà sì lontano, che con questa non l’aggiunghi, solamente che tu il vegga: folle è chi l’aspetta, ardito chi la saetta, e iddio è chi le fabrica; però tieni caro e l’uno e l’altro, acciò che donandoli non te ne avvenisse come alla misera Pocris, la quale molto più lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare, ché niuna arme, fuori che le nostre, è che a’ suoi colpi possa resistere. L’ora s’appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo -.
- Di questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una grandissima barba, e sì lucente, che appena potea sostenere di mirarlo. Ma udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo, bassatosi in terra gli s’inginocchiò davanti, dicendo: - O sommo iddio, sempre sia il tuo valore essaltato, com’è degno; quanto per me si può, tanto più ti ringrazio del caro e buono arco che donato m’hai, e della tua compagnia, la quale a me indegno t’è piaciuto di farmi in questa necessità. Per che io ti priego che tu, come promesso hai, così al mio aiuto sii avvisato in non abandonarmi, acciò che io, tornando a Montoro con l’acquistata vittoria, le mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni -. E questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalion, disse: - Cavalchiamo, che tempo è, e a me pare già vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e parmi vedere l’accese fiamme risplendere in mezzo di loro -. Ascalion sanza indugio si levò, e vide ch’egli dicea vero. Allora messisi gli elmi e presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti loro cavalcava, verso quella parte dove Biancifiore dovea essere menata. Ascalion che a Florio vedea portare il forte arco, disse: - O Florio, e chi t’ha donato questo arco, poi che noi venimmo qui? -. - Certo - rispose Florio - l’alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca, poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi questo arco e questa saetta, e dissemi che noi cavalcassimo, allora che io ti chiamai -. Disse Ascalion: - Dove è quel duca che tu di’ che ’l ti donò? Io non veggio davanti a noi se non uno splendore molto vermiglio, del quale io t’ho voluto più volte domandare se tu il vedevi tu -. Disse Florio: - Quegli è desso; io veggo lo splendore e lo iddio che dentro vi dimora -. Allora disse Ascalion: - Ben ti dico che ora veggo che gl’iddii t’amano, e che tu dei pervenire a grandissimi fatti. Quale vuo’ tu della tua futura vittoria più manifesto segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa, aringando elli a’ disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo Scipione, non fu più manifesto segno del futuro triunfo. Né quella ancora che apparve a Tulio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di Tanaquila, fu più manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della diliberazione di Biancifiore. Adunque confortati e prendi vigoroso ardire, seguendo le vestige del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, sanza dubbio ti credo, ben che infino a qui molto dubitato n’abbia che vere non fossero le tue parole -.
- Così parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco avea già fatto fare dintorno al fuoco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva d’appressarsi; ma chi nel piano entrava, non sappiendo di che, avea paura. Ma il siniscalco, che con rivolta redina avea ripreso il secondo cerchio maggiore per dare maggiore spazio a’ sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver paura, molto in sé maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale che gl’iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancifiore. Ma pure per non parere meno che ardito e per non isgomentare gli altri, passò avanti con non più sicuro animo che Cassio in Macedonia contra Ottaviano, veduta la figura di Cesare vestita di porpore venire contro a lui, tanto che pervenne ad esso sanza far motto, e a’ due cavalieri che appresso gli stavano i quali Biancifiore molto di lontano avea veduti, e’ con rabbiosa voce disse: - Signori, traetevi adietro -. Allora Marte, rivolto a Florio, disse: - O giovane coperto delle nuove armi, ecco colui il quale tu dei oggi recare a villana fine; questi fia campione contra la verità: e veramente ha meritato ciò che da te riceverà, però che egli è colui che mise in effetto l’ordinato male da’ tuoi parenti: rispondigli, né per lui di questo luogo ti muovere -. Allora Florio si trasse avanti con tanta fierezza, quanta se quivi uccidere l’avesse sanza indugio voluto, e disse: - Cavalier traditore, né tu né altri mi farà di qui mutare, più che mi piaccia -. Il siniscalco, crucciato e impaurito per la compagnia che con lui vedea, si tirò indietro con intendimento di tornargli adosso con più compagni; ma Florio, alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancifiore assai presso del fuoco, già da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e vedendola Florio vestita di nero, colei che solea essere perfetta luce del suo cuore, e vedendo i begli occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli sanza alcuno maestrevole legamento attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietà sotto il lucente elmo il più dirotto pianto del mondo, dicendo: - Oimè, dolcissima Biancifiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta di crudeltà regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, né mai credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non m’aiutino, se tu non se’ da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme lietamente viveremo -. E queste parole fra sé dette, ferì il cavallo degli sproni fieramente, rompendo la calcata gente, la quale già per la partita del siniscalco aveano riempiuta l’ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e maggiore spazio, comandò a’ sergenti, che già Biancifiore voleano gittare nel fuoco, che incontanente sciogliendole le mani la dovessero lasciare, né più avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu ubidito sanza dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si tirarono. Allora Florio rivolto a lei con alta voce disse: - Giovane damigella, fugga da te ogni paura, ché gl’iddii, pietosi di te, vogliono che io ti difenda: dimmi qual sia la cagione per che il re t’ha fatta giudicare a sì crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, ché io ti prometto, che ragione o non ragione che il re abbia, infino che i miei compagni e io avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per amor della tua piacevolezza, ti difenderemo -.
- Vedendosi Biancifiore confortare dal cavaliere, lasciata da’ sergenti, alzò il viso con gli occhi pieni di lagrime, e dopo uno amaro sospiro così disse: - O cavaliere, chi che tu sii, o mandato dagl’iddii in mio aiuto o no, come può egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m’è? Oh, e’ pare che le insensibili pietre, non che gli uomini, ne ragionino, per quello che io misera n’ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della natività del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io fui mandata dal siniscalco con un paone, il quale era avvelenato; e io di ciò non sappiendo niente, fatto quello d’esso che comandato mi fu, io il lasciai davanti al re, e torna’mene alla camera della reina: ove essendo ancora poco dimorata, io fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E sanza volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa morte. Ma se a’ miseri si dee alcuna fede, io vi giuro per la potenza de’ sommi iddii che questo peccato io non commisi, e sanza colpa mi conviene patire la pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale io credo che io sono fatta morire, che voi m’aiutiate e difendiate, acciò che io sì vilmente non muoia -. Florio, il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancifiore, piangendo continuamente sotto l’elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno s’avvedesse, molto disiderava di farsi conoscere; poi per l’amaestramento della santa dea ne dubitava, ma finalmente così le rispose: - Bella giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl’iddii mi presteranno vita -. E alzata la visiera dell’elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era venuto, disse così:
- - Signori, i quali qui adunati siete per vedere il disonesto e ingiusto strazio che di questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietà alcuno fosse in voi rimaso, dovreste fuggire di ciò vedere, a me brievemente pare, per le parole che io ho da lei intese, le quali io credo, e manifestamente appare quelle essere vere, che la sentenza data contro a lei sia nella presenza degli uomini e degl’iddii, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale gliel comandò, è colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui e non sopra costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo ne volesse dire, o il siniscalco o altri per lui, io sono presto e apparecchiato di difendere che quello ch’io ho detto sia la verità, e in ciò arrischierò la persona e la vita, imperciò che la manifesta ragione mi stringe ad essere pietoso della ingiusta ingiuria fatta a costei; e, d’altra parte, io sono distrettissimo e caro amico di Florio, e ella per amore di lui mi priega ch’io l’aiuti e difenda nella ragione: e io così son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a chiunque la vuol far morire, però che se altro ne facessi, molto alla cara amistà mi parrebbe fallire, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente riprendere -.
- Assai nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v’erano la maggior parte di quelli che vantati s’erano al paone, a’ quali molto di Biancifiore dolea: i quali queste parole udendo, tutti dissero che il cavaliere dicea bene, e che ragionevole cosa era che ’l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a quelli che la contradicea, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti messaggeri subitamente, contenti tutti sanza fine di tale accidente, favoreggiando Biancifiore in quanto poteano. E alcuno di quelli giudici che sentenziata l’aveano, trovandosi ivi presente, udite le parole di Florio, comandò che più avanti non si procedesse, infino a tanto che ’l cavaliere non avesse suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira tutto si rodea, veggendo che Biancifiore aveva aiuto e che di consentimento di tutti all’opera si dava indugio e che il cavaliere sì vituperose parole aveva dette di lui, incominciò a bestemiare quella deità che avuto avea potere d’indugiare tanto la morte di Biancifiore, e che per inanzi se ne inframettesse in non lasciarla morire e così bestemiando si trasse avanti, e disse: - Il cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; ché Biancifiore dee ragionevolemente morire, e sì morrà ella in dispetto di lui e di Florio, per cui richiamata s’è, e di qualunque iddio la ne volesse aiutare -. E comandò a’ sergenti che incontanente la mettessero nel fuoco, e lasciassero dire il cavaliere: che, se difendere la volea, fosse venuto avanti che la sentenza fosse data, ché omai tornare non si può ella indietro per cosa che alcuno dica. Florio si volse subito a’ sergenti, dicendo: - Nullo di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane quanto egli vuole; se egli disidera di farla morire venga avanti egli a toccarla -. Allora Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio, e disse: - Villan cavaliere, chi se’ tu che sì contrari la nostra potenza con sì oltraggiose parole? Poco che tu parli più avanti, io ti farò prendere e ardere con lei insieme. Via, levati di qui incontanente -. Florio non potendo più sostenere, alzò allora la mano, e diedegli sì gran pugno in su la testa, che quasi cadere lo fece sopra l’arcione della sella tutto stordito; e questo fatto rizzatosi sopra le strieve, e accostatosi a lui, preso l’avea sotto le braccia per gittarlo dentro all’acceso fuoco; ma molti furono gli aiutatori, quasi più per iscusa di loro che per buona volontà, i quali se stati non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli dilibero da Florio, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi n’andò al real palagio; e venuto nella presenza del re vi trovò alcuni mandati da’ nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, i quali da parte loro gli recitavano l’accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento, giungendo furioso, e così disse: - Ahi, signor mio, ascolta le mie parole. Là alla Braa è venuto il più villan cavaliere che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che provare mi vuole per forza d’arme che la sentenza, da’ vostri giudici data contro a Biancifiore, sia falsa, e ch’ella non debbia morire intende, e a me, che disarmato a’ suoi intendimenti resistea, ha fatto villania e oltraggio; e certo ivi era presente Parmenione, Sara, e altri uomini a voi suggetti sì com’io, i quali più tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e la vostra potenza, favoreggiando Biancifiore. E il cavaliere ha detto ch’è fedelissimo e distretto amico di Florio, onde Biancifiore per parte di lui gli s’è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai sanza battaglia non partirsi, e di scampar lei o di morire egli. Onde io vi priego carissimamente che a me voi concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e cavallo, acciò ch’io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza negl’iddii e nelle mie forze che sanza dubbio con vittoria vi menerò preso il villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata -.
- Niente piaceano al re tali novelle, ma con dolente animo l’ascoltava, e fra sé dice: "Deh! or chi ha sì tosto a Florio queste cose rivelate, che egli sì subito soccorso mandato l’ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Non so. O iddii, maladetta sia la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch’io rechi a perfezione un mio intendimento!". E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la mente le non piacevoli cose, sospirando rispose: - Non so chi si sia questi che il mio intendimento s’ingegna d’impedire; ma sia chi vuole, che forse egli morrà e Biancifiore non camperà -. E poi soggiunse: - Siniscalco, a me pare l’ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare il cavaliere e onorarlo infino al mattino; poi, quando il sole con più tiepido lume ritornerà, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia -. - Sire - rispose il siniscalco, - in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia, però che il cavaliere che là dimora è di sì fiero coraggio e ardimento, che con qualunque persona volesse Biancifiore toccare, converrebbe che con lui combattesse, o lei lasciasse stare; né alcuno v’è a cui della morte di Biancifiore non incresca, né che più tosto in aiuto di lei non mettesse la persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da’ vostri piaceri e comandamenti mai non mi partii né partirò; e però se voi mi concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se non, se io ne vorrò far venire Biancifiore alla prigione, io so che combattere mi converrà. Priegovi che adunque voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso -.
- Rispose allora il re: - Poi ch’egli è come tu mi di’, e la battaglia non si può oggi cessare, va e prendi l’arme e qualunque de’ nostri cavalli più ti piace, e fa che onore acquisti con vittoria: pensa che nelle tue mani dee stare oggi la perfezione del nostro avviso, e la verità delle nostre bocche si dee con la forza del tuo braccio osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro intendimento non recida, se ti parrà di potere fare, comanderai a’ tuoi sergenti che mentre la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che essi subitamente gittino Biancifiore nell’acceso fuoco; poi, questo fatto, della tua vittoria non ti curare guari -. - Questo sarà a mio potere fornito - rispose il siniscalco, e partissi da lui.
- Prese adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancifiore, né campata né al tutto dannata rimasa, quivi si stava intra’ due continuamente piangendo; e poco valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse, posto che se saputo avesse che colui che sì pietosamente la confortava fosse stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non curandosi del pericolo nel quale esser le parea. Ella dimandava sovente: - O cavaliere, che è di Florio? Quanto è che voi il vedeste? -. E ogni volta al nominar Florio, più forte piangea. E Florio le rispondea: - Giovane donzella, in verità che la passata sera il vidi e con lui dimorai per grande spazio a Montoro, là ove io poi il lasciai faccendo sì grandissimo pianto e duolo di ciò che avvenuto t’è, che niuna persona il potea né può racconsolare. Egli caramente mi pregò che io dovessi qui sanza dimoro venire a liberarti di questo pericolo; e egli sanza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera, forte sarebbe che egli o per grieve doglia non morisse, o per quella il natural senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui e che tu il tenghi a mente, come egli fa te, che mai per bellezza d’alcuna altra giovane non ti poté né crede poter dimenticare -. Assai piacevano a Biancifiore queste parole, e molto in sé se ne confortava, e poi fra sé dicea: "Deh, chi è questo sì caro amico di Florio, che qui al mio soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che amano Florio". E mentre questo fra sé ragionava, sempre guardava l’armato cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d’averlo altre volte veduto; ma l’angoscia e la paura che per lo petto e per la mente le si volgeano, non lasciavano alla estimativa comprendere niuna vera fazione di Florio: e, d’altra parte, Florio per l’armi e per le lagrime aveva nel turato viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montoro andasse, non s’era nel cospetto di Biancifiore cambiato. E volendolo ella domandare del nome, Massamutino apparve sopra il campo tutto armato con due compagni, ciascuno sopra altissimo destriere a cavallo, l’uno de’ quali li portava uno forte scudo avanti, nel quale un leone rampante d’oro in uno azzurro campo risplendea, e l’altro una corta lancia e grossa con un pennoncello a simigliante arme: per la qual cosa la gente tutta cominciò a gridare e a dare luogo, dicendo: - Ora vedremo che fine avrà l’orgoglio del siniscalco -; e questo tolse a Biancifiore con subito tremore il non potere più parlare col cavaliere. Ma Florio sì tosto come questo udì, bassata la visiera dell’elmo, disse: - O giovane, fatti sicura che ’l tempo della tua liberazione è venuto - e voltato al forte iddio e ad Ascalion, disse: - O somma deità nascosa nella vermiglia luce, e tu, caro compagno, ecco il mio avversario: alla battaglia non può essere più indugio. Io vi priego che questa giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre che io combatterò, alcuna ingiuria fatta non le fosse -. E dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando Massamutino con sicuro cuore.
- Massamutino non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de’ sergenti, quelli in cui più si fidava, e così pianamente disse loro: - Sì tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina, e voi allora prestamente la prenderete e gitteretela nel fuoco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne siamo più tosto spediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza non perisca la giustizia -. I sergenti risposero che ciò sanza alcuno fallo sarà fatto. Allora il siniscalco prese lo scudo e la lancia, e cavalcò avanti tanto che davanti a Florio pervenne, a cui egli disse così: - O villan cavaliere, ecco chi abasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada riconoscere il tuo errore -. A cui Florio rispose: - Iniquo traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la quale tu menti oggi il proverà, sì come io credo; e a ciò gl’iddii m’aiutino, sì come campione e difenditore della verità, e però tra’ti adietro, e, quanto vuoi, del campo prendi, ché poi che armato se’, l’offenderti non mi si disdirà -.
- Sanza più parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi ciascuno per offendere l’altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante più alto che il mezzo termine posto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancifiore, quando il grande grido si levò: - Ecco il siniscalco! -. Ella non morì, e non rimase viva: se alcuno colore l’era nel viso ritornato, o rimaso, tutto si fuggì, e quasi ogni sentimento del corpo abandonò le sue parti, e l’anima si ristrinse nell’ultime parti del cuore, e quasi la volle abandonare; ma poi che la vita tornò igualmente per tutti i membri, ella, inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso verso il cielo: - O sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli insieme con tutte l’altre creature, e in cui ogni potenza è fermamente, se tu ad alcuni prieghi ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietà merito, porgimi il tuo aiuto, sì come facesti al vecchio Anchise, quando sano sanza alcuno impedimento de’ crudeli fuochi dell’antica Troia il traesti. Deh, non volgere i tuoi pietosi occhi in altra parte, riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa: tu sai se io ho avuta colpa in ciò che costoro ingiustamente m’appongono. O signor mio, aiutami e aiuta chi per me s’affanna; non si tinga oggi la spada d’Astrea nello innocente sangue. Dà vigore al mio cavaliere, il quale forse più per lei, che per amore di me o d’altrui, s’ingegna di avere vittoria; e non abandonare me misera posta in tanta tribulazione -.
- Quando i due cavalieri si furono allungati ciascuno l’uno dall’altro quanto a loro parve, e voltate le teste de’ cavalli con presta mano l’uno verso l’altro, allora s’accostò Marte a Florio, e disse: - Giovane cavaliere, qui si parrà quanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu seguiti nelle tue battaglie gli amaestramenti del tuo compagno -. E questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell’elmo, e alitogli nel viso, e poi gliele richiuse, e acconciandogli in mano la forte lancia, disse: - Muovi, che già il tuo nemico è mosso -. Florio sospirando riguardò verso quella parte dove Biancifiore dimorava, e appresso ferì il corrente destriere con i pungenti sproni, dirizzandosi verso Massamutino, che inver di lui correndo veniva con la lancia bassata. Ma già non parve alla circustante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e giugnendo sopra il siniscalco, sì forte con la sua lancia il ferì nella gola, che quella ruppe, e lui miseramente abbatté nel campo sopra la nuova erbetta, passando avanti. E appena avea ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la gente attenta più a riguardar loro che Biancifiore, s’accostarono per voler prendere lei e farne come il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose, faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sì grande nel campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano sanza avere ferito, e riguardandosi intorno, e vedendo il nimico suo a cavallo tornare verso di lui, tutto isbigottì, dicendo: - Oimè, or con cui combatto io? Quelli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie con gl’iddii? Già mi manifestò il cuore stamane, incontanente che io vidi la vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancifiore. Io veggio costui che d’iniquità o d’altro arde tutto nel primo aringo: or che farà egli quando più sarà riscaldato nella battaglia? S’egli è iddio, io non gli potrò resistere; s’egli è uomo, molto mi sarà duro alla sua fierezza contrastare. Volontieri vorrei di tale impresa esser digiuno, ma più non posso -. E così dicendo, prestamente si dirizzò, e volontieri si saria partito se potuto avesse; e, traendo fuori la spada, disse: - Faccino di me gl’iddii che loro piace: io pur proverò s’egli è così fiero con la spada in mano come con la pungente lancia, avanti che io, sanza aver bagnata la terra del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto -. In questo Florio s’appressò verso di lui e disse: - Cavaliere, certo mala pruova ci fa il tuo orgoglio, e già del primo assalto stai male -. Disse il siniscalco: - Niente sto peggio di te, se io fossi a cavallo; ma già questo vantaggio non avrai tu da me -. E questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferire Florio sopra la testa, ma il colpo fu corto e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio, vedendo il colpo, saltò tantosto a terra del cavallo, e acceso d’ira, tratta fuori la celestiale spada, andò verso di lui, e sì forte col petto l’urtò, che fatto il credette avere cadere, ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui, non lasciandoselo da quella volta inanzi più accostare, ma ferendolo continuamente di gravi e spessi colpi. Florio ricevea sopra il rilucente scudo le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre a riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando luogo e tempo gli parve, avvisandolo in quella parte nella gola là ove la lancia avea le armi guastate, alzato il braccio sì forte il ferì, che alcuna arme non gli giovò che egli non gli ficcasse la spada assai nelle nude carni: e se il colpo fosse stato traverso, come fu diritto, oppinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe la testa. Per questo colpo cadde il siniscalco, e tutti fermamente credettero che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande: - Morto è il siniscalco, e liberata è Biancifiore -; e di ciò tutti rendeano grazie agl’iddii e faceano festa. Mentre il gran romore si facea, il siniscalco, che per quel colpo morto no, ma istordito era, si dirizzò tacitamente, e salito sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma Florio, che verso Biancifiore se n’era andato, voltato per lo romore che la gente gli facea dietro, vedendolo fuggire, quasi niente gli parve avere fatto, però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l’aperse, saettandogli appresso, e disse: - Sanza nostro affanno questa ti giugnerà più tosto che tu non credi -. E lui fuggente ferì di dietro nelle reni: niuna arme fece alcuna resistenza a quel colpo, ma passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco, sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto a piè venuto il prese per la irsuta barba e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all’acceso fuoco, nel cospetto di Biancifiore, cui Marte avea già della sua luce tratta, lo strascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto, disse: - Malvagio e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietà, narra davanti a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re -. A cui il siniscalco così rispose: - Poi che gl’iddii v’hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la verità sia manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne sia, il vi dirò come io potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere ad alcuni, acciò che io stando alquanto alto possa da tutti essere udito e veduto -. Fecelo Florio sostenere a’ suoi sergenti medesimi, e egli così incominciò a dire:
- - Egli è vero, o signori, che ancora non ha gran tempo, io amai sopra tutte le cose del mondo Biancifiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore, che gli piacesse di congiungerla meco per matrimonial legge, il quale liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito donare le volea, ella rispose che sì vile uomo com’io era mai a suo potere non l’avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl’iddii; e poi piangendo, gittandoglisi a’ piedi il pregò che gli piacesse che egli non la mi desse: onde egli mosso a pietà di lei, che come figliuola l’amava, disse: "Non piangere, che io nol ti donerò". Io, risappiendo queste cose, molto mi turbai, e quello amore ch’io le portava si convertì in odio, e sempre pensai come io vituperosamente la potessi o far morire o far che cacciata fosse; onde iermattina celebrandosi la gran festa della natività del re, io feci cuocere e segretamente avvelenare quel paone, il quale io poi a lei feci portare alla real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale questo cavaliere vincendo l’ha scampata -.
- Guardossi assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, però che campare credea, ché non volea rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu ben contento Florio, che la nequizia del suo padre non fosse sì manifestamente saputa. Ma sì tosto come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare: - Muoia, muoia! -. E Marte, che udite avea queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto se non da Florio, disse: - Sia questa l’ultima ora della sua vita: gittalo in quel fuoco ove egli fatta avea giudicare Biancifiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di così fatti uomini niuna pietà si vuole avere -. Florio, udita questa voce, ripresolo per la barba, il gittò nel presente fuoco. Quivi con grandissime grida e con grieve doglia finì il siniscalco miseramente la sua vita ardendo.
- Fu da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del siniscalco e della liberazione di Biancifiore: e chi la vi portò credendolo rallegrare, e chi per lo contrario. E narrandogli molti per ordine ciò che stato era nel campo tra’ due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e ciò che confessato avea il siniscalco avanti la sua morte, il re in atto fece vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e sanza comparazione noiosa gli era all’animo tal novella; ma per non scoprire ciò che infino a quell’ora avea con fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto era, e così disse: - In verità che a me molto è a grado che Biancifiore sia da tal pericolo scampata, poi che colpabile non era, però che io l’amo quanto cara figliuola, avvegna che assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino a qui per leale uomo e valoroso avea tenuto. Ma poi che tanta malvagità occultamente in lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E se io voglio ben considerare tutto ciò che da voi m’è stato detto, io veggo manifestamente me essere molto tenuto agl’iddii nostri; e similemente conosco me da loro molto essere amato, veggendo che essi inver di me tanta benivolenza dimostrano, che essi non sofferano che nella mia corte alcuna iniqua cosa sanza punizione si faccia, per la quale la mia etterna fama potesse da alcuno ragionevolmente essere contaminata -.
- Avendo Florio gittato il siniscalco nelle ardenti fiamme, egli fece Biancifiore montare sopra un bel palafreno. E accompagnando il grande iddio e egli e Ascalion con molti altri compagni verso il reale palagio, ella ancora quasi paurosa, che appena potea credere essere fuori del tristo pericolo, si voltò tutta tremante a Florio, e disse: - O signor mio, or dove mi menate voi? Voi m’avete tratta d’un pericolo, e riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh, perché volete voi avere perduta la vostra fatica? Io non sarò prima là, che, come voi vi sarete partito, io mi sarò a quel pericolo che io m’era quando io molto di lontano vi vidi, avvisando che in mio aiuto foste venuto. Deh, se voi siete così amico di Florio come voi dite, e come l’operazioni dimostrano, perché non me ne menate voi a lui a Montoro? Io non dubiterò di venir con voi ovunque voi mi menerete, solo ch’io creda trovar lui. Egli sarà più contento che voi mi rendiate a lui, che se voi mi rendete al suo padre -. A cui Florio rispose: - Piacevole donzella, non dubitare: gl’iddii e Florio vogliono che tu sii renduta ora al re Felice, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che più da lui tu non avrai altro che onore. E io, quando tornerò a Montoro, farò sì che Florio verrà tosto a vederti, o egli manderà per te -. E mentre che così ragionando andavano, pervennero al reale palagio in Marmorina. Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancifiore per mano, e così la menò nella sala davanti allo iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che raportate gli aveano le novelle della morte del siniscalco. Il quale, vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse: - Sire, io vi raccomando questa giovane, la quale io, con la forza dell’iddii e con la mia, della iniqua sentenza ho liberata; e per parte di Florio, per amore di cui io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo, ve la raccomando e vi priego che più sopra di lei non troviate cagioni che faccino ingiustamente la morte parere giusta, come ora faceste, però che la verità pur si conosce infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di colei, la quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, e da voi più che da alcuno altro, cercate, insieme quella di Florio domandate: però tenetela omai più cara che infino a qui fatto non avete -; e datagliele in sua mano si tirò adietro.
- Con lieto viso la prese il re, e abbracciatala come cara figliuola la baciò in fronte, e ella, savissima, incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli i piedi, e poi in ginocchie levata disse: - Padre e signore mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi perdoni, ché semplicità e non malizia m’ha fatto in ciò peccare; e priegoti che del tutto dell’animo ti fugga che io in questo fallo, per lo quale condannata fui, avessi colpa: e avanti che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino gl’iddii subitana morte. Chi fu quelli che in ciò fallì, a tutto il tuo popolo è manifesto, e però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della quale ingiustamente fui spogliata -. Il re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno di molto amore l’abbracciò, dicendo: - Mai a me non fosti graziosa e cara quanto ora se’, e però ti conforta -. E rivolto a Florio, disse: - Cavaliere, ignoto m’è chi tu sia, ma però che di’ che amico se’ di Florio, nostro figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore, ché n’hai con la tua spada illuminato e fattaci conoscere la verità, la quale a’ nostri occhi sanza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale pericolo costei, la quale quanto figliuola amo, tu mi se’ molto caro, e sanza fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato avea commesso così debitamente punito, dando acerba pena allo iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti sarò; e promettoti per quella fede che io debbo agl’iddii, che per amore di Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che nell’animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi molto dolente; e certo a tutti costoro poté essere manifesto il mio viso e ’l petto pieno di lagrime, quando sentenziare la udii; e se la pietà si dovesse antiporre alla giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sì fatta cagione uscita -.
- - A me - rispose Florio - non è al presente licito di dirvi chi io sia, e però perdonatemi; e quando vostro piacere fosse, io volontieri mi partirei co’ miei compagni -. - Poi che sapere non posso chi tu se’, va, che gl’iddii ognora in meglio ti prosperino -. Allora Florio piangendo guardò Biancifiore, che ancora piangea, e disse: - Bella giovane, io ti priego per amor di Florio che tu ti conforti, e rimanti con la grazia degl’iddii -. E detto questo, e preso commiato dal re, smontò le scale, e risaliti sopra i loro cavalli, egli e Marte e Ascalion, de’ quali nullo era stato conosciuto, si misero al camino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte destato avea Florio, e Marte, voltato verso di lui, si fermò e disse: - Omai tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare ond’io discesi, e tu col tuo compagno ve n’andrete a Montoro -. Florio e Ascalion, udite queste parole, incontanente smontati da cavallo gli si gittarono a’ piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono adunque costoro a cavallo e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve ritornarono a Montoro.
- Poi che pervenuti furono a Montoro, i due cavalieri, sanza alcuno romore o pompa, quanto più poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro a quello fecero accendere fuochi sopra i suoi altari, ne’ quali divotamente misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a’ santi altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti di bianchissimi vestimenti se n’andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino, tutti soletti e quello fatto aprire, uccise con la sua mano un giovane vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentì un tacito mormorio dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata d’alloro, e tanto lieta nel suo aspetto, quanto mai per alcuno accidente fosse veduta, e con sommessa voce così cominciò a dire: - O tu, giovane sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl’iddii è piaciuto che io ti debbia porgere la corona del tuo triunfo, acciò che tu per inanzi ne’ nostri servigii e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e più ferma fede nelle nostre parole -; e detto questo, con le propie mani presa la corona del suo capo, ne coronò Florio. Allora Florio, in sé di tanta grazia molto allegro, cominciò così a dire: - O santa dea, per la cui pietà tutti coloro che a’ loro cuori sentono i dardi del tuo figliuolo, come io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina mano porto m’hai. Ma però che più la tua potenza che ’l mio valore adoperò nella odierna battaglia, io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari -. E questo detto, trattasi la corona della testa, sopra i santi altari con grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito del santo tempio, niuno altro in Montoro ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato con degni sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalion, tornati al palagio del duca così freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliavano e ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l’aveano quel giorno. Il quale quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro l’accolse, dicendo: - Dolce amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v’abbiamo? Certo noi eravamo tutti in pensiero di voi -. A cui Florio faccendo grandissima festa disse: - In verità io sono stato, e Ascalion con meco, in un bellissimo giardino con donne e con piacevoli damigelle in amorosa festa tutto questo giorno -. - Ciò mi piace - disse il duca, - e questa è la vita che i valorosi giovani innamorati deono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e perdendo il tempo sanza utilità alcuna -.
- Il re Felice, che con altro cuore avea Biancifiore da Florio ricevuta che il viso non mostrava, la menò alla reina, e disse: - Donna, te, ecco la tua Biancifiore, la cui morte agl’iddii non è piaciuta. Guardala e siati cara, poi che i fati l’aiutano: forse che essi serbano costei a maggior fatti che noi non veggiamo -. La reina con lieto viso e animo la prese, contenta molto che diliberata era da quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali vestimenti, con lei insieme visitò tutti i templi di Marmorina, rendendo debite grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio o dea che da tal pericolo campata l’aveano. E così, avanti che al real palagio tornassero, niuno iddio sanza sacrificii rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata aveano. Ma ritornati a’ palagi, Biancifiore in quella benivolenza e grazia ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente si curasse o ne portasse animo ad alcuno, ma ancora, sanza farne alcuna menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.
- Ritornato Florio a Montoro, lieto per la campata Biancifiore non meno che per l’avuta vittoria, avendo ancora gli occhi alquanto della lunga sete sbramati, prendendo riposo del ricevuto affanno, incominciò a menar lieta vita, contentandosi dell’aiuto degl’iddii, il quale si vedea congiunto. E già gli parea che i fati benivoli gli fossero rivolti, ond’egli sperava tosto i suoi disiri adempiere. Adunque la sua festa era sanza comparazione in Montoro: e i cavalli che lungamente per lo suo amoroso dolore aveano negligente riposo avuto, ora inforcati da lui, e le redini tenute con maestrevole mano, correndo a diversi officii, rimettono le trapassate ore. E egli, vestito di drappi di Siria, tessuti dalle turchie mani, rilucenti dell’indiano oro, dimostra la sua bellezza coronato di frondi. Altre volte co’ cani e col forte arco nelle oscure selve caccia i paurosi cervi, e nelle aperte pianure i volanti uccelli gli fanno vedere dilettevoli cacce; e spesse fiate le fresche fontane di Montoro sono da lui con diversi diletti ricercate. Niuna allegrezza gli mancava fuori solamente la sua Biancifiore, la quale gli era troppo più lontana che la speranza non gli porgea.
- Menando Florio, per la futura speranza che lo ’ngannava, lieta vita, la non pacificata fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto celato il nebuloso viso, ma affrettandosi d’abreviare il lieto tempo, con questi pensieri un giorno subitamente l’assalì. Era entrato lo innamorato giovane nell’ora che il sole cerca l’occaso in un piacevole giardino, d’erbe e di fiori e frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a’ suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale infra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e pareagli che il fiore in niuna maniera potesse più crescere in su, sanza essere dalle circunstanti spine pertugiato e guasto, né similemente dilatarsi, o divenir maggiore. Ond’egli incominciò a pensare e a ragionare fra se medesimo così tacitamente: - Oimè, chi o qual cosa mi potrebbe più apertamente manifestare la vita e lo stato della mia Biancifiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta delle circunstanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancifiore, le quali lei alquanto muovere non lasciano sanza amara puntura. Deh, misera la vita mia! Or di che mi sono io nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le infinite avversità apparecchiate a Biancifiore per me mi sieno di mente uscite? Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai io al mio padre? -. Con queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a piangere con queste voci: - O bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita da’ miei parenti? Morto è lo iniquo siniscalco, a te crudelissimo nimico: certo cessate dovriano essere. Ma io non credo che per la morte di colui la malizia del re sia menomata, e la mia fortuna rea credo che ti faccia spesso noia: ond’io credo che più che mai alla tua vita ne sieno poste. Oimè misero, dove ti lasciai io? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, dove lasciai io la mia Biancifiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che io non avessi osservato. Oimè Biancifiore, in che mala ora fummo nati! Tu per me se’ con continua sollecitudine cercata d’offendere perché io t’amo, e io sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma certo questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potere sciogliere. Niuna cosa, altro che morte, non ci potrà partire, però che né noi il consentiamo, né amore vuole: anzi con più forze continuamente mi cresce nello sventurato petto, tanto che d’ogni cosa mi fa dubitare; e è cresciuto a tanta quantità, che quasi dubito che tu non m’ami, o che tu per altro non mi abandoni. O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale con le propie braccia campai, lasci di non amarmi? Oimè, che amaro dolore mi sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai non dimentica te: gl’iddii concedano che com’io ti porto nell’animo, tu porti me -. In simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno per la continua battaglia de’ pensieri e degli abondanti sospiri, i quali a’ suoi sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso sonno; e infino alla mattina, forse con non minori battaglie nel suo dormire che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dello amante, il quale dubitando vive geloso! Infino a tanto che Pocris non dubitò di Cefalo, fu la sua vita sanza noia, ma poi che ella udì al male raportante servidore ricordare Aurora, cui ella non conoscea, fu ella piena d’angosciose sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne.
- Venne il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno non avea dimenticati gli angosciosi pensieri, e levato, non uscì della trista camera, come era l’altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri del dì preterito; e in quelli dimorando il duca, che per grande spazio atteso l’avea, entrò nella camera dicendo: - Florio, leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti -. E quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide palido e nell’aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati per le lagrime rossi, erano d’un purpureo colore intorniati: di che egli si maravigliò molto, e mutata la sua voce in altro suono, così disse: - O Florio, e quale subita mutazione è questa? Quali pensieri t’occupano? Quale accidente t’ha potuto sì costringere che tu mostri ne’ sembianti malinconia? -. Florio vergognandosi bassò il viso e non gli rispose; ma crescendogli la pietà di se medesimo, perché da persona che di lui avea pietà era veduto cominciò a piangere e a bagnar la terra d’amare lagrime. La qual cosa come il duca vide, tutto stupefatto, ricominciò a parlare e a dire: - O Florio, perché queste lagrime? Ove è fuggita l’allegrezza de’ passati giorni? Qual cosa nuova ti conduce a questo? Certo se i fati m’avessero conceduta sì graziosa coronazione, quale fu quella della notabile vittoria che tu avesti, a me da altrui che da te palesata, io non credo che mai niuno accidente mi potesse turbare. Dunque lascia il piangere, il quale è atto feminile e di pusillanimo cuore, e alza il viso verso il cielo, e dimmi qual cagione ti fa dolere. Tu sai che io sono a te congiuntissimo parente, e quando questo non fosse, sì sai tu che io di perfettissima amistà ti sono congiunto: e chi soverrà gli uomini negli affanni e nelle avversità di consiglio e d’aiuto, se i parenti e i cari amici non gli sovengono? E a cui similmente si fiderà nullo, se all’amico non si fida? Di’ sicuramente a me quale sia la cagione della tua doglia, acciò che io prima ti possa porgere debito conforto, e poi operando aiuto. Pensa che infino a tanto che la piaga si nasconde al medico, diviene ella putrida e guasta il corpo, ma, palesata, le più volte lievemente si sana. E però non celare a me quella cosa la quale questo dolore ti porge, però che io disidero donarviti secondo il mio potere intero conforto, e liberartene -.
- Dopo alquanto spazio Florio alzò il lagrimoso viso, e così allo aspettante duca rispose: - Il dolce adimandar che voi mi fate e ’l dovere mi costringono a rispondervi e a manifestare quello ch’io credea che manifesto vi fosse. E però ch’io spero che non sanza conforto sarà il mio manifestarmivi, dal principio comincerò a dirvi la cagione de’ passati dolori e de’ presenti, posto che alquanto le lagrime, le quali io non posso ritenere, mi impediscano. Ne’ teneri anni della mia puerizia, sì come voi potete sapere, ebbi io continua usanza con la piacevole Biancifiore, nata nella paternale casa meco in un medesimo giorno, la cui bellezza, i nobili costumi e l’adorno parlare generarono un piacere, il quale sì forte comprese il mio giovinetto cuore, che io niuna cosa vedea che tanto mi piacesse. E di questo piacere era multiplicatore e ritenitore nella mia mente un chiarissimo raggio, il quale, come strale, da arco mosso, corre con aguta punta all’opposito segno, così da’ suoi begli occhi movendo termina nel mio cuore, entrando per gli occhi miei: e questo fu il principale posseditore in luogo di lei. E con ciò sia cosa che questi ogni giorno più la fiamma di tal disio aumentasse, in tanto la crebbe, che convenne che di fuor paresse, e scopersemisi allora lei non meno di me che io d’essa essere innamorata. Né questo fu lungamente occulto per li nostri sospiri, di ciò dimostratori al nostro maestro, il quale più volte con gravi riprensioni s’ingegnò ritrarre indietro quello che agl’iddii saria impossibile frastornare, ma fattolo alla notizia del mio padre venire, egli imaginò che, lontanandomi da lei, della mia memoria la caccerebbe: la quale, se per la mia bocca tutto Letè entrasse, non la poria di quella spegnere. Ma non per tanto egli faccendomi lontanare da lei, non fu sanza gran dolore dell’anima mia e di quella di Biancifiore. E in questo luogo mi rilegò in essilio, sotto colore di volere ch’io studiassi. Ma qui dimorando, e trovandomi lontano a quella bellezza in cui tutti i miei disiderii si terminano e termineranno, incominciai a dolermi, né mi lasciava il doloroso cuore mostrare allegro viso: e di questo vi poteste voi molte fiate avedere. Ora, come la mia doglia fosse manifesta al re m’è ignoto, ma egli, o per questa cagione o per altra iniquità compresa ingiustamente sopra la innocente Biancifiore, cercò d’uccider lei e nella sua morte l’anima mia: e voi foste presente al nascoso tradimento, né non vi fu occulto lei essere a vilissima morte condannata né di ciò niente mi palesaste. Ma li pietosi iddii e il presente anello non soffersero che questo fosse, ma questi mostrandomi con turbato colore lo stato di lei, e gl’iddii ne’ miei sonni manifestandolmi, mi fecero pronto alla salute d’essa, e porgendomi le loro forze, con vittoria la vita di colei e mia insiememente scampai, e poi ricevetti debita coronazione di tale battaglia, avendo già rimessa la semplicetta colomba intra gli usati artigli de’ dispietati nibbi: di che io ora ricordandomi, parendomi aver mal fatto, mi doglio. E più doglie mi recano le vere imaginazioni che per lo capo mi vanno, che mi par vedere un’altra volta avvelenare il prezioso uccello, e condannare la mia Biancifiore a torto, e essere il fuoco maggiore che mai acceso. E quasi mi pare intorno al cuore avere uno amarissimo fiume delle sue lagrime, le quali tutte mi gridano mercé. Io non so che mi fare: io amo, e amore di varie sollecitudini riempie il mio petto, le quali continuamente ogni riposo, ogni diletto e ogni festa mi levano, e leveranno sempre infino a quell’ora che io nelle mie braccia riceverò Biancifiore per mia, in modo che mai della sua vita io non possa dubitare. Io non vi posso con intera favella esprimere più del mio dolore, il quale credo che più vi si manifesti nel mio viso che nel mio parlare non è fatto. Gl’iddii mi concedano tosto quel conforto che io disidero, però che se troppo penasse a venire, così sento la mia vita consumarsi nell’amorosa fiamma come quella di Meleagro nel fatato stizzo si consumò -. E questo detto, perdendo ogni potere, sopra il ricco letto ricadde supino, tornato nel viso quale è la secca terra o la scolorita cenere.
- Non poté il duca, che con dolente animo ascoltava quello che non gli era mica occulto, vedendo Florio supino ricadere sopra il suo letto, ritenere le lagrime con fortezza d’animo; ma pietosamente piangendo, si recò lo ’nnamorato giovane, a cui in vista niuno sentimento era rimaso, nelle sue braccia; e rivocati con preziosi liquori gli smarriti spiriti ne’ loro luoghi, così gl’incominciò a dire: - Valoroso giovane, assai compassione porto alla tua miserabile vita, tanta che più non posso, e forte mi pare a credere che vero sia che tu da amore così compreso sii come tu narri, con ciò sia cosa che amore sia sì nobile accidente, che sì vile vita non consentiria menare a chi lui tiene per signore, come tu meni; e io l’ho già provato: e massimamente avendo tu vera cagione di doverti rallegrare come tu hai, se io ho bene le tue parole ascoltate. Tu, secondo il tuo dire, ami più ch’altra cosa Biancifiore e similemente di’ che più che altra cosa ella te ama. Adunque se tu ben riguarderai a quel che io intendo di dirti, niuno uomo maggiore festa fare dee di te, né essere, secondo la mia oppinione, più allegro, però che quello che più amando si disidera si è d’essere amato; però che, se tutte l’altre cose, che ad amore s’appartengono, sanza questa s’avessono, niuno intero bene né diletto porgere porieno, però che gli animi sarieno disiguali. Dunque questo più che gli altri amorosi beni è da tener caro. A questo acquistare suole essere agli amanti molto affanno e noia, il quale se procacciando l’acquistano, tutta la loro fatica pare loro essere terminata, o la maggior parte: e di questo è l’antica età tutta piena d’essempli. Già hai tu inteso quello che Mimaleone sostenne da Ileo per acquistare la benivolenza d’Atalanta: quante volte portò egli sopra i suoi omeri le pesanti reti, e l’altre necessarie cose alle cacce, per acquistare quella, in servigio della cruda giovane, e quanto contentamento giunse nell’animo d’Aconzio, sentendosi con inganno avere acquistato l’amore di Cidipe? Questo amore tu l’hai dirittamente. Per questo niuno affanno ti conviene durare. Niuna turbazione né malinconia dovresti avere nell’animo. E avendo questo, come tu hai, gelosia e ogni spiacevole sollecitudine dovria essere lontana da te: e là ove tu ti contristi, ti dovresti dell’acquistato bene rallegrare. Ancora ho compreso nel tuo parlare te avere gl’iddii e la virtù del tuo anello in aiuto. Or qual cosa pensi tu che contraria ti possa essere, se sì fatto aiuto hai con teco, come è quello degl’iddii, alla cui potenza niuna cosa può resistere? Lascia piangere a’ miseri alle cui sollecitudini solo il loro ingegno è rimaso aiutatore. Tu dei pensare che avendo gl’iddii cura de’ tuoi bisogni, se essi non concedono che tu al presente sii con la tua Biancifiore, non è sanza gran cagione. L’uomo non sa delle future cose la verità: a loro niuna cosa si nasconde. Tu dei credere ch’essi pensano alla tua salute, e io credo sanza dubbio che questa dimora non sia sanza gran bene di te. Il loro piacere si dee pazientemente sostenere. Se elli volessero, tu saresti ora con lei; e il volere contra ’l piacer loro andare fece alla molta gente di Pompeo perdere il campo di Tesaglia, assaliti dal picciolo popolo di Cesare. Mostra ancora che molto ti dolga l’essere stata Biancifiore voluta dal tuo padre fare morire, la cagione della qual morte dubiti non sia stata il re avere saputo te dolorosa vita menare per lei, e temi forse non a simile caso ritorni: la qual cosa se ritornasse non saria maraviglia, ma ragione, con ciò sia cosa che tu conosca il tuo padre muoversi ad ira contra Biancifiore per te, che tristo per lei vivi; e tu, non come disideroso della vita di Biancifiore, ti rallegri per che ella viva, ma in pianti e in dolori consumi la tua vita per abreviare la sua. Certo non è questo atto d’amarla, ma di mortale odio è sembiante. E posto che mai nulla novità seguire le dovesse dal tuo padre per lo tuo attristarti, sì dei tu volere il bene e il conforto e l’allegrezza di lei, se così l’ami, e se ella così t’ama come tu di’: le quali cose tu cerchi di torle, menando la vita che tu fai, però che tu dei credere che se questo le sarà raportato di te, ella di dolore si consumerà sentendo che tu ti dolghi. Adunque niuna cagione né ragione vuole che tu questa vita meni. Tu ami e se’ amato, de’ quali il numero è molto piccolo a cui questo avvegna, tu se’ con l’aiuto degl’iddii, i quali hanno sempre sollecitudine della tua salute, e questo hai tu per opera veduto. Dunque confortati; e se per te non ti vuoi confortare, confortati per amor di lei e di noi, acciò che ella e noi abbiamo ragione di rallegrarci. Ben se’ lontano a lei, che credo che sanza comparazione ti sia noioso; ma non si può sì dolce frutto, come è quello d’amore, gustare sanza alcuna amaritudine; e le cose disiderate lungamente giungono poi più graziose. A Penolope parea dolce appressarsi alla morte, sperando che ogni domane dovesse tornare Ulisse prima da Troia, e poi non sappiendo da che luogo. Pensa che tu non sarai tutto tempo qui, né sanza lei. Se io fossi in tuo luogo, io userei per più sano consiglio il simulare. Io mostrerei, faccendo festa, che più di Biancifiore né mi calesse né me ne ricordassi, e ristrignerei l’amorose fiamme dentro con potente freno. Forse, così faccendo, il tuo padre si crederebbe che dimenticata l’avessi, e concederebbeti più tosto il tornare a rivederla. Quello che detto t’ho tu hai udito, e io te l’ho detto sì come colui che in simil caso il vorrei da altrui udire; ma non per tanto se altro consiglio più savio vedessi, arditamente lo scuopri a me, ché io non intendo di contradirti né partirmi mai dal tuo piacere. Priegoti quanto più posso, come congiunto parente e vero amico, che da te ogni paura e pensiero cacci, perciò che delle tue dubitazioni di lieve accertare ci possiamo. E i pensieri, come di sopra t’ho detto, non dei avere: e però levati su, e vinca il tuo valore i non dovuti pensieri i quali t’occupano per lo solingo ozio. Piglia alcuni diletti, come per adietro abbiamo già fatto, acciò che in quello né i pensieri t’assaliscano, né la tua vita sì vilmente si consumi. In questo mezzo spero che gl’iddii per la loro benignità provederanno graziosamente a porre debito fine a’ tuoi disiderii, forse ora da te né da alcuno già mai pensato -.
- Piacque a Florio assai il fedele consiglio del duca, e così, levata la testa, sospirando rispose: - Carissimo parente, questa gentil passione d’amore non può essere che alcuna volta i più savi, non che me, quando le sono suggetti come io sono, non faccia tenere simile vita: e però di me non vi maravigliate, ma crediate che io sia tanto innamorato quanto mai giovane niuno fosse o potesse essere. E ciò che voi m’avete narrato, conosco apertamente esser vero; e però, disposto a seguire il vostro consiglio in quanto io potrò, mi dirizzo: andiamo, e facciamo ciò che voi credete che vostra e mia consolazione sia -. E detto questo, dirizzati amenduni uscirono della camera; e saliti sopra i portanti cavalli, andarono con gran compagnia ad una ordinata caccia, ove quel giorno assai festa ebbero e allegrezza.
- Dico che molti giorni in sì fatta maniera faccendo festa, Florio ricoperse il suo dolore, avvegna che sovente a suo potere s’ingegnava di star solo, acciò che egli potesse sanza impedimento pensare alla sua Biancifiore. E quando avveniva che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente incominciava ad imaginare d’essere col corpo colà ov’egli con l’animo continuamente dimorava. Egli imaginava alcuna volta avere Biancifiore nelle sue braccia, e porgerle amorosi baci, e altretanti riceverne da lei, e parlare con essa amorose parole, e essere con lei come altre volte era stato ne’ puerili anni. E mentre che in questo pensiero stava, sentiva gioia sanza fine; ma come egli di questo usciva, e ritornava in sé e trovavasi lontano ad essa, allora si mutava la falsa gioia in vero dolore, e piangea per lungo spazio ramaricandosi de’ suoi infortunii. Poi ritornando al pensiero, tal fiata si ricordava del tristo pianto che veduto l’avea fare nella bruna vesta temendo l’acceso fuoco, quando egli sconosciuto si mise in avventura per campare lei, e poi si dolea d’averla renduta al padre e di non aversi almeno fatto conoscere a lei, acciò che egli l’avesse alquanto consolata e fattala più certa dell’amore che egli le portava. E molte fiate fra sé si chiamava misero e di vil cuore, dicendo: - Come è la mia vita da biasimare, pensando che io amo questa giovane sopra tutte le cose del mondo, e per questo amore vivo in tanta tribulazione lontano da lei, e non sono tanto ardito che io abbia cuore d’andarla a vedere, e lascio per paura d’un uomo, il quale più tosto a sé che a me offenderebbe. Perché non vo io, e entro nelle mie case, e rapiscola, e menonela qua su meco? E avendola, ogni dolore, ogni gelosia, ogni sospetto fuggirà da me. Chi sarà colui che ardito sia di biasimare la mia impresa o di contrariarla? nullo: anzi ne sarò tenuto più coraggioso, là dove io debbo ora esser vilissimo riputato. Sono io più vile di Paris, il quale non a casa del padre, ma de’ suoi nimici andò per la disiderata donna, e non dubitò d’aspettare a mano a mano Menelao, sollicito richieditore di quella? Io non debbo aver paura che questa da alcuno radomandata mi sia, né con ferro né con altra maniera. Il peggio che di questo mi possa seguire, sarà che al mio padre ne dorrà: e se ne gli duole, e’ ne gli dolga! Io amo meglio che egli si dolga, che io di dolore muoia. E pur quand’egli vedrà che io abbia fatto quello di che egli si guarda, la doglia gli passerà, se passare gli vorrà, se non, sì l’ucciderà: che già l’avesse ella ucciso! e poi non ne sarà più. Io il voglio fare: cosa fatta capo ha. E posto che egli per questo si volesse opporre alla vita di Biancifiore, egli s’opporrà ancora alla mia: niuna cosa opererà verso di lei, che io come lei nol senta. Se egli per forza la mi vorrà torre, e io con forza la difenderò. Io non sarò meno debole d’amici e di potenza di lui: e quando egli pur fosse più forte di me, puommi egli più che cacciare del suo regno? Se egli me ne caccia, io starò in un altro. Il mondo è grande assai: l’andare pellegrinando mi ha cagione d’essercizio. Elli fu a Cadmo cagione d’etterna fama l’andar cercando Europa e non trovarla; a Dardano e a Siculo similemente il convenirli partire del loro regno fu cagione di grandissime cose. Io il pur voglio fare. Peggio ch’io m’abbia non me ne può seguire -. E poi ritornava al piangere: e in questi pensieri teneva la maggior parte della sua vita. E eravisi già tanto disposto che con opera il volea mettere in effetto, e avria messo, se il raffrenamento del duca e d’Ascalion non fosse stato, li quali il confortavano con migliore speranza, e il suo volere gli biasimavano.
- Per questi pensieri, e per molti altri, era tanto l’animo di Florio tribolato, che in niuna maniera potea il suo dolore coprire, né per alcun diletto rallegrarsi: e già gli era sì la malinconia abituata adosso, che appena avrebbe potuto mostrare sembiante lieto se voluto avesse. Egli avea sì per questo i suoi spiriti impediti, che quasi poco o niente era il cibo che egli poteva pigliare, e nel suo petto non poteva entrar sonno: per le quali cose il viso era tornato palido e sfatto, e’ suoi membri erano per magrezza assottigliati, e egli era divenuto debole e stracco. E la maggior parte del giorno si giaceva, e stava come coloro i quali, da una lunga infermità gravati, vanno nuove cose cercando, e niuna ne piace, e s’egli piace, non ne possono prendere. Della qual cosa al duca molto dolea e ad Ascalion similemente, né sapeano che via tenere sopra questa cosa. Essi dubitavano di farlo sentire al re, temendo non egli facesse novità per questo a Biancifiore, e di questo a Florio ne seguisse peggio. E similemente dubitavano di tenerlo in quella maniera sanza farglielo sentire, dicendo: - Se egli per altrui il sente, noi n’avremo mal grado, e cruccerassi verso di noi, e avrà ragione -. E in questa maniera, sanza pigliar partito, stettero più giorni, pur confortando Florio e dandogli buona speranza. A’ quali Florio rispondea sé non avere questo per amore, ma che il caldo che allora facea, il consumava. Ma questa scusa non aveva luogo a coloro che i suoi sospiri conoscevano; ma essi, quasi a ciò costretti, la sosteneano.
- Standosi un giorno il duca e Ascalion insieme ragionando molto efficacemente de’ fatti di Florio, disiderosi della sua salute, Ascalion cominciò così a dire: - Sanza dubbio niuna cosa è tanto da Florio amata quanto Biancifiore; e questo il re, col farlo stare lontano ad essa, e noi con parole più volte ci siamo ingegnati di tirarlo indietro, né mai abbiamo potuto: fermamente credo che piacer degl’iddii sia, al quale volersi opporre è mattezza. Ma non per tanto a tentare alcuna altra via forse non sarebbe reo, e per avventura ci verrebbe forse il nostro intendimento compiuto -. - E che via vi parrebbe da tenere? - disse il duca. Ascalion rispose: - Io il vi dirò. I giovani, come voi sapete, sono vaghi molto de’ carnali congiungimenti, però che la pronta natura gl’induce a quello e per questi sogliono ogni altra cosa dimenticare. Florio mai con Biancifiore carnale diletto non ebbe; e se noi potessimo fare che con alcuna altra bella giovane l’avesse, leggiere saria dimenticare quello ch’egli non ha per quello che possedesse; e posto che in tutto non la dimenticasse, almeno tanto in lei non penserebbe; e in questo mezzo il re o gl’iddii provederebbono sopra questo, in modo che noi sanza vergogna o danno ne riusciremo; e se questa via non ci è utile, niuna altra utile ne conosco -. Gran pezza pensò il duca sopra questo, e poi disse: - Ascalion, io mi maraviglio molto di voi. Ecco che quello che divisate venisse interamente fatto, che avremmo noi operato? Niente: che scioglierlo d’un luogo e legarlo in un altro, non so che si rilevi. Ma tanto potrebbe avvenire, che di leggiere peggioreremmo nostra condizione: e il trargli Biancifiore di cuore non è sì leggier cosa che per questo io creda che fatto dovesse venire, ben che leggieri ci sia a provarlo, se buono vi pare -. Ascalion disse: - Certo io l’avea per buono, però che, se egli avvenisse che per alcuna altra egli dimenticasse Biancifiore, più lieve sarebbe a trargli di cuore poi quell’altra che a volergli levare ora Biancifiore sanza alcun mezzo: con ciò sia cosa che le nuove piaghe con meno pericolo e meglio che l’antiche si curino e più tosto -. - Certo - disse il duca - questo è vero; e poi che vi pare, il provarlo niente ci costa; e però sopra questo pensiamo e veggiamo se niuna cosa ci giova, e se giovare la veggiamo, procederemo avanti con l’aiuto degl’iddii -.
- Accordatisi costoro a questo, segretamente si misero a cercare di trovare alcuna giovane, la quale, il più che trovare si potesse, simigliasse Biancifiore, imaginando che quella più graziosa che alcuna altra gli sarebbe, e più tosto il potrebbe recare al disiderato fine. E cercando questo, da alcuno, il quale sempre in compagnia di Florio soleva andare, fu loro mostrate due giovanette di maravigliosa bellezza e di leggiadro parlare ornate, e discese di nobili parenti, le quali, secondo il detto di colui che le mostrò, assai delle bellezze di Florio si dilettavano, non come innamorate, però che non si sentiano eguali a lui, onde con la ragione raffrenavano la volontà. Le quali come costoro conobbero, assai si contentarono, dicendo: - Prendiamle amendune, poi che Florio piace loro: elle s’ingegneranno bene di recarlo al loro piacere, e là dove l’una fallisse l’altra supplirà -. E questo diliberato, sotto spezie d’invitarle ad una festa, le si fecero chiamare all’ostiere. Le quali venute davanti al duca e ad Ascalion, il duca così disse loro: - Giovani donzelle, nostro intendimento è di voler Florio di bella mogliere accompagnare; e cercando in questa città di donna che degnamente a lui si confacesse, nulla n’abbiamo trovata di tanta bellezza, né di sì belli e laudevoli costumi, come voi due ci siete state laudate: e però per voi abbiamo mandato, acciò che voi proviate se lui da uno intendimento che egli ha possiate ritrarlo e recarlo al vostro piacere, per donargli poi per mogliere quale di voi due più gli piacerà -. A cui l’una di queste, chiamata Edea, così rispose: - Signor nostro, noi ci maravigliamo non poco delle vostre parole, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo noi non essere giovani di tanta nobiltà dotate, quanta alla grandezza di Florio si richiede: e, d’altra parte, l’altissime ricchezze ci mancano, le quali leggiermente i difetti della gentilezza ricuoprono. E però caramente vi preghiamo che di noi voi non facciate scherno, e ancora vi ricordiamo che, sì come voi dovete del nostro onore essere guardatore, sì come buono e legittimo signore, che voi non vogliate esser cagione di cotal vergogna, però che pensar dovete che se a voi e a’ vostri noi siamo picciole, noi siamo a’ nostri grandissime e care -. Allora il duca rispose: - Giovani donzelle, non crediate che io mi recassi a tanta viltà, quanta questa sarebbe, se questo fosse che voi dite, per farvi perdere il vostro onore; ma io vi giuro per l’anima del mio padre e per li nostri iddii che io quello che detto v’ho, lealmente v’atterrò, se alcuna di voi gli piacerà -. Disse Edea: - Poi che con giuramento l’affermate, noi faremo il vostro piacere. Ditene come elli vi piace che noi facciamo, e così sarà fatto: poi gl’iddii concedano questa grazia a chi più n’è degna di noi due -. Rispose il duca: - Il modo è questo. Voi sì v’adornerete in quella maniera che voi più crediate piacere, e andretevene sanza alcuna compagnia nel nostro giardino, nel quale egli è costumato di venire ogni giorno, sì tosto come i raggi del sole incominciano a essere manco caldi, usciretegli incontro, faccendogli quella festa e mettendolo in quel ragionamento che più crederete che piacevole gli sia: poi quale egli eleggerà di voi due, quella dico che sarà sua -.
- Era quel giardino bellissimo, copioso d’arbori e di frutti e di fresche erbette, le quali da più fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale, come il sole ebbe passato il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza di più piacere ad acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a seder si posero attendendo Florio. Venuta l’ora che già il caldo mancava, Florio malinconico, uscito della sua camera e con lento passo, di queste cose niente sappiendo, vestito d’una ricca giubba di zendado, soletto se n’entrò nel giardino, sì come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove già avea il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovinette s’avean ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco, e aspettando Florio si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare nel giardino, per più leggermente passare il rincrescimento dell’attendere, incominciarono a cantare una amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara, che più tosto d’angioli che d’umane creature pareva: e di queste voci pareva che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si maravigliò molto, dicendo: - Che novità è questa? Chi canta qua entro ora sì dolcemente? -. E con gli orecchi intenti al suono, incominciò ad andare in quella parte ove il sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovinette. Elle erano nel viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si convenia di rosso colore era mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le piccole bocche di colore di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muovere alle note della loro canzone. E i loro capelli come fila d’oro erano biondissimi, i quali alquanto crespi s’avolgeano infra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo gran caldo, come è detto sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle belle menne, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente vestimento, e ancora in più luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun membro bene proporzionate. Florio, vedendo questo, tutto smarrito fermò il passo, e esse, come videro lui, posero silenzio alla dolce canzone, e liete verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente il salutarono. - Gl’iddii vi concedino il vostro disio - rispose; Florio. A cui esse risposero: - Gl’iddii ne l’hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere -. - Deh! - disse Florio - perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto lasciato? -. - Niuno diletto possiamo avere maggiore che essere teco e parlarti - risposero quelle. - Certo e’ mi piace bene - disse Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l’una e ora l’altra, e a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di potere loro piacere. E dopo alquanto le dimandò: - Giovani donzelle, ditemi, che attendevate voi qui così solette? -. - Certo - rispose Edea - noi fummo qui maggior compagnia, ma l’altre disiose d’andar vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per noi tornare avanti che ’l sole si celi: e noi ancora volontieri rimanemmo, pensando che per avventura potremmo vedere voi, sì come la fortuna ci ha conceduto -. Assai era graziosa a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle, notando nell’animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo: - Beato colui a cui gl’iddii tanta bellezza daranno a possedere! -. Egli le metteva in diversi ragionamenti d’amore, e esse lui. Egli aveva la testa dell’una in grembo, e dell’altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con sottile sguardo metteva l’occhio tra ’l bianco vestimento e le colorite carni, per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente copriano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debole mano, e altra volta s’ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era in se stesso tanto contento che di niente gli pareva star male, e la misera Biancifiore del tutto gli era della memoria uscita. E in questa maniera stando non piccolo spazio, questi loro e esse lui s’erano a tanto recato, che altro che vergogna non li ritenea di pervenire a quello effetto dal quale più inanzi di femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale queste cose tutte sentia, sentendosi offendere, non sofferse che Biancifiore ricevesse questa ingiuria, la quale mai verso Florio non l’avea simigliante pensata; ma tosto con le sue agute saette soccorse al cuore, che per oblio già in altra parte stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste così intimamente ristretto, e già quasi aveano le due giovani il loro intendimento presso che a fine recato sanza troppo affanno di parole, l’altra delle due donzelle chiamata Calmena, levata alta la bionda testa, e rimirandolo nel viso, gli disse: - Deh! Florio, dimmi, qual è la cagione della tua palidezza? Tu ne pari da poco tempo in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa? -. Allora Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancifiore, la quale della dimandata palidezza era cagione, e sanza rispondere a quella, gittò un grandissimo sospiro, dicendo: - Oimè, che ho io fatto? -. E quasi ripentuto di ciò che fatto avea, alquanto da queste si tirò indietro, cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto avea, e a dire fra se medesimo: - Ahi! villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per alcuna altra donna mettere in oblio Biancifiore, tanto che tu disiderassi quello che tu disideravi di costoro, o che tu potessi mostrare amore ad alcuna, come tu a costoro toccandole, già mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t’è bene investito, ma certo cara l’accatterai la tua nequizia. Ora come ti dichinavi tu ad amare queste, la cui beltà è piccolissima parte di quella di Biancifiore? E quando ella fosse pur molta più, come potresti tu mai trovare chi perfettamente t’amasse come ella t’ama? Deh! se questo le fosse manifesto, non avrebbe ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sì -. Con molte altre parole si dolfe Florio per lunga stagione; e così dolendosi tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si rappressò, dimandando perché a lei non rispondeva, dicendogli: - Deh, anima mia, rispondimi; dimmi perché ora sospirasti così amaramente, e dimmi la cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che più che sé t’ama -. Allora Florio con dolente voce disse: - Donne, io vi priego per Dio che elli non vi sia grave il lasciarmi stare, però che altro pensiero che di voi m’occupa la dolorosa mente -. E detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse che egli non le volea fare vergognare. Disse allora Edea: - E qual cosa t’ha sì subitamente occupato? Tu ora inanzi eri così con noi dimestico, e parlando ne dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico non ci riguardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai sanza fine maravigliare -. A niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in altra parte voltato, si scostava da loro, le quali quanto più Florio da loro si scostava, tanto più a lui amorosamente s’accostavano. E in tal maniera stando, Calmena, che già s’era dell’amore di Florio accesa oltre al convenevole, più pronta che Edea, s’appressò a Florio, e quasi appena si ritenne che ella nol baciò, ma pur così gli disse: - O grazioso giovane, perché non ne di’ tu la cagione della tua subita malinconia? Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te sì benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi tuoi? Certo gl’iddii si terrebbono appagati di noi, né non crediamo che Io, tanto perseguitata da Giunone, fosse più bella di noi quando ella piacque a Giove, né ancora Europa che sì lungamente caricò le spalle del grande iddio, né alcune altre giovani crediamo essere state più belle di noi: e sì ne veggiamo il cielo adorno di molte! Adunque tu, perché ne rifiuti? -. E con queste parole e molte altre, con atti diversi e inonesti sospirando guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco davanti era stato. Alle quali Florio disse così: - Ditemi, giovani, se gl’iddii ogni vostro piacere v’adempiano, foste voi mai innamorate? -. A cui esse subitamente risposero: - Sì, di voi solamente; né mai per alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore sentimmo se non per voi -. - Certo - disse Florio - di me non siete voi già innamorate; e che voi non siate state né siate d’altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne’ primi conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestà, quanta voi verso me, con cui mai voi non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli animi temorosi e adorni di casta vergogna, infino che la lunga consuetudine fa gli animi essere eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scelerata Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di piacere, e temendo di non spiacere, porgeva le tenere erbe al giovane toro. Ora quanto più avria costei temuto d’un uomo, in cui ragionevole conoscimento fosse stato, poi che d’un bruto animale dubitava? Certo molto più, però che era innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche cose cercare, infiniti essempli troverebbe d’uomini e di donne, a cui le forze sono tutte fuggite ne’ primi avvenimenti de’ loro amanti. E però che di me innamorate siate non mi vogliate far credere, che io conosco i vostri animi disposti più ad ingannare che ad amare. E appresso, che voi non siate d’altrui innamorate, come voi dite, m’è manifesto, però che non m’è avviso che verso me, dimenticando il principale amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché il leale amore non lo consentirebbe. Onde io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in grandissima quantità gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d’amore, fate quello che d’amico o di servidore fareste -. Udendo questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guari lontane, bagnando il candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento tutta davanti si squarciò, dicendo: - Oimè misera, maladetta sia l’ora ch’io nacqui! E in cui avrò io oramai speranza, poi che voi, in cui io ora sperava e per cui io credeva sentir pace, mi rifiutate, né credete che ’l mio cuore per lo vostro amore si consumi, però che forse troppo pronta a volere adempiere i miei disiderii vi sono paruta? Crediate che niuna cosa a questo m’ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra presenza tornare. Ahimè misera, sarà omai disperata la mia vita! O misera bellezza, partiti del mio viso, poi che colui per cui io cara ti tenea, e ti guardava diligentemente, ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v’è consentirmi quello che lunga speranza m’ha promesso, piacciavi che io nelle vostre braccia l’ultimo giorno segni. Io sento al misero cuore mancare le naturali potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le propie mani, acciò che io più miseramente non viva. Mandatene la trista anima alle dolenti ombre di Stige, là dove ella minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Ahimè, quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprà la dolente Edea essere per la vostra crudeltà partita di questa vita! -. Florio, che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietà la confortava, dicendo: - O bella giovane, non guastare con l’amaritudine del tuo pianto la tua bellezza; spera che più grazioso giovane ti concederà quello ch’io non ti posso donare. Ritruova le tue compagne, e con loro l’usata festa ti prendi, né non impedire i miei sospiri con la pietà del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii, che se io fossi mio e potessimi a mia posta donare, niuna m’avrebbe se l’una di voi due non m’avesse. Ma io non posso quello che non è mio sanza congedo donare -. Cominciò allora Calmena a dire: - O crudelissimo più che alcuna fiera, e come puoi tu consentire di negare a noi quel che ti domandiamo? Certo se tu hai il tuo amore ad altra donato, niuno amore è tanto leale, che a’ nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu che s’egli avviene che per la tua crudeltà alcuna di noi sofferisca noiosa morte, che quella giovane di cui tu se’, se tu se’ per avventura d’alcuna, te ne ami più? Certo no, anzi biasimerà la tua crudeltà! E i nostri prieghi son tanti, che certo il casto Ipolito già si saria piegato. Or come ci puoi tu almeno negare alcuno bacio, de’ quali poco avanti ci saresti stato cortese, se sì ardite come tu ci fai fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de’ nostri affanni. Deh, adunque, concedicene alcuno, acciò che gl’iddii più benivoli s’inchinino a concedere a te quello che tu disii, se alcuna cosa da te in questo atto è disiata -. A cui Florio rispose: - Giovani donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me dimandate, più cara che altra è tenuta da me, con ciò sia cosa che niun’altra ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente, e più avanti non mi dimandate ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che me, che più di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo lasciate, e andatevene, però che ciò che mi dite è tutto perduto -. Questo udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, della sua presenza si levarono sanza più parlare; e però che già il sole cercava l’occaso, tornate nel gran palagio si rivestirono, dicendo l’una all’altra: - Ahi, come giusta cosa sarebbe se mai d’alcuno giovane la grazia non avessimo, pensando al nostro ardire, le quali avemo tentato di volere questo giovane levare alla sua donna sanza ragione, avegna che gl’iddii e egli ce n’hanno ben fatto quello onore che di ciò meritavamo! -. E rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.
- Aveano il duca e Ascalion veduto apertamente ciò che Edea e Calmena aveano operato, e ora fu che essi credettero che il loro avviso riuscisse al pensato fine, ma poi che videro quello esser fallito, dolenti della amara vita di Florio, si partirono del luogo dove stavano e se ne vennero al giardino, dove Florio con dolore, pieno di pensieri soletto era rimaso, e lui trovarono pensando avere la bionda testa posata sopra la sinistra mano. I quali poi che pietosamente alquanto riguardato l’ebbero, così cominciarono a dire: - Florio, Amore tosto nella disiata pace ti ponga -. Era Florio tanto nello imaginare la sua Biancifiore, che per la venuta di costoro, né per lo loro saluto né si mutò né cambiò aspetto, ma così stette come colui che né veduti né uditi ancora gli avea. Allora Ascalion, distesa la mano, il prese per lo braccio, e lui tirando, disse: - O innamorato giovane, ove se’ tu ora? Dormi tu, o se’, pensando, fuori di te uscito che tu al nostro saluto niente rispondi? -. Riscossesi allora tutto Florio, e quasi stordito, sanza niente rispondere, si mirava dintorno. Ma dopo molti sospiri, alquanto da’ pensieri sviluppato, alzata la testa, disse: - Oimè, or chi vi mena a vedere la miseria della mia vita, alla quale voi forse credete levar pena con confortevoli parole, e voi più ne giungete? Se può essere, caramente vi priego che me qui solo lasciate, acciò che io possa quel pensiero ritrovare, nel quale io fui, quando scotendomi me ne cacciaste -. A cui Ascalion così rispose: - Amore e maraviglia ci fanno qui venire, né già da te intendiamo di partirci, se prima a’ nostri prieghi non ne dirai quale nuova cagione ti fa tanto pensoso -. Disse Florio: - Niuna nuova cagione ci è del mio dolore: Amore solamente in questa vita mi tiene -. - E come? - disse allora il duca, - io mi credea che tu t’ingegnassi di seguire il mio consiglio, il quale io l’altrieri, quando così pensoso ti trovai, t’avea donato, e già mi parea che, quello piacendoti, cominciato avessi: e tu pure sopra l’usato modo se’ ritornato! Questa tua vita in niuno atto d’innamorato mi pare, onde forte dubitare mi fai che tu forse non sii del senno uscito, però che gli altri innamorati con varii diletti cercano di mitigare i loro sospiri, ma tu con pene mi pare che vadi cercando d’accrescergli. Se volessi dire che come alcuni altri non li potessi usare, sai che non diresti vero, però che niuna resistenza ci è: dunque perché pure in sul dolore ti dai? Deh, com’io altra volta ti pregai, ancora ti priego che alcuni ne prenda, i quali usando valicherai il tempo con meno tristizia, e gl’iddii in questo mezzo provederanno a’ tuoi disii -.
- Udite queste cose, Florio sospirando disse: - Amici, ben conosco voi prontissimi alla mia salute, e veggo apertamente che la mia vita vi duole, né similemente occulti mi sono i diletti che prendere potrei, a’ quali con tanta efficacia v’ingegnate di trarmi, pensando che io forse del senno sia uscito, perché pure in dolore pensando dimoro: ora, acciò che voi conosciate come io sia a quelli prendere disposto, e ancora come voi del mio dolore non vi dovete maravigliare, io vi voglio dire qual sia la mia vita. Dico che diverse imaginazioni e pensieri m’occupano continuamente, delle quali alcuna ve ne dirò. Primieramente io sopra tutte le cose disidero di vedere Biancifiore, sì come quella che più che niuna altra cosa è da me amata. E dicovi che tante volte, quante ella nella memoria mi viene, tanto questo disio più focoso in me s’accende e togliemi sì da ogni altro intendimento, che se allora io la vedessi, crederei più che alcuno iddio essere beato; e sentendomi questo essere levato, solamente perché io l’amo, e non per altro accidente, niuno dolore è al mio simigliante. Appresso questo, io vivo in continua sollecitudine della sua vita, temendo non ella, la quale so che m’ama come io lei, sostenga simili dolori a quelli che io sostengo, li quali, però che di più debole natura è che io non sono, dubito non la offendano o di gravosa infermità o di morte. E troppo più mi fa della sua vita dubitare l’acerbità del mio padre e della mia madre, li quali io sento prontissimi, e vederli mi pare, insidiatori della vita di lei. E niuna cagione falsa è che a lei inducere possa morte, che non me la paia vedere andare cercando al mio padre per fornire il suo falso volere, il quale altra volta gli venne fallito: e non pensa il misero che quella ora ch’ella morrà io non viverò più avanti. E in gravosissimo affanno mi tiene gelosia, e la cagione è questa: le giovani donzelle sono di poca stabilità e per la loro bellezza da molti amanti sogliono essere stimolate: e gl’iddii, non che le femine, si muovono per li pietosi prieghi a far la volontà de’ pregatori. Io sono lontano da lei, né vedere la posso, né ella me; molti giovani credo che la stimolano per la sua bellezza, la quale ogni altra passa: or che so io, se ella non potendo aver me, se ne prenderà alcuno altro, posto ch’ella non possa migliorare? Elli si suol dire che le femine generalmente hanno questa natura, ch’elle pigliano sempre il peggio. Con questi pensieri n’ho molti altri, li quali troppo penerei a volerli particolarmente spiegare; ma di loro vi dico che essi impediscono tanto la mia vita, che essi me l’hanno recata a noia; e per minor pena disidererei la morte, la quale ancora non pena riputerei, se gl’iddii donare la mi volessero, ma graziosa gioia. Veder potete come io mi posso a prendere alcuno diletto trarre: solo mio bene e sola mia gioia è il pensare a Biancifiore, e questo è quello che la poca vita che rimasa m’è, mi tiene nel corpo. Onde io vi priego che se la mia vita amate, non mi vogliate torre il poter pensare -.
- Cominciò allora il duca così a parlare: - Ben ci è manifesto te essere da tanti e tali pensieri stimolato, quanti ne conti, e da molti più. Ma tu non dei però volere con morte dar luogo al pensare più tosto che con diletto prolungare la tua vita, acciò che più tempo pensar possi. Onde, se nullo priego dee valere, noi ti preghiamo che tu prenda conforto, e da cotesti pensieri con continui diletti ti levi; e se t’è forse occulto, come tu nel tuo parlar dimostri, la cagione per che dei pigliar diletto, noi non ce ne maravigliamo, però che in così fatti affanni le più volte il vero conoscimento si suole smarrire. Ma noi, che di fuori da tale tempesta dimoriamo, conosciamo quali sieno le vie da uscire di quella: e però non ti siano gravi alquante parole, le quali se, ascoltate, metterai in effetto, ti vedrai sanza periglio venire a grazioso porto. Tu ti duoli del focoso disio che ti stimola di vedere Biancifiore però che vedere non la puoi. Certo ben credo che ti dolga; ma credi tu per questo dolore, che tu te ne dai, più tosto vederla? Certo no. Dunque sperando confortare ti dei, e dare alquanto sosta al presente disio, conoscendo, come tu fai, che al presente fornire non lo puoi con tuo onore. Pensa che la fortuna non terrà sempre ferma la rota: così come ella volvendo dal cospetto di Biancifiore ti tolse, così in quello ancora lieto ti riporrà. Similemente ti dico del pensiero che porti, non Biancifiore, per l’amore che ti porta, sostenga o gravosa infermità o morte, ciò è vano pensamento: e per niente il tieni, però che amore mai non porse morte ove le parti fossero in un volere. "Che ella infermasse io il disidererei, solo che per amore fosse, pensando che per quella infermità potrei conoscere me da lei tanto amato, che sì fatto accidente ne le seguisse per lo non potermi avere": oimè, quanto più è da pensare della sanità, la quale i sonni interi e le malinconie lontane essere dimostra: e però questo del tutto dei lasciare andare. Se dubiti non il tuo padre forse, come già fece, la voglia offendere, ciò non è da maravigliare, ché noi di niuna cosa abbiamo tanta ammirazione, quanto che egli ha tanto sofferta la sua vita, sappiendo come sia fatta quella che tu per lei meni. Onde ti dico che tenendo la maniera che fai, ragione hai di dubitare; ma volendo prendere conforto e seguire la via che io altra volta ti mostrai, niuna dubitazione te ne bisogna avere, ché io ti giuro per l’anima del mio padre che il re ama Biancifiore quanto figlia, e niuna cosa ad ira il potrebbe muovere contro ad essa, se non la tua sconcia vita. Se vuoi dire che gelosia ti stimoli, questo è contro a quello che davanti dicesti, cioè che Biancifiore più che sé t’ami, però che gelosia non suol capere se non in luoghi sospetti, e tu prima affermi niuna sospezione esserci, e appresso di’ te esser geloso. Ma certo, come che tu parli, a me pare che niuna cosa sia tanto amata da Biancifiore quanto tu se’: onde per questo niuno pensiero di lei avere ti conviene. Appresso, chi sarebbe quella sì folle, che avendo l’amore d’un così fatto giovane come tu se’, bello, gentile, ricco e figliuolo di re, lasciasse quello per niuno altro? Se vuoi dire: "le femine pigliano sempre il peggio", questo non s’intende per tutte, ma solamente per le poco savie, la qual cosa ancora negli uomini si truova. E veramente Biancifiore è savissima, e ciò nel suo portamento e nelle sue operazioni è manifesto. Or dunque, pensando bene queste cose, chi dovrebbe più confortarsi di te? Tu bello, tu ricco, tu gentile, tu amato da colei che tu ami, per amore della quale dovresti sempre pensare di vivere in modo che grazioso e sano le ti potessi presentare. Se simile caso fosse in me, io mi terrei oltre misura caro per più piacerle, né per niuna cosa disidererei tanto la vita lunga, quanto per lungamente poterla servire. E tu, più vinto da ira e da malinconia che consigliato dalla ragione, cerchi la morte per conforto, e sempre in pensieri e in dolore dimori, e vai imaginando quelle cose le quali né vedesti né vedrai già mai, se agl’iddii piace. Folle è colui che per li futuri danni sanza certezza spande lagrime, e in quelle più d’impigrire si diletta, che argomentarsi di resistere a’ danni. Deh, se tu se’ uomo come sono gli altri, giovino tanti conforti, quanti noi ti diamo: vaglia il mostrarti la verità, come noi mostriamo! E non indurare pure sopra il tuo non vero parere: rallegrati che tanto manca il senno quanto il conforto ne’ savi -.
- Florio, il quale sentiva in sé graziose parole all’animo innamorato, che di quelle avea bisogno, con men dolente viso così rispose: - Amici, a’ subiti accidenti male si puote argomentare. Ma che che ’l mio padre si deggia fare, io pur m’ingegnerò di prendere il vostro consiglio, cacciando da me il dolore delle non presenti cose -. E questo detto, si dirizzarono tutti; e uscendo del giardino, per le stelle che già il cielo aveano de’ loro lumi dipinto, tornarono quasi contenti alle loro camere.
- Mentre li fati trattavano così Florio, Biancifiore lasciata da lui al perfido padre tornò nell’usata grazia, dimorando ne’ reali palagi con non minore quantità di sospiri che Florio, avvegna che più saviamente quelli guardasse nell’ardente petto. Ma le trascorrenti avversità che il loro corso verso Florio aveano volto, con non usato stimolo ancora lui miserabilmente assalirono in questa maniera. Era nella corte del re Felice in questi tempi un giovane cavaliere chiamato Fileno, gentile e bello, e di virtuosi costumi ornato, a cui l’ardente amore di Florio e di Biancifiore era occulto, però che di lontane parti era, pochi giorni poi la crudel sentenza di Biancifiore, venuto. Il quale, sì tosto come la chiara bellezza vide del suo viso, incontanente s’accese del piacere di lei, e sanza misura la incominciò ad amare, e in diversi atti s’ingegnava di piacerle, avvegna che Biancifiore di ciò niente si curava, ma, saviamente portandosi, mostrava che di queste cose ella non conoscesse quanto facea. L’amore che Fileno portava a Biancifiore non era al re né alla reina occulto; i quali, acciò che il cuore di Biancifiore di nuovo piacere s’accendesse e Florio fosse da lei dimenticato, contenti di tale innamoramento, più volte nella loro presenza chiamavano Fileno, a cui faceano venire davanti Biancifiore e con lei tal volta sollazzevoli parole parlare; ma ciò era niente, ché Biancifiore di lui si curava poco, anzi sospirando vergognosa bassava la testa come davanti le venia, sanza già mai alzarla per mirare lui, se ciò non fosse stato alcuna fiata in piacere del re o della reina, li quali ella conoscea essere di tale amore allegri, avvegna che Fileno pensasse che que’ sospiri, i quali dal cuore di Biancifiore moveano, uscissero fuori essendone egli cagione. Mostrando Biancifiore per conforto della reina d’amare il giovane cavaliere; avvenne che dovendosi ne’ presenti giorni celebrare una grandissima solennità ad onore di Marte, iddio delle battaglie, e nella detta solennità si costumasse un giuoco nel quale la forza e lo ’ngegno de’ giovani cavalieri del paese tutta si conoscea, Fileno propose di volere in quel giuoco per amore di Biancifiore mostrare la sua virtù; ma ciò, se alcuna gioia da Biancifiore non avesse la quale in quel luogo per soprasegnale portasse, non volea fare. Onde egli un giorno si mosse, vedendo Biancifiore stare con la reina e con dubbioso viso, davanti alla reina così a Biancifiore cominciò a parlare: - O graziosa giovane, la cui bellezza Giove credo nel suo seno formasse, e a cui io per volere di quel signore, alla forza del cui arco non poterono resistere gl’iddii, sono umilissimo e fedel servidore, se i miei prieghi meritano essere dalla tua benignità uditi, con quello effetto che più graziosamente gli ti presenti gli mando fuori, e priegoti che, con ciò sia cosa che la festa del nostro iddio Marte, le cui vestige io sì come giovane cavaliere seguito, si deggia di qui a pochi giorni celebrare, e in quella il giuoco de’ potenti giovani, sì come tu sai, si deggia fare, e io intendo in quello per amore di te mostrare le mie forze, che tu alcuna delle tue gioie mi doni, la quale portando in quello per sopransegna, mi doni tanto più ardire, che io non ho, ch’io possa acquistare vittoria -. Biancifiore, udendo queste parole, di vergognosa rossezza dipinse il candido viso, sì tosto come il cavaliere si tacque, e non sappiendo che si fare si voltò verso la reina riguardandola nel viso con dubitosa luce. A cui la reina disse: - Giovane damigella alza la testa: e perché hai tu presa vergogna? Dubiti tu che ciò che ha detto il cavaliere non sia vero? Certo nella nostra gran città niuna donna dimora, la cui bellezza si possa adequare al tuo viso; e perché egli ti domandi grazia, sì come quelli che per amore disidera di servirti, ciò non gli dee da te esser negata, ma benignamente alcuna delle tue cose, quella che tu credi che più gli aggradi, gli dona: ché usanza è degli amanti insieme donarsi tal fiata delle loro gioie -. Disse Biancifiore allora: - Altissima reina, e che donerò io al cavaliere che ’l mio onore e la dovuta fede non si contamini? -. La reina rispose: - Biancifiore, non dubitare di questo, ché a quelle giovani a cui i fati ancora non hanno marito conceduto, possono liberamente donare ciò che loro piace, sanza vergogna. E che sai tu se essi ancora costui ti serbano per marito? E però donagli: e acciò che più grazioso gli sia, prendi il velo col quale tu ora la tua testa cuopri. Egli è tal cosa, che se pur te ne vergognassi, potresti negare d’avergliele donato, affermando che da altra l’avesse avuto, però che molti se ne trovano simiglianti -. Biancifiore, costretta dal parlare della reina, con la dilicata mano si sviluppò il velo della bionda testa, e sospirando il porse a Fileno, il quale in tanta grazia l’ebbe che mai maggiore ricevere non la credeva. E rendute del dono debite grazie, con esso da loro allegro si partì. E venuto il tempo del giuoco, legatosi questo velo alla testa, niuno fu nel giuoco che la sua forza passasse: per la qual cosa sopra quello, in presenza di Biancifiore, meritò essere coronato d’alloro.
- La fortuna, non contenta delle tribulazioni di Florio, condusse Fileno a Montoro pochi giorni poi la ricevuta vittoria. Il quale là onorevolemente ricevuto da molti, nella gran sala del duca, incominciò a narrare a’ giovani cavalieri suoi amici quanto fosse stato l’acquistato onore, disegnando con parole e con atti quanta forza e ingegno adoperasse per ricevere in sé tutta la vittoria, come fece. Poi, entrati in altri diversi ragionamenti, venuti a parlare d’amore, similemente sé propose esser assai più che altro innamorato, e di più bella donna, e come da lei niuna grazia era che conceduta non gli fosse se domandata l’avesse; e dopo molte parole disavedutamente gli venne ricordata Biancifiore. E Florio, che non era troppo lontano, e avea udite tutte queste cose, e piagneasi in se medesimo d’amore, che lui peggio che alcuno altro innamorato trattava, come udì ricordare Biancifiore, e per le precedenti parole conobbe lei essere quella donna di cui Fileno tanto si lodava, incontanente cambiato nel viso si partì da’ compagni tacitamente, e stato per picciolo spazio, ritornò nella sala con l’usato viso, e amichevolemente verso Fileno se n’andò. Il quale come Fileno il vide, levatosi in piè con quella reverenza che si convenia, incontro gli si fece. Allora Florio, per più accertarsi di ciò che sapere non avria voluto, mostrando di volere d’altre cose parlare con lui, presolo per lo braccio, sanza altra compagnia nella sua camera il menò. E quivi amenduni postisi a sedere sopra il suo letto, Florio con infinto viso de’ suoi accidenti e delle maniere de’ lontani paesi dov’egli era stato, lo incominciò a domandare; e poi quando tempo gli parve, gli disse: - Se il colore del vostro viso non m’inganna, voi mi parete innamorato -. A cui Fileno rispose: - Signor mio, sopra tutti gli altri giovani io amo -. - Ciò mi piace assai - rispose Florio, - però che nulla cosa m’è tanto a grado, quanto avere compagni ne’ miei sospiri; ma ditemi, se vi piace, da quella donna, cui voi amate, siete voi amato? -. Disse Fileno: - Niuna cosa m’accende tanto amore nel cuore, quanto il sentire me essere amato da quella cui io più che me amo -. - Certo voi state bene - disse Florio; - ma ditemi, come conoscete voi che voi siate da quella, che voi tanto amate, amato? -. - Dirollovi - rispose Fileno: - che io sia amato da quella cui io amo, tre cose me ne fanno certo. La prima si è il timido sguardare con focosi sospiri, nelle quali cose io apertamente conosco intero amore; appresso, me ne accertano le ricevute gioie, le quali sanza amore da gentile donna mai donate non sarieno. La terza cosa che questo mi mostra si è l’allegrezza della quale io veggo il bel viso ripieno d’ogni felice caso che m’avvenga -. - Ben sogliono essere le predette cose veri testimonii d’amore; ma ditemi, se vi piace, che gioia riceveste voi già mai dalla vostra donna: però che alcune sogliono donare gioie, le quali non sarieno degne di mettere in conto -. - Certo - disse Fileno - non è di quelle la mia, ma è da tenere carissima; e acciò che voi sappiate quanto io ne deggio tenere cara una che io n’ho qui meco, io vi dirò come io la ricevetti -. - Ciò mi piace - rispose Florio. Allora Fileno cominciò così a dire: - Dovendo noi giucare nel giuoco che si fa nella solennità di Marte, pochi giorni ha passati celebrata, giucare, io nella sua presenza me n’andai, e umilmente la pregai che le piacesse a me, suo fedelissimo servidore, donare una delle sue gioie, la quale io per lo suo amore portassi nel giuoco. Essa, al mio priego mossa, benignamente in mia presenza con le dilicate mani questo velo si levò d’in su la sua bionda testa -; e traendo fuori il velo, il mostrò a Florio; e poi seguendo il suo parlare, disse: - E appresso aggiunse che io per amore di lei mi dovessi portar bene. Onde se questo è assai manifesto segnale di vero amore, voi, come me, il potete conoscere -. - Ma è più che manifesto - rispose Florio, - e certo ogni altra cosa maggiore è da esserne da voi sperata -. Disse allora Fileno: - Sicuramente che io molto più avanti ne spero, né credo con l’aiuto de’ nostri iddii la mia speranza vegna fallita -. Florio, ancora di tutto questo non contento, gli disse: - Fileno, se gl’iddii ve ne facciano tosto venire a quel che disiderate, ditemi, se licito v’è, se questa vostra donna è bella, e chi ella è -. Rispose Fileno: - Signor mio, mai ella non mi comandò ch’io dovessi il suo nome celare, né la sua bellezza richiede d’essere tenuta, a chi disidera di saperla, occulta, né a voi niuna cosa sarebbe da nascondere; e appresso mi fido tanto nel buono amore che io conosco ch’ella mi porta, che posto che alcuni il sapessero e volesserlami, amandola, torre, non poriano. Onde, poi che vi piace di saperlo, io vi dirò il nome, il quale udendo conoscerete quanta sia la bellezza. La donna di cui io tutto sono, e per cui io amorosamente sospiro, si chiama Biancifiore, e dimora ne’ reali palagi del vostro padre in compagnia della reina. Voi la conoscete meglio che io non fo, e sapete bene quanta sia la sua bellezza, e quinci potete vedere se per graziosa donna io sono da amore costretto -. Riguardollo Florio allora nel viso sanza mutare aspetto, e disse: - Veramente vi tiene amore per bella donna, e ora mi piace più ciò che detto m’avete, che prima non facea. Ma una cosa vi priego che facciate, che saviamente amiate e guardatevi di non lasciarvi tanto prendere ad Amore, che a vostra posta partire non vi possiate da lui, però che io, il quale vivo pieno di sospiri, per niuna altra cosa mi dolgo, se non per che io vorrei da lui partirmi, e non posso; e la cagione è però che io amai già una donna, e ancora più che me l’amo, e per quello che vedere me ne parve, ella amò me sopra tutte le cose, e in luogo di vero amore ella mi donò questo anello, il quale io porto in dito e porterò sempre per amore di lei; e poco tempo appresso lasciò me e donossi ad un altro di molto minor condizione che io non sono: per la qual cosa io ora mi vorrei partire da amare e non posso, e lei ho quasi del tutto perduta. Se a voi il simigliante avvenisse, certo elli sarebbe da dolerne a ciascuna persona che v’amasse -. Disse allora Fileno: - Florio, buono è il consiglio che mi donate, e se io credessi che mi bisognasse, io il prenderei; ma sanza dubbio io la conosco tanto costante giovane, che mai del suo proposito, cioè d’amare me, non credo ch’ella si muti -. - Dunque avete voi vantaggio da tutti gli altri - disse Florio, - e se così sarà, più che nullo iddio vi potrete chiamare beato -. L’ora del mangiare gli levò da questo ragionamento, il quale non dilettava tanto all’una delle parti, quanto all’altra era gravissimo e noioso, e usciti della camera, lavate le mani, alle apparecchiate tavole s’asettarono.
- Stette Florio alla tavola sanza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l’udite parole da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito cuore sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno fu licito d’andare ove gli piacea, Florio soletto se n’entrò nella sua camera, e serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello incominciò il più dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare; e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancifiore e a dire così: - O dolce Biancifiore, speranza della misera anima, quanto è stato l’amore ch’io t’ho portato e porto da quell’ora in qua che prima ne’ nostri giovani anni c’innamorammo! Certo mai alcuno donna sì perfettamente non amò, come io ho te amata: tu sola se’ stata sempre donna del misero cuore. Niuna cosa fu che per amore di te io non avessi fatto, niuna gravezza è che lieve non mi fosse paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale condannata fosti, fu, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la mia destra mano liberata non t’ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati i miei sospiri, poi che licito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto così bella, come tu se’! Né mai niuno conforto poté entrare in me sanza il tuo nome. Niuno ragionamento m’era caro sanza esservi ricordata tu, di cui ora la speranza così spogliato mi lascia, pensando che me per Fileno abbi abandonato, e la cagione per che vedere non posso. Certo tu non puoi dire che io mai altra donna che te amassi: da assai sono stato tentato, mai niuna poté vantarsi che alquanto al loro piacere io mi voltassi. Né in altra cosa conosco me averti già mai fallito: dunque perché Fileno più di me t’è piaciuto? Deh or non sono io figliuolo del re Felice, nipote dell’antico Atalante sostenitore de’ cieli? Certo sì sono: e Fileno è un semplice cavaliere. Luce il viso suo di più bellezza che ’l mio? Mai no! E la sua virtù più che la mia? Or fosse essa pur tanta! Se forse valoroso giovane ti pare sotto l’armi, quanto il mio valore sia non ti dee essere occulto a tal punto in tuo servigio s’adoperò. Doni so bene che a questo non t’hanno tratta; ma io dubito che l’animo tuo, il quale solea essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d’amare persona che maggior titolo porti di te, dubitando d’essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione non dovea in te capere, però ch’io so te essere degli altissimi imperadori romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me capere sdegno. Dunque, perché m’hai lasciato? Ahimè, misera la vita mia! Quando troverai tu un altro Florio, che sì lealmente t’ami com’io t’ho amata? Tu nol troverai già mai! Tu m’hai data materia di sempre piagnere, però che mai del mio cuore tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch’io mi ricorderò me essere del tuo cuore uscito, tante fiate sosterrò pene sanza comparazione. E quello che più in questo mi tormenta, si è che io conosco te non poter negare l’essere di Fileno innamorata, però che egli m’ha mostrato quel velo col quale tu coprivi la bionda testa, quando con pietose parole ti domandò una delle tue gioie, e tu gli donasti quello. Oimè misero, ove si vogliono oramai voltare i miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m’hai lasciato, ch’eri sola mia speranza? Oimè dolente, erati così noioso l’attendere di potermi vedere, che per così poco di tempo me per un altro, cui più sovente veder puoi, hai dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso -. E lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire: - O Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu fosti del mio male cominciatore: non mi abandonare in sì gran pericolo! Tu sai che io ho sempre i tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che io ho portata alla tua signoria, la quale me a sé sottomettere non dovea sanza intendimento d’aiutarmi infino alla fine de’ miei disii. Volessero gl’iddii che mai la tua saetta non si fosse distesa verso il mio cuore, né che mai veduta fosse stata da me la luce de’ begli occhi di Biancifiore da’ quali ora per la tua potenza medesima tradito e ingannato mi trovo! Oimè misero, quante fiate già per la tua potenza mi giurò ella che mai me per altrui non lascerebbe, e io a lei simile promissione feci! Io l’ho osservata, ma ella m’ha abandonato. Ove è fuggita la promessa fede? E tu dove se’, o Amore, il cui potere è stato schernito da questa giovane? Come non ti vendichi, e me similmente? Se tu così notabile fallo lasci impunito chi avrà in te già mai fidanza? Tu perseguitasti il misero Ipolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come costei, che l’ha ingannata, non punisci? Io non ne cerco però grave punizione, ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi acciò che più la mia vita in sì fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch’egli possa avere alcuna consolazione anzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre, prendere mi possa, il quale di questo male è cagione, però che se egli non fosse, io non sarei stato lontano, e essendo stato presente, la mia Biancifiore non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per paura di lui ella si sia ingegnata d’avere altro amadore. Oimè, che nulla cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sì come alla nave, alla quale, già mezza inghiottita dalle tempestose onde, ogni vento è contrario. O misera fortuna, i tuoi ingegni aguzzano a nuocere a me, apparecchiato di ruinare! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti già a me benignissima madre, e ora mi se’ acerba matrigna. Io mi ricordo già sedere nella sommità della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il lieto viso di Biancifiore m’era presente, mostrandomi quello amore che parimente insieme ci portavamo; ma tu, credo, invidiosa di sì graziosa gioia com’io sentiva, non sostenesti tener ferma la tua volubile rota, ma voltando, non sanza mio gran dolore, allontanandomi dal bel viso, mi pingesti a Montoro. Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella più infima parte della tua rota, né credea più potere discendere; ma tosto con maggiore infortunio mi facesti conoscere quella avere più basso luogo: e questo fu quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t’ingegnasti d’opporre alle forze degl’iddii, volendola far morire, alla cui salute, non tua mercé, io fui arditissimo difenditore. E in tale stato, con più sospiri che per lo passato tempo avuti non avea, mi tenesti grande stagione, sperando io di dovere risalire, se si voltasse: però che tanto m’era paruto scendere, che ’l centro dell’universo mi parea toccare. Ma tutto ciò non bastandoti, ancora volesti che niuno luogo fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha’mi ora in sì basso luogo tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna mi ritornassi come già fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de’ dolori e delle miserie, pensando che la mia Biancifiore abbia me per altrui abandonato. O dolore sanza comparazione! O miseria mai non sentita da alcuno amante che è la mia! Avvegna che io non sia il primo abandonato, io son solo colui che sanza legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giansone abandonata per giovane non meno bella e gentile di lei e per la salute propia della sua vita, la quale sanza Medea avere non potea. Medea poi per la sua crudeltà fu giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa più pietosa di lei. Oenone fu abandonata da Paris per la più bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che avanti non volesse una reina discesa del sangue degl’immortali iddii, che una rozza femina usata ne’ boschi? Oh quanti essempli a questi simili si troverebbero! Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliuolo d’un re per un semplice cavaliere sia lasciato dove la virtù avanza nell’abandonato. Deh, misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l’amore di Biancifiore, come Aconzio ebbe quello di Cidipe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per più piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propia volontà di lei, cercando co’ propii occhi se io era disposto a prenderlo, e trovando di sì, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altro essere dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alle tue orecchi. Or volessero gl’iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che ’l mio dolore sarebbe minore, però che io reputo felicissimo colui che non è uso d’avere alcuna prosperità, però che da quella sola, perdendola, procede il dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch’egli ebbe? Tu ora m’hai posto sì abasso che più non credo potere scendere: nel quale luogo, sì come più doloroso che alcuno altro, mai sanza lagrime non dimorerò. Piaccia agl’iddii che sopravegnente morte tosto me ne cavi -. E poi che queste cose piangendo avea dette, rimirava all’anello che in dito portava, e diceva: - O bellissimo anello, fine delle mie prosperità e principio delle miserie, gl’iddii facciano più contenta colei che mi ti donò, che essi non fanno me. Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la tua donna mutato il cuore? Oimè, che perduta è la reverenza che io ho a te e all’altre cose da lei ricevute portata! Ogni mio affanno in picciola ora è perduto: ma poi che ella mi s’è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai etterno testimonio del preterito amore, e così come io sempre nel cuore la porterò, tu così sempre nella usata mano starai -. E poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava chiamando la morte che da tale affanno col suo colpo il levasse, e più forte piangendo diceva: - Oimè, perché più si prolunga la mia vita? Maladetta sia l’ora ch’io nacqui e che io prima Biancifiore amai. Or fosse ancora quel giorno a venire, né già mai venisse. Ora fossi io in quell’ora stato morto, acciò che io essemplo di tanta miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherà più! -. E postasi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancifiore ricevuto avea, dicendo: - Oggi verrà quello che la dolorosa mente s’imaginò quando donato mi fosti, cioè che tu dovevi essere quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sappiendolo, forse avrà più caro avermiti donato, per quello che avvenuto ne sarà, che per altro -. Mentre che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra ’l suo letto, Venere, che il suo pianto avea udito, avendo di lui pietà, discese del suo cielo nella trista camera, e in Florio mise un soavissimo sonno, nel quale una mirabile visione gli fu manifesta.
- Poi che Florio, da dolce sonno preso, ebbe lasciato il lagrimare, nuova visione gli apparve. A lui parea vedere in un bellissimo piano un gran signore coronato di corona d’oro, ricca per molte preziose pietre, le quali in essa risplendeano maravigliosamente, e i suoi vestimenti erano reali. E parevagli che questi tenesse nella sinistra mano uno arco bellissimo e forte, e nella destra due saette, l’una d’oro, e quella era agutissima e pungente, l’altra gli parea di piombo, sanza alcuna punta. E questo signore, il quale di mezza età, né giovane né vecchio, giudicava, gli parea che sedesse sopra due grandissime aquile, e i piedi tenesse sopra due leoni, e nell’aspetto di grandissima autorità. E quanto Florio più costui guardava, più mirabile gli parea, ventilando due grandissime ali d’oro, le quali dietro alle spalle avea. Ma poi che a Florio parve per lungo spazio avere lui riguardato, elli gli parve vedere dalla destra mano del signore una bellissima donna, la quale ginocchioni davanti al signore umilemente pregava; ma egli non poteva intendere di che, se non che, fiso riguardando la donna gli parve che fosse la sua Biancifiore. Poi alla sinistra mano del signore rimirando, vide un tempestoso mare nel quale una nave con l’albero rotto, e con le vele le quali piene d’occhi gli pareano tutte spezzate, e con li timoni perduti e sanza niuno governo. E in quella nave gli parea essere, a lui, tutto ignudo, con una fascia davanti agli occhi, e non sapere che si fare; e dopo lungo affannare in questa nave, gli parea vedere uscire di mare uno spirito nero e terribile a riguardare, il quale prendeva la proda di questa nave, e tanto forte la tirava in giuso che già mezza l’aveva nelle tempestose onde tuffata. Allora Florio, forte spaventato sì per lo fiero aspetto dello spirito sì che si vedea la morte vicina per la tempestante nave, con grandissimo pianto verso la poppa gli parea fuggire e gridare verso quel signore "Aiuto". Ma egli non parea che alle sue parole né a’ suoi prieghi colui si movesse; onde Florio più temea sentendo ciascuna ora più la nave affondare. Poi dopo alquanto spazio gli parea che questo signore gli dicesse: "Io sono colui cui tu hai già tanto chiamato ne’ tuoi sospiri: non credere che io ti lasci perire". Ma per tutto questo niente si muove. Ma poi che a Florio piangendo con grandissima paura parve avere un grandissimo pezzo aspettato, a lui parve che la fascia, che davanti agli occhi avea, alquanto s’aprisse, e fossegli conceduto di vedere dove stava: e com’egli aperse gli occhi a riguardare, vide essere già quella nave tanto tirata sotto l’onde, che poco o niente se ne parea. Allora, forte piangendo, gli parea domandare mercé e aiuto, e alzando gli occhi al cielo per invocare quello di Giove, parendogli che quello di quel signore li fallisse, e egli vide una bellissima giovane tutta nuda, fuori che in uno sottile velo involta, e dicevagli: "O luce degli occhi miei, confortati". A cui Florio rispondea: "E che conforto poss’io prendere, che già mi veggo tutto sotto l’onde?". La giovane gli rispondea: "Caccia dalla tua nave quello iniquo spirito, il quale con la sua forza s’ingegna d’affondarla". A cui Florio parea che rispondesse: "E con che il caccerò io, che niuna arma m’è rimasa?". Allora parea a Florio che costei traesse del bianco velo una spada, che parea che tutta ardesse, e dessegliela; la quale Florio poi che presa l’avea, gli pareva rimirare costei e dire: "O graziosa giovane, che ne’ miei affanni tanto aiuto vi ingegnate di porgermi, se vi piace, siami manifesto chi voi siete, però che a me conoscere mi vi pare, ma la lunga fatica m’ha sì stordito, che il vero conoscimento non è con meco". Questa parea che così gli rispondesse: "Io sono la tua Biancifiore, di cui tu oggi, ignorante la verità, ti se’ tanto sanza ragione doluto"; e questo detto, parea a Florio che essa gli porgesse un ramo di verde uliva e disparisse. Poi parea a Florio con l’ardente spada leggerissimo andare sopra l’onde e ferire lo iniquo spirito più volte, ma dopo molti colpi gli parea che lo spirito lasciasse il legno, tornandosi per quella via onde era venuto. E partito lui, a Florio parea che il mare ritornasse alquanto più tranquillo, e il legno nel suo stato, di che in se medesimo si rallegrava molto. E volendo intendere a racconciare i guasti arnesi della sua nave, il lieve sonno subitamente si ruppe. E Florio dirizzato in piè, sospirando e quasi stordito per la veduta visione, si trovò in mano un verde ramo d’uliva: per la qual cosa vie più d’ammirazione prese, e incominciò a pensare sopra le vedute cose e sopra il verde ramo. E poi che egli ebbe lungamente pensato, e egli incominciò così fra se medesimo a dire: "Veramente avrà Amore le mie preghiere udite, e forse in soccorso della mia vita vorrà tornare Biancifiore in quello amore verso di me che ella fu mai, però che la voce di lei mi riconfortò nella affannosa tempesta ove io mi vidi, e diemmi argomento da campare da quella, e in segno di futura pace mi donò questo ramo delle frondi di Pallade: onde poi che così è, io voglio avanti piangendo alquanto aspettare che Biancifiore mi mostrerà di voler fare, che subitamente, sanza farle sentire ciò che Fileno m’ha detto, uccidermi con le propie mani". E questo detto riprese il coltello che sopra il letto ignudo stava, e quello rimise nel suo luogo; e sanza più indugio, come propose, così fece una pistola, la quale egli mandò a Biancifiore, in questo tenore:
- "Se gli avversarii fati, o graziosa giovane, t’hanno a me con l’altre prosperità levata, come io credo, non con isperanza di poterti con i miei prieghi muovere dal novello amore, ma pensando che lieve mi fia perdere queste parole con teco insieme, ti scrivo. La qual cosa se non è com’io estimo, se parte alcuna di salute m’è rimasa, io la ti mando per la presente lettera, della quale volessero gl’iddii che io fossi avanti aportatore; e per quello amore che tu già mi portasti, ti priego che questa sanza gravezza infino alla fine legghi. E però che pare che sia alcuno sfogamento di dolore a’ miseri ricordare con lamentevoli voci le preterite prosperità, a me misero Florio, da te abandonato, con teco, sì come con persona di tutte consapevole, piace di raccontarle; e forse udendole tu, che pare che messe l’abbi in oblio, conoscerai te non dovere mai me per alcuno altro lasciare. Adunque, sì come tu sai, o giovane donzella, tu, in un giorno nata ne’ reali palagi con meco di pellegrino ventre, compagna a’ miei onori divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne’ quali onori tu e io parimente dimorando Amore l’uno così come l’altro, ne’ nostri puerili anni, con la cara saetta ferì. Né più fu in sì tenera età perfetto l’amore d’Ifis e di Iante che fu il nostro. E quello studio che a noi, costretti da aspro maestro, ne’ libri si richiedeva, cessante Racheio, in rimirarci mettevamo, mostrando lo inestimabile diletto che ciascuno di ciò avea. Oimè, che ancora niuno ricordo era nella nostra corte di Fileno, il quale di lontana parte dovea venire a donarti simile gioia. Ma poi la fortuna, mala sostenitrice delle altrui prosperità, invidiosa de’ nostri diletti, i quali con dolci sguardi e semplici baci solamente si contentavano per la età che semplice era, verso di noi innocenti volle la sua potenza mostrare, e, abassando con la sinistra mano la non riposante rota, il nostro occulto amore a sospette persone fece manifesto. Il quale dal mio padre, dopo gravi riprensioni maestrali, saputo, fui costretto di partirmi da te: nella quale partita, tu mia e io sempre tuo, per la somma potenza di Citerea, giurammo di stare, mentre Lachesis, fatale dea, la vita ne nutricasse. E nel mio partire mi vedesti piangere, e tu piangesti; e ciascuno di noi egualmente dolente, mescolammo le nostre lagrime. E sì come l’abbracciante ellera avviticchia il robusto olmo, così le tue braccia il mio collo avvinsero, e le mie il tuo simigliantemente; e appena ci era licito ad alcuno di lasciare l’uno l’altro, infino a tanto che tu per troppo dolore costretta nelle mie braccia semiviva cadesti, riprendendo poi vita quando io cercava teco morire, te riputando morta. Ora fosse agl’iddii piaciuto che allora il termine della mia vita fosse compiuto! Ma tu poi levata, e donatomi quello anello il quale ancora te mi tiene legata nel cuore e terrà sempre, mi pregasti che mai io non ti dovessi dimenticare per alcuna altra. Alle quali parole s’aggiunsero sì tosto le lagrime che appena ne fu possibile dire addio. E dopo la mia partita mi ricorda avere udito che tu con gli occhi pieni di lagrime mi seguitasti infino a tanto che possibile ti fu vedermi, sì come io similemente stetti sempre con gli occhi all’alta torre, ove te imaginava essere salita per vedere me. Tu rimanesti nelle nostre case visitando i luoghi dove più fiate stati eravamo insieme, e in quelli con sì fatta ricordanza prendevi alcuno diletto imaginando. Ma io misero, poi che i tristi fati da te m’ebbero allontanato, come gl’iddii sanno, niuno diletto si poté al mio animo accostare sanza ricordarmi di te; e ciascun giorno i miei sospiri cresceano trovandomi lontano alla tua presenza; e quelle fiamme le quali il mio padre credeva, lontanandomi da te, spegnere, con più potenza sempre si sono raccese e divenute maggiori. Oimè, ora quante fiate ho io già pianto amaramente per troppo disio di veder te, e quante fiate già nel tenebroso tempo, quando amenduni i figliuoli di Latona nascosi ci celano la loro luce, venni io alle tue porti dubitando di non essere sentito da’ miei minori servidori, e non temendo la morte che nelle mani degli insidianti uomini ne’ notturni tempi dimora, né de’ fieri leoni, né de’ rapaci lupi per lo cammino usanti in sì fatte ore! E quante volte già giovani donne per rattiepidare i miei tormenti, le cui bellezze sarieno agl’iddii bene investite, m’hanno del loro amore tentato, né mai alcuna poté vincere il forte cuore, a te tutto disposto di servire! E poi, oltre a tutte l’altre tribulazioni, gl’iddii sanno quanto grave mi fosse ciò che di te intesi, quando ingiustamente condannata fosti alla crudele morte: alla quale io con tutte le mie forze, mercé degl’iddii che m’aiutarono, conoscendo la ingiustizia a te fatta, m’opposi in maniera che me con teco trassi da tale pericolo. E poscia ognora in maggiore tribulazione crescendo, dubitando della tua vita, mai non divenni vile a sostenere tormenti per te, né mai per tutte le contate cose una fiata mi pentii d’averti amata, né proposi di non volerti amare, ma ciascuna ora più t’amai e amo, avvegna che te io aggia tutto il contrario trovata, però che tu non hai potuto la minor parte delle mie miserie sostenere in mio servigio. Tu, mobile giovane, ti se’ piegata come fanno le frondi al vento, quando l’autunno l’ha d’umore private. Tu agl’ingannevoli sguardi di Fileno, il quale non lunga stagione t’ha tentata, se’ dal mio al suo amore voltata. Oimè, or che hai tu fatto? E se questo forse negare volessi tu, non puoi, con ciò sia cosa che la sua bocca a me abbia tutte queste cose manifestate. E oltre a ciò, volendomi mostrare quanto il tuo amore sia fervente verso di lui, mi mostrò il velo che tu della tua testa levasti e donastilo a lui: il quale quand’io il vidi, un subito freddo mi corse per le dolenti ossa, e quasi smarrito rimasi nella sua presenza. Oimè, come io volontieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che s’ingegnava di te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo da me con grandissima vergogna; ma per non scoprire quello che nel mio cuore dimorava e per udire più cose, sostenni con forte viso di riguardare quello per amore di te, imaginando che per adietro la tua testa, a me graziosissima a ricordare, avea coperta. Oimè ora è questa la costanza che io ho avuta verso di te? Deh, or non sai tu quante e quali donne m’hanno per maritale legge al mio padre adimandato, e quante e quali egli me ne ha già volute dare per volermi levare a te? Or non consideri tu quanti e quali dolori io ho già per te sostenuti per l’esserti lontano, e sostengo continuamente? Queste cose non si dovrieno mai del tuo animo partire, le quali mostra che assai da esso lontane sieno, veggendomi io essere per Fileno abandonato. Deh, ora qual cagione t’ha potuto a questo muovere? Certo io non so. Forse mi rifiuti per basso lignaggio, sentendo te essere degli altissimi prencipi romani discesa, le cui opere hanno tanta di chiarezza, che ogni reale stirpe obumbrano, e me del re di Spagna figliuolo, onde riputando te più gentile di me, m’hai per altro dimenticato? Ma tu, stoltissima giovane, non hai riguardato per cui, però che se bene avessi cercato, tu avresti trovato Fileno non essere di reale progenie, né di romano prencipe disceso, ma essere un semplice cavaliere. E se forse più bellezza in lui che in me ti muove, certo questo è vano movimento, con ciò sia cosa che egli non sia bellissimo né io sì laido, che per quello dovessi essere lasciato da te. Se forse in lui più virtù che in me senti, questo non so io, ma certo da alcuno amico m’è stato raportato segretamente me essere nel nostro regno tra gli altri giovani virtuoso assai. Oimè, che io non so perché in queste cose menome io scrivendo dimoro con ciò sia cosa che il piacere faccia parere il laido bellissimo, e colui ch’è sanza virtù copioso di tutte, e il villano gentilissimo riputare. Io mi piango con più doloroso stile pensando che quando tutte le ragioni di sopra dette aiutassero Fileno, come elle debitamente me difendono, perché dovrei io essere da te lasciato già mai? Ove credi tu mai trovare un altro Florio il quale t’ami com’io fo? Quando credi tu avere recato Fileno a tal partito ch’egli per te si disponga alla morte com’io feci? Oimè, ove è ora la fede promessa a me? Deh, se io fossi molto allontanato da te con questa speranza con la quale io t’era vicino, alcuna scusa ci avrebbe: o dire: "Io mai più vedere non ti credea", o porre scusa di rapportata morte: delle quali qui niuna porre ne puoi, però che di me continue novelle sentivi e ognora potevi udire me essere a te più subietto che mai. Oimè, ch’io non so quale iddio abbia la sua deità qui adoperata in fare che tu non sii mia come tu suoli, né so qual peccato a questo mi nuoccia. Fallito verso te non ho, salvo io non avessi peccato in troppo amarti dirittamente: al quale fallo male si confà la dolente pena che m’apparecchi, cioè d’amare altrui e me per altro abandonare. Ma tanto infino ad ora ti manifesto che, con ciò sia cosa che mai io non possa sanza te stare né giorno né notte che tu sempre ne’ miei sospiri non sia, se questo esser vero sentirò, con altra certezza che quella che io ti scrivo, per gli etterni iddii la mia vita in più lungo spazio non si distenderà, ma contento che nella mia sepoltura si possa scrivere: "Qui giace Florio morto per amore di Biancifiore", mi ucciderò, sempre poi perseguendo la tua anima, se alla mia non sarà mutata altra legge che quella alla quale ora è costretta. Io avea ancora a scriverti molte cose, ma le dolenti lagrime, le quali, ognora che queste cose che scritte t’ho mi tornano nella mente, avvegna che dire potrei che mai non escono, mi costringono tanto, che più avanti scrivere non posso. E quasi quello che io ho scritto non ho potuto interamente dalle loro macchie guardare; e la tremante mano, che similemente sente l’angoscia del cuore che mi richiama all’usato sospirare, non sostiene di potere più avanti muovere la volonterosa penna: onde io nella fine di questa mia lettera, se più merito d’essere da te udito come già fui, ti priego che alle prescritte cose provegghi con intero animo. Nelle quali se forse alcuna cosa scritta fosse la quale a te non piacesse, non malizia, ma fervente amore m’ha a quella scrivere mosso, e però mi perdona. E se quello che il tristo cuore pensa è vero, caramente ti priego che, se possibile è, indietro si torni. E se forse l’amore che tu m’avesti già né i miei prieghi a questo non ti strignesse, stringati la pietà del mio vecchio padre e della misera madre, a’ quali tu sarai cagione d’avermi perduto. E se così non è, non tardi una tua lettera a certificarmene, però che infino a tanto che questo dubbio sarà in me, infino a quell’ora il tuo coltello non si partirà della mia mano, presto ad uccidere e a perdonare secondo ch’io ti sentirò disposta. Avanti non ti scrivo, se non che tuo son vivuto e tuo morrò: gl’iddii ti concedano quello che onore e grandezza tua sia, e me per la loro pietà non dimentichino".
- Fatta la pistola, Florio piangendo la chiuse e suggellò; e chiamato a sé un suo fedelissimo servidore il quale era consapevole del suo angoscioso amore, così gli disse: - O a me carissimo sopra tutti gli altri servidori, te’ la presente lettera, la quale è segretissima guardia delle mie doglie, e con studioso passo celatamente a Biancifiore la presenta, e priegala che alla risposta niuno indugio ponga, però che per te l’attendo. Se avviene che la ti doni, niuna cagione ti ritenga, ma sollecitamente a me, quanto più cheto puoi, fa che la presenti, acciò che degnamente possi nella mia grazia dimorare. Va, che ’l molto disio mi cuoce d’udire quello che a questa si risponderà; e guarda che niuno altro che quella propia a cui io ti mando la vedesse. Prese il servo la suggellata pistola, e quella, con istudioso passo, pervenuto in Marmorina nelle reali case, presentò a Biancifiore occultamente. La quale come Biancifiore la vide, primieramente con dolci parole domandò come il suo Florio stesse. A cui il servo rispose: - Graziosa giovane, niuno sospiro è sanza lui. Egli si consuma in isconvenevole amaritudine, la cagione della quale è a me nascosa -. Udito questo, Biancifiore cominciò a sospirare, dicendo: - Oimè, e per quale cagione potrebbe questo essere? -. - Per niuna, credo - rispose il servo, - se per amore di voi non è. Egli vi manda caramente pregando che sanza alcuno indugio alla presente pistola rispondiate; e io, se vi piacerà, attenderò la risposta -. Allora Biancifiore la presa pistola si pose sopra la testa, e, avanti che l’aprisse, la baciò forse mille fiate, e, partita dal messaggiere, gli disse che di presente la risposta gli recherebbe, e sola nella sua camera se n’entrò, dubitando che dir dovesse la presente lettera. E, rotto il tenero legame, apri quella, né più tosto la prima parte ne lesse, che i begli occhi s’incominciarono a bagnare d’amare lagrime; e così, ognora più forte piangendo come più avanti leggeva, la finì di leggere. Ma poi che con pianti e con sospiri più fiate l’ebbe reiterata leggendo, angosciosa molto nella mente della falsa imaginazione di Florio, la quale avea di verità viso per lo mal donato velo, sopra ’l suo letto si pose, e a quella così al suo Florio rispose:
- "Non furono sanza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima, la quale con gravissima angoscia molte fiate rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono. E più volte leggendo quella, fra me pensai aver difetto d’intendimento, alcuna volta dicendo fra me medesima: "Io non la intendo bene, però che non potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che semplicemente guardando pare che questa pistola porga". Altra volta dicea: "Forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di parole". Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto sforzare la deboletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl’iddii mi concedono potere a te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se alcuna fede merita il leale amore ch’io ti porto, ti giuro per gl’immortali iddii che e’ non t’era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi quanto sia stato o sia l’amore che mi porti, però che molto maggiore credo che sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similmente i lunghi affanni e i gran meriti, a quali io mai aggiunger non potrei a remunerare il più picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piagnere della intera fede la quale mai né ti ruppi, né disiderai di romperti m’ha mossa a lagrimare e istrinta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io, o grazioso giovane, non credo me essere nata de’ ferocissimi leoni barbarici, né delle robuste querce d’Ida, né delle fredde marmore di Persia, dalle quali cose risomigliando passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e di benigna madre, sì come più fiate m’è stato detto, discesi, e per quella legge che sono gli umani corpi dalla natura tratti, e io similemente, ma non dalla fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e sanza umano conoscimento come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te, ne’ nostri puerili anni, insiememente ferì: della qual cosa io non meno di te mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similemente, né più durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo cuore, o abbia mai trovata. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se’ lontano a me dimorato, io non dimorai mai né dimoro con diletto a te lontana, anzi mi sento da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinta lagrima né falsa parola per più accenderti udisti da me: ma volessero gl’iddii che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute avessi, forse più temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere costante a sostenere per te uno affanno, né in amarti. Ma però che tutto questo spero con l’aiuto degl’iddii ancora doversi manifestare a te con apertissimo segno, più non mi stendo a scrivertene, essendo non meno da più grave dolore costretta, sentendo te credere essere da me per Fileno abandonato, sì come la tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per poco non morii. Oimè, quanto m’è la fortuna avversa! Tu vai cercando di mostrarmi cagioni per le quali io debbia aver te per Fileno lasciato, e quelle tu medesimo l’annulli: e veramente da annullare sono! E se di te quel senno non è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita, che io non conosca manifestamente te di nobiltà avanzare Fileno, semplice cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori romani, i quali gl’iddii guardino che sì poco torni la loro potenza, che ad essere servi, com’io sono, torni la loro sementa. Né ancora mi si occulta la tua virtù, né la tua bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione d’intollerabile tormento: per le quali cose saresti più degno amante dell’alta Citerea che di me. E certo, ben che io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno di bellezza più che alcuno altro, e me sanza alcuna di queste cose, non sono io però invilita ch’io non abbia ardire di perfettamente amarti, come che mi si convenga o no. Ora dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, come è credibile che io per Fileno te potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire che io, femina di fragilissima natura, niuna avversità per amor di te sostenere non avea potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di volere prossimano amadore, il quale più spesso veggendo, mi rallegrassi. Oimè, che falsa oppinione porti, se questo credi! Ma certo più per tentarmi, che per altro il fai, però che io so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando da’ miei parenti, sanza avversità non fui, per la qual cosa a forza m’è convenuto divenire maestra di sostenere quelle: e se io l’ho sostenute grandissime tu il sai, che gran parte con meco insieme n’hai sentite. Pensa certamente che alcuni sospiri mai non furono cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di te mando fuori della mia bocca, né lagrime mai con tanta copia bagnarono petto, quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma veramente non molto tempo passerà che tu potrai dire che io sia fragile a sostenere l’avversità nelle quali io sono circuita, però ch’io sento la mia vita fuggire da me con istudioso passo, e l’anima, che il dolore del dolente cuore non puote sostenere, l’ha già più volte voluto abandonare, e solo alcuno conforto, che io allora ho preso sperando di rivederti, l’ha ritenuta. Ma se così fatti dolori aggiugni a quelli che io ho infino a qui sentiti, come fatto hai al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l’anima cerchi congedo, anzi gliele darò costringendola del partire, se ella forse volesse dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m’è a pensare molto grave, e appena mi si lascia credere. Ma Amore, che ammollisce i duri cuori, mel fa tal volta credere e alcuna altra discredere, che tu, o signor mio, scritto non m’abbia che io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io ragionevolemente di te piangere non mi possa, se per alcuna altra me hai costà dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa oppinione che io il possa credere, anzi dico, qualora quel pensiero m’assale, niuna ragione farà mai che Biancifiore sia se non di Florio, o Florio se non di Biancifiore. Ma sanza fine mi s’attrista il cuore, qualora in quella parte della tua pistola leggo, ove scrivi me dovere avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della mia testa, il quale di’ che quando il ti mostrò, volontieri avresti levatogliele, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl’iddii che tu fatto avessi, però che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell’animo, e la cagione è questa: io non niego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a lui donato dalle mie mani, ma certo il cuore nol consentì mai, ma così costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando intera speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, più volte con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo impossibile sarebbe agl’iddii; né mai da me più avanti poté avere. Né è però da credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore: solamente il cuore serva quello, e io, che più che altra giovane il sento per te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona amai, se non solamente te, ne chiamo testimonii gl’iddii, a’ quali niuna cosa si nasconde: e però io ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel cuore quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t’è cara, e spera che ancora fermamente conoscerai ciò che io ora ti prometto, e la tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl’iddii rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii e seguita i leali diletti; e se tu mi porterai tanto nell’animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno affannata da’ pensieri che tu sii. E caramente ti priego che con sì fatte lettere tu non solleciti più l’anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che posto che tu con forte animo il mio coltello tenghi nella mano, a me corto laccio non farebbe sostenere di leggiere la seconda, solo che in quella così come in questa mi parlassi. Biancifiore non fu mai se non tua, e tua sarà sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e sanza fallo contento viverai".
- Biancifiore piegò la scritta pistola, piena di non poco dolore, e posta in sul legame la distesa cera, avendo la bocca per troppi sospiri asciutta, con le amare lagrime bagnò la cara gemma, e, suggellata quella, con turbato aspetto uscì della camera, a sé chiamando il servo, che già per troppa lunga dimoranza che fare gli parea s’incominciava a turbare. Al quale ella disse: - Porterai questa al tuo signore, a cui gl’iddii concedano miglior conforto che egli non s’ingegna di donare a me -. E detto questo, piangendo baciò la lettera, e posela in mano al fedele servo, il quale sanza niuno indugio volto li passi verso Montoro, e là in picciolo spazio pervenuto, trovò Florio nella sua camera, ove lasciato l’avea, con grandissima copia di lagrime e di sospiri, a cui egli porse la portata pistola, dicendogli ciò che da Biancifiore compreso avea e le sue parole. E partito da lui, Florio aperse la ricevuta lettera, e quella infinite volte rilesse pensando alle parole di Biancifiore, sopra le quali faccendo diverse imaginazioni, sopra il suo letto con essa lungamente dimorò.
- Diana, alla quale niuno sacrificio era stato porto come agli altri iddii fu, quando Biancifiore dal grandissimo pericolo fu campata, avea infino a questa ora la concreata ira tenuta nel santo petto celata, la quale non potendosi più avanti tenere, discesa degli alti regni, cercò le case della fredda Gelosia, le quali nascose in una delle altissime rocce d’Appennino, entro a una oscurissima grotta, trovò intorniate tutte di neve; né v’era presso albero o pianta viva fuori che o pruni o ortiche o simili erbe; né vi si sentia voce alcuna di gaio uccello: il cuculo e ’l gufo aveano nidi sopra la dolente casa. Alla quale venuta la santa dea, quella trovò serrata con fortissima porta, né alcuna finestra vi vide aperta. Fu dalla immortale mano con soave toccamento toccata l’antica porta, la quale non prima fu tocca, che dentro cominciarono a latrare due grandissimi cani, secondo che le voci li facea manifesti; dopo il quale latrare una vecchia con superbissima voce, ponendo l’occhio a uno picciolo spiraglio, mirò di fuori, dicendo: - Chi tocca le nostre porti? -. A cui la santa dea disse: - Apri a me sicuramente: io sono colei sanza il cui aiuto ogni tua fatica si perderebbe -. Conobbe l’antica vecchia la voce della divina donna, e a quella con lento passo andando, con non poca fatica per gli inruginiti serramenti aperse la porta, la quale nel suo aprire fece un sì grandissimo strido, che di leggiero poria essere stato sentito infino all’ultime pendici del monte. E fatta la dea passar dentro, con non minore romore riserrò quelle, difendendo appena i bianchi vestimenti della dea dalle agute sanne de’ bramosi cani, a’ quali per magrezza ogni osso si saria potuto contare: caccia quelli con roca voce e con un gran bastone col quale sostenea i vecchi membri. Era quella casa vecchissima e affumicata, né era in quella alcuna parte ove Aragne non avesse copiosamente le sue tele composte; e in essa s’udiva una ruina tempestosa, come se i vicini monti, urtandosi insieme, giugnessero le loro sommità, le quali per l’urtare pestilenzioso diroccati cadessero giuso al piano. Niuna cosa atta ad alcuno diletto vi si vedea: le mura erano grommose di fastidiosa muffa, e quasi parea che sudando lagrimassero; né in quella casa mai altro che verno non si sentiva, sanza alcuna fiamma da riconfortare il forte tempo: ben v’era in uno de’ canti un poco di cenere, nella quale riluceano due stizzi già spenti, de’ quali la maggior parte una gattuccia magra covando quella occupava. E la vecchia abitatrice di cotal luogo era magrissima e vizza, nel viso scolorita; i suoi occhi erano biechi e rossi, continuamente lagrimando; di molti drappi vestita, e tutti neri, ne’ quali raviluppata, in terra sedea, vicina al tristo fuoco, tutta tremando, e al suo lato avea una spada, la quale rade volte, se non per ispaventare, la traeva fuori. Il suo petto batteva sì forte, che sopra i molti panni apertamente si discernea, nel quale quasi mai non si crede che entrasse sonno; e il luogo acconcio per lo suo riposo era il limitare della porta, in mezzo de’ due cani. La quale la dea veggendo, molto si maravigliò, e così disse: - O antica madre, sollecitissima fugatrice degli scelerati assalti di Cupido, e guardia de’ miei fuochi, a te conviene mettere nel petto d’un giovane a me carissimo le tue sollecitudini, il quale per troppa liberalità si lascia a feminile ingegno ingannare, amando oltra dovere una mia nimica: e però niuno indugio ci sia muoviti! Egli è assai vicino di qui, e è figliuolo dell’altissimo re di Spagna, chiamato Florio, e sanza fine ama Biancifiore, né mai sentì quel che tu suoli agli amanti far sentire. Va e privalo della pura fede, la quale egli tiene indegnamente, e, aprendogli gli occhi, gli fa conoscere com’egli è ingannato, amaestrandolo come gl’inganni si debbono fuggire -. La vecchia che in terra sedea, con la mano alla vizza gota, alzò il capo mirando con torto occhio la dea, e con picciola voce tremando rispose: - Partiti, dea, da’ tristi luoghi, che niuno indugio darò al tuo comandamento -. Partita la dea, la vecchia si vestì di nuova forma, abandonando i molti vestimenti, aggiunse alle sue spalle ali, e lasciando le serrate case, sanza alcuno dimoro pervenne ove ella trovò Florio stante ancora sopra il suo letto leggendo la ricevuta lettera da Biancifiore. A cui ella occultamente con la tremante mano toccò il sollecito petto, e ritornossi alle triste case, onde s’era per comandamento di Diana partita.
- Avea Florio più fiate riletta la ricevuta pistola, e già quasi nell’animo le parole di Biancifiore accettava, credendo fermamente da lei niuna cosa essere amata se non egli, sì come essa gli scriveva. Ma non prima gli fu dalla misera vecchia tocco il petto, che egli incominciò a cambiare i pensieri e a dire fra sé: "Fermamente ella m’inganna, e quello ch’ella mi scrive non per amore, ma per paura lo scrive. Briseida lusingava il grande imperadore de’ Greci, e disiderava Achille. Chi è colui che dalle false lagrime e dalle infinte parole delle femine si sa guardare? Se Agamenone l’avesse conosciute, la sua vita sarebbe stata più lunga, né Egisto avrebbe avuto il non dovuto piacere. Sanza dubbio Fileno piace più a Biancifiore che io non faccio: e chi sarà quella che si levi un velo di testa, e donilo ad un suo amante, che possa far poi credere quelli non essere amato da lei? Certo niuna il potrebbe far credere, se non fosse già semplicissimo l’ascoltatore. E in verità e’ non è da maravigliare se ella ama Fileno: egli continuamente le è davanti, e ingegnasi di piacerle, e io le sono lontano, né la poté, già è lungo tempo, vedere. Il fuoco s’avviva e vive per li soavi venti, e amore si nutrica con li dolci riguardamenti: e sì come le fiamme perdono forza non essendo da’ venti aiutate, così amore diviene tiepidissimo come gli sguardi cessano. Ma costei, se ella non mi ama, perché con lusinghe accendermi il cuore". Poi ad altro ragionamento si volgea, e dicea: "Fermamente Biancifiore m’ama sopra tutte le cose, e questo, se io voglio il vero riguardare, non mi si può celare; ma se ella non mi amasse, Fileno me ne saria cagione, del quale io prenderò sanza dubbio vendetta".
- In cotali pensieri stando, Florio fra sé ripeteva tutti i preteriti atti e fatti stati tra lui e Biancifiore, poi che Fileno tornò de’ lontani paesi nella sua corte, e quelli una volta pensava essere stati da Biancifiore fatti maliziosamente, e altra volta fra sé gli difendeva. Egli stette più giorni sanza alcuno riposo pieno di sollecite cure. Egli alcuna volta imaginava: "Ora è Fileno davanti alla mia Biancifiore e lusingala: ma perché la lusingherebbe egli ch’ella l’ama oltra misura". Poi fra sé altrimenti imaginava. Egli andava vedendo con l’animo tutte quelle vie le quali possibili sono ad uomo di re per pervenire a un suo intendimento, e niuna credea che non ne fosse stata fatta da Fileno, se bisogno gli fu. Egli pensava che niuna persona mai parlasse a Biancifiore che da parte di Fileno non le parlasse, e da’ suoi servidori medesimi dubita d’essere stato ingannato: e così dimora in istimolosa sollecitudine, e non sa che si fare; e pensa che Fileno ordini di portarla via e che ella il consenta. Egli pensa che Fileno la domandi al re, e siagli donata per isposa. Egli pensa che i messaggi da Fileno a Biancifiore e da Biancifiore a Fileno siano spessissimi. Ma poi che egli ha diverse cose in sé rivolte, così cominciò a dire: "Non è del tutto da credere ciò che io imagino, ché forte mi pare che, se stato fosse, io non avessi alcuna cosa sentita: e però la scusa delle passate cose fatta da Biancifiore da ricevere. Ma chi sa di quelle che deono avvenire? Da un’ora a un’altra si volgono gli animi, da diversi intendimenti essendo tentati! Niuno rimedio è qui se non levare ogni cagione per la quale Biancifiore dal mio amore si potesse mutare, acciò che niuno effetto segua. Io tornerò, a dispetto del mio padre, in Marmorina, e solliciterò con i miei propii occhi il cuore di Biancifiore, e quindi la fuggirò in parte ov’io sanza paura d’alcuno potrò dimorare con lei. Se il mio padre della mia tornata si mostrasse dolente, e a Fileno farò levare la vita, o egli abandonerà i nostri paesi. Niuna cosa ci lascerò a fare, acciò che colei sia sola mia, di cui io solo sono e sarò sempre". E con questi pensieri, lasciati gli amorosi, il più del tempo dimorava, cercando, con amara sollecitudine, parte di quelli fuggire e parte metterne in effetto sanza alcuno indugio.
- O amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa e piena di sollecitudine, chi potrebbe o credere o pensare che la tua dolce radice producesse sì amaro frutto come è gelosia? Certo niuno, se egli nol provasse. Ma essa ferocissima, così come l’ellera gli olmi cinge, così ogni tua potenza ha circundata, e intorno a quella è sì radicata che impossibile sarebbe oramai a sentire te sanza lei. O nobilissimo signore, questa è a’ tuoi atti tutta contraria. Tu le tue fiamme mostri nell’altissimo e chiaro monte Citerea, costei sopra i freddi colli d’Appennino impigrisce nelle oscure grotte. Tu levi gli animi alle altissime cose, e costei gli declina e affonda alle più vili. Tu i cuori che prendi tieni in continua festa e gioia, costei di quelli ogni allegrezza caccia e con subito furore vi mette malinconia. Essa fa cercare i solinghi luoghi, e con aguto intelletto mai non sa che si sia altro che pensare. Ad essa pare che le spedite vie dell’aere sieno piene d’agguati per prendere ciò che essa disidera di ben guardare. Niuno atto è che ella non dubiti che con falso intendimento sia fatto; niuna fede è in lei, niuna credenza: sempre crede essere tentata. E sì come tu di pace se’ veracissimo ordinatore, così questa con armata mano sempre apparecchia inimicizie e guerre. Ella, magrissima, scolorita nel viso, d’oscuri vestimenti vestita, igualmente ogni persona con bieco occhio riguarda: e tu, piacevolissimo nell’aspetto, con lieto viso visiti i tuoi suggetti. Ella non sente mai né primavera, né state, né autunno: tutto l’anno igualmente dimora per lei il sole in Capricorno, e quanto più di scaldarsi cerca più ne’ sembianti trema. Ora, quanto è contraria la vostra natura! Ella si diletta d’essere sanza alcuna luce, e tu ne’ luminosi luoghi adoperi i santi dardi. Ella con teco quasi d’un principio nata, di tutti i tuoi beni è guastatrice. E le più fiate avviene che di quella infermità onde ella ha maggior paura, di quella è più spesso assalita e oppressa infino alla morte. Oltre a’ miseri miserissimo si può dire colui che seco l’accoglie in compagnia.
- Florio s’apparecchia con diliberato animo di nuocere a Fileno: la qual cosa la santa dea conosce degli alti regni. E mossa a compassione di Fileno, così nel segreto petto cominciò a dire: "Che colpa ha Fileno commessa per la quale egli meriti morte o oltraggio da Florio? Niuna: non merita morte alcuno, perché egli ami quello che piace agli occhi suoi. Cessi questo, che per cagione di noi il giovane cavaliere sia offeso". E detto questo la seconda volta discese del cielo e cercò le case del Sonno riposatore, nascose sotto gli oscuri nuvoli, le quali in lontanissime parti stanno rimote, in una spelonca d’un cavato monte, nella quale Febo con i suoi raggi in niuna maniera può passare. Quel luogo non conosce quand’egli sopra l’orizonte venendo ne reca chiaro giorno, né quand’egli, avendo mezzo il suo corso fatto, ci riguarda con più diritto occhio, né similemente quand’egli cerca l’occaso: quivi solamente la notte puote, e il terreno da sé vi produce nebbie piene d’oscurità o di dubbiosa luce. E davanti alle porti della casa fioriscono gli umidi papaveri copiosamente, e erbe sanza numero, i sughi delle quali aiutano la potenza del signore di quel luogo. Dintorno alle oscure case corre un picciolo fiumicello chiamato Letè, il quale esce d’una dura pietra, che col suo corso faccendo commuovere le picciole pietre, fa un dolce mormorio, il quale invita i sonni. In quel luogo non s’odono i dolci canti della dolente Filomena, i quali forse potessero mettere ne’ petti acconci al riposo alcuna sollecitudine con la sua dolcezza. Quivi non fiere, non pecore né altri animali. Quivi Eolo nulla potenza ha: ogni fronda si riposa. Mutola quiete possiede il luogo, al quale niuna porta si truova, non forse serrando e disserrando potesse fare alcuno romore. Alcuno guardiano non v’è posto, né cane alcuno v’è, il quale latrando potesse turbare i quieti riposi. Quivi non è alcun gallo il quale cantando annunzi l’aurora; né alcuna oca vi si truova che i cheti andamenti possa con alta voce far manifesti. E nel mezzo della gran casa dimora un bellissimo letto di piuma, tutto coperto di neri drappi, sopra ’l quale si riposa il grazioso re co’ dissoluti membri oppressi dalla soavità del sonno. Appresso del quale un poco, giacciono i vani sogni di tante maniere e sì diversi, quante sono l’arene del mare o le stelle di che il nido di Leda s’adorna. Nella qual casa la dea entrò, continuo le mani menandosi davanti al viso e cacciando i sonni da’ santi occhi: e il candido vestimento della vergine diede luce nella santa casa. Nella venuta della quale, appena il re levò i pesanti occhi, e più volte la grave testa inchinando col mento si percosse il petto, e, rivolto più volte sopra il ricco letto, con ramarichevoli mormorii alquanto si pur destò. E appena levatosi sopra il gomito, domandò quello che la dea cercava. A cui ella così disse: - O Sonno piacevolissimo riposo di tutte le cose, pace dell’animo fuggitore di sollecitudine, mitigatore delle fatiche e sovenitore degli affanni, igualissimo donatore de’ tuoi beni, se a te è caro che Cinzia si possa con gli altri dei, a te e a me igualmente consorti, di te laudare comanda che Fileno, innocente giovane, ne’ suoi sonni conosca l’apparecchiate insidie contro di lui, acciò che conosciutole, da quelle guardare si possa -. E questo detto, per quella via onde era venuta, appena da sé potendo sonno cacciare, se ne tornò.
- Svegliò l’antico iddio gl’infiniti figliuoli, de’ quali alcuni in uomini, altri in fiere, e quali in serpenti, e chi in terra, e tali in acqua, e alcuni in trave e in sassi, e in tutte quelle forme le quali negli umani animi possono vaneggiare, v’avea di quelli che si trasformavano: tra’ quali poi che egli ebbe eletti quelli che a tali bisogni gli pareano sofficienti, appena destati, gli ammaestrò che essi dovessero i comandamenti della santa dea adempiere sanza alcuno indugio. A’ quali essi disposti, sanza più stare, del luogo si partirono per adempierlo.
- Mentre che i fati le cose sinistre così per Fileno trattavano, Fileno di tutte ignorante si stava pensando alla bellezza di Biancifiore, con sommo disio disiderando quella, quando subito sonno l’assalì, e, gli occhi gravati, sopra il suo letto riposandosi s’adormentò. Al quale sanza alcuno dimoro furono presenti i ministri del pregato iddio adoperando ciascuno i suoi ufici: e parvegli nel sonno subitamente essere in un bellissimo prato tutto soletto, e rimirare il cielo, lodando le sue bellezze, e adequando quelle di Biancifiore alla chiarità delle stelle che in quello vedea. E così stando, subitamente uno di quelli uficiali in forma d’un caro suo amico gli parve che gli apparisse piangendo e correndo verso lui, e dicessegli: - O Fileno, che fai tu qui? Fuggiti, ch’io ti so dire che l’amore che tu hai portato a Biancifiore t’ha acquistata morte. Tu non potrai essere fuori di questo prato, che Florio armato con molti compagni ci saranno suso, cercando di levarti la vita. Fuggi di qui, o caro amico, sanza niuno indugio. Non volere che io di tal compagno, quale io ti tengo, rimanga orbato -. E ancora non parea che questi avesse compiuto di parlare, che già dall’una delle parti del prato si sentiva il romore delle sonanti armi degli armati, i quali a Fileno pareva, come detto gli era stato, che venissero. Allora pareva a Fileno levarsi tutto smarrito, e non sapere qual via per la sua salute si dovesse tenere; anzi gli pareva che le gambe gli fossero fallite, né di quel luogo potesse partire. Dove stando in picciolo spazio gli pareva vedersi dintorno Florio con molti altri armati, e con grandissimo romore gridare: - Muoia il traditore! -, dirizzando verso lui gli aguti ferri sanza alcuna pietà ingegnandosi di ferirlo. A’ quali elli dicea: - O giovani, se niuna pietà è in voi rimasa piacciavi che Fileno possa fuggendo la vita campare. Voi sapete che per amore io non meritai morte -. Non erano le sue parole udite, ma più aspramente e con maggiore romore gli parea ognora essere assalito, e parevagli essere in tante parti del corpo forato che potere campare non gli parea. Ma quelli ancora di ciò non contenti uscendo uno di loro gli parea che la testa gli volesse levare dal busto e presentarla a Florio. Allora sì gran dolore e paura gli strinse il cuore, che per forza convenne che il sonno si rompesse, e quasi tutto spaventato si rizzò in piè, rimirando dov’egli era, e con le mani cercando de’ colpi che gli parea avere ricevuti; e rimirando il suo letto, il quale imaginava dovere essere tutto tinto del suo sangue, e quello vide bagnato di vere lagrime. Ma poi ch’egli si vide essere stato ingannato dal sonno partita la paura, pieno di maraviglia rimase, non sappiendo che ciò si volesse dire, e dubitando forte si mise a cercare del caro amico che nel sonno avea veduto. Il quale trovato, a lui brievemente ciò che dormendo avea veduto, gli narrò; di che l’amico maravigliandosi così gli disse:
- - Caro amico e compagno, ora non dubito io che gl’iddii con molta sollecitudine intendano a’ beni della umana gente. Certo tu mi fai sanza fine maravigliare di ciò che tu mi racconti, però che poco avanti io tornai da Montoro, e ivi da cara persona e degna di fede udii essere da Florio la tua morte disiderata e ordinata in qualunque maniera più brievemente potesse. E domandando io della cagione, mi rispose che ciò avviene per lo velo il quale da Biancifiore ricevesti, la quale Biancifiore egli più che alcuna cosa del mondo ama; e per questo è di te in tanta gelosia entrato, che se egli vedesse che Biancifiore con le propie mani ti traesse il cuore, forte gli sarebbe a credere che ella ti potesse se non amare. E adunque, acciò che questo amore cessi, egli cerca d’ucciderti: però per lo mio consiglio tu al presente lascerai il paese, e pellegrinando per le strane parti, te della tua salute farai guardiano. Tu puoi manifestamente conoscere te non essere possente a resistere al suo furore: dunque anzi tempo non volere perire, ma la tua giovane età ti conforti di poter pervenire a miglior fine che il principio non ti mostra. La fortuna ha subiti mutamenti, e avviene alcuna volta che quando l’uomo crede bene essere nella profondità delle miserie, allora subito si ritrova nelle maggiori prosperità -. A cui Fileno piangendo così rispose: - Oimè, or che farà Florio ad uno che l’abbia in odio, se a me che l’amo ha pensata la morte? - A cui quelli rispose: - Amerallo! Le leggi d’amore sono variate da quelle della natura in molte cose: in tale atto niuno volentieri vuole compagno. Né per te fa di cercare gli altrui pensieri, ma pensare del tuo bene. Posto che Florio similmente volesse uccidere uno che odiasse Biancifiore, se’ tu però fuori del pericolo? Certo no: dunque pensa alla tua salute -. - Oimè! - disse Fileno - dunque lascerò io Marmorina e la vista di Biancifiore? -. - Sì - gli rispose quelli, - per lo tuo migliore -. Disse Fileno: - Certo io non conosco che vantaggio qui eleggere si possa se solo una volta si muore. Buono è il vivere, ma meglio è tosto morire che vivendo languire, e cercare la morte, e non poterla avere -. - Non è - disse l’amico - a chi vive sperando nella potenza degl’iddii, come avanti ti dissi, però che le future cose ci sono occulte. E in qualunque modo si vive è migliore che il morire. Ogni cosa perduta, volendo l’uomo valorosamente operare, si può ricuperare, ma la vita no: però ciascuno dee essere di quella buono guardiano -. - Certo - disse Fileno - a chi può prendere speranza, e sperando aspettare, non dubito che di guardare la sua vita egli non faccia il migliore, che volere per un subito dolore morire. Ma come posso io così fare, che non tanto partendomi, ma solamente pensando ch’io mi deggia partire dalla vista del bel viso di Biancifiore, mi sento ogni spirito combattere nel cuore e domandare la morte, e l’anima, che sente questa doglia e questa tempesta, si vuol partire? -. A cui colui rispose: - Non sono cotesti i pensieri necessarii a te, però che a coloro che in simile caso sono che se’ tu, conviene che facciano della necessità diletto. Tu vedi che tu se’ costretto di partire: non imaginare di prendere etterno essilio, ma imagina che per comandamento di Biancifiore, per cui non ti sarebbe grave il morire, se avvenisse ch’ella tel comandasse, tu sii mandato in parte onde tu tosto tornerai. Questa imaginazione t’aiuterà e faratti più possente a sostenere gli affanni della partita infino a tanto che tu poi, ausato, li sappia sostenere sanza tanta noia -. A cui Fileno disse: - Questo che tu mi di’ m’è impossibile, però che il sollecito amore non mi lascia durare tale pensiero nel cuore, ma qualora più mi vi dispongo, allora più con i suoi m’assalisce: e chi è colui che possa la sua coscienza ingannare? -. Disse quelli: - I pensieri d’amore non ti assaliranno, quando alcuna volta resistendo cacciati gli avrai da te, e la coscienza, posto che interamente ingannare non si possa, almeno l’uomo la può fare agevole sostenitrice di quello ch’e’ vuole, con un lungo e continuo perseverare sopra un pensiero -. - Certo questo vorrei io bene - disse Fileno. - Dunque potrai tu - gli fu risposto. Allora disse Fileno: - Ecco ch’io mi dispongo al pellegrinare per lo tuo consiglio -. - Sì - disse quelli, - e io in tua compagnia, se a te piace -. A cui Fileno disse: - No, io amo meglio dolermi solo, che menare te sanza consolazione -. A cui quelli rispose: - Caro amico, ove che tu vadi, le tue lagrime mi bagneranno sempre il cuore, il quale mai sanza compassione di te non sarà: però lasciami avanti venire, acciò che tu, avendo la mia compagnia, abbi cagione di meno dolerti -. Disse Fileno: - Amico, a me piace più che tu rimanghi, acciò che almeno, veggendoti, Biancifiore si ricordi di me e dello essilio ch’io ho per lei. E se accidente avvenisse per lo quale mi fosse licito il tornare, voglio che tu sollecito rimanghi a mandare per me, dove che i fortunosi casi m’abbiano mandato -. A cui quelli disse: - Così, come a te piace, sarà fatto -. Fileno allora si partì da lui, e, ritornato alla sua casa, così cominciò piangendo a dolersi fra se medesimo:
- "O misero Fileno, piangi, però che la fortuna t’è più avversa che ad alcuno. Sogliono gli altri, per odiare o per male operare, lasciare li loro paesi, o tal volta morire; ma a te per amore conviene che tu vada in essilio. Or che vita sarà la tua? Sarà dolente; ma certo io non la voglio lieta. Io conosco Biancifiore turbata, e scoprirmi il falso amore, mostrando nel viso d’avermi per adietro ingannato. Io mi fuggirò del suo cospetto, e fuggendomi piacerò a Florio e a lei, l’amore de’ quali m’era occulto quando m’innamorai. Il velo da lei ricevuto sarà sola mia consolazione e della mia miseria". E, questo in se medesimo diliberato, volontario essilio, seguendo il consiglio del suo amico, prese occultamente.
- Quando Apollo ebbe i suoi raggi nascosi, e l’ottava spera fu d’infiniti lumi ripiena, Fileno con sollecito passo piglia la sconsolata fuga. Egli nella dubbiosa mente, uscito di Marmorina, non sa essaminare qual cammino sia più sicuro alla sua salute, ma del tutto abandonato a’ fati, piangendo pone le redine sopra il portante cavallo, e piangendo abandona le mura di Marmorina, con gli occhi rimirando quelle infino che licito gli è. Ma poi che l’andante cavallo lui carico di pensieri ebbe tanto avanti trasportato, che più non gli fu licito di vedere la sua città, egli con più lagrime incominciò ad intendere al suo cammino. E primieramente veduto l’uno e l’altro lito di Bacchiglione, pervenne alle mura costrutte per adietro dall’antico Antenore, e in quelle vide il luogo ove il vecchio corpo con giusto epitafio si riposava. Ma di quindi passando avanti, in poche ore pervenne alle sedie del già detto Antenore, poste nelle salate onde, nell’ultimo seno del mare Adriano: e in quel luogo non sicuro, salito in picciolo legno ricercò la terra. E pervenuto all’antichissima città di Ravenna, su per lo Po con le dorate arene se ne venne alla città posta per adietro da Manto ne’ solinghi paduli. Ma quivi sentendosi più vicino a quello che egli più fuggiva, dimorò poco, e salito su per li colli del monte Appennino, e di quelli declinando, scese al piano, pigliando il cammino verso le montagne, fra le quali il Mugnone rubesto discende. E quivi pervenuto, vide l’antico monte onde Dardano e Siculo primieramente da Italo, loro fratello, si dipartirono pellegrinando; e poco avanti da sé vide le ceneri rimase d’Attila flagello dopo lo scelerato scempio fatto de’ pochi nobili cittadini della città edificata sopra le reliquie del valoroso consolo Fiorino, quivi dagli agguati di Catellino miserabilmente ucciso. Alle quali avuta compassione, si partì, e sanza tenere diritto cammino errando pervenne a Chiusi, ove già Porsenna, secondo che gli fu detto, avea il suo regno con forze costretto ad ubidirsi. Né troppo lungamente andò avanti ch’egli vide il cavato monte d’Aventino, nel quale Cacco nascose le ’mbolate vacche ad Ercule, strascinate nelle cave di quello per la coda. Ma dopo lungo affanno pervenne nella eccellentissima città di Roma, ove egli d’ammirazione più volte ripieno fu, veggendo le magnifiche cose, inestimabili ad ogni alto intelletto sanza vederle: e in quella vide il Tevero, a cui gl’iddii concederono innumerabili grazie. Egli vide l’antiche mura d’Alba, e ciò che era notabile nel paese. Ma quivi non fermandosi, volgendo i suoi passi al mezzo giorno, si lasciò dietro le grandissime Alpi e i monti i quali aspettavano l’oscurissima distruzione del nobile sangue d’Aquilone, e pervenne a Gaieta, etterna memoria della cara balia di Enea. E di quella pervenne per le salate onde a Pozzuolo, avendo prima vedute l’antiche Baie e le sue tiepide onde, quivi per sovenimento degli umani corpi poste dagl’iddii. E in quel luogo vedute l’abitazioni della cumana Sibilla, se ne venne in Partenope, né quivi ancora fermato, cercò i campi de’ Sanniti, e vide la loro città. Donde partitosi, volgendo i passi suoi, vide l’antica terra Capo di Campagna posta da Capis, e, quindi partendosi, pervenne fra li salvatichi e freddi monti d’Abruzzi, fra’ quali trovò Sulmona, riposta patria del nobilissimo poeta Ovidio. Nella quale entrando, così cominciò a dire: - O città graziosa a ciascuna nazione per lo tuo cittadino, come poté in te nascere o nutricarsi uomo, in cui tanta amorosa fiamma vivesse quanta visse in Ovidio, con ciò sia cosa che tu freddissima e circundata da fredde montagne sii? -; e questo detto, reverente per lo mezzo di quella trapassò. E continuando i lamentevoli passi, si trovò a Perugia, dalla quale partitosi, de’ cammini ignorante, pervenne alle vene ad Onci, onde le chiarissime onde dell’Elsa vide uscire e cominciare nuovo fiume. Dopo le quali discendendo, venne infino a quel luogo ove l’Agliene, nata nelle grotte di Semifonti, in quella mescola le sue acque e perde nome. Quindi mirandosi dintorno, vide un bellissimo piano, per lo quale volto a man destra, faccendo dell’onde dell’Agliene sua guida, non molto lontano al fiume andò, ch’egli vide un picciolo monticello levato sopra il piano, nel quale uno altissimo e vecchio cerreto era. E in quello mai alcuna scure non era stata adoperata, né da’ circustanti per alcun tempo cercato, fuori che da’ loro antichi nell’antico errore delli non conosciuti iddii, i quali in sì fatti luoghi soleano adorare. In quello entrò Fileno, e non trovandovi via né sentiero, ma tutto da vecchie radici o da grandissimi roghi occupato con grandissimo affanno infino alla sommità del picciolo monticello salì. Quivi trovò un tempio antichissimo, nel quale salvatiche piante erano cresciute, e le mura tutte rivestite di verde ellera. Né già per antichità erano guaste le imagini de’ bugiardi iddii, rimase in quello quando il figliuolo di Giove recò di cielo in terra le novelle armi, con le quali il vivere etterno s’acquista. E era davanti a quello un picciolo prato di giovanetta erba coperto, assai piacevole a rispetto dell’altro luogo. Quivi fermato Fileno stette per lungo spazio; e rimiratosi dintorno e pensato lungamente, s’imaginò di volere quivi finire la sua fuga, e in quello luogo sanza tema d’essere udito piangere i suoi infortunii, e se altro accidente non gli avvenisse, quivi propose di volere l’ultimo dì segnare. E dopo lunga essaminazione, vedendo il luogo molto solitario, si pose a sedere davanti al tempio e quivi nutricandosi di radici d’erbe, e bevendo de’ liquori di quelle, stette tanto che agl’iddii prese pietà della sua miseria, sempre piangendo, e ne’ suoi pianti con lamentosa voce le più volte così dicendo:
- - O impiissima acerbità dell’umane menti, che commisi io ch’io etterno essilio meritassi della piacevole Marmorina? Niuno fallo commisi: amai e amo. Se questo merita essilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò che gli odii meritino guiderdone. Se io forse amando ad alcuno dispiacea, non con morte mi dovea seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverà da Florio chi odierà Biancifiore? Non so ch’elli gli si possa fare, se a quello che a me ha fatto vorrà con iguale animo pensare. Ahi, Fisistrato, degno d’etterna memoria per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti rispondere: "Che farem noi a’ nostri nimici, se colui che ci ama è per noi tormentato?": tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti, conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possi tu con pietosa fama sempre ne’ cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga i miei amori, che fosse il pianto del crudele artefice, che a Falaris presentò il bue di rame, al quale prima convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io medesimo accesi il fuoco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de’ lacci ne’ quali io son caduto. Chi mi costringea di narrare a Florio i miei accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece fallire: e però niuno savio piagne, perché il senno leva le cagioni. Ma posto che io pur per ignoranza fallissi, eragli così gravoso a vietarmi che io più avanti non amassi? Certo io non mi sarei però potuto poi tenere di non amare, ma nondimeno per la disubidienza a lui, cui io singulare signore tenea, avrei meritato essilio o greve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non amassi, anzi là ov’io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole giustizia partita delli umani animi, perché del cielo non provedi tu alle iniquità? Deh, misero a me!, non ho io per la sfrenata crudeltà di Florio perduta la debita pietà del vecchio padre e della benigna madre? Certo sì ho. Io gli ho lasciati per lo mio essilio pieni d’etterne lagrime. Non ho io perduta la graziosa fama del mio valore? Sì ho. Quanti uomini, ignoranti qual sia la cagione del mio essilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nimici creano le sconce novelle dove elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere. La iniquità da se medesima si spande più che la gramigna per li grassi prati. Non sono io per lo mio tristo essilio divenuto povero pellegrino? Non ho io perduta gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sì. Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io porto a Biancifiore, non è mancato. Più che mai l’amo: niuna pena, niuno affanno, né alcuno accidente me la potrà mai trarre del cuore. E certo se egli mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, come io vidi già, tutte queste cose mi parrebbero leggieri a sostenere. Il non poterla vedere m’è sola gravezza, questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co’ suoi begli occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io vo fuggendo per lei. Se l’amore di lei avessi, non che il fuggire ma il morire mi sarebbe soave! Ma poi che l’amore non puoi di lei avere, e il poterla vedere t’è tolto, piangi, misero Fileno, e dà pena agli occhi tuoi, i quali stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. Oimè misero, io non so da che parte io mi cominci più a dolere, tante e tali cose m’offendono! Ma tra l’altre, tu, o crudelissimo signore non figliuolo di Citerea, ma più tosto nimico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di biasimarti. Tu, giovanissimo fanciullo, con piacevole dolcezza pigli gli stolti animi degli ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati pensieri, fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de’ miseri, che tua signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti credono e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi de’ valorosi signori declini a sottomettersi alla volontà d’una picciola feminella. Tu la bellezza d’un giovane, maestrevole ornamento della natura, con fallace disiderio leghi al volere d’un turpissimo viso, con diverse maculei adornato oltre al dovere, d’una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione è con iguale animo fatta, anzi sogliono i miseri, ne’ tuoi lacci aviluppati, prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d’animo riguarda, ma solamente il libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime laude, ma con degno vituperio te e sé vituperano. Ma che giova tanto parlare? Tu se’ d’età giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo, non dei poter porgere speranza di rivestire. Le tue ali mostrano la tua mobilità, né m’è della memoria uscito averti in alcune parti veduto privato della vista: dunque, come di dietro alla guida d’un cieco si può fare diritto cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de’ necessarii beni, e empili di sollecitudine di vana speranza. Tu gli fai divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, e essi, miseri e di questo ignoranti assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno beffe, né sanno quello che fanno. Tardi conosco i tuoi effetti, ma certo, mentre ignorante di quelli fui, niuno suggetto avesti che più fede di me ti portasse, né che più la tua potenza essaltasse: e ancora in quella semplicità ritornerei, se benigno mi volessi essere, come già fosti a molti. Oimè misero, che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa così incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua madre levai il caro Adone, né scopersi i suoi diletti i quali con Marte prendea, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contro a te, perché tu mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quel che fai, mi tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun sentimento, in quanto mai non cerchi d’essere se non in luogo a te simigliante, avvegna che questa discrezione più tosto alla natura che a te si dovrebbe attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne’ vani occhi delle scimunite femine, le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il potersi far beffe de’ tristi sanza niuno affanno d’esse: delle quali, schiera di perfidissima iniquità piene, non posso tenermi ch’io non ne dica ciò che dentro ne sento.
- Voi, o sfrenata moltitudine di femine, siete dell’umana generazione naturale fatica, e dell’uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può contentare destatrici de’ pericoli, commettitrici de’ mali. In voi niuna fermezza si truova: e, brievemente, voi e ’l diavolo credo che siate una cosa! E che ciò sia vero, davanti a noi infiniti essempli a fortificare il mio parlare se ne truovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare si troverà la prima madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a’ discendenti d’etterno essilio de’ superiori reami. E questo malvagio principio in tanto male crebbe, che la prima età nello allagato mondo tutta perì, fuori che Deucalion e Pirra, a cui rimase la fatica di restaurare le perdute creature. Ma posto che la quantità delle femine mancasse, la vostra malvagità nella poca quantità non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli annegati, quando colei che l’antica Bambillonia cinse di fortissime e alte mura, presa da libidinosa volontà, col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda del suo fallo la scelerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina avrebbe potuta sì scelerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non s’ingegnasse di pentere, ma s’argomentasse d’inducervi i suggetti? Ma ancora che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu più vituperevole quello che Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento città, non sostenne d’aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu ciascuno de’ detti falli sceleratissimo, ma nullo fu sì crudelmente fatto quanto quello che Clitemestra miseramente commise: la quale, non guardando alla debita pietà del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per mare di Nettunno, ma presa del piacere d’un sacerdote, rimaso ozioso ne’ suoi paesi, consentì che, porto ad Agamenone il non perfetto vestimento, e in quello vedendolo avviluppato, Egisto miserabilemente l’uccidesse, acciò che poi sanza alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanta fu ancora la lascivia di Elena, la quale, abandonando il propio marito, e conoscendo ciò che dovea della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto l’armi che ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa etternalmente dire Troia essere strutta e i Greci morti crudelmente! Quanta acerbità e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne, ucciditrice del propio figliuolo per far dispetto al marito! E Medea simigliantemente! E in cui si trovò mai tanto tracutato amore quanto in Mirra, la quale con sottili ingegni adoperò tanto che col propio padre più fiate si giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto fallo, e la lussuriosa Cleopatra d’adoperarlo. E ancora la madre d’Almeon per picciolo dono non consentì il mortale pericolo d’Anfirao suo marito? E qual diabolico spirito avrebbe potuto pensare quello che fece Fedra, la quale non potendo avere recato Ipolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima voce gridando e stracciandosi i vestimenti e’ capelli e ’l viso, disse sé essere voluta isforzare da lui e, lui preso, consentì che dal propio padre fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltà fu quella delle femine di Lenno, che, essendo degnamente suggette degli uomini, per divenire donne, quelli nella tacita notte con armata mano tutti diedero alla morte? E simile crudeltà nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutte i novelli sposi la prima notte uccisero fuori che Ipermestra. Oimè, ch’io non sono possente a dire ciò che io sento di voi! Ma sanza dire più avanti, quanti e quali essempli son questi della vostra malvagità? O femine, innumerabile popolo di pessime creature, in voi non virtù, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine d’ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, fra tanta moltitudine una sola buona non trovarsene. Niuna fede, niuna verità è in voi. Le vostre parole sono piene di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diversi atti ad inretire i miseri, acciò che poi, liete d’avere ingannato, cioè fatto quello a che la vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dello etterno nimico dell’umana generazione: là ov’egli non può vincere co’ suoi assalti, e egli incontanente a’ pensati mali pone una di voi, acciò che ’l suo intendimento non gli venga fallito. Guai etterni puote dire colui, che nelle vostre mani incappa, non gli fallino. Misera la vita mia, che incappato ci sono! Niuna consolazione sarà mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io più tosto angelica figura che umana creatura riputava, con falso riguardamento m’abbia legato il cuore con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta de’ miei mali. Ma certo la miserabile fortuna che abassato per li vostri inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge anzi s’ingegna con continua sollecitudine di mandarmi più giù che la più infima parte della sua rota, se far lo potesse, e quivi col calcio sopra la gola mi tiene, né possibile m’è lasciare il doloroso luogo -.
- Era il pianto e la voce di Fileno sì grande, però che in luogo molto rimoto gli parea essere da non dovere potere essere udito, che un giovane il quale a piè del salvatico monticello passava, sentì quello, e avendovi grandissima compassione, per grande spazio stette ad ascoltare, notando le vere parole di Fileno; ma poi volonteroso di vedere chi sì dolorosamente piangesse, seguendo la dolente voce, si mise per lo inviluppato bosco, e con grandissimo affanno pervenne al luogo ove Fileno piangendo dimorava. Il quale egli nel primo avvento rimirando appena credette uomo, ma poi che egli l’ebbe raffigurato, il vide nel viso divenuto bruno, e gli occhi, rientrati in dentro, appena si vedeano. Ciascuno osso pingeva in fuori la ragrinzata pelle, e i capelli con disordinato rabuffamento occupavano parte del dolente viso, e similmente la barba grande era divenuta rigida e attorta, i vestimenti suoi sordidi e brutti: egli era divenuto quale divenne il misero Erisitone, quando sé, per sé nutricare, cominciò a mangiare. Nullo che veduto l’avesse ne’ tempi della sua prosperità, l’avrebbe per Fileno riconosciuto. Ma poi che il giovane l’ebbe assai riguardato, così gli disse: - O dolente uomo, gl’iddii ti rendano il perduto conforto. Certo il tuo abito e le tue lagrime con le tue voci m’hanno mosso ad avere compassione di te; ma se gl’iddii i tuoi disiderii adempiano, dimmi la cagione del tuo dolore: forse non sanza tuo bene la mi dirai; e ancora mi dì, se ti piace, perché sì solingo luogo hai per poterti dolere eletto -. Maravigliossi Fileno del giovane quando parlare l’udì, e voltatosi verso lui, non dimenticata la preterita cortesia, così gli rispose: - Io non spero già che gl’iddii mi rendano quello che essi m’hanno tolto, perché io i tuoi prieghi adempia: ma però che la dolcezza delle tue parole mi spronano, mi moverò a contentarti del tuo disio. E primieramente ti sia manifesto che per amore io sono concio come tu vedi -; e, appresso questo, tutto ciò che avvenuto gli era particularmente gli narrò. Dopo le quali parole, ancora gli disse: - La cagione per che in sì fatto luogo io sono venuto, è che io voglio sanza impedimento potere piangere. E, appresso, io non voglio essere a’ viventi essemplo d’infinito dolore, ma voglio che infra questi alberi la mia doglia meco si rimanga -. Udito questo, il giovane non poté ritenere le lagrime, ma con lui incominciò dirottamente a piangere, e disse: - Certo la tua effigie e le tue voci mostrano bene che così ti dolga, come tu parli; ma, al mio parere, questa doglia non dovria essere sanza conforto, con ciò sia cosa che persone, che molto l’hanno avuto maggiore che tu non hai, si sono confortate e confortansi -. Disse allora Fileno: - Questo non potrebbe essere: chi è colui che maggior dolore abbia sentito di me? -. - Certo - disse il giovane, - io sono -. - E come? - disse Fileno. A cui il giovane disse: - Io il ti dirò. Non molto lontano di qui, avvegna che vicina sia più assai quella parte alla città di colui i cui ammaestramenti io seguii, e dove tu non molto tempo ci fosti sì come tu di’, era una gentil donna, la quale io sopra tutte le cose del mondo amai e amo: e di lei mi concedette Amore, per lo mio buon servire, ciò che l’amoroso disio cercava. E in questo diletto stetti non lungo tempo, ché la fortuna mi volse in veleno la passata dolcezza, che quando io mi credea più avere la sua benivolenza, e avere acquistato con diverse maniere il suo amore, e io con li miei occhi vidi questa me per un altro avere abandonato, e conobbi manifestamente che ella lungamente con false parole m’avea ingannato, faccendomi vedere che io era solo colui che il suo amore avea. La qual cosa come mi si manifestò, niuno credo che mai simile doglia sentisse com’io sentii: e veramente per quella credetti morire; ma l’utile consiglio della ragione mi rendé alcun conforto, per lo quale io ancora vivo in quello essere che tu mi vedi, ricoprendo il mio dolore con infinta allegrezza. Le cose sono da amare ciascuna secondo la sua natura: quale sarà colui sì poco savio che ami la velenosa cicuta per trarne dolce sugo? Molto meno ha savio colui che una femina amerà con isperanza d’essere solo amato da lei lunga stagione: la loro natura è mobile. Qual uomo sarà che possa ammendare ciò che gl’iddii o li superiori corpi hanno fatto? E però sì come cosa mobile sono da amare, acciò che de’ loro movimenti gli amanti, sì come esse, si possano ridere: e se elle mutano uno per un altro, quelli possa un’altra in luogo di quella mutare. Niuno si dorrà seguendo questo consiglio. Tu, non avendolo seguito, ora per niente piangi: con ciò sia cosa che tu niente abbia perduto, di che ti duoli tu? Sì come tu di’, niente possedesti: e chi non possiede non può perdere; e chi non perde, di che si lamenta? Credesti alcuna volta, per alcuno sguardo fatto a te da quella giovane cui tu ami, che ella t’amasse: hai conosciuto che quello era bugiardo, e che ella non t’ama. Certo di questo ti dovresti tu rallegrare e rendere infinite grazie agl’iddii, che t’hanno aperti gli occhi avanti che tu in maggiore inganno cadessi. Se forse dello essilio che hai piangi, non fai il migliore: ché, pensando al vero, niuno essilio si può avere, con ciò sia cosa che il mondo sia una sola città a tutti. Ove che la fortuna ponga altrui, ella nol può cacciare di quello. In ciascun luogo giunge altrui la morte con finale morso. A’ virtuosi ogni paese è il loro. Lascia questi pianti e leva su, vienne con meco, e virtuosamente pensa di vivere, e metti in oblio la malvagità di quella giovane che a questo partito t’ha condotto: che de’ cieli possa fuoco discendere che igualmente tutte le levi di terra! -. A cui Fileno disse: - Giovane, ben credo che il tuo dolore fu grande, e similmente il tuo animo, poi che con pazienza il poté sostenere; ma io mi sento troppo minore l’animo che la doglia, e però invano ci si balestrano confortevoli parole. Io sono disposto a piangere mentre io vivrò: gl’iddii per me del tuo buon volere ti meritino. Io ti priego per quello amore che tu già più fervente portasti alla tua donna, che non ti sia noia il partirti e ’l lasciarmi con continue lagrime sfogare il mio dolore -. - G l’iddii te ne traggano tosto di cotale vita - disse il giovane. E partitosi da lui, se ne tornò per quella via onde venuto era.
- Partito il giovane, Fileno ricominciò il doloroso pianto; e increscendogli della sua vita, con dolenti voci incominciò a chiamare la morte così: - O ultimo termine de’ dolori, infallibile avvenimento di ciascuna creatura, tristizia de’ felici e disiderio de’ miseri, angosciosa morte, vieni a me! Vieni a colui a cui il vivere è più noioso che il tuo colpo, vieni a colui che graziosa ti riputerà! Deh, vieni, ché il tristo cuore ti chiede! Oimè, ch’io non posso con la debole voce esprimere quanto io ti disidero. Poi che un solo colpo dei tuoi debbo ricevere, piacciati di concederlo sanza più indugio. Non sia l’arco tuo più cortese a me che al valoroso Ettore o ad Achille. Io tengo in villania il lungo perdono che da lui ho ricevuto. I doni disiderati, tosto donati, doppiamente sono graditi: concedi questo a me che tanto disiderata t’ho, e che con così dolente voce ti chiamo. Oimè, come sono radi coloro che con volonteroso animo ti ricevono, come ti riceverò io! Dunque, perché non vieni? Non consentire che disiderandoti, come io fo, io languisca più. Io non ricuserò in niuna maniera la tua venuta. Vieni come tu vuoi, solo ch’io muoia. Io non fuggirei ora gli aguti ferri, né le taglienti spade com’io feci già; l’agute sanne de’ fieri leoni non mi dorrebbeno, né di qualunque altra fiera dilacerante il mio corpo: dunque vieni. O rapaci lupi, o ferocissimi orsi, se alcuni nel dolente bosco, bramosi di preda, dimorate, venite a me, facciasi il mio corpo vostro pasto: adempiete quel disio che altri adempiere non mi vuole. Oimè, perisca il tristo corpo, poi che perita è la speranza, cerchi la dolente anima i regni atti al suo dolore e vada con la sua pena alle misere ombre di Dite, ove forte sarà che maggior pena che ella al presente sostiene, vi truovi. O iddii abitatori de’ celestiali regni, se alcuno mai in questo luogo ricevette onore di sacrificio dolgavi di me. O driade, abitatrice di questi luoghi, fate che la misera vita mi fugga. O infernali iddii, rapite del mio misero corpo la vostra anima. Cessi che io più me e voi stimoli con le mie voci -. E così piangendo e gridando, tutto delle propie lagrime si bagnava, baciando sovente il candido velo, sopra il quale per debolezza sovente cader si lasciava. Ma Florio, rimaso a Montoro, presto a mettere in essecuzione le triste insidie sopra Fileno, udito che il misero per paura di quelle avea preso volontario essilio, lasciò stare le cominciate cose, e incominciossi alquanto a riconfortare, imaginando che poi che questo era cessato di che egli più dubitava, niuna altra cosa, fuori che prolungamento di tempo, al suo disio gli poteva noiare.
- La santa dea, che due volte era discesa de’ suoi regni per impedire il ferventissimo amore tra Florio e Biancifiore cresciuto per lungo tempo, sentendo Florio rallegrarsi e il misero Fileno avere per le operazioni di lei preso dolente essilio, parendole niente aver fatto, propose del tutto di volere la sua imaginazione compiere. E discesa del cielo la terza volta, sopra un’alta montagna in forma di cacciatrice si pose ad aspettare il re Felice, che quivi cacciando su per quella doveva quel giorno venire. Ella avea i biondi capelli ravolti alla sua testa con leggiadro avolgimento, e il turcasso cinto con molte saette, e nella sinistra il forte arco portava. E quivi per picciolo spazio dimorando, di lontano vide il re Felice soletto correre dietro ad un grandissimo cervio, il quale verso quella parte ov’ella era fuggiva: al quale ella si parò davanti e con soavissima voce salutatolo, abandonato il cervio, il ritenne a parlar seco. A cui il re, non conoscendola, disse: - Giovane donna, come in questo luogo sì sola dimorate? -. - Di qui non sono guari lontane le compagne - rispose Diana; - ma tu come a questi diletti intendi, con ciò sia cosa che il tuo figliuolo, per amor di colei cui tu tieni in casa, guadagnata ne’ sanguinosi campi, si muore? Io conosco il sopravegnente pericolo, e dicoti che se tosto rimedio a questa cosa non prendi, ella il ti torrà -. E questo detto, subitamente sparve. Rimase il re tutto stupefatto e pieno di pensieri quando, volendo consiglio domandare, vide la dea sparita, e così tra sé, voltando i suoi passi, disse: - Veramente divina voce m’ha i miei danni annunziati -. E di grieve dolore oppresso, lasciata la caccia, si tornò in Marmorma.
- Ritornato il re in Marmorina dentro al suo palagio, in una camera, soletto, con bassa fronte, si pose pensando a sedere ripetendo in sé l’udite parole dalla santa dea, e in sé rivolgendo che rimedio alle cose udite potesse pigliare. E in tali pensieri dimorando, la reina sopravenne; e vedendo il re turbato, si maravigliò, e timidamente così gli disse: - O caro signore, se licito è ch’io possa sapere la cagione della vostra turbazione io vi priego che ella non mi si celi -. A cui il re rispose: - Ella non ti si può né dee celare, e però io la ti dirò: oggi nel più forte cacciare che io facea, correndo dietro a un cervio, non so che si fosse, o dea o altra creatura, ma in abito d’una cacciatrice, m’apparve una bella donna, la quale, dopo alquante parole, mi disse che se con subito provedimento noi non soccorressimo, che Florio per Biancifiore perderemmo: e questo detto, sparve subitamente, né più la potei vedere. Onde io da quella ora in qua con grieve doglia sono dimorato e dimoro. Io conosco manifestamente che la fortuna, dei nostri beni invidiosa, si oppone a quelli, e vuolcene in miserabile modo privare. Io non so che consiglio pigliare. Io mi consumo pensando che per una serva io debba perdere il caro figliuolo acquistato con tanti prieghi. O maladetto giorno, o perfidissima ora della sua natività, perché mai venisti? Egli non per nostra consolazione, ma per dolorosa distruzione di noi nacque: ma certo la cagione di tanta e di tale tristizia converrà che prima di me perisca. Questi mali e queste angosciose fatiche solo per la vilissima serva procedono. Io le leverò con le propie mani la vita: la mia spada trapasserà il suo sollecito petto: e di questo segua che puote! E certo se i fati altre volte la trassero delle cocenti fiamme, essi non la trarranno ora del mio colpo. Oimè, che mi parea incredibile per adietro, quand’io udiva che sola Biancifiore era ancora da lui dimandata, e diceva: "Se ciò fosse vero, già il duca e Ascalion me l’avrebbero fatto sentire!". Ma io credo fermamente che la puttana l’abbia con virtuose erbe, o con parole, o con alcuna magica arte costretto, però che mai non si udì che femina con tanto amore durasse in memoria d’uomo, quanto costei è durata a lui. Ma certo a mio potere l’erbe e le incantazioni le varranno altressì poco: come a Medea valessero! -.
- Poi che il re, narrate queste cose, si tacque, la reina, dopo alcuno sospiro, così disse: - Oimè, ora ha egli ancora nella memoria Biancifiore? Certo, se questo è, negare non possiamo che in contrario non ci si volga la prosperevole fortuna passata. Io imaginava che egli più non se ne ricordasse; ma poi che ancora gli è a mente, soccorriamo con pronto argomento -. - Niuno rimedio è sì presto come ucciderla - disse il re, - e acciò che infallibile sia il colpo, io l’ucciderò con la propia mano -. A cui la reina disse: - Cessino questo gl’iddii, che un re si possa dire che colpevole nella morte d’una semplice giovinetta sia, o che le mani vostre di sì vile sangue siano contaminate. Se noi la sua morte disideriamo, noi abbiamo mille servi presti a maggiori cose, non che a questa; ma noi, sanza esser nocenti contro lo innocente sangue di lei, possiamo in buona maniera riparare; e ciò v’aveva io già più volte voluto dire, ma ora, venuto il caso, vel dirò. Io intesi, pochi dì sono passati, che venuta era ne’ nostri porti, là dove il Po le sue dolci acque mescola con le salse, una ricchissima nave, di che parte si venga non so, la quale, secondo che m’è stato porto, spacciato il loro carico, si vogliono partire: mandate per li padroni, e a loro sia Biancifiore venduta. Essi la porteranno in alcuna parte strana o molto lontana di qui, e di essa mai niuna novella si saprà: e a Florio date ad intendere che morta sia, faccendole fare nobilissima sepoltura e bella, acciò che più la nostra bugia somigli il vero. E egli, credendo questo, poi s’auserà a disamarla -.
- Niente rispose il re a’ detti della reina, ma in se medesimo alquanto rattemperato pensò di volere tal consiglio seguire, e seguendolo imaginò che sanza fallo gli verrebbe il suo avviso fornito. E uscito della sua camera, a sé chiamò Asmenio e Proteo, giovani cavalieri e valorosi, e disse così loro: - Sanza alcuno indugio cercate i nostri porti là dove il Po s’insala: quivi n’è detto che una ricchissima nave è venuta; fate che voi la veggiate, e conosciate di quella i signori, e sappiate di qual paese viene, e di che è carica, e quando si dee partire, e ordinatamente tutto mi raccontate nella vostra tornata, la quale sanza niuno indugio fate che sia -.
- Mossersi i due giovani con quella compagnia che piacque loro, e, pervenuti a’ dimandati porti, montarono sopra la bella nave, ove essi onorevolemente ricevuti furono da Antonio e da Menone, signori e padroni di quella. E poi che Asmenio dimorato con loro alquanto fu, egli disse: - Belli signori, noi siamo cavalieri e messaggi dell’alto re di Spagna, ne’ cui porti voi dimorate; e siamo qui venuti a voi per essere di vostra condizione certi, e per sapere qual sia il vostro carico, e da quali liti vi siate con esso partiti, e che intendiate di fare. Piacciavi che di tutte queste cose noi al nostro signore possiamo rendere vera risposta -. A cui Antonio, per età e per senno più da onorare, così rispose: - Amici, voi siate i ben venuti. Noi, brievemente, siamo ad ogni vostro piacere disposti, e però alla vostra dimanda così vi rispondiamo, e così a chi vi manda risponderete: il presente legno è di questo mio compagno e mio, i quali, egli Menone e io Antonio siamo chiamati, e nascemmo quasi nelle ultime parti dell’ausonico corno, vicini alla gran Pompeia, vera testimonia delle vittorie ricevute da Ercule ne’ vostri paesi, e da lui edificata; e vegnamo dalli lontani liti d’Alessandria in questi luoghi, non volonterosi venuti, ma da fortunale tempo portati, nel quale gl’iddii, la mercé loro, ci hanno tanta di grazia fatta, che quasi tutto il carico della nostra nave avemo spacciato, il quale fu in maggior parte spezieria, perle e oro, e drappi dalle indiane mani tessuti; e intendiamo, ove piacere de’ nostri iddii sia, di cercare le sedie d’Antenore, poste nell’ultimo seno di questo mare, quando avremo tempo; e quivi di quelle cose che per noi saranno, intendiamo di ricaricare la nostra nave e di tornare agli abandonati liti. Se per noi si può far cosa che al vostro signore e a voi piaccia, come umilissimi servidori a’ vostri piaceri ci disponiamo -. Assai gli ringraziarono i due cavalieri e ultimamente gli pregarono che non fosse loro noia alquanti giorni attendergli, però che con loro credevano dovere avere a fare. A cui essi risposero che uno anno, se tanto loro piacesse, gli attenderebbono.
- Tornarono i due cavalieri al re, e chiaramente ogni cosa udita da’ padroni gli narrarono. A’ quali il re disse: - Tornate ad essi e domandateli se essi volessero una bellissima giovane comperare, la quale innumerabile tesoro ho cara, e con la risposta tacitamente tornate -. Ripresero i cavalieri il cammino, e, ricevuti con amorosi accoglimenti, a’ mercatanti la loro ambasciata contarono aggiungendo che dalla bella giovane inverso la reale maestà grandissimo fallo era stato commesso, per lo quale morte meritava - ma il signore, pietoso della sua bellezza, non ha voluto privarla di vita: ma, acciò che il fallo non rimanga impunito, la vuole vendere, come contato v’abbiamo -. A cui i mercatanti risposero ciò molto piacere loro: e se bella era quanto contavano, nullo migliore comperatore d’essi se ne troverebbe. - Adunque - disse Asmenio - arrecate i vostri tesori e venite con noi, acciò che voi veggiate che quello che vi diciamo è vero -.
- Caricati i mercatanti i loro tesori, e presi molti loro cari gioielli, con li due cavalieri se ne vennero a Marmorina, ove dal re onorevolmente ricevuti furono. E quando tempo parve al re di volere che essi vedessero Biancifiore, egli disse alla reina: - Va e fa venire la giovane -. Al cui comandamento la reina andata in una camera ove Biancifiore era, disse: - O bella giovane, rallegrati, che picciolo spazio di tempo è a passare che il tuo Florio sarà qui; e però adornati, acciò che tu gli possi andare davanti e fargli festa, e che egli non gli paia che le tue bellezze sieno mancate -. Corse al cuore di Biancifiore una subita letizia, udendo le false parole, e per poco non il cuore, abandonato dalle interiori forze, corse di fuori a mostrare festa, per debolezza perì. Ma poi, quelle tornate ciascuna nel suo luogo furono, Biancifiore s’andò ad ornare. Ella i dorati capelli con sottile artificio mise nel dovuto stile, e, sé di nobilissimi vestimenti vestita, sopra la testa si puose una bella e leggiadra coronetta, e con lieti sembianti cominciò ad attendere, disiderosa d’udire dire: "Ecco Florio!".
- Il re fece chiamare i due mercatanti, e con loro sanza altra compagnia, se ne entrò in una camera, e disse loro: - Voi vedrete di presente venire una creatura di paradiso in questo luogo, la quale sarà al vostro piacere, se assai tesori avete recati -. E detto questo, comandò che Biancifiore venisse. Allora la reina disse a Biancifiore: - Andiamo nella gran sala, non dimoriamo qui, acciò che di lontano possiamo vedere il caro figliuolo -. Mossesi Biancifiore soletta di dietro alla reina e venne nel luogo ove i due mercatanti dimoravano. E come l’aria, di nuvoli piena, porge alla terra alcuna oscurità, la quale poi, partendosi i nuvoli, da’ solari raggi con lieta luce è cacciata, così parea che dove Biancifiore giungeva, nuovo splendore vi crescesse. Videro i mercatanti la bella giovane, e, ripieni d’ammirazione, appena credettero che cosa mondana fosse, dicendo fra loro che mai sì mirabile cosa non era stata veduta. Elli comandarono che di presente i loro tesori fossero tutti aportati davanti al re; i quali venuti in grandissima quantità, così dissero: - Signore, sanza altro mercatare, de’ nostri tesori prendete quella quantità che a voi piace, ché noi non sapremmo a così nobile e preziosa cosa porre pregio alcuno -. - Assai mi piace - rispose il re. E di quelli prese quella quantità che a lui parve e l’altra rendé loro. E essi, contenti di ciò che fatto avea il re, sopra tutto ciò che preso avea, gli donarono una ricchissima coppa d’oro, nel gambo e nel piè della quale con sottilissimo artificio tutta la troiana ruina era smaltata, cara per maesterio e per bellezza molto. Dopo i ricevuti tesori, il re con sommessa voce così parlò a’ mercatanti: - A voi conviene, poi che comperata avete costei, sanza niuno indugio dare le vele a’ venti, né più in questi paesi dimorare, non forse nuovo accidente avvenisse per lo quale il vostro e mio intendimento si sturbasse -. Dissero i mercatanti: - Signore, comandate alla giovane, poi che nostra è, che con noi ne venga, che noi non l’avremo prima sopra la nostra nave, che essendo il tempo ben disposto, come elli ci pare che sia, che noi prenderemo nostro cammino e sgombreremo i vostri porti, però che per noi non fa il dimorare -.
- Voltossi allora il re a Biancifiore, e disse: - Bella giovane, a me ricorda che quando davanti mi recasti nella festa della mia natività il velenato paone, io giurai per lo sommo Iddio e per l’anima del mio padre, e promisi al paone che in brieve tempo io ti mariterei a uno de’ grandi baroni del mio regno: però, volendo osservare il mio voto, t’ho maritata, e il tuo marito si chiama Sardano, signore dell’antica Cartagine, a noi carissimo amico e parente. Egli con grandissima festa t’aspetta, sì come i presenti gentili uomini da sua parte a noi per te venuti ne dicono. Però rallegrati: e poi che piacere è di lui, a cui oramai sarai cara sposa, con costoro n’andrai, e noi sempre per padre terrai, là ove bisogno ti fosse tale paternità -. Le cui parole come Biancifiore udì, tutta si cambiò nel viso e disse: - Oimè, dolce signore, e come m’avete voi maritata, che io nel gran pericolo che fui, quando ingiustamente al fuoco fui condannata, per paura della morte, a Diana votai etterna virginità, se dallo ingiusto pericolo mi campasse? -. - Come - disse il re - richiede la tua bellezza etterna virginità, la quale a’ venerei atti è tutta disposta? Giunone, dea de’ santi matrimonii, ti rimetterà questo voto, poi che il suo numero accresci -. - Oimè! - disse Biancifiore - io dubito che la vendicatrice dea giustamente meco non si crucci -. - Non farà - disse il re, - e posto che ciò avvenisse, questo è fatto omai, non può indietro tornare. Tu dovevi dirloci avanti se così avevi promesso. Imineo lieto e inghirlandato tenga nella vostra camera le sante facelline -. E questo detto, comandò che Glorizia sua maestra le fosse per servigiale donata, sì come della misera Giulia era stata, e che ella fosse da’ mercatanti tacitamente menata via, e i tesori riposti.
- Biancifiore, che i segreti ragionamenti e l’abito de’ mercatanti e i ricevuti tesori tutti avea veduti, e il tacito stile che il re nella sua partenza teneva, e similmente l’unica servitrice a lei donata, e le ingannevoli parole della reina che detto l’avea: "Vieni, che il tuo Florio viene" nella mente notava, fra sé dolendosi incominciò a dire: - Oimè, che è questo? In sì fatta maniera non sogliono le giovani andare a’ loro sposi, anzi si sogliono fare grandissime feste, e io con taciturnità sono cercata di menar via. Né ancora si sogliono per le mie pari da’ mariti mandare tesori, anzi ne sogliono ricevere. Né ancora costoro paiono uomini atti a portare ambascerie di sì fatte bisogne, ma mi sembrano mercatanti; e i segreti mormorii mi danno cagione di dubitare. E ove s’usa ancora una giovane andare a sì fatto sposo, quale egli dice che m’ha donato, con una sola servitrice? Oimè, che tutte queste cose mi manifestano che io sono ingannata! Io misera, nata per aver male, non maritata ma venduta credo ch’io sono, come schiava da pirrata in corso presa. Oimè, che farò? Come che io mi sia o venduta o maritata, come potrò io abandonare il bel paese ove il mio Florio dimora? -. E questo dicendo, incominciò sì forte a piangere, che a forza mise pietà ne’ crudeli cuori del re e della reina. Ma il re ciò non sofferse di stare a vedere, anzi si partì per paura di non pentersi, e la seconda volta comandò che portata ne fosse.
- Già lasciava Febo vedere la sua cornuta sorella disiosa di tornare alquanto con la sua madre, quando i mercatanti, apparecchiati i cavalli, levarono Biancifiore di braccio alla reina semiviva, e con Glorizia insieme, di quindi partendosi, la ne portarono. E pervenuti alla loro nave, contenti di tale mercatantia, lei sopra quella posero, apparecchiando la più onorevole parte d’essa, e pregando gl’iddii che prospero viaggio loro concedessero. E date le vele a’ venti, si partirono con Biancifiore da’ vietati porti, comandando che ricercati fossero i lasciati liti di Soria.
- Zeffiro ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando correa sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti prosperamente con la loro nave andavano a’ disiderati liti. Ma Biancifiore, che ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta con continuo pianto, con più grave doglia veggendosi dalli occidentali liti allontanare, incominciò a piangere, e a dire così: - Oimè, dolorosa la vita mia, ove sono io portata? Chi mi toglie da’ dolci paesi ov’io lascio l’anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali sono i mali, che io, per essere fedelissima suggetta alla tua signoria, sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e ora, come vilissima serva venduta, per te, non so ove io mi sia portata. Se queste cose fossero manifeste, chi s’arrischierebbe mai a seguire tua signoria? Deh, perché non mi uccidevi tu avanti, quando ne’ begli occhi di Florio m’apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi sostenere? Oimè, ch’io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui mani io misera debbo venire. Ma a niune verrò che iguale tristizia non sia la mia, poi ch’io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui rivedere? Io sono portata lontana da lui, e egli nol sa, né sa dove: dunque dove sarò io da lui ricercata io come potrò lui ricercare, ché la mia libertà è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maladetta sii tu, che sì lungamente in tante tribulazioni mi se’ durata! O dolcissimo Florio, cagione del mio dolore, gl’iddii volessero che io mai veduto non ti avessi, poi che per amarti tante tribulazioni e tante avversità sostenere mi conviene. Ma certo se io mai riveder ti credessi, ancora mi sarebbe lieve il sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m’ami? Io mi riputai già grandissimo dono dagl’iddii l’avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto più caro l’essere stata morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire e intanto mi conosco miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora faccino di me gl’iddii ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto tempo, nel quale già potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo, ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallire non ci dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O misero Fileno, in qualunque parte tu vagabundo dimori, rallegrati che io, cagione del tuo essilio, ti sono fatta compagna con più misera sorte. A te è licito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertà possiedi, ma la mia è venduta. Gl’iddii e la fortuna ora mi puniscono de’ mali che tu per me sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno, mai io non ti mostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre di colui di cui io sono. Oimè, quanto m’è la fortuna contraria! Ma certo ciò non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a’ parenti nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre, avvegna che di tutto io fossi cagione se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio. Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male. O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l’avrai in tua balia, e potrai poi di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co’ tuoi venti le tese vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de’ tuoi suggetti, che a’ troiani levò gli alberi e’ timoni, e parte de’ loro uomini e delle navi? Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne’ vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri, acciò che negli abandonati porti un’altra volta sieno gittate le tegnenti ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m’è rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero? Io m’allungo ciascuna ora più da te, o Florio, in cui l’anima mia rimane. E però rimanti con la grazia degl’iddii, i quali io priego che da sì fatta doglia come io sento, ti levino. Pensa d’un’altra Biancifiore, e me abbi per perduta: li fati e gl’iddii mi ti tolgono. Io non credo mai più rivederti, però che veggendomiti ciascuna ora più far lontana, disperata mi dispongo alla morte, la quale gl’iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n’hanno -. E piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso, risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.
- Li due mercatanti vedendo questo, dolenti oltre misura, lasciando ogni altro affare, corsero in quella parte, e di grembo a Glorizia la levarono, e lei non come comperata serva, ma come cara sorella si recarono nelle braccia, e con preziose acque rivocarono gli spaventati spiriti a’ loro luoghi, e così cominciarono a parlare a Biancifiore: - O bellissima giovane, perché sì ti sconforti? Perché piangendo e con ismisurato dolore vuoi te e noi insieme consumare? Deh, qual cagione ti conduce a questo? Piangi tu l’avere abandonato il vecchio re, il quale, pieno d’iniquità e di mal talento, più la tua morte che la tua vita disiderava? Tu di questo ti dovresti rallegrare. E forse che ti pare che la fortuna miseramente ti tratti, però che tu a noi costi la maggior parte de’ nostri tesori, parendoti dovere avere preso nome di comperata serva, sotto la qual voce non pare che lieta vita si deggia poter menare; ma certo da tale pensiero ti puoi levare, però che noi non guarderemo mai a’ donati tesori per te, ma, conoscendo la tua magnificenza, in ogni atto come donna ti onoreremo. E se forse ti duole il dover cercare nuovi liti, imaginando quelli dovere essere strani e voti di varii diletti, de’ quali forse ti pareva la tua Marmorina piena, certo tu se’ ingannata, però che colà ove noi ti portiamo è luogo abondevole di graziosi beni, pieno di valorosa gente, nel quale forse la fortuna ti concederà più tosto il tuo disio che fatto non ti avrebbe onde ti parti: però che noi spesso veggiamo che quelli luoghi che paiono più atti a uno intendimento d’un uomo o d’una donna, quelli sono quelli ne’ quali mai tale intendimento fornire non si può; e così ne’ non pensati luoghi avviene che l’uomo ha quello che ne’ pensati disiderava. I futuri avvenimenti ci sono nascosi. Il primo aspetto delle cose doni speranza di quello che dee seguire: tu ricca, tu graziosa, tu bellissima! Le quali cose pensando, manifestamente si dee credere che gl’iddii a grandissime cose t’apparecchiano e che in te non dee potere lunga miseria durare. Piangano coloro a’ quali niuna speranza è rimasa. Noi ti preghiamo che tu ti conforti, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo che con aperte braccia felicità non pensata t’aspetta, alla quale gl’iddii tosto te e noi con prosperevole tempo, come cominciato hanno, ci portino -.
- Con pietose lagrime ascoltava Biancifiore le parole de’ confortanti, e avvegna che niuno conforto di quelle prendesse, nondimeno con rotte voci prometteva di confortarsi. Ma poi che i due mercatanti, parendola loro quasi avere riconfortata, la lasciarono con Glorizia, essa soletta in una camera della nave, donata a lei da’ signori, si rinchiuse, e in quella con tacite lagrime sopra il suo letto così cominciò a dire: - O graziosissima Citerea, ove è la tua pietà fuggita? Oimè, come tante lagrime di me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererà in te, se io, che più fede t’ho portata, per te perisco? E quando verrà il tuo soccorso, se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera a me, che feci io che io meritassi d’essere venduta? Or m’avesse avanti il re uccisa con le propie mani: almeno il termine de’ miei dolori sarebbe finito! Deh, pietosa dea, quand’io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo mi campasti: perché ora più grave t’è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto dal mio Florio, né so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi propiamente i tuoi regni venire ad abitare, e’ mi sarebbero noiosi sanza Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi passò il cuore per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine, che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io più viva languendo. Muovanti tante lagrime, quante io mando nel tuo cospetto, a questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace, riconfortimi la seconda volta il tuo santo raggio, il quale nella oscura prigione, ov’io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura compagnia. Io vo sanza alcuna speranza, se da te non m’è porta. Deh, non mi lasciare in tanta avversità disperata, ma sì come il tuo pietoso Enea negli africani liti, a’ quali io, più ch’io non disidero, già m’appresso, riconfortasti con trasformata imagine, così di me ti dolga, e fammi degna del tuo soccorso. A te niuna cosa s’occulta, il mio bisogno tu il sai: provedivi sanza indugio, acciò che il numero delle mie miserie non multiplichi. E tu, o vendicatrice Diana, nel cui coro io per difetto di virginità non avrei minor luogo, aiutami: io sono ancora del tuo numero, e disidero d’essere infino a quel tempo che l’inghirlandato Imineo mi penerà a concedere liete nozze. Concedi che io possa i tuoi beneficii interi servare al mio Florio, al quale se i fati non concedono che essi pervengano, prima la morte m’uccida che quelli tolti mi sieno -. E mentre che Biancifiore queste parole fra sé tacita pregando dicea, soave sonno sopravenutole, le parole e le lagrime insieme finio.
- Diana, che delli alti regni conoscea la miseria in che Biancifiore era venuta per le operazioni di lei, in se medesima si riputò essere vendica del non ricevuto sacrificio, e temperò le sue ire con giusto freno, e i santi orecchi piegò a’ divoti prieghi di Biancifiore; e li suoi scanni lasciati, a quelli di Venere se n’andò, e così le disse: - O dea, sono alle tue orecchie pervenuti i pietosi prieghi della tua Biancifiore, come alle mie? -. - Certo sì - rispose Citerea, - e già di qui mi volea muovere per andare a porgerle il dimandato conforto; ma tu, che niuna tua ira vuoi sanza vendetta da te cacciare, lascia omai le soperchievoli offese e perdona il disaveduto fallo alla innocente giovane, acciò che io non abbia cagione di contaminare i tuoi cori con più asprezza. Tu non meno di me se’ tenuta d’aiutare costei, però che ben che essa aggia me col core servita e serve, nondimeno ha ella te sempre con le operazioni servita, e ora a te, come a me, soccorso nella presente avversità domanda -. - Adunque - disse Diana - andiamo: le mie ire sono passate, e vera compassione de’ suoi mali porto nel petto; porgiamole il dimandato conforto -. A cui Venere disse: - Io la veggo sopra le salate onde vinta da angosciosi pianti soavemente dormire, e esserne portata verso il mio monte, al quale luogo io spero che ’l suo disio ancora farò con letizia terminare, avvegna che sanza indugio essere non può per quello che per adietro hai operato -.
- Sanza più parlare si partì il divino consiglio, e amendue le dee, lasciati i luoghi, con lieto aspetto nel sonno si mostrarono alla dormente giovane. E Diana, che in quello abito propio che portare solea alle cacce, inghirlandata delle fronde di Pallade, l’apparve, e così le disse: - O sconsolata giovane, l’avermi ne’ sacrificii, renduti agli altri iddii per lo tuo scampo, dimenticata, giustamente verso di te mi fece turbare: per la quale turbazione, essendone io stata cagione, hai sostenute gravose avversità. Ma ora i tuoi prieghi hanno addolcita la mia ira, e divenuta sono verso di te pietosa: per la qual cosa ti prometto che la dimandata grazia infino alla disiderata ora ti sarà da me conceduta, né niuno sarà ardito di levarti ciò che tu nel cuore hai proposto di guardare -. Ma Venere, che tutta nel cospetto di Biancifiore di focosa luce sfavillava, involte le nude carni in uno sottilissimo drappo porporino, e coronata dell’amate frondi di Febo, così le disse: - Giovane, a me divota e fedelissima suggetta, lascia il lagrimare, e nelle presenti avversità e nelle future con iguale animo ti conforta. Tu hai co’ tuoi prieghi mosse a pietà le nostre menti, e spera che tu sarai da Florio ricercata: e in quella parte nella quale più ti parrà impossibile di doverlo potere avere o vedere, tel troverai nelle tue braccia ignudo -. E queste cose dette, sparvero, e Biancifiore si svegliò: e lungamente pensando alle vedute cose, molto conforto riprese, e con lieto viso a Glorizia queste cose tutte raccontò; di che insieme prendendo buona speranza di futura salute, fecero maravigliosa festa.
- Nettunno tenea i suoi regni in pace e Eolo prosperosamente pingeva l’ausonica nave a’ disiati liti, sì che avanti che Febea, nel loro partimento cornuta, avesse i suoi corni rifatti eguali, essi pervennero all’isola che preme l’orgogliosa testa di Tifeo. E quivi, di rinfrescarsi bisognosi, là ove Anchise la lunga età finì, presero porto, e, onorevolemente ricevuti in casa d’una nobilissima donna chiamata Sisife, a’ mercatanti di stretto parentado congiunta, più giorni quivi si riposarono. Con la quale Sisife dimorando Biancifiore, e nella mente tornandole alcuna volta Florio e la dolente vita, la quale egli dovea sentire poi che saputo avesse la partita di lei, pietosamente piangea, e con tutto che la sua speranza fosse buona e ferma, non cessava però di dubitare, né per quella potea in alcun modo porre freno alle sue lagrime. La qual cosa Sisife vedendo un giorno così le disse: - Dimmi, Biancifiore, se gl’iddii ogni tuo disio t’adempiano, qual è la cagione del tuo pianto? Io ti priego, s’elli è licito ch’io la sappia, che tu non la mi celi, però che grandissima pietà, che di te sento nel cuore, mi muove a questo voler sapere: la qual cosa, se tu mi dirai, tale potrà essere che o conforto o utile consiglio vi ti porgerò -. A cui Biancifiore disse: - Nobile donna, niuna cosa vi celerei che domandata mi fosse da voi, solo ch’io la sapessi: e però ciò che dimandato avete, volontieri la vostra volontà ne sodisfarò, avvegna che invano consiglio o conforto mi porgerete. Io, dal mio nascimento isfortunata, non saprei da qual capo incominciare a narrare i miei infortunii, tanti sono e tali. Ma posto che sieno stati e sieno al presente molti, solamente amore mi fa ora lagrimare, con ciò sia cosa che io, più che alcuna giovane fosse mai, mi truovo nella sua potenza costretta per la bellezza d’un valoroso giovane chiamato Florio, figliuolo dell’alto re di Spagna, il quale è rimaso là onde io misera mi partii con questi signori della nave, i quali me comperata schiava portano, e non so dove. E ben che l’essere io di costoro mi sia grave, leggerissima riputerei questa e ogni altra maggiore avversità, se meco fosse il signore dell’anima mia, o in parte che io solamente alcuna volta il giorno vedere lo potessi. Ma non che alcuna di queste cose m’abbia la fortuna voluto concedere, ma ella solamente non sofferse che io vedere il potessi nella mia partita, o udire di lui alcuna cosa: anzi ingannata e semiviva, e tutta delle mie lagrime bagnata, fui di Marmorina tratta, ove io l’anima e ogni intendimento ho lasciata con colui di cui io sono tutta. E sanza fine mi maraviglio come dopo la mia partenza, considerando allo intollerabile dolore ch’io ho sostenuto, m’è tanto la vita durata: ma la morte perdona a’ miseri le più volte! -. E qui lagrimando, bassò la testa e tacquesi. E Sisife così le cominciò a parlare: - Bella giovane, non ti sconfortare: sanza dubbio conosco il tuo infortunio essere grande e il dolore non minore che quello; ma per tutto questo, posto ch’è perduto il luogo ove meno dolore che qui sentivi, non dee però essere da te la speranza fuggita. E, appresso, nella presente vita si conviene le impossibili cose rifiutare, e l’avverse con forte animo sostenere. Niuno mai fu in tanta miseria che possibile non gli fosse l’essere in brieve più che altro felice. I movimenti della fortuna sono varii, e disusati i modi ne’ quali ella i miseri rileva a maggiori cose. Se a te pare impossibile di dover mai ritornare là ove Florio di’ che lasciasti, né mai speri di rivederlo, fa che tu ti sforzi d’imaginare di mai non averlo veduto, e ogni pensiero di lui caccia da te. E quando tu riposata sarai là ove costoro ti portano, tu ne vedrai molti de’ quali non potrà essere che alcuno non te ne piaccia, e niuno sarà a cui tu non piaccia: colui che ti piacerà, colui sia il tuo Florio. Or conviensi che la tua bellezza perisca per amore d’un giovane, il quale avere non si può oramai? -. Quando Biancifiore ebbe per lungo spazio ascoltato ciò che Sisife le parlava, ella alzò la testa e disse: - Oimè, quanto male conoscete le leggi d’amore! Certo elle non sono così dissolubili come voi nel parlare le mostrate. Chi è colui che possa sciogliersi e legarsi a sua volontà in sì fatto atto? Certo chi è colui che ’l fa, e far lo può, non ama, ma imponsi a se medesimo falso nome d’amante, però che chi bene ama, mai non può obliare. E come per niuno altro potrò io dimenticare il mio Florio il quale di bellezza, di virtù e di gentilezza ciascuno altro giovane avanza? E quando alcuna di queste cose in sé non avesse, sì n’è in lui una sola, per la quale mai per alcuno altro cambiare nol dovrei: che esso ama me sopra tutte le cose del mondo -. - Fermamente conosco - disse Sisife - che tu ami e che le tue lagrime da giusta pietà procedono; ma piacciati confortarti, ché impossibile mi pare che sì leale amore gl’iddii rechino ad altro fine, che a quello che tu e esso disiderate -.
- Poi che i mercatanti furono alcuni giorni riposati, e il tempo parve al loro cammino salutevole, risaliti con Biancifiore sopra l’usato legno, a’ venti renderono le vele, e con tranquillo mare infino all’isola di Rodi se n’andarono. Quivi il tempo mostrando di turbarsi, scesero in terra, e con Bellisano, nobilissimo uomo del luogo, per più giorni dimorarono. E Biancifiore, ricevuta dalle paesane non come serva, ma come nobilissima donna, da tutte fu onorata, e, mentre quivi dimorarono, da tutte confortata fu, dandole speranza di futuro bene. Ma ritornato la terza volta il tempo da’ padroni dimandato, in su la nave risalirono. E già la nuova luna cornuta di sé gran parte mostrava, quando essi allegri pervennero a’ dimandati porti, ove il cammino e la fatica insieme finirono.
- Quivi pervenuti, dico che al vento tolsero le vele e dierono gli aguti ferri a’ tegnenti scogli, e con fido legame fermarono la loro nave. E di quella con grandissima festa discesi, ringraziando i loro iddii, cercarono la città, e in quella con la bella giovane entrati, da Dario alessandrino furono graziosamente non sanza molto onore ricevuti, e massimamente Biancifiore. E in questo luogo per alquanti giorni dimorati, vi venne un signore nobilissimo e grande, il quale era amiraglio del possente re di Bambillonia, e per lui quel paese tutto sotto pacifico stato possedea. Il quale, come la bella nave vide, fece a sé di quella venire i padroni, e li dimandò qual fosse la loro mercantantia, e onde venissero. A cui i mercatanti risposero: - Signore, noi lasciammo i liti quasi all’ultimo Occidente vicini, e quindi abbiamo, sanza altra cosa più, recata una nobilissima giovane, in cui più di bellezza che mai in alcuna si vedesse, si vede, la quale un grandissimo re, in quelle parti signoreggiante, ci donò per una grandissima quantità de’ nostri tesori che noi a lui donammo -. Disse allora l’amiraglio: - Venga adunque la giovane, la cui bellezza voi fate cotanta, e se bella è come la vantate, e di nobili parenti discesa, e ancora casta virginità tiene, de’ nostri tesori quelli che vorrete prenderete e donereteci lei -. Piacque a mercatanti, e per lei incontanente mandarono, la quale, di nobilissimi vestimenti vestita e ornata, insieme con Glorizia davanti all’amiraglio si presentò. Il quale graziosamente la ricevette, e non sì tosto la vide, come a lui parve la più mirabile bellezza vedere che mai per alcuno veduta fosse, e comandò che a’ mercatanti fosse donato a loro piacere dei suoi tesori. E poi ch’egli ebbe di lei da loro ogni condizione udita, pietoso de’ suoi affanni così disse: - Io giuro per i miei iddii che omai più la fortuna non le potrà essere avversa: alle sue tribulazioni io con grandissima felicità mi voglio opporre, e voglio provare se la fortuna la potrà fare più misera che io felice. E’ non passerà lungo tempo che il mio signore dee qui venire, al quale io intendo, in luogo di riconoscenza di ciò ch’io tengo da lui, donare questa bellissima cosa, né conosco che gioia più cara donare gli potessi. E sì prometto per l’anima del mio padre che tra le sue moglieri io farò che questa sarà la principale, e sì farò la sua testa ornare della corona di Semiramis; e infino a quel tempo che questo sarà, tra molte altre giovani, le quali a simil fine si tengono, la farò sì come donna di tutte onorare, e sotto diligente guardia servare, con tutti quelli diletti e beni che niuna giovane dee potere disiderare -. E questo detto, comandò che onorevolemente alla gran Torre dello Arabo insieme con Glorizia fosse menata Biancifiore, e quivi con l’altre giovani donzelle dimorasse faccendo festa. Di questo furono assai contenti i mercatanti, sì per lo loro avere, il quale aveano forse nel doppio multiplicato, e sì per la giovane a cui prosperevole stato vedeano promesso da signore che bene lo poteva attenere. E a lei rivolti, con pietose parole la confortarono, e da essa piangendo si partirono, e pensarono d’altro viaggio fare con la loro nave. E quella, posta con l’altre pulcelle molte nella gran torre, non sanza molto dolore, infino a quel tempo che agl’iddii piacque la ’mpromessa di Venere fornire, dimorò.
- Già allo iniquo re di Spagna, partita Biancifiore, pareva avere il suo disio fornito; ma ancora pensando che necessità gli era la sua malvagità con falso colore coprire, imaginò di far credere che Biancifiore fosse morta, acciò che Florio, sentendo quella morta essere, dopo alcuna lagrima la dimenticasse. E preso questo consiglio, per molti maestri mandò segretamente, a’ quali sanza niuno indugio comandò che fosse fatta una bellissima sepoltura d’intagliati marmi, allato a quella di Giulia. La quale compiuta, preso un corpo morto d’una giovane quella notte sepellita, la mattina co’ vestimenti di Biancifiore e con molte lagrime la fece sepellire, dicendo che Biancifiore era: e questo con tanto ingegno fece, che niuno era nella città che fermamente non credesse che Biancifiore fosse morta, da coloro in fuori a cui di tale inganno il re fidato s’era. E questo fatto, mandò a Montoro a Florio un messaggiere, il quale così gli disse: - Giovane, il tuo padre ti manda che se a te piace di vedere Biancifiore avanti ch’ella di questa vita passi, che tu sii incontanente a Marmorina, però che subitamente una asprissima infirmità l’ha presa, per la qual cosa appena credo che ora viva sia -. Non udì sì tosto Florio questo, com’egli tutto si cambiò nel viso, e sanza rispondere parola, ristretto tutto in sé, quivi semivivo cadde, e dimorò tanto spazio di tempo in tale stato, che alcuno non era che morto nol riputasse. Il vermiglio colore s’era fuggito del bel viso, e la vita appena in alcun polso si ritrovava; ma poi che egli pure fu per alcuni in vita essere ancora conosciuto, con preziosi unguenti e acque, dopo molto spazio, con molta sollecitudine furono i suoi spiriti rivocati: e tornato in sé aperse gli occhi, e intorno a sé vide il duca e Ascalion piangendo, i quali con pietose parole il riconfortavano, e altri molti con loro. A’ quali egli dopo un gran sospiro disse: - Oimè, perché m’avete voi, credendo piacere, disservito? L’anima mia già contenta andava per li non conosciuti secoli vagando sanza alcuna pena ma voi a dolersi ora l’avete richiamata. Oimè, ora sento che la lunga paura, che io ho avuta della vita di Biancifiore, m’è nell’avvisato modo con pericoloso accidente venuta adosso. Quale infermità potrebbe sì subita sopravvenire a una fresca giovane, che a morte in un momento la inducesse? Fermamente che a forza è da’ miei parenti stata la mia Biancifiore recata a questa morte, se morta è, o se ora morrà -. E levatosi, comandò che i cavalli venissero, e preso il cammino con molta compagnia, cercando già il sole l’occaso, sempre piangendo se n’andò verso Marmorina, così nel suo pianto dicendo:
- - O gloriosi iddii, della cui pietà l’universo è ripieno porgete i santi orecchi alquanto a’ miei prieghi, e non mi sia da voi negata l’usata benignità tornando crudeli discenda de’ cieli il vostro aiuto in questo espressissimo bisogno. Venga la vostra grazia, d’ogni noioso accidente cacciatrice, sopra la innocente Biancifiore, la quale ora per noiosa infermità pare che si disponga a rendervi la graziosa anima. Sostengasi per vostra pietà la sua vita, e siale renduta la perduta sanità, e la giovane età, nella quale essa dimora, prima di lei si consumi. Non muoiano in una morte due amanti. O buono Apollo, o luminoso Febo per cui ogni cosa ha vita, ascolta i miei prieghi! Non consentire che tanta bellezza alla tua simigliante per mortal colpo al presente perisca. O Citerea, o Diana, aiutate la vostra giovane. O qualunque iddio dimora nel celestiale coro, sturbate la costei morte, acciò che io, a voi fedelissimo servidore, viva. O Lachesis, tieni ferma l’ordita conocchia, composta da Cloto, tua fatale sorella, non lasciare ancora il dilettevole uficio, dove sì corto affanno hai infino a qui sostenuto. E tu, o morte, generale e infallibile fine di tutte le cose, in cui la maggior parte della mia speranza dimora, quasi imaginando che in te stia quella salute la quale io cerco, non mi consumare ferendo la mia Biancifiore: dilungati da lei per li miei prieghi. In te sta il donarlami e il torlami. Deh, non essere tuttavia crudele! Vincasi questa volta per prieghi la tua fierezza, e pietosa ti volgi a riguardare con quanta umiltà i miei prieghi ti sono porti, e riguarda quanta sia la noia che ricevo, se verso la bella giovane incrudelisci. Oimè, che io nol posso dire, ma il mio aspetto tel dee manifestare. Oimè, perdona, risparmiando un solo colpo, allo infinito valore che dal mondo si partirebbe morendo questa. Perdona a tanta bellezza quanta ella possiede: non si fugga per te tanta leggiadria quanta in costei si vede, né si diparta per lo tuo operare il fedele amore che insieme lungamente ci ha tenuti legati con pura fede, il quale a mano a mano se la ferissi, per lo tuo medesimo colpo si ricongiugnerebbe. Ahimè, raffrena per Dio il tuo volere: leva la pungente saetta che già in sul tuo arco mi pare vedere posta, per uccidere colei in cui gl’iddii più di grazia che in alcuna altra posero. Sostieni che nel mondo si vegga costei per mirabile essemplo delle celestiali bellezze. Se alcuni prieghi ti deono fare pietosa, faccianti i miei, e questo sia sanza alcuno indugio: io non temo niuna cosa se non te. Riguarda le mie lagrime e il palido aspetto già dipinto della tua sembianza: sola questa grazia mi concedi, la quale se dura t’è a concederlami, concedi che quella saetta che il tuo arco dee nel dilicato petto di lei gittare, prima il mio trapassi, acciò che dopo il trapassare della mia Biancifiore io non rimanga per doverti biasimare, e più la tua crudeltà far manifesta nella poca vita che mi lascerai -.
- Mostravasi già il cielo d’infiniti lumi acceso, quando così piangendo e parlando Florio entrò in Marmorina: per la quale tacito e sanza niuna festa, maravigliandosi e dubitando, passò infino che alle reali case pervenne. Nelle quali entrato con la sua compagnia, e da cavallo smontati, e salendo su per le scale, la perfida madre gli si fé incontro con dolente aspetto. A cui Florio, come la vide, dimandò che di Biancifiore fosse, se migliorata era o come stava, ché egli avanti venire non la si vedea. Alla cui domanda la madre niente rispose, ma abbracciatolo, cominciò a lagrimare, e lui menò davanti al padre che nella gran sala sedea, vestito di vestimenti significanti tristizia, tenendo crucciato aspetto, con molta compagnia.
- Levossi lo iniquo re alla venuta del figliuolo, e fattoglisi incontro, lui teneramente abbracciò e baciò, dicendo: - Caro figliuolo, assai mi sarebbe stato caro che ad altra festa la tua tornata fosse stata, o almeno più sollicita, acciò che licito ti fosse stato di avere veduta la vita in colei, la cui morte ora con pazienza ti conviene sostenere; e però sì come savio, con forte animo ascolta le mie parole. E siati manifesto che la bellissima Biancifiore è stata chiamata al glorioso regno, là ove le sante opere sono guiderdonate. E in quello Giove e gli altri beati della sua andata si rallegrano, i quali, invidiosi forse di tanto bene quanto noi per la sua presenza sentivamo, l’hanno a loro fatta salire. E ben che ella lietamente viva ne’ nuovi secoli, a noi gravissima noia ne’ cuori di tale partita è rimasa, però che infinito amore le portavamo, sì per la virtù e per la piacevolezza di lei, e sì per l’amore che sentivamo che tu le portavi. Ma però che nuova cosa né inusitata è stata la sua partita, ma cosa la quale ogni giorno avvenire veggiamo, e a noi similmente con forte animo aspettare la conviene sanza speranza di poterla fuggire, ci conviene con pazienza tale accidente sostenere, e prendere conforto: però che sapere dobbiamo che per greve doglia da noi sostenuta non sarebbe a noi renduta la cara giovane. Adunque, caro figliuolo, confortati, ché se gl’iddii ci hanno costei tolta, elli non ci hanno levato il poterne una più bella cercare e averla. Noi te ne troveremo una la quale più bella e di reale prosapia discesa sarà, e a te in luogo di Biancifiore per cara sposa la congiungeremo. Certo ella nella sua vita, affannata da mortale infermità e già presso al suo passare, ebbe tanta memoria di te, che, chiamati me e la tua madre, con lagrime sopra le nostre anime puose che noi con ogni sollecitudine ti dovessimo del suo trapassare rendere conforto, e pregarti che per quello amore che tra te e lei era nella presente vita stato, che tu ti dovessi confortare, e niente ti dolessi, però che ella si vedea grazioso luogo apparecchiato ne’ beati regni, ne’ quali essendo, se le tue lagrime sentisse, molto la sua beatitudine mancheresti. E questo detto, con pietoso viso, e col tuo nome in bocca, rendé l’anima agl’immortali iddii: e però noi così te ne preghiamo, e per parte di lei e per la nostra. Ella ha lasciati i mondani affanni; non le volere porgere nuova pena, ché doppiamente offende chi contra coloro opera, che dopo la loro morte sono beatificati. Confortati, e della sua morte inanzi gioia che tristizia prendi, imaginando che ella in cielo, ove ora dimora, di te e dell’amore, che mentre fu di qua ti portò, si ricorderà, per merito del quale ragionando con gl’iddii delle tue virtù, li farà verso te benivoli: la qual cosa sanza grandissimo bene di te non potrà essere -.
- Con grandissima pena sostenne Florio le parole dello iniquo re, ma poi ch’egli si tacque, Florio, gittata una grandissima voce, disse: - Ahi, malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore, tu m’hai ingannato e tradito! -. E messesi le mani nel petto, dal capo al piè tutta si squarciò la bella roba, e cadde in terra con le pugna serrate, e con gli occhi torti nel viso sanza alcun colore rimaso, risomigliando più uomo morto che vivo. Ma dopo picciolo spazio ritornato in sé, e alzata la testa di grembo alla madre, incominciò a dire: - O iniquo re, perché l’hai uccisa? Che aveva la giovane commesso ch’ella meritasse morte? Tu se’ stato cagione della morte di lei, e ora credi con lusinghevoli parole sanare la piaga che il tuo coltello m’ha fatta, la quale altro che morte mai non sanerà. Ora se’ contento, iniquo re! Omai hai quello che lungamente hai disiderato: ma io ti farò tosto di tal festa tornare dolente! -. E poi ricadde in grembo alla madre tramortito. E così piangendo e battendosi, sanza volere udire alcun conforto da nullo che vi fosse, tutta la notte stette, faccendo piangere chiunque il vedea, tanto era pietoso il suo parlare, che col doloroso pianto mescolato faceva.
- Era la misera madre insieme con Florio piangendo, quando il nuovo giorno apparve, e con alcune parole lui confortare non potea. A cui egli disse: - Siami mostrato il luogo ove la mia Biancifiore giace sanza anima -. A cui la madre rispose: - Come vuoi tu andare in tale maniera a visitare la sepoltura di Biancifiore? Vuoi tu far fare beffe di te? Rattempera il tuo dolore in prima, poi temperato quello, v’andremo, ché certo niuna persona è che ora ti vedesse, che non credesse che tu fossi del senno uscito: e io similemente sanza fine di te mi maraviglio, non sappiendo onde questo si muova. Oimè misera, ora hai tu perduto ogni sentimento a Montoro, che tu vuogli, per una giovane di sì picciola condizione come fu Biancifiore, consumarti e privarmi di te, così nobile figliuolo? Hai paura che un’altra giovane non si truovi più bella di Biancifiore? Si farà! A’ nostri regni non è guari lontano il nobilissimo re di Granata, il quale si può gloriare della più bella figliuola che mai niuno uomo del mondo avesse: ella sarà tua sposa, se tu ti vuoi confortare -. A cui Florio disse: - Reina, non volere porgere ora con lusinghevoli parole conforto colà dove con inganno hai messa tristizia: folle è colui che per medico prende il nimico da cui davanti è stato ferito a morte. Fammi mostrare dove giace colei cui uccisa avete, e a cui l’anima mia si dee oggi accompagnare -. Piangendo allora la reina, con lui, al quale niuno colore era nel viso rimaso, e i cui occhi aveano per lo molto piangere intorno a sé un purpureo giro, e essi rossi erano rientrati nella testa, e molti altri si mossero con loro, lui menando al tempio. Al quale andando Florio, ovunque egli giungeva vedea genti piene di dolore, e nuovo pianto facea cominciare, tanta era la pietà che ’l suo aspetto porgeva a chi ’l vedeva. E dopo alquanto pervennero al tempio dove Giulia sepulta stava, e dove le non vere scritte lettere significavano che quivi Biancifiore morta giacesse.
- Nel qual tempio entrati, la reina mostrò a Florio la sepoltura nuova, e disse: - Qui giace la tua Biancifiore -. La quale come Florio la vide, e le non vere lettere ebbe lette, incontanente perduto ogni sentimento, quivi tra le braccia della madre cadde, e in quelle semivivo per lungo spazio dimorò. Quivi corsa quasi tutta la città, di doppio dolore compunti, faceano sì gran pianto e sì gran romore, che se Giove allora gli spaventatori de’ Giganti avesse mandati, non si sariano uditi. Ciascuno era tutto stracciato e di lugubri veste vestito, e gli uomini e le donne, e alcuni, ma quasi tutti, credeano Florio morto giacere nelle braccia della reina: per la qual cosa il piangere Biancifiore aveano lasciato, e tutti Florio miseramente piangeano. Ma poi che Florio fu per lungo spazio così dimorato, il cuore rallargò le sue forze, e ritornate tutte per gli smarriti membri, Florio si dirizzò in piè, e cominciò a piagnere fortissimamente, e a gridare e a dire: - Oimè, anima trista, ove se’ tu tornata? Tu ti cominciavi già a rallegrare, parendoti essere da me disciolta e cercare nuovi regni. Oimè, perché hai tu tornato il diletto che tu sentivi, parendoti che io fossi morto, in grieve noia, rendendomi la vita? Ora di nuovo sento i dolori che la trista memoria aveva messi in oblio, mentre che tu in forse fuori di me dimorasti -. E appresso questo gittatosi sopra la nuova sepoltura, incominciò a dire: - O bellissima Biancifiore, ove se’ tu? Quali parti cerca ora la tua bella anima? Deh, tu solevi già con lo splendore del tuo bel viso tutto il nostro palagio di dilettevole luce fare chiaro: come ora in picciolo luogo, tra freddi marmi, se’ costretta di patire noiosa oscurità! Misera la mia vita, che tanto sanza te dura! O dilicati marmi, cui mi celate voi? Perché colei che più che altro piacque agli occhi miei mi nascondete? Voi forse insieme col mio nimico padre, invidiosi de’ miei beni, mi celate quello che io più mi dilettai di vedere, servando la natura d’Agliauro, con voi insieme d’una qualità tornata. Ma se gl’iddii ancora vi concedano d’esser lieti ornamenti de’ loro altari, apritevi, e concedete che io vegga quel viso che già assai fiate, vedendolo, mi consolò; il quale io vedutolo, possa contento prendere spontanea morte. Sostenete che gli occhi miei nel picciolo termine della vita loro serbata abbiano questa sola consolazione, poi che licito non fu loro, anzi ch’ella mutasse vita, rivederla. O inanimato corpo, come non t’è egli possibile una sola volta richiamare la partita anima, e levarti a rivedermi? Io l’ho dalla passata sera in qua richiamata in me tante volte: richiamala tu una sola, e solamente la tieni tanto che tu mi possi morendo vedere seguirti. Oimè, Biancifiore, quale doloroso caso mi t’ha tolta? Deh, rispondimi, non ti odi tu nominare al tuo Florio? Deh, qual nuova durezza è ora in te, che ’l mio nome che ti solea cotanto piacere non è da te ascoltato, né alle mie voci risposto? Come ha potuto la morte tanto adoperare che il vero e lungo amore tra noi stato si sia in poco di tempo partito? Oimè, giorno maledetto sii tu! Tu perderai insieme due amanti. O Biancifiore, io, misero, fui della tua morte cagione! Io, o misera Biancifiore, t’ho uccisa per la mia non dovuta partenza! Per ubidire al mio nemico ho io perduta te, dolcissima amica! Oimè, che troppo amore t’è stato cagione di morte! Io ti lasciai paurosa pecora intra li rapaci lupi. Ma, certo, amore mi conducerà a simigliante effetto, e come io ti sono stato cagione di morte, così mi credo ti sarò compagno. Io solo ti potea dare salute, la quale omai da te avere non posso. Gl’iddii e la fortuna e ’l mio padre e la morte hanno avuta invidia a’ nostri amori. Io, o morte perfidissima, s’io credessi che mi giovasse, il tuo aiuto dimanderei con benigna voce. Certo tu se’ stata in parte che essere dovresti pietosa e ascoltare i miseri; ma però che i miseri e quelli che più ti chiamano sono più da te rifiutati, io con aspra mano ti costrignerò di farti venire a me -. E posta la destra mano sopra l’aguto coltello, incominciò a dire: - O Biancifiore, leva su, guatami: apri gli occhi avanti ch’io muoia, e prendi di me quella consolazione che io di te avere non potei. Io ti farò fida compagnia. Io per seguirti userò l’uficio della dolente Tisbe, avvegna che ella più felicemente l’usasse ch’io non farò, in quanto ella fu dal suo amante veduta. Ma io non farò così. Io vengo: riceva la tua anima la mia graziosamente, e quello amore che tra noi nel mortale mondo è stato, sia nell’etterno -. Questo detto, si levò di sopra la sepoltura, la quale delle sue lagrime tutta era bagnata, e tratto fuori l’aguto ferro, dicendo: - Il misero titolo della tua sepoltura, o Biancifiore, sarà accompagnato di quello del tuo Florio -, si volle ferire con esso nello angoscioso petto. Ma la dolente madre con fortissimo grido, preso il giovane braccio, disse: - Non fare Florio, non fare, tempera la tua ira, né non voler morire per colei che ancora vive -. Il romore si levò grandissimo nel tempio, e ’l pianto e le grida non lasciavano udire niuna cosa. Ma poi che Florio da molti fu preso, e trattogli della crudele mano l’aguto coltello egli piangendo disse: - Perché non mi lasciate morire poi che la cagione m’avete porta? Questa morte potrà indugiarsi alquanto ma non fallire. Consentite innanzi ch’io muoia ora, ch’io viva con più dolore infino a quel termine che, sanza essere tenuto, mi fia licito d’uccidermi -. - O caro figliuolo, perché il tuo padre e me, e tutto il nostro regno tanto vuoi far miseri? Confortati, che la tua Biancifiore vive -. A cui Florio rivolto disse: - Le vostre parole non mi inganneranno più; con niuna falsità più potrete la mia vita prolungare -. - Certo - disse la reina - ciò che della sua morte abbiamo parlato, sanza dubbio è stato falsamente detto: ma al presente noi non ti mentiamo -. - E come poss’io credere - disse Florio - che voi ora diciate il vero, se per adietro siete usati di mentire? -. Disse la reina: - Di ciò veramente ci puoi al presente credere; e se ciò forse credere non volessi, i tuoi occhi te ne possono rendere testimonianza, che questa che qui giace è un’altra giovane, e non Biancifiore -. - E come può questo essere - disse Florio - che tutta Marmorina piange la morte sua, e ciascheduno rende testimonio d’averla veduta mettere in questo luogo? -. - Di ciò non mi maraviglio io - disse la reina - che certo quelli che qui la misero credono che ella sia. Ma noi per darti questo a credere, acciò che tu la dimenticassi, demmo la voce che morta era Biancifiore, e una giovane morta in quell’ora che tal voce demmo, tratta della sua sepoltura occultamente, ornata de’ vestimenti di Biancifiore, qui a sepellire la mandammo: e che questa sia un’altra, com’io ti dico, tu il puoi vedere -. E fatta aprire la sepoltura, a tutti si manifestò che questa non era Biancifiore, ma un’altra giovane. - Adunque - disse Florio - Biancifiore dove è -. - Ella non è qui al presente - disse la reina; - ov’ella sia, andianne al nostro palagio: io tel dirò -. - Certo, io dubito ancora de’ vostri inganni - disse Florio; - voi avete in alcuno altro luogo sotterrata la giovane, e ora col darmi ad intendere che viva sia, e che in altra parte mandata l’avete, volete la mia vita prolungare: ma ciò niente è a pensare -. - Fermamente - disse la reina - Biancifiore è viva. Partiamci di qui, che tutto ti dirò nel nostro palagio come la cosa è andata sanza parola mentirti -.
- Allora si levò in piè Florio con la reina e altra compagnia assai, e tornarono nel loro palagio, dove il re doloroso a morte di queste cose, le quali tutte avea sapute, trovarono. E quivi pervenuti, e trattisi tacitamente in una camera, la reina così cominciò a dire a Florio: - Noi, il tuo padre e io, sentendo che in niuna maniera Biancifiore di cuore ti potea uscire ben che lontano le dimorassi, proponemmo di pur volere che ella di mente t’uscisse, e fra noi dicemmo: "Già mai questa giovane del cuore non uscirà a Florio mentre viverà, ma se ella morisse, a forza dimenticare gliele converrà, vedendo che impossibile sia ad averla". E quasi deliberammo d’ucciderla: poi per non volere essere nocenti sopra il giusto sangue di lei, mutammo consiglio, e a ricchissimi mercatanti, venuti ne’ nostri mari per fortuna, fattigli qua venire, infinito tesoro la vendemmo loro, e essi ci promisero di portarla in parte sì di qui lontana, che mai alcuna novella per noi se ne sentirebbe. E come essi l’ebbero portata via, noi comandammo che la nuova sepoltura fosse fatta, nella quale dando voce che Biancifiore era morta, con occulto ingegno quella giovane che dentro vi vedesti vi facemmo mettere, credendo fermamente che dopo alquante lagrime il tuo dolore insieme con lei dimenticassi. E però a te, come a savio, sanza fare queste pazzie, le quali hai da questa sera in qua fatte, ti conviene confortare, e fare ragione che mai veduta non l’avessi, e lasciarla andare. Noi ti doneremo la più bella giovane del mondo e la più gentile per compagna: quella t’imagina che sia la tua Biancifiore -.
- Quando Florio ebbe queste cose dalla madre udite, teneramente cominciò a piagnere, e così alla madre disse: - O dispietata madre, ove è fuggito quello amore che a me, tuo unico figliuolo, portar solevi? Quali tigre, quali leoni, quale altro animale inrazionale ebbe mai tanta di crudeltà, che più benigno verso li suoi nati non fosse che tu non se’ verso di me? Come, poi che tu conoscevi l’amore che io portava a Biancifiore potesti mai tu consentire o pensare che sì vile cosa di lei si facesse come fu venderla? Deh, ora ella t’era come figliuola, e tu come figliuola la solevi trattare quando io c’era: or che ti fece ella che tu sì subitamente incrudelire verso di lei dovessi? L’altre madri sogliono francare le serve amate da’ figliuoli, ma tu la libera hai fatta serva perché io l’amo. Oimè, che il tuo cuore con quello del mio padre è tornato di ferro! Di voi ogni pietà è fuggita. In voi niuna umanità si trova. A voi che facea se io amava Biancifiore, o se ella amava me? Perché ne dovevate voi entrare in tanta sollecitudine? Io credo che in te è entrato lo spirito di Progne o di Medea. Ma la fortuna mi farà ancora vedere che il crudele vecchio e tu, vinti da focosa ira di voi medesimi, con dolente laccio caricherete le triste travi del nostro palagio, con peggiore agurio che Aragne non fece quelle del suo. E io ne farò mio potere, rallegrandomi se la fortuna mi concede di vederlo, e dirò allora che mai gl’iddii niuna ingiusta cosa lasciano sanza vendetta trapassare. Voi prima con ardente fuoco la morte della innocente giovane cercaste, la quale io con l’aiuto degli iddii col mio braccio campai, punendo degnamente colui che di tale torto, in servigio di mio padre, si facea difenditore: così avessi io con la mia spada voi due puniti, quando in questo palagio lei paurosa vi rendei! Ma certo, se allora ella fosse morta, io con lei moria. Ora l’avete venduta e mandata in lontane parti, acciò che io pellegrinando vada per lo mondo. Ma volessero i fati che ella fosse ora qui, che io giuro, per quelli iddii che mi sostengono, che io più miseramente di qui partire vi farei che Saturno, da Giove cacciato, non si partì di Creti! E allora provereste qual fosse l’andare tapini per lo mondo, come a me converrà provare, infino a tanto ch’io ritruovi colei la quale con tanti ingegni vi siete di tormi ingegnati. E certo se non fosse che io non ho il cuore di pietra, come voi avete, io non vi lascerei di dietro a me con la vita; ma non voglio che di tale infamia, pellegrinando, la coscienza mi rimorda. Voi avete disiderata la mia morte, della quale poi che gl’iddii non ve n’hanno voluti fare lieti, né io altressì ve ne credo rallegrare, ma inanzi voglio lontano a voi vivere che presenzialmente della morte rallegrarvi -.
- Faceva la reina grandissimo pianto, mentre Florio diceva queste parole, dicendo: - Oimè, caro figliuolo, che parole son queste che tu di’? Cessino gl’iddii che tu possi vedere di noi ciò che tu di’ che ne disideri di vedere, avvegna che niuna maraviglia sia del tuo parlare, imperciò che, sì come adirato, parli sanza consiglio. Niuna creatura t’amò mai, o potrebbeti amare, quanto tuo padre e io t’abbiamo amato e amiamo: e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua vita più gloriosa si consumi, che oramai non farà, l’abbiamo adoperato. Perché dunque ci chiami crudeli e disideri la nostra morte? Maladetta sia l’ora che il tuo padre assalì gl’innocenti pellegrini. Ora avesse egli almeno tra tanta gente uccisa colei che nel suo ventre la nostra distruzione in casa ci recò! Oh, ella niuna cosa disiderava tanto quanto la morte, e intra mille lance stette, e niuna l’offese. I suoi iddii, più giusti che i nostri, non vollero che tale ingiuria rimanesse impunita. Ora mi veggo venire adosso quello che detto mi venne ignorantemente, quando la maladetta giovane per noi nacque, la quale recandolami in braccio, dissi lei dovere essere sempre compagna e parente di te. Ora il veggo venire ad essecuzione -.
- Il re in un’altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall’ora che il misero Lelio avea ucciso infino a questa ora, maladicendo sé e la sua fortuna; e ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato e del morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto questo essere piacere degl’iddii, al volere de’ quali niuno è possente a resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con più fermezza d’animo lasciare a’ fati muovere queste cose, che per adietro non avea fatto. Ma Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo nella camera, e, rivestito d’altre robe, venne nella gran sala, là ove egli molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il vecchio Ascalion e Parmenione e Menedon e Messaallino, a’ quali elli disse così: - Cari amici e compagni, quanta forza sia quella d’amore a niuno di voi credo occulta sia, però che ciascuno, sì com’io penso, le sue forze ha provate. E là dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro e d’altri molti avete udito parlare: i quali chi l’etterno onore con vituperevole infamia non curava d’occupare, chi di perdere la propia vita si metteva in avventura per pervenire a’ disiati effetti, e chi una cosa e chi un’altra facea per venire al disiato fine. E ultimamente, ove a tutti i detti essempli di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, il quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancifiore, che ogni essemplo ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che sanza alcuno diletto infinite avversità me ne sono seguite, e ora in quelle più che mai sono. E che l’amore di Biancifiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Come io v’ho detto, dalla mia puerizia fu Biancifiore amata da me: del quale amore non prima il mio padre s’avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montoro, da lei mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella si partisse del cuore, dove con catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell’ora ch’ella prima mi piacque. E questo non bastandogli, acciò che più intero il suo iniquo volere fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl’iddii che le mal fatte cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sì che io di tal pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sì come vilissima serva, ha a’ mercatanti venduta, e mandatala non so in che parti. E perché questo non pervenisse a’ miei orecchi, falsamente mostrò che Biancifiore di subita infermità morta fosse, un’altra giovane morta in forma di lei sotterrando: della qual cosa io sono sanza fine turbato. E certo, se licito fosse di mostrare la mia ira contro al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai di tale accidente tale vendetta fosse presa quale io prenderei! Ma non m’è licito, e dubito che gl’iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento di già mai non riposare, infino a tanto che colei cui io più che altra cosa amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sarà da me cercato, e niuna nazione rimarrà sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo che in quale che parte ella sia, se non vi perverremo, la fama della sua gran bellezza cel manifesterà, né ci si potrà occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per denari o per forza intendo di rivolerla. E perciò ho io fatti chiamare voi, sì come a me più cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi sovegnate, e meco insieme volontario essilio prendiate e massimamente te, o Ascalion, le cui tempie già per molti anni bianchissime, più riposo che affanno domandano, acciò che sì come padre e duca e maestro ci sii, però che tutti siamo giovani, e niuno mai fuori de’ nostri paesi uscì, e il cercare i non conosciuti luoghi sanza guida ci saria duro. Né ti spiaccia la nostra giovane compagnia, però che come figliuolo i tuoi passi divotamente seguirò. E in verità questo, di che io e te e gli altri priego il mio partire di qui, credo che degl’iddii sia piacere acciò che i miei giovani anni non si perdano in accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascessimo per vivere come bruti, ma per seguire virtù, la quale ha potenza di fare con volante fama le memorie degli uomini etterne, così come le nostre anime sono. Adunque voi ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sì risponda, sanza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello ch’io fo, io il conosco, e invano ci balestrerebbe parole chi s’ingegnasse di farmene rimanere -.
- Tacque Florio, e Ascalion così gli rispose: - O caro a me più che figliuolo, tu mostri nel fine delle tue parole di me avere poca fidanza, e simile nel pregare che fai di che io mi maraviglio. Certo non che a’ tuoi prieghi ma a’ tuoi comandamenti, se la mia vecchiezza fosse tanta che il bastone per terzo piede mi bisognasse, mai dalla tua signorevole compagnia né da’ tuoi piaceri mi partirei infino alla morte. Ben conosco come amore stringe: e però muovati qual cagione vuole, che me per duca e per vassallo mi t’offero a seguirti infino alle dorate arene dello indiano Ganges e infino alle ruvide acque di Tanai, e per li bianchi regni del possente Borrea, e nelle velenose regioni di Libia, e, se necessario fia, ancora nell’altro emisperio verrò con teco. Le quali parti tutte cercate, dietro a te negli oscuri regni di Dite discenderò, e se via ci sarà ad andare alle case de’ celestiali iddii, insieme con teco le cercherò, né mai da me sarai lasciato mentre lo spirito starà con meco -. Così appresso ciascuno degli altri giovani rispose, e si profersero lieti sempre al suo servigio, dicendo di mai da lui non partirsi per alcuno accidente, e che più piaceva loro per l’universo con lui affannare, che nel suo regno, sanza lui, in riposo vivere. Allora li ringraziò Florio tutti, e pregolli che sanza indugio ciascuno s’apprestasse di ciò che a fare avesse, ch’egli intendea con loro insieme di partirsi al nuovo giorno vegnente appresso quello.
- E queste cose dette, se n’andò davanti al re, che dolente dimorava pensoso, e così gli disse: - Poi che voi avete avuti gl’infiniti tesori, presi dalla venduta Biancifiore, più cari che la mia vita o che la mia presenza, assai mi spiace, però che da voi partire mi conviene, e andare pellegrinando infino a tanto che io truovi colei cui voi con inganno m’avete levata, né mai nella vostra presenza spero di ritornare se lei non ritruovo la quale ritrovata, forse a voi con essa ritornerò: priegovi che vi piaccia ch’io vada con la vostra volontà -. Udendo il re queste cose, il suo dolore radoppiò, e non potendo le lagrime ritenere, alzò il viso verso il cielo, dicendo: - O iddii, levimi per la vostra pietà la morte da tante tribulazioni! Non si distendano più i giorni miei: troppo son vivuto! Chi avrebbe creduto ch’io fossi venuto nell’ultima età ad affannare? -. Poi rivolto a Florio così gli disse: - O caro figliuolo che mi domandi tu? Tu sai che io non ho, né mai ebbi altro figliuolo che te, e in te ogni mia speranza è fermata. Tu dei il mio grande regno possedere, e la tua testa si dee coronare della mia corona. Tu vedi che la mia vita è poca oramai, e i miei vecchi membri ciascuno cerca di riposarsi sopra la madre terra: la quale vita se forse troppo ti pare che duri, prendi al presente la corona. Oimè, or che cerchi tu, poi che a tanto onore se’ apparecchiato? Dove ne vuo’ tu ire? Che vuo’ tu cercare? E chi sarà colui, mentre che tu vivi, che nell’ultimo mio dì degnamente mi chiuda gli occhi? Oimè, caro figliuolo, dalla natività del quale in qua io ho sempre per te tribulazioni intollerabili sostenute, concedi questa sola grazia a me vecchio. Fammi questa sola consolazione, che io sopra la mia morte ti possa vedere. Statti meco quelli pochi giorni che rimasi mi sono della presente vita. A te non si conviene d’andare cercando quello che cercare vuoi: e se pur cercare vuoi colei, falla cercare ad altri, o indugiati dopo la mia morte a ricercarla, però che male sarebbe se io in quel termine che tu fuori del reame stessi, passassi ad altra vita, e convenisse che tu fossi cercato -.
- Florio allora così rispose: - Padre, impossibile è che io rimanga, e veramente io non rimarrò: io in persona sarò colui che la cercherò; se voi mi concedete ch’io vada io andrò, e se voi nol mi concedete, ancora andrò. Dunque piacciavi ch’io vada con la vostra licenza, acciò che io, della vostra grazia avendo buona speranza, se mai avviene che io colei cui io vo cercando ritruovi, io possa con più sollecitudine e con maggiore sicurtà tornare a voi. Né crediate che niuna grande impromessa che mi facciate qui ritenere mi potesse, ché certo tutti i reami del mondo alla mia volontà sommessi mi sarebbero nulla sanza Biancifiore. Se forse la mia partita quanto dite vi grava, ciò, inanzi che voi la vendeste, dovavate pensare acciò che, vendendola, cagione non mi donaste di pellegrinare: però che conoscere potevate me tanto amarla che ove che voi la mandaste io la seguirei. Gli avvenimenti di dietro poco vagliono o niente -.
- Vedendo il re Florio disposto pure ad andare, né potendolo con parole rivolgere da tale intendimento, così gli disse: - Caro figliuolo, assai mi duole il non poterti da questa andata levare, e però ella ti sarà conceduta, e con la mia grazia andrai; ma concedi a me e alla tua madre, co’ quali tu già è cotanto tempo non se’ stato, che alquanti giorni della tua dimoranza ci possiamo consolare e poi con l’aiuto degl’iddii prendi il cammino -. A cui Florio rispose a ciò non essere disposto, però che troppo gli parea aver perduto tempo, e però sanza indugio avea proposto di partirsi. A cui il re disse: - Figliuolo, adunque oramai a te stia il partire; fermato ho nell’animo d’abandonarti a’ fati e di sostenere questo accidente e ogni altro che di te per inanzi m’avvenisse, con forte animo, però che quanto io per adietro a quelli ho voluto con diversi modi resistere, tanto mi sono trovato più adietro del mio intendimento, e vedute ho le cose pur di male in peggio seguire. Ma poi che disposto se’ all’andare, fa prendere tutti i tesori che della tua Biancifiore ricevemmo, e degli altri nostri assai, e quelli porta con teco, e in ogni parte ove la fortuna ti conduce fa che cortesemente e con virtù la tua magnificenza dimostri: e appresso prendi de’ cavalieri della nostra corte quelli che a te piacciono, sì che bene sii accompagnato. E poi che rimanere non vuoi, va in quell’ora che li nostri iddii in bene prosperino i passi tuoi, a’ quali acciò che più brieve affanno s’apparecchi, primieramente cercherai le calde regioni d’Alessandria, però che a quelli liti i mercatanti che Biancifiore ne portarono, quivi mi dissero di dovere andare. La quale se mai avviene che tu ritruovi e che il tuo disio di lei s’adempia, o caro figliuolo, sanza rimanere in alcuna parte ti priego che tosto a me ritorni, però che mai lieto non sarò se te non riveggo. E se prima che tu torni si dividerà l’anima mia dal vecchio corpo, dolente se n’andrà agl’infernali fiumi: la qual cosa gl’iddii priego che nol consentano -.
- Fece allora Florio prendere i molti tesori e fare l’apprestamento grande per montare sopra una nave, posta nel corrente Adice, vicino alle sue case. Le quali cose vedendo la reina uscì della sua camera, e bagnata tutta di lagrime venne a Florio nella sala dove con li compagni dimorava, e disse: - O caro figliuolo, che è quello ch’io veggo? Hai tu proposto d’abandonarci così tosto? Ove ne vuoi tu ire? Che vuoi tu andare cercando? Oimè, come così subitamente ti parti tu da me? Non pensi tu quanto tempo egli è passato che io non ti vidi, se non ora? E ora con tanta tristizia t’ho veduto che se veduto non t’avessi, mi sarebbe più caro! Deh, per amor di me, non ti partire al presente. Non vedi tu le stelle Pliade, le quali pur ora cominciano a signoreggiare? Aspetta il dolce tempo nel quale Aldebaran col gran pianeto insieme surge sopra l’orizonte: allora Zeffiro levandosi fresco aiuterà il tuo cammino, e il mare, lasciato il suo orgoglio, pacifico si lascerà navicare. Deh, non vedi tu tempo ch’egli è? Tu puoi vedere ad ora ad ora il cielo chiudersi con oscuro nuvolato, e levandoci la vista de’ luminosi raggi di Febo, di mezzo giorno ne minaccia notte: e poi di quelli puoi udire solversi terribilissimi tuoni e spaventevoli corruscazioni e infinite acque. E tu ora vuoi i non conosciuti regni cercare, ne’ quali se tu fossi, non saria tempo di partirtene per tornare qui? Deh, or non ti muove a rimanere la pietà del tuo vecchio padre, il quale vedi che del dolore che sente di questa partita si consuma tutto? Non ti muove la pietà di me, tua misera madre, la quale ho de’ miei occhi per te fatte due fontane d’amare lagrime? Oimè, caro figliuolo, rimani. Ove vuoi tu ire? Tu vuoi cercare quello che tu non hai, per lasciare quello che tu possiedi, né forse avrai già mai! Tu vuoi cercare Biancifiore, la quale non sai ove si sia: e se pure avvenisse che tu la trovassi, chi credi tu che sia colui che a te forestiero e strano la rendesse? Non credi tu che le belle cose piacciano altrui come a te? Chiunque l’avrà, la terrà forse non meno cara che faresti tu. Lasciala andare, e diventa pietoso a stanza de’ miei prieghi. E se tu non vuoi di noi aver pietà, increscati di te medesimo e de’ tuoi compagni, e non vogliate in questo tempo abandonarvi alle marine onde, le quali niuna fede servano, avvegna che esse con li loro bianchi rompimenti mostrano le tempeste ch’elle nascondono; e i venti similemente sanza niuno ordine trascorrono, ora l’uno ora l’altro, e fanno strani e pericolosi ravolgimenti di loro in mare, e sogliono in questi tempi con tanta furia assalire i legni opposti alle loro vie, che essi rapiscono loro le vele e gli alberi con dannoso rompimento, e talora loro o li percuotono a’ duri scogli, o li tuffano sotto le pericolose onde. Temperati e rimanti di questa andata al presente: la qual cosa se tu non farai, più tosto delle dure pietre e delle salvatiche querce sarai da dire figliuolo, che di noi. E se a te e a’ tuoi compagni, i quali paurosi ti seguitano conoscendo questi pericoli, farai questo servigio di rimanere, io m’auserò a sostenere la futura noia, pensando continuamente che da me ti debbi partire, né mi sarà poi la tua andata sì noiosa come al presente sarà, se subitamente m’abandoni -. A cui Florio rispose: - Cara madre, per niente prieghi, e dell’audacia che hai di pregarmi mi maraviglio. Fermamente, se io già col capo in quelli pericoli che tu m’annunzi mi vedessi, io più tosto consentirei d’andare giuso e di morire in quelli, che di tornare suso per dovere con voi rimanere, però che sì fattamente avete l’anima mia offesa, che mai perdonato da me non vi sarà, infino a tanto che colei cui tolta m’avete, io non riavrò. E però voi rimarrete, e io co’ miei compagni, come la rosseggiante aurora mostrerà domattina le sue vermiglie guance, ci partiremo sopra la nostra nave, la quale forse ancora qui carica tornerà del mio disio -.
- Piangendo allora la reina, che pur Florio fermo a tale andata vedea, così disse: - Figliuolo, poi che né priego né pietà ti può ritenere, prendi questo anello, e teco il porta, e ognora che ’l vedi della tua misera madre ti ricordi. Egli fu dello antichissimo Giarba re de’ Getuli, mio antico avolo: e acciò che tu più caro il tenghi, siati manifesto ch’egli ha in sé mirabili virtù. Egli ha potenza di fare grazioso a tutte genti colui che seco il porta, e le cocenti fiamme di Vulcano fuggono e non cuocono nella sua presenza, né è ricevuto negli ondosi regni di Nettunno chi seco il porta. Il mio padre, pacificato col tuo, quando a lui per isposa mi congiunse, il mi donò acciò che graziosa fossi nel suo cospetto. Egli ti potrà forse assai valere se ’l guardi bene. Priegoti che, se vai, il tornare sia tosto: e priego quelli iddii, i quali, vinti da’ molti prieghi, graziosamente ti ci donarono, che essi ti guardino e conservino sempre, e a noi tosto con allegrezza ti rendino -. Prese Florio l’anello, e quello per caro dono ritenne; e lei lasciata, a suoi compagni si ritornò.
- Sentì Ferramonte, duca di Montoro, di presente lo ’nganno fatto a Florio, e la partenza che fare dovea de’ suoi regni; onde egli chiamato Fineo, valoroso giovane e suo nipote, la signoria di Montoro infino alla sua tornata gli assegnò, e sanza niuno dimoro a Marmorina se ne venne a Florio. Il quale, lui e’ compagni trovati, narrata la cagione della sua venuta, pregò Florio che in compagnia gli piacesse di riceverlo in tale affare. Il quale Florio ringraziò assai, e lui per compagno benignamente ricolse, pregandolo ch’egli s’apprestasse per venire il seguente giorno.
- Acconci i molti arnesi e’ gran tesori nella bella nave, e Florio e’ suoi compagni e’ servidori tutti di violate veste vestiti, e i corredi della ricca nave e i marinari similemente, la notte sopravenne. E i sei compagni per riposarsi in una camera insieme se n’andarono, nella quale del loro futuro cammino entrati in diversi ragionamenti, Florio così cominciò a parlare: - Cari amici, quanto la potenza del mio padre sia grande è a tutto il mondo manifesto, e similemente che io gli sia figliuolo, e il grande amore che io ho portato e porto a Biancifiore è da molti saputo: per la qual cosa nuovo dubbio m’è nell’animo nuovamente nato. Noi non sappiamo certamente in che parte Biancifiore sia stata portata, né alle cui mani ella sia venuta, onde io dico così: s’egli avvenisse che noi forse portati dalla fortuna pervenissimo là ove Biancifiore fosse, tale persona la potrebbe avere, che sentendo il mio nome, di noi dubiterebbe, e lei occultamente terrebbe infino che nel luogo dimorassimo, e massimamente i mercatanti, che di qui la portarono. E se forse lei possente persona tenesse, sentendomi nel suo paese, ragionevolemente m’avrebbe sospetto, e di quello o mi caccerebbe, o in quello forse occultamente m’offenderebbe, o lei guardando da’ nostri agguati, con maggiore guardia serverebbe: per la quale cosa, acciò che ’l mio nome non possa porgere ad alcuni temenza, o insidie a noi, mi pare che più non si deggia ricordare, ma che in altra maniera mi deggiate chiamare; e il nome il quale io ho a me eletto è questo: Filocolo. E certo tal nome assai meglio che alcuno altro mi si confà, e la ragione per che, io la vi dirò. Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos" e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in greco similemente tanto in nostra lingua risulta quanto "fatica": onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d’amore. E in cui più fatiche d’amore sieno state o sieno al presente non so: voi l’avete potuto e potete conoscere quante e quali esse siano state. Sì che, chiamandomi questo nome, l’effetto suo s’adempierà bene nella cosa chiamata, e la fama del mio nome così occulterà, né alcuno per quello spaventeremo: e se necessario forse in alcuna parte ci fia, il nominare dirittamente non ci è però tolto -. Piacque a tutti l’avviso di Florio e il mutato nome, e così dissero da quell’ora in avanti chiamarlo, infino a tanto che la loro fatica terminata fosse con grazioso adempimento del loro disio.
- Mentre la notte con le sue tenebre occupò la terra, i giovani si riposarono, e la mattina levati, accesero sopra gli altari di Marmorina accettevoli sacrificii al sommo Giove, a Venere, a Giunone, a Nettunno e ad Eolo e a ciascuno altro iddio, pregandoli divotamente che per la loro pietà porgessero ad essi grazioso aiuto nel futuro cammino. E fatti con divozione i detti sacrificii, s’apparecchiarono per montare sopra l’adorno legno con la loro compagnia nobile e grande. Ma venuti alla riva del fiume, videro quello con torbide onde più corrente che la passata sera non era: per la qual cosa mutato consiglio, comandarono a’ marinari che la nave menassero nel porto d’Alfea, e quivi li attendessero. E essi, fatti venire i cavalli, e montati, con molte lagrime dal re e dalla reina, e dagli amici, e da’ parenti, dando le destre mani, dicendo addio, si partirono; e lasciata Marmorina, al loro viaggio presero il meno dubbioso cammino.
- Il volonteroso giovane, abandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi de’ compagni, seguendo quelli d’Ascalion, ammaestratissimo duca del loro cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudissima giovane lasciò le sue ossa con etterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che dietro alle spalle s’ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra i fronzuti omeri d’Appennino, e discesi di quelli, essi si trovarono nel piacevole piano del fratello dello imperiale Tevero, vicini al monte donde gli antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Quivi s’apersero gli occhi d’Ascalion, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi casi li portassero; ma sanza parlarne a’ compagni, passando allato alle disabitate mura di Iulio Cesare e da’ compagni costrutte negli antichi anni, per uno antico ponte passarono l’acqua. Né però verso Alfea diritto cammino presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per più sicurtà elessero più lunga, o che gl’iddii, a cui niuna cosa si cela, volonterosi a tal cammino li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto nel quale fuggito s’era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l’acque venute per subita piova dalle vicine montagne, ruvinosa avanzò i termini del picciolo fiume che a piè dell’alto cerreto correa, e di quelli abondevolmente uscì allagando il piano: onde costretti furono a tirarsi sopra il cerruto colle, forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che abitazione fosse, s’accostarono, e entrarono in quelle; né più tosto vi furono, che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a Filocolo di fare sacrificii a’ non conosciuti e strani iddii, poi che i fati nel tempio recati li aveano: e fatte levare l’erbe e le fronde e’ pruni, cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure degl’iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevoli a tale uficio, fece sopra l’umido altare accendere odorosi fuochi; e con le propie mani ucciso il toro, le interiora di quello per sacrificio nell’acceso fuoco divotamente offerse; e poi inginocchiato davanti all’altare, con divoto animo incominciò queste parole: - O sommi iddii, se in questo luogo diserto n’abita alcuno, ascoltate i prieghi miei, e non ischifi la vostra deità il modo del mio sacrificare, il quale non forse con quella solennità che altre volte ricevere solavate, è stato fatto; ma, riguardando alla mia purità e alla buona fede, il ricevete, e a’ miei prieghi porgete le sante orecchi. Io giovane d’anni e di senno, oltre al dovere innamorato, pellegrinando cerco d’adempiere il mio disio, al quale sanza il vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta nel vecchio tempio, e l’adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti doni, che io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello, aiuto alla mia fatica -. Egli non aveva ancora la sua orazione finita, ch’egli sentì un mormorio grandissimo per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo spazio si risolveo in soave voce, né vide onde venisse, e così disse: - Non è per lo insalvatichito luogo mancata la deità di noi padre di Citerea abitatore di questo tempio, a cui tu divotamente servi, e dalla quale costretti siamo di darti risponso; e però che con divoto fuoco hai i nostri altari riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d’avere a’ tuoi divoti prieghi vera risponsione de’ futuri tempi, e però ascolta. Tu, partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave t’aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai nell’isola del fuoco, e quivi novelle troverai di quello che vai cercando. Poi, quindi partitoti, perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei cui tu cerchi dimora, e là non sanza gran paura di pericolo, ma sanza alcun danno, la disiderata cosa possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirà colui che i tuoi accidenti con memorevoli versi farà manifesti agli ignoranti, e ’l suo nome sarà pieno di grazia -. Tacque la santa voce; e Filocolo, d’ammirazione e di letizia pieno, tornò a’ compagni, e loro il consiglio degl’iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.
- Era nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un pratello vestito di palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea, alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano, e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedea l’acqua rilevare. Alla quale Filocolo, uscito del tempio, e appressandosili, gli piacque, così chiara vedendola, e divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d’argento apportare; e con quello dall’una delle parti si bassò sopra la fontana per prenderne, e, bassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentì non so che gorgogliare, e dopo picciolo spazio il gorgogliare volgersi in voce e dire: - Bastiti, chi che tu sii che le mie parti molesti con non necessario ravolgimento, che io sanza essere molestato, o molestarti, mitigo la tua sete, né perisca il fraternale amore per che io, che già fui uomo, sia ora fonte -. A questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro la mano, e quasi che non cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio, Filocolo rassicuratosi così sopra la chiara fonte parlò: - O chi che tu sii, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t’offesi, ché non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio nappo, d’offendere ad alcuno. Ma se gl’iddii da tal molestia ti partano e le tue onde lungamente chiare conservino, non ti sia noia la cagione per che qui relegato dimori narrarci, e chi tu se’, e come qui venisti e onde, acciò che per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora molte anime pietose, se pietà meritano i tuoi avvenimenti -.
- Tacque Filocolo, e l’onde tutte s’incominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio, una voce così parlando uscì del vicino luogo a’ due bollori: - Io non so chi tu sii, che con così dolci parole mi costringi a rispondere alla tua domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sarà sanza contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponghi. E però che più mia condizione ti sia manifesta, dal principio de’ miei danni ti narrerò i miei casi. E sappi ch’io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di nobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancifiore con la luce de’ suoi begli occhi mi prese in tanto il cuore del suo piacere, che mai uomo di piacere di donna non fu sì preso. Niuna cosa era che io per piacerle non avessi fatto, e già molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da lei, un giorno che la festività di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l’onore del giuoco. E da Marmorina partitomi andai a Montoro, dove un figliuolo del detto re chiamato Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando che esso Biancifiore più che altra cosa amasse come poi detto mi fu che esso facea: per le quali cose narrate meritai a torto d’essere da lui odiato. Queste furono principali cagioni de’ miei mali, però che, se io fossi taciuto, ancora in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da Florio alla mia vita, e similemente mi fece sentire i colpi che la sua spada e quelle de’ suoi compagni s’apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose vedute, narrandole poi io ad un mio amico, il quale de’ segreti di Florio alcuna cosa sentiva, m’avverò quello che veduto aveva essermi sanza alcun fallo apparecchiato, se io di Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il consiglio del mio amico, e abandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga e di pigliare questo luogo per etterno essilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, onde io imaginai di poterci sanza impedimento d’alcuni nascosamente piangere l’abandonato bene; e così lungamente il piansi. Ma per le mie lagrime non per l’essere lontano, mancava però il verace amore ch’io portava e porto in colei che più bella che altra mi parea, anzi più ciascun giorno mi costringeva e molestava molto. Laonde io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl’iddii del cielo e della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte domandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma pure pietà del mio dolore vinse gl’iddii, li quali chiamando, come io ho detto che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello medesimo convertiva, e già volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l’usato uficio adoperare, ma mi sentiva nel muovere de’ membri e nel toccarsi insieme né più né meno come l’onde cacciate l’una dal vento e l’altra dalla terra insieme urtarsi: per che io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho più profondo occupato. E così trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare dagl’iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a’ dolenti occhi, i quali nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in alcuna parte cuopre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io coperto m’era quel giorno che con tanto effetto la morte disiderava, acciò che sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse più dolce il morire: e, come vedete, ancora mi cuopre, e emmi caro. Ora hai per le mie parole potuto tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto più brievemente ho potuto t’ho dichiarato: non ti sia dunque grave manifestarmi a cui io mi sia manifestato -.
- Ascoltando Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la verità, e cominciò quasi per pietà a lagrimare, e così gli rispose: - Fileno, pietà m’ha mosso de’ tuoi casi a lagrimare; e certo io soverrò al tuo domando, poi che al mio se’ stato cortese, e non sanza consolazione delle tue lagrime ascolterai le mie parole. E primieramente ti sia manifesto che io mi chiamo Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti, e per quello signore per lo quale tu in lagrime abondi e in dolore, io similemente pellegrinando d’acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. Quel Florio, il quale tu mi nomini, io il conosco troppo bene, e non ha guari che io il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue essere il compresi, che mai sì doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quello ch’io intendessi, ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane Biancifiore, la quale tu già amasti, vendé a’ mercatanti sì come vilissima serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore a dolore. Onde se egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl’iddii l’hanno ben pagato, avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in angoscia, ma, con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle insidie di Florio ti levò, così come agevole le fu a rendere lo sbranato Ipolito vivo con intera forma, così te nel pristino stato potrà a’ suoi servigi recandoti, rintegrare -.
- La chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiare, ma più a Filocolo non parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu dimorato, e quella riposata vide sì come quando prima col nappo mossa l’avea, egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliandosi, incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di Fileno, dicendo: - O quanto è dubbiosa cosa nella palestra d’Amore entrare, nella quale il sottomesso albitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui piace. Beati coloro che sanza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i fini a’ quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto nel salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il quale fu il più gaio cavaliere e il più leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe pensare Filocolo figliuolo unico dell’alto re di Spagna, essere per amore divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo, e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo? -. A questo rispose Filocolo dicendo: - L’essere venuto qui m’è assai caro; né per alcuna cosa vorrei non esserci stato, però che mirabile cosa e da notare abbiamo veduta nel diserto luogo, il quale n’è stato dagl’iddii comandato d’onorare, e detto il perché. E certo io non so in che atto io il possa avanti di più onore accrescere che io m’abbia fatto rinnovando il santo tempio e il suo altare -. A cui Ascalion disse: - Noi andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la cercata cosa, nel voltare de’ nostri passi il tornar qui non ci falla, e allora quello onore che in questo mezzo avremo ne’ nostri animi diliberato di fare faremo agl’iddii e al luogo, però che gl’iddii, solleciti a’ beni dell’umana gente, niuna utilità per i nostri doni ci concedono; ma poi ch’elli hanno le dimandate cose a’ dimandanti concedute, dilettansi e è loro a grado che i ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti onori alle loro deità, mostrandosi grati del ricevuto beneficio. E però, come dissi, nel nostro tornare ricevute le disiate cose, ci mostreremo conoscenti del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrà -.
- Questo consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono sanza più molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo l’ammaestramento dello strano iddio, mancate l’abondanti acque che il solingo piano aveano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale sollecitamente pervennero ad Alfea e a’ suoi porti, avanti che l’occidentale orizonte fosse dal sole toccato. Quivi la mandata nave quasi in un’ora con loro insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose più prospere nel futuro, su vi montarono sanza alcuno indugio, e a’ prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all’isola del fuoco il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo legno, e lui con Zeffiro a’ disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i suoi regni servava: onde Filocolo e suoi compagni contenti al loro cammino sanza affanno procedeano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia gustare sanza il suo fele, non consentì che lungamente questa fede fosse a’ disiosi giovani servata; ma, avendo già costoro dopo il terzo giorno assai vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, aveano diliberato di riposarsi, riposti, le bocche di Zeffiro richiuse e diede a Noto ampissima via sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con ispiacevol mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi morti in tale affanno, sanza ascoltare alcun conforto, nella nave si riputavano.
- Erasi Noto con focoso soffiamento d’Etiopia levato, volendo già il giorno dare luogo alla notte, e avea l’emisperio tutto chiuso d’oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi che il giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedeano che si fare. Elli s’argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di resistere alla sopravegnente tempesta per li veduti segni; ma mentre che gli argomenti utili alla loro salute si prendeano, subitamente incominciò da’ nuvoli a scendere un’acqua grandissima, e ’l vento a multiplicare in tanta quantità, che levate loro le vele e spezzato l’albero, non come essi voleano, ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo e da ogni parte percoteano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall’un capo all’altro: e già tolto avea loro l’uno de’ timoni, e dell’altro stavano in grandissimo affanno di guardare. E il cielo s’apriva sovente mostrando terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcuna parte colti della nave, n’aveano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravegnente acqua e da’ tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, aveano perduto, e chi qua e chi là quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giaceano vinti; e quasi ogni speranza di salute, per lo dire de’ padroni e per le manifeste cose, era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze avea compiute, né il tempo facea sembianti di riposarsi, ma ciascuna ora più minaccevole proffereva maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl’iddii.
- Multiplicava ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo, e ancora che il romore e del mare e de’ venti e de’ tuoni e dell’acque fosse grandissimo, ancora il faceano molto maggiore le dolenti voci de’ marinari, le quali alcune in ramarichii, altre in prieghi agl’iddii che gli dovessero atare dolorosissime delle loro bocche procedeano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo per lungo spazio avendo vedute, e a quelle e conforto e aiuto co’ suoi compagni avea porto quanto potuto avea, vedendo la loro salute ognora più fuggire, con gli altri insieme quasi disperato piangendo s’incominciò a dolere, dicendo così: - O fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontà. Assai ti sono stato trastullo, assai hai di me riso, ora in alto e ora in basso stato. Non penare più di recarmi a quell’ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non m’indugiare più la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente i tuoi assalti ricevono, non sofferiscano sanza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli tutti, fuori che questo, m’hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non avea provato, ogni tua noia si contiene: sia adunque questo, sì come maggiore, a me per fine riserbato nelle mie miserie. A questa niuna cosa peggiore mi può seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e la tua voglia s’adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti rimasi sanza figliuolo, confortatevi, ché più aspro fine gli seguita che voi non gli dimandavate: egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato. Le vostre operazioni questa notte avranno fine e la vostra letizia non vedrà il morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m’è benigna la fortuna, e in questo la ringrazio, che sì incerta sepoltura mi donerà, che né vivo né morto mai a’ vostri occhi mi ripresenterò: per che se mi odiate, come le vostre operazioni hanno mostrato, sanza consolazione in dubbio viverete della mia vita; se mi amate, come figliuolo da’ parenti dee essere amato, la fortuna, rapportatrice de’ mali, morto mi vi paleserà sanza indugio, e allora potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia oppinione sola questa consolazione ne porterà con l’anima al leggero legnetto d’Acheronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerà, la quale non consentì che io lieti usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto t’affanni per avere la mia anima? Cuopri la trista nave se possibile è, e me solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene a un’ora: non nuoccia il mio infortunio agl’innocenti compagni -. E poi ch’egli aveva per lungo spazio così detto, e egli con più pietosa voce alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva: - O sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino, e aiuta il tuo popolo che solo in te spera, e, sanza guardare a’ nostri meriti, con pietoso aspetto alla nostra necessità ti rivolgi, e se licito non ci è di potere la dimandata isola prendere con le nostre ancore, prenda la già non nave, sanza pericolo di noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo mai, muovasi la tua pietà a’ nostri prieghi, né resistano i commessi difetti, i quali sì come uomini continui adoperiamo. E tu, o santo iddio, a cui non ha tre dì passati, o forse quattro feci debiti sacrificii, aiutaci, e la ’mpromessa fatta dalla santa bocca non la mettere in oblio. Non si conviene agl’iddii essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che così la tua promessa mi sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di prendere altri liti, se possibile non è d’avere questi, che per tal maniera la promessione ricevere. O santa Venus, aiutami nel tuo natale luogo. Non mi far perire là ove tu nascesti e dove tu più forza che in altra parte dei avere. Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e manifestisici la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi che niuno di noi non può più; solo il vostro soccorso sostiene le nostre speranze: quello solo attendiamo. Non si ’ndugi: l’albero, le vele, i timoni e le sarte da’ venti e dall’onde ci sono state tolte. E i tuoni e le spaventevoli corruscazioni e le gravi acque cadenti da cielo e mosse da’ venti ci hanno i nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a più aiutarci: in tempestoso mare, sanza guida e in isconosciuto luogo, abandonato da ogni speranza, per li tuoi servigi così mi ritruovo -.
- Gli altri compagni di Filocolo tutti piangeano, e nulla salute speravano, ma del fiero colpo d’Antropos, il quale vicino si vedeano, impauriti, mezzi morti giaceano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conduceano secondo i disordinati movimenti della nave. Ma il vecchio Ascalion, il quale altre volte di simiglianti avversitadi provate avea, ancora che pauroso fosse, non gli parea cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli altri, e tutti li giva riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E mentre queste cose così andavano, la nave portata da’ poderosi venti sanza niuno governamento, avanti che il giorno apparisse da nulla parte, ne’ porti dell’antica Partenope fu gittata da’ fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi danni: e quivi da’ marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, così spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall’ancore fu fermata, e aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl’iddii, non sappiendo in che parte la fortuna gli avesse balestrati.
- Poi che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da’ marinari, contenti d’essere in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo co’ suoi compagni, a’ quali più tosto della sepoltura risuscitati parea uscire che della nave, scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi i passati pericoli della presente notte, appena parea loro potere essere sicuri, e ringraziando gl’iddii che da tal caso recati gli avea a salute, offersero loro pietosi sacrificii e incominciaronsi a confortare. E da un amico d’Ascalion onorevolemente ricevuti furono nella città, e quivi la loro nave fecero racconciare tutta, e di vele e d’albero e di timoni migliori che i perduti la rifornirono; e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il quale molto più si prolungò che ’l loro avviso non estimava. Per la qual cosa Filocolo più volte volle per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da Ascalion, se ne rimase, aspettando il buon tempo in quel luogo.
- Videro Filocolo e’ suoi compagni Febeia cinque volte tonda e altretante cornuta, avanti che Noto le sue impetuose forze abandonasse: né quasi mai in questo tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa gravissima malinconia e ira la disiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo ricevere gli pareva. E più volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e con umili prieghi s’ingegnò di piegare, ma venire non ne poté al disiderato fine, anzi parea che quelli più nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva dicendo: - Oimè, che ho io verso gl’iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non sono accettati? Io non sacrilego, io non invido de’ loro onori, io non assalitore de’ loro regni, né tentatore della loro potenza ma fedelissimo e divoto servidore di tutti: adunque ché mi nuoce? -. Egli dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a’ marini liti, e in quella parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva e rimirava, dicendo: - Sotto quella parte del cielo dimora la mia Biancifiore. Quella parte è testé da lei veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch’ella adduce seco, presa dalla luce de’ begli occhi di Biancifiore -. E poi bassati gli occhi sopra le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle sue rotture con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti stimolare quelle, turbato in se medesimo dicea: - O dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio andare? Forse tu pensi ch’io un’altra volta porti il greco fuoco alla tua fortezza, come fecero coloro a’ quali se tu così crudele, come a me se’, fossi stato, ancora le sue mura vedresti intere e piene di popolo sanza essere mai state offese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col cuore acceso di fiamma inestinguibile, per lo piacere d’una bellissima giovane, sì come tu già avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovare lei, allontanata per inganni d’alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono più coloro nel tuo cospetto, che portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso, che commesso più che gli ausonici mercatanti? Niuna cosa: con continui sacrificii ho la tua deità essaltata cercandola di pacificare verso me. Alla quale s’io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io m’avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non è lungo tempo passato, quando me e’ miei compagni per morti quasi in questo luogo ci gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché sanza utilità più avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati brieve quantità come da Leandro erano, con la virtù dell’anello ricevuto dalla pietosa madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere e crederei poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sì lungo cammino per quelli ho ad andare, che più tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere m’offendesse: e per questo la tua pace cerco e quella disidero; non la mi negare, io te ne priego per quello amore che già per Esmenia sentisti. E tu, o sommo Eolo, spietato padre di Cannace, tempera le tue ire, ingiustamente verso me levate. Apri gli occhi, e conosci ch’io non sono Enea, il gran nemico della santa Giunone: io sono un giovane che amo, sì come tu già amasti. Pensi tu forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire, racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra: io non sono Macareo, né mai in alcuna cosa t’offesi. Sostieni ch’io compia lo incominciato viaggio, e quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti piace soffia: graziosa cosa mi sarà di quel luogo mai non partirmi. Allora mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sarà il dimorare. Ma ora che con angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che ’l mio disio io il possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi in pace -. Poi diceva: - Oimè, ove mi costrigne amore di perdere i prieghi? Alle sorde onde e a’ dissoluti soffiamenti, ne’ quali niuna fede, sì come in cosa sanza niuna stabilità, si truova! -.
- Con tali parole più volte si dolea lo innamorato giovane sopra i salati liti, e da malinconia gravato tornava al suo ostiere. Ma essendo già Titan ricevuto nelle braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d’ornatissimi vestimenti, e ogni ramo nascoso dalle sue frondi, e gli uccelli, stati taciti nel noioso tempo, con dolci note riverberavano l’aere, e il cielo, che già ridendo a Filocolo il disiderato cammino promettea con ferma fede, avvenne che Filocolo una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno riposo. Il quale vedendolo, i compagni si maravigliarono molto per che più che l’altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalion disse: - Giovane, caccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, sanza dubbio di più ricevere sì noioso accidente come già sostenemmo, ci sarà licito il camminare -. A cui Filocolo rispose: - Maestro, certamente quello che dite, conosco, ma ciò alla presente malinconia non m’induce -. - E come - disse Ascalion - è nuovo accidente venuto per lo quale tu debbi dimorare turbato? -. - Certo - disse Filocolo - l’accidente della mia turbazione è questo, che nella passata notte io ho veduta la più nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho avuta gravissima noia nell’animo, veggendo le cose ch’io vedeva: per la qual cosa la turbazione, poi ch’io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma sanza dubbio credo che meco non lungamente dimorerà -. Pregaronlo Ascalion e’ compagni che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare loro, nella quale tanta afflizione sostenuta avea. A’ quali Filocolo con non mutato aspetto rispose che volentieri, e così cominciò a parlare:
- - A me parea essere da tutti voi lasciato e dimorare sopra lo falernese monte, qui a questa città sopraposto, e sopra quello mi parea che un bellissimo prato fosse, rivestito d’erbe e di fiori dilettevoli assai a riguardare, e pareami di quello potere vedere tutto l’universo; né mi parea che alli miei occhi alcuna nazione s’occultasse. E mentre che io così rimirando intorno le molte regioni dimorava, vidi di quello cerreto ove noi la misera fontana trovammo, uno smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato, pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una fagiana bellissima e volante molto, che levata s’era d’una pianura fra salvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta Naso: e nel già detto prato a me assai appresso mi parea ch’egli la sopragiungesse, e ficcatasela in piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso, assai vicino di quel luogo onde levata s’era la fagiana, mi parve vedere levare quello uccello che a guardia dell’armata Minerva si pone, e con lui uno nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quella isola la quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi di quindi levare e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre che io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l’ultimo ponente e i regni di Trazia di sopra a Senna levarsi uno sparviere bellissimo e uno gheppo, e seguitare un girfalco e un moscardo e un rigogolo e una grua, che di sopra alla riviera del Rodano levati s’erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in più prossimana parte tirati gli occhi, vidi delle guaste mura, lasciate da noi nel piano del fratello del Tevero, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de’ suoi popoli nimica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando seguiva: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d’Elena, e quivi venne, e d’una costa d’una di queste montagne vicine venne uno avoltoio e con gli altri nel bel prato si pose. E mentre che io della adunazione di questi uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia molti e diversi altri levarsi, e con gli sopradetti giugnersi: e’ mi parea, se bene estimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri precedere, e, a loro dietro, una delle figliuole di Piero conobbi, e una ghiandaia che pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il mirifico tiratore de’ carri di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un grande aghirone con la misera Filomena e con Tireo, a’ quali dietro volava un indiano pappagallo e un frisone, e con gli altri accolti, fatto di loro un cerchio dintorno alla fagiana, da’ piè di Niso sopr’essa. Io maravigliandomi incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti incominciarono a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni allo smerlo, gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti; e chi penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando, sanza ghermirla punto, quanto potea da tutti la difendea; e in questa battaglia per lungo spazio dimorò, e quasi io più volte fui mosso per andare ad aiutarlo, poi ritenendomi fra me dicea: "Veggiamo la fine di costui, se egli avrà tanto vigore che da tutti la difenda". E così attendendo, delle montagne vicine a Pompeana vidi un gran mastino levarsi e correre in questo luogo, e tra tutti gli uccelli ficcatosi, con rabbiosa fame il capo della fagiana prese, e quello divorato, per forza l’altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so come in tortola essere trasmutato, e sopra un vicino albero, nel quale fronda verde il nuovo tempo non avea rimessa, posarsi, e sopra quello a modo di pianto umano quasi la sentiva dolere. E così stando, mi parve vedere il cielo chiudersi d’oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch’egli ne cominciò a scendere un’acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta: e i tuoni e’ lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io dubitava non il mondo un’altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa pistolenzia parea che sopra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con l’alie chiuse tutta la sostenea. La terra e ’l mare e ’l cielo crucciati e minacciando peggio, pareano contra a quella commossi, né parea che luogo fosse alcuno ove essa per sua salute ricorso avere potesse. E così di questa visione in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non stante fantasia, infino a quell’ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora nella mente turbato della compassione avuta al povero uccello -.
- - Strane cose ne conta il tuo parlare - disse Ascalion, - né che ciò si voglia significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne dee succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne’ suoi sonni vede mirabili cose e impossibili e strane, dalle quali poi isviluppato si maraviglia, ma conoscendo i principii onde muovono, quelle sanza alcun pensiero lascia andare: e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sì come vane, nella loro vanità le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de’ nostri disiderii lieto indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo; andiamo e la piacevole aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio ci proveggiamo passando tempo -. Così Filocolo col duca e con Parmenione e con gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso quella parte ove le reverende ceneri dell’altissimo poeta Maro si posano, dirizzano il loro andare. I quali non furono così parlando guari dalla città dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa festa di giovani e di donne. E l’aere di varii strumenti e di quasi angeliche voci ripercossa risonava tutta, entrando con dolce diletto a’ cuori di coloro a’ cui orecchi così riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la fortuna così lui e i compagni fuori del giardino tenea ad ascoltare sospesi, un giovane uscì di quello, e videli, e nell’aspetto nobilissimi e uomini da riverire gli conobbe. Per che egli sanza indugio tornato a’ compagni, disse: - Venite, onoriamo alquanti giovani, ne’ sembianti gentili e di grande essere, i quali, forse vergognandosi di passare qua entro sanza essere chiamati, dimorano di fuori ascoltando i nostri canti -. Lasciarono adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti del giardino se ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a lui, con quella reverenza che essi avevano già negli animi compresa che si convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa gli piacesse co’ suoi compagni passare con loro nel giardino, con più prieghi sopra questo strignendolo che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i dolci prieghi l’animo gentile di Filocolo, e non meno quello de’ compagni; e così a’ preganti fu da Filocolo risposto: - Amici, in verità tal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sì come naufragi gittati ne’ vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che l’ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversità recitando; e come che la fortuna ad ascoltare voi c’inducesse non so, ma disiderosa, pare, di cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco, ci ha parati davanti: e però a’ vostri prieghi satisfaremo, ancora che forse parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo -. E così parlando insieme nel bel giardino se n’entrarono, ove molte belle donne trovarono; dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme accolti alla loro festa.
- Ma poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da’ giovani e ringraziarli del ricevuto onore, una donna più che altra da riverire, piena di maravigliosa bellezza e di virtù, venne dov’egli stava, e così disse: - Nobilissimo giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatta una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare la loro festa: piacciavi, adunque, all’altre donne e a me la seconda grazia non negare -. A cui Filocolo con soave voce rispose: - Gentil donna, a voi niuna cosa giustamente si poria negare; comandate: io e’ miei compagni a’ vostri piaceri tutti siamo presti -. A cui la donna così disse: - Con ciò sia cosa che voi, venendo, in grandisima quantità la nostra festa multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con noi questo giorno, in quello che cominciato avemo, infino alla sua ultima ora consumate -. Filocolo rimirava costei parlante nel viso, e vedea i suoi occhi pieni di focosi raggi sintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bella; né poi che la sua Biancifiore non vide, gli parea sì bella donna avere veduta. Alla cui domanda così rispose: - Madonna, disposto sono a più tosto il vostro piacere che ’l mio dovere adempiere: però quanto a voi piacerà, tanto con voi dimorerò, e’ miei compagni con meco -. Ringraziollo la donna, e ritornando all’altre, con esse insieme s’incominciò a rallegrare.
- In tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un giovane chiamato Caleon, di costumi ornatissimo e facundo di leggiadra eloquenza, a cui egli parlando così disse: - Oh, quanto voi agl’iddii immortali siete tenuti più che alcuni altri i quali in una volontà pacifici vi conservano di far festa! -. - Assai loro ci conosciamo obligati - rispose Caleon; - ma quale cagione vi muove a parlare questo? -. Filocolo rispose: - Certo niuna altra cosa se non il vedervi qui così assembrati tutti in un volere -. - Certo - disse Caleon - non vi maravigliate di ciò ché quella donna, in cui tutta leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene -. Disse Filocolo: - E chi è questa donna -. Caleon rispose: - Quella che vi pregò che voi qui rimaneste, quando partire poco inanzi vi volevate -. - Bellissima e di gran valore mi pare nel suo aspetto - disse Filocolo, - ma se ingiusta non è la mia domanda, manifestimisi per voi il suo nome, e donde ella sia e di che parenti discesa -. A cui Caleon rispose: - Niuna vostra domanda potrebbe essere ingiusta; e però che di così valorosa donna niuno è che apertamente parlando non deggia palesare la sua fama, al vostro dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta, posto che la più parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, richiuse. Ella è figliuola dell’altissimo prencipe sotto il cui scettro questi paesi in quiete si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtù è che in valoroso cuore debbia capere, che nel suo non sia; e voi, sì come io estimo, oggi dimorando con noi, il conoscerete -. - Ciò che voi dite - disse Filocolo - non si può ne’ suoi sembianti celare: gl’iddii a quel fine, che sì singulare donna merita, la conducano, e certo quello e più che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono -. Disse Caleon: - Queste donne sono alcune di Partenope, e altre altronde in sua compagnia, sì come noi medesimi, qui venute -. E poi che essi ebbero per lungo spazio così ragionato, disse Caleon: - Deh, dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra condizione conoscere più avanti che quello che il vostro aspetto ripresenti, acciò che forse conoscendovi, più degnamente vi possiamo onorare: però che tal fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell’onorare mancare -. A cui Filocolo rispose: - Niuno mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto n’avete fatto avanti, che soprabondando avete i termini trapassati. Ma poi che della mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però, quanto licito m’è di scoprirne, ve ne dirò. Io sì sono un povero pellegrino d’amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da’ miei parenti: e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo, di nazione spagnuolo, gittato da tempestoso mare ne’ vostri porti, cercando io l’isola de’ siculi -. Ma tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non comprendesse più avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de’ suoi accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro vita migliore gli promettevano. E da quell’ora inanzi multiplicando l’onore, non come pellegrino e come uomo accettato a quella festa, ma come maggiore e principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò che così fosse, poi che da Caleon la sua condizione intese, in sé molto caro avendo tale accidente.
- Era già Appollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e’ giovani in quel luogo adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giardino cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano, fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendoli: - Giovane, il caldo ci costringe di cercare i freschi luoghi: però in questo prato, il quale qui davanti a noi vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda parte di questo giorno passiamo -. Andò adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a’ passi di lei, e con lui i suoi compagni, e Caleon e due altri giovani con loro: e vennero nel mostrato prato, bellissimo molto d’erbe e di fiori, e pieno di dolce soavità d’odori, dintorno al quale belli e giovani albuscelli erano assai, le cui frondi verdi e folte, dalle quali il luogo era difeso da’ raggi del gran pianeto. E nel mezzo d’esso pratello una picciola fontana chiara e bella era dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi mirando l’acqua chi cogliendo fiori incominciarono a parlare. Ma però che tal volta disavvedutamente l’uno le novelle dell’altro trarompeva, la bella donna disse così: - Acciò che i nostri ragionamenti possano con più ordine procedere e infino alle più fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d’amore proponga, e da esso a quella debita risposta prenda. E certo, secondo il mio avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste che il caldo sarà, sanza che noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente con diletto sarà adoperato -. Piacque a tutti, e fra loro dissero: - Facciasi re -. E con unica voce tutti Ascalion, per che più che alcuno era attempato, in re eleggevano. A’ quali Ascalion rispose sé a tanto uficio essere insofficiente, però che più ne’ servigi di Marte che in quelli di Venere avea i suoi anni spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli si credea bene tanto conoscere avanti delle qualità di tutti, che egli il costituirebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono allora tutti che in Ascalion fosse liberamente la elezione rimessa, poi che assumere in lui tale dignità non volea.
- Levossi allora Ascalion, e colti alcuni rami d’un verde alloro, il quale quasi sopra la fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella recata in presenza di tutti costoro, così disse: - Da poi che io ne’ miei più giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o udita nomare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati onorati in maniera da mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sì come io sanza fallo conosco, è d’ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io in nostra reina la eleggo; e molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui le occulte vie d’amore sono tutte aperte, sarà lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci -. E appresso questo, alla valorosa donna davanti umilemente le si inchinò, dicendo: - Gentile donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d’oro è da tener cara a coloro che degni sono per le loro opere di tali coprirsi la testa -. Alquanto il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo: - Certo non debitamente avete di reina proveduto all’amoroso popolo, che di sofficientissimo re avea bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la più semplice e con meno virtù sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me investita non fosse. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso opporre, e acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, io la prenderò, e spero che dagl’iddii e da essa l’ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con l’aiuto di colui a cui queste frondi furono già care, a tutti risponderò secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli già l’ardito uomo vinto fece meritare d’uscire della guaina de’ suoi membri. Io per via di festa, lievi risposte vi donerò, sanza cercare le profundità delle proposte questioni, le quali andare cercando più tosto affanno che diletto recherebbela alle nostre menti -. E questo detto, con le dilicate mani prese l’offerta ghirlanda, e la sua testa ne coronò, e comandò che, sotto pena d’essere dall’amorosa festa privato, ciascuno s’apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e convenevole a quello di che ragionare intendeano, e tale, che più tosto della loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro guastatrice di quella.
- Dalla destra mano di lei sedea Filocolo, a cui ella disse: - Giovane, cominciate a proporre, acciò che gli altri ordinatamente come noi qui seggiamo, più sicuramente dopo voi proponga -. A cui Filocolo rispose - Nobilissima donna, sanza alcuno indugio al vostro comandamento ubidirò -; e così disse: - Io mi ricordo che in quella città dov’io nacqui si faceva un giorno una grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che similemente v’era, andando con gli occhi intorno mirando quelli che nel luogo stavano, vidi due giovani graziosi assai nel loro aspetto, i quali amenduni una bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi più stato fosse di loro acceso della bellezza di costei. E quando essi lungamente costei ebbero riguardata, non faccendo essa all’uno migliori sembianti che all’altro, elli incominciarono fra loro a ragionare di lei: e fra l’altre parole che io del loro ragionamento intesi, si fu che ciascuno diceva sé essere più amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro fatti allegava in aiuto di sé. E essendo per lungo spazio in tale quistione dimorati e già quasi per le molte parole venuti a volersi oltraggiare, si riconobbero che male faceano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con iguale concordia, amenduni davanti alla madre della giovane se n’andarono, la quale similemente a quella festa stava, e così in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che sopra tutte l’altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figlia di lei piaceva e essi fossero in quistione quale d’essi due piacesse più a lei, che le piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro non nascesse, cioè che alla figlia comandasse che o con parole o con atti loro dimostrasse qual di loro da lei più fosse amato. La pregata donna ridendo rispose che volontieri; e chiamata la figliuola a sé, le disse: "Bella figlia, ciascuno di questi due più che sé t’ama, e in quistione sono quale da te più sia amato, e cercano, di grazia, che tu o con segno o con parola ne li facci certi; e però, acciò che d’amore, di cui pace e bene sempre dee nascere, non nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con cortesi sembianti mostra inverso del quale più il tuo animo si piega". Disse la giovane: "Ciò mi piace". E rimiratili amenduni alquanto, vide che l’uno avea in testa una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l’altro sanza alcuna ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di verdi frondi avea levò quella di capo a sé, e a colui che sanza ghirlanda davanti le stava la mise in capo; appresso, quella che l’altro giovane in capo avea ella la prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si ritornò alla festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro avea fatto. I giovani rimasi così, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che più da lei era amato; e quelli la cui ghirlanda la giovane prese e posela sopra la sua testa, diceva: "Fermamente ella ama più me, però che a niuno altro fine ha ella la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e per avere cagione d’essermi tenuta; ma a te ha ella la sua donata quasi in luogo d’ultimo congedo, non volendo, come villana, che l’amore che tu l’hai portato sia sanza alcuno merito; ma quella ghirlanda donandolati, ultimamente t’ha meritato". L’altro dicendo il contrario, così rispondeva: "Veramente la giovane le tue cose ama più che te, e ciò si può vedere, ché ella ne prese; ma ella ama più me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi donò: e non è segno d’ultimo merito il donare, come tu di’ ma è principio d’amistà e d’amore. E fa il dono colui che ’l riceve suggetto al donatore: però costei, forse di me incerta, acciò che più certa di me avere per suggetto fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi fossi. Ma tu, come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch’ella mai ti debbia donare?". E così quistionando dimorarono per grande spazio, e sanza alcuna diffinizione si partirono. Ora, dico io, grandissima reina, se a voi fosse l’ultima sentenza in tale questione domandata, che giudichereste voi? -.
- Con occhi d’amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo si rivolse la bella donna a Filocolo e dopo un lieve sospiro così rispose: - Nobilissimo giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e ciascun de’ giovani assai bene la sua parte difendea; ma acciò che ne richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, così vi rispondiamo. A noi pare, e così dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane ami l’uno, e l’altro non abbia in odio ma per più il suo intendimento tener coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non sanza cagione fece, ma acciò che l’amore di colui cui ella amava più fermo acquistasse e quello dell’altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra quistione, la quale è a quale de’ due sia più amore stato mostrato, diciamo che colui a cui ella donò la sua ghirlanda è più da lei amato. E questa ne pare la ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo amore portato è ciascuno sì forte obligato alla cosa amata, che sopra tutte le cose a quella disidera di piacere, né a più legarla bisognano o doni o servigi; e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque maniera puote, di farsela benigna e suggetta s’ingegna in diversi modi, acciò che quella possa a’ suoi piaceri recare, o con più ardita fronte il suo disio dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere cel palesa, la quale, già dell’amore d’Enea ardendo, infino a tanto che essa con onori e con doni non gliele parve aver preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa più amò, quello di più obligarsi cercò: e così diremo che quelli che ’l dono della ghirlanda ricevette, colui sia più dalla giovane amato -.
- Rispose Filocolo poi che la reina tacque: - Discreta donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molta d’ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare di portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quelle le più volte più che di tutto il rimanente si sogliono gloriare, e, quella sentendo sopra sé, nell’animo si rallegrano. E come voi potete avere udito, Paris rade volte o nulla entrava nell’aspre battaglie contra i Greci sanza soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi per quello molto meglio, che sanza quello, valere: e certo, secondo il mio giudicio, il suo pensiero non era vano. Per la qual cosa io così direi che, sì come voi diceste, saviamente fece la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera: conoscendo la giovane che da’ due giovani era molto amata e ella più che l’uno amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si truova, ella l’uno dell’amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non rimanesse da lei inguiderdonata, e donogli la sua ghirlanda in merito di ciò. All’altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore, levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé essergli obligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, più costui a cui tolse, che quello a cui donò amava -.
- Al quale la gentil donna rispose: - Assai il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu te stesso nel tuo parlare non dannassi Guarda come perfetto amore insieme col rubare può concorrere: come mi potrai tu mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo più che quella a cui io dono, con ciò sia cosa che tra più manifesti segni d’amare alcuna persona è il donare? E secondo la quistione proposta, ella all’uno donò la ghirlanda, all’altro la tolse, non le fu dall’altro donata: e quello che noi tutto giorno per essemplo veggiamo può qui per essemplo bastare, che si dice volgarmente coloro essere da’ signori più amati i quali le grazie e’ doni ricevono, che quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo, conchiudendo, che quegli sia più amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben conosciamo che alla presente questione molto contro alla nostra diffinizione si potrebbe opporre e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale determinazione rimarrà vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa sola, sanza più sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace -. A cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla sua domanda; e qui si tacque.
- Sedea appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era Longanio, il quale, sì tosto come Filocolo tacque, così cominciò a dire: - Eccellentissima reina, tanto è stata bella la prima questione, che la mia appena piacerà, ma non per tanto, per non essere fuori di sì nobile compagnia cacciato, io dirò la mia -. E così parlando seguì: - E’ non sono molti giorni passati, che io soletto in una camera dimorando, involto negli affannosi pensieri porti dagli amorosi disii, i quali con aspra battaglia il cuore assalito m’aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che donne erano. Laond’io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e, rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un’altra dimorare due donne sanza più, le quali erano carnali sorelle, di bellezza inestimabile ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Onde io in segreta parte dimorando, sanza essere da loro veduto, lungamente le riguardai; né però potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori mandavano, se non che l’effetto di tale pianto, secondo quello che compresi, per amore mi parve. Per che io sì per la pietà di loro, sì per la pietà di sì dolce cagione, a piangere incominciai così nascoso. Ma dopo lungo spazio, perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai dimestico e parente di loro, proposi di volere più certa la cagione del loro pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi ristrinsero le lagrime ingegnandosi d’onorarmi. A cui io dissi: "Giovani donne, per niente v’affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state, già è gran pezza, manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me né di celarmi per vergogna la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che da me mal merito in niuno atto ne riceverete, ma aiuto e conforto quant’io potrò". Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore di tempo così cominciò a parlare: "Piacere è degl’iddii che a te li nostri segreti si manifestino: e però sappi che noi, più che altre donne mai, fummo crude e aspre resistenti agli aguti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione saettandoci, mai ne’ nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente più infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il giovane braccio, e con la più cara saetta, nel macerato per li molti colpi avanti ricevuti, ci ferì con sì gran forza, che i ferri passarono dentro e maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi fatta non avessimo resistenza, non avriano fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con più intera fede e con più fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore di quelli, come io ti dirò, sconsolate. Io, che prima che costei, amai, con ingegno maestrevolemente credendo il mio disio terminare, feci sì che io ebbi al mio piacere l’amato giovane, il quale io trovai altrettanto di me quanto io di lui essere innamorato. Ma certo già per tale effetto l’amorosa fiamma non mancò, né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e più che mai arsi e ardo: il quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva il meglio mitigava tenendolo dentro nascoso. Avvenne, non si rivide poi la luna tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale etterno essilio della presente città gli fu donato: ond’egli, dubitando la morte, di qui s’è partito, sanza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina, ardendo più che mai, sanza lui sono rimasa disperata, onde io mi dolgo; e quella cosa che più la mia doglia aumenta è che io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo seguire: pensa oramai se io ho di dolermi cagione". Dissi io allora: "E quest’altra perché si duole?". Quella rispose: "Questa similmente com’io innamorata d’un altro, e da lui similmente sanza fine amata, acciò che i suoi disii non passassero sanza parte d’alcun diletto, per gli amorosi sentieri più volte s’è ingegnata di volergli recare ad effetto, a’ cui intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli non poté pervenire, né vede di potere, onde ella si consuma stretta da ferventissimo amore, come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi, adunque, qui solette, de’ nostri infortunii cominciammo a ragionare, e conoscendoli più che d’alcuna altra donna maggiori, non potemmo ritenere le lagrime, ma piangendo ci dolavamo, sì come tu potesti vedere". Assai mi dolfe di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi parvero utili le sovenni, e da loro mi partii. Ora mi s’è più volte per la mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva essere maggiore, e l’una volta consento quello dell’una, l’altra quello dell’altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio. Piacciavi che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore doglia vi pare che sostenga -.
- - Greve dolore era quello di ciascuna - disse la reina, - ma considerando che a colui è gravissima l’avversità che nelle prosperità è usato, noi terremo che quella che ’l suo amante ha perduto senta maggior dolore e sia più dalla fortuna offesa. Fabrizio mai i casi della fortuna non pianse, ma Pompeo sì. E manifesta cosa è che se dolci cose mai non si fossero gustate, ancora sarebbero a conoscere l’amare. Medea non seppe mai, secondo il suo dire, che prosperità si fosse mentre essa amò, ma, abandonata da Giansone, si dolfe della avversità. Chi piangerà quello ch’egli mai non ebbe? Non alcuno, ma più tosto il disidererà. Seguasi dunque che l’una per dolore, l’altra per disio piangeva delle due donne -.
- - Molto m’è duro a pensare, graziosa donna, ciò che voi dite - disse il giovane, - con ciò sia cosa che chi il suo disio ha d’una cosa disiderata avuto, molto si debbia più nell’animo contentare, che chi disidera e non può il suo disio adempiere. Appresso, niuna cosa è più leggiere a perdere che quella la quale speranza avanti più non promette di rendere. Ivi dee essere lo smisurato dolore, ove iguale volere e ’l non potere quello recare ad effetto impedisce. Quivi hanno luogo i ramaricamenti, quivi i pensieri e l’affanno, però che se le volontà non fossero iguali, per forza mancherebbero i disii: ma quando gli animi si veggono davanti le disiderate cose, e a quelle pervenire non possono, allora s’accendono e dolgonsi più che se da loro i loro voleri stessero lontani. E chi tormenta Tantalo in inferno se non le pome e l’acque, che quanto più alla bocca gli si avvicinano tanto più fuggendosi poi multiplicano la sua fame? Veramente io credo che più dolore sente chi spera cosa possibile ad avere, né a quella per avversarii impedimenti resistenti pervenire puote, che chi piange cosa perduta e inrecuperabile -.
- Disse allora la donna: - Assai seguita bene la vostra risposta, là ove di lungo dolore fosse vostra dimanda stata; ben che a cotesto ancora si potrebbe dire, così esser possibile per dimenticanza il dolore breviarsi nelle cose disiderate, ove continuo impedimento si vede da non poterle adempiere, come nelle perdute, ove speranza non mostra di doverle mai riavere. Ma noi ragioniamo quale più si dolea, quando dolendo le vedeste: però, seguendo il proposto caso, giudicheremo che maggior dolore sentiva quella che il suo amante avea perduto sanza speranza di riaverlo, ché, posto che agevole sia perdere cosa impossibile da riavere, nondimeno e’ si suol dire: "Chi bene ama mai non oblia"; ché l’altra, se ben riguardiamo, poteva sperare d’adempiere per inanzi quello che per adietro non avea potuto fornire. E gran mancamento di duoli è la speranza: ella ebbe forza di tenere casta e meno trista lungamente in vita Penolope -.
- Alla destra mano di Longanio sedea una bellissima donna piacevole assai, la quale, come quella questione sentì per la loro reina essere terminata, così con dolce favella cominciò a parlare: - Inclita reina, diano le vostre orecchie alquanto audienzia alle mie parole, e poi per quelli iddii che voi adorate, e per la potenza del nostro giuoco, vi priego che utile consiglio diate a’ miei dimandi. Io di nobili parenti discesa, sì come voi sapete, nacqui in questa città, e fui di nome pieno di grazia nominata, avegna che il mio sopranome Cara mi rapresenti agli uditori. E sì come nel mio viso si vede, io ricevetti dagl’iddii e dalla natura di bellezza singulare dono, la quale, il mio nome seguendo più che il mio sopranome, l’ho adornata d’infinita piacevolezza, benigna mostrandomi a chi quella s’è dilettato di rimirare: per la qual cosa molti si sono ingegnati d’occupare gli occhi miei del loro piacere, a’ quali tutti ho con forte resistenza riparato, tenendo il cuore fermo a tutti i loro assalti. Ma però che ingiusta cosa mi pare che io sola la legge, da tutte l’altre servata, trapassassi, cioè di non amare, essendo da molti amata, ho proposto d’innamorarmi. E posponendo dall’una delle parti molti cercatori di tale amore, de’ quali alcuno di ricchezze avanza Mida, altri di bellezza trapassa Ansalon, e tali di gentilezza, secondo il corrotto volgare, più che altri sono splendenti, ho scelti tre, che igualmente ciascuno per sé mi piace: de’ quali tre, l’uno di corporale fortezza credo che avanzerebbe il buono Ettore, tanto è ad ogni pruova vigoroso e forte; la cortesia e la liberalità del secondo è tanta, che la sua fama per ciascun polo credo che suoni: il terzo è di sapienza pieno tanto, che gli altri savi avanza oltra misura. Ma però che, come avete udito, le loro qualità sono diverse, io dubito di pigliare, trovando nell’antica età ciascuna di queste cose avere diversamente i coraggi delle donne e degli uomini piegati, sì come Deianira d’Ercule, Clitemestra d’Egisto, e di Lucrezia Sesto. Consigliatemi, adunque, a quale io più tosto, per meno biasimo e per più sicurtà, io mi deggia di costoro donare -.
- La piacevole donna avendo di costei la proposta udita, così rispose: - Nullo de’ tre è che degnamente non meriti di bella e graziosa donna l’amore; ma però che in questo caso non sono a combattere castella, o a donare i regni del grande Alessandro, overo i tesori di Tolomeo, ma solamente con discrezione è da servare lungamente l’amore e l’onore, li quali né forza né cortesia serveranno, ma solo il sapere, diciamo che da voi e da ciascuna altra donna è più tosto da donare il suo amore al savio che ad alcuno degli altri -.
- - Oh, quanto è il mio parere dal vostro diverso! - rispose appresso la proponente donna -. A me parea che qualunque l’uno degli altri fosse più tosto da prendere che il savio: e la ragione mi par questa. Amore, sì come noi veggiamo, ha sì fatta natura, che, multiplicando in un cuore la sua forza, ogni altra cosa ne caccia fuori, quello per suo luogo ritenendo, movendolo poi secondo i suoi pareri: né niuno avvenimento può a quelli resistere, che pur non si convengano quelli seguitare da chi è, com’io ho detto, signoreggiato. E chi dubita che Blibide conoscea essere male ad amare il fratello? Chi disdirà che a Leandro non fosse manifesto il potere annegare in Elesponto ne’ fortunosi tempi, se vi si mettea? E niuno non negherà che Pasife non conoscesse più bello essere l’uomo che ’l toro: e pur costoro, ciascuno vinto da amoroso piacere, ogni conoscimento abandonato, seguivano quello. Dunque, se egli ha potenza di levare il conoscimento a’ conoscenti, levando al savio il senno, niuna cosa gli rimarrà; ma se al forte o al cortese il loro poco senno leverà, egli li aumenterà nelle loro virtù, e così costoro varranno più che il savio, innamorati. Appresso, ha amore questa propietà: egli è cosa che non si può lungamente celare, e nel suo palesarsi suole spesso recare gravosi pericoli: a’ quali che rimedio darà il savio che avrà già il senno perduto? Niuno ne darà! Ma il forte con la sua forza sé e altrui potrà in un pericolo atare; il cortese potrà per la sua cortesia avere l’animo di molti preso con cara benivolenza, per la quale atato e riguardato potrà essere, e egli e altri per amore di lui. Vedete omai come il vostro giudicio è da servare -.
- Fu a costei così dalla reina risposto: - Se cotesto che tu di’ fosse, chi sarebbe savio? Niuno! Ma già colui che tu proponi savio, e innamorato di te, sarebbe pazzo, e da non prendere: gl’iddii cessino che ciò che tu parli avvenisse. Ma noi non negheremo però che i savi non conoscano il male, e pur lo fanno; ma diremo che essi per quello non perdono il senno, con ciò sia cosa che, qualora essi vorranno, con la ragione ch’elli hanno, la volontà raffrenare, elli nell’usato senno si rimarranno, guidando i loro movimenti con debito e diritto stile. E in questa maniera o sempre o lungamente fieno i loro amori celati, e così sanza alcuna dubbiosa sollecitudine quello che d’uno poco savio, non tanto sia forte o cortese, non avverrà: e se forse avviene che pure tale amore si palesi, con cento avvedimenti o riturerà il savio gli occhi e gl’intendimenti de’ parlanti, o provederà al salvamento dell’onore della donna amata e del suo. E se mestieri fia alla salute, l’aiuto del savio non può fallire. Quello del forte viene meno con l’aiutante, e gli amici per liberalità acquistati sogliono nelle avversità ritornare nulli. E chi sarà quella con sì poca discrezione che a tal partito si rechi, che sì manifesto aiuto le bisogni, o che se il suo amore si scuopre, domandi fama d’avere amato un uomo forte overo liberale? Niuna credo ne fosse. Amisi adunque il più savio, sperando lui dovere essere in ciascuno caso più utile ché alcuno degli altri -.
- Era nella vista contenta la gentil donna, quando Menedon, che appresso di lei sedea, disse: - Altissima reina, ora viene a me la volta del proporre nel vostro cospetto, ond’io con la vostra licenza dirò. E da ora, se io troppo nel mio parlare mi stendessi, a voi e appresso agli altri circunstanti dimando perdono, però che quello ch’io intendo di proporre interamente dare non si potrebbe a intendere, se a quello una novella, che non fia forse brieve, non precedesse -. E dopo queste parole così cominciò a parlare: - Nella terra là dov’io nacqui, mi ricorda essere un ricchissimo e nobile cavaliere il quale di perfettissimo amore amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna, essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s’innamorò; e di tanto amore l’amava, che oltre a lei non vedeva, né niuna cosa più disiava, e in molte maniere, forse con sovente passare davanti alle sue case, o giostrando, o armeggiando, o con altri atti, s’ingegnava d’avere l’amore di lei, e spesso mandandole messaggieri, forse promettendole grandissimi doni, e per sapere il suo intendimento. Le quali cose la donna tutte celatamente sostenea, sanza dare o segno o risposta buona al cavaliere, fra sé dicendo: "Poi che questi s’avedrà che da me né buona risposta né buono atto puote avere, forse elli si rimarrà d’amarmi e di darmi questi stimoli". Ma già per tutto questo Tarolfo di ciò non si rimanea, seguendo d’Ovidio gli amaestramenti, il quale dice l’uomo non lasciare per durezza della donna di non perseverare, però che per continuanza la molle acqua fora la dura pietra. Ma la donna, dubitando non queste cose venissero a orecchie del marito, e esso pensasse poi che con volontà di lei questo avvenisse, propose di dirgliele; ma poi mossa da miglior consiglio disse: "Io potrei, s’io il dicessi, commettere tra costoro cosa che io mai non viverei lieta: per altro modo si vuole levare via"; e imaginò una sottile malizia. Ella mandò così dicendo a Tarolfo, che se egli tanto l’amava quanto mostrava, ella volea da lui un dono, il quale come l’avesse ricevuto, giurava per li suoi iddii, e per quella leanza che in gentile donna dee essere, che essa farebbe ogni suo piacere; e se quello che domandava, donare non le volesse, ponessesi in cuore di non stimolarla più avanti, se non per quanto egli non volesse che essa questo manifestasse al marito. E ’l dono il quale ella dimandò fu questo. Ella disse che volea del mese di gennaio, in quella terra, un bel giardino e grande, d’erbe e di fiori e d’alberi e di frutti copioso, come se del mese di maggio fosse, fra sé dicendo: "Questa è cosa impossibile: io mi leverò costui da dosso per questa maniera". Tarolfo, udendo questo, ancora che impossibile gli paresse e che egli conoscesse bene perché la donna questo gli domandava, rispose che già mai non riposerebbe né in presenza di lei tornerebbe, infino a tanto che il dimandato dono le donerebbe. E partitosi della terra con quella compagnia che a lui piacque di prendere, tutto il ponente cercò per avere consiglio di potere pervenire al suo disio; ma non trovato lui, cercò le più calde regioni, e pervenne in Tesaglia, dove per sì fatta bisogna fu mandato da discreto uomo. E quivi dimorato più giorni, non avendo ancora trovato quello che cercando andava, avvenne che essendosi egli quasi del suo avviso disperato, levatosi una mattina avanti che ’l sole s’apparecchiasse d’entrare nell’aurora, incominciò tutto soletto ad andare per lo misero piano che già tinto fu del romano sangue. E essendo per grande spazio andato, egli si vide davanti a’ piè d’un monte un uomo, non giovane né di troppa lunga età, barbuto, e i suoi vestimenti giudicavano lui dovere essere povero, picciolo di persona e sparuto molto, il quale andava cogliendo erbe e cavando con un picciolo coltello diverse radici, delle quali un lembo della sua gonnella avea pieno. Il quale quando Tarolfo il vide, si maravigliò e dubitò molto non altro fosse; ma poi che la stimativa certamente gli rendé lui essere uomo, egli s’appressò a lui e salutollo, domandandolo appresso chi egli fosse e donde, e quello che per quello luogo a così fatta ora andava faccendo. A cui il vecchierello rispose: "Io sono di Tebe, e Tebano è il mio nome, e per questo piano vo cogliendo queste erbe, acciò che de’ liquori d’esse faccendo alcune cose necessarie e utili a diverse infermità, io abbia onde vivere, e a questa ora necessità e non diletto mi ci costringe di venire; ma tu chi se’ che nell’aspetto risembri nobile, e quinci sì soletto vai?". A cui Tarolfo rispose: "Io sono dell’ultimo ponente assai ricco cavaliere, e da’ pensieri d’una mia impresa vinto e stimolato, non potendola fornire, di qua, per meglio potermi sanza impedimento dolere, mi vo così soletto andando". A cui Tebano disse: "Non sai tu la qualità del luogo come ella è? Perché inanzi d’altra parte non pigliavi la via? Tu potresti di leggieri qui da furiosi spiriti essere vituperato". Rispose Tarolfo: "In ogni parte puote Iddio igualmente: così qui come altrove gli è la mia vita e ’l mio onore in mano; faccia di me secondo che a lui piace: veramente a me sarebbe la morte un ricchissimo tesoro". Disse allora Tebano: "Quale è la tua impresa, per la quale, non potendola fornire, sì dolente dimori?". A cui Tarolfo rispose: "E tale che impossibile mi pare omai a fornire, poi che qui non ho trovato consiglio". Disse Tebano: "Osasi dire?". Rispose Tarolfo: "Sì, ma a che utile?". "Forse niuno" disse Tebano, "ma che danno?". Allora Tarolfo disse: "Io cerco di potere aver consiglio come del più freddo mese si potesse avere un giardino pieno di fiori e di frutti e d’erbe, bello sì come del mese di maggio fosse, né trovo chi a ciò aiuto o consiglio mi doni che vero sia". Stette Tebano un pezzo tutto sospeso sanza rispondere, e poi disse: "Tu e molti altri il sapere e le virtù degli uomini giudicate secondo i vestimenti. Se la mia roba fosse stata qual è la tua, tu non m’avresti tanto penato a dire la tua bisogna, o se forse appresso de’ ricchi prencipi m’avessi trovato, come tu hai a cogliere erbe; ma molte volte sotto vilissimi drappi grandissimo tesoro di scienza si nasconde: e però a chi proffera consiglio o aiuto niuno celi la sua bisogna, se, manifesta, non gli può pregiudicare. Ma che doneresti tu a chi quello che tu vai cercando ti recasse ad effetto?". Tarolfo rimirava costui nel viso, dicendo egli queste parole, e in sé dubitava non questi si facesse beffe di lui, parendogli incredibile che, sei colui fosse stato Iddio, ch’egli avesse potuto fare virtù. Non per tanto egli li rispose così: "Io signoreggio ne’ miei paesi più castella, e con esse molti tesori, i quali tutti per mezzo partirei con chi tal piacere mi facesse". "Certo" disse Tebano "se questo facessi, a me non bisognerebbe d’andare più cogliendo l’erbe". "Fermamente" disse Tarolfo "se tu se’ quelli che in ciò mi prometti di dare vero effetto, e davelo, mai non ti bisognerà più affannare per divenire ricco; ma come o quando mi potrai tu questo fornire?". Disse Tebano: "Il quando fia a tua posta, del come non ti travagliare. Io me ne verrò teco fidandomi nella tua parola della promessa che mi fai, e quando là dove ti piacerà saremo, comanderai quello che tu vorrai: io fornirò tutto sanza fallo". Fu di questo accidente tanto contento in se medesimo Tarolfo, che poca più letizia avria avuta se nelle sue braccia la sua donna allora tenuta avesse, e disse: "Amico, a me si fa tardi che quello che imprometti si fornisca: però sanza indugio partiamo e andiamo là ove questo si dee fornire". Tebano, gittate via l’erbe, e presi i suoi libri e altre cose al suo maesterio necessarie, con Tarolfo si mise al cammino, e in brieve tempo pervennero alla disiderata città, assai vicini al mese del quale era stato dimandato il giardino. Quivi tacitamente e occulti infino al termine disiderato si riposarono; ma entrato già il mese, Tarolfo comandò che ’l giardino s’apprestasse, acciò che donare lo potesse alla sua donna. Come Tebano ebbe il comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati in compiuta ritondità, e videla sopra l’usate terre tutta risplendere. Allora egli uscì della città, lasciati i vestimenti, scalzo, e con i capelli sparti sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli uccelli, le fiere e gli uomini riposavano sanza niuno mormorio, e sopra i monti le non cadute frondi stavano sanza alcuno movimento, e l’umido aere in pace si riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, più volte circuita la terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d’eleggere per lo giardino, allato ad un fiume. Quivi stese verso le stelle le braccia, tre volte rivoltandosi ad esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, domandando altretante volte con altissima voce il loro aiuto; poi poste le ginocchie sopra la dura terra, cominciò così a dire: "O notte, fidatissima segreta dell’alte cose, e voi, o stelle, le quali al risplendente giorno con la luna insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell’ampia faccia della terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu qualunque terra producente virtuose piante, e voi aure, e venti, e monti, e fiumi, e laghi, e ciascuno iddio de’ boschi o della segreta notte, per li cui aiuti io già rivolsi i correnti fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e già feci le correnti cose stare ferme, e le ferme divenire correnti, e che già deste a’ miei versi potenza di cacciare i mari e di cercare sanza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il nuvoloso tempo, e il chiaro cielo riempiere a mia posta d’oscuri nuvoli, faccendo i venti cessare e venire come mi pareva, e con quelli rompendo le dure mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e tremare gli eccelsi monti, e ne’ morti corpi tornare da’ paduli di Stige le loro ombre e vivi uscire de’ sepolcri, e tal volta tirare te, o luna, alla tua ritondità, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare venire, faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti, e ’l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestiere di sughi e d’erbe, per li quali l’arida terra, prima d’autunno, ora dal freddissimo verno, de’ suoi fiori, frutti e erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando, avanti il dovuto termine, primavera". Questo detto, molte altre cose tacitamente aggiunse a’ suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non dieron luce invano, ma più veloce che volo d’alcuno uccello un carro da due dragoni tirato gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redine de’ posti freni a’ due dragoni in mano, suso in aria si tirò. E pigliando per l’alte regioni il cammino, lasciò Spagna e cercò l’isola di Creti: di quindi Pelion, e Ocris e Ossa, e ’l monte Nero Pacchino, Peloro e Appennino in brieve corso cercò tutti, di tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici e erbe che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte avea quando da Tarolfo fu trovato in Tesaglia. Egli prese pietre d’in sul monte Caocaso, e dell’arene di Gange e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive del Rodano, di Senna, d’Amprisi e di Ninfeo, e del gran Po, e dello imperial Tevero e d’Arno, e di Tanai, e del Danubio, di sopra da quelle ancora prendendo quelle erbe che a lui pareano necessarie, e queste aggiunse all’altre colte nelle sommità de’ salvatichi monti. Egli cercò l’isola di Lesbos e quella de’ Colchi e Delfos e Patimos, e qualunque altra nella quale sentito avesse cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s’era: e i dragoni, che solamente l’odore delle prese erbe aveano sentito, gittando lo scoglio vecchio per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d’erbosa terra due altari compose, dalla destra mano quello d’Ecate dalla sinistra quello della rinnovellante dea. I quali fatti, e sopr’essi accesi divoti fuochi, co’ crini sparti sopra le vecchie spalle, con inquieto mormorio cominciò a circuire quelli: e in raccolto sangue più volte intinse le ardenti legne. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel terreno il quale egli avea al giardino disposto, dopo questo, quello medesimo tre volte di fuoco e d’acqua e di solfo rinnaffiò. Poi posto un grandissimo vaso sopra l’ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d’acqua, quello fece per lungo spazio bollire, aggiungendovi l’erbe e le radici colte negli strani luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe, e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate notti, insieme con carni e ali d’infamate streghe, e de’ testicoli del lupo l’ultima parte, con isquama di cinifo e con pelle del chelidro, e ultimamente un fegato con tutto il polmone d’un vecchissimo cervio: e, con queste, mille altre cose, o sanza nomi o sì strane che la memoria nol mi ridice. Poi prese un ramo d’un secco ulivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde e in brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti liquori, e sopra lo eletto terreno, nel quale di tanti legni avea fatti bastoni quanti alberi e di quante maniere voleva, e quivi quelli liquori incominciò a spandere e ad inaffiare per tutto: la qual cosa la terra non sentì prima, ch’ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano rientrò nella terra tornando a Tarolfo, il quale quasi pauroso d’essere stato da lui beffato per la lunga dimoranza dimorava, e trovollo tutto pensoso. A cui egli disse: "Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, e è al piacere tuo". Assai piacque questo a Tarolfo, e dovendo essere il seguente giorno nella città una grandissima solennità, egli se n’andò davanti alla sua donna, la quale già era gran tempo che veduta non l’avea, e così le disse: "Madonna, dopo lunga fatica io ho fornito quello che voi comandaste: quando vi piacerà di vederlo e di prenderlo, egli è al vostro piacere". La donna, vedendo costui, si maravigliò molto, e più udendo ciò che egli diceva; e non credendolo, rispose: "Assai mi piace, faretecelo vedere domane". Venuto il seguente giorno, Tarolfo andò alla donna, e disse: "Madonna, piacciavi di passare nel giardino, il quale voi mi dimandaste nel freddo mese". Mossesi adunque la donna da molti accompagnata, e pervenuti al giardino, v’entrarono dentro per una bella porta, e in quello non freddo come di fuori, ma uno aere temperato e dolce si sentiva. Andò la donna per tutto rimirando e cogliendo erbe e fiori, de’ quali molto il vide copioso: e tanto più ancora avea operato la virtù degli sparti liquori, che i frutti, i quali l’agosto suole producere, quivi nel salvatico tempo tutti i loro alberi facevano belli: de’ quali più persone, andate con la donna, mangiarono. Questo parve alla donna bellissima cosa e mirabile, né mai un sì bello ne le pareva avere veduto. E poi che essa in molte maniere conobbe quello essere vero giardino, e ’l cavaliere avere adempiuto ciò che ella avea domandato, ella si voltò a Tarolfo e disse: "Sanza fallo, cavaliere, guadagnato avete l’amore mio, e io sono presta d’attenervi ciò che io vi promisi; veramente voglio una grazia, che vi piaccia tanto indugiarvi a richiedermi del vostro disio, che ’l signore mio vada a caccia o in altra parte fuori della città, acciò che più salvamente e sanza dubitanza alcuna possiate prendere vostro diletto". Piacque a Tarolfo, e lasciandole il giardino, quasi contento da lei si partì. Questo giardino fu a tutti i paesani manifesto, avvegna che niuno non sapesse, se non dopo molto tempo, come venuto si fosse. Ma la gentil donna, che ricevuto l’avea, dolente di quello si partì, tornando nella sua camera piena di noiosa malinconia. E pensando in qual maniera tornare potesse adietro ciò che promesso avea, e non trovando licita scusa, in più dolore cresceva. La quale vedendo il marito più volte, si cominciò molto a maravigliare e a domandarla che cosa ella avesse: la donna dicea che niente avea, vergognandosi di scoprire al marito la fatta promissione per lo dimandato dono, dubitando non il marito malvagia la tenesse. Ultimamente non potendosi ella a’ continui stimoli del marito, che pur la cagione della sua malinconia disiderava di sapere, tenersi, dal principio infino alla fine gli narrò perché dolente dimorava. La qual cosa udendo il cavaliere lungamente pensò, e conoscendo nel pensiero la purità della donna, così le disse: "Va, e copertamente serva il tuo giuramento, e a Tarolfo ciò che tu promettesti liberamente attieni: egli l’ha ragionevolmente e con grande affanno guadagnato". Cominciò la donna a piangere e a dire: "Facciano gl’iddii da me lontano cotal fallo; in niuna maniera io farò questo: avanti m’ucciderei ch’io facessi cosa che disonore o dispiacere vi fosse". A cui il cavaliere disse: "Donna, già per questo io non voglio che tu te n’uccida, né ancora che una sola malinconia tu te ne dia: niuno dispiacere m’è, va e fa quello che tu impromettesti, ch’io non te ne avrò di meno cara; ma questo fornito, un’altra volta ti guarderai di sì fatte impromesse, non tanto ti paia il domandato dono impossibile ad avere". Vedendo la donna la volontà del marito, ornatasi e fattasi bella, e presa compagnia, andò all’ostiere di Tarolfo, e di vergogna dipinta gli si presentò davanti. Tarolfo come la vide, levatosi da lato a Tebano con cui sedea, pieno di maraviglia e di letizia le si fece incontro, e lei onorevolmente ricevette, domandando della cagione della sua venuta. A cui la donna rispose: "Per essere a tutti i tuoi voleri sono venuta, fa di me quello che ti piace". Allora disse Tarolfo: "Sanza fine mi fate maravigliare, pensando all’ora e alla compagnia con cui venuta siete: sanza novità stata tra voi e ’l vostro marito non può essere; ditemelo, io ve ne priego". Narrò allora la donna interamente a Tarolfo come la cosa era tutta per ordine. La qual cosa udendo, Tarolfo più che prima s’incominciò a maravigliare e a pensare forte, e a conoscere cominciò la gran liberalità del marito di lei che mandata a lui l’avea, e fra sé cominciò a dire che degno di gravissima riprensione sarebbe chi a così liberale uomo pensasse villania; e parlando alla donna così disse: "Gentil donna, lealmente e come valorosa donna avete il vostro dovere servato, per la qual cosa io ho per ricevuto ciò che io di voi disiderava; e però quando piacerà a voi, voi ve ne potrete tornare al vostro marito, e di tanta grazia da mia parte ringraziarlo, e scusarglimi della follia che per adietro ho usata, accertandolo che mai per inanzi più per me tali cose non fiano trattate". Ringraziò la donna Tarolfo molto di tanta cortesia, e lieta si partì tornando al suo marito, a cui tutto per ordine disse quello che avvenuto l’era. Ma Tebano ritornato a lui, Tarolfo domandò come avvenuto gli fosse; Tarolfo gliele contò a cui Tebano disse: "Dunque per questo avrò io perduto ciò che da te mi fu promesso?". Rispose Tarolfo: "No, anzi, qualora ti piace, va, e le mie castella e i miei tesori prendi per metà, come io ti promisi, però che da te interamente servito mi tengo". Al quale Tebano rispose: "Unque agl’iddii non piaccia che io là dove il cavaliere ti fu della sua donna liberale, e tu a lui non fosti villano, che io sia meno che cortese. Oltre a tutte le cose del mondo mi piace averti servito, e voglio che ciò che in guiderdone del servigio prendere dovea, tuo si rimanga sì come mai fu": né di quello di Tarolfo volle alcuna cosa prendere. Dubitasi ora quale di costoro fosse maggiore liberalità, o quella del cavaliere che concedette alla donna l’andare a Tarolfo, o quella di Tarolfo, il quale quella donna cui egli avea sempre disiata, e per cui egli avea tanto fatto per venire a quel punto che venuto era, quando la donna venne a lui, se gli fosse piaciuto, rimandò la sopradetta donna intatta al suo marito; o quella di Tebano, il quale, abandonate le sue contrade, oramai vecchio, e venuto quivi per guadagnare i promessi doni, e affannatosi per recare a fine ciò che promesso avea, avendoli guadagnati, ogni cosa rimise, rimanendosi povero come prima -.
- - Bellissima è la novella e la dimanda - disse la reina, - e in verità che ciascuno fu assai liberale, e, ben considerando, il primo del suo onore, il secondo del libidinoso volere, il terzo dell’acquistato avere fu cortese: e però volendo conoscere chi maggiore liberalità overo cortesia facesse, conviene considerare quale di queste tre cose sia più cara. La qual cosa veduta, manifestamente conosceremo il più liberale però che chi più dona più liberale è da tenere. Delle quali tre cose l’una è cara, cioè l’onore, il quale Paulo, vinto Persio re, più tosto volle che i guadagnati tesori. Il secondo è da fuggire, cioè il libidinoso congiugnimento, secondo la sentenza di Sofoldeo e di Senocrate, dicenti che così è la lussuria da fuggire come furioso signore. La terza non è da disiderare, ciò sono le ricchezze, con ciò sia cosa che esse sieno le più volte a virtuosa vita noiose, e possasi con moderata povertà vivere virtuosamente, sì come Marco Curzio e Attilio Regolo e Valerio Publicola nelle loro opere manifestarono. Adunque, se solo l’onore è in queste tre caro, e l’altre no, dunque quelli maggiore liberalità fece che quello donava, avvegna che meno saviamente facesse. Egli ancora fu nelle liberalità principale, per la cui l’altre seguirono: però, secondo il nostro parere, chi diè la donna, in cui il suo onore consisteva, più che gli altri fu liberale -.
- - Io - disse Menedon - consento che sia come voi dite, in quanto da voi è detto, ma a me pare che ciascuno degli altri fosse più liberale, e udite come. Egli è ben vero che ’l primo concedette la donna, ma in ciò egli non fece tanta liberalità quanto voi dite; però che se egli l’avesse voluta negare, giustamente egli non poteva, per lo giuramento fatto dalla donna, che osservare si convenia: e chi dona ciò che non può negare ben fa, in quanto se ne fa liberale, ma poco dà. E però, sì com’io dissi, ciascuno degli altri più fu cortese, però che, come io già dissi, Tarolfo avea già lungo tempo la donna disiderata e amata sopra tutte le cose, e per questa avere avea lungamente tribolato, e mettendosi per satisfazione della dimanda di lei a cercare cose quasi impossibili ad avere, le quali pure avute lei meritò di tenere per la promessa fede: la quale, sì come noi dicemmo, tenendo, non è dubbio che nelle sue mani l’onore del marito, e il rimetterle ciò che promesso gli avea, stava. La qual cosa egli fece: dunque dell’onore del marito, del saramento di lei, del suo lungo disio fu liberale. Gran cosa è l’avere una lunga sete sostenuta, e poi pervenire alla fontana e non bere per lasciare bere altrui. Il terzo ancora fu molto liberale, però che, pensando che la povertà sia una delle moleste cose del mondo a sostenere, con ciò sia cosa ch’ella sia cacciatrice d’allegrezza e di riposo, fugatrice d’onori, occupatrice di virtù, adducitrice d’amare sollecitudini, ciascuno naturalmente quella s’ingegna di fuggire con ardente disio. Il quale disio in molti per vivere splendidamente in riposo s’accende tanto, che essi a disonesti guadagni e a sconce imprese si mettono, forse non sappiendo o non potendo in altra maniera il lor disio adempiere: per la qual cosa tal volta meritano morire, o avere delle loro terre etterno essilio. Dunque, quanto deono elle piacere e essere care a chi in modo debito le guadagna e possiede! E chi dubiterà che Tebano fosse poverissimo se si riguarda ch’egli, abandonati i notturni riposi, per sostentare la sua vita, ne’ dubbiosi luoghi andava cogliendo l’erbe e scavando le radici? E che questa povertà occupasse la sua virtù ancora si può credere, udendo che Tarolfo credeva da lui essere gabbato, quando di vili vestimenti il riguardava vestito; che egli fosse vago di quella miseria uscire e divenire ricco, sappiendo ch’egli di Tesaglia infino in Ispagna venne, mettendosi per li dubbiosi cammini e incerti dell’aere alle pericolose cose per fornire la ’mpromessa fatta da lui e per ricevere quella d’altrui, in sé si può vedere: chi a tante e tali cose si mette per povertà fuggire, sanza dubbio si dee credere che egli quella piena d’ogni dolore e d’ogni affanno essere conosce. E quanto di maggiore povertà è uscito e entrato in ricca vita, tanto quella gli è più graziosa. Adunque, chi di povertà è in ricchezza venuto, e con quella il vivere gli diletta, quanta e quale liberalità è quella di chi quella dona, e nello stato, ch’egli ha con tanti affanni fuggito, consente di ritornare? Assai grandissime e liberali cose si fanno, ma questa maggiore di tutte mi pare: considerando ancora alla età del donatore che era vecchio, con ciò sia cosa che ne’ vecchi soglia continuamente avarizia molto più che ne’ giovani avere potere. Però terrò che ciascuno de’ due seguenti aggia maggiore liberalità fatta che ’l primo, e ’l terzo maggiore che niuno -.
- - Quanto meglio per alcuno si potesse la vostra ragione difendere, tanto la difendete ben voi - disse la reina; - ma noi brievemente intendiamo dimostrarvi come il nostro parere deggiate più tosto che il vostro tenere. Voi volete dire che colui niuna liberalità facesse concedendo la mogliere, però che di ragione fare gliele convenia per lo saramento fatto dalla donna: la qual cosa saria così, se il saramento tenesse; ma la donna, con ciò sia cosa ch’ella sia membro del marito, o più tosto un corpo con lui, non potea fare quel saramento sanza volontà del marito, e se ’l fece, fu nullo, però che al primo saramento licitamente fatto niuno subsequente puote derogare, e massimamente quelli che per non dovuta cagione non debitamente si fanno; e ne’ matrimoniali congiungimenti è usanza di giurare d’essere sempre contento l’uomo della donna, e la donna dell’uomo, né di mai l’uno l’altro per altra cambiare; dunque la donna non poté giurare, e se giurò, come già detto avemo, per non dovuta cosa giurò; e contraria al primo giuramento, non dee valere, e non valendo, oltre al suo piacere non si dovea commettere a Tarolfo, e se vi si commise, fu egli del suo onore liberale, e non Tarolfo, come voi tenete. Né del saramento non poté liberale essere rimettendolo, con ciò sia cosa che il saramento niente fosse: adunque solamente rimase liberale Tarolfo del suo libidinoso disio. La qual cosa di propio dovere si conviene a ciascuno di fare, però che tutti per ogni ragione siamo tenuti d’abandonare i vizi e di seguire le virtù. E chi fa quello a che egli è di ragione tenuto, sì come voi diceste, in niuna cosa è liberale, ma quello che oltre a ciò si fa di bene, quello è da chiamare liberalità dirittamente. Ma però che voi forse nella vostra mente tacito ragionate: "che onore può essere quello della casta donna al marito che tanto debbia esser caro?" noi prolungheremo alquanto il nostro parlare, mostrandolvi, acciò che più chiaramente veggiate Tarolfo né Tebano, di cui appresso intendiamo di parlare, niuna liberalità facessero a rispetto del cavaliere. Da sapere è che castità insieme con l’altre virtù niuno altro premio rendono a’ posseditori d’esse se non onore, il quale onore, tra gli altri uomini meno virtuosi, li fa più eccellenti. Questo onore, se con umiltà il sostengono, gli fa amici di Dio, e per consequente felicemente vivere e morire, e poi possedere gli etterni beni. La quale se la donna al suo marito la serva, egli vive lieto e certo della sua prole, e con aperto viso usa infra la gente, contento di vedere lei per tale virtù dalle più alte donne onorata, e nell’animo gli è manifesto segnale costei essere buona, e temere Iddio, e amare lui, che non poco gli dee piacere, sentendo che per etterna compagnia indivisibile, fuor che da morte, gli è donata. Egli per questa grazia ne’ mondani beni e negli spirituali si vede continuo multiplicare. E così, per contrario, colui la cui donna di tale virtù ha difetto, niuna ora può con consolazione passare, niuna cosa gli è a grado, l’uno la morte dell’altro disidera. Elli si sentono per lo sconcio vizio nelle bocche de’ più miseri esser portati, né gli pare che sì fatta cosa non si debbia credere a chiunque la dice. E se tutte l’altre virtù fossero in lui, questo vizio pare ch’abbia forza di contaminarle e di guastarle. Dunque grandissimo onore è quello che la castità della donna rende all’uomo, e molto da tener caro. Beato si può chiamare colui a cui per grazia cotal dono è conceduto, avvegna che noi crediamo che pochi sieno quelli a’ quali di tal bene sia portato invidia. Ma ritornando al nostro proposito, vedete quanto il cavaliere dava: ma egli non ci è della mente uscito quanto diceste, Tebano essere stato più che gli altri liberale, il quale con affanno arricchito, non dubitò di tornare nella miseria della povertà, per donare ciò che acquistato avea. Apertamente si pare che da voi è mal conosciuta la povertà, la quale ogni ricchezza trapassa se lieta viene. Tebano già forse per l’acquistate ricchezze gli pareva esser pieno d’amare e di varie sollecitudini. Egli già imaginava che a Tarolfo paresse avere mal fatto, e trattasse di ucciderlo per riavere le sue castella. Egli dimorava in paura non forse da’ suoi sudditi fosse tradito. Egli era entrato in sollecitudine del governamento delle sue terre. Egli già conoscea tutti gl’inganni apparecchiati da’ suoi parzionali di farli. Egli si vedea da molti invidiato per le sue ricchezze, egli dubitava non i ladroni occultamente quelle gli levassero. Egli era ripieno di tanti e tali e sì varii pensieri e sollecitudini, che ogni riposo era da lui fuggito. Per la qual cosa ricordandosi della preterita vita, e come sanza tante sollecitudini la menava lieta, fra sé disse: "Io disiderava d’arricchire per riposo, ma io veggo ch’elli è accrescimento di tribulazioni e di pensieri, e fuggimento di quiete". E tornando disideroso d’essere nella prima vita, quelle rendé a chi gliele avea donate. La povertà è rifiutata ricchezza, bene non conosciuto, fugatrice di stimoli, la quale fu da Diogene interamente conosciuta. Tanto basta alla povertà quanto natura richiede. Sicuro da ogni insidia vive chi con quella pazientemente s’accosta, né gli è tolto il potere a grandi onori pervenire, se virtuosamente vive come già dicemmo; e però se Tebano si levò questo stimolo da dosso, non fu liberale, ma savio. In tanto fu grazioso a Tarolfo, in quanto più tosto a lui che ad un altro gli piacque di donarlo, potendolo a molti altri donare. Fu adunque più liberale il cavaliere, che il suo onore concedea, che nullo degli altri. E pensate una cosa: che l’onore che colui donava è inrecuperabile, la qual cosa non avviene di molti altri, sì come di battaglie, di pruove e d’altre cose, le quali se una volta si perdono, un’altra si racquistano, e è possibile. E questo basti sopra la vostra dimanda aver detto -.
- Poi che la reina tacque, e Menedon fu rimaso contento, un valoroso giovane chiamato Clonico, il quale appresso Menedon sedeva, così cominciò a parlare: - Grandissima reina, tanto è stata bella e lunga la novella di questo nobile giovane, che io, acciò che gli altri nel brieve tempo possano ad agio dire, quanto potrò, il mio intendimento brievemente vi narrerò: e dico che, con ciò fosse cosa che io ancora molto giovane conoscessi la vita de’ suggetti del nostro signore Amore piena di molte sollecitudini e d’angosciosi stimoli con poco diletto, lungamente a mio potere la fuggii, schernendo più tosto coloro che lui seguivano, che commendandoli e ben che io molte volte già fossi tentato, con forte animo resistetti cessando i tesi lacciuoli. Ma però che io a quella forza alla quale Febo non poté resistere, non era forte a contrastare, avendosi Cupido pur posto in cuore di recarmi nel numero de’ suoi suggetti, fui preso, né quasi m’accorsi come, però che un giorno già per lo rinnovellato tempo lieto andando io su per li salati liti, conche marine con diletto prendendo, avvenne che voltando io gli occhi verso le nitide onde, per quelle vidi subita venire una barchetta, nella quale quattro giovani con un solo marinaio veniano, tanto belle, che mirabile cosa il vederle sì belle mi parve. E essendosi esse già verso di me appropinquate assai, né io però avessi i miei occhi da’ loro visi levati, vidi in mezzo di loro un lustrore grandissimo, nel quale, secondo che la stimativa mi porse, mi parve vedere una figura d’uno angelo giovanissimo, e tanto bella quanto alcuna cosa mai da me veduta. Il quale rimirando io, mi parve ch’egli dicesse così verso di me con voce assai dalla nostra diversa: "O giovane, stolto perseguitore della nostra potenza, ora se’ giunto! Io sono qui con quattro belle giovinette venuto: piglia per donna quella che più piace agli occhi tuoi!". Io questa voce udendo, tutto rimasi stupefatto, e col cuore e con gli occhi cercava di fuggire quello che io molte volte già fuggito avea; ma ciò era niente, però che alle mie gambe era tolta la possa, e egli avea arco e ali da giugnermi assai tosto. Onde io tra quelle mirando, vidi l’una di loro tanto bella e graziosa nell’aspetto e ne’ sembianti pietosa, ch’io imaginai di volere lei per singulare donna, fra me dicendo: "Costei agli occhi miei sì umile si presenta, che fermamente ella non sarà a’ miei disii nimica, come molte altre sono a quelli i quali io, vedendoli pieni d’affanni, ho già scherniti, ma sarà delle mie noie cacciatrice". E questo pensato, subito risposi: "La graziosa bellezza di quella giovane che alla vostra destra siede, o signor mio, mi fa disiderare d’essere a voi e a lei fedelissimo servidore, e però io sono qui a’ vostri voleri presto: fate di me quello che a voi piace". Io non avea ancora compiuto di parlare, ch’io mi sentii il sinistro lato piagare d’una lucente saetta venuta dall’arco che egli portava, la quale io estimai che d’oro fosse. E certo io non vidi quando egli, voltato a lei, essa ferì d’una di piombo: e in questa maniera preso rimasi ne’ lacci da me lungamente fuggiti. Questa giovane piacque e piace tanto agli occhi miei, che ogni altro piacere fora per comparazione a questo scarso. Della qual cosa ella avedendosene, lungamente si mostrò contenta; ma poi ch’ella conobbe me sì preso del suo piacere, che impossibile mi sarebbe il non amarla, ella incontanente il suo inganno con non dovuto sdegno verso me scoperse, mostrandosi ne’ sembianti a me crudelissima nimica, sempre gli occhi torcendo in altra parte a quella contraria dove me veduto avesse, e con non dovute parole continuo dispregiandomi. Per la qual cosa, avendo io in molte maniere con prieghi e con umiltà ingegnatomi di raumiliare la sua acerbità, né pote’ mai, io sovente piango e dolgomi di tanto infortunio, né in maniera niuna posso d’amarla tirarmi indietro: anzi quanto più crudele verso di me la sento, tanto più pare che la fiamma del suo piacere m’accenda il tristo cuore. Delle quali cose dolendomi io un giorno tutto soletto in un giardino con infiniti sospiri accompagnati da molte lagrime, sopravenne un mio singulare amico, al quale parte de’ miei danni era palese, e quivi con pietose parole m’incominciò a volere riconfortare, i cui conforti non ascoltando io niente, ma rispondendogli che la mia miseria ogni altra passava, egli così mi disse: "Tanto è l’uomo misero quanto egli medesimo si fa o si riputa; ma certo io ho molto maggiore cagione di dolermi che tu non hai". Io allora quasi turbato mi rivolsi a lui, dicendo: "Come? Chi la può maggiore di me avere? Non ricevo io mal guiderdone per ben servire? Non sono io odiato per lealmente amare? Così come me può alcuno essere dolente, ma più no". "Certo" rispose l’amico "io ho maggiore cagione di dolermi che tu non hai, e odi come. A te non è occulto che io lungo tempo abbia una gentil donna amata e amo sì come tu fai, né mai niuna cosa fu che io credessi che a lei piacesse, che io con tutto il mio ingegno e potere non mi sia messo a farla. E certo essa di questo conoscente, di ciò che io più disiderava mi fece grazioso dono, il quale avendo io ricevuto, e ricevendo qualora mi piacea, per lunga stagione non mi parea alla mia vita avere in allegrezza pari. Solo uno stimolo avea, che io non le potea far credere quanto io perfettamente l’amava: ma di questo, sentendomi amarla com’io dicea, leggermente mi passava. Ma gl’iddii, che niuno bene mondano vogliono sanza alcuna amaritudine concedere, acciò che i celestiali siano più conosciuti, e per consequente più disiderati, a questo m’aggiunsero un altro a me sanza comparazione noioso; ch’elli avvenne che dimorando io un giorno soletto con lei in segreta parte, veggendo chi davanti a noi passava sanza essere veduti, un giovane grazioso e di piacevole aspetto passò per quella parte, il quale io vidi ch’ella riguardò e poi un pietoso sospiro gittò. La qual cosa vedendo, io dissi: "Oimè, sonvi io sì tosto rincresciuto, che per la bellezza d’altro giovane sospiriate?". Ella tornata nel viso di nuova rossezza dipinta, con molte scuse, giurando per la potenza de’ sommi iddii, s’incominciò ad ingegnare di farmi scredere ciò che io per lo sospirare avea pensato: ma ciò fu niente, però che nel cuore mi s’accese una ira sì ferocissima, che quasi con lei non mi fece allora crucciare, ma pur mi ritenni. E certamente mai dell’animo partire non mi si poté che costei colui o altrui non amasse più di me: e tutti quelli pensieri, i quali altra volta in mio aiuto recava, cioè ch’ella più ch’altro me amasse, ora tutti in contrario li estimo, imaginando che fittiziamente abbia detto e fatto ciò che per adietro ha operato; di che dolore intollerabile sostengo. Né a ciò alcuno conforto vale; ma però che vergogna sovente raffrena il volere ch’io ho di dolermi più che di rallegrarmi, non continuo il mio dolore sì ch’io ne faccia alcuni avedere, ma, brievemente, io mai sanza sollecitudine e pensieri non sono, i quali molta più noia mi danno ch’io non vorrei. Adunque appara a sostenere le minori cose, poi che a me le maggiori vedi con forte animo portare nascose". Al quale io risposi che non mi parea che in niuno modo il suo dolore, ben che fosse grande, si potesse al mio agguagliare. E egli mi rispondea il contrario: e così in lunga quistione dimorammo, partendoci poi sanza niuna diffinizione. Priegovi ne diciate quello che di questo voi terreste -.
- - Giovane - disse la reina, - gran pena è la vostra, e torto ha la donna di non amarvi; ma tutta fiata il vostro dolore può essere da speranza aiutato: quello che del vostro compagno non avviene, però che, poi ch’egli è una volta entrato in sospetto, niuna cosa nel può cacciare. Dunque continuamente sanza conforto si dorrà mentre l’amore durerà: e però, secondo il nostro giudicio, ne pare maggiore doglia quella del geloso che quella di chi ama e non è amato -.
- Disse Clonico allora: - O nobile reina, che è ciò che voi dite? Aperto pare che sempre siete stata amata da cui amato avete, per la qual cosa la mia pena male conoscete. Come si potrebbe mostrare che gelosia porgesse maggiore pena che quella ch’io sento, con ciò sia cosa che colui la disiderata cosa possiede, e puote, quella tenendo, prendere in una ora più diletto di lei che in un lungo tempo sentirne pena, e nientemeno da sé per esperienzia può cacciare tal gelosia, se avviene che truovi falso il suo parere? Ma io, di focoso disio acceso, quanto più mi truovo lontano ad adempierlo, tanto più ardo, e assalito da mille stimoli mi consumo; né a ciò mi può aiutare alcuna speranza, però che per le molte volte ch’io ho riprovata costei, e trovatala ognora più acerba, io vivo disperato. Per che la vostra risposta mi pare che alla verità sia contraria: che io non dubito che non sia molto meglio dubitando tenere, che piangendo disiare -.
- - Quella amorosa fiamma che negli occhi ne luce e il nostro viso ognora adorna di più bellezza, come voi dite, mai non consentì che invano amassimo, ma non per tanto non ci si occulta quanta e quale sia la pena dell’uno, e quella dell’altro - rispose la reina; seguendo: - e però, come la nostra risposta sia con la verità una cosa, vi mostreremo. Egli è manifesto che quella cosa che più la quiete dell’animo impedisce è la sollecitudine, delle quali alcune a lieto fine vanno, alcune a dolente fuggire intendono. Delle quali quanto più n’ha l’animo, tanto più ha affanno, e massimamente quando noiose sono: e che il geloso più di voi n’abbia è manifesto, però che voi a niuna cosa intendete se non solamente ad acquistare l’amore di quella donna cui voi amate, il quale non potendolo avere v’è gravissima noia. Ma certo e’ potrebbe di leggiere avvenire, con ciò sia cosa che i cuori delle femine sieno mobili, che subitamente voi, non pensandoci, vi trovereste averlo acquistato: o forse che v’ama, ma, per provare se voi lei amate, dimostra il contrario, e mostrerà forse infino a quel tempo ch’ella fia bene del vostro amore accertata. Con questi pensieri può molto speranza mitigare la vostra doglia: ma il geloso ha l’animo pieno d’infinite sollecitudini, alle quali né speranza né altro diletto può porgere conforto, o alleviare la sua pena. Egli sta intento di dare legge a’ vaghi occhi, a’ quali il suo posseditore non la può donare. Egli vuole e s’ingegna di porre legge a’ piedi e alle mani, e a ogni altro atto della sua donna. Egli vuole essere provido conoscitore e de’ pensieri della donna e della allegrezza, ogni cosa interpretando in male di lui, e crede che ciascuno disideri e ami quello che egli ama. Similemente s’imagina che ogni parola sia doppia e piena d’inganno, e se egli mai alcuna detrazione commise, questo gli è mortal pensiero imaginando che per simile modo esso debba essere ingannato. Egli vuol chiudere con avvisi le vie dell’aere e della terra, e, brievemente, ne’ suoi pensieri gli nocciono il cielo e la terra, gli uccelli e gli animali, e qualunque altra creatura: e a questo levarli non ha luogo esperienza, però che se la fa e trovi che lealmente la donna si porti, egli pensa che aveduta si sia di ciò ch’egli ha fatto, e però guardatasene. S’e’ trova quello che cerca e trovare non vorria, chi è più doloroso di lui? Se forse estimate che il tenerla in braccio gli sia tanto diletto che queste cose debbia mitigare, il parere vostro è falso, però che quello tenere gli porge noia, pensando che altri così l’abbia tenuta. E se la donna forse amorevolemente l’accoglie, credesi che per torlo da tal pensiero il faccia, e non per buono amore ch’ella gli porti. Se malinconica la trova, pensa che altrui ami e di lui non si contenti: e infiniti altri stimoli potremmo de’ gelosi narrare. Dunque che diremo della costui vita, se non ch’ella sia la più dolente che alcun vivente possa avere? Egli vive credendo e non credendo, e sé e la donna stimolando e le più volte suole avvenire che di quella malattia di che i gelosi vivono paurosi, elli ne muoiono, e non sanza ragione, però che con le loro riprensioni molte fiate mostrano a’ loro danni la via. Considerando adunque le predette cose, più ha il vostro amico, che è geloso cagione di dolersi che voi non avete, però che voi potete sperare d’acquistare, colui con paura vive di perdere quella cosa che egli appena tiene sua. E però s’egli ha più materia da dolersi di voi e confortasi il meglio che elli puote, molto maggiormente voi vi dovete confortare e lasciare stare il piagnere, che è atto di pusillanima feminella, e sperare del buono amore, che voi alla vostra donna portate, non perdere merito: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato, e a’ robusti venti si rompono più tosto le dure querce che le consenzienti canne -.
- Vestita di bruni vestimenti sotto onesto velo sedea appresso costui una bella donna, la quale, come sentì la reina alle sue parole aver posto fine, così cominciò a dire: - Graziosa reina, e’ mi ricorda che, essendo io ancora picciola fanciulla, un giorno io dimorava con un mio fratello, bellissimo giovane e di compiuta età, in un giardino, sanza alcuna altra compagnia. Dove dimorando, avvenne che due giovani donzelle, di sangue nobili e di ricchezze copiose, e della nostra città natie, amando questo mio fratello e sentendolo essere in quel giardino, amendue là se ne vennero, e lui, che di queste cose niente sapeva, di lontano cominciarono a riguardare. Dopo alquanto spazio, vedendolo solo, fuori che di me, di cui elle poco curavano però che era picciola, così fra loro cominciarono a dire: "Noi amiamo questo giovane sopra tutte le cose, né sappiamo egli ama noi, né convenevole è che amendune ci ami; ma qui n’è al presente licito di prendere di lui parte del nostro disio, e di conoscere se di noi egli ama alcuna, o quale egli ama più; e quella che egli più ama, poi sua si rimanga sanza esserle dall’altra impedito: però ora ch’egli dimora solo e che noi abbiamo tempo, corriamo, e ciascuna l’abbracci e baci: egli quale più gli piacerà, poi prenderà". Determinatosi a questo, le due giovani cominciarono a correre sopra la verde erba verso il mio fratello: di che egli si maravigliò vedendole, e vedendo come veniano. Ma l’una di loro ancora assai lontana, vergognosa quasi piangendo ristette, l’altra infino a lui corse e l’abbracciò e baciollo e poseglisi a sedere allato raccomandandoglisi. Ma poi che l’ammirazione che costui ebbe dell’ardire di colei fu alquanto cessata, egli la pregò che per quello amore ch’ella gli portava, ella gli dovesse di questa cosa dire intera la verità. Essa niente ne gli celò: la qual cosa questi udendo, e dentro nella mente essaminando ciò che l’una e l’altra avea fatto, fra sé conoscere non sapea qual più l’amasse, né qual più egli dovesse amare. Ma venuto accidente che di queste parole il convenne partire, di questo a più amici domandò consiglio, né mai alcuno il sodisfece al suo piacere di tal dimanda: per la qual cosa io priego voi, da cui veramente credo la vera diffinizione avere, che mi diciate quale di queste due dee essere più dal giovane amata -.
- A questa donna così la reina rispose: - Certo delle due giovani quella ne pare che più il vostro fratello ami, e più da lui deggia essere amata, che dubitando vergognosa rimase sanza abbracciarlo: e per che questo ne paia, questa è la ragione. Amore, sì come noi sappiamo, sempre fa timidi coloro in cui dimora, e dove maggior parte è d’esso, similmente maggiore temenza. E questo avviene per che lo ’ntendimento della cosa amata non si può intero sapere; che se si potesse sapere, molte cose, temendo di non spiacere, non si fanno che si farebbono, però che ciascuno sa che spiacendo si toglie cagione d’essere amato: e con questa temenza e con amore sempre dimora vergogna, e non sanza ragione. Adunque, tornando alla nostra quistione, diciamo che atto di veramente innamorata fu quello di quella che timida si mostrò e vergognosa. Quello dell’altra, più tosto di scelerata libidinosa che d’innamorata fu sembiante: e però essendo egli più da colei amato, più dee lei, secondo il nostro giudicio, amare -.
- Rispose allora la donna: - Gentil reina, vera cosa è che amore, ov’egli moderatamente dimora, temenza e vergogna conviene che ci sia, ma là ove egli in tanta quantità abonda, che agli occhi dei più savi leva la vista, come già qui per adietro si disse, dico che temenza non ci ha luogo, ma i movimenti di chi ciò sente sono secondo che egli sospigne: e però quella giovane, vedendosi inanzi il suo disio, tanto s’accese, che, abandonata ogni vergogna, corse a quello di che era sì forte stimolata, che avanti sostenere non potea. L’altra, non tanto infiammata, servò più gli amorosi termini, vergognandosi, e rimanendo come voi dite. Dunque quella più ama e più dovrà essere amata -.
- - Savia donna - disse la reina, - veramente a’ più savi leva amore soperchio la veduta e ogni altro debito sentimento, quanto alle cose che sono fuori di sua natura; ma in quelle che a sé appartengono, come egli cresce così crescono. Adunque, quanta maggior quantità d’esso in alcuno si truova, e così del timore, come davanti dicemmo. Che questo sia vero, lo scelerato ardore di Blibide il ci manifesta, la quale quanto amasse si dimostrò nella sua fine, vedendosi abandonata e rifiutata: né già per questo ebbe ella ardire di scoprirsi con le propie parole, ma scrivendo il suo sconvenevole disio palesò. Similemente Fedra più volte tentò di volere ad Ipolito, al quale, come a domestico figliuolo, poteva arditamente parlare, di dirli quanto ella l’amava, né era prima la sua volontà pervenuta alla bocca per proffererla, che, temendo, su la punta della lingua le moria. O quanto è temoroso chi ama! Chi fu più possente che Alcide, al quale non bastò la vittoria delle umane cose, ma ancora a sostenere il cielo si mise! E ultimamente non di donna, ma d’una guadagnata giovane s’innamorò tanto, che come umile suggetto, temendo, a’ comandamenti di lei facea le minime cose! E ancora Paris, quello che né con gli occhi né con la lingua ardiva di tentare, col dito avanti alla sua donna del caduto vino scrivendo prima il nome di lei, appresso scriveva: "io t’amo"! Quanto ancora sopra tutti questi ci porge debito essemplo di temenza Pasife, la quale ad una bestia sanza razionale intelletto non ardiva d’esprimere il suo volere, ma con le propie mani cogliendo le tenere erbe s’ingegnava di farlo a sé benigno, ingannando se medesima sovente allo specchio per piacergli e per accenderlo in tal disio quale era ella, acciò ch’egli si movesse a cercare ciò che ella non ardiva di domandare a lui! Non è atto di donna innamorata, né d’alcun’altra, l’essere pronta, con ciò sia cosa che sola la molta vergogna, la quale in noi dee essere, è rimasa del nostro onore guardatrice. Noi abbiamo voce tra gli uomini, e è così la verità, di sapere meglio l’amorose fiamme nascondere che gli uomini: e questo non genera altro che la molta temenza, la quale le nostre forze, non tante quante quelle degli uomini, più tosto occupa. Quante ne sono già state, e forse noi d’alcune abbiamo saputo, le quali s’hanno molte volte fatto invitare di pervenire agli amorosi effetti, che volontieri n’avrebbero lo invitatore invitato prima che egli loro, se debita vergogna o temenza ritenute non l’avesse! E non per tanto, ogni ora che il no è della loro bocca uscito, hanno avuto nell’animo mille pentute, dicendo col cuore cento volte sì. Rimanga questo scelerato ardire nelle pari di Semiramis e di Cleopatra, le quali non amano, ma cercano d’acquetare il loro libidinoso volere, il quale chetato, non avanti d’alcuno più che d’un altro non si ricordano. I savi mercatanti mal volentieri arrischiano tutti i loro tesori ad un’ora a’ fortunosi casi: e non per tanto una picciola parte non si curano di concedere loro, non sentendo di quella nell’animo alcuno dolore, se avviene che la perdano. Amava dunque la giovane, che abbracciò il vostro fratello, poco, e quel poco concedette alla fortuna, dicendo: "Se costui per questo acquisto, bene sta; se mi rifiuta, non ci sarà più che prendersene un altro". L’altra, che vergognandosi rimase, con ciò fosse cosa che ella lui amasse sopra tutte le cose, dubitò di mettere tanto amore in avventura, imaginandosi: "Se questo forse gli spiacesse e rifiutassemi, il mio dolore sarebbe tanto e tale ch’io ne morrei". Sia adunque più la seconda che la prima amata -.
- Feriva del sole un chiaro raggio passando fra le verdi frondi sopra il nitido fonte, il quale la sua luce rifletteva nel bel viso della adorna reina, la quale di quel colore era vestita che il cielo ne dimostra, quando, amenduni i figliuoli di Latona a noi nascosi, lucido solo con le sue stelle ne porge luce. E oltre allo splendore del bel viso, quello tanto lucente facea, che mirabile lustro a’ dimoranti in quel luogo porgeva fra le fresche ombre: e tal volta il riflesso raggio si distendea infino al luogo dove la laurea corona d’una parte con la candida testa, dall’altra con gli aurei capelli terminava, tra quelli mescolata con non maestrevole ravolgimento: e quando quivi pervenia, nel primo sguardo si saria detto che fra le verdi frondi uscisse una chiara fiammetta d’ardente fuoco, e tanto si dilatasse, quanto i biondi capelli si dimostravano a’ circunstanti. Questa mirabile cosa, forse più tosto o meglio avvedutosene che alcuno degli altri, mirava Caleon intentivamente quasi come d’altro non gli calesse, il quale per opposito a fronte alla reina sedeva in cerchio, dividendoli l’acqua sola: né movea bocca alla quistione che a lui veniva, perché taciuto avesse la reina già per alquanto spazio, avendo contentata la savia donna. A cui la reina così disse: - O solo disio forse della cosa che tu miri, dinne, qual è la cagione che così sospeso ti tiene, che, seguendo l’ordine degli altri, non parli, solamente, come noi crediamo, mirando la nostra testa, come se da te mai vista non fosse avanti? Dilloci, e appresso, come gli altri hanno proposto, e tu proponi -. A questa voce, Caleon, levata l’anima da’ dolci pensieri, in sé la tornò alquanto riscotendosi, come tal volta colui, che per paura rompe il dolce sonno, suole fare, e così disse: - Alta reina, il cui valore impossibile saria a narrare, graziosi pensieri in loro teneano la mia mente involta, quando io sì fiso mirava la vostra fronte, che mi parve, allora che il chiaro raggio giunse nella bella acqua, riflettendo nel vostro viso, che dell’acqua uscisse uno spiritello tanto gentile e grazioso a vedere, ch’egli si tirò dietro l’anima mia a riguardare ciò che facesse, forse sentendo i miei occhi insofficienti a tanta gioia mirare, e salì per lo chiaro lume negli occhi vostri, e quivi per lungo spazio fece mirabile festa adornandoli di nuova chiarezza. Poi salendo più su questa luce, lasciando ne’ begli occhi i suoi vestigii, il vidi salire sopra la vostra corona, sopra la quale, come egli vi fu, insieme con i raggi parve che nuova fiamma vi s’accendesse, forse qual fu già quella che fu da Tanaquila veduta a Tulio piccolo garzone dormendo: e dintorno a questa saltando di fronda in fronda, come uccelletto che amoroso cantando visita molte foglie, s’andava, e i vostri capelli con diversi atti movendo, e intorniando a quelle, tal volta in essi nascondendosi e poi più lieto ogni fiata uscendo fuori; e pareami ch’egli fosse tanto allegro in se medesimo, quanto alcuna cosa mai esser potesse, e gisse cantando, overo con dolci voci queste parole dicendo:
- "Io son del terzo ciel cosa gentile,
- sì vago de’ begli occhi di costei,
- che s’io fossi mortal me ne morrei.
- E vo di fronda in fronda a mio diletto,
- intorniando gli aurei crini,
- me di me accendendo:
- e ’n questa mia fiammetta con effetto
- mostro la forza de’ dardi divini,
- andando ogn’uom ferendo
- che lei negli occhi mira, ov’io discendo
- ciascuna ora ch’è piacer di lei,
- vera reina delli regni miei".
- E con queste, molte altre ne dicea, andando com’io v’ho detto, quando mi chiamaste; ma non prima la voce moveste, che egli subito si tornò ne’ vostri occhi, i quali come matutine stelle sintillano di nuova luce, questo luogo lustrando: udito avete da che gioia con nuovo pensiero m’avete alquanto separato -. Di questo si maravigliò assai Filocolo e gli altri, e rivolti gli occhi verso la loro reina, videro quello che a udire loro parea impossibile. E ella, vestita d’umiltà, ascoltando le vere parole di lei dette, stette con fermo viso sanza alcuna risposta. E però Caleon così parlando seguì: - Graziosa reina, io disidero di sapere se a ciascuno uomo, a bene essere di se medesimo, si dee innamorare o no. E questo a dimandare mi muovono diverse cose vedute e udite e tenute dalle varie oppinioni degli uomini -.
- Lungamente riguardò la reina Caleon nel viso, e poi dopo alcun sospiro così rispose: - Parlare ci conviene contra quello che noi con disiderio seguiamo. E certo a te dovria bene essere manifesto ciò che tu in dubbio domandando proponi. Serverassi, rispondendo a te, lo ’ncominciato ordine, e colui a cui suggetta siamo, le parole, le quali, costretta dalla forza del giuoco, diciamo contra la sua deità, più tosto che volontarie, le ci perdoni: né però la sua indegnazione caggia sopra di noi. E voi, che similemente come noi suggetti gli siete, con forte animo l’ascoltate, non mutandovi per quelle dal vostro proponimento. E acciò che meglio e con più aperto intendimento le nostre parole si prendano, alquanto fuori della materia ci stenderemo, a quella quanto più brievemente potremo tornando, e così diciamo: amore è di tre maniere, per le quali tre, tutte le cose sono amate; alcuna per la virtù dell’uno, alcuna per la potenza dell’altro, secondo che la cosa amata è, e similmente l’amante. La prima delle quali tre si chiama amore onesto: questo è il buono e il diritto e il leale amore, il quale da tutti abitualmente dee esser preso. Questo il sommo e primo creatore tiene lui alle sue creature congiunto, e loro a lui congiunge. Per questo i cieli, il mondo, i reami, le province e le città permangono in istato. Per questo meritiamo noi di divenire etterni posseditori de’ celestiali regni. Sanza questo è perduto ciò che noi abbiamo in potenza di ben fare. Il secondo è chiamato amore per diletto, e questo è quello al quale noi siamo suggetti. Questo è il nostro iddio: costui adoriamo, costui preghiamo, in costui speriamo che sia il nostro contentamento, e che egli interamente possa i nostri disii fornire. Di costui è posta la quistione se bene è a sommetterlisi: a che debitamente risponderemo. Il terzo è amore per utilità: di questo è il mondo più che d’altro ripieno. Questo insieme con la fortuna è congiunto: mentre ella dimora, e egli similmente dimora; quando si parte, e elli. Elli è guastatore di molti beni: e più tosto, ragionevolmente parlando, si dovria chiamare odio che amore. Ma però che alla proposta quistione né del primo né dell’ultimo è bisogno di parlare, del secondo diremo, cioè amore per diletto: al quale, veramente, niuno, che virtuosa vita disideri di seguire, si dovria sommettere, però che egli è d’onore privatore, adducitore d’affanni, destatore di vizii, copioso donatore di vane sollecitudini, indegno occupatore dell’altrui libertà, più ch’altra cosa da tenere cara. Chi, dunque, per bene di sé, se sarà savio, non fuggirà tale signore? Viva chi può libero, seguendo quelle cose che in ogni atto aumentano libertà, e lascinsi i viziosi signori a’ viziosi vassalli seguire -.
- - Io non pensava - disse allora Caleon - con le mie parole dar materia di mancamento alla nostra festa, né la potenza del nostro signore Amore, né le menti d’alcuno perturbare; anzi imaginai che, diffinendolo voi, secondo la intenzione mia e di molti altri, dovesse quelli che gli sono suggetti con forte animo a ciò confermarli, e quelli che non gli sono con disideroso appetito chiamarlivi. Ma veggio che la vostra intenzione alla mia è tutta contraria, però che voi tre maniere d’amore nelle vostre parole essere mostrate. Delle quali tre, la prima e l’ultima come voi dite consento che sia, ma la seconda, la quale rispondendo alla mia dimanda dite che è tanto da fuggire, tengo che da seguire sia da chi glorioso fine disidera, sì come aumentatrice di virtù, com’io credo appresso mostrare. Questo amore di cui noi ragioniamo, sì come a tutti può essere manifesto, però che il proviamo, adopera questo ne’ cuori umani, poi ch’egli ha l’anima alla piaciuta cosa disposta: egli d’ogni superbia spoglia il cuore e d’ogni ferocità, faccendolo umile in ciascun atto, sì come manifestamente ci appare in Marte, il quale troviamo che, amando Venere, di fiero e aspro duca di battaglie, tornò umile e piacevole amante. Egli fa i cupidi e gli avari, liberali e cortesi: Medea, carissima guardatrice delle sue arti, poi che le costui fiamme sentì, liberamente sé e ’l suo onore e le sue arti concedette a Giansone. Chi fa più solliciti gli uomini all’alte cose, di lui? Quanto egli li faccia, rimirisi a Paris e a Menelao. Chi spegne più gl’iracundi fuochi, che fa costui? Quante volte fu l’ira d’Achille quetata da’ dolci prieghi di Pulisena cel mostra. Questi, più ch’altri, fa gli uomini audaci e forti, né so qual maggiore essemplo ci si potesse dare che quello di Perseo, il quale per Andromaca fece mirabile pruova di virtuosa fortezza. Questi adorna di belli costumi, d’ornato parlare, di magnificenza, di graziosa piacevolezza tutti coloro che di lui si vestono. Questi di leggiadria e di gentilezza a tutti i suoi suggetti fa dono. Oh quanti sono i beni che da costui procedono! Chi mosse Vergilio, chi Ovidio, chi gli altri poeti a lasciare di loro etterna fama ne’ santi versi, i quali mai a’ nostri orecchi pervenuti non sarieno se costui non fosse, se non costui? Che direm noi più della costui virtù, se non ch’egli ebbe forza di mettere tanta dolcezza nella cetera d’Orfeo, che, poi ch’egli a quel suono ebbe chiamate tutte le circunstanti selve, e fatti riposare i correnti fiumi, e venire in sua presenza i fieri leoni insieme co’ timidi cervi con mansueta pace, e tutti gli altri animali similemente, egli fece quetare le infernali furie e diede riposo e dolcezza alle tribulate anime: e dopo tutto questo, fu di tanta virtù il suono, ch’egli meritò di riavere la perduta mogliere. Dunque costui non è cacciatore d’onore, come voi dite, né donatore di sconvenevoli affanni, né citatore di vizii, né largitore di vane sollecitudini, né indegno occupatore dell’altrui libertà: però con ogni ingegno, con ogni sollecitudine dovrebbe ciascuno, che di lui non è conto e servidore, procacciare e affannare d’avere la grazia di tanto signore e essergli suggetto, poi che per lui si diviene virtuoso. Quello che piacque agl’iddii e alli più robusti uomini, similemente a noi dee piacere: seguasi, amisi, servasi, e viva sempre nelle nostre menti cotal signore! -
- - Molto t’inganna il parer tuo - rispose la reina - e di ciò non è maraviglia, però che tu se’, secondo il nostro conoscimento, più ch’altro innamorato, e sanza dubbio il giudizio degli innamorati è falso, però che il lume degli occhi della mente hanno perduto, e da loro la ragione come nimica hanno cacciata. Adunque, a noi converrà alquanto, oltre al nostro volere, d’amore parlare: di che ci duole, sentendoci a lui suggetta, ma per trarti d’errore il licito tacere in vere parole rivolgeremo. Noi vogliamo che tu sappi che questo amore niun’altra cosa è che una inrazionabile volontà, nata da una passione venuta nel cuore per libidinoso piacere che agli occhi è apparito, nutricato per ozio da memoria e da pensieri nelle folli menti: e molte fiate in tanta quantità multiplica, che egli leva la ’ntenzione di colui in cui dimora dalle necessarie cose, e disponlo alle non utili. Ma però che tu essemplificando ti ’ngegni di dimostrarne da costui ogni bene e ogni virtù procedere, a riprovare tuoi essempli procederemo. Non è atto d’umiltà l’altrui cose ingiustamente a sé recare, ma è arroganza e sconvenevole presunzione: e certo queste cose usò Marte, cui tu sai per amore divenuto umile, a levare a Vulcano Venere sua legittima sposa. E sanza dubbio quella umiltà che nel viso appare agli amanti, non procede da benigno cuore, ma da inganno prende principio. Né fa questo amore i cupidi liberali, ma quando in tanta copia, quanta poni che in Medea fu, abonda ne’ cuori, quelli del mentale vedere priva, e delle cose, per adietro debitamente avute care, stoltamente diventa prodigo, non quelle con misura donando, ma disutilmente gittando: crede piacere, e dispiace a’ savi. Medea, non savia, della sua prodigalità assai in brieve tempo sanza suo utile si penté, e conobbe che se moderatamente i suoi cari doni avesse usati non saria a sì vile fine venuta. E quella sollecitudine, la quale in danno de’ sollecitanti s’acquista o s’adopera, non ci pare per alcuno dovere essere cercata: molto vale meglio ozioso stare che male adoperare, ancora che né l’uno né l’altro sia da lodare. Paris fu sollecito alla sua distruzione, se ’l fine di tale sollecitudme si riguarda. Menelao non per amore, ma per racquistare il perduto onore, con ragione divenne sollecito, come ciascuna persona discreta dee fare. Né è ancora questo amore cagione di mitigata ira; ma benignità d’animo, passato l’impeto che induce quella, la fa tornare nulla, e rimettesi l’offesa a chi contro s’adira: ben che gli amanti, e ancora i discreti uomini, sogliono usare di rimettere l’offese a preghiera di cosa amata o d’alcuno amico, per mostrarsi di ciò che niente loro costa, cortesi, e obligarsi i pregatori: e per questa maniera Achille più volte già mostrò di cacciare da sé la concreata ira. Similemente ne mostri che costui fa gli uomini arditi e valorosi; ma di ciò il contrario si può mostrare. Chi fu più valoroso uomo d’Ercule, il quale innamorato mise le sue forze in oblio, e ritornò vile, filando l’accia con le femine di Iole? Veramente, alle cose ove dubbio non corre, gente arditissima sono gl’innamorati; e se dove dubbio corre si mostrano arditi, e mettonvisi, non amore, ma poco senno a ciò li tira, per avere poi vanagloria nel cospetto delle sue donne, avvegna che questo rade volte avviene, che dubitano tanto di perdere il diletto della cosa amata, che essi consentono avanti d’essere tenuti vili. E non ancora dubitiamo che questi mise ogni dolcezza nella cetara d’Orfeo: questo consentiamo che sia come tu porgi, ché veramente, al generale, amore empie le lingue de’ suoi suggetti di tanta dolcezza e di tante lusinghe, che essi molte fiate farieno con le loro lusinghe volgere le pietre, non che i cuori mobili e incostanti; ma di vile uomo è atto il lusingare! Come adunque diremo che tal signore si deggia seguire per bene propio del seguitore? Certo questi coloro in cui dimora fa dispregiare i savi e utili consigli: e male per li troiani non furono da Paris uditi quelli di Cassandra. Non fa costui similmente a’ suoi sudditi dimenticare e dispregiare la loro fama buona, la quale dee da tutti, come etterna erede della nostra memoria, rimanere in terra dopo le nostre morti? Quanto la contaminasse Egisto basti per essemplo, avvegna che Silla non meglio operasse che Pasife. Non è costui cagione di rompere i santi patti e la pura fede promessa? Certo sì. Che aveva fatto Adriana a Teseo, per la quale cosa rompendo i matrimoniali patti, dando a’ venti sé son la donata fede, misera la dovesse ne’ diserti scogli abandonare? Un poco di piacere, veduto negli occhi di Fedra dallo scelerato, fu cagione di tanto male, e di cotal merito del ricevuto onore. In costui ancora niuna legge si truova: e che ciò sia vero, mirisi all’opere di Tireo, il quale, ricevuta Filomena dal pietoso padre, a lui carnale cognata, non dubitò di contaminare le sacratissime leggi tra lui e Progne, di Filomena sorella, matrimonialmente contratte. Questi ancora, chiamandosi e faccendosi chiamare iddio, le ragioni degli iddii occupa. Chi porria mai con parole le iniquità di costui narrare appieno? Egli, brievemente, ad ogni male mena chi ’l segue: e se forse alcune virtuose opere fanno i suoi seguaci, che avviene rado, con vizioso principio le incominciano, disiderando per quelle più tosto venire al disiderato fine del laido lor volere. Le quali non virtù ma vizio più tosto si possono dire, con ciò sia cosa che non sia da riguardare ciò che l’uomo fa, ma con che animo, e quello vizio o virtù riputare, secondo la volontà dell’operante: però che già mai cattiva radice non fece buono arbore, né cattivo arbore buon frutto. Adunque questo amore è reo, e se egli è reo, è da fuggire: e chi le malvage cose fugge, per consequente segue le buone, e così è buono e virtuoso. Il principio di costui niuna altra cosa è che paura, il suo mezzo peccato e il suo fine dolore e noia: deesi adunque fuggire e per riprovarlo e temere d’averlo in sé, però che egli è impetuosa cosa, né in niuno suo atto sa aver modo, e è sanza ragione. Egli è sanza dubbio guastatore degli animi, e vergogna e angoscia e passione e dolore e pianto di quelli; e mai sanza amaritudine non consente che stia il cuore di chi il tiene. Dunque chi loderà che questi sia da seguire, se non gli stolti? Certo, se licito ne fosse, volontieri sanza lui viveremmo, ma tardi di tal danno ci accorgiamo; convienci, poi nelle sue reti siamo incappati, seguire la sua vita, infino a tanto che quella luce, la quale trasse Enea de’ tenebrosi passi, fuggendo i pericolosi incendii, apparisca a noi, e tirici a’ suoi piaceri -.
- Alla destra mano di Caleon una bella donna sedea, il cui nome era Pola, piacevole sotto onesto velo, la quale così cominciò a parlare, poi che la reina tacque: - O nobile reina, voi avete al presente determinato che alcuna persona questo nostro amore seguire non dee, e io ’l consento; ma impossibile mi pare che la giovane età degli uomini e delle donne, sanza questo amore sentire, trapassare possa. Però al presente lasciando con vostro piacere la vostra sentenza, terrò che licito sia l’innamorarsi, prendendo il mal fare per debito adoperare. E questo seguendo, voglio da voi sapere quale di due donne deggia più tosto da un giovane essere amata, piacendo igualmente a lui amendune, o quella di loro che è di nobile sangue, e di parenti possente, e copiosa d’avere molto più che il giovane, o l’altra la quale né è nobile né ricca né di parenti abondevole quanto il giovane -.
- Così rispose la reina a costei: - Bella donna, ponendo che l’uomo e la donna deggia amore seguire, come avanti diceste, noi giudicheremmo che quantunque la donna sia ricca, grande e nobile più che il giovane, in qualunque grado o dignità si sia, ch’ella deggia più tosto dal giovane essere amata che quella che alcuna cosa è meno di lui, però che l’animo dell’uomo a seguire l’alte cose fu creato, dunque avanzarsi e non avvilirsi dee. Appresso ne dice un volgare proverbio: "Egli è meglio ben desiare che mal tenere". Però amisi la più nobile donna, e la meno nobile con giusta ragione si rifiuti per nostro giudicio -.
- Disse allora la piacevole Pola: - Reina, altro giudicio sarebbe per me di tal quistione donato come udirete. Noi naturalmente tutti più i brievi che i lunghi affanni disideriamo: e che minore e più brieve affanno sia ad acquistare l’amore della meno nobile che quello della più, è manifesto: dunque si dee seguire, con ciò sia cosa che già si possa della minore dire acquistato quello che della maggiore è ad acquistare. Appresso, amando un uomo una donna di maggiore condizione che egli non è, molti pericoli ne gli possono seguire: né però ultimamente n’ha maggior diletto che d’una minore. Noi veggiamo ad una gran donna avere molti parenti, molta famiglia, e tutti riguardare ad essa sì come solleciti guardatori del suo onore, de’ quali se alcuno di questo amore s’avvedesse, com’io già dissi, all’amante grave pericolo ne può seguire: quello che della meno nobile non potrebbe così di leggiere avvenire. I quali pericoli ciascuno a suo potere dee fuggire, con ciò sia cosa che chi riceve s’ha il danno, e chi ’l sa se ne ride, dicendo: "Ben gli sta; dove si metteva egli ad amare?". Né ancora si muore più che una volta, per che ciascuno dee ben guardare come quella una viene a morire, e dove, e per che cagione. E ancora è credibile cosa che la gentil donna poco il prezzerà, però che essa medesima disidererà d’amare sì alto uomo o maggiore com’ella è donna, e non minore di sé: e così costui tardi o non mai al suo disio perverrà. E della minore gli avverrà il contrario, però ch’ella si glorierà d’essere amata da tanto amante, e ingegnerassi di piacergli per nutricare l’amore. E dove questo non fosse, la potenza dell’amante potrà sanza paura fare il suo disio adempiere: però io terrei che amare si dovesse la minore più tosto che l’altra -.
- - E’ v’inganna il parere - disse la reina alla bella donna, - però che amore ha questa natura, che quanto più si ama, più si disidera d’amare: e questo per quelli che per lui maggiore doglia sentono si può comprendere, i quali, avvegna che quella molto gli molesti, ognora più amano, né alcuno col cuore tosto la sua fine disidera, ben che ’l mostri con le parole. Dunque, ben che i piccoli affanni si cerchino da’ pigri, da savi sono le cose, che con più affanno s’acquistano, più graziose e dilettevoli tenute: però la minore donna amare ad acquistarla saria, come voi dite, poco affanno, e però poco cara, e brieve l’amore, e seguiriasi che amando si disiderasse di meno amare, che è contro alla natura d’amore, come di sopra dicemmo. Ma della grande, che con affanno s’acquista, avviene il contrario, però che, sì come in cara cosa e con fatica acquistata, ogni sollecitudine si pone a ben guardare il guadagnato amore, e così ognora più si ama, e più il diletto e ’l piacere dura. Ma se volete dire che il dubbio de’ parenti ci sia, noi nol neghiamo, e questa è una delle cagioni perch’elli è affanno ad avere l’amore d’una gran donna: ma i discreti con occulta via procedono in tali bisogne, ché non è dubbio che delle grandi e delle piccole donne, ciascuna secondo il suo potere, è amato e guardato l’onore da’ parenti, e così poria il folle nella mala ventura incappare amando basso come in alto luogo. Ma chi sarà colui che Fisistrato di crudeltà trapassi, offendendo chi le cose sue ama, sanza pensare avanti quello che poi farà a chi l’avrà in odio? Dite ancora mai costui di maggior donna di sé potere venire a fine del suo disio amandola: dicendo che la donna maggiore di sé disidererà d’amare e lui niente pregerà, mostra che ignoto vi sia che il più picciolo uomo, quanto alla naturale virtù, sia di maggiore condizione e di migliore che la maggiore donna del mondo. Dunque, qualunque uomo ella disidererà, di maggiore condizione di sé il disidererà. Fa bene però il virtuoso vivere e ’l vizioso i piccioli grandi, e’ grandi piccioli molte volte: non per tanto qualunque donna sarà da qualunque uomo con debito stile sollecitata, sanza dubbio a disiderato fine se ne perviene, ben che con più affanno d’una grande che d’una piccola. E noi veggiamo che per continua caduta la molle acqua rompe e fora le dure pietre: però nullo d’amare alcuna si disperi. Tanto di bene seguirà a chi maggiore donna di sé amerà, che egli s’ingegnerà, per piacerle, belli costumi avere, di nobili uomini compagnia, ornato e dolce parlare, ardito alle ’mprese e splendido di vestire. E se l’acquisterà, più gloria nell’animo n’avrà e più diletto: e similemente nel parlare della gente sarà essaltato, se non ne gli misviene. Seguasi adunque la più nobile, come avanti dicemmo -.
- Ferramonte, duca di Montoro, appresso la piacevole Pola sedea, e così, poi che la loro reina ebbe parlato, a lei cominciò a dire: - Consentendo a questa donna che amare si convenga, risposto le avete alla sua quistione che più tosto nobile donna, più di sé che meno, si dee amare. La qual cosa assai bene si può consentire per quelle ragioni che mostrate n’avete. Ma con ciò sia cosa che ancora delle gentili donne siano alcune diverse maniere, cioè in diversi abiti dimoranti, le quali, per quello che si crede, diversamente amano, qual più qual meno, qual più fervente qual più tiepidamente, disidero di sapere da voi, di cui più tosto un giovane, per più felicemente il suo disio ad effetto conducere, si dee innamorare di queste tre, o di pulcella o di maritata o di vedova -.
- Al quale la reina rispose così: - Delle tre l’una, cioè la maritata, in niun modo è da disiderare, però ch’ella non è sua, né sta in sua libertà il potersi donare o concedersi ad alcuno: e il volerla o prenderla è commettere contra le divine leggi, e eziandio contra le naturali e positive. Alle quali offendere è un commuovere sopra di sé la divina ira, e per consequente grave giudicio: avvegna che sovente a chi tanto adentro non mira con la coscienza fa migliore amarle che alcuna dell’altre due, cioè o pulcella o vedova, quanto è per dovere avere de’ suoi disii l’effetto, avvegna che alcuna volta tale amore con molto pericolo sia. E il perché tale amore a’ suoi disii sovente rechi l’amante più tosto che gli altri, è questa la cagione. Manifesto è che quanto più nel fuoco si soffia più s’accende, e sanza soffiarvi s’amorta; e quasi tutte l’altre cose usandole mancano: la libidine quanto più s’usa più cresce. La vedova per essere lungamente stata sanza tale effetto, quasi come se non fosse il sente, e più con la memoria che con la concupiscenza si riscalda. La zita che ciò si sia ancora non conosce, se non con imaginazione: però tiepidamente disia. E però la maritata, sovente in tali cose raccesa più ch’altra, tali effetti disidera; e tal volta le maritate sogliono da’ mariti oltraggiose parole e fatti ricevere, delle quali volontieri prenderieno vendetta se potessero, e niuna via più presta è loro rimasa che donare il suo amore a chi le stimola di volerlo, in dispetto del marito. E avvegna che in tale maniera la vendetta sia e convenga essere molto occulta per non crescere l’onta, nondimeno elle sono nell’animo contente. Poi il sempre usare un cibo è tedioso, e sovente abbiamo veduto i dilicati per li grossi cibi lasciare, tornando poi a quelli quando l’appetito degli altri è contentato. Ma però che, come dicemmo, licito non è l’altrui cose con ingiusta cagione disiderare, le maritate lasceremo a’ loro mariti, e prenderemo dell’altre, delle quali copiosa quantità ci para davanti agli occhi la nostra città, e più tosto le vedove seguiremo amando che le pulcelle, però che le pulcelle, rozze e grosse a tale mestiere, non sanza molto affanno si recano abili a’ disiderii dell’uomo: quello che nelle vedove non bisogna. Appresso, se le pulcelle amano, esse non sanno che si disiderare, e però con intero animo non seguono i vestigii dell’amante come le vedove, in cui già l’antico fuoco riprende forze, e falle disiderare quello che per lungo abuso aveano obliato, e è loro tardi di venire a tale effetto, piangendo il perduto tempo, e le solinghe e lunghe notti che hanno trapassate ne’ vedovi letti: però queste siano amate più tosto, secondo il nostro parere, da coloro in cui libertà il sommettersi dimora -.
- Rispose allora Ferramonte: - Reina, ciò che della maritata diceste, aveva io nell’animo diliberato che così dovesse essere, e più ora da voi udendolo ne sono certo; ma delle pulcelle e delle vedove tengo contraria oppinione, lasciando le maritate andare per le ragioni da voi poste: però che mi pare che più tosto le pulcelle che le vedove si dovriano seguire, con ciò sia cosa che l’amore della pulcella più che quello della vedova paia fermo. La vedova sanza dubbio ha già altra volta amato, e ha vedute e sentite molte cose d’amore, e i suoi dubbii, e quanta vergogna e onore seguiti di quello; e però, queste cose meglio che la pulcella conoscendo, o ama lentamente e dubitando, o, non amando fermo, disidera ora questo ora quello, e non sappiendo a quale per più diletto e onore di lei s’aggiunga, talora né l’uno né l’altro vuole, e così per la mente di lei la deliberazione vacilla, né vi può amorosa passione prendere fermezza. Ma queste cose alla pulcella sono ignote, e però, come a lei è avviso che ella molto piaccia a uno de’ molti giovani, così sanza più essaminazione quello per amante elegge, e a lui solo il suo amore dispone sanza saper mostrare alcuno atto contrario al suo piacere per più fermo l’amante legare: niuna altra deliberazione è da lei al suo innamorare cercata. Dunque tutta è pura a’ piaceri di colui che le piace semplicemente, e tosto si dispone, lui per signore solo servando nel ferito cuore; quello che, come già dissi, della vedova non avviene: però più da seguire. Appresso, di quelle cose che mai alcuno non ha vedute, udite o provate, con più efficacia l’aspetta, e le disidera di vedere, udire o provare, che chi molte fiate vedute, udite o provate l’ha. E questo è manifesto, tra l’altre cagioni per le quali il vivere molto ci diletta, e è disiato lungo da noi, è per vedere cose nuove, cioè ancora da noi non state vedute: e ancora, più che per nuove cose vedere, ci è diletto di correre con sollicito passo a quello che noi più che altro ci ingegnamo e disideriamo di fuggire, cioè la morte, ultimo fine de’ nostri corpi. La pulcella mai quel dilettoso congiungimento per lo quale noi vegnamo nel mondo non conobbe, e naturale cosa è d’ogni creatura a quello essere dal disio tirato. Appresso, ella molte fiate, da quelle che sanno quello che è, ha udito quanta dolcezza in quello consista, le quali parole hanno aggiunto fuoco al disio, e però, tiratavi dalla natura e dal disio di provare cosa da lei non provata dalle parole udite, ardentemente e con acceso cuore questo congiungimento disidera: e d’averlo, con cui è da presumere, se non con colui il quale ella ha già fatto signore della sua mente? Questo ardore non sarà nella vedova, però che provandolo la prima volta e sentendo quello che era, si spense: dunque la pulcella amerà più e più sollecita sarà, per le ragioni dette, a’ piaceri dell’amante che la vedova. Che andremo dunque più inanzi cercando che amare non si debbia più tosto la pulcella che la vedova? -.
- - Voi - disse la reina - argomentate bene al vostro parere difendere; ma noi vi mostreremo con aperta ragione come voi dovete quello che noi di questa quistione tegnamo similemente tenere, se alla natura d’amore con diritto occhio si mira, così nella pulcella come nella vedova. E così nella vedova come nella pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Adriana ci porgono con le loro opere questo essere vero. E dove questo amore e nell’una e nell’altra non sia, niuna delle predette operazioni ne seguirà: dunque conviene che ciascuna ami, se quello che voi e noi già dicemmo vogliamo che ne segua. E però amando e la pulcella e la vedova, sanza andar cercando chi più distrettamente s’innamora, ché siamo certa della vedova, vi mostreremo che la vedova più sollecita è a’ piaceri dell’amante che la pulcella. E’ non è dubbio che tra l’altre cose che la femina ha sopra tutte cara è la sua virginità: e ciò è ragione, però che in quella tutto l’onore della seguente sua vita vi consiste, e sanza dubbio ella non sarà mai tanto da amore stimolata che ella volontieri ne sia cortese, se non a cui ella per matrimoniale legge si crederà per isposo congiungere. E questo noi non l’andiamo cercando, ché non è dubbio che chi vuole amare per isposa avere, che egli più tosto pulcella che vedova dee amare: dunque tarda e negligente sarà a donarsi a chi per tale effetto non l’amerà, e ella il sappia. Appresso, le pulcelle al generale sono timide, né sono astute a trovare le vie e’ modi per le quali i furtivi diletti si possono prendere: di queste cose la vedova non dubita, però che ella già donò onorevolemente quello che costei aspetta di donare, e è sanza, e però non dubita che, se se medesima dona ad altrui, quel segnale l’accusi. Poi ella, come più arrischiante, perché, come è detto, la maggiore cagione che porge dubbio non è con lei, conosce meglio le occulte vie, e così le mette in effetto. Vero è che voi dite che la pulcella, sì come disiderosa di cosa che mai non provò, a questo più fia sollicita che la vedova, che quello che è conosce: ma egli è di ciò che voi dite il contrario. Le pulcelle a tale effetto per diletto non corrono le prime volte, però che egli è loro più noia che piacere, avvegna che a quella cosa che diletta quante più fiate si vede o ode o sente, più piace, e più è sollicito ciascuno a seguirla: questa cosa di che noi ragioniamo non segue l’ordine e la maniera di molte altre, che, vedute una volta o due, più non si cercano di vedere, anzi quante più volte in effetto si mette, tante e con più affezione è cercato di ritornarvi, e più disidera colui la cosa a cui ella piace, che colui a cui ella dee piacere, né ancora n’ha gustato. Però la vedova, con ciò sia cosa che ella doni meno, e più le sia il donare agevole, più sarà liberale e più tosto che la pulcella, che donare dee la più cara cosa ch’essa ha. E ancora sarà più la vedova tirata, come mostrato avemo a tale effetto che la pulcella: per le quali cagioni amisi più tosto la vedova che la pulcella.
- Convenne, appresso a Ferramonte, ad Ascalion proporre, il quale in cerchio dopo lui sedea, e così disse: - Altissima reina, io mi ricordo che già fu nella nostra città una bella e nobile donna rimasa di valoroso marito vedova, la quale per le sue mirabili bellezze era da molti nobili giovani amata, e, oltre a molti, due gentili e valorosi cavalieri, ciascuno quanto potea l’amava. Ma per accidente avvenne che ingiusta accusa di costei fu posta da’ suoi parenti nel cospetto del nostro signore, e, appresso, per iniqui testimoni provata: per le quali inique prove ella meritò d’essere al fuoco dannata. Ma però che la coscienza del dannatore era perplessa, però che le inique prove quasi conoscere gli parea, volendo agl’iddii e a’ fortunosi casi la vita di quella commettere, cotale condizione aggiunse alla data sentenza: che poi che la donna fosse al fuoco menata, se alcuno cavaliere si trovasse il quale per la salute di lei combattere volesse contro al primo che a quella dopo lui s’opponesse, quello a cui vittoria ne seguisse, ciò che egli difendea se ne facesse. Udita la condizione da’ due amanti, e per ventura dall’uno prima che dall’altro, quelli che prima l’udì prese l’armi subitamente, e salito a cavallo venne al campo, contradicendo a chi contravenire gli volesse la morte della donna. L’altro che più tardi sentito avea questo, udendo che già era al campo colui per la difesa di lei, né altri più v’avea luogo ad andare per tale impresa, non sappiendo che si fare, si doleva imaginando che l’amore della donna per sua tardezza avea perduto, e l’altro giustamente l’avea guadagnato. E così dolendosi, gli venne pensato che se prima che alcuno altro al campo andasse armato, dicendo che la donna dovea morire, egli, lasciandosi vincere, la potea scampare: e così il pensiero mise in effetto, e fu campata la donna. Liberata adunque la donna, dopo alquanti giorni, il primo cavaliere andò a lei, e sé umilemente le raccomandò, ricordandole come egli per lei campare da morte a mortale pericolo pochi giorni davanti s’era posto, e, mercé degl’iddii e della sua forza, lei e sé da tale accidente avea campato: onde per questo le piacesse, in luogo di merito, il suo amore, il quale sopra tutte sempre disiderato avea, donare. E appresso con simile preghiera venne il secondo cavaliere, dicendo che a rischio di morire per lei s’era messo: "e ultimamente perché voi non moriste, sostenni di lasciarmi vincere, onde etterna infamia me ne seguirà, dov’io avrei vittorioso onore potuto acquistare, volendo incontro la vostra salute avere le mie forze operate". La donna ciascuno ringraziò benignamente, promettendo debito guiderdone ad amenduni del ricevuto servigio. Rimase adunque la donna, costoro partiti, in dubbio a cui il suo amore donare dovesse, o al primo o al secondo, e di ciò dimanda consiglio: a quale direste voi ch’ella il dovesse più tosto donare? -.
- - Noi terremo - disse la reina - che il primo sia da amare, e l’ultimo da lasciare, però che il primo operò forza e dimostrò il buono amore con sollecito modo, dando se medesimo a ogni pericolo infino alla morte, il quale per la futura battaglia potesse adivenire. La quale assai bene gliene potea seguire, con ciò sia cosa che se sollicito fosse stato a tale battaglia fare contra di lui alcuno de’ nemici della donna come fu l’amante, egli era a pericolo di morire per difendere lei; né manifesto gli fu che contro lui dovesse uscire uno che vincere si lasciasse, come avvenne. L’ultimo, veramente, andò avvisato né di morire né di lasciar morire la donna: dunque, con ciò sia cosa che egli meno mettesse in avventura, meno merita di guadagnare. Aggia, adunque, il primo l’amore della donna bella sì come giusto guadagnatore di quello -.
- Disse Ascalion: - O sapientissima reina, che è ciò che voi dite? Non basta una volta essere meritato del bene, sanza più meriti dimandare? Certo sì. Il primo è meritato, però che da tutti per la ricevuta vittoria è onorato: e che più merito gli bisogna se amore è merito della virtù? A maggior cosa ch’egli non fece basteria il ricevuto onore. Ma colui che con senno venne avisato, dee essere sanza guiderdone e, poi, da tutti vituperato, avendo sì bene come il primo scampata la donna? Non è il senno da anteporre ad ogni corporale forza? Come costui, se con la salute della donna venne, dee per merito essere abandonato? Cessi che questo sia. Se egli nol seppe tosto come l’altro, questa non fu negligenza, ché, se saputo l’avesse, forse prima che l’altro corso sarebbe a quello che l’altro corse. Quello che prese per ultimo rimedio il prese discretamente, di che merito giustamente gli dee seguire, il quale merito dee essere l’amore della donna, se dirittamente si guarda; e voi dite il contrario -.
- - Passi della mente vostra che il vizio, a fine di bene operato, meriti il guiderdone che la virtù, a simile fine operata, merita; anzi in quanto vizio merita correzione: alla virtù niuno mondano merito può giustamente satisfare. Chi ci vieterà ancora che noi non possiamo con aperta ragione credere che l’ultimo cavaliere, non per amore che alla donna portasse, ma, invidioso del bene che all’altro vedea apparecchiato, per isturbare quello, si mosse a tale impresa, e misvennegli? Folle è chi sotto colore di nemico s’ingegna di giovare per ricever merito. Infinite sono le vie per le quali possibile ci è con aperta amicizia poter mostrare l’amore che alcuno porta ad alcuno altro, sanza mostrarsi nemico, e poi con colorate parole voler mostrare d’aver giovato. Basti oramai per risponsione ciò che detto avemo a voi, il quale la lunga età dee più che gli altri fare discreto. Crediamo che quando queste poche parole per la mente debitamente avrete digeste, troverete il nostro giudicio non fallace, ma vero e da dovere essere seguito -. E qui si tacque.
- Seguiva poi una donna onesta nell’aspetto molto, il cui nome Graziosa è interpetrato: e veramente in lei è il nome consonante all’effetto; la quale con umile e modesta voce cominciò queste parole: - A me, o bella reina, viene il proporre la mia questione, la quale, acciò che il tempo che oramai alla lasciata festa s’apresta, e fassi dolce a ricominciarla, non si metta solo in sermone, assai brievemente porrò; e se licito mi fosse, volontieri sanza porla mi passerei, ma per non trapassare la vostra obedienza e degli altri l’ordine, porrò questa: qual sia maggiore diletto all’amante, o vedere presenzialmente la sua donna, o, non vedendola, di lei amorosamente pensare -.
- - Bella donna - disse la reina, - noi crediamo che molto più diletto pensando si prenda che riguardando, però che, pensando alla cosa amata graziosamente, gli spiriti sensitivi tutti allora sentono mirabile festa, e quasi i loro accesi disii in quel pensiero con diletto contentano; ma nel riguardare, ciò non avviene, però che solo il visuale spirito sente bene, e gli altri accende di tanto disio che sostenere nol possono, e rimangono vinti: e esso talora tanta parte prende del suo piacere, che a forza gli conviene indietro tirarsi, rimanendo vile e vinto. Dunque più diletto terremo il pensare -.
- - Quella cosa ch’è amata - rispose la donna - quanto più si vede più diletta: e però io credo che molto maggior diletto porga il riguardare che non fa il pensare, però che ogni bellezza prima per lo vederla piace, poi per lo continuato vedere nell’animo tale piacere si conferma, e generasene amore e quelli disii che da lui nascono. E niuna bellezza è tanto amata per alcuna altra cagione, quanto per piacere agli occhi, e contentare quelli; dunque, vedendola, si contentano, pensandone, loro di vederla s’accresce disio: e più diletto sente chi si contenta che chi di contentarsi disidera. Noi possiamo per Laudomia vedere e conoscere quanto più il presenzialmente vedere che il pensare diletti, però che credere dobbiamo che mai il suo pensiero dal suo Protesilao non si partiva, né già per questo mai altro che malinconica si vide, rifiutando d’ornarsi e di vestirsi i cari vestimenti; quello che, vedendolo, mai non le avvenia, ma lieta e graziosa e adorna sempre e festeggiando stava, quando nella sua presenza dimorava. Che dunque più manifesto testimonio vogliamo che questo, d’allegrezza più nel vedere che nel pensare, con ciò sia cosa che per gli atti esteriori si possa quello che nel cuore si nasconde comprendere? -.
- La reina allora così rispose: - Quelle cose, e dilettevoli e noiose, che più all’anima s’appressano, più noia e gioia porgono che le lontane. E chi dubita che il pensiero non dimori nell’anima medesima e l’occhio a quella si truovi assai lontano, ben che elli per particulare virtù di lei abbia la vista, e convengagli per molti mezzi le sue percezioni allo ’ntelletto animale rendere? Dunque, avendo nell’anima un dolce pensiero della cosa amata, in quell’atto che il pensiero gli porge, in quello con la cosa amata essere gli pare. Egli allora la vede con quelli occhi a cui niuna cosa per lunga distanza si può celare. Egli allora parla con lei e forse narra con pietoso stile le passate noie per l’amore di lei ricevute. Allora gli è lecito sanza alcuna paura di abbracciarla. Allora mirabilmente, secondo il suo disio, festeggia con essa. Allora ad ogni suo piacere la tiene. Quello che del mirare non avviene, però che quello solo aspetto primo n’ha sanza più. E come noi davanti dicemmo, amore, paurosa e timida cosa, tanto nel cuore gli trema riguardando, che né pensiero né spirito lascia in suo luogo. Molti già, le loro donne guardando, perderono le naturali forze e rimasero vinti, e molti non potendo muoversi si fissero; e alcuni incespicando e avolgendo le gambe caddero, altri ne perderono la parola, e per la vista molte cose simili ne sappiamo essere avvenute: e queste cose assai saria suto caro, a coloro a cui avemo detto, che avvenute non fossero. Dunque, come porge diletto quella cosa che volontieri si fuggiria? Noi confessiamo bene che, se possibile fosse sanza tema il riguardare, che gran diletto saria, ma nulla sanza il pensiero varria: ma il pensiero sanza la corporale veduta piace assai. E che del pensiero possa avvenire ciò che dicemmo, è manifesto che sì, e molto più ancora: che noi troviamo già uomini col pensiero avere trapassati i cieli e gustata della etterna pace. Dunque, più il pensare che il vedere diletta. Se di Laudomia dite che malinconica si vedea pensando, non lo neghiamo: ma amoroso pensiero non la turbava, anzi doloroso. Ella quasi indovina a’ suoi danni, sempre della morte di Protesilao dubitava, e a questa pensava: né questo è de’ pensieri de’ quali ragioniamo, i quali in lei entrare non poteano per quella dubitazione; anzi dolendosi con ragione mostrava il viso turbato -.
- Parmenione sedeva appresso a questa donna, e sanza altro attendere, come la reina tacque, così cominciò a dire: - Gentile reina, io fui lungamente compagno d’un giovane, al quale ciò che io intendo di narrarvi avvenne. Egli tanto quanto mai alcun giovane amasse donna, amava una giovane della nostra città bellissima e graziosa, gentile e ricca d’avere e di parenti molto, e essa molto amava lui, per quello che io conoscessi, a cui questo amore solamente era scoperto. Amando adunque questi questa con segretissimo stile, temendo non si palesasse, in niuna maniera a costei potea parlare, acciò che il suo intendimento le discoprisse e di quello di lei s’accertasse; né a persona se ne fidava che questo di parlare tentasse. Ma pure stringendolo il disio propose, poi che egli a lei dire nol poteva, di farle per altrui sentire ciò che per amore di lei sostenea. E riguardato più giorni per cui più cautamente tale bisogna significare le potesse, vide un dì una vecchia povera, vizza, ranca e dispettosa tanto, quanto alcuna trovare se ne potesse, la quale, entrata nella casa della giovane, e cercata limosina, con essa se ne uscì; e più volte poi in simile atto e per simile cagione ritornare la vide. In costei si pose costui in cuore di fidarsi, imaginando che mai sospetta non saria tenuta e compiutamente le poria il suo intendimento fornire: e chiamatala a sé, grandissimi doni le promise, se aiutare il volesse in quello ch’egli le domanderebbe. Ella giurò di fare tutto suo potere: a cui questi allora disse il suo volere. Partissi la vecchia dopo picciolo spazio di tempo, accertata la giovane dell’amore che il mio compagno le portava, e lui similemente come ella sopra tutte le cose del mondo lui amava, e ocultamente ordinò questo giovane essere una sera con la disiata donna. E messalisi inanzi, come ordinato avea, alla casa di costei il menò. Dove egli non fu prima venuto, che, per suo infortunio, la giovane, la vecchia e esso furono da’ fratelli della giovane insieme tutti e tre trovati e presi: e costretti di dire la verità che quivi facessero, confessarono quello che era. Erano costoro amici del giovane, e conoscendo che a niuna loro vergogna costui era ancora pervenuto, non lo vollero offendere, che poteano, ma ridendo, gli posero questo partito, dicendo così: "Tu se’ nelle nostre mani, e hai cercato di vituperarci, e di ciò noi ti possiamo punire se noi vogliamo; ma di queste due cose l’una ti conviene prendere, o vuoi che noi t’uccidiamo o vuoi con questa vecchia e con la nostra sorella, con ciascuna, dormire un anno, giurando lealmente che, se tu prenderai di dormire con costoro due anni e il primo con la giovane, che tante volte quante tu la bacerai o ciò che tu le farai, altretante il secondo anno bacerai o farai alla vecchia; o se la vecchia il primo anno prenderai, tante volte quante la bacerai o toccherai, tante simigliantemente e non più né meno la giovane nel secondo anno farai". Il giovane ascoltato il partito, vago di vivere, disse di volere con le due due anni dormire. Fugli consentito: rimase in dubbio da quale dovesse inanzi cominciare, o dalla giovane o dalla vecchia. Di quale il consigliereste voi per più sua consolazione che egli dovesse avanti pigliare? -.
- Alquanto sorrise la reina di questa novella, e similmente i circunstanti, e poi così rispose: - Secondo il nostro parere il giovane dovria più tosto la bella donna giovane che la vecchia pigliare, però che niun bene presente si dee per lo futuro lasciare, né pigliare male per futuro bene è senno, però che delle cose future incerti siamo; e di questo faccendo il contrario, molti già si dolfero; e se alcuno se ne lodò, non dovere, ma fortuna in ciò gli aiutò. Prendasi adunque la bella inanzi -.
- - Molto mi fate maravigliare - disse Parmenione, - dicendo che presente per futuro bene lasciare non si dee: a che fine, dunque, con forte animo ci conviene seguire e sostenere i mondani affanni, dove fuggire li potremo, se non per gli etterni regni promessi a noi dalla speranza futuri? Mirabile cosa è che tanta gente, quanta nel mondo dimora, tutti affannando a fine di riposo sentire alcuna volta vanno, come in tale errore fossero tanto dimorano, potendosi riposare avanti, se l’affanno, dopo il riposo fosse migliore che davanti. Giusta cosa mi pare dopo l’affanno riposo cercare; ma sanza affanno voler posare, secondo il mio giudicio, non dee né può essere diletto. Chi dunque consiglierà alcuno che prima sia da dormire un anno con una bella donna, la quale sia solo riposo e gioia di colui che con lei si dee giacere, mostrandogli appresso dovergli seguire tanta noiosa e spiacevole vita, quanto con una laida vecchia dovere altretanto in tutti atti usare che con la giovane è dimorato? Niuna cosa è tanto noiosa al dilettoso vivere quanto il ricordarsi che al termine dalla morte segnato ci conviene venire. Questa, tornandoci nella memoria sì come nemica e contraria del nostro essere, ogni bene ci turba: né mentre questo si ricorda, si può sentire gioia nelle mondane cose. Così similmente niuno diletto con la giovane si potrà avere che turbato e guasto non sia, ricordandosi che altretanto fare si convenga con una vilissima vecchia, la quale sempre davanti agli occhi della mente gli dimorerà. Il tempo, che vola con infallibili penne, gli parrà che trasvoli, scemando a ciascun giorno delle dovute ore grandissima quantità; e così la letizia, essendo dove futura tristizia infallibile s’aspetta, non si sente: però io terrei che il contrario fosse migliore consiglio, ché ogni affanno, di cui grazioso riposo s’aspetta, è più dilettevole che il diletto per cui noia è sperata. Le fredde acque pareano calde, e il tenebroso e pauroso tempo della notte parea chiaro e sicuro giorno, e l’affanno riposo a Leandro andando ad Ero con la forza delle sue braccia notando per le salate onde tra Sesto e Abido, per lo diletto che da lei aspettante attendea d’avere. Cessi, adunque, che l’uomo voglia prima il riposo che la fatica, o prima il guiderdone che fare il servigio, o il diletto che la tribulazione, con ciò sia cosa che, come già è detto, se a quel modo si prendesse, la futura noia impediria tanto la presente gioia, che non gioia, ma presso che noia dire si potrebbe. Che diletto poteano dare i dilicati cibi e gli strumenti sonati da maestre mani e l’altre mirabili feste fatte davanti al fratello di Dionisio, poi ch’egli sopra il capo si vide con sottile filo pendere uno aguto coltello? Fuggansi adunque prima le dolenti cagioni, poi si seguano con piacevolezza e sanza sospetto i graziosi diletti -.
- Rispose a costui la reina: - Voi ne rispondete in parte come se degli etterni beni ragionassimo, per li quali acquistare non è dubbio che ogni affanno se ne dee prendere, e ogni mondano bene e diletto lasciare: ma noi al presente non parliamo di quelli, ma de’ mondani diletti e delle mondane noie quistioniamo; a che noi rispondiamo, come prima dicemmo, che ogni mondano diletto si dee più tosto prendere che mondana noia ne segua, anzi che mondana noia per mondano diletto aspettare, però che chi tempo ha e tempo aspetta, tempo perde. Concede la fortuna con varii mutamenti i suoi beni, i quali più tosto sono da pigliare quando li dona, che volere affannare per dopo l’affanno averli. Ma se la sua ruota stesse ferma, infino che l’uomo avesse affannato, per non dovere più affannare, diciamo che si poria consentire di pigliare prima l’affanno: ma chi è certo che dopo il male non possa così seguire peggio, come il bene che s’aspetta? I tempi insieme con le mondane cose sono transitorii. Prendendo la vecchia, prima che l’anno compia, il quale non parrà che mai venga meno, potrà la giovane morire, o i fratelli di lei pentersi, o essere donata altrui, o forse rapita, e così dopo male, peggio seguirà al prenditore; ma se la giovane fia presa, avranne il prenditore primieramente il suo disio tanto tempo da lui disiderato, né ne gli seguirà però quella noia che voi dite che nel pensiero ne gli dee seguire: però che il dovere morire è infallibile, ma il giacere con una vecchia fia accidente da potere con molti rimedii da uomo savio cessare. E le mondane cose sono da essere prese da’ discreti con questa legge, che alcuno mentre le tiene le goda, disponendosi con liberale animo a renderle overo lasciarle, quando richieste saranno. Chi affanna per riposare, manifesto essemplo ne porge che riposo sanza quello avere non puote, e poi che egli prende l’affanno per avere il riposo, quanto più è da presumere che se il riposo gli fosse presto come l’affanno, ch’egli più tosto quello che questo prenderebbe? E non è da credere che se Leandro avesse potuto avere Ero sanza passare il tempestoso braccio di mare dov’egli poi perì, ch’egli non l’avesse più tosto presa che notato? Convengonsi le cose della fortuna pigliare quando sono donate. Niuno sì picciolo dono è che migliore non sia che una grande impromessa: prendansi alle future cose rimedii, e le presenti secondo la loro qualità si governino. Naturale cosa è di dovere più tosto il bene che il male pigliare, quando igualmente concorrono: e chi fa il contrario, non naturale ragione ma sua follia segue. Ben confessiamo però che dopo l’affanno è più grazioso il riposo che prima, e meglio conosciuto, ma non che sia più tosto da pigliare. Possibile è agli uomini folli e a’ savi usare i consigli e de’ folli e de’ savi, secondo il loro parere, ma però la infallibile verità non si muta, la quale ci lascia vedere che più tosto la bella e giovane donna, che la vecchia e laida, sia da prendere da colui a cui tale partito donato fosse -.
- Messallino, il quale tra la destra mano della reina e di Parmenione sedeva compiendo il cerchio, disse così appresso: - Ultimamente a me conviene proporre, e, acciò ch’io le belle novelle dette e le quistioni proposte avanti faccia più belle, una novelletta assai graziosa a udire, nella quale una quistione assai leggiera a terminare cade, dirò. Io udii già dire che nella nostra città un gentile uomo ricco molto avea per sua sposa una bellissima e giovane donna, la quale egli sopra tutte le cose del mondo amava. Era questa donna da un cavaliere della detta città per amore intimamente amata, ma ella né lui amava né di suo amore si curava: per la qual cosa il cavaliere mai da lei né parola né buon sembiante avea potuto avere. E così sconsolato di tale amore vivendo, avvenne che al reggimento d’una città, assai alla nostra vicina, fu chiamato, ove egli andò, e quivi onorevolemente avendo retto gran parte del tempo che dimorare vi dovea, per accidente gli venne un messaggere, il quale dopo altre novelle così gli disse: "Signor mio, siavi manifesto che quella donna la quale voi sopra tutte l’altre amavate nella nostra città, questa mattina, volendo partorire, per greve doglia non partorendo morì, e onorevolemente co’ suoi padri in mia presenza fu sepellita". Con greve doglia ascoltò il cavaliere la novella e con forte animo la sostenne, non mostrando nel viso per quella alcun mutamento; e così fra se medesimo disse: "Ahi, villana morte, maladetta sia la tua potenza! Tu m’hai privato di colei cui io più ch’altra cosa amava, e cui io più disiderava di servire, ben che verso di me la conoscessi crudele. Ma poi che così è avvenuto, quello che amore nella vita di lei non mi volle concedere, ora ch’ella è morta nol mi potrà negare: ché certo, s’io dovessi morire, la faccia, che io tanto viva amai, ora morta converrà ché io baci". Aspettò dunque il cavaliere la notte, e, preso uno de’ più fidi famigliari che avea, con lui per le oscure tenebre si mise a gire alla città, nella quale pervenuto, sopra la sepoltura dove sepellita era la donna se n’andò, e quella aperse, e confortando il compagno che ’l dovesse sanza alcuna paura attendere, entrò in quella e con pietoso pianto dolendosi cominciò a baciare la donna e a recarlasi in braccio. E dopo alquanto, non potendosi di baciare costei saziare, la cominciò a toccare e a mettere le mani nel gelato seno fra le fredde menne, e poi le segrete parti del corpo con quelle, divenuto ardito oltre al dovere, cominciò a cercare sotto i ricchi vestimenti: le quali andando tutte con timida mano tentando sopra lo stomaco la distese, e quivi con debole movimento sentì li deboli polsi muoversi alquanto. Divenne allora questi non poco pauroso, ma amore il facea ardito: e ricercando con più fidato sentimento, costei conobbe che morta non era; e di quel luogo la trasse con soave mutamento; e appresso involtala in un gran mantello, lasciando la sepoltura aperta, egli e ’l compagno a casa la madre del cavaliere tacitamente la ne portarono, scongiurando il cavaliere la madre per la potenza degl’iddii, che né questo né altro che ella vedesse a niuna persona manifestare dovesse. E quivi fatti accendere grandissimi fuochi, i freddi membri venne riconfortando, i quali però non debitamente tornavano alle perdute forze; per la qual cosa, egli, forse in ciò discreto, fece un solenne bagno apparecchiare, nel quale molte virtuose erbe fece mettere, e appresso lei vi mise, faccendola in quella maniera che si convenia servire teneramente e governare. Nel qual bagno poi che la donna fu per alquanto spazio dimorata, il sangue, dintorno al cuore congelato per lo ricevuto freddo, caldo per le fredde vene si cominciò a spandere, e gli spiriti tramortiti cominciarono a ritornare nelli loro luoghi: onde la donna risentendosi cominciò a chiamare la madre di lei, domandando dove ella fosse. A cui il cavaliere in luogo della madre rispose che in buon luogo dimorava e ch’ella si confortasse. E in questa maniera stando, come fu piacere degl’iddii, invocato l’aiuto di Lucina, la donna, faccendo un bellissimo figliuolo maschio, da tale affanno e pericolo si liberò, rimanendo chiara e fuori d’ogni alterazione, e lieta del nato figliuolo: a cui prestamente balie alla guardia di lei e del garzone trovate furono. Ritornata adunque la donna dopo il grave affanno alla vera conoscenza, essendo già nato nel mondo il nuovo sole, davanti si vide il cavaliere che l’amava e la madre di lui, a’ suoi servigii ciascuno di loro presto; e de’ suoi parenti, miratosi assai dintorno, niuno vide. Per che venuta in cogitabile ammirazione, quasi tutta stupefatta disse: "Dove sono io? Qual maraviglia è questa? Chi m’ha qui, dov’io mai più non fui, recata?". A cui il cavaliere rispose: "Donna, non ti maravigliare, confortati, ché quello che tu vedi, piacere degl’iddii è stato, e io ti dirò come". E cominciandosi dal principio, infino alla fine come avvenuto gli era le dichiarò, conchiudendo che per lui ella e ’l figliuolo erano vivi: per la qual cosa sempre a’ suoi piaceri erano tenuti. Questo sentendo la donna e conoscendo veramente che per altro modo alle mani del cavaliere non poria essere pervenuta, se non per quello che egli le narrava, prima gl’iddii con divote voci ringraziò e appresso il cavaliere, sempre a’ suoi servigii e piaceri offerendosi. Disse adunque il cavaliere: "Donna, poi che a’ miei voleri conoscete essere tenuta, io voglio che in guiderdone di ciò che io ho adoperato voi vi confortiate infino alla tornata mia dell’uficio al quale io fui eletto già è tanto tempo, che presso alla fine sono, e mi promettiate di mai né al vostro marito né ad altra persona sanza mia licenza palesarvi". A cui la donna rispose sé non potergli né questo né altro negare, e che veramente ella si conforterebbe, e con giuramento gli affermò di mai non si far conoscere sanza piacere di lui. Il cavaliere, veduta la donna riconfortata e fuori d’ogni pericolo, dimorato due giorni a’ servigi di lei, raccomandata alla madre lei e ’l figliuolo, si partì e tornò all’uficio della rettoria sua, il quale dopo picciolo tempo onorevolemente finì, e tornò alla sua terra e alla casa, dove dalla donna fu graziosamente ricevuto. Dimorato adunque alcun giorno dopo la sua tornata, egli fece apparecchiare un grandissimo convito, al quale egli invitò il marito della donna amata da lui, e i fratelli di lei e molti altri. E essendo gl’invitati per sedere alla tavola, la donna, come piacere fu del cavaliere, venne vestita di quelli vestimenti i quali alla sepoltura avea portati, e ornata di quella corona, e anella e altri preziosi paramenti; e, per comandamento del cavaliere, sanza parlare a lato al suo marito mangiò quella mattina, e il cavaliere a lato al marito. Era questa donna dal marito sovente riguardata, e i drappi e gli ornamenti, e fra sé gli parea questa conoscere essere sua donna, e quelli essere i vestimenti co’ quali sepellita l’avea, ma però che morta gliele parea avere messa nella sepoltura, né credea che risuscitata fosse, non ardiva a far motto, dubitando ancora non forse fosse un’altra alla sua donna simigliante, estimando che più agevole fosse a trovare e persona e drappi e ornamenti simiglianti ad altri, che risuscitare un corpo morto; ma non per tanto sovente rivolto al cavaliere domandava chi questa donna fosse. A cui il cavaliere rispondea: "Domandatene lei chi ella è, che io non lo so dire, di sì piacevole luogo l’ho menata". Allora il marito dimandava la donna chi ella fosse. A cui ella rispondea: "Io sono stata menata da codesto cavaliere, da quella vita graziosa che da tutti è disiata, per non conosciuta via in questo luogo". Non mancava l’ammirazione del marito per queste parole, ma cresceva: e così infino ch’ebbero mangiato dimorarono. Allora il cavaliere menò il marito della donna nella camera, e la donna e gli altri similmente che con lui aveano mangiato, dove in braccio ad una balia trovarono il figliuolo della donna, bellissimo e grazioso, il quale il cavaliere pose in braccio al padre, dicendo: "Questi è tuo figliuolo"; e dandogli la destra mano della donna, disse: "Questa è tua mogliere, e madre di costui", narrando a lui e agli altri come quivi era pervenuta. Fecero costoro tutti dopo la maraviglia gran festa, e massimamente il marito con la sua donna e la donna con lui, rallegrandosi del loro figliuolo. E ringraziando il cavaliere, lieti tornarono alle loro case, faccendo per più giorni maravigliosa festa. Servò questo cavaliere la donna con quella tenerezza e pura fede che se sorella gli fosse stata. Per che si dubita qual fosse maggiore, o la lealtà del cavaliere o l’allegrezza del marito, che la donna e ’l figliuolo, i quali perduti riputava sì come morti, si trovò racquistati, priegovi che quello che di ciò giudicherete ne diciate -.
- - Grandissima crediamo che fosse la letizia della racquistata donna e del figliuolo, e similemente la lealtà fu notabile e grande del cavaliere, ma però che naturale cosa è delle perdute cose, racquistandole, rallegrarsi, né potrebbe essere sanza perché altri volesse, e massimamente racquistando una molto amata cosa davanti, e uno figliuolo, di che non si poria tanta allegrezza fare quanta si converria, non riputiamo che sì gran cosa sia quanta una farne, a che l’uomo sia da propia virtù costretto a farla; e dell’essere leale questo adiviene, però che possibile è l’essere e ’l non essere leale. Diremo, adunque, che da cui l’essere leale in cosa tanto amata procede, ch’egli faccia grandissima e notabile cosa lealtà servando, e in molta quantità avanzi in sé la lealtà, che l’allegrezza in sé: e così terremo -.
- - Certo - disse Messaallino, - altissima reina, come voi dite credo che sia; ma gran cosa mi pare a pensare che a tanta letizia, quanta in colui che la donna riebbe fu, si potesse porre comparazione di grandezza in niuna altra cosa, con ciò sia cosa che maggior dolore non si sostenga che quello quando per morte amata cosa si perde. Appresso, se ’l cavaliere fu leale, come qui già si disse, egli fece suo dovere, però che tutti siamo tenuti a virtù operare: e chi fa quello a che è tenuto, bene è fatto, ma non è da riputare gran cosa. Però io imagino che giudicare maggiore l’allegrezza che la lealtà si poria consentire.
- - Voi a voi medesimo contradite nelle vostre parole - disse la reina - però che così si dee l’uomo rallegrare per dovere del bene che Iddio gli fa, come operare virtù; ma se essere si potesse nell’uno caso essere dolente, come nell’altro si poria disleale, poriasi al vostro parere consentire: le naturali leggi seguire, che non si possono fuggire, non è gran cosa, ma le positive ubidire è virtù dell’animo; e le virtù dell’animo e per grandezza e per ogni altra cosa sono da preporre alle corporali, e però esse opere virtuose, faccendo degna compensazione, avanzano in grandezza ogni altra operazione. Ancora si può dire che l’essere stato leale dura in essere sempre: la letizia si può in subita tristizia voltare, o diventa nulla o modica dopo poco spazio di tempo, possedendo la cosa per che lieto si diventa. E però dicasi il cavaliere essere stato più leale che colui lieto, da chi diritto vuole giudicare -.
- Non seguitava appresso Messaallino alcuno più che a proporre avesse, però che tutti aveano proposto, e il sole già bassando, lasciava più temperato aere ne’ luoghi. Per la qual cosa Fiammetta, reverendissima reina dell’amoroso popolo, si dirizzò in piè e così disse: - Signori e donne, compiute sono le nostre quistioni, alle quali, mercé degl’iddii, noi secondo la nostra modica conoscenza avemo risposto, seguendo più tosto festeggevole ragionare che atto di quistionare. E similmente conosciamo molte cose più potersi intorno a quelle rispondere e migliori che noi non abbiamo dette: ma quelle che dette sono assai bastano alla nostra festa, l’altre rimangano a’ filosofanti in Attene. Noi vedemo già Febo guardarci con non diritto aspetto, e sentiamo l’aere rinfrescato, e i nostri compagni avere rincominciata la festa, che qui vegnendo per troppo caldo lasciammo; e però ci pare di noi tornare similmente a quella -. E questo detto, presa con le dilicate mani la laurea corona della sua testa, nel luogo dove seduta era la pose, dicendo: - Io lascio qui la corona del mio e vostro onore, infino a tanto che noi qui a simile ragionamento torniamo -. E preso Filocolo per la mano, che già s’era con gli altri levato, tornarono a festeggiare.
- Sonarono i lieti strumenti e l’aere pieno d’amorosi canti da tutte parti si sentiva, e niuna parte del giardino era sanza festa: nella quale quel giorno infino alla sua fine tutti lietamente dimorarono. Ma sopravenuta la notte, mostrando già la loro luce le stelle, alla donna e a tutti parve di partire tornando alla città. Alla quale pervenuti, Filocolo, partendosi da lei, così le disse: - Nobile Fiammetta, se gl’iddii mai mi concedessero ch’io fossi mio com’io sono d’altrui, sanza dubbio vostro incontanente sarei; ma per che mio non sono, ad altrui donare non mi posso: non per tanto quanto il misero cuore puote ricevere fuoco strano, di tanto per lo vostro valore si sente acceso, e sentirà sempre, ognora con più effetto disiderando di mai non mettere in oblio il vostro valore -. Assai fu Filocolo da lei ringraziato nel suo partire, aggiungendo che gl’iddii tosto in graziosa pace ponessero i suoi disii.
- Tornato così Filocolo al suo ostiere, quella notte con molti pensieri passò, fra sé l’udite quistioni ripetendo, delle quali assai a’ suoi dolori facevano, e tutto per la bellezza della piacevole Fiammetta racceso, con più pena sostenea l’essere a Biancifiore lontano. Egli poi si ricordava delle passate feste avute con lei in quelli tempi, e in molti altri, e fra sé molte fiate annoverava i giorni, i mesi e gli anni, dicendo: - Tanto tempo è passato che io con lei non fui o non la vidi -; e con gravissimi sospiri notava quelle ore nelle quali più graziosamente con lei li ricordava essere stato. Ma perché il tempo che si perdea, che più che mai gli gravava, passasse con meno malinconia, egli andando per li vicini paesi di Partenope si dilettava di vedere l’antichità di Baia, e il Mirteo mare, e ’l monte Mesano, e massimamente quel luogo donde Enea, menato dalla Sibilla, andò a vedere le infernali ombre. Egli cercò Piscina Mirabile, e lo ’mperial bagno di Tritoli, e quanti altri le vicine parti ne tengono. Egli volle ancora parte vedere dell’inescrutabile monte Barbaro, e le ripe di Pozzuolo, e il tempio d’Apollino, e l’oratorio della Sibilla, cercando intorno intorno il lago d’Averno, e similmente i monti pieni di solfo vicini a questi luoghi: e in questa maniera andando più giorni, con minore malinconia trapassò che fatto non avria dimorando.
- Ma ritornato in Partenope, e con malinconia aspettando tempo, avvenne che con grandissima malinconia un giorno in un suo giardino si racchiuse solo, e quivi con varii pensieri s’incominciò in se medesimo a dolere, e dolendosi, in nuove cose di pensiero in pensiero il portò la fantasia, portandogli davanti agli occhi, che il loro potere aveano nella mente raccolto, nuove e inusitate cose. E’ gli parea vedere davanti da sé il mare essere tranquillo e bello tanto quanto mai l’avesse veduto, e in quello una navicella di bella grandezza, sopra la quale vide sette donne di maravigliosa bellezza piene, in diversi abiti adornate, delle quali sette, le quattro alquanto verso la proda della bella nave vide spaziarsi: e già d’averle altra fiata vedute e loro contezza avuta si ricordava. Ma l’altre tre, che molto più belle gli pareano, dal mezzo del legno quasi infino di tutta la poppa d’esso gli parea che possedessero, né quelle per rimirarle in niuno modo conoscere potea; ma tra loro gli parea vedere un albero che infino al cielo si distendesse, né per alcun movimento che la nave avesse parea che si mutasse. E queste cose con ammirazione riguardando, si sentì chiamare, per che a lui parea prestamente sopra la navicella montare e essere intra le quattro donne raccolto. E porgendo gli occhi inver la proda della nave, gli parve fuori di quella vedere una femina d’iniquissimo aspetto con gli occhi velati e di maravigliosa forza nel suo operare: e con le mani appiccata al legno, quello con tanta forza moveva, che parea che sotto l’acque il dovesse sommergere, e per consequente parea che dintorno ad esso tutto il mare movesse e tempestasse; di che egli dubitando, gli parve udire: - Non dubitare -. Parevali, adunque, a Filocolo, rassicurato da quella voce, rimirare le quattro donne che dintorno gli stavano, delle quali l’una vedea vestita di drappi simiglianti a finissimo oro, nel viso bellissima e onesta, col capo coperto di nero velo, e nella destra mano portava uno specchio nel quale sovente si riguardava, nella sinistra tenea un libro. Assai piacque questa a Filocolo, e, volti gli occhi alla seconda, d’ardente colore la vide vestita e umile nell’aspetto, sotto candido velo, tenendo nella destra mano un’aguta spada, nella sinistra una retta linea, sopra la quale parea che si poggiasse. Ma la terza Filocolo non sapea divisare che colore il suo vestimento si fosse, ma adamante l’assimigliava; e questa sotto il sinistro piede volta uno ritondo pomo grossissimo, nel quale la terra, il mare e i regni sotto diversi climati erano disegnati, ogni cosa riguardando con igual viso, tenendo nella destra mano uno scettro reale. Molto riguardò Filocolo costei: poi rivolto alla quarta, la vide sotto onesto velo di violato vestita, tacita dimorare tenendosi al petto distesa la destra mano, e alla bocca lo ’ndicativo dito della sinistra, e tutte, secondo il piacere della donna del caro vestimento, parea che si guidassero. Dilettava a Filocolo in sì grazioso luogo dimorare: e mentre che egli con più diletto vi dimorava, volto gli occhi ancora verso la proda, vide in quella un giovane di piacevole aspetto riguardare, vestito di nobilissimi vestimenti, al quale nelle braccia vedea una giovane nuda, bellissima tanto quanto mai alcuna veduta n’avesse, la quale sì stimolava e angosciava tanto, che ogni riposo le parea nimico, e con le sue lagrime quasi tutti i vestimenti del giovane avea bagnati. Questa parea a Filocolo molto riguardarla; e dopo lungo mirare gli parea che fosse la sua Biancifiore, e pareagli che quel giovane per lo propio nome il chiamasse e gli dicesse: - Vedi come tu fai sanza riposo stare la tua Biancifiore? -. Da questa voce parea che tanto disio gli crescesse nel cuore di correre ad abbracciare quella, che quasi non gli pareva potere stare. Per che egli rivolto a quelle donne gli parea dire: - Per che cosa mi faceste voi qui chiamare? Ditemelo, però ch’io mi voglio partire -. A cui risposto fu: - Noi tel diremo -. E con lui cominciarono le quattro donne a parlare e a dire molte cose, delle quali niuna gli parea intendere, tanto avea lo ’ntelletto rivolto pure a Biancifiore: e non potendo più il ragionamento di quelle ascoltare, lasciandole parlando, corse ove il giovane ignuda tenea Biancifiore, e quivi gli parea con quella festeggevolemente essere ricevuto. Ma dimorando quivi, gli parea che ’l mare mutasse legge, che, dimorato alquanto quieto, in tanta tempesta si rivolgea, che non che la nave, ma eziandio tutto l’universo gli parea che dovesse sommergere: e rimirando quella femina che la proda della nave movea, vide dalla sua bocca una voce come un tuono grandissima procedere, e con quella un vento impetuosissimo, il quale lui e Biancifiore e quel giovane parea che d’in su la nave levasse, e gittasseli in un luogo di voracità pieno, che davanti a lui parve oscurissimo e tenebroso. Quivi gli parea essere pieno di mortale paura, e piangere, e ’l simigliante faceano Biancifiore e ’l giovane: ma quindi per non pensato modo tutti e tre sanza offesa si partiano, ritornando in su la nave onde partiti s’erano, dove la turbata femina vide ritornata lieta, e con riposo tenere la nave e il mare. E di sua volontà gli parea con Biancifiore entrare in mezzo delle quattro donne, le quali prima non avea ascoltate, ove vide aggiunto un uomo di grandissima eccellenza e autorità nel sembiante con corona d’oro sopra la testa. Questi gli parea che molte parole gli dicesse, e col suo dire molto l’essere delle tre donne, le quali egli non conoscea, gli discoprisse: per che tanto gli parea essere nel cuore acceso d’avere di loro notizia intera, che appena il potea sostenere. E in questa volontà dimorando, e rimirando verso il cielo, gli parea quello vedere aprire e uscirne una luce mirabilissima, risplendente e grande, la quale parea che tutto il mondo dovesse accendere, e quella parte del mondo, che tal luce sentiva, più bella che alcuna altra gli parea che fosse. Questa luce venne sopra di lui, nella quale egli rimirando, vide una donna bella e graziosa nell’aspetto, di quella medesima luce vestita, e nelle mani portava una ampolla d’oro, d’una preziosissima acqua piena, della quale acqua tutto il viso e per consequente tutta la persona pareva che gli lavasse, e poi subito sparisse: e come questo era fatto, così gli parea aver multiplicata la vista, e meglio conoscere e le mondane cose e le divine che prima, e quelle amare ciascuna secondo il suo dovere. E così ammirandosi di ciò, si trovò tra le tre donne, le quali prima non conoscea, e con loro la sua Biancifiore parea che fosse, e prendesse maravigliosa contezza: delle quali tre vedea l’una tanto vermiglia e nel viso e ne’ vestimenti quanto se tutta ardesse, e l’altra tanto verde che avanzato avria ogni smeraldo, la terza bianchissima passava la neve nella sua bianchezza. E dimorando questi con loro per certo spazio, avendo bene di loro nel cuore ogni certezza, seguendo i loro vestigii, subitamente si vide da loro con tutta la navicella su per l’albero levarsi al cielo, quelle tre essendoli duce, e le quattro di sotto a lui rimanere sopra le salate onde, e ad alto sospingerlo. E così sagliendo, gli parea passare infino nelle sante regioni degl’iddii, e in quelle conoscere i virtuosi corpi e i loro moti e la loro grandezza e ogni loro potenza: quivi con ammirazione, inestimabile gloria gli parea vedere dalla faccia di Giove procedere a’ riguardanti, della quale egli sanza fine sentiva. E volendo dire: - Oh felice colui che a tanta gloria è eletto! -, avvenne che Ascalion e Parmenione vennero dov’egli era. E ignorando il bene che a sé sì il teneva sospeso, più volte il chiamarono, né egli a loro rispose. Per che poi il presero per lo braccio, e tirandolo, dalla celestiale gloria alle mondane cose il tirarono. E imaginando che profonda malinconia l’avesse occupato, cominciarono a dire: - Filocolo, che pensiero è il tuo? Rallegrati, ché i marinari ne chiamano che noi andiamo al legno per andare al nostro cammino, e dicono che poi che qui fummo più non videro prosperevole tempo a nostra via se non ora: leva su, andiamo -. Levossi dunque Filocolo dicendo: - Oimè, da che bene tolto m’avete! -. E narrato loro ciò che veduto avea, con loro insieme, pieni d’ammirazione per lo suo detto, n’andarono alla nave. E rendute prima degne grazie agl’iddii del buon tempo, e pregatigli divotamente che in meglio il dovessero prosperare, in su quella montarono. E su dimorativi le due parti della notte, sentendo il vento rinfrescato parve loro di dargli le vele. Le quali dategli, gli antichi porti di Partenope abandonarono, disiderosi di pervenire dove dagl’iddii fu loro promesso di trovare di Biancifiore vere novelle.
- Lenti e scarsi venti pinsero la violata nave in più giorni quasi che alla esteriore punta della dimandata isola, e, quivi mancati, discesero in terra, dubitando non gl’iddii quivi per lungo spazio gli ritenessero come in Partenope fatto aveano. Ma ignorando Filocolo in qual parte dell’isola dovesse di Biancifiore novelle sapere secondo il risponso degl’iddii, la fortuna che già con lieto viso gli si cominciava a rivolgere, vicino albergo gli apparecchiò a Sisife. Dove egli più giorni dimorando e cercando di sapere novelle di Biancifiore né trovandone alcuna, non sapea che farsi; e già il tempo vedea acconciare presto al suo proponimento. Per che egli quasi disperato, dispregiando il detto degl’iddii, non sapea che si fare, ma dimorando malinconico fra sé dicea: "Come io qui di Biancifiore non trovo novelle, così, in tutto, il mio viaggio sarà perduto, e, ingannato dagl’iddii, per soperchio dolore dolente renderò l’anima alle dolorose sedie di Dite". Poi fra sé ripensava le parole degl’iddii non potere essere false, ma dicea: "Forse non in questo luogo dell’isola debb’io di Biancifiore trovar novelle, ma in alcuno altro"; per che si imaginava di tutta l’isola voler cercare.
- In questi pensieri dimorando Filocolo sedendosi sopra uno antico marmo posto a fronte alle grandi case di Sisife, avvenne che Sisife dimorando ad una finestra verso il mare riguardando, il vide, e molto il rimirò, volendosi pure alla memoria riducere d’averlo altra volta veduto. E dopo molto riguardarlo, si ricordò di Biancifiore, a cui, secondo il giudicio di Sisife, Filocolo molto risomigliava. Per che ella vedendolo così malinconico dimorare, fra sé cominciò a pensare che costui per Biancifiore malinconico dimorasse, e volendosi della vera imaginazione accertare, discesa del luogo dove dimorava, a sé chiamare fece lo innamorato giovane e così gli disse: - Giovane, se gl’iddii ad effetto produchino ogni tuo disio, non ti sieno gravi le mie parole, né noioso il contentarmi di ciò ch’io ti domanderò, se licito t’è il dirmelo. Dimmi qual cagione è in te che sì occupato di malinconia tiene il tuo viso, che ha potenza di porgere pietà nel cuore a chi ti mira -. Riguardò Filocolo costei nel viso, e vedendola gentilesca e bella e di costumi ornata, pietosa di sé, dopo un sospiro così le rispose: - Gentil donna, appena che io speri che mai gl’iddii alcuna cosa che mi contenti mi concedano, per che io per questo già poco mi curerei la cagione della mia malinconia narrarvi; ma il gentilesco aspetto di voi ad ogni vostro piacere adempiere mi costringe, per che io la vi dirò, ben che mai io non trovassi a cui pietà di me venisse se non a voi. Il pensiero che sì malinconico il mio aspetto vi rapresenta è che dagl’iddii, dal mondo e dagli uomini abandonato mi trovo in questo modo. Io povero giovane e pellegrino, statomi dato dal mio padre etterno essilio dalla sua casa, vo ricercando una giovane a noi per sottile ingegno levata, la quale s’io ritrovo, licito mi fia alla paternale casa tornare. Ma di ciò male mi pare essere nel cammino, però che da alcuno iddio dopo divoto sacrificio ebbi risponso di dovere qui di lei udire vere novelle; ma ciò truovo falso, però ch’io sono qui più giorni dimorato, né alcuno ci ha che novelle di lei mi sappia contare: per che trovandomi dagl’iddii ingannato, quasi come disperato vivo di ritrovarla -.
- Riguardollo più fiso allora la donna, e domandollo come la giovane la quale egli cercava si chiamasse, e chi egli fosse, e come avesse nome, e donde veniva, e quanto tempo era che perduta avea quella che giva cercando. A cui Filocolo rispose: - Biancifiore è il nome della giovane, e io, suo misero fratello, mi chiamo Filocolo, dalle terre che l’Adice riga partitomi: ben sette mesi o più l’ho cercata, e tanto ha che ella ne fu levata -. Pensossi Sisife fra se medesima: "Veramente questi cerca quella Biancifiore che qui fu co’ parenti miei menata dagli occidentali regni". Per che così gli cominciò a parlare: - Giovane, delle ’mpromesse degl’iddii non si dee alcuno sconfortare già mai, però che infallibili sono. Adunque confortati e prendi ferma speranza di futuro bene, però che vere novelle di Biancifiore ti dirò, sì come quella con cui più giorni in questa casa dimorò -. Disse allora Filocolo: - O nobilissima donna, se alcuna pietà nel cuore il mio aspetto vi porse, per quella vi priego che ciò che di lei sapete interamente mi narriate. Pensate quanto merito nel cospetto degl’iddii acquisterete, se per lo vostro consiglio io racquistando la mia sorella, lei e me insieme renderò al mio padre -. Sisife disse allora: - Per me niuno tuo piacere fia sanza effetto; quanto della giovane che tu vai cercando so, io il ti dico: e’ sono omai sei mesi passati che qui due miei parenti vennero con una bella e grandissima nave, i quali, secondo il loro parlare, di quelle parti, donde tu vieni, si partirono, e con loro aveano questa Biancifiore che tu cerchi, bella e graziosa assai. E certo io non ti vidi prima, che io nell’aspetto di lei ti conobbi suo fratello o parente, e però di lei ricordandomi, di te mi venne pietà. Ella dimorò qui meco più giorni, e io, secondo il mio potere, in tutte cose la onorai come figliuola: veramente mai rallegrare non la potei, anzi continuamente pensosa e piangendo la vedea. E domandandola io alcuna volta quale fosse la cagione del suo pianto, ella mi rispondea che mai niuna femina di piangere ebbe cagione quanto ella avea, però ch’ella avea lasciato il più grazioso amadore che mai da donna amato fosse, il quale ella nel suo pianto chiamava Florio: a costui si dolea quasi come davanti il si vedesse, a costui si raccomandava, costui chiamava, e mai nella sua bocca altro nome non era. E certo, per quello ch’ella mi dicesse, ella avea doppia ragione d’amarlo sopra tutti gli altri uomini del mondo, però che egli amava lei più che altra donna, e appresso, secondo il suo dire, egli era il più bello uomo che mai fosse veduto: chi costui si fosse non so se tu tel sai -. A cui Filocolo disse: - Assai ben lo conosco, e gran ragione la movea ad amarlo e a dolersi d’essere da lui allontanata, però che quelle due cose che vi dicea, amendune v’erano: ch’io so manifestamente che esso da picciolo garzone l’amò, e ella lui, e ancora sopra tutte le cose l’ama, e novellamente sposare la dovea, se tanto la fortuna non l’avesse offeso. E tanto di lui vi so dire, che egli pieno di dolore, sì come io, in simile affanno va pellegrinando per ritrovarla. Onde io vi priego che se voi sapete in che parte i mercatanti la portarono, che voi il mi diciate. Io porto con meco molti tesori, de’ quali io renderei doppiamente a’ mercatanti quello che loro costò, se rendere la mi volessero -. Disse allora Sisife: - Gran pietà ebbi di lei, e maggiore me la ne fai venire, e, se gl’iddii m’aiutino!, se io fossi uomo com’io femina sono, con teco la verrei cercando; ma poi che aiuto donare non ti posso, prendi il mio consiglio. I mercatanti, che seco la portarono, mi dissero di dovere andare a Rodi, e di quindi in Alessandria, e così credo che abbiano fatto: e però tu similemente questi luoghi cercherai, e se gli truovi, da mia parte della tua bisogna gli priega; credo che assai ti varrà, e se gl’iddii ti fanno tanta grazia che la ritruovi, piacciati che con teco io la rivegga -. Piacque a Filocolo il consiglio e l’ascoltata novella, e benignamente le ’mpromise di rivederla, se conceduta gli fosse la grazia. E dopo molte parole, da lei molto onorato, donatole graziosi doni a tanta donna convenevoli, con sua licenza da lei si partì. E venuto il tempo al loro cammino utile, co’ suoi compagni saliti sopra la nave si partirono cercando Rodi.
- Navica adunque Filocolo: e ciascun giorno più venti rinfrescano e pigliano forza in aiuto di Filocolo, sì che in brieve, lasciandosi dietro Gozo e Moata, piglia l’alto mare fuggendo la terra. Ma per mancamento di vento e per venire in Rodi, torse il cammino d’Alessandria, e passando Crava, Venedigo, Cetri, Sechilo e Pondico, trovò l’antica terra di Minòs, della quale Saturno fu dal figliuolo cacciato. Quivi alcun giorno dimorò in Candia, e quindi partito, Caposermon e Casso e Scarpanto trapassò in brieve e venne a Trachilo, e di quindi a Lendego. Quivi entrato con la sua nave nel golfo diede l’ancore a’ profondi scogli, e scese in terra e cercò la città: per la quale andando e Ascalion con lui e’ suoi compagni, avvenne per accidente che Ascalion fu conosciuto da un grandissimo e nobile uomo della città, col quale a Roma erano già insieme militanti dimorati, e chiamavasi Bellisano, il quale con grandissima festa corse ad abbracciare Ascalion dicendo: - O gloria della militare virtù, qual grazia in questi paesi mi ti mostra? Gl’iddii in lunga prosperità ti conservino -. Costui conobbe bene Ascalion, e, effettuosamente abbracciatolo, con lieto viso gli rendé quella risposta che a tali parole si convenia, pregandolo che Filocolo, cui egli avea per maggiore e in cui servigio egli era, onorasse. Bellisano allora, fatta a Filocolo debita riverenza, il pregò che gli piacesse al suo ostiere esso e’ compagni venire: dove Filocolo, piacendo ad Ascalion, andò. E quivi mirabilmente onorati furono da Bellisano, il quale, amando di perfetto amore Ascalion, in ogni atto s’ingegnava di piacergli.
- Essendosi questi riposati alcun giorno, Bellisano domandò Ascalion se licito era ch’egli sapesse la cagione della loro venuta, ché a lui molto saria il saperlo a grado. A cui Ascalion, con piacere di Filocolo, interamente narrò la verità della loro venuta. Le quali cose udendo, Bellisano tutto nell’aspetto divenne stupefatto, dicendo: - Sanza fallo e’ non sono passati sei mesi che Biancifiore fu con gli ausonici mercatanti in questa casa, avvegna che poco ci dimorasse. E essi ne la portarono in Alessandria, per intendimento di venderla all’amiraglio, il quale di giorno in giorno vi si attendeva, secondo che essi mi dissero: che essi facessero, niuna novella poi ne seppi. Ma se gl’iddii di lei ogni vostro piacere certamente adempiano, ditemi chi fu quella giovane e come avvenne che per danari alle mani de’ mercatanti venisse -. Disseli allora Ascalion come ucciso Lelio e presa pregna Giulia era stata, e come Biancifiore e Florio in un giorno nati erano, e come innamorati e separati, per paura di quello che ad effetto si dovea recare, erano dal padre stati, e i pericoli corsi a Biancifiore, e ciò che per adietro era avenuto. Maravigliossi assai Bellisano, e domandò quale Lelio fosse stato il padre di Biancifiore. A cui Ascalion disse: - Egli fu il nobile Lelio Africano, il quale a noi e agli altri stranieri soleva essere tanto grazioso mentre in Roma dimorammo -. Questo udendo, Bellisano appena le lagrime ritenne, dicendo: - Oimè, or fu in casa mia la figliuola di colui a cui io fui più tenuto che ad altro uomo, e non la sovenni d’aiuto? Ahi, maladetta sia la mia ignoranza, ch’io vi giuro, per l’anima del mio padre, che, se ciò che voi mi dite io avessi saputo, io ci avrei tutti i miei tesori donati, e ogni mia forza adoperata per poterla in libertà riducere, portandola poi, per merito de’ servigii ricevuti dal padre, in qualunque parte le fosse piaciuto. Ma non me lo reputino gl’iddii in peccato, che altro che per ignoranza non manco: e ella misera tutti i suoi infortunii mi disse, de’ quali io piansi con lei come gl’iddii sanno, né di cui figliuola stata fosse mai mi disse -. Allora disse Ascalion: - Certi siamo di ciò che ne conti, e siamotene tenuti; ma consigliane, per quel singulare grado che tra te e me è già stato e è di vera amistà, che via noi dobbiamo tenere a ritrovare e a riavere ciò che cercando andiamo -. Bellisano gli rispose: - Il consiglio e l’aiuto che per me si potrà, voi l’avrete. Io con esso voi verrò in Alessandria, dove io ho alcuni amici, i quali per amore di me vero aiuto e consiglio ci porgeranno, ché di qui, sanza vedere altro, male vi saprei consigliare -. A queste parole rispose Filocolo dicendo: - Carissimo Bellisano, assai ci basterà se ad alcuno de’ tuoi amici per consiglio ci mandi sanza affannarti. Tu oramai pieno d’anni, più il riposo che l’affanno disiderare dei, e però ti ringrazio del buon volere -. Disse allora Bellisano: - Fermamente da voi non fia sanza me tale cammino fatto, ché ancora che io sia anziano, son io a gravissime fatiche possente più che tali giovani. Io sono tenuto di mettermi alla morte per amore della giovane cui voi cercate, se io penso a’ ricevuti servigi dal più nobile padre che mai figliuola avesse. Ond’io vi priego che la mia compagnia, la quale assai vi potrà essere utile, non vi sia grave -. Vedendo Filocolo Bellisano in questo volere, disse: - A vostro piacere sia: però quando vi pare ne partiremo -.
- Bellisano vide il tempo disposto al loro cammino, per che a lui parve il partire convenevole. E montati sopra la nave, renderono le vele a’ prosperevoli venti, i quali in brieve termine infino nel porto di Alessandria salvamente li portarono. Quivi discesi in terra, date l’ancore a’ fondi, a casa d’un gentile uomo d’Alessandria, a Bellisano amico intimissimo, chiamato Dario, se n’andarono. Egli con lieto viso principalmente Bellisano e appresso Filocolo e gli altri graziosamente ricevette, quanto il suo potere si stendea onorandogli, offerendosi a Filocolo e ad Ascalion e a tutti, per amore di Bellisano, ad ogni loro piacere e servigio apparecchiato: di che da tutti con debite parole fu ringraziato.
- Dimorati costoro alquanti giorni con Dario, e veduta la nobile città, e presi diversi diletti, Filocolo, il cui cuore da amorose sollecitudini era stimolato, ogni ora un anno gli si faceva di sapere quello per che quivi venuto era. E però a sé Bellisano e Ascalion chiamò e disse loro: - Che facciamo noi? Che perdimento di tempo è il nostro? Venimmo noi qui per vedere le mura d’Alessandria? Quando vi piacesse, a me molto saria caro d’intendere a quello per che qui siamo venuti. La nimica fortuna ci ha assai tolto di tempo: ora che contro alla forza di lei qui siamo pervenuti, non ce ne togliamo noi medesimi, però che il perderlo a chi più sa più spiace -. A cui Bellisano rispose: - Ciò che dite assai mi piace, e però facciasi -. Chiamato adunque Dario, in una camera tutti e quattro tacitamente si misero, e postisi sopra un ricco letto a sedere, Bellisano cominciò a Dario così a parlare:
- - Amico, però che io credo che ignoto ti sia cui tu aggi onorato e onori, e similemente la venuta di costoro da te riveriti, io il ti dirò, acciò che il loro essere e la cagione del loro pellegrinare a niuno palesandola, quel consiglio e aiuto che per te si puote ne sia porto -. E mostrandogli Filocolo, disse: - Costui è figliuolo dell’alto re di Spagna, nipote dell’antico Atalante sostenitore de’ cieli; e quelli che tu in sua compagnia vedi, sono nobilissimi giovani e di grandissima condizione, e qui sono venuti, e io con loro, acciò che novelle sappiamo di Biancifiore bellissima giovane, la quale qui fu da Antonio ausonico mercatante e da un suo compagno recata, sì come essi in Rodi, albergati nel mio ostiere, mi dissero. Ella fu da loro comperata da non so quale re nelle parti d’Occidente, e a costui furtivamente levata. Egli sopra tutte le cose del mondo l’ama: e che ciò sia vero ti può, veggendolo qui, esser manifesto, là dove egli per niuna altra cagione è venuto se non per lei racquistare; e ha proposto di mai alla paternale casa non ritornare, né egli, né i suoi compagni, né io, se lei primieramente non riabbiamo. Vedi oramai quanto servire ne puoi, dicendoci se alcuna cosa di lei sai, mettendoci dopo questo in via di ciò che adoperare dovemo secondo il tuo giudicio per racquistarla -.
- Con ammirazione ascoltò Dario le parole di Bellisano udendo che di sì alto re Filocolo fosse figliuolo, e per tale cagione pellegrino divenuto. E alzato il viso ver lo cielo, fra sé cominciò a dire: - O più che altro potente pianeto, per la cui luce il terzo cielo si mostra bello, quanta è la tua forza negli umani cuori efficace! Quando saria mai per me stato pensato che sì nobile uomo una venduta schiava per amore dall’un canto della terra all’altro seguisse? Certo non mai: ma veduto l’ho! Tempera i fuochi tuoi nelle umane menti, acciò che per soverchio del tuo valore non si mettano alle strabocchevole cose! -. E poi che così ebbe detto, bassò la testa e così rispose: - Amico, a me quanto me medesimo caro, nuove cose mi fai udire, cioè che io sia oste di tanto uomo quanto Filocolo ne di’ che è: la qual cosa molto m’è cara, e più sarebbe se lui secondo la sua nobile qualità onorato avessi; ma quello che per ignoranza è mancato, con debita operazione adempiremo. Ma molta più d’ammirazione mi porge la cagione della sua venuta, che altra cosa che tu mi potessi aver detta. Né mi fia omai impossibile a credere ciò che di Medea, di Dido, di Deianira, di Filis, di Leandro e d’altri molti ho già udito, veggendo quello che io ora di Filocolo veggio: ma però che amore è passione che sempre cresce quanti più argumenti a minuirla s’adoperano, sanza alcuna debita riprensione farne, che grande a questo si converria, procederò a risponderti a ciò che dimandato m’hai. Molto mi saria caro il potervi di Biancifiore migliori novelle dire che io non potrò; ma come colui che interamente di lei ciò che n’è sa, come ella sia e dove e come qui venisse vi conterò: poi quel consiglio e aiuto che per me a tal bisogna donare si potrà, com’io per me l’adoperassi, così il vi profero e donerò.
- "Qui venne, già sono passati sei mesi, Antonio, ausonico mercatante, e ’l compagno suo, e a me, come a loro caro amico, richiedendo aiuto e consiglio, davanti mi presentarono la bella giovane la quale voi cercando andate, e dissermi: "Dario, noi vegnamo delli occidentali paesi, quivi per avventura chiamati da Felice re di Spagna. Di suo patto e nostro per questa giovane tutti i nostri tesori gli donammo, e qui menata l’abbiamo acciò che al signore la vendiamo, e di lei oltre a’ nostri tesori gran quantità guadagnare intendiamo: però ponici in via come questo possiamo ad effetto recare". Le quali cose udendo, io incontanente all’amiraglio nostro signore li menai, e, narratogli la bisogna di costoro, e fattagli venire Biancifiore davanti, tanto gli piacque, che sanza niuno patteggiare comandò che i tesori che costata era a’ mercatanti fossero loro radoppiati, e la giovane rimanesse a lui; e così fu fatto. I mercatanti si partirono, e Biancifiore, rimasa, dall’amiraglio fu fatta mettere in una torre grandissima e bella, qui assai vicina, con altre molte donzelle in simile maniere comperate; e quivi, al fine ch’io vi dirò, essa e l’altre sotto grandissima guardia sono guardate. Sì com’io credo che voi sapete, l’amiraglio di cui davanti parlammo, è suggetto del potentissimo correggitore di Bambillonia, e a lui ogni dieci anni una volta per tributo conviene che gli mandi infinita quantità di tesori, e cento pulcelle bellissime. E egli, acciò che nella grazia del signore interamente permanga, quanto più può s’ingegna d’averle belle e nobili, né alcuna n’è nel mondo che bella sia, la quale per tesoro avere si potesse, che egli a quantità guardasse, ma, che che volesse costasse, e’ converrebbe che sua fosse: e ciò può egli ben fare, però che il suo tesoro è infinito. E com’io v’ho detto, a fine di donarle al signore il fa; e come egli l’ha, in quella torre le guarda, dove alcuna che pulcella non sia, non può aver luogo. Ma prima che io a porgervi alcun consiglio proceda, vi voglio divisare come queste pulcelle in questa torre dimorano, e sotto che guardia: le quali cose udite, forse voi così com’io vi saprete consigliare.
- "La torre dove le donzelle dimorano, come voi nel nostro porto entrando poteste vedere, è altissima tanto che quasi pare che i nuvoli tocchi, e si è molto ampia per ogni parte, e credo che il sole, che tutto vede, mai sì bella torre non vide, però ch’ella è di fuori di bianchi marmi e rossi e neri e d’altri diversi colori tutta infino alla sua sommità, maestrevolemente lavorati, murata. Ella, appresso, ha dentro a sé per molte finestre luce, le quali finestre divise da colonnelli, non di marmo, ma d’oro tutti, si possono vedere, le porte delle quali non sono legno, anzi pulito e lucente cristallo. Questo tutto di fuori a’ riguardanti si può palesare, ma dentro ha più mirabili cose, le quali, chi non le vede, impossibile gli pare a crederle, udendole narrare. Elli vi sono cento camere bellissime, e chiare tutte di graziosa luce, e molte sale; ma tra l’altre sale una ve ne dimora, credo la più nobile cosa che mai fosse veduta. Ella tiene della larghezza della torre grandissima parte, volta sopra ventiquattro colonne di porfido di diversi colori, delle quali alcune ve n’ha sì chiare, che, rimirandovi dentro, vedi ciò che per la gran sala si fa: e fermansi le lammie di questa sala sopra capitelli d’oro posti sopra le ricche colonne, le quali sopra basole d’oro similemente sopra ’l pavimento si posano. Queste lammie sono gravanti per molto oro, nelle quali riguardando niuna cosa vi puoi vedere altro, salvo se pietre nobilissime non vedessi. In questa sala ne’ pareti dintorno, quante antiche storie possono alle presenti memorie ricordare, tutte con sottilissimi intagli adorne d’oro e di pietre vi vedresti, e sopra tutte scritto di sopra quello che le figure di sotto vogliono significare. Quivi ancora si veggono tutti i nostri iddii onorevolissimamente sopra ogni altra figura posti, co’ quali gli avoli e antichi padri del nostro amiraglio tutti vedere potresti. In questa sala non si mangia se non sopra tavole d’oro, né niuno vasellamento se non d’oro v’osa entrare. Io non vi potrei narrare interamente di questa quanto n’è: che vi poss’io più di questa dire se non che infino al pavimento, e il pavimento medesimo, d’oro e preziose pietre è? In questa mangia sovente il nostro amiraglio con la tua Biancifiore e con l’altre donzelle. Ancora è in questa torre, tra le cento camere, una che di bellezza tutte l’altre avanza: e certo appena che quella dove Giove con Giunone ne’ celestiali regni si posa, si possa a questa agguagliare! Essa è di convenevole grandezza, e ha questa propietà, che alcuno non vi può dentro passare sì malinconico, che mirando al cielo della camera, dove in maestrevoli compassi d’oro, zaffiri, smeraldi, rubini e altre pietre si veggono sanza novero, egli non ritorni gioioso e allegro. A fronte alla porta di questa, sopra una colonna, la quale ogni uomo che la vedesse la giudicherebbe di fuoco nel primo aspetto, tanto è vermiglia e lucente, dimora il figliuolo di Venere ignudo con due grandissime alie d’oro, graziosissimo molto a riguardare; e tiene nella sinistra mano uno arco e nella destra saette, e pare a chiunque in quella passa che questi il voglia saettare; ma egli non ha gli occhi fasciati come molti il figurano, anzi gli ha quivi belli e piacevoli, e per pupilla di ciascuno è un carbuncolo, che in quella camera tenebre essere non lasciano per alcun tempo, ma luminosa e chiara come se il sole vi ferisse la tengono. Dintorno ad esso ne’ cari muri tutte le cose che mai per lui si fecero sono dipinte. Ne’ quattro canti di questa camera sono quattro grandissimi arbori d’oro, i cui frutti sono smeraldi, perle e altre pietre, e sì artificialmente sono composti, che come l’uomo con una verghetta percuote il gambo d’alcuno di quelli, niuno uccello è che dolcemente canti, che al cantare non sia udito, e ripercotendolo tacciono. In mezzo di questa camera sopra quattro leoni d’oro, una lettiera d’osso d’indiani elefanti dimora, guarnita con letto chente a sì fatta lettiera si richiede, chiuso intorno da cortine, le quali io non crederei mai poter divisare quanto siano belle e ricche. Né alcuno piacevole odore è, o confortativo, che in quella entrando l’uomo non senta soavemente odorando. In questa camera, in questo così nobile letto dorme sola Biancifiore: e questa grazia singulare più che l’altre riceve, perché di bellezza e di costumi avanza ciascuna altra, ben che l’altre molto onorevolemente dimorano ciascuna nella sua camera. Ma nella sommità di questa torre è uno dilettevole giardino molto, nel quale ogni albero o erba che sopra la terra si truova, quivi credo che si troverebbe: e in mezzo del giardino è una fontana chiarissima e bella, la quale per parecchi rivi tutto il giardino bagna. Sopra questa fontana è un albero il cui simile ancora non è alcuno che mai vedesse, per quello che dicono coloro che quello veduto hanno. Questo non perde mai né fiore né fronda, e è di molti oppinione che Diana e Cerere, a petizione di Giove, antico avolo del nostro amiraglio, pregato da lui, vel piantassero. E di questo albero e di questa fontana vi dirò mirabile cosa: che qualora l’amiraglio vuole far pruova della virginità d’alcuna giovane, egli nell’ora che le guance cominciano all’Aurora a divenire vermiglie, prende la giovane, la quale elli vuol vedere se è pulcella o no, e menala sotto questo albero. E quivi per picciolo spazio dimorando, se questa è pulcella le cade un fiore sopra la testa, e l’acqua più chiara e più bella esce de’ suoi canali; ma se questa forse congiugnimento d’uomo ha conosciuto, l’acqua si turba e ’l fiore non cade. E in questo modo n’ha già molte conosciute, le quali con vituperio da sé ha cacciate. In questo giardino si prendono diversi diletti le donzelle e in questa maniera che detto v’ho dimorano libere di poter cercare tutta la torre infino al primo solaio; da indi in giù scendere non possono né uscire mai sanza piacere dell’amiraglio. Potete avere udito come dimorano: ora sotto quale guardia vi narrerò.
- "Nella più infima parte della torre, copiosa di graziosi luoghi ad abitare, non può alcuna persona che di sopra sia discendere, né alcuna che di sotto sia salire di sopra sanza piacere dell’amiraglio, com’io vi dissi. Quivi abita uno arabo, da cui la torre è chiamata la Torre dell’Arabo, e egli è chiamato castellano di quella, e per propio nome Sadoc, e ha a pensare di tutte quelle cose che alle pulcelle sieno necessarie, e quelle dare loro. Appresso ha molti sergenti, co’ quali il giorno questa torre d’ogni parte guarda: né alcuno uomo, non che a quella, ma ancora in un grandissimo prato ch’è davanti ad essa, sostiene che s’appropinqui, e quale presumesse d’appressarvisi sanza il piacer di lui, o morte o gravissimo danno e pericolo ne gli seguiria: ma come il giorno si chiude, tutto quel prato pieno d’uomini con archi e con saette potreste vedere guardando la torre dintorno. E ’l castellano, e’ suoi sergenti, e qualunque altro v’ha alcuno uficio, tutti eunuchi sono: e questo ha l’amiraglio voluto, acciò che alcuno non pensasse di fare quello ch’egli sta per guardare ch’altri non faccia; e questa guardia né giorno né notte falla già mai. Vedete omai che consiglio o che aiuto qui si puote porgere! Ma non per tanto veggiamo le vie che ci sono o potrebbono essere, e quella che meno rea ci pare, se alcuna ce n’ha, per quella procediamo -.
- Taciti e pieni di maraviglia per le udite cose si stavano costoro, né alcuno rispondea alcuna parola, quando Dario rincominciò: - Signori, io non discerno qui se non tre vie, delle quali l’una ci conviene pigliare, e mancandoci queste, niuna altra ce ne so pensare. Le quali tre, queste sono esse: o per prieghi riaverla dall’amiraglio, o per forza rapirla della torre, o con ingegno acquistare l’amicizia del castellano, la quale avendo, non dubito che a fine si verria del vostro intendimento. Ciascuna di queste mi pare fortissima a poterne venire a fine, però che se noi ne vogliamo l’amiraglio pregare, questo mi pare che saria un gittare le parole al vento: e la cagione è ch’egli sopra tutti i suoi tesori la tiene cara, e io gli udii dire che a niuna persona del mondo, fuori che al Soldano, la doneria, per dovere ricevere un altro regno simile a quello che possiede. Per che io dubito che i nostri prieghi ne’ quali il nostro intendimento gli si scoprisse, nol movessero più tosto ad averci sospetti, e a donarci essilio etterno de’ suoi regni, che a farci grazia: e però questa via mi pare al presente da lasciare, con ciò sia cosa che ad essa possiamo ultimamente ricorrere. Il volere la torre assalire, e per forza trarne quella, per ogni cagione saria follia, però ch’ella è da sé forte, e appresso è ben guardata, e avanti che combattuta o presa fosse, tutto il suo regno ci poria essere corso, e, non che noi, ma innumerabile quantità di cavalieri pigliare e mettere in rotta potrebbono, e così con danno rimarremmo disperati e forse uccisi. Ma di queste altre mi pare il migliore con ingegno l’amicizia del castellano pigliare, però che al prendere quella non ci può aver pericolo, e forse, presa, potrà giovare, se saviamente con lui si procede. La quale in questo modo si potrà acquistare: egli è vecchio, superbissimo e avaro, e sopra tutte le cose del mondo si diletta di giucare a scacchi e vincere: però prendere con lui parole, e umilemente i suoi pareri concedergli, e appresso donandogli alcuna volta di belle gioie, e giucando con lui, gli porria l’uomo divenire amico: la quale amistà quando fosse presa, nuovo consiglio si converria avere a lui recare al nostro piacere. Questo modo mi piacerebbe, e questo mi pare da tenere, e per questo spero che ’l nostro intendimento verrà ad effetto, ma tuttavia vi ricordo che copertamente procediate a questo, però che se egli, o altri che a lui il ridicesse, s’avedesse che a questo fine la sua amicizia si cercasse, nulla saria d’averla mai; poi quando amico sarà, fia più sicuro lo scoprirsi a lui solamente. Io mi credo, di ciò ch’io v’ho parlato, avere ben detto, e chiaro il mio parere. Voi siete savi, e se bene avete notate le parole mie, voi potete bene aver compreso ciò che qui bisogna di fare, così com’io che vi consiglio: e però se migliore via ci conoscete, sia per non detto quello che io ho consigliato, e seguiamo quella -. Tacquesi allora Dario, e Ascalion e Bellisano vi dissero molte parole, ma ultimamente a tutti e a Filocolo parve il migliore di seguire ciò che Dario avea consigliato: e fra loro deliberarono che Filocolo fosse colui che l’amistà di Sadoc dovesse pigliare, il quale si vantò di farlo bene e compiutamente.
- Partito il lungo consiglio, chi si diede ad una cosa e chi ad un’altra di costoro. Filocolo solamente si diede a pensare sopra l’udite cose, e prima fra sé le commenda e disidera, poi gravissimi reputa i pericoli a’ quali si mette, incerto d’acquistare la cosa per la quale a quelli si dispone. Di questo pensiero salta in un altro, e di quell’altro in molti; egli si ricorda di tutti i pericoli ch’egli ha corsi, e imagina quelli che egli correre dee: e nella savia mente estima i corsi essere stati grandi, ma molto maggiori gli paiono quelli che a venire sono; e nel pensiero gli prende de’ preteriti paura non che de’ futuri. E pargli, quando bene le parole di Dario pensa, quasi al suo disio mai non dovere pervenire per alcuno pericolo al quale egli si metta, o, se ne dee pervenire ad effetto, pensa che tardi fia. Ma più tosto consente, se ad alcuna cosa fare si mette, morte o vergogna acquistarne che il suo volere adempiere, né ancora ha alcuna volta ne’ suoi pensieri conosciuti i suoi folli disii come ora conosce. Per che egli fra sé e sé cominciò a dire:
- - O poco savio, quale stimolo a tante pericolose cose infino a qui t’ha mosso e vuole a maggiori da quinci inanzi muovere? Niuna cosa, se non una femina, amata da te oltre al dovere. Ora è egli licito l’amare altrui più che sé? Certo no, ché ogni ordinato amore incomincia e procede dall’amare se medesimo: dunque ama più te che questa femina. "E così fo io". "Non fai, ché se tu più te amassi, tu non cercheresti i pericolosi casi per la sua salute, dove la tua agevolmente si può perdere". "La mia non si perderà". "E chi te ne fa certo?". "La speranza ch’io porto agl’iddii che m’aiuteranno". "Gl’iddii aiutano coloro che per debita ragione si mettono a non strabocchevoli pericoli e lasciano perire chi n’ha voglia, come pare che tu abbia". "Adunque come debbo fare?". "Lasciala stare". "Io non posso". "Sì, potrai, se tu vorrai". "E che vita sarà la mia sanza amore?". "Quale è stata quella di coloro che sono stati davanti a te". "Io non potrei sanza amore vivere". "Amane un’altra, quella che al tuo padre piacerà, e torna a lui co’ tuoi tesori, e contentalo come tu dei, ché sai ch’egli ama te sopra tutte le cose, e non seguire più questo: meno male è corta che lunga follia". "L’uomo non può amare e disamare a sua posta. E come lascerei io questa impresa, acciò che poi si dicesse: ’Filocolo per viltà fu nel luogo dove Biancifiore era, cui egli amava tanto secondo che diceva, né in alcuno modo tentò di riaverla’?". "Oh quanti perirono già per non volere le loro folli imprese lasciare, temendo di cotesti detti, i quali in brieve tempo si dimenticano!". "Dunque la pur lascerò, tornando dond’io venni?". "Mai sì che tu la lascerai, se tu disideri di vivere". "Di vivere disidero". "Adunque lasciala". "E che varrà la mia vita?". "Quello che vale quella degli uomini che si pongono in cuore di non amare una cosa che a pericolo li conduca". "Certo, poi che io infino a qui sono venuto, io voglio pur tentare di riaverla". "E non te ne avverrà forse bene". "E qual male me ne potrà avvenire?". "L’essere con vergogna morto". "Chi mi ucciderà, faccendomi io conoscere?". "Quegli che subitamente, sanza domandarti chi tu se’, ti ferirà". "E’ non si uccidono coloro che amistà cercano: ucciderammi il castellano per che io voglia essere suo amico?". "Mai no; ma quando tu gli scoprirai quello per che tu gli se’ divenuto amico, egli non te ne servirà, per paura non forse il risappia il signore, e privilo d’avere e di vita: anzi a lui ti paleserà per levartisi da dosso. Non sai tu che negli arabi niuna fede si truova? E per questo il signore ti farà uccidere o ti scaccerà del suo reame con vergogna". "E’ non avverrà così, che io vincerò la sua nequizia con molti doni". "Or ecco che tu la pur racquisti: che avrai tu racquistato?": "Avrò racquistato colei cui io amo e che me ama sopra tutte le cose". "Tu t’inganni, se tu pensi che colei ora di te si ricordi, essendo sanza vederti tanto tempo dimorata. Nulla femina è che sì lungamente in amare perseveri, se l’occhio o il tatto spesso in lei non raccende amore". "E come mi potrebbe ella mai dimenticare, essendoci noi tanto per adietro amati?". "Per un altro amadore! Credi tu che i mercatanti sanza alcun bacio o forse sanza pigliarsi la sua virginità, che n’ebbero tanto spazio, la lasciassero da loro partire? E se questi forse non savi da loro la partirono, credi tu che l’amiraglio infino a qui vergine l’abbia lasciata? Certo non è da credere. Egli non l’ha tanto cara, quanto Dario ti dice, se non perché con lei si giace. Dunque non Biancifiore, ma una puttana cerchi di racquistare". "Non è così, ché se i mercatanti tolta l’avessero la sua virginità, l’amiraglio l’avria conosciuta sotto il fatale arbore, e cacciatala da sé; e se egli con lei si giacesse, non con l’altre damigelle, ma seco la terrebbe". "E poi ch’ella sia pur vergine, non è elli da mettersi per lei alla morte!". "Certo si è, ché per questo ultimo pericolo fuggire, non è da volere che perduti sieno quanti n’ho già corsi per adietro per averla. Io ne ho già molti passati, non con isperanza d’averla di presente per quelli; per questo, se bene m’avviene, sanza alcun mezzo l’avrò". "Folle se’ stato cercandoli, e sarai se a questo ti metti". "Folle no, ma innamorato sì: così agl’innamorati conviene vivere. Guardisi chi in cotali pericoli non vuole vivere, d’incappare nelle reti d’amore. Ella sarà per me con ogni ingegno, con ogni forza ricercata: aiutinmi gl’iddii nelle cui mani io mi rimetto". E così detto, alzando il viso, gliele parve davanti a sé vedere, e con pietoso aspetto, nelle braccia di Venere, avere tutte le sue parole ascoltate. Per la qual cosa dolendosi se di lei ne’ pensieri o nelle sue parole avea meno che onore parlato, e quasi vergognandosene, più fervente nel suo proponimento divenne, giurando per quella dea, la quale egli molte fiate veduta avea, di mai non riposare infino a tanto che racquistata non l’avesse, se ancora per quello gli fosse davanti agli occhi manifesta la morte; e con questa diliberazione si partì da’ suoi pensieri.
- Rallegravasi Apollo nella sua casa, quando primieramente lo ’nnamorato giovane pervenne al tanto tempo cercato paese, dove avuto il consiglio di Dario tutto in sé propose di adempiere. Ma ciò sì tosto com’egli imaginava, non poté venire ad effetto, però che in diversi atti e modi la fortuna, ancora non contenta de’ suoi beni, gli ruppe le vie, per che assai tempo ozioso gli convenne stare. Egli in questa disposizione dimorando, vietò a’ suoi compagni che in alcuno atto tra loro più che uno di loro onorato fosse, né che alcuno, se non da lui chiamato, mai l’accompagnasse. E ultimamente tutti gli pregò che quello per che quivi dimoravano ad alcuno per alcuna cagione non palesassero. Moveasi adunque questi molte fiate solo per andare al castellano, in se medesimo pensando diverse scuse alla sua andata, né mai al proposito pervenire potea, quando da uno quando da un altro impedimento impedito, onde dolente indietro si ritornava. Egli mai fuori di casa non usciva, se per andare al castellano nol facea; mai mentre in Alessandria dimorò ad alcuno paesano si fece conoscere, né con alcuno notizia prese, da Dario in fuori. Non potendo adunque questi al disiato fine pervenire, né mai per quante volte andato fosse alla torre, Biancifiore avere sola una volta veduta, dolente vivea, e per sua consolazione saliva sopra la più alta parte dell’ostiere di Dario, e quindi rimirando l’alta torre, alcuno diletto sentiva, fra sé dicendo: - O Biancifiore, poi che tolto m’è il potere vedere te, il luogo dove tu se’ non mi può esser tolto ch’io non vegga -. E in questa vita stette infino a tanto che Febo in quello animale, che la figliuola di Agenor trasportò de’ suoi regni, se ne venne a dimorare, e quivi quasi nella fine congiunto con Citerea, rinnovellato il tempo, cominciò gli amorosi animi a riscaldare e a raccendere i fuochi divenuti tiepidi nel freddo e spiacevole tempo di verno: e massimamente quello di Filocolo, il quale sì nel suo disio divenne fervente, che appena raffrenare si potea di pur non mettersi a volere il suo proponimento adempiere sanza guardare luogo o tempo. Ma ciò non sostennero gl’iddii, anzi con forte animo il fecero sostenere aspettando.
- Venuto adunque già Titan ad abitare con Castore, un giorno, essendo il tempo chiaro e bello, Filocolo si mosse per andare verso la torre: alla quale essendo ancora assai lontano, verso quella rimirando, vide ad una finestra una giovane, alla quale nel viso i raggi del sole riflessi dal percosso cristallo davano mirabile luce; per che egli imaginò che la sua Biancifiore fosse, dicendo fra sé impossibile cosa essere che il viso d’alcun’altra giovane sì lucente fosse o essere potesse. Per che tanto disio gli crebbe di vederla più da presso e d’adempiere ciò che proposto aveva, che, abandonate insieme le redine del cavallo con quelle della sua volontà, disse: - Certo, se io dovessi morire, poi che io non posso te avere, o Biancifiore, e’ converrà che io il luogo ove tu dimori abbracci per tuo amore -. E in questo proponimento col cavallo correndo infino al piè della torre se n’andò: dove disceso con le braccia aperte s’ingegnava d’abbracciare le mura, quelle baciando infinite fiate, e quasi nell’animo di ciò che faceva si sentiva diletto.
- Assai di lontano vide il castellano Filocolo verso la torre correre, per che egli, e molti appresso di lui, correndo, con una mazza ferrata in mano gli sopravenne crucciato molto e pieno d’ira; e quasi furioso nol corse a ferire dicendo: - Ahi, villano giovane, e oltre al dovere ardito, vago più di vituperevole morte che di laudevole vita, quale arroganza t’ha tanto sospinto avanti, che in mia presenza alla torre ti sia appropinquato? Io non so quale iddio delle mie mani la tua vita ha campata: tirati indietro, villano! -.
- Filocolo udendo queste parole e vedendosi intorniato da molti, e ciascuno presto per ferirlo, quasi tutto smarrì, dubitando di morire, e volontieri vorria allora essere stato in altra parte. Ma ricordandosi di Biancifiore rinvigorì, e, riprese le spaventate forze, umilemente così rispose: - O signor mio, perdonami, che non per mio difetto questo è avvenuto, né per malizia ho contro a tua signoria offeso: la dura bocca del mio cavallo di questo m’ha colpa, il quale assai lontano di qui correndo si mosse, né per mia forza tener lo potei infino a questo luogo: al quale venuto, maravigliandomi de’ sottili lavorii, non potei fare che io non mi appressassi ad essi per vederli, non credendo a te dispiacere. Tutta fiata se io ho fallito, nelle tue mani mi rimetto: fa di me secondo il tuo piacere -.
- Sadoc rimirava fiso Filocolo, e umiliato ascoltando le sue parole nelle sue bellezze simile a Biancifiore l’estimava, e avendolo udito così benignamente parlare, gli disse: - Giovane, monta a cavallo -. Filocolo presto salito in sul suo palafreno, dietro a Sadoc reverente andava. A cui Sadoc disse: - Dimmi, giovane, se tu se’ cavaliere o scudiere, e di che parte, e quello che quinci andavi faccendo quando il tuo cavallo qui contra tua voglia ti trasportò -. A cui Filocolo rispose: - Signore, io sono un povero valletto d’oltra mare, il quale prendo diletto in andare il mondo veggendo; e udendo la gran bellezza di questa torre narrare, essendo io da Rodi mosso per vedere Bambillonia, qui per vederla ne venni. E ora inanzi quando il mio cavallo qui mi trasportò, tornava con un mio falcone pellegrino da mio diporto, il quale avendolo ad una starna lasciato, e egli non potendola prendere al primo volo, sdegnato in su questa torre se ne volò, e richiamandolo io, il palafreno, temendo il romore, a correre si mosse, qui recandomi come mi vedeste -.
- Mentre che costoro così parlando andavano, pervennero alla gran porta della torre, e entrati in essa dismontarono. E avendo il castellano le belle maniere di Filocolo vedute, imaginò lui dovere essere nobile giovane. Per la qual cosa quivi assai l’onorò, e dopo molte parole gli disse: - Giovane, la somiglianza che tu hai d’una donzella che in questa torre dimora, chiamata Biancifiore, t’ha oggi la vita campata: di che siano lodati gl’iddii, che la mia ira mitigarono com’io ti vidi, la qual cosa rado o mai più non avvenne -. Di questo il ringraziò assai Filocolo, sempre a lui offerendosi servidore, e similmente a quella giovane la cui simiglianza campato l’avea, se egli la conoscesse. E dopo questo entrati in molti e diversi ragionamenti, a Filocolo andò l’occhio in un canto del luogo dove dimoravano, ove egli vide uno scacchiere nobilissimo e ricco appiccato; il qual veduto, disse: - Sire, dilettatevi voi di giucare a scacchi, che io veggio sì bello scacchiere? -. Rispose Sadoc: - Sì, molto, e tu sai giucare? -. A cui Filocolo rispose: - Alquanto ne so -. Disse allora Sadoc: - E giuchiamo infino a tanto che questo caldo passi, che tu possa alla città tornare -. - Ciò mi piace molto, signor mio - rispose Filocolo.
- Fece adunque Sadoc in una fresca loggia distendere tappeti e venire lo scacchiere, e l’uno dall’una parte e l’altro dall’altra s’asettarono. Ordinansi da costoro gli scacchi, e cominciasi il giuoco, il quale acciò che puerile non paia, da ciascuna parte gran quantità di bisanti si pongono, presti per merito del vincitore. Giuocano adunque costoro, l’uno per guadagnare i posti bisanti, l’altro per perdere quelli e acquistare amistà. Filocolo giucando conosce sé più sapere del giuoco che ’l castellano. Ristringe adunque Filocolo il re del castellano nella sua sedia con l’uno de’ suoi rocchi e col cavaliere, avendo il re alla sinistra sua l’uno degli alfini; il castellano assedia quello di Filocolo con molti scacchi, e solamente un punto per sua salute gli rimane nel salto del suo rocco. Ma Filocolo a cui giucare conveniva, dove muovere doveva il cavaliere suo secondo per dare scacco matto al re, e conoscendolo bene, mosse il suo rocco, e nel punto rimaso per salute al suo re il pose. Il castellano lieto cominciò a ridere, veggendo che egli matterà Filocolo dove Filocolo avria potuto lui mattare, e dandogli con una pedona pingente scacco quivi il mattò, a sé tirando poi i bisanti; e ridendo disse: - Giovane, tu non sai del giuoco -, avvegna che ben s’era aveduto di ciò che Filocolo avea fatto, ma per cupidigia de’ bisanti l’avea sofferto, infignendosi di non avedersene. A cui Filocolo rispose: - Signor mio, così apparano i folli -. Racconciasi il secondo giuoco, e la quantità de’ bisanti si radoppiano da ciascuna parte. Il castellano giuoca sagacemente e Filocolo non meno. Il castellano niuno buon colpo muove ch’egli non dica: - Giovane, meglio t’era il tuo falcone lasciare andare che qua seguirlo -. Filocolo tace, mostrando che molto gli dolgano i bisanti: e avendo quasi a fine recato il giuoco, e essendo per mattare il castellano, mostrando con alcuno atto di ciò avvedersi, tavolò il giuoco. Conosce in se medesimo il castellano la cortesia di Filocolo, il quale più tosto perdere che vincere disidera, e fra sé dice: - Nobilissimo giovane e cortese è costui più che alcuno ch’io mai ne vedessi -. Racconciansi gli scacchi al terzo giuoco, accrescendo ancora de’ bisanti la quantità; nel principio del quale il castellano disse a Filocolo: - Giovane, io ti priego e scongiuro per la potenza de’ tuoi iddii, che tu giuochi come tu sai il meglio, né, come hai infino a qui fatto, non mi risparmiare -. Filocolo rispose: - Signor mio, male può il discepolo col maestro giucare sanza essere vinto; ma poi che vi piace, io giucherò come io saprò -. Incominciasi il terzo giuoco, e giuocano per lungo spazio: Filocolo n’ha il migliore: il castellano il conosce. Cominciasi a crucciare e a tignersi nel viso, e assottigliarsi se potesse il giuoco per maestria recuperare. E quanto più giuoca tanto n’ha il peggiore. Filocolo gli leva con uno alfino il cavaliere, e dagli scacco rocco. Il castellano, per questo tratto crucciato oltre misura più per la perdenza de’ bisanti che del giuoco, diè delle mani negli scacchi, e quelli e lo scacchiere gittò per terra. Questo vedendo Filocolo disse: - Signor mio, però che usanza è de’ più savi il crucciarsi a questo giuoco, però voi men savio non reputo, perché contro gli scacchi crucciato siate. Ma se voi aveste bene riguardato il giuoco, prima che guastatolo, voi avreste conosciuto che io era in due tratti matto da voi. Credo che ’l vedeste, ma per essermi cortese, mostrandovi crucciato, volete avere il giuoco perduto, ma ciò non fia così: questi bisanti sono tutti vostri -. E mostrando di volere i suoi adeguare alla quantità di quelli del castellano, ben tre tanti ve ne mise de’ suoi, i quali il castellano, mostrando d’intendere ad altre parole, gli prese dicendo: - Giovane, io ti giuro per l’anima del mio padre, che io ho de’ miei giorni con molti giucato, ma mai non trovai chi a questo giuoco mi mattasse se non tu, né similmente più cortese giovane di te trovai ne’ giorni miei -. Filocolo rispose: - Sire, di cortesia poss’io molto più voi lodare che voi me, con ciò sia cosa che io oggi per la vostra cortesia la vita n’aggia guadagnata. -
- Le parole in diversi ragionamenti tra costoro multiplicano, e il giorno se ne va: per che Filocolo, veggendo il sole che cercava l’occaso, li parve di partirsi, per che egli disse: - Signor mio, e’ mi si fa tardi d’essere alla città: però quando vi piaccia, con licenza vostra mi partirò -. Il castellano, che già della piacevolezza di Filocolo era preso, disse: - Cortese giovane, se non fosse che l’andare per queste parti di notte è per molte cagioni dubbioso, tu ceneresti meco questa sera; ma io ti priego che per amore di quella cosa che tu più ami, che domani tu torni a mangiare meco -. A cui Filocolo rispose: - Sire, per l’amore di voi, e per quello di colei da cui parte scongiurato m’avete, io non posso niuna cosa che in piacere vi sia, disdire; il comandamento vostro sarà fornito: rimanete adunque con la grazia degl’iddii -. - Gli iddii ad ogni tuo disio sempre siano favorevoli - rispose Sadoc. E Filocolo, salito a cavallo e da Sadoc partitosi, alla città in parte contento se ne tornò.
- Come egli alla città fu pervenuto, e smontato all’ostiere di Dario, l’ora essendo già tarda, trovò Dario e Ascalion e gli altri tutti attenderlo, i quali, come il videro, lieti gli si fecero avanti, dicendo: - Assai ci hai oggi fatto avere di te pensiero; dove se’ tu tanto dimorato? -. - Nelle mani della fortuna - rispose Filocolo, - la quale non così nimica m’è com’io reputava, ma forse de’ miei danni pietosa, mi comincia a mostrare lieto viso ne’ nostri avvisi, e sì fatto principio in quello che divisammo ho avuto, che appena ch’io ne possa altro sperare che grazioso fine -. E chiamati Dario e Bellisano e Ascalion in una camera, ciò che avvenuto gli era loro narrò. Lodano costoro gl’iddii, e a Dario piace tale cominciamento e consigliali l’andare a mangiare con lui e l’essergli cortese, dicendogli che d’oro e d’avere non dubitasse, che, poi che ’l suo donato avesse, quanto egli n’avea in suo servigio ponesse sicuramente, ricordandogli che con discrezione proceda, ad ogni uomo celando il suo segreto, fuori che al castellano, quando luogo e tempo gli parrà. Ringrazialo Filocolo: prendono il cibo e vannosi a posare. Ma gli altri dormono e Filocolo ferma nella mente con molti ragionamenti ciò che al castellano dee dire, e quello che con lui vuol fare, e che movimento deggia il suo essere a dovergli narrare il suo segreto. Molte vie truova, e ciascuna pruova in se medesimo, e le migliori riserba nella memoria. Poco abandonano la notte le sollecitudini lo ’nnamorato petto, e la notte, che già maggiore gl’incominciava a parere che l’altre, si consuma: e il chiaro giorno rallegra il mondo. Levasi Filocolo, e tacitamente e con discrezione ordina ciò che davanti al sonno la notte avea pensato; e venuta l’ora ch’egli estimò convenevole, soletto se ne cavalcò alla torre. Quivi dal castellano con mirabile onore è ricevuto, e le tavole preste niuna cosa aspettano se non loro.
- Dopo alcuni ragionamenti s’asettano costoro alle tavole, come piacque al castellano, e con gran festa mangiano splendidamente serviti. E già presso alla fine del mangiare, Filocolo cominciò a dubitare non corto venisse il suo avviso ad effetto, però che già tempo gli parea, con ciò fosse cosa che altro non restasse al levare delle tavole se non le frutta. Ma mentre che in tale pensiero alquanto alterato dimorava, Parmenione giunse quivi il quale contentò assai Filocolo nella sua venuta, e salito in su la sala, nelle sue mani recò la bellissima coppa e grande d’oro, la quale con gli altri tesori Felice re ricevette per pregio della giovane Biancifiore dagli ausonici mercatanti, e quella piena di bisanti d’oro, tanto grave che appena avria più Parmenione potuto portare, coperta con uno sottilissimo velo, davanti Sadoc la presentò, dicendo: - Bel signore, quel giovane al quale voi ieri per vostra benignità la vita servaste, avendo egli per sua presuntuosità la morte guadagnata, questa coppa con questi frutti che dentro ci sono, i quali nel suo paese nascono, vi presenta, e, appresso, sé e le sue cose offera, al vostro piacere apparecchiate -. Vedendo questo Sadoc, e ascoltando le parole da Parmenione dette, tutto rimase allenito e con cupido occhio rimirò quella, nel cuore lieto di tal presente. Nondimeno, della magnanimità e cortesia di Filocolo maravigliandosi molto, e rivolto dove Filocolo sedeva, con benigno aspetto il riguardò, e poi disse: - Grande e nobile è il presente, e prezioso è il terreno che sì fatti frutti produce: e se non che egli mi si disdice l’essere villano verso di chi a me è stato cortese, forte saria che io tal presente prendessi, però che a Giove saria grandissimo e accettevole cotale dono -. E fatta prendere la coppa di mano a Parmenione, gli disse: - Voi potrete di colui che vi manda pensare quello che del più nobile uomo del mondo si possa dire, e però che io mi sento insofficiente a rendere grazie convenevoli di tanto dono, a quelle non procedo, se non che per questo: egli ha me, e le mie cose, e ciò che per me si potesse, sì a sé obligato, quanto io potessi essere più -. Parmenione, fatta convenevole riverenza, si partì.
- Rimasi costoro insieme, e levate le tavole, per li pensieri del castellano niuna cosa andava, se non la gran nobiltà che gli parea quella di Filocolo, e con effetto in sé dicea: - Che potre’ io per degno merito di tanta larghezza fare a costui, acciò che io interamente gli potessi mostrare quant’io per lui farei, e quant’io sia di tal dono conoscente? -. E poi a se medesimo rispondea. - Tu se’ sì suo, che tu mai interamente mostrare non gliele potresti, salvo se gran bisogno non gli venisse, ove tu la persona e l’avere per lui disponessi -. Ma dopo questo, volendo a Filocolo parte del suo buon volere dimostrarli, con seco in una camera solo il chiamò, e quivi amenduni postisi a sedere, così cominciò con lui a ragionare:
- - Giovane, per quella fé che tu dei agl’iddii e per l’amore che tu porti a me, aprimisi la tua nobiltà, acciò che io, di quella pigliando essemplo, possa nobile divenire. Io vidi già ne’ miei dì molti nobili uomini, chi per antico sangue, chi per infiniti tesori, chi per be’ costumi, e chi per una maniera e chi per un’altra; ma e’ non mi soviene che io mai così nobile cosa, come tu se’ vedessi. Che operai io mai, o che potrei per te operare, che un tanto e tale dono mi si convenisse? Io porto oppinione che tu trapassi di piacevolezza e di cortesia tutti gli uomini del mondo -. A costui rispose così Filocolo: - Signor mio, non vogliate me rozzo ancora ne’ costumi con queste parole schernire. Io non seguo nobiltà di cuore in queste operazioni, però che non ci è, ché io sono di picciola radice pianta, ma ricordomi d’avere già così veduto fare a mio padre, i cui essempli io seguito: e similmente conosco che io non potrei mai fare tanto che alla vostra nobiltà aggiugnere potessi, o che d’onore a quella più non si convenisse. Ma voi mi porgete ammirazione col dire che mai per me non operaste, perché questo io operare dovessi. Ora crediate che se la mia vita più tempo si lontanasse che quella di Dandona o di Zenofanzio non fece, mai della memoria mia non si partirà l’essere per la vostra benignità vivo, come già oggi udiste ch’io riconosco. E quando questo non fosse stato, sarebbe inlicita cosa a fare, là dove amichevole amore di due cuori fa uno, niuna cosa a fine di servigio ricevuto, o che ricevere per inanzi si deggia, avvegna che questo a me appropiare non posso, però che, come già dissi, da voi la vita tengo, e conoscovi tanto e tale, ch’io non dubito che voi più che altro uomo del mondo per me potete operare. E però non solamente coloro da’ quali l’uomo ha i servigi ricevuti sono da essere onorati, ma quelli ancora che possono per inanzi servire -. Il castellano, ferventissimo a’ piaceri di Filocolo, udendolo dire lui poterlo più ch’altro mai servire, con molti scongiuri lo strigne ch’egli non gli celi il dì, che fido d’essere così da lui servito, come se medesimo servirebbe. Più volte a questa dimanda tacque Filocolo, e ’l castellano più volte, ognora più acceso, desiderava di sapere in che a Filocolo potesse servire. La qual cosa vedendo Filocolo, più volte volle il suo disio palesare, e infino al proferire recò le parole, e poi dubitando le tirava indietro, in altre novelle volgendo le sue parole. Ma il castellano, avendo proposto pur di volere sapere in che servire lo potesse, non restava d’incalciarlo, ogni novella rompendogli, e che ciò gli dicesse pregandolo, non pensando che dovesse riuscire a quello che fece. Filocolo, così incalciato, e più ognora dubitando, per avventura si ricordò d’un verso già da lui letto in Ovidio, ove i paurosi dispregia dicendo: ’La fortuna aiuta gli audaci, e i timidi caccia via’; e vedendo manifestamente che tra lui e la fine del suo disio era questo in mezzo e che parlare gli convenia s’egli servigio volea ricevere, allargò le forze al disiderante cuore, e propose di dare via alle parole, e cominciò così:
- - Signore, però ch’io non dubito che quello di che io vi priegherò, e a che voi mi stringete che io vi prieghi, voi il potrete fare, e potreste molto maggiori cose, io vi paleserò ciò che il dubitoso cuore infino a qui ha celato a tutta gente. E però che io nel parlare e nell’operare non sono il primo errante, vi priego che se forse alcuna cosa io dicessi forse oltre al dovere detta, che voi mi perdoniate, e come padre mi riprendiate; e se quello ch’io dimando per voi si può adempiere, io vi priego, per quello effettuoso amore che le vostre parole mostrano che mi portiate, che voi sanza alcuna scondetta e sanza indugio di ciò mi serviate. Io nelle vostre mani e della fortuna la mia vita rimetto: e acciò che bene vi sia chiaro il mio intendimento, vi dico così, ché mia credenza è, che, poi che Febo ebbe di Danne penneia il cuore per amore passato, io non credo che mai alcuno fosse tanto innamorato quanto io sono. E certo le mie operazioni il dimostrano, ché io venuto di Spagna infino in questo luogo sono con molte tribulazioni e noie, cercando prima il ponente tutto, e poi ciascuna isola che tra qui e Partenope dimora, disiderando di ritrovare Biancifiore, a me furtivamente levata e venduta a’ mercatanti. Hammi qui la fortuna balestrato, ov’io di lei per risponso d’alcuno iddio ho trovato novelle, e voi ieri la ricordaste. E per quello ch’io abbia per lo ragionamento di molti uomini nella mente raccolto, ella in questa torre sotto la vostra guardia dimora, di che io assai mi contento più che se in altra parte fosse. Avendomi gl’iddii a questo partito recato, che io sia vostro com’io mi tengo ora, com’io davanti vi dissi, amore per lei oltre ogni sua legge mi stimola. E certo se io volessi particularmente narrarvi quanti pericoli io ho già per l’amore di lei corsi, e quanto io l’ami, prima il dì saria dalla notte chiuso, e quella, esso ritornando, cacciata; ma però che, com’io credo, già in parte tal vita provaste, e per quella il mio tutto potete comprendere, non mi stendo in più parole, se non che quello che io da voi avere disidero è questo, l’una delle due cose: o che io dalle vostre mani sia ucciso o che voi a Biancifiore parlare mi facciate. Priegovi che quella vita ch’io per voi porto, per voi non pera -. E non potendo avanti parlare, stretto da’ singhiozzi del pianto, si tacque.
- Il castellano ascoltò queste parole con intero intendimento; e raccolto tutto in sé, così fra sé cominciò a dire: - Ben m’ha costui con sottile ingegno recato a quello che io non credetti mai che alcuno mi recasse, ma avvenga che vuole, io terminerò i suoi affanni a mio potere. Di ciò mi può la fortuna fare corta noia, se contro a me per questo si volesse voltare; io sono omai vecchio, né mai notabil cosa per alcuno feci: ora nella fine de’ miei anni, in servigio di sì nobile giovane come costui è, voglio il rimanente della mia vita mettere in avventura. Se io il servo e campo, gran merito appo gl’iddii acquisterò; se io per servirlo muoio, la fama di tanto servigio toccherà l’uno e l’altro polo con etterna fama -. Così adunque deliberato di fare in se medesimo, riguardò Filocolo nel viso: e veggendo le sue lagrime e gli ardenti sospiri, non si poté per pietà tenere, ma con lui pianse. E dopo alquanto così gli cominciò a parlare:
- - Filocolo, con sottili arti hai rotti i miei proponimenti, e certo la tua nobiltà e la pietà delle tue lagrime hanno piegata la mia durezza: e però confortati. Io disidero di servirti, e di ciò che pregato m’hai sanza fallo ti servirò. Aiutinci gl’iddii a tanta impresa, e la fortuna, nelle cui mani ci rimettiamo, non ci sia avversa. Non lagrimare più, ma alza il viso, e ascolta qual via sia da noi da esser tenuta -. Piacquero a Filocolo queste parole, e alzò il viso. A cui Sadoc disse: - Giovane, io ho in brieve spazio di tempo per la mia mente molte vie cercate per recare sì alto disio, come il tuo è, ad effetto, né alcuna ne truovo che buona sia a tal cosa recare a fine se non una sola, la quale è di non picciolo pericolo, ma di grande. Tu hai gran cosa dimandata, alla quale per picciolo affanno non si può pervenire: e però ascolta. Se a te dà il cuore di metterti a tanta ventura, io mi sono ricordato che di qui a pochi giorni in queste parti si celebra una festa grandissima, la quale noi chiamiamo de’ cavalieri. In quel giorno i templi di Marte e di Venere sono visitati con fiori e con frondi e con maravigliosa allegrezza: il quale giorno io avrò fatto per li vicini paesi le rose e’ fiori tutti cogliere, e in tante ceste porre, quante damigelle nella torre dimorano; e guardole in questo prato davanti la torre, dove l’amiraglio coronato e vestito di reali drappi con grandissima compagnia viene, e di ciascuna cesta prende rose con mano a suo piacere, e secondo che egli comanda, così poi le collo sopra la torre, faccendo chiamare quella a cui dice che data sia. E però che la tua Biancifiore la più bella è di tutte, sempre prima che alcuna altra è presentata, io ti porrò, se tu vuoi, in questa cesta che a Biancifiore presentare si dee, e coprirotti di rose e di fiori quanto meglio si potrà. Ma s’egli avvenisse che la fortuna, nimica de’ nostri avvisi, ti scoprisse e facesseti al signore vedere, niuna redenzione saria alla nostra vita. Vedi omai il pericolo: pensa quello che da fare ti pare. Se egli non se n’avvedrà, tu potrai con lei essere alquanti giorni: poi s’avviene che esso alcuna volta, sì come egli suole spesso a mangiare salirvi, vi salga, in forma d’uno de’ miei sergenti te ne trarrò. Altra via nulla ci è. Egli tiene di tutte le porti le chiavi, se non di questa la quale tu vedi aperta, la quale io ho in guardia -. Filocolo, pieno d’ardente disio, a niuno pericolo, a niuna strabocchevole cosa che avvenire possa, pensa, ma subito risponde che egli a questo pericolo e ad ogni maggiore che avvenire potesse è presto, affermando che per grandissimi pericoli e affanni si convenga pervenire a alte cose.
- Finiscesi adunque con questo proponimento il loro consiglio, e con fede e con giuramento insieme si legano, l’uno d’osservare la ’mpromessa e l’altro di tacere. E così Sadoc, dato il giorno a Filocolo che egli a lui ritorni, confortandolo da sé l’accomiata. E Filocolo torna alla città contento, e tanto lieto che appena il può nascondere, disiderando che mai il termine posto venga: e ogni ora gli parea più lungo spazio di tempo che non era stato quello che tribolato avea, Biancifiore cercando.
- O avarizia, insaziabile fiera, divoratrice di tutte le cose, quanta è la tua forza! Tu sottilissima entratrice con disusate cure ne’ mondani petti rompi le caste leggi. Tu con grosso velo cuopri il viso alla ragione. Tu rivolgi la ruota contra ’l taglio della giusta spada. Tu spezzi con disusata forza i freni di temperanza, e levi a fortezza le sue potenze. Tu, o insaziabile appetito, rechi necessità ne’ luoghi d’abondanza pieni. Tu, o iniqua, non sai che fede si sia. Tu puoi i pietosi cuori rivolgere in crudeli. Che più dirò di te, se non che puoi la fama per la infamia far lasciare e gli etterni regni per li terreni abandonare? Chi avria mai potuto, o guastatrice d’ogni virtù, credere che pascendoti ampiamente nel petto di Sadoc, la sua fierità in vilissima lenonia si mutasse per te? Forti cose paiono a pensare le tue operazioni!
- Viene il nominato giorno, Filocolo sollecito torna a Sadoc. Niuno amico sa la sua andata: e dovendo la vegnente mattina Filocolo nascondersi ne’ fiori quella notte si dorme con Sadoc, della quale la maggior parte consuma in divoti prieghi. Niuno iddio rimane in cielo, a cui le sue voci non si muovano. A tutti promette graziosi incensi se a questo punto l’aiutano, e Marte e Venere più che gli altri sono pregati: e ultimamente gl’iddii degli ombrosi regni di Dite da lui sono tentati divotamente d’umiliare, acciò che a’ suoi disii non si oppongano. Ma poi che ella, al suo parere lunghissima, trapassa, e appressasi il giorno, essi due soli si levano, e trovata la cesta, Filocolo vi si mette dentro, raccolto in quella guisa che egli può il meglio, e quivi entro Sadoc maestrevolemente molto il cuopre di fiori e di rose, ammaestrandolo che cheto si tenga. E posti di fiori sopra lui grandissima quantità, così acconcio, con l’altre ceste davanti al signore già venuto nel prato, dove similemente quasi tutto il popolo della città era raccolto per tal festa vedere, le presenta, alla guardia di quelle continuo dimorando.
- O amore, nemico de’ paurosi, quanta è maravigliosa la tua potenza, e quanto furono le tue fiamme ferventi nel petto di Filocolo! Quale strabocchevole via fu mai usata per te quale fu quella che Filocolo ebbe ardire di tentare? A Leandro non era il mare contrario, e a Paris era di lungi il nimico; a Perseo la sua forza era mediante, e Dedalo per la sua salute, essendogli chiuso il mare e la terra, con maestrevoli ali fuggì per l’aere. Gran cosa fa fare il fuggire la morte, gran fidanza rende l’uomo a se medesimo combattente, e le follie de’ mariti spesso sono cagione d’adulterii alle mogli, e le larghezze delle vie fanno volonterosi gli uomini molte volte ad andare per quelle. Ma costui non larga via si vedea, non assenza di nimico, non disposto a potere per sua forza campare, non fuggire morte, ma più tosto seguirla a quello mettendosi. Egli pose la sua vita sotto la fede d’uomo che mai fede non avea conosciuta, e sotto sottili frondi di rose, le quali dalle più picciole aure sariano potute muovere, e scoprirlo nel cospetto del nimico. Egli diede il vivo corpo all’essere immobile come morto. Tu porgi più forza e più ardire che la natura medesima. Quello che Filocolo non avea avuto ardire di dimandare al padre, solamente ora in pericolo da non potere pensare, davanti al nimico la cerca. Oh, quale amante! Oh, quanto da essere amato! Oh, quanto Biancifiore più ch’altra misera si poria riputare, se di ciò le disavvenisse che Filocolo ha impreso! Oh, quanta saria la sua paura se ella consapevole fosse di queste cose! Certo io non so vedere quale ella si fosse, o più dolorosa perdendolo, o più contenta tenendolo.
- Il signore comanda che la più bella cesta di fiori gli sia presentata davanti. Sadoc presto quella dove Filocolo timido, come la grua sotto il falcone o la colomba sotto il rapace sparviere, dimorava, gli porta avanti. O iddii, o santa Venere, siate presenti, difendete da tanti occhi il nascoso giovane. Mise allora l’amiraglio le mani in quella, e pensando a Biancifiore, a cui mandare la dovea, tanto effettuosamente di quelle prese, che de’ biondi capelli seco tirò, ma nol vide. Quale allora la paura di Filocolo fosse io nol crederei sapere né potere dire, però chi ha punto d’ingegno il si pensi: egli fu quasi che passato agl’immortali secoli, appena vita gli rimase, e quasi di tremore tutto si mosse, ma la santa dea, presente, il ricoperse con non veduta mano; e levato da Sadoc e da molti altri del cospetto dell’amiraglio, il quale avea comandato che per amore di lui a Biancifiore si presentasse, fu portato a piè della torre. E quivi fatta chiamare Glorizia, la quale al servigio di Biancifiore dimorava, fece la cesta collare suso ad una finestra. Ma Filocolo, quasi stordito ancora della paura, non intese chi chiamata si fosse, ma fermamente si credette da Biancifiore dovere essere ricevuto. Per che egli già a Glorizia vicino, disideroso di vedere Biancifiore, si scoperse il viso. La qual cosa quando Glorizia vide, non riconoscendolo, subito gittò un grandissimo strido, e ritornatole alla memoria chi costui era, ricopertogli il viso, che già dalle sante mani era stato ricoperto, tacitamente il riconfortò dicendo: - Non dubitare, io ti conosco -. Ma già tutte le compagne erano là corse dicendo: - Glorizia, che avesti tu che tu sì forte gridasti, né t’è nel viso colore alcuno rimaso? -. Alle quali ella rispose: - Io non ebbi, care compagne, già mai tale paura, però che volendo io prendere la cesta de’ fiori, e in essi sicuramente mirando, subitamente uno uccello uscì di quelli e nel viso mi ferì volando: per ch’io, temendo d’altro, così gridai -. E poi ella sola presa la cesta con l’aiuto della invisibile dea, nella gran camera e bella di Biancifiore la portò, e serratasi dentro, lo ’nnamorato giovane con le rose insieme della cesta trasse, e con ismisurata allegrezza abbracciandolo gli fece lunga festa, e appena in sé credea che essere potesse vero ciò ch’ella vedea. Di molte cose il dimandò, e molte a lui ne disse, avanti che interamente fosse certa ch’egli, cui ella vedea, fosse Florio.
- Dimorato Filocolo per alquanto spazio nella bella camera solo con Glorizia, le bellezze di quella con ammirazione riguardando, e vedendo che bene era vero ciò che Dario detto ne gli avea, e più, domandò Glorizia che di Biancifiore fosse. A cui Glorizia quello che n’era, e che ne fu poi che venduta era stata, interamente gli disse, tanto che di pietà a lagrimare il mosse. E poi così le disse: - O Glorizia, cara sorella, di grazia ti priego che tosto vedere la mi facci, però che io ardo del disio, e appena credo tanto vivere ch’io la vegga -. A cui Glorizia disse: - Caro signore, ciò che tu mi di’ io credo, e di lei il simigliante ti posso dire: ella non crede mai te poter vedere. Ma però che la fortuna, infino a qui stata in ogni cosa a voi contraria, non possa per poco avedimento più nuocervi, se ti piace, alquanto m’ascolterai, e s’io dico bene, segui il mio consiglio.
- "Egli è usanza qua entro, che quando tutte le giovani donzelle avranno ciascuna le sue rose ricevute, di venirsene qui in questa camera, e di qui andare nell’altre camere, faccendo festa insieme, né a ciò alcuna può prendere scusa, e questo potrai tu vedere: onde io dubito che se io dicessi a Biancifiore che tu qui fossi e mostrassileti, non avvenissero due cose, o l’una delle due, le quali sono queste. La prima è che mi pare manifestamente vedere che s’ella ti vedesse, impossibile saria da te partirla mai, e dimorando teco, e non fosse con le donzelle a far festa, di leggiere esse ne porriano meno che bene pensare, e porriane agevolmente male seguire; appresso ho che peggio che questo ch’è detto saria, ch’io so che, vedendoti ella, saria tanta la sua letizia, che di leggieri quello che ’l dolore non ha potuto vincere, cioè il tribolato cuore, l’allegrezza il vincerebbe. E già sappiamo che avvenne, e tu il puoi avere udito, di Mivenzio Stavola, di Sifocle e di Filone, i quali ne’ duri affanni vivuti, per allegrezza morirono. Ma, acciò che né l’una né l’altra di queste cose avvenga, si potrà così fare: acciò che tu contenti il tuo disio, e il suo festeggiare con l’altre non manchi, io in una camera a questa contigua ti metterò, della quale tu potrai ciò che in questa si farà vedere. Quivi dimorando tu tacitamente, io, sanza dire a Biancifiore alcuna cosa che tu qui sii, qua entro con le sue compagne la farò venire, dove tu la potrai, quanto ti piacerà, vedere. E questo, per rimedio del primo male che avvenire ne poria, e per contentamento di te, tutto questo giorno infino alla notte ti basti. E acciò che l’altro non avvenga, per mio consiglio terrai questa via: io ti trarrò di quindi, e dietro alle cortine del suo letto, le quali io basserò, che ora stanno levate come tu vedi, ti nasconderò. Quivi tacitamente dimorerai tanto che coricata e dormire la vedrai, e poi che addormentata sarà, siati licito fare il tuo disio. Sono certa che ella, destandosi nelle tue braccia, diverrà piena di paura avanti che ti conosca, ma poi veggendoti, conoscendo, la paura, a poco a poco partendosi, darà luogo moderatamente all’allegrezza, e così l’uno e l’altro dubbioso pericolo fuggiremo. Se altro forse avvenisse, io vi sarò assai vicina, e lei caccerò col mio parlare d’ogni errore -. Piacque a Filocolo questo consiglio, ancora che grave gli paresse il dovere tanto aspettare. Per che Glorizia in quella camera il menò, e sotto grave giuramento promettere si fece che egli più avanti non faria che quello che essa l’avea consigliato. E partitasi da lui e serratolo dentro, dov’era Biancifiore se ne venne.
- Trovò Glorizia Biancifiore sopra un letto d’una sua compagna giacere boccone piena di malinconia e di pensieri, e quasi tutta nell’aspetto turbata, a cui ella cominciò così a dire: - O bella giovane, che pensieri sono questi? Qual malinconia t’occupa? Leva su, non sai tu che oggi è giorno da festeggiare e non da pensare? Già tutte le tue compagne hanno le rose e’ fiori ricevute, e fanno festa, e te solamente aspettano; leva su, vienne: non sono tutti i giorni dell’anno igualmente da dolersi -. A cui Biancifiore rispose: - Madre e compagna mia, a me sariano da dolere tutti i giorni dell’anno s’egli n’avesse molti più che non ha, e massimamente questo giorno nel quale noi dimoriamo, ché se della memoria non t’è uscito, in cotal giorno nacqui io, e colui similemente per cui io mi dolgo. Non ti torna egli a mente che in questo giorno l’empio re suo padre ci soleva insieme di bellissimi drappi vestire, e solavamo della nostra natività fare maravigliosa festa? E ora, imprigionata, da lui lontana, non so che di lui si sia, né m’è possibile il vederlo, né di lui alcuna novella udire! Non credi tu che mi vadano per la mente i dolorosi accidenti, che avvenire possono e avvengono tutto giorno a’ viventi? Ora che so io se ’l mio Florio vive? Che similmente so io se egli ha me messa in oblio per l’amore d’un’altra giovane? Che so io se mai i’ ’l debbo rivedere? Come, pensando queste cose, pensi tu che io possa lieta dimorare o fare, come l’altre fanno, festa, con ciò sia cosa che, qualunque l’una di queste avvenisse, io non vorrei più vivere? E pur conosco tutte esser possibile ad avvenire: ma certo se io sapessi pure a che fine gl’iddii mi debbono recare, io avrei alcuna cagione di conforto, se buona la sentissi. Elli m’hanno lungo tempo con la speranza che io ho avuta nelle loro parole con meno dolore nutricata, ma ora veggendo che ad effetto non vengono, tutto il dolore, che per adietro a poco a poco dovea sentire, raccolto insieme tutto mi tormenta: per che parendomi che gl’iddii come gli uomini abbiano apparato a mentire, più di piangere che di far festa m’è caro -.
- Queste parole udite, Glorizia così cominciò a parlare: - Bella figliuola, assai delle tue parole e di te mi fai maravigliare. Come hai tu oppinione che Iddio possa mentire già mai, con ciò sia cosa ch’egli sia sola verità? Non escano più di te queste parole, ma credi fermamente ciò che t’è da lui promesso doverti essere osservato: ma alla persona che molto disia, ogni brieve termine gli par lungo. Credi tu, perché tu sii qui poco più d’un anno dimorata, essergli però uscita di mente, e ch’egli non ti possa bene le sue promesse attenere? Ma quanto più dimori sanza riceverla, tanto più t’appressi a doverla prendere. E non voglia Iddio che sia ciò che tu di Florio pensi, che morte, o altro amore che ’l tuo, l’abbia occupato o l’occupi mai. Di questo ti rendi certa: che egli vive e amati e cercati, e di qua entro ti trarrà sua, se non m’inganna l’oppinione che io ho presa d’una nuova visione, che nel sonno di lui e di te questa notte m’apparve -. A queste parole si dirizzò Biancifiore dicendo: - O cara madre, dimmi, che vedesti? -. - Certo - rispose Glorizia - e’ mi parea vedere nella tua camera il tuo Florio esser venuto, non so per che via né per che modo, e pareami ch’egli avesse indosso una gonnella quasi di colore di vermiglia rosa, e sopr’essa un drappo, il cui colore quasi simigliante mi parea a’ tuoi capelli, e pareami tanto lieto, quanto mai io il vedessi, e rimirava te solamente, che nel tuo letto soavemente dormivi. A cui e’ mi parea dire: "O Florio, come, o perché venisti tu qui?". E egli mi rispondea: "Del come non ti caglia, ma il perché ti dirò: io, non potendo sanza cuore dimorare, per esso venuto sono qui, però che costei che dorme il tiene, né mai di qui sanza esso mi partirò. Quelli iddii che all’aspra battaglia m’aiutarono, quando la sua vita dalle fiamme campai, m’hanno promesso di renderlami, e a loro fidanza per essa venni". Tu allora mi parea che ti svegliassi e piena di maraviglia riguardandolo, appena credevi ch’egli desso fosse, ma poi riconosciutolo, grandissima festa faciavate. La quale mentre ch’io riguardava, tanta era l’allegrezza che nel cuore mi crescea, che non potendola il debole sonno sostenere, si ruppe: per che io spero che la tua speranza non fia vana. E parmi fermamente credere che egli cercando te sia in questo paese, e che tu forse ancora, anzi che lungo tempo sia, quella allegrezza, che tu con lui solevi in questo giorno fare, farai: però confortati, e fortifica la tua buona speranza -. Udendo queste parole Biancifiore si gittò al collo a Glorizia, e abbracciatala cento volte o più la baciò, dicendo: - Cara compagna, gl’iddii rechino ad effetto quello che tu pensi! Ma io non so vedere come fare si potesse, posto ch’egli pur fosse a’ piè di questa torre, ch’egli mi parlasse o mi riavesse, se bene consideriamo sotto che guardia dimoriamo -. Disse Glorizia: - Non sta a te il dover pensare che via Iddio gli si voglia mostrare a riaverti: non è da pensare che quelli, che altra volta l’aiutò, ora l’abandoni -.
- Levossi adunque per i conforti di Glorizia Biancifiore, e con l’altre cominciò a far festa, secondo che usata era per adietro. Elle aveano già tutte le rose prese: per che di quelle portando grandissima quantità alla camera di Biancifiore, con quella in quella n’andarono, e con dolci voci cantando, e tale sonando con usata mano dolci strumenti, e altre presesi per mano danzando, e altre faccendo diversi atti di festa, e gittando l’una all’altra rose insieme motteggiandosi, e Biancifiore similmente, non sappiendo che da Filocolo veduta fosse, con quelle sì festeggiava, gittando spesso grandissimi sospiri. E in questa maniera nella sua camera e in quelle dell’altre tutto quel giorno dimorarono. Ma Filocolo, che per picciolo pertugio vide nella bella camera entrare Biancifiore, di pietà tale nel viso divenne, quale colui che morto a’ fuochi è portato; e la debolezza dello innamorato cuore cacciò fuori di lui un sudore che tutto il bagnò, e con tramortita voce, gittato un gran sospiro, disse pianamente: - Oimè, ch’io sento i segnali dell’antica fiamma! -. E poi in sé ritornato e renduta al cuore intera sicurtà e forza, con diletto cominciò a rimirare quella che solo suo bene, solo suo diletto, solo suo disio riputava, e fra sé, più bella che mai riputandola, dicea: - O sommi iddii immortali, come può egli essere che io qui sia e vegga la mia Biancifiore? Essaltata sia la vostra potenza! -. E rimirando Biancifiore, si ricordava di tutti i passati pericoli, i quali nulli essere stati estimava veggendo lei, tenendo che per così bella cosa a molto maggiori ogni uomo si dovria mettere. Poi fra sé diceva: - Deh, Biancifiore, sai tu ch’io sia qui? Se tu il sai, come ti puoi tu tenere di venirmi ad abbracciare? E se tu nol sai, perché t’è tanto bene celato e tanta gioia quanta io credo che tu avresti vedendomi? Come ti poss’io sì presso dimorare che tu non mi senta? Mirabile cosa mi fai vedere, con ciò sia cosa che a me non prima giugnendo in questi porti vidi la terra, che ’l cuore cominciò a battere forte, sentendo la tua potenza: e questo fu alla mia ignoranza infallibile testimonio che tu qui eri. Oh, se il mio iniquo padre e la mia crudele madre che io per te a tale pericolo mi fossi messo, quale io sono, e ora così vicino ti stessi com’io sto, sapessero, appena ch’io creda che la paura e ’l dolore non gli uccidesse! Deh, quanto m’è tardi che io manifestare mi ti possa! Io non posso rimirandoti sentire perfetta gioia, sappiendo che tu nol sappi -. In questa maniera servito da Glorizia celatamente dimorò Filocolo tutto il giorno, il quale egli estimava che mai meno non venisse, tanto gli parea più che gli altri passati maggiore, e ben che lungo gli paresse, non però di mirare Biancifiore in quello si poté saziare. Ma poi che ’l giorno alla sopravegnente notte diede luogo, Glorizia, acconciato il letto di Biancifiore e bassate le cortine, trasse Filocolo del luogo dove stava, e lui di dietro alle cortine, come detto gli avea, ripose, pregandolo che s’attendesse e in quella maniera facesse che a lei la mattina promesso avea.
- Mancati i giuochi e le feste delle pulcelle per la sopravenuta notte, Biancifiore con Glorizia se ne vennero nella gran camera per dormirsi. E sì come per adietro erano usate, cominciarono di Filocolo nuove cose a ragionare e molte: e Biancifiore, che una cintoletta di Florio avea, la quale lungo tempo avea guardata, quella tenendo in mano, altro che baciarla non facea. E in questa maniera dimorando, Glorizia disse: - Biancifiore, se Iddio ciò che tu disideri ti conceda, vorresti tu che Florio fosse qui teco ora in diritto? -. Gittò allora Biancifiore un gran sospiro, e poi disse: - Oimè, di che mi domandi tu ora? E’ non è niuna cosa nel mondo che io più tosto volessi, che io vorrei che Florio qui fosse, ben che male sia a disiderare ciò che non si può avere: avvegna che, se io che sono femina fossi fuori di questa torre, come io imprigionata ci sono dentro, e la mia libertà possedessi, com’io credo ch’egli la sua possegga, io non dubiterei d’andarlo per tutto il mondo cercando, infino che io il troverei; e se avvenisse che, così com’io dimoro rinchiusa, egli rinchiuso dimorasse, niuna via sarebbe che io non cercassi per essere con lui; e quando ogni via da potere essere con lui mi fosse tolta, certo io m’ingegnerei di commettermi a’ paurosi spiriti, che mi vi portassero. Non so se questo egli per me facesse -. - Come - disse Glorizia - vorresti tu metter Florio a tanto pericolo, quanto gli potrebbe seguire, se egli venisse qui? Non pensi tu che, se l’amiraglio in alcun modo se n’avedesse, tu e egli morreste sanza alcuna redenzione? -. - Certo - disse Biancifiore - credere dei che niuno suo pericolo io vorrei: prima il mio disidererei. Ma se io avessi lui testeso alquanto, della mia morte io non mi curerei, se avvenisse che però morire mi convenisse, anzi contenta n’andrei agl’immortali secoli: ma se a lui altro che bene avvenisse, oltre misura mi dorrebbe. E certo io m’ucciderei avanti che io vedere lo volessi -. - Or ecco - disse Glorizia - tu nol puoi avere; egli non c’è, né ci può venire: è alcuno altro che tu disiderassi o, che poi che tu non vedesti lui, ti sia piaciuto? -. Con turbato viso rispose Biancifiore e disse: - O Glorizia, per quello amore che tu mi porti, più simili parole non mi dire. Elli non è nel mondo brievemente uomo cui io disideri né che mi piaccia, se non egli: e poi ch’io lui non vidi, e’ non mi parve vedere uomo, non che alcuno me ne piacesse, avvegna che egli a torto ebbe già oppinione ch’io amassi Fileno, il quale me molto amò, ma da me mai non fu amato. Cessino gl’iddii da me che alcuno mai me ne piaccia se non Florio, o che io d’altrui che sua sia già mai, mentre queste membra in vita saranno col tristo corpo: e poi che l’anima ancora di questo si partirà, ove che ella vada, sarà sua e lui a mio potere seguirà. E voglioti dire nuova cosa, che poi che tu stamane mi dicesti la veduta visione, entrando io in questa camera, il cuore mi cominciò sì forte a battere, che mai non mi ricorda che sì forte mi battesse, e giuroti per gli etterni iddii che ovunque io sono andata o stata, e’ m’è paruto avere allato Florio: per che io porto ferma speranza ch’egli per lo mondo mi cerchi, come tu mi dicesti che credevi, e forse in questo paese dimora -. - Siene certa - le disse Glorizia.
- Andavasene la notte con queste parole, e Filocolo di dietro alla cortina ascoltava il ragionare di queste due e tal volta di nascosa parte Biancifiore rimirava, e con ferventissimo disio volea dire: - Io son qui, il tuo Florio, il quale tu tanto disideri! -. Ma per la promessa fede e per paura del mostrato pericolo si ritenea: elli gli parea ogni ora un anno che Glorizia tacesse, e Biancifiore andasse a dormire; ma del suo disio il contrario avvenia, che mai Biancifiore tanto vegghiato non avea, quanto quella sera, invescata alle parole di Glorizia, vegghiava. Ma poi che Glorizia, vinta dal sonno, lasciò Biancifiore e nella vicina camera andò a dormire, Biancifiore si coricò nel ricco letto, e per quello stendendo le braccia, e più volte cercandolo tutto, non potendo dormire, così quasi piangendo cominciò a dire:
- - O Florio, sola speranza mia, gl’iddii ti concedino migliore notte che io non ho; gl’iddii ti conservino in quella prosperità e in quel bene che tu disideri, e a te e a me concedino ciò che licito non ci fu potere avere, e mettanti in cuore di ricercarmi, avvegna che assai lontana ti dimori. Ma saper puoi che per amore di te io sostengo le non meritate tribolazioni; e però quello amore che me non lasciò vincere alla paura, che del tuo padre avere dovea, che io pure non ti amassi, vincati a far sì che io da te sia ricercata. Non ti ritengano le minacce del tuo padre, né le lusinghe della tua madre. Spera, ché io non ho altro bene nel mondo che te, né d’altrui attendo soccorso se non da te. O dolce Florio, possibile mi fosse ora nelle mie braccia ritrovarti! Oh quanto bene avrei! Certo io non crederei che la fortuna o gl’iddii mi potessero poi far male. Io ti bacerei centomila volte; e appena che queste mi bastassero! Oh quante volte sarieno da me baciati quelli occhi, che con la loro piacevolezza prima mi fecero amor sentire! Io strignerei con le sconsolate braccia il dilicato collo tanto, quanto il mio disio avanti si distendesse. Deh, ora ci fossi tu: che è a pensare che una timida giovine dorma sola in così gran letto come fo io? Tu mi saresti graziosa compagnia e sicura. O santa Venere, quando sarà che la ’mpromessa da voi fatta a me s’adempia? Viverò io tanto? Appena che io il creda. Io ardo: io non posso sostenere le vostre percosse, ma impossibile conosco che ’l mio disio ora s’adempia, tanto gli sono lontana; ma in luogo di ciò, o Citerea, manda nel petto mio soave sonno, e quello che io veramente aver non posso, fammelo nel sonno sentire. Contenta con questo il mio disire, acciò che alquanto si mitighi la mia pena. Or ecco, io m’acconcio a dormire, e attendo nelle mie braccia il disiato bene. O santa dea, io gli lascio il suo luogo: venga con grazioso diletto a me, io te ne priego -. Queste parole dicendo, ogni volta ch’ella ricordava Florio, gittava un grandissimo sospiro, e con le braccia distese verso quella parte dove Filocolo nascoso dimorava, con fatica, dopo molti sospiri, s’adormentò.
- Filocolo udiva tutte queste parole, e più volte fu tentato di gittarlesi in braccio e di dire: - Eccomi, il tuo disio è compiuto! -. Ma poi dubitando si ritenea, e con disiderio attendea ch’ella s’addormentasse; ma poi che la vide dormire, pianamente spogliandosi infra le distese braccia si mise, lei nelle sue dolcemente recando. Ma già per questo la bella giovane non si destò, né Filocolo destare la volea prima ch’ella per sé si destasse; anzi, tenendola in braccio, dicea: O dolce amor mio, o più che altra cosa da me amata, è egli possibile a credere che tu sii nelle mie braccia? Certo io ti tengo e stringoti, e appena il credo -. Luceva la camera, sì come chiaro giorno fosse, per la virtù de’ due carbunculi; per che egli riguardandola dicea: - Certo, tu se’ pur la mia Biancifiore, e non m’inganna il sonno, come già molte volte m’ha ingannato, ché ora pur vegghiando ti tengo. Ma tu che poco inanzi cotanto nelle tue braccia mi disideravi, secondo il tuo parlare, come puoi ora dormire avendomi? Non mi sente il tuo cuore, il quale so che continuamente vegghia ricordandosi di me? O bella donna, destati, acciò che tu conosca chi tu hai nelle tue braccia. Veramente tu n’hai ciò che tu in sogno alla santa dea domandavi. Destati, o vita mia, acciò che tu più allegra ch’altra femina col più lieto uomo del mondo ti ritruovi, e prendi la ’mpromessa della santa dea. Destati, o sola speranza mia, acciò che tu vegga quello che agl’iddii è piaciuto: tu tieni nelle tue braccia quello che tu disideri, e nol sai. Or, s’io ti fossi testé tolto, come ti sarebbe in odio l’aver dormito! Destati, e prendi il disiderato bene, poi che gl’iddii ti sono graziosi -. Egli dice queste e molte altre parole, e ad ogni parola cento volte o più la bacia. Egli, tirate indietro le cortine, con più aperto lume la riguarda e sovente l’anima alienata richiama. Egli la scuopre e con amoroso occhio rimira il dilicato petto, e con disiderosa mano tocca le ritonde menne, baciandole molte volte. Egli distende le mani per le segrete parti, le quali mai amore ne’ semplici anni gli avea fatte conoscere, e toccando perviene infino a quel luogo ove ogni dolcezza si richiude: e così toccando le dilicate parti, tanto diletto prende, che gli pare trapassare di letizia le regioni degl’iddii; e oltre modo disidera che Biancifiore più non dorma e a destarla non ardisce, anzi con sommessa voce la chiama e tal volta strignendolasi più al petto s’ingegna di fare che ella si desti. Ma l’anima, che nel sonno le parea nelle braccia di colui stare, nelle cui il corpo veramente dimorava, non la lasciava dal sonno isviluppare, parendole in non minore allegrezza essere che paresse a Filocolo, che lei tenea. Ma poi, pur costretta di destarsi, tutta stupefatta stringendo le braccia si destò, dicendo: - Oimè, anima mia, chi mi ti toglie? -. A cui Filocolo rispose: - Dolce donna, confortati, che gl’iddii mi t’hanno dato, niuna persona mi ti potrà torre -. Ella udita la voce umana, stordita del sonno e di paura, si volle fuori del letto gittare e gridare e chiamare Glorizia, ma Filocolo la tenne forte, e subitamente le disse: - O giovane donna, non gridare e non fuggire colui che più t’ama che sé: io sono il tuo Florio, confortati e caccia da te ogni paura -. Tacque costei maravigliandosi, e, parendole la sua voce, disse: - Come può essere che tu qui sii ora ch’io ti credea in Ispagna? -. - Così ci sono come gl’iddii hanno voluto - rispose Filocolo, - e però rassicurati -. Pareano impossibili queste parole ad essere vere a Biancifiore, e riguardandolo le parea desso, e rallegravasi, e non credendolo, tutta di paura tremava.
- In questa maniera Filocolo confortandola, e da lei la paura cacciando con vere parole, dimorarono alquanto. E ella in più modi accertatasi che desso era, cioè Florio, colui cui ella tenea in braccio, sospirando lo incominciò ad abbracciare e a baciare, tanto amorosamente e tanto lieta in se medesima, che appena le bastava a tanta letizia la vita; e così gli disse: - O dolce anima mia, cosa impossibile a credere mi fai vedere; dimmi, per quegl’iddii che tu adori, come venisti tu qui? -. A cui Filocolo rispose: - Donna mia, così ci venni come fu piacere degl’iddii. Non è bene, mentre ciascuno di noi si maraviglia, narrare il modo: ma rallegrati che sano e salvo, e più lieto ch’io fossi mai, nelle tue braccia dimoro -. - Di ciò mi rallegro io molto, ma io non posso fare ch’io non sia nella mia allegrezza impedita - disse Biancifiore, - pensando a qual pericolo tu per venire qui ti sii messo -. Rispose Filocolo: - Poi che prosperevolemente gl’iddii hanno il mio intendimento recato al disiderato fine, di che tu ti dei rallegrare, non pensiamo più a’ passati pericoli, spendiamo il tempo più dilettevolemente, però che incerti siamo quanto conceduto ce ne fia, mentre nell’altrui mani dimoriamo -.
- Cominciaronsi adunque i due amanti a far festa l’uno all’altro, e ciascuno i disiderati baci sanza numero s’ingegnava di porgere all’altro. Forte saria a potere esprimere la gioia e l’allegrezza di loro due: ma chi tal bene già per suoi affanni gustò, qual fosse il può considerare. E mentre in questa festa dimorano, Biancifiore dimanda che sia del suo anello, il quale Filocolo nel suo dito gliele mostra. - Omai - disse Biancifiore - non dubito che l’agurio ch’io presi delle parole di tuo padre, quando davanti gli presentai il paone, non venghino ad effetto, che disse di darmi, avanti che l’anno compiesse, per marito il maggior barone del suo regno: e certo di te intesi, di cui io non sono ora meno contenta, avvegna che passato sia l’anno, che se avanti avuto t’avessi, pure ch’io t’aggia -. A cui Filocolo disse: - Bella donna, veramente verrà ad effetto ciò che di quelle parole dicesti; né credere che io sì lungamente aggia affannato per acquistare amica, ma per acquistare inseparabile sposa, la quale tu mia sarai. E fermamente, avanti che altro fra noi sia, col tuo medesimo anello ti sposerò, alla qual cosa Imineo e la santa Giunone e Venere, nostra dea, siano presenti -. Disse adunque Biancifiore: - Mai di ciò che ora mi parli dubitai, e con ferma speranza sempre vivuta sono di dovere tua sposa morire; e però levianci di qui, e davanti alla santa figura del nostro iddio questo facciamo: elli, nostro Imineo, elli la santa Giunone e Venere ci sia -.
- Levatasi adunque Biancifiore e copertasi d’un ricco drappo, e similmente Filocolo, davanti alla bella imagine di Cupido se n’andarono, e quella di fresche frondi e di fiori coronata, davanti ad essa accesero risplendenti lumi, e amenduni s’inginocchiarono. E Filocolo primamente cominciò così a dire: - O santo iddio, signore delle nostre menti, a cui noi dalla nostra puerizia avemo con intera fede servito, riguarda con pietoso occhio alla presente opera. Io con fatica inestimabile qui pervenuto, cerco quello che tu ne’ cuori de’ tuoi suggetti fai disiderare, e questa giovane con indissolubile matrimonio cerco di congiungermi, al quale congiungimento ti priego niuna cosa possa nuocere, niuno vivente dividerlo né romperlo, niuno accidente contaminarlo, ma per la tua pietà in unità il conserva: e come con le tue forze sempre i nostri cuori hai tenuti congiunti, così ora i cuori e’ corpi serva in un volere, in un disio, in una vita e in una essenzia. Tu sii nostro Imineo; tu in luogo della santa Giunone guarda le nostre facelline e sii testimonio del nostro maritaggio -. A questa ultima voce, la figura, dando con gli occhi maggiore luce che l’usato, mostrò con atti i divoti prieghi avere intesi, e movendosi alquanto, verso loro inchinando, si fece ne’ sembianti più lieta. Per che Biancifiore, che simile orazione avea fatta, disteso il dito, ricevette il matrimoniale anello; e levatasi suso, come sposa, vergognosamente dinanzi alla santa imagine baciò Filocolo, e egli lei. E dopo questo, correndo n’andò al letto di Glorizia, dicendo: - O Glorizia, leva su, vedi ciò che gl’iddii per grazia hanno voluto di quello che noi questa sera e ieri tanto ragionammo -. Levossi Glorizia, mostrandosi nuova di ciò che Biancifiore le diceva, e venuta in presenza di Filocolo gli fece mirabilissima festa; e veduto ciò che fatto aveano, contenta oltre misura disse: - E come, così tacitamente da voi tanta festa sarà celebrata sanza suono? Negati ci sono gl’idraulici organi e le dolci voci della cetera d’Orfeo e qualunque altro citerista, ma io con nuova nota supplirò il difetto -. E preso un bastonetto, tutti e quattro i cari alberi percosse, e quindi dolcissima melodia in diversi versi si sentì: la quale tanto, quanto di loro fu piacere, durò. Ma dopo molti ragionamenti, già gran parte della notte passata, ciascuno, fatti tacere i canti, al letto si ritornò.
- O allegrezza inestimabile, o diletto non mai sentito, o amore incomparabile, con quanto effetto congiugneste voi i novelli sposi! Pensinlo le dure menti, nelle quali amore non puote entrare, pensinlo i crudi animi: e se questo pensando, non divengono molli, credasi che graziosa virtù in loro abitare non possa! Nelli disiderati congiugnimenti si poterono per la camera vedere fiaccole non accese da umana mano, né da quella portate. Ivi si poté vedere Imineo in figura vera coronato d’uliva, e Citerea fare mirabile festa intorno al suo figliuolo; e non ch’altro iddio, ma Diana vi si vide rallegrarsi di tanto congiugnimento, laudandosi, cantando santi versi, che sì lungamente l’uno all’altro avea sotto le sue leggi guardati casti. Dilettaronsi i due amanti convenevole spazio negli amorosi congiugnimenti, e ultimamente del tempo quasi fino presso al giorno dierono a diversi ragionamenti: poi vinti dal sonno, abbracciati soavemente dormendo stettero tanto, che il sole luminò ciascuno clima del nostro emisperio con chiara luce.
- Destati quasi ad un’ora amenduni gli amanti si levarono lieti, e Biancifiore vide Filocolo vestito in quella forma che Glorizia le avea detto d’averlo veduto nella sua visione, e maravigliandosene gliele raccontò; di che Filocolo, pensando al modo del parlare di Glorizia, alcuna ammirazione non prese, ma disse: - Gran cose mostrano gl’iddii future a coloro cui essi amano! -. E da Glorizia serviti, quel giorno insieme, narrando l’uno gli accidenti suoi all’altro, con piacevole ragionamento dimorarono. Ma a Filocolo, gli occhi di cui pure a quelli d’Amore correano, venne disio di sapere che quella figura quivi adoperasse, e dimandonne Biancifiore, la quale così gli disse: - Io non so per che qui posta si fosse, né mai ne domandai, se non che io estimo che per bellezza e ornamento della camera ci fosse posta; ma ciò che io nel cospetto di questa figura sovente facea, mi piace di raccontarti:
- "Riguardando io questa imagine e considerando la bellezza d’essa, sovente di te mi ricordava, perché, avvegna che promesso mi fosse da Venere questo effetto a che pervenuti siamo, parendomi impossibile, temendo d’averti perduto, di questa te, qual Sirofane egiziaco fece del perduto figliuolo, feci: e sì come quelli di fiori e di frondi ornava la memoria del figliuolo, davanti a lei della sua dissoluzione dolendosi, così io di questa facea. Io l’ornava di fiori e di frondi spesso, e per suo propio nome la chiamava Florio: e quand’io disiderava di vederti, a questa vedere correa, alla quale contemplare fui più volte dalle mie compagne trovata. Con questa, come se con meco fossi stato, de’ miei dolori e infortunii mi dolea, con costei piangea, con costei i miei disii narrava, costei in forma di te pregava che m’aiutasse, costei onorava; a costei gli amorosi baci, che a te ora effettuosamente porgo, porgea, costei pregava che di me le calesse, costei in ogni atto sì come se tu ci fossi stato, trattava. E certo, la mercé di colui per cui posto c’è, elli alcuno, avvegna che picciolo, conforto mi porgea, per che io sovente a con costui dolermi e a baciarlo com’io t’ho detto, tornava" -.
- Niuno infortunio, niuno accidente all’uno o all’altro era intervenuto, poi che divisi furono, che quel giorno non si raccontasse, avendo l’uno dell’altro non poca ammirazione e diletto. Ma venuta la notte si coricarono, continuando gran parte di quella vegghiando con piacevoli ragionamenti e con amorevoli abbracciamenti; per che poi, vinti dal sonno, oltre al termine della notte dormirono per lungo spazio; perché la fortuna, ancora alle prosperità loro non ferma, con inoppinato accidente s’ingegnò d’offenderli con più grave paura che ancora offesi gli avesse, in questo modo.
- L’amiraglio pieno di malinconia, forse per disusato pensiero, cerca, per fuggir quella, la bellezza di Biancifiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di gioia rendere, far dimora. E partitosi d’Alessandria la terza mattina vegnente poi che le rose presentate avea, essendo ancora molto nuovo il sole, se ne venne alla bella torre, sopra la quale, come tal volta suo costume era, subitamente montò sanza alcun compagno. E giunto nella gran sala, alla camera di Biancifiore pervenne, donde Glorizia poco avanti era uscita e serratala di fuori. Questa aperta, passò dentro, e nella sua entrata corsogli l’occhio al letto di Biancifiore, vide lei con Filocolo dormire abbracciati insieme: di che rimaso tutto stordito, quasi di dolore non morio. Ma pur sostenendoli la vita di riguardare costoro, lungamente li rimirò e fra sé dicea: - O Biancifiore, vilissima puttana, tolgano gl’iddii via che tu delle mie mani la vita porti: tu morrai uccidendoti io. Tu, da me più che la vita mia per adietro amata, hai con isconvenevole peccato meritato odio; e tu, la quale io con sollecitudine ho infino a qui ingegnatomi dal congiungimento di qualunque uomo, e ancora dal mio medesimo, che d’avere i tuoi abbracciamenti tutto ardea, ho guardata, ora per tua malvagità congiuntati con non so cui, la morte debitamente hai guadagnata: e io la ti darò. Tu sarai miserabile essemplo a tutte l’altre che per inanzi volessero ardire di cotal fallo commettere. Una ora amenduni vi perderà, e la tua vituperata bellezza perirà sotto la mia spada: niuna bellezza mi farà pietoso -. E queste parole dicendo, trasse fuori la tagliente spada e alzò il braccio per ferirli; ma Venus, nascosa nella sua luce, stando presente, non sofferse tanto male, ma messasi in mezzo ricevette sopra lo impassibile corpo l’acerbo colpo, il quale sopra i dormenti amanti discendea: per che niente furono offesi. E il pensiero subito si mutò all’amiraglio, parendogli vil cosa due che dormissero uccidere, e la sua spada fedare di sì vile sangue: per che egli tiratala indietro, la ripose, e sanza destarli si partì della camera, infiammato contra loro, e in tutto deliberando nell’acceso animo di tal fallo farli punire. E sceso dell’alta torre, sanza essere da persona scontrato o veduto, trovati i sergenti suoi lui aspettanti, comandò che sanza indugio alla camera di Biancifiore salissero, e lei e colui che con lei troveranno ignudo, così ignudi strettamente legassero, e giuso dalla finestra, onde i fiori erano stati collati, gli mandassero nel prato, sanza avere di loro misericordia alcuna, o sanza niuno priego ascoltare.
- Mossesi sanza ordine la scelerata masnada, e allegri del male operare salirono le disusate scale e pervennero alla bella camera, la quale ancora come l’amiraglio lasciata l’avea trovarono. Passano dentro, e veggono i due amanti abbracciati dormire: maravigliansi delle bellezze di ciascuno. Ma già per questo niuna pietà ramorbidisce i duri cuori: le scelerate mani legano i giovani colpevoli per soperchio amore. Niuno da tanta crudeltà si tira indietro, ma ciascuno più volentieri li stringe, e prendendo diletto di toccare la dilicata giovane, per merito di quello aggiungono più legami. Toccano le ruvide mani le dilicate carni, e gli aspri legami e duri li stringono, e li disordinati romori percuotono l’odorifero aere; per che i due amanti stupefatti si svegliano. E veggendosi intorno il disonesto popolo, si volsero levare per fuggire, ma i non ancora sentiti legami li ’mpedirono; e non vedendosi alcuno altro aiuto o rimedio, con dolorosa voce domandano che questo sia. Con vergognose parole è loro risposto: - Voi siete per le vostre opere morti -. La miseria, nella quale la non stante fortuna gli avea recati, niuna risposta lascia porgere convenevole a’ dolenti prieghi. Biancifiore, in reale eccellenzia vivuta infino a qui, ora come vilissima serva trattata, è dispregiata da’ disonesti parlamenti della sconvenevole gente. E Filocolo, al quale i maggiori baroni soleano porgere dilicati servigi, percosso e con le mani e con villane parole, da’ più vili è schernito. Biancifiore piange né sa che dire, e stordita non può pensare come avvenuto sia il doloroso accidente. E il romore multiplica per la torre: corre Glorizia e corrono l’altre damigelle; ciascuna prima si maraviglia, poi per pietà piange, e la bella sala, che mai dolente voce sentita non avea, ora di quelle ripiena risonando mostra il dolore maggiore. Niuna può a Biancifiore soccorso donare, ma disiderose della sua salute, lagrime e prieghi per quella porgono agl’iddii. Niuna si fa schiva di rimirare lo ignudo giovane, ma notando le sue bellezze, col pensiero menomano la colpa di Biancifiore. I contrarii fati sospingono i sergenti ad affrettarsi d’adempiere il comandamento del signore, per che i due amanti legati sono collati con lunga fune giù della torre: e acciò che ad alcuno non sia occulto il commesso peccato, vicini al prato rimangono sospesi. La rapportatrice fama con più veloce corso rapporta il male e in un momento riempie i vicini popoli dell’avvenuto male: per che con abandonato freno ciascuno corre al disonesto strazio, vaghi di vedere ciò che pietà fa loro poi debitamente spiacere. I sergenti votano la torre di loro, e armati con molti compagni guardano che alcuno non s’avvicini a’ pendenti giovani. I quali tanto così legati pendono, quanto nel duro petto dell’amiraglio pende qual pena a tale offesa voglia dare; ma poi che con diliberato animo elesse che la loro vita per fuoco finisse, comanda che nel prato siano posati, e quivi in accesi fuochi siano sanza pietà messi, acciò che di loro facciano sacrificio a quella dea, le cui forze agli sconvenevoli congiugnimenti gli condusse. Udito il comandamento, i fuochi s’accendono, e i due amanti sono messi in terra, e ignudi con sospinti passi sono tirati all’ardenti fiamme.
- Piangendo Biancifiore così col suo amante sospesa, Filocolo con forte animo serrò nel cuore il dolore, e col viso non mutato né bagnato d’alcuna sua lagrima sostenne il disonesto assalto della fortuna, la quale, perché l’angoscia dell’animo non menomi, niuna sua felicità gli leva della memoria. Egli, vedendosi solo e sanza speranza d’alcuno aiuto, le forze de’ suoi regni fra sé ripete, e loro, per adietro poco amate, ora avria molto care. Egli si duole degli abandonati compagni, nescii di tale infortunio, da’ quali soccorso spererebbe, se credesse che ’l sapessero. Egli, pensando alla vile morte che davanti si vede, appena può le lagrime ritenere. Ma sforzando col senno la pietosa natura, quelle dentro ritiene, e dopo alquanto pensiero, con gli occhi a se medesimo volti, così fra sé cominciò a dire: - O inoppinato caso! O nimica fortuna! Ora l’ultimo fine delle tue ire sopra me sazierai. Ora i lunghi tuoi affanni finirai. Tu per molti strabocchevoli pericoli m’hai recato a sì vile fine, non sostenendo più volte, quando il morire m’era a grado, che vita mi fallisse. Oh, quante volte sarei io potuto morire con minor doglia che ora non morrò, e più laudevolmente! Se tu, o iniquissima dea, avessi sostenuto che io, la prima volta ch’io da costei mi partii, fossi nelle sue braccia morto, com’io cercava, sentendo io per la mia partita intollerabile dolore, gl’iddii infernali avriano presa lieta la mia anima! O almeno m’avesse la ingiusta lancia del siniscalco passato il cuore, quando con lui, mai più non usato all’armi, combattei! O mi fosse stato licito l’uccidermi, quando costei tanto piansi, credendola morta! Almeno qualunque di queste morti presa avessi, nel cospetto della mia madre sarei morto, e ella col mio padre insieme il pietoso uficio avrebbero adoperato, guardando poi le mie ceneri con pietoso onore, le quali mai non rivedrà, se Eolo con le sue forze non le vi porta mescolate con ravolti nuvoli e con la non conosciuta arena. Ora, se tu forse questa misera grazia agl’indegni parenti non volevi concedere, perché nelle marine onde, dove la spaventevole notte, della quale io ho poi sempre avuto paura, tanto mi spaventasti, non mi facesti ricevere a’ marini iddii? E ben che assai mi fosse stata dura la morte, perché più presso era a’ miei disiri, l’avrei io più tosto voluta, quando nelle tue mani mi rimisi, nascondendomi sotto le frondi mobili sì come tu. Perché allora così la persona mia, come i capelli, non palesasti agli occhi del nimico? Tu, crudelissima, di questi e di molti altri pericoli m’hai campato, non per grazia ch’io aggia nel tuo cospetto avuta, ma per conducermi a più disprezzevole fine, come ora hai fatto. E certo tutto questo mi saria assai meno grave a sostenere, se a sì fatta vergogna mi vedessi solo. Oimè, quanto m’è grave a pensare che colei cui io amo sopra tutte le cose del mondo, colei per cui i passati pericoli mi sono paruti leggieri a sostenere per vederla, colei che me più che io lei ama, mi sia compagna a sì vile morte! O Filocolo, più ch’altro uomo misero, hai tu tanto affanno durato per conducere la innocente giovene a sì vile fine? Ella muore per te, e per te un’altra volta a simil morte fu condannata, per te venduta e per te vituperata. La fortuna, forse verso lei pacificata, l’apparecchiava degna felicità alla sua bellezza, se tu non fossi stato, e però tu giustamente muori. Ma ella perché, con ciò sia cosa ch’ella non sia colpevole? Sola l’angoscia di lei mi duole, ché la mia io la passerei con minore gravezza! O crudel padre, o dispietata madre, oggi di me rimarrete quieti: voi non mi voleste pacificamente avere, e voi oggi di me vedovi rimarrete. Né vi concederà la fortuna di chiudere i miei occhi nella mia morte, né di riporre le mie ceneri ne’ cari vasi. Oggi della vostra nimica Biancifiore, da voi con tante insidie perseguitata, sarete diliberati, ma non sanza vostra tristizia, né potrete per me spandere lagrime, che per lei similemente non le spandiate. Un giorno, una ora, una morte vi ci torrà: e non ingiustamente, ché convenevole cosa è che chi non vuole il bene quietamente possedere, che tribolando sanza esso viva. Rimanete adunque in etterno dolore, e di tal peccato siano gl’iddii giusti vendicatori. O gloriosi iddii, non si parta del vostro cospetto inulta la iniquità del mio padre. O sommi governatori de’ cieli, i quali in tanti affanni avete le mie fiamme udite, aiutate la innocente giovane. Venga sopra me, il quale ho commessa l’offesa, la vostra indignazione. O Imineo, o Iuno, o Venere, i quali io l’altra notte, se io non errai, vidi per la lieta camera portanti i santi fuochi del novello matrimonio, riservatevi Biancifiore al buono agurio di quelli, e se alcuna infernale furia fu tra voi con quelli mescolata, o se alcun gufo sopra noi cantò, caggiano sopra me i tristi agurii. Io non curo della mia morte, però che io l’ho con ingegno cercata: sia solamente costei, che per me sanza colpa muore, aiutata da voi -.
- Biancifiore, piena di paura e di vergogna e di dolore incomparabile, piangea, e i suoi occhi né più né meno faceano che fare suole il pregno aere, quando Febo nella fine del suo Leone dimora, che, porgendone acqua di più basso luogo, con più ampia gocciola bagna la terra: l’una lagrima non attendea l’altra. Ella avea il suo viso e ’l dilicato petto tutto bagnato, e simile quello di Filocolo, sopra ’l quale gli occhi, che non ardivano di riguardare in parte dove riguardati fossero, tenea. Essa tal volta, sentendo per li legami aspra doglia, alzava gli occhi, rimirando nel viso Filocolo, per vedere se a lui, come a lei, doleva, disiderando d’avere più di lui che di sé compassione, e vedendolo solamente sanza lagrime turbato, si maravigliava, e non meno le piacea vederlo, ben che in mortale pericolo si vedesse, che piaciuto le fosse qualora più lieti mai si videro. Ma pensando che brieve tale diletto convenia essere per la sopravegnente morte, mossa da compassione debita, così fra sé cominciò a dire:
- "O nimica fortuna, qual peccato a sì vile fine mi conduce, avendomi in vita tenuta con più miserie ch’altra femina, io nol conosco. Io misera, composta da Cloto, fatale dea, nel ventre della mia madre fui cagione del crudel tagliamento fatto del mio padre, e per consequente, nella mia venuta nel tristo mondo, cacciai di vita la dolente madre. Impossibile mi fu di conoscere i miei genitori: e nata serva, mai la mia libertà non fu ridomandata. Ma gl’iniqui fati, apparecchiati di nuocermi, m’apparecchiavano peggio. Io, formata bella dalla natura, fui a me per la mia bellezza cagione d’etterni danni, dove l’altre ne sogliono graziosi meriti seguitare. Se io fossi di turpissima forma stata, lo indissolubile amore, tra me e Florio generato per iguale bellezza, ancora saria ad entrare ne’ nostri petti: e così io non sarei stata dal suo padre odiata e condannata alle prime fiamme. Io non sarei stata comperata prima da’ mercatanti e poi dall’amiraglio, ma ancora mi sarei nelle reali case, e così fuor di pericolo io e altri sarebbe. O bellezza, fiore caduco, maladetta sii tu in tutte quelle persone a cui nociva t’apparecchi d’essere! Tu principale cagione fosti dello ardente amore che costui mi porta; tu gli levasti la luce dello ’ntelletto, e la ragione, per la quale conoscere doveva me, femina vile, non essere da essere amata da lui; tu di migliaia di sospiri l’hai fatto albergatore: tu degli occhi suoi hai fatto fontane di dolenti lagrime; tu infiniti pericoli gli hai fatti parer leggieri, per venirti a possedere: e ora posseduta, a questo vilissimo fine l’hai condotto. Ahi, dolorosa me, perché insieme con la mia madre non morii quand’io nacqui? Quanti mali sarieno per un solo male spenti! Il siniscalco saria vivo, e ’l valoroso cavaliere Fileno non saria perduto in sconvenevole essilio; Florio ora a tal pericolo non saria, ma lieto ne’ suoi regni aspetteria la promessa corona, e i miseri padre e madre, che di lui debbono udire la vituperosa morte, viverieno lieti del loro figliuolo, del quale ancora più dolenti morranno. Oimè misera, a che morte son io apparecchiata! Al fuoco! Il fuoco caccerà de’ fermi petti l’amoroso fuoco. Quel fuoco che il mare, né la terra, né paura, né vergogna, né ancora gl’iddii hanno potuto spegnere, il fuoco lo spegnerà. Oggi di perfetti amanti torneremo nulla. Oggi sarà biasimata e tenuta vile la nostra gran costanza e fermezza d’animi. Oggi congiunte cercheranno le nostre anime gli sconosciuti regni. Oggi scalpiteranno i piedi e moveranno i venti le ceneri già credute serbarsi a splendidi vasi. Oggi la forza di Citerea fia annullata. O dolente giorno, di tanti mali riguardatore, perché nel mondo venisti? O Apollo, a cui niuna cosa si nasconde, perché la tua luce ne desti? Tu mostrandoti chiaro insieme ti mostri crudele, però che già per minori danni nascon desti i raggi tuoi a’ mondani. Oimè, Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l’anima sostenermi tanto in vita, pensando che nol siamo cagione di commovimento a tutta Alessandria, pensando che tante migliaia d’occhi solamente noi guardino, solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino, pensando ancora con quanto vituperoso parlare sia da’ riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a’ loro occhi dimoriamo, sia riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio peccato ha rivolti altrove, che ha meritato Florio, che questa morte sia da voi sofferto ch’egli sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi già faceste. Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che Amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all’amiraglio, sotto la cui signoria mi stringieno i fati. Io sola peccai, dunque io sola merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O iddii, se in voi pietà alcuna è rimasa, purghisi l’ira vostra e quella dell’amiraglio sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me, vile femina, muoia un figliuolo d’un sì alto re! Oimè, or che dimando io? Già è manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia voltata la brieve allegrezza! Oh, quanto è picciolo stato lo spazio del nostro matrimonio, il quale noi pregavamo gl’iddii che ’l dovessero etternare! Certo per sì picciolo spazio sanza prieghi potevamo passare, adoperando il tempo ne’ baci che si doveano finire per ischernevole morte. Oimè, ch’io m’allegrava parendomi l’agurio delle parole dello iniquo re poter prendere con effetto buono! Ma i fati, che dolente principio m’hanno sempre in ogni mia cosa donato, non consentono ch’io senta lieto fine. O vecchio re Felice o reina, nell’effetto al tuo nome contraria, con che cuore ascolterete voi il misero accidente? Or saravvi possibile a vivere tanto, che ’l tristo apportatore di tale novella abbia compiuto di dire che ’l dilicato corpo di Florio sia stato dalle fiamme consumato? Io non so, ma forte mi pare a pensare che sì. Io son certa che se voi vivete, mentre vi basterà la lingua alle parole, mai in altro, che in maledizione della mia anima non moverete quella; e se morite, fra le nere ombre sempre come nemica mi seguirete, e non sanza ragione. O iddii, consentite, se i miei prieghi niuno merito acquistano nella vostra presenza, che Florio campi, se possibile è, e io, degna di morire, muoia. La sua vita, ancora molto utile al mondo, non si prolungherà sanza vostro grande onore: la mia, che a niuna cosa può valere, perisca, e sostenga il peso del vostro cruccio. Siami conceduta questa grazia, in guiderdone della quale il mio corpo da ora v’offero per sacrificio".
- Ircuscomos e Flagrareo, venuti de’ libiani popoli, nel viso bruni e feroci, co’ capelli irsuti e con gli occhi ardenti, grandi molto di persona, erano dall’amiraglio fatti capitani de’ suoi militi, e la notturna guardia della torre sotto la loro discrezione avea commessa. Questi dopo il comandamento dell’amiraglio, armati sopra forti destrieri, con molti compagni vennero nel prato, intorniati di pedoni infiniti con archi e con saette. Essi fecero accendere due fuochi assai vicini alla torre, e fecero posare in terra Filocolo e Biancifiore, e tirare alle accese fiamme con villane parole. Quivi venuto, Filocolo vide due luoghi per la morte di loro due apparecchiati; ond’egli, sanza mutare aspetto, alzò il viso verso Ircuscomos e disse: - Poi che agl’iddii e alla nimica fortuna e a voi piace che noi moriamo, siane concessa in questa ultima ora una sola grazia; la quale faccendoci, niuna cosa del vostro intendimento menomerà. Noi, miseri, dalla nostra puerizia sempre ci siamo amati, e ben che nostro infortunio sia stato il non potere mai coi corpi insieme dimorare, mai le nostre anime non furono divise: un volere, un amore ci ha sempre tenuti legati e congiunti, e un medesimo giorno ci diede al mondo: piacciavi che, poi che una ora ci toglie, che similmente una medesima fiamma ci consumi. Siano mescolate le nostre ceneri dopo la nostra morte, e le nostre anime insieme se ne vadano -. Ircuscomos, che mai non avea apparato d’essere pietoso, faccendo sembianti di non averlo udito, comandò che come era incominciato così i sergenti seguissero; ma Flagrareo con più benigno spirito disse: - E che ci nuoce il fargli di suo medesimo danno grazia? Con quella forza ardono le fiamme i due, che l’uno: siagli conceduto di morire con lei, con cui la colpa commise -.
- Fu adunque Filocolo insieme con Biancifiore legato ad un palo e intorniato di legne. Le quali cose mentre si facevano, Biancifiore piangendo rimirava Filocolo e diceva con rotta voce e con vergogna: - O signore mio dolce, ove se’ tu con affanni e con pericoli venuto ad essere messo vivo nelle ardenti fiamme! Oimè, quant’è più il dolore ch’io di te sento, che quello che di me mi fa dolere! Oimè, quanto m’è grave a pensare che tu per me sì vilmente sii dato a morire! I dolenti occhi non possono mostrare con le loro lagrime ciò che il cuore sente, qualora io ti riguardo ignudo con meco insieme tra tanto popolo disposti a morire. O anima mia, che hai tu commesso, che gl’iddii, che essere ti soleano benivoli, così sieno contro a te turbati e in tanta avversità t’abandonino? Perché ti nuoce il mio peccato? Maladetta sia l’ora ch’io nacqui, e che amore mise negli occhi miei quel piacere, del quale tu, oltre al dovere, sempre se’ stato innamorato, poi che a questo fine ne dovevi venire. Oimè, ch’io mi dolgo che tu per adietro m’abbi campata dall’altro fuoco, per che, campandomi, t’acquistasti morte. Io misera, degna di morire, volontieri muoio, né mi saria grave il sostenere prima ogni pena, e poi questa, solamente che tu campassi. Ahi, quanto volentieri tal grazia e a Dio e al mondo dimanderei, se io credessi che conceduta mi fosse! Ma essi hanno avuto del nostro poco bene invidia, e però, più disposti a’ nostri danni che a piacerne, non si moveriano ad alcun priego. Oimè misera, che quel giorno che ci diede al mondo, quel giorno la cagione di questa morte ne porse. Impossibile è ora alla tua madre credere che tu sii a questo partito; e i tuoi miseri compagni forse estimano che tu ora lietamente dimori, però che, non essendo essi conosciuti, alcuno non dice loro questo accidente. Elli venuti lieti con teco, ricercheranno dolenti, sanza te, le ragguagliate acque, e là dove me con teco credettero presentare al tuo padre, la crudele morte di noi due racconteranno: per che il tuo regno, rimanendo vedovo, con dolore in etterno ti piangerà -.
- Queste parole mossero il forte animo di Filocolo, e le lagrime, lungamente costrette, con maggiore abondanza uscirono fuori degli occhi, e così le cominciò piangendo a rispondere: - Quella pietà che io di me dovea avere, non m’ha potuto vincere, che io con forte animo non abbia mostrato di sostenere pazientemente il piacere degl’iddii, ma, pensando a te, ha rotto il proponimento del debole animo. Tu con meco insieme misera, per la mia vita prolungare, disideri più pene che li fati ne porgono, cara tenendo la morte, se io campassi, e fatti colpevole, dove manifestamente in me la colpa conosci. Ora in che hai tu offeso? Io ho fatto ogni male. Tu soavemente dormendoti nel tuo letto fosti con ingegni da me usati assalita, per che io debitamente morire dovrei. Io sotto giusto giudice dovria ogni pena portare: la qual cosa se fosse, e tu campassi, grazioso mi saria molto; ma la fortuna, che sempre igualmente ci ha in avversità tenuti, ora al giusto per lo ingiusto non vuole perdonare morte. Io ho con meco questo anello, il quale la mia misera madre mi donò nella mia partita, promettendomi ch’egli avea virtù di cessare le fiamme e l’acque dal giovamento della vita di chi sopra l’avesse: la virtù di costui credo che ’l mio periclitante legno, la notte che io in mare passai tanta tempesta con ismisurata paura, aiutasse. Però tienilo sopra di te: io non credo che la fortuna abbia avuta potenza di levargli la virtù, la quale se levata non gliel ha, di leggieri potrai campare. La tua bellezza merita aiutatore, il quale non dubito che tu troverai, e rimanendo tu in vita, molto nel morire mi contenterai -. - Sia da me lontano ciò che tu parli - disse Biancifiore, - ma tu, la cui vita è ad altrui e a me più che la mia cara, sopra te il tieni, acciò che se gl’iddii altro aiuto ti negano, per la virtù di questo campi: la cui virtù già mi conforta, e più consolata al morire mi dispone, pensando ch’ella fia possibile ad aiutarti -. Così costoro con sommessa voce parlando, il fuoco fu acceso e l’ardore s’appressava, quando, rifiutando ciascuno l’uno all’altro l’anello, di piana concordia piangendo s’abbracciarono, e con dolenti voci la morte attendendo, l’uno e l’altro dall’anello era tocco, e dalle fiamme difesi: ma essi, per debita paura del sopravegnente fummo, con alte voci l’aiuto degl’iddii invocavano piangendo.
- Mossero le voci di costoro i non crucciati iddii a degna pietà, e furono essauditi e con sollicita grazia aiutati, ben che assai gli aiutasse l’anello. Venere, intenta a’ suoi suggetti, commosse il cielo, e per loro porse pietosi prieghi a Giove, col consentimento del quale e di ciascuno altro iddio, il necessario aiuto si dispose a porgere. E involta in una bianchissima nuvola, coronata delle frondi di Pennea, con un ramo di quelle di Pallade in mano, lasciò i cieli e discese sopra costoro, e con l’una mano, cessando i fummi dintorno a’ due amanti, a’ circunstanti li volse, e quel in oscurissima nuvola mantenendo bassi, con noioso cocimento impediva i circunstanti da poter vedere dove Filocolo e Biancifiore fosse, dando a loro chiaro e puro aere, nel quale tutta si mostrò loro e disse: - Cari suggetti, le vostre voci hanno commossi i cieli e impetrato aiuto; rassicuratevi: io sono la vostra Citerea, madre del vostro signore. Questa sarà ultima ingiuria a voi e fine delle vostre avversità, dopo la quale voi pacificamente, avendo vinta la contraria fortuna, viverete. Io v’ho recato segnale d’etterna pace: guardatelo infino che di qui uscirete. Marte per lo vostro aiuto stimola i tuoi compagni con sollecitudine; né prima di qui mi partirò, che tu li sentirai cercare la vostra salute con armata mano -. E questo detto, lasciato l’ulivo nelle loro mani si partì, volendo essi già ringraziarla.
- La santa voce con intera speranza riconfortò gli sconsolati amanti, i quali con perfetto animo rendeano agl’iddii degne lode di tale aiuto; ma ben che il fummo rivolto alla circunstante gente impedisse il potere costoro vedere, nondimeno il furioso popolo e gli armati cavalieri dalla incominciata iniquità non ristavano, ma crucciati, più pronti s’ingegnavano di far male. Ircuscomos con una mazza ferrata in mano costringe i sergenti di ritrovare e d’ardere i giovani; Flagrareo dall’altra parte gli conforta al male operare. Ma invano adoperano: niuno li può rivedere, né alcuno non è possente di passare più oltre che il fummo si stenda. L’ira s’accende negli animi, e cercano di passare con le lance e con le saette l’oscurità del fummo, imaginando che delle molte alcuna gli ucciderà. Niuna cosa nuoce loro, niuna saetta vi passa: il romore era grande, tale che per poco spaventava i confortati amanti. Che più? Ogni ingegno di nuocere si pruova; ma invano s’affatica chi nuocere vuole a colui cui Iddio vuole aiutare. Elli non possono loro nuocere, né rivederli in alcun modo.
- Ascalion e ’l duca, con Dario e con Bellisano e con gli altri, ignoranti dell’andata di Filocolo, dubitando l’aspettano quella notte e ’l giorno appresso. E ritornando un’altra volta le stelle, e dopo quelle Febo, con più malinconia di lui pensavano; e venuta la terza notte, imaginando essi che là fosse andato dov’era, pieni di pensieri varii per la lunga dimoranza, s’andarono a dormire. Ma ad Ascalion, quasi più sollecito della salute di Filocolo, entrato di tale stanza in varie imaginazioni, si rivolge per la mente le future cose, e dubitando forte non avvenissero, il tacito sonno con quieto passo gli entra nel petto; e levandolo da quelle, in sé tutto quanto il lega, e nuove e disusate cose gli dimostra, mentre seco il tiene. Elli parea a lui essere in un luogo da lui mai non veduto, e pieno di pungenti ortiche e di spruneggioli, del qual luogo volendo uscire, e non trovando donde, s’andava avolgendo e tutto pungendosi. E di questo in sé sostenendo grave doglia, non so di che parte gli parea veder venire Filocolo, ignudo, tutto palido e in diverse parti del corpo piagato, e tutto livido, e di dietro a lui in simile forma venire Biancifiore, con le bionde trecce sparte sopra i candidi omeri; e correndo verso lui fra le folte spine, tutti si pungevano e delle punture parea che sangue uscisse, che tutti gli macchiasse: e giunti nel suo cospetto si fermavano, e sanza parlare alcuna cosa, il riguardavano né più né meno come se dire volessero: - Non ti muove pietà di noi a vederci così maculati? -. I quali riguardando così conci, Ascalion sanza dire nulla piangeva, parendogli che più i loro mali che i suoi propii gli dolessero. Ma così stati alquanto, gli parve che Filocolo più gli s’appressasse, e piangendo gli dicesse con voce tanto fioca che appena gliele parea potere udire: - O caro maestro, che fai, ché non ci aiuti? Non vedi tu come la nimica fortuna, voltatasi sopra me e sopra la innocente Biancifiore, premendoci sotto la più infima parte della sua ruota ci ha conci, che come puoi vedere, niuna parte di noi ha lasciata sana, e minacciaci peggio, se il tuo aiuto o quello degl’iddii non ci soccorre -. A cui Ascalion parea che rispondesse - O cari a me più che figliuoli, la maraviglia che di voi e delle vostre piaghe ho avuta, assai sanza parlarvi m’hanno tenuto; ma più d’ammirazione mi porge il vedervi insieme dolenti, non sappiendo pensare come esser possa, essendo tu con la disiata giovane Biancifiore e ella teco, la fortuna ci possa porre alcuna noia, che dolenti vi faccia: dillomi come questo è avvenuto; il mio aiuto sai che per lo tuo bene è disposto ad ogni cosa infino alla morte. Mostrami pure da cui aiutar ti deggia -. A cui Filocolo rispose: - Come tu vedi, così è: bastiti il veder questo, sanza più volerne udire. Vedi qui dintorno a me Ircuscomos e Flagrareo con infinito popolo, per comandamento dell’amiraglio, volerci in fiamme consumare -. Questo udito, ad Ascalion parve vedere dintorno a Filocolo ciò che le parole significavano; per che crescendogli il dolore e la pietà di ciò che vedea, ad un’ora Filocolo e Biancifiore e ’l sonno se n’andarono, e egli stupefatto per le vedute cose, alzato capo, vide già il chiaro giorno per tutto essere venuto. Per che egli sanza indugio si levò e vestissi, e quasi tutto smarrito venne a’ compagni. A’ quali narrò ciò che veduto avea, per che egli teme non Filocolo abbia alcuna novità. Gli altri, udendo questo, tutti dubitano, né sanno che consiglio prendere. Ultimamente con Dario e con Bellisano deliberano d’andare alla torre, per sapere da Sadoc quello che di Filocolo fosse, o se con lui dopo la sua partita fosse dimorato.
- Stando costoro in questo ragionamento, la rapportatrice fama vide del suo alto luogo queste cose, e di fuori delle sue finestre cacciò voci, che in picciolo spazio ciò che a Filocolo avvenuto era per Alessandria si spande. Ma niuno sa il nome di Filocolo, e tutti quello di Biancifiore; ciascuno corre al prato, e tutti si maravigliano, e in picciolo spazio di tempo riempiono quello. Odono Ascalion e’ compagni, sì come gli altri, queste voci: dubitando domandano chi costoro sieno, a cui la fortuna è tanto contraria, disiderando d’accertarsi di ciò che non vorrieno sapere. Niuno sa loro dire più avanti, se non: - Biancifiore con un giovane sono condannati -. Dubitano costoro, e hanno ragione, per la visione veduta, e pensano che Filocolo sia: dimandano de’ segnali del giovane, i quali udendo, la loro credenza cresce. Non si sanno fra loro accordare che fare si deggiano: i più savi, storditi dell’avvenimento, hanno perduto il saper consigliare. Ma tra costoro così pavefatti un giovane di maravigliosa grandezza e robusto e fiero nell’aspetto, armato sopra un alto cavallo apparve fra loro, e con disusata voce incominciò loro a dire: - O cavalieri, quale indugio è questo? Seguitemi con l’armi indosso, acciò che il nostro Filocolo più tosto di paura del sopravenuto pericolo esca -. Costoro d’una parte e d’altra d’ammirazione ripieni, udendo ricordare il nome di Filocolo, così come i furiosi tori, ricevuto il colpo del pesante maglio, qua e là sanza ordine saltellano, così costoro sanza memoria dolenti corrono alle loro armi: Bellona presta maraviglioso aiuto a tutti. Dario, contento de’ pericoli per amore di Bellisano, sanza pensare a’ ragunati beni o a sé quello che avvenire possa, apparecchia a sé e a tutti cavalli di gran valore, e armato con loro insieme monta a cavallo, e sanza modo ora qua ora là scorrendo fra la folta gente, che a vedere correa, dietro all’armato campione si mettono con le lance in mano: e venuti sopra il pieno prato veggono il fummo grande e il circunstante popolo. Crede Ascalion veramente che in quello Filocolo e Biancifiore sanza vita dimorino, ignaro del soccorso della santa dea, e, cruccioso perché tardi gli pare esser venuto a tal soccorso dare, disidera di morire. Egli si volta a’ compagni e dice: - Signori, io credo che gl’iddii abbiano alle loro regioni chiamata l’anima di colui, per cui debitamente il vivere ci era caro, e come voi potete vedere, in disonesto e sconvenevole modo è stato di morire costretto. Io non so qual si sia il vostro intendimento, ma il mio è di morire combattendo, acciò che parte della vendetta della morte del mio signore adoperi. Io in niuna maniera intendo di riportare al vecchio re sì sconcia novella, però se alcuno di voi più disidera di rivedere Marmorina che questo intendimento seguire, torni indietro, mentre licito gli è sanza danno: e chi in un volere è con meco, con ardito cuore ferisca la nemica turba -. A queste parole niun’altra cosa fu risposto se non: - Noi siamo tutti teco in un volere -. E più avriano detto, ma il grieve dolore ristrinse la voce con amaro singhiozzo nel suo passare: per che con focoso disio feriti i cavalli, e disposti a morire, prima con le loro forze l’altrui morte e la loro vendicando, appresso ad Ascalion se n’andarono verso il tenebroso fummo, dove il fiero giovane già era fermato e confortavagli al loro intendimento. E quivi trovarono Ircuscomos e Flagrareo costringenti il maladetto popolo alla morte de’ due amanti.
- Pingesi avanti Ascalion e ficca gli occhi per l’oscurità del fummo, disiderando, se in alcun modo esser potesse, di veder Filocolo, ma per niente s’affatica: per che dirizzatosi sopra le strieve, vede i compagni pure a lui guardare. Ond’egli recatasi la forte lancia in mano, e chiusa la visiera dell’elmo, e imbracciato il buono scudo, ardendo tutto di rabbiosa ira, fra sé dice: - O graziosa anima, dovunque tu dimori, avendo in queste fiamme di Filocolo lasciato il corpo, rallegrati, però che a vedere l’infernali fiumi gran compagnia d’anime de’ tuoi nemici ti seguirà, e poi quelle de’ tuoi compagni, de’ quali niuno al tuo padre intende di rapportare novelle della tua morte. Veramente, o anima graziosa, chiunque gliele dirà, con la tua morte la vendetta fatta d’essa e le morti di noi tutti racconterà. Prestinci gl’iddii sì lunga vita, che, prima che i nostri occhi si chiudano, noi veggiamo le nostre spade tinte di ciascun sangue di qualunque ha nociuto a te, e poi ci facciano cadere con loro insieme sanza vita nel sanguinoso campo: dove se mai chi ci uccida non troveremo, noi con le nostre mani, per seguirti, la morte ci porgeremo -. E questo detto, dirizzatosi verso Ircuscomos, il quale davanti a sé vedea, gridando disse: - Ahi, crudel barbaro, oggi la tua crudeltà avrà fine: la tua morte sarà merito della mia lancia! - E corsogli sopra, dirizzata verso lui la lucente punta, il ferì nello scudo, sopra ’l quale quella si ruppe sanza offenderlo niente. Il barbaro, questo vedendo, con altissime voci richiama la sparta masnada sopra i sette compagni, non avendo ancora veduto l’ottavo: e sì come il porco poi che ha sentite l’agute sanne de’ caccianti cani, squamoso con furia si rivolge tra essi, magagnando qual prima con la sanna giunge, così Ircuscomos rabbioso, con ispiacevole mormorio, con una mazza ferrata in mano sopra cavallo con tutta sua forza si dirizzò per ferire Ascalion sopra la testa. Ma Ascalion, savio, lo schifa, e, mentre che il peso del corpo tira Ircuscomos abasso, Ascalion, tratta la spada, il fiere sopra il sinistro omero sì forte, che di poco non il braccio con tutto lo scudo gli mandò a terra. Ircuscomos sente la doglia, e ricoverato il corpo, fiere sì forte Ascalion sopra l’elmo, che, fatto di quello molti pezzi, lui tutto stordito fé bassare sopra il collo del suo cavallo; ma poco stato, tornato in sé, si levò più fiero. E come tal volta il leone, poi che ’l suo sangue in terra vede, diviene più fiero, così Ascalion, divenuto più sopra il barbaro animoso, con la spada in mano tornò verso lui, e dandogli più colpi, uno con tutta sua forza ne gli diede dove ferito l’avea sopra l’omero altra volta, e mandò in terra il braccio con tutto lo scudo. Il libiano, doloroso di tale accidente, non però lascia di ferire Ascalion; ma egli spaventato del gran colpo, gli altri sopra lo scudo riceve. Ma Ircuscomos già debile per lo perduto sangue, vedendosi sanza scudo, volta e redine del destriere, e lasciando il campo, verso Alessandria se ne fugge. Il romore per gl’incominciati colpi multiplica: gli altri compagni d’Ascalion, poi che videro lui cominciare, ciascuno, bassata la lancia, corre verso i nimici, e, per essemplo del vecchio cavaliere, ciascuno vigorosamente combatte, e sanza alcuna paura di morire. Ma Parmenione che con Flagrareo s’era scontrato, datisi due gran colpi nell’affrontare, combatte maravigliosamente, e punto non spaventato per la fierezza del nimico, né della moltitudine circustante, con maestrevoli e forti colpi il reca a fine, e semimorto quivi il lasciò davanti al fummo, correndo agli altri. Bellisano, ormai anziano cavaliere, d’armi gran maestro e di guerra, faceva mirabili cose. Egli, andando dietro ad Ascalion, quanti davanti del misero popolazzo gli venieno, tanti n’uccideva o feriva, né alcuno a’ suoi colpi poteva riparare. Il duca dall’altra parte, scontratosi con un turchio chiamato Belial, ferocissimo e di gran forza, combattea mirabilmente bene, ma resistere non gli avria potuto, se non che venendo Menedon di traverso con una scure in mano levata ad un cavaliere, che morto avea, quella alzando, sì forte diede sopra la testa al turchio che feritolo a morte e storditolo, tutto sopra ’l collo del cavallo caduto stette grande ora, difeso da molti; ma poi risentendosi, recatosi il freno in mano, e cominciando a fuggire tenne la via verso il mare con molti altri, e seguiti dal duca e da Menedon, per tema de’ mortali colpi con tutti i cavalli fuggirono in mare, de’ quali assai, credendo morte fuggire, morirono. Messaallino e Dario erano più che gli altri vicini al fummo venuti, correndo dietro a’ due cavalieri; e incappati tra grande moltitudine d’armati pedoni, quivi combattendo, furono loro uccisi i buoni cavalli: per che rimanendo a piede, forte combattendo con la scelerata turba, di quelli intorno a sé ciascuno avea fatto gran monte d’uccisi, sopra i quali saette e lance, in grandissima quantità, quasi in forma di nuvoli si saria veduta continuamente cadere. E ben che ciascuno de’ sette mirabili cose facesse, di niuno fu maraviglia il campare sanza morte quanto di questi due. Andavano adunque combattendo i sette compagni valorosamente, più per vendicare la morte di Filocolo e per morire, che per vaghezza d’acquistar vittoria. E già presso che al loro intendimento venuti, avendone essi molti uccisi, e ciascuno debole e stanco e in molte parti ferito, ognora più multiplicando il popolo e la quantità degli armati cavalieri, si disponeano a rendere l’anime. Il feroce iddio, che ciò conosceva, mossosi, dietro se li raccolse, e con veloce corso intorniando il prato tutti e otto, col suo aspetto a qualunque era nel campo tanta paura porse, che come a Noto, robustissimo vento, fugge davanti alla faccia la sottile arena sanza resistenza, così a lui generalmente ogni uomo fuggiva, trepidando la morte, non altrimenti che la timida cerbia veduto il fiero leone.
- Votasi con grandissimo romore l’ampia prateria: niuna gente vi rimane, se non i vincitori, o quelli i quali, morti o feriti, non hanno potenza di fuggire; né alcuno ha ardire di più ritornare nel prato. Le lagrime delle vaghe giovani, che pietose riguardavano dell’alta torre, crescono per l’uccisione, e con quelle la loro speranza della salute di Biancifiore: e molte, non potendo sostenere di vedere l’uccisione, se ne levano. Altre porgono pietose orazioni agl’iddii per lo salvamento della picciola schiera: altra va e torna, altra alcuna volta non si parte, disiderando di vedere la fine. I vittoriosi cavalieri s’accostano al fummo dolenti della loro vittoria sanza morte, e, quella disiderando, niuno le sue piaghe ristringe, ma riguardando per lo campo si maravigliano di ciò che essi pochi hanno fatto, vedendo grande la moltitudine de’ morti e de’ feriti. Ciascuno ringrazia il grande cavaliere, non conoscendolo per iddio, e di molte cose il dimandano, ma esso a nulla né a niuno risponde. Ciascuno vorria vedere, se possibile fosse, i busti de’ corpi che essi morti estimavano. Alcuni di loro diceano essere convenevole omai gittarsi vivi sopra il loro fuoco, acciò che una medesima fiamma le ceneri di tutti raccogliesse in uno. Altri lodavano prima a loro porgere sepultura, e poi sé ardere, dicendo che degna cosa non era le loro ceneri con altre, che sì non si amassero, contaminare.
- E mentre che queste cose, disiderosi della loro morte, ragionavano, e tentavano di vedere e di passare il fummo, il quale punto loro non si apriva, Filocolo, il quale più volte per lo infinito romore avea della sua salute dubitato, udendo costoro dintorno a sé ragionare, non però conoscendoli né intendendo ciò che diceano, né potendogli vedere, sentendo il prato quieto e sanza alcun romore, fuori che d’un picciolo pianto che faceano i feriti, con quella voce più alta, che paura nel timido petto avea lasciata, così cominciò a dire: - O qualunque cavalieri che intorno a’ miseri dimorate, di noi forse pietosamente ragionando, quella pietà che di noi hanno avuta gl’iddii, entri negli animi vostri: non siate tardi a mettere ad essecuzione quello che gl’iddii hanno incominciato. Essi vogliono la nostra vita forse ancora cara al mondo. Noi vivi nello oscuro nuvolo sanza niuna offesa dimoriamo, tenendo in mano ramo significante pace, lasciato a noi da divina mano: passate adunque qui dove noi siamo, e sciogliete i nostri legami, acciò che salvi dove voi siete, possiamo venire -.
- Giungendo questa voce agli orecchi di Ascalion e degli altri, i quali veramente la conobbero, di tristizia gli animi subitamente spogliarono, di quella letizia rivestendogli, che Isifile nel dolore di Ligurgo si rivestì co’ riconosciuti figliuoli. E Ascalion, prima che alcuno, rispose: - O fortunato giovane, il quale morto estimavamo, e per te noi tutti tuoi compagni morire disideravamo, multiplica con la verità la nostra letizia e dinne per la potenza de’ tuoi iddii se tu se’ vivo come ne parli, o se alcuno spirito, volendoci dal fermo volere levare, parla per te nelle accese fiamme: acciò che, se tu vivi, solliciti la tua salute cerchiamo, e se non, la proposta morte prendiamo sanza più stare -.
- Conobbe Biancifiore la voce del suo maestro e così rispose: - O caro maestro, rallegrati, e credi fermamente ciò ch’io ti parlo: il tuo Florio e io viviamo nelle cocenti fiamme da niuna cosa offesi. Ond’io ti priego per quello amore che già mi portasti, la nostra liberazione affretta, acciò che di noi la paura si parta, e possiamo con voi di tale pericolo campati rallegrarci. Io ardo più di vederti che non fanno le accese legne preste per li nostri danni. Gl’iddii benivoli a noi ci hanno graziosa fortuna promessa per inanzi, e sanza fallo salute: però il vivere vi sia caro -.
- Odono Ascalion e i suoi compagni la voce della graziosa giovane, e riconfortati con immenso vigore aspettano francamente qualunque novità, ragionando diverse cose co’ chiusi amanti, infino che altra cosa appaia, più nella pietà degl’iddii omai sperando, che nelle loro forze.
- Mentre i cavalieri rallegrati ragionando si stanno accosto alla buia nuvola, la quale in niuno modo cede a chi vuole oltre passare se non come un muro, levandosi da dosso ciascuno le molte saette, di che più che dell’armi erano caricati, e avendo cura e di loro e delle loro piaghe, le quali non medicavano, ma di ristrignerle per meno sangue perdere s’ingegnavano, Ircuscomos col braccio tagliato, e con molti altri feriti e non feriti pervennero all’amiraglio; a cui Ircuscomos disse: - Signore, vedi come sopravenuti nimici n’hanno conci! -. A cui l’amiraglio disse: - Or chi sono costoro, o quanti, o che domandano? -. Ircuscomos rispose: - Signore, io non ne vidi se non forse sei o otto contra tutta la nostra moltitudine combattenti, faccendo d’arme cose incredibili a narrare: chi essi sieno io non so, né per che venuti, ma io estimo che per la salute del giovane, il quale io credo che morto sia, venuti sieno -. - Come credi che morto sia, - disse l’amiraglio, - non l’hai tu veduto? Egli è sì grande spazio, che voi li metteste nel fuoco per mio comandamento! -. - Certo - rispose Ircuscomos - mirabil cosa de’ condannati è similemente avvenuta, che non fu più tosto il fuoco acceso, che il fummo si rivolse tutto a noi, e sanza salire ad alto, sì come sua natura li sortì, quivi dintorno ad essi si fermò, e, come fortissimo muro, a uomini, a saette e a lance privò il passare dentro a’ due, e similemente il potere essere veduti: dintorno al quale dimorando noi, ingegnandoci di nuocere a coloro che dentro v’erano, sopravennero coloro che così n’hanno conci, come parlato v’abbiamo. Egli è con loro un uomo di smisurata grandezza, il quale con la sua vista spaventa sì chi ’l vede, che ciascuno piglia la fuga sanza volervi più tornare. E brievemente io non credo che nella gran prateria sia alcuno rimaso, se non morto, de’ quali gran quantità credo che v’abbia; e de’ condannati quello che se ne sia, dire non vi so più inanzi -.
- L’amiraglio ascolta queste cose, e infiammasi, udendo, d’ardentissima ira. E poi che Ircuscomos tacque biasimando il vile popolo e’ molti cavalieri, turbato si leva del loro cospetto, e andando sanza riposo per la sua camera torcendosi le mani e strignendo i denti, giura per gli immortali iddii di far morire gli assalitori de’ suoi cavalieri. E uscito fuori, con fiera voce comanda ogni uomo essere ad arme, e sanza indugio seguirlo. Egli s’arma e monta sopra un forte cavallo; e Alessandria tutta commossa, e ciascuno sotto l’armi, chi lieto e chi dolente, chi a piè e chi a cavallo, ciascuno il seguita, e furiosi ne vanno verso il prato, faccendo con diversi romori di trombette, di corni e d’altri suoni significanti battaglia e con voci tutto l’aere risonare. E pervenuti vicini al prato, già quasi essendo per entrarvi dentro, niuno cavallo era che a forza del cavalcante non voltasse la testa, e quasi sanza potere essere ritenuto, fino alla città tornava correndo. A ciascuno uomo così s’arricciavano i capelli in capo, come suole fare al ricco mercatante nelle dubbiose selve, poi che i ladroni con l’occhio ha scoperti. Niuno avea ardire di passare in quello: tutti hanno paura, e niuno sa di che. Ciascuno, stato infino a quel luogo fiero e ardito al venire, pauroso, disidera di tornarsi adietro. L’amiraglio fremisce tutto, e con minacce e con percosse s’ingegna di pingere avanti i suoi dicendo: - O gente villana, qual paura è questa? Chi vi caccia? Temete voi sei cavalieri? -. Le sue parole sono udite, ma non messe ad effetto. Le percosse ciascuno fugge, e le minacce meno che la non conosciuta paura temono. Maravigliasi l’amiraglio di tanta viltà. Domanda la cagione di tanta paura: niuno gliele sa dire, ma tutti temendo rinculano. Tra’si avanti l’amiraglio, e comanda d’esser seguito: viene in su l’entrata del prato, e più ch’alcuno degli altri pavido volta le lente redine del corrente destriere, né egli medesimo conosce perché. Molte volte ripruova sé e fa riprovare i suoi; ma nulla è che più avanti passare si possa che i termini del prato, segnati ne’ confini della via entrante in quello. Con maraviglia comincia l’amiraglio a essaminare nella mente quello che da fare sia, o perché ciò avvenire possa. Niuno avviso trova, per lo quale il suo avviso si possa fornire: e subitamente muta pensiero, e fra sé dice: - Io operai male dannando i due giovani a morte villana sanza intera notizia di loro avere. Che so io chi e’ si sieno? E’ poriano essere tali che gl’iddii per loro fanno queste cose: né altramente poria essere, che sanza volontà loro tanto popolo e cavalieri da sei o da otto fossero messi in fuga, e tanti quanti noi siamo li temessimo. Veramente io credo che agl’iddii spiaccia ciò che di loro feci, e che essi sieno pronti alla loro vendetta -.
- Propone adunque l’amiraglio d’andare con segno di pace a’ vittoriosi cavalieri, se egli potrà, e dimandarli di loro condizione e dimandare la loro pace, se concedere gliela vorranno; e se i due amanti non saranno morti, di trarli di quel pericolo, e in ammenda della vergogna, onorarli sopra i maggiori del suo regno: e così com’egli divisa, così mette ad effetto. Egli si fa disarmare, e vestito di bianchi vestimenti e sottili, si fa recare un ramo d’uliva, e salito a cavallo, con quello in mano, tenta di passare nel prato tutto solo. Il passarvi gli è largito, ma non sanza alcuna paura; e pervenuto davanti a’ cavalieri che a cavallo incontro gli venieno, maravigliandosi vede con loro lo spaventevole giovane: e certo Filocolo non ebbe maggior paura di morire veggendo intorno a sé le fiamme accese, che ebbe l’amiraglio vedendosi colui presso. Egli con umile e con tremante voce cominciò loro così a dire:
- - O chi che voi vi siate, vittoriosi cavalieri, vendicatori per la vostra pietà della villana morte de’ due giovani, contro a’ quali io sanza ragione fui crudele, gl’iddii, i quali sanza dubbio favorevoli a voi conosco, in meglio avanzino i vostri disii. Io con segno di pace in mano vengo per quella a voi, a’ quali guerriere mai non saria stato se conosciuti v’avessi per adietro, come ora conosco: piacciavi di concederlami. Voi avete tanti de’ miei cavalieri morti, che degnamente è vendicata la morte degli arsi giovani, se vostra cosa erano e se per vendicare quelli, qui veniste, com’io credo; e ciò si vede, ché ’l prato, pure stamane tutto verde, ora vermiglio e pieno di morti e di feriti discerno, e ’l mare ancora per paura di voi tiene parte della mia gente annegati. E con tutto questo, se di costoro la morte per li morti non fosse ammendata, vaglia la mia umiltà il mancamento della vendetta. Gl’iddii perdonano agli uomini, e voi per essemplo di loro ne perdonate -.
- Rispose Ascalion all’amiraglio: - Veramente l’ira degl’iddii merita chi pace rifiuta per avere guerra, dove meritevolemente può pace cadere. Noi, vaghi della salute de’ due giovani, qui venimmo, e trovandogli in modo che morti gli credevamo, per morire e per vendicarli combattemmo. Ma gl’iddii a loro e a noi graziosi, loro e noi da morte con vittoria ci hanno salvati in vita: essi nelle fiamme vivono sanza alcuna offesa. E se noi tanta gente abbiamo morta e loro riabbiamo vivi, di ciò niuna mala volontà ci dee da te essere portata, anzi ne puoi molto essere contento, pensando che l’ira degl’iddii, la quale giustamente dovea sopra te cadere per la tua ingiustizia, è sopra parte del tuo popolo caduta. Sia adunque ciò che fatto avemo in luogo di punizione del tuo fallo, ch’avesti ardire gli amici degl’iddii tentare d’uccidere con fuoco. Ora quello ch’è fatto adietro non può tornare. Tu cerchi la nostra pace e la tua ci profferi: noi la ti doniamo, e tu prendi la nostra, e sicuro vivi, e di tanto ti facciamo certo, che, se morti fossero i due giovani, tu morresti, e la tua città, assalita da noi con fuoco, saria consumata, e da noi uccisi tutti coloro che giunti fossero, mentre la vita e la potenza ne durasse. Va adunque, e coloro cui tu facesti legare fa sciogliere, e della infamia, in che per la tua ingiusta opera sono corsi, in vera fama li fa ritornare, e pensa di chiara e intera pace servare, se l’ira degl’iddii e la nostra non vuogli guadagnare -.
- Di ciò che Ascalion dice, si maraviglia l’amiraglio, e dubita forte, udendo le sue parole, che pace non gli sia rotta, e promette loro con ferma intenzione, per gli suoi iddii, servarla a loro. E poi che con amichevoli parole fra l’una parte e l’altra hanno pace fermata, l’amiraglio, che sanza modo del miracolo degl’iddii si maravigliava, vedendo il fummo e udendo parlare coloro cui morti credea, chiamò a sé molti de’ suoi, a’ quali disarmati fu licito di potere a lui venire, a’ quali egli comandò che ogni ingegno adoperassero che il fummo rompessero e passassero in quello, e i giovani sciogliessero. I quali, lieti tutti della vita di Biancifiore, apparecchiandosi d’ubidire al comandamento, niuno loro ingegno o forza fu necessaria, ché Venere solvé la durezza del fummo, e quello, spandendosi, se ne salì in aere, lasciando i giovani, intorniati dagli accesi tizzoni, tutti al popolo scoperti: e tirate le brace indietro, con diligenza furono disciolti, e tratti quindi così freschi come rugiadosa rosa colta nell’aurora. Niuna cosa li avea offesi, fuori che alquanto i legami, de’ quali ancora i segnali nelle dilicate carni si pareano. Elli fu loro di presente porti preziosi vestimenti, e Ascalion, e ’l duca, e Parmenione e gli altri, smontati de’ deboli cavalli, infinite volte abbracciandoli, e pensando al gran miracolo, appena loro gli parea aver salvi, pur domandando se alcuna cosa loro nociuto avesse. A costoro solamente Biancifiore, che di buono amore li amava, rispondea, e con loro parlando e per pietà lagrimando, non avendogli di gran tempo veduti, facea festa, faccendosi maraviglia della loro virtù, vedendo il prato pieno di morti e di feriti. Furono loro apprestati i cavalli, e montati sopr’essi, l’amiraglio disse: - Se vi piace, partianci da questi pianti e nella città andiamo a far festa, rallegrandoci di tanta grazia, quanta dagl’iddii possiamo riconoscere d’avere questo dì ricevuta -.
- Seguesi il consiglio dell’amiraglio, e cavalcano tutti insieme, e quelli strumenti che con guerreggevole voce uscirono della città, mutati in segno di letizia precedendoli gli accompagnano. Biancifiore cavalca con Ascalion e con gli altri compagni, e con loro de’ suoi infortunii va ragionando, ora parlando con l’uno, ora con l’altro: e essi contano a lei de’ loro insieme avuti con Filocolo. L’amiraglio appresso costoro cavalca con Filocolo, e riguardandolo nel viso e notando gli atti suoi, nel cuore nobilissimo e d’alta progenie lo estima; e maravigliandosi di tante cose quante vedute avea quel giorno, e vedendo per cui, arde di disiderio di sapere chi egli sia; per che a Filocolo così cominciò a dire: - O giovane, il quale più che altro puoi vivere contento, considerando alla benevolenzia degl’iddii, la quale intera possiedi, secondo il mio parere, io ti priego per quel merito che tu dei loro di tanto dono, quanto oggi t’hanno conceduto, che obliando la crudeltà che verso di te, non conosciuto da me, oggi ho usata, che ti piaccia di dirmi chi tu se’, e onde, e come a questa giovane nell’alta torre salisti. E di ciò contentarmi non ti può nuocere, né cagione alcuna spaventarti, però che vedendo la benivolenzia degl’iddii tanta verso di voi, ogni ingiuria a me fatta ho perdonata, e buona pace tra te e’ tuoi compagni e me è fermata. Adempi adunque per la tua nobiltà il mio disio -.
- Filocolo, udite le parole dell’amiraglio, pensa un poco, e prima che risponda, essamina quello che convenevole sia da dire, e che da tacere, e conosce omai convenevole l’essere conosciuto, poi che acquistata ha colei per cui il suo nome celava, e così gli risponde: - Signore, niuna paura mi farà tacere la verità a voi disiderante di sapere chi io sia, e però che vi sia più caro che io viva che se io fossi morto, più volentieri vel dirò. Siavi adunque manifesto che io mi chiamo Florio, e per tema della fama del mio nome, divenuto pellegrino d’amore, in Filocolo il trasmutai, e così ora m’appellano i compagni, e sono nipote d’Atalante sostenitore de’ cieli, al quale Felice re di Spagna mio padre fu figliuolo. E dalla mia puerizia innamorato di Biancifiore, discesa dell’alto sangue dell’Africano Scipione, nata nelle nostre case, come fortunoso caso volle, essendo ella falsamente, e di nascosto a me, venduta e qui recata, infino in questo luogo mediante molti avversi casi l’ho seguita. E sappiendo che nella gran torre dimorava, né potendo a lei in alcun modo parlare o vederla, avendo le condizioni della torre interamente spiate, ammaestrato dalli ingegni della mia madre, a mio padre di questi paesi venuta, a cui gl’iddii ciò che seppe Medea hanno dato a sapere, in quella forma che Giove con Asterien ebbe piacevoli congiugnimenti, mi mutai, e in quella torre volai, e lei dormendo, tornato io in vera forma, nelle braccia mi recai, la quale, svegliata, lungamente a rassicurare penai, tanto la vostra signoria dottava, non ancora così subito riconoscendomi. La quale, poi che conosciuto m’ebbe, davanti la bella imagine del mio signore, che sopra l’ignea colonna nella gran camera dimora, di lui faccendo Imineo, per mia sposa con letizia la sposai, e con lei, dalla notte passata avanti a questa, infino a quell’ora dimorai che stamattina lo sconcio popolo sopra mi vidi legarmi con lei, quando io mi destai -.
- Quando l’amiraglio udì ricordare il re Felice e dire: "la mia madre venne al mio padre di questi paesi Filocolo nel viso e disse: - Ahi, giovane, non m’ingannare, scuopramisi la verità intera, come promettesti, e se tu se’ figliuolo di colui cui conti, accertamene con giuramento -. A cui Filocolo disse: - Signore, per dovere de’ vostri regni la corona ricevere, io non vi narrerei se non la verità, e giurovi per la potenza degl’iddii, che oggi delle vostre mani sanza morte m’hanno tratto, ch’io sono di colui figliuolo, di cui io vi parlo -. L’amiraglio non aspettando più parole, lieto sanza comparazione, così a cavallo com’era, abbracciò Filocolo, e baciollo centomila volte: - O caro nipote! O gloria de’ parenti miei! O spettabile giovane, tu sii il ben venuto. Io, fratello alla tua madre, non conoscendoti, oggi t’ho tanto offeso! Oh, che maladetta possa essere la mia subitezza! Oimè, perché avanti il subito comandamento non ti conobbi io? Tu saresti stato da me onorato, sì come degno. Io ho fatta, per ignoranza della tua grandezza, cosa da non dovere mai essere dimenticata né a me perdonata. Io non sarò mai lieto qualora di questo accidente mi ricorderò. Io posso dire che io più ch’altro uomo dagl’iddii era amato, se io avanti all’offesa t’avessi conosciuto, ben che assai di grazia m’abbiano conceduta, avendo per la loro pietà tornata indietro tanta mia iniquità, campandoti. Tu mi sei più che la propia vita caro. Ma certo del mio fallo parte a te si dee apporre, però che, se tu quando qui venisti, mi ti fossi palesato come dovevi, tu, fuggendo la ricevuta avversità, avresti il tuo disio avuto sanza fatica e sanza alcun pericolo: tu saresti da me stato onorato sì come tu meritavi. L’occultare del tuo nome, e di te a me, e la mia subita iniquità, m’hanno fatto contro a te villana crudeltà usare. Alla quale emendare, considerando chi tu se’, io non conosco la via: sola la tua benignità priego che tanta cosa metta in oblio, sopra di me sodisfaccendo ogni male commesso. E da quinci inanzi, di me e del mio regno, secondo il tuo piacere, disponi, e dell’acquistata giovane co’ pericoli e con gli affanni, così come il disio ti giudica, ne sia. La quale, avvegna che io per adietro assai ho onorata, molto più, pensando a’ suoi magnanimi antichi, se conosciuta l’avessi, onorata l’avrei, ben che nimici grandissimi fossero a’ nostri per lo loro comune -.
- Non fu meno caro a Filocolo dall’amiraglio essere per parente riconosciuto, che all’amiraglio fosse; e faccendogli quella festa che a tanto uomo si convenia, gli cominciò a dire: - Signore, di ciò che oggi è avvenuto non voi siete da incolpare, ma io solamente, il quale presuntuoso oltre al dovere, non conoscendovi, tentai le vostre case contaminare. La fortuna nell’ultima parte delle sue guerre m’ha con debita paura sotto la vostra potenza voluto spaventare, e gl’iddii nel principio de’ miei beni con sommo dono m’hanno voluto dare speranza a maggiori cose. A me non è meno caro con tanti e tali pericoli avere Biancifiore racquistata, poi che sani e salvi siamo, ella e io e i miei compagni, che se con più agevole via racquistata l’avessi. Le cose con affanno avute sogliono più che l’altre piacere: e però a tutte queste cose considerando, sanza più delle passate ricordarci, faremo ragione come se state non fossero, e delle nostre prosperità facciamo allegra festa -. Consente l’amiraglio che così sia, e dimanda dello stato del vecchio re e della sua sorella e di Filocolo madre. Filocolo gli risponde lungo tempo esser passato che di loro niuna cosa avea udita; ma, come dolorosi della sua partita gli avea lasciati, gli racconta. Appressansi a questa festa i compagni di Filocolo, e l’amiraglio conoscendolo per ziano di Filocolo, come signore onorano, e egli loro come fratelli riceve, e a Biancifiore con riverente atto delle passate cose cerca perdono, profferendolesi in luogo di fratello in ciò che fare potesse che le piacesse. Ella per vergogna il candido viso, nel quale ancora vivo colore tornato non era per la passata paura, dipinse di piacevole rossezza, ringraziandolo molto e dicendo che, appresso Filocolo, per signore il tenea. E con questi ragionamenti e con altri lieti pervengono alla città.
- Entrano costoro con letizia in Alessandria, e pervenuti alla real corte, scavalcano, e salgono nella gran sala, e quivi truovano Sadoc e Glorizia legati e fare grandissimo pianto. Costoro avea l’amiraglio fatti prendere, per sapere da loro come Filocolo a Biancifiore salito fosse, e per farli poi, se colpevoli fossero stati, vituperosamente morire: e già fatto l’avria, se il subito furore preso per le parole d’Ircuscomos, non fosse sopravenuto. I quali vedendo, Filocolo, mosso a debita pietà de’ loro pianti, per loro priega, e di grazia domanda che se in alcuna cosa avessero offeso, sia loro perdonato, sembianti faccendo di non conoscerli. All’amiraglio piace, e sanza niuna disdetta fattigli disciogliere, comanda che con loro insieme si rallegrino, vivendo sanza alcuna paura. Cominciasi la festa grande: i due amanti di reali vestimenti sono incontanente rivestiti. E cercando già Febo di nascondersi, declinando dal meridiano arco, e essi ancora digiuni, con gli altri compagni, i quali tutti con preziosi unguenti aveano le loro piaghe curate, pigliano i cibi, e con graziosi ragionamenti infino alla notte trapassano. E quella sopravenuta, apparecchiata a Filocolo e a Biancifiore una ricca camera, vanno a dormire, e il simigliante fa ciascuno degli altri, e l’amiraglio.
- Le notturne tenebre, dopo i loro spazii, trapassano, e Titan, venuto nell’aurora, arreca il nuovo giorno. Levansi gli amanti, e l’amiraglio e Ascalion e’ suoi compagni: e venuti nella presenza di Filocolo, Filocolo domanda da potere sacrificare, però che avanti a tutte l’altre cose vuole i voti e le promessioni fatte persolvere. Piace all’amiraglio, e le necessarie cose apprestano. Visita adunque Filocolo per Alessandria tutti i templi, e quelli di mortine incorona. Egli a Giunone uccide il tauro e a Minerva la vacca e a Mercurio il vitello; a Pallade le sue ulive e a Cerere frutta e piene biade, e a Bacco poderosi vini, e a Marte egli co’ suoi compagni offerano le penetrate armi, e a Venere e al suo figliuolo, e a qualunque altro dio o dea celestiale o marino o terreno o infernale offera degni doni, sopra gli altari di tutti accendendo fuochi; e ’l simigliante fa Biancifiore, e Ascalion e i suoi compagni, e con loro l’amiraglio e molti cittadini, solvendo infinite promissioni fatte a diversi iddii per la salute di Biancifiore. Adempiute le promissioni fatte da Filocolo e da Biancifiore la notte del loro lieto congiugnimento, contenti tornano alla real casa da molti accompagnati, dove riposati con festa s’assettano alle tavole poste, e prendono gli apparecchiati mangiari, con l’amiraglio insieme.
- Fatti i sacrificii e presi i cibi, l’amiraglio chiama in una camera Filocolo e’ suoi compagni, e quivi con molte parole esprime l’effettuoso amore che a Filocolo, come a caro parente, porta. Ultimamente il dimanda se suo intendimento è per vera sposa Biancifiore tenere. A cui Filocolo risponde sé mai altro non avere disiderato che Biancifiore per isposa: la quale poi che gl’iddii conceduta gliel hanno, mentre l’anima col corpo sarà congiunta, altra che lei avere non intende. L’amiraglio, che più per contentarlo che per riprenderlo dimorava, loda il suo piacere, e dice: - Non è convenevole cosa che sì alta congiunzione furtivamente sia stata fatta: e però, quando di voi piacere sia, narrando prima a’ nostri suggetti la tua grandezza, i quali forse si maravigliano dell’onore ch’io ti fo, in cospetto di loro la sposerai, e con quella festa che a tante sponsalizie si conviene, lietamente le nozze celebreremo -.
- A Filocolo e a’ compagni piace tale diviso, e di ciò fare nello albitrio dell’amiraglio rimettono, il quale volonteroso d’onorare Filocolo, comanda che i morti corpi sieno levati della gran prateria, e data loro sepoltura; - ciascuno, lasciando ogni dolore, s’apparecchi a fare festa -. E dà il giorno a’ suoi popoli, nel quale tutti nella gran prateria vegnano, acciò che la cagione della comandata festa a tutti si manifesti. Vanno adunque i parenti de’ morti nel sanguinoso prato, e a’ tristi busti con tacito pianto danno occulti fuochi la vegnente notte, e poi debita sepoltura. E’ feriti da scaltriti medici sono aiutati, mettendo per comandamento del signore le ricevute offese in non calere.
- Il giorno dato viene, e il vermiglio prato ritornato verde riceve la moltitudine de’ nobili e del popolo sopravegnente in quello. L’amiraglio, che con discreto stile avea ordinata l’alta festa, vestito di reali vestimenti e coronato d’oro, e con lui in simile forma Filocolo e Biancifiore, discende nella gran corte: e saliti sopra i gran cavalli tutti e tre, e accompagnati da’ più nobili, con canti e con graziosi suoni se ne vengono al prato pieno di gente. E quivi smontati da cavallo e saliti tutti e tre in parte che da tutti poteano essere veduti, Filocolo alla destra mano e Biancifiore alla sinistra dell’amiraglio, l’amiraglio, dirizzato in piede, diede segno di voler parlare, con la mano comandando il tacere.
- Tacque ogni uomo, e con riposato silenzio si diede ad ascoltare l’amiraglio, il quale così cominciò a dire: - Signori, la non stabile fortuna diede co’ suoi inoppinati movimenti che Biancifiore, nobilissima giovane, dell’alto sangue di Scipione Africano discesa, da noi da poco tempo in qua conosciuta, nascesse nelle reali case del gran re Felice, degli spagnuoli regni gastigatore, in uno medesimo giorno con Florio qui di lui figliuolo e a me caro nipote, della quale egli ancora ne’ puerili anni, sì come gl’iddii delle cose che avvengono consenzienti, innamorò. Al cui amore, avuta da’ contrarii fati invidia, fu con gran sollecitudine cercato di porre fine, dubitando di non pervenire a quello che i movimenti celestiali, secondo alcuni, avvegna che non savi, incessabili, gli hanno ultimamente condotti, egli, per fuggire questo, dando fede al sottile inganno fatto per alcuno, che oltre al dovere l’odiava, consentì che al fuoco dannata fosse; dove ella pervenuta, e di sua salute incerta, fu dagl’iddii e da costui con mirabile aiuto soccorsa e levata da tale pericolo. La qual cosa vedendo, il re, acciò che quello che pur volea fuggire non gli seguisse, lei, moltitudine di tesori venduta a’ mercatanti, diede ad intendere essere morta, la quale Florio, uccidendosi, s’avea proposto di seguitarla: ma, la verità narratagli dalla madre, a me carnale sorella, rimase in vita. Ella fu qui da’ mercatanti recata, e da me, per donare al Soldano, tesori sanza numero comperata; e qui da lui, molti pericoli medianti, seguita, con sottile ingegno s’argomentò di congiungere quello che ’l padre con tanti avvisi avea voluto dividere. E andato per artificio mai non udito a lei nell’alta torre, con lei il trovai dormendo, e mosso a subita ira, quasi con la mia spada non gli uccisi; ma gl’iddii, a cui niuna cosa s’occulta, conoscendo che ancora da loro gran frutto dovea uscire, li difesero dal mio colpo. Ma non però mancata la mia ira, con furore li giudicai come vedeste; e quanto gl’iddii gli aiutassero, ancora vi fu manifesto. Venuti adunque per tante avversità e per sì fatti pericoli com’io v’ho narrato, aiutati in tutto dagl’iddii, disiderano sotto la nostra potenza di congiugnere quell’amore che insieme si portano per matrimoniale legame. Alla qual cosa, conoscendo noi che degl’iddii è veramente piacere, abbiamo voluto che voi siate presenti, e rallegrandovi di ciò che gl’iddii si rallegrano, ciascuno secondo il suo grado faccendo festa li onori, considerando che l’uno figliuolo è di re, e la sua testa è a corona promessa, l’altra d’imperiale sangue è discesa -. Tacque l’amiraglio, e le trombe e molti altri strumenti sonarono, e le voci del popolo grandissime nelle lode dell’amiraglio e de’ novelli sposi toccarono le stelle.
- Mancati i romori e riavuto il silenzio, vennero i sacerdoti con vestimenti atti a’ sacrificii, e recate le imagini de’ santi iddii nella presenza dell’amiraglio e de’ novelli sposi e di tutto il popolo, coronati di liete frondi, invocando prima con pietose voci Imineo e la santa Giunone e qualunque altro iddio, che grazioso principio, mezzo e fine dovessero concedere al futuro matrimonio, e con etterna pace e in unità tenerli congiunti, la seconda volta l’anello fecero dare a Biancifiore: e sonati varii strumenti e molti canti, di festevole romore riempierono l’aere.
- Cominciasi la festa grande, e lo sconfortato popolo si comincia a rallegrare, contento che tanto uomo sia per l’aiuto degl’iddii da sì turpe morte campato. Niun tempio è sanza fuoco. Niuna ruga è scoperta, ma tutte, di bellissimi drappi coperte, e d’erbe e di fiori giuncate, danno piacevole ombra. Niuna parte della città è sanza festa, e infino al prato niuno poria un passo muovere sanza avere di gran quantità di festanti graziosa compagnia. Ordinansi giuochi, e molte compagnie sotto diversi segnali fanno diverse feste. I mangiari copiosamente dati danno materia di più festa. L’amiraglio per amore di Biancifiore comanda che alle vaghe donzelle, alle quali mai non fu licito uscire, la torre sia aperta, e che esse liete vengano con la loro compagna a festeggiare. Discendono tutte, e date le destre a Biancifiore, con lei si rallegrano, dandosi lieti baci in segnale di vero amore. La festa multiplica nel prato, e gli amorosi canti e’ diversi suoni occupano che alcun’altra cosa vi si possa udire. È adunque quel luogo, che alla loro morte poco davanti fu statuito, ora ad essaltamento della loro vita diterminato. Quel luogo, ove ardente fuoco per consumarli era acceso, ora d’odoriferi liquori tutto inaffiato porge diletto a’ festeggianti. Quel luogo, ove pochi giorni inanzi gli uomini armati la morte l’uno dell’altro cercavano, ora pieno di pace, di concordia e d’allegrezza vi si festeggia. Quel luogo, che poco inanzi era pieno di sangue e d’uomini morti e di pianti, ora di canti e di lieti suoni e di festanti uomini e donne si sente risonare. Rivolto ha ogni cosa in contrario la mutata fortuna: le molte damigelle, che davanti per la morte di Biancifiore piangeano, ora cantando della sua vita si rallegrano. Che più brievemente si può dire, se non che: - Chi ha il male se ’l piagne -? E gli altri, come se stato non fosse niente, con intero animo festeggiano, dilettandosi di piacere a’ novelli sposi e d’onorarli.
- Questo giorno servirono alla mensa de’ novelli sposi nobili baroni e assai: nel quale Ferramonte, duca di Montoro, ricordandosi d’aversi vantato al paone di dovere Biancifiore, il giorno della festa delle sue nozze, della coppa servire, all’amiraglio cotal dono di grazia dimandò e fugli conceduto; per che quel giorno e quanto la festa durò, graziosamente di tale uficio con reverenzia la servì. A quella mensa furono molti grandi e alti presenti da parte dell’amiraglio e di Dario e d’altri grandi uomini del paese portati, e da parte di Sadoc la gran coppa con quelli bisanti e con molti altri gioielli fu recata: di che Filocolo e lui e gli altri ringraziò debitamente, e a tutti doni alla loro grandezza convenevoli donò.
- Già il sole minacciava l’occaso, quando all’amiraglio e a Filocolo parve di tornare alla città; ma Parmenione che d’adestrare Biancifiore a casa del novello sposo era al paone vantato, non essendogli uscito di mente, vestito con Alcipiade figliuolo dell’amiraglio, e con alcuni altri giovani nobili della città, di drappi rilucentissimi e gravi per molto oro, al freno di Biancifiore vennero, e quella infino al real palagio adestrandola accompagnarono, dove ella, con festa tale ch’ogni comparazione vi saria scarsa, fu ricevuta.
- Menedon che la sua promissione non avea similemente messa in oblio, dimandati all’amiraglio compagni, e da lui molti nobili giovani della città ricevuti, con varii vestimenti di seta sopra i correnti cavalli, di simile vesta coperti, più volte mentre la festa durò, quando con bigordi e quando con bandiere, i cavalli, tutti risonanti di tintinnanti sonagli, armeggiando, onorevolemente la festa essaltò. Ma Ascalion volonterosamente il suo voto avria fornito, ma, non guarito ancora delle ferite ricevute alla passata battaglia, alla gran pruova, di che vantato s’era, non avria potuto resistere: però, comandandolo Biancifiore, se ne rimase. E Messaallino similmente, lontano a’ suoi regni, non poté il suo vanto allora adempiere, ma riserbollo a fornire nella loro tornata a Marmorina.
- Contenti adunque Filocolo e Biancifiore della mutata fortuna, nella gran festa più giorni lieti dimorarono, ringraziando con pietose lode gl’iddii che da gran pericoli a salutevole porto gli avean recati e posto aveano alle loro fatiche fine, disiderando di tornar omai lieti al vecchio padre.
- Aspro guiderdone porgevano i cieli sopra i parenti di Filocolo per le loro operazioni. Essi, per la sua partita rimasi con dolore inestimabile, spendevano i loro giorni in lagrime e in prieghi: la superflua malinconia di loro medesimi fa loro perdere ogni sollecitudine. I reali visi con miserabile aspetto mostrano avere la dignità perduta. I pianti hanno inasprite le guance, e il dolore ha congiunta la dolente pelle con l’ossa; e i capelli e la barba, più bianchi che non soleano, danno de’ pensieri e degli affanni convenevoli testimonianze; e i vestimenti oscuri, portati più lunga stagione che la loro grandezza non dava, non lasciava loro né altri rallegrare. Essi, ben che col corpo ne’ loro palagi dimorassero, seguivano con la mente il caro figliuolo, faccendo del suo cammino diverse imaginazioni, sempre temendo. Né udivano alcuna novella d’alcuna parte, che essi di lui non dubitassero: e gl’infiniti pericoli ne’ quali i pellegrinanti possono incappare, tutti per lo petto loro si rivolgeano, con paura non forse in alcuno incappasse il loro Filocolo; similemente dubitando del luogo dove la sua Biancifiore ritrovasse, non forse fosse tale che grave danno ne gl’incorresse, o che, non potendola riavere, di dolore morisse, o disperato a loro mai non reddisse: e quasi di lui sanza alcuna speranza di bene viveano, vedendo o con la imaginazione o per visione quasi ciò che nel suo cammino gli avvenne. E questo consentivano gl’iddii, perché più multiplicando il loro dolore, più fossero degnamente della loro nequizia puniti. E a questa miseria e doglia aveano per compagnia tutto il loro reame, il quale, in desolazione dimorando, dubitavano della morte del vecchio re, non sappiendo che consiglio pigliarsi dopo quella, per la vedova corona, poi che loro perduto parea avere Filocolo.
- Era già il decimo mese passato, poi che Filocolo ricevuto avea per sua la disiata Biancifiore, e ’l dolce tempo tornato cominciava a rivestire i prati e gli alberi delle perdute frondi, avendo Delfico toccato il principio del Montone, quando a Filocolo tornò nella memoria l’abandonato padre e la misera madre, e fu di loro da degna pietà costretto. Egli vide il tempo grazioso a navicare, propose di tornare a rivederli con la cara sposa, e rendere loro con la sua tornata la perduta allegrezza. Nel qual proponimento dimorando, un giorno a sé chiamò l’amiraglio e Ascalion e gli altri suoi compagni e amici, e il suo proponimento a tutti fece palese. I compagni il lodano, ma all’amiraglio, che di buono amore l’amava, pare grave tale ragionamento, pensando che, acconsentendolo, la partita di Filocolo ne seguiva. Rispondeli così: - Ogni tuo piacere m’è a grado, ma dove esser potesse, assai mi saria il tuo rimanere più grazioso, avvegna che a tanto uomo io non sia possente di dare onorevole grado quale si converria, ma quello ch’io posso, sanza infingermi, volentieri doneria -. A cui Filocolo rispose: - Io non dubito che più ch’io sia degno non sia da voi onorato, ma il conosco, e sentomene obligato sempre a voi; e dove e’ non fosse il debito amore che mi strigne di rivedere i vecchi parenti, e con la mia tornata a loro rendere la perduta consolazione, e similemente visitare i miei regni, i quali sanza conforto stanno, credendomi aver perduto, io in niuna parte volentieri dimorerei come in queste, e massimamente con voi, da cui, appresso agl’iddii, la vita, l’onore e ’l bene e la mia Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose disiderai e amo, riconosco -. - Adunque - disse l’amiraglio - il vostro piacere farete, e non che a questo io vi storni, ma confortare vi deggio, e così farò: omai giusta cosa è che delle sue cose ciascuno si rallegri più che gli strani -. Disse adunque Filocolo: - Comandate che la nostra nave sia racconcia, acciò che, quando i venti al nostro viaggio saranno, possiamo con la grazia degl’iddii intendere al navicare -.
- Poi che l’amiraglio vide la volontà di Filocolo, egli comanda che la sua nave sia acconcia e tutta di nuovi corredi riguarnita, e in compagnia di quella molte altre ne fa aprestare. Viene il proposto giorno della partenza: il mare imbianca per li ripercossi mari e mostra poche delle sue acque, in quella parte occupato da molti legni; e il romore de’ navicanti e dell’acque e de’ suoni riempiono l’aere; e cercano di partirsi. Filocolo, che con violate vele e vestimenti era, elli e’ suoi compagni, venuto, comanda che, levati via quelli, s’adornino di bianchi, e fa inghirlandare i templi e dare sacrificii agl’iddii, mescolati con prieghi, che benivoli li facciano i venti e le marine onde, e lui co’ suoi con perfetta salute producano a’ disiderati luoghi. E già l’occidentale orizonte avea ricoperto il carro della luce, e le stelle si vedeano, quando il vento più fresco venne, per che a’ marinari parve di partirsi. E a salire sopra l’acconcia nave chiamarono Filocolo, il quale con grandissima compagnia e d’uomini e di donne a’ marini liti pervenne; e quivi con pietoso viso e animo pervenuto, dall’amiraglio prese congedo, prima de’ ricevuti beneficii rendendogli debite grazie, appresso da Alcipiades e da Dario e da Sadoc, a lui carissimi amici, s’accomiatò, e salì sopra la bianca nave. Da questi tutti con lagrime si parte Biancifiore e Glorizia, e salgono appresso a Filocolo, le quali Bellisano e Ascalion e ’l duca e gli altri compagni di Filocolo tutti, avendo a coloro che rimaneano porte le destre mani e detto addio, seguirono. E così tutti ricolti, l’una parte piglia il mare, l’altra la terra e gli animi che per lunga consuetudine e per iguali costumi erano divenuti uno, tengono luogo in mezzo la distanza, riscontrandosi quasi, partiti da’ corpi che si dividono.
- La fortuna pacificata a’ due amanti, e i fati recanti già a’ suoi effetti i piaceri degl’iddii, concedeano graziosi venti alle volanti navi. A’ quali poi che i remi perdonarono, al mare furono date le bianche vele, né prima si calarono che i porti di Rodi l’avessero in sé raccolte, dove, ad istanza de’ prieghi di Bellisano, Filocolo e Biancifiore co’ suoi discesero in terra, e quivi da lui, più volonteroso che potente, magnificamente furono onorati: e non solamente da esso, ma da tutti i paesani per amore di lui ricevettero volonteroso onore. Piace a Filocolo il partirsi, lodando che i beni della fortuna s’usino quando gli concede. Bellisano s’apparecchia di seguirlo, ma Filocolo, conoscendolo attempato e di riposo bisognoso più che d’affanno, ringraziandolo, con prieghi il fa rimanere, e non sanza molte lagrime. Filocolo disidera d’adempiere la promessa fatta a Sisife, comanda che l’estrema punta di Trinacria sia con la prora de’ suoi legni cercata: le vele si tendono, e i timoni fanno alle navi segare le salate acque con diritto solco verso quella parte, aiutandole il secondo vento. E in pochi giorni, lasciatisi dietro gli orientali paesi, pervenne al dimandato luogo: e date le poppe in terra, con brieve scala scesero sopra le secche arene. E venuti al grande ostiere di Sisife, da lei onorevolemente e con viso pieno di festa ricevuti furono. Ella niuna parte di potere si riserbò ad onorarli, ma ancora sforzandosi le parea far poco. E dimorata con loro in graziosa festa più giorni, e sentendo che per matrimoniale legge erano i due giovani congiunti, cioè la cercata e ’l cercatore, cui essa, secondo le parole di Filocolo, fratello e sorella estimava, si maravigliò, e con umile preghiera domandò che in luogo di singulare grazia come ciò fosse le fosse scoperto. A’ cui prieghi Filocolo con riso rispose: e prima chi essi erano, e i loro amori insieme con gli infortunii brievemente narrò, nella quale narrazione il suo pellegrinare, e la cagione della nascosa verità, e ciò che avvenuto gli era, poi che da lei si partì, si contenne. Le quali cose udendo Sisife, ripiena non meno di pietà che di maraviglia, lieta ringraziò gl’iddii che dopo tanti affanni in salutevole porto gli avea condotti. Dimorati adunque quivi quanto fu il piacere di Filocolo, a lei furono cari doni da Biancifiore donati, e con proferte grandissime, all’una dall’altra fatte, si partirono. E Biancifiore dietro a Filocolo, sopra l’usata nave, che già avea i ferri tolti agli scogli, risalì; né prima vi fu suso che Filocolo comanda che verso l’antica Partenope si pigli il cammino. Il quale preso da’ marinari, avanti che il terzo sole nel mondo nascesse, nella città pervennero, e in quella, discesi in terra, entrarono: e con iguale piacere di tutti determinarono di finire il rimanente del cammino sanza navicare. Per che fatti porre in terra i ricchi arnesi e’ gran tesori, e quegli uomini che a Filocolo piacque di ritenere con seco, comandò che alla bella città di Marmorina n’andassero, e di Filocolo e de’ compagni e della loro tornata vere novelle portassero al vecchio re Felice e ad ogni altro amico e parente loro.
- Rimasero Filocolo e’ suoi, partite le navi, sopra il grazioso lito, nella ricca città molti giorni prendendo diletto, e da’ cittadini onorati, e pieni di grazia nel cospetto di ciascuno. Ma però che nelle virtuose menti ozioso perdimento di tempo non può con consolazione d’animo passare, Filocolo con la sua Biancifiore cercarono di vedere i tiepidi bagni di Baia, e il vicino luogo all’antica sepoltura di Meseno, donde ad Enea fu largito l’andare a vedere le regioni de’ neri spiriti e del suo padre; e cercarono i guasti luoghi di Cummo, e ’l mare, le cui rive, abondevoli di verdi mortelle, Mirteo il fanno chiamare, e l’antico Pozzuolo, con le circunstanti anticaglie, e ancora quante cose mirabili in quelle parti le reverende antichità per li loro autori rapresentano: e in quel paese traendo lunga dimoranza, niuno giorno li tiene a quel diletto, che l’altro davanti li avea tenuti. Essi tal volta guardando l’antiche maraviglie vanno e negli animi come gli autori di quelle diventano magni. Tal volta nei sani liquori gli affannati corpi rinfrescano, e alcune con picciola navicella solcano le salate acque, e con maestrevole rete pigliano i non paurosi pesci; e spesse volte agli uccelli dell’aere paurosi, con più potenti di loro danno dilettevoli incalciamenti a’ riguardanti. E alcun giorno li tiene ne’ ramosi boschi, con leggeri cani e con armi seguitando le timide bestie, poi alli loro ostieri tornando, dove in canti con dolci suoni di diversi strumenti spendono il tempo, che al sonno e al prendere de’ cibi avanza loro.
- In questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo Filocolo co’ suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da Biancifiore e da molte altre giovani, con lento passo, davanti a loro picciolissimo spazio, sanza esser cacciato, si levò un cervio: il quale come Filocolo vide, preso delle mani d’uno dei suoi compagni un dardo, correndo il cominciò a seguire; e già parendogli essere al cervio vicino, s’aperse, e vibrato il dardo col forte braccio, quello lanciò, credendo al cervio dare; ma tra il Cervio e Filocolo era quasi per diamitro posto un altissimo pino, nella stremità del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua foga un pezzo della dura corteccia scrostò dell’antico piede, egli e ella assai a quello vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l’arenoso lito, levò un ramo, e disse: - O miserabili fati, io non meritai la pena ch’io porto, e voi non contenti ancora mi stimolate con punture mortali! Oh felici coloro, a cui è licito il morire, quando quello adimandano! -. E qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de’ suoi compagni, quasi tutti pieni di paura e di maraviglia, ritenne, e quasi storditi stavano riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce così cominciò a dire: - O santissima arbore, da noi non conosciuta, se in te alcuna deità si nasconde, come crediamo, perdona alle non volonterose mani de’ tuoi danni: caso, non deliberata volontà, ci fece offendere. Purghi la tua pietà il nostro difetto, i quali presti ad ogni satisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti -. Soffiò per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in parole, così rispose: - Giovani, niuna deità in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi prieghi avrieno forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il quale sanza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuna nuocere mi possa, e nuoccia tal volta, né io possa ad alcuno nuocere; però bastimi il vostro pentere per satisfazione, né vi sia questo dagl’iddii imputato in colpa -. Seguì a questa voce Filocolo: - Dunque, o giovane, se gl’iddii, gli uomini e le fiere ti sieno graziosi e i tuoi rami con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se’, e per che qui relegato dimori -. Così rispose il pedale: - L’amaritudine, che la dolente anima sente, non può torre che a’ vostri prieghi non sia sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo l’angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda; e però così brievemente vi dico. La genitrice di me misero mi diede per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigii quasi tutta la mia puerile età seguitai; ma poi che la nobiltà dello ’ngegno, del quale natura mi dotò venne crescendo, torsi i piedi dal basso calle, e sforzandomi per più aspre vie di salire all’alte cose, avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido incappai, delle quali mai isviluppare non mi potei: di che con ragione dolendomi, per miserazione degl’iddii, in quella forma che voi mi vedete, per fuggire peggio, mi trasmutaro -. E qui si tacque.
- Poi che Filocolo sentì la dolente voce aver posto silenzio e già Biancifiore con sua compagnia essere sopravenuta, egli rincominciò così: - Se quella terra, che noi calchiamo, lungamente alle tue radici presti grazioso umore, per lo quale esse diligentemente nutrite le tue frondi nutrichino e a’ tuoi rami aggiungano copiosa quantità de’ tuoi pomi, e se il tuo pedale sia lungamente dalla tagliente scure difeso, non ti sia duro ancora parlarne e farci noto donde fosti, e il tuo nome, e come qui venisti, e per che modo nelle reti d’amore incappasti, e qual fu la cagione perché di lui dolendoti, poi in questo albero, più che in alcuno altro, ti trasformasti, e per cui, acciò che se il tuo corpo e la cara anima nascosi nella dura scorza non possono la tua fama far palese, noi sappiendo la verità da te, di te possiamo quella debitamente raccontare agl’ignoranti, i quali forse, udendo le nostre parole, mossi con noi a debita pietà, per te pietosi prieghi porgeranno agli iddii, e così la tua pena si mitighi, e la tua fama s’allunghi e si dilati -. Così come quando Zeffiro soavemente spira, si sogliono le tenere sommità degli alberi muovere per li campi, l’una fronda nell’altra ferendo, e di tutte dolce tintinno rendendo, in tale maniera tutto l’albero tremando si mosse a queste parole, e poi con voce alquanto più che la precedente pietosa rincominciò: - Io non spero che mai pietà possa per sua forza mollificare ciò che crudeltà ingiustamente ha indurato; ma perciò che quello ch’io per troppa fede sostengo, non sia creduto che per mio peccato m’avvenga, e per la dolcezza de’ vostri prieghi, che maggior guiderdone meritano che quello che domandano, parlerò e ciò che disiderate di sapere vi chiarirò. Ma perciò che sanza molte parole ciò che domandato avete, dire non vi posso, vi priego, se gl’iddii da simile avvenimento vi guardino, non vi sia duro alquanto il mio lungo dire ascoltare:
- "Nella fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi piani, si leva un picciolo colle, il quale l’acque, vendicatrici della giusta ira di Giove, quando i peccati di Licaon meritarono di fare allagare il mondo, vi lasciò secondo l’oppinione di molti, la quale reputo vera, però che ad evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine conchiglie, né ancora si posson sì poco né molto le ’nteriora di quello ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si truovino, similemente i fiumi a quello circunstanti, più veloci di corso che copiosi d’acque, le loro arene di queste medesime cochiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la semplice mandria delle sue pecore, quando chiamato assai vicino a quelle onde, le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano per alleviare la loro ardente sete, e per riposo, fu: ov’egli andò, e quivi la mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu comandata, la quale egli con somma sollecitudine guardò. Avea il detto re di figliuole copioso numero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un giorno, con caterva grandissima di compagne mandate dal loro padre, andarono a porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in uno antico bosco, avvegna che bello d’arbori, d’erbe e di fiori fosse. Esse, poi che il comandamento del padre ebbero ad essecuzione messo, essendo loro del giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori ingegnosissimo, con la comandata greggia, il quale nuovamente con le propie mani avendo una sampogna fatta che più che altra dilettevole suono rendea agli uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora il sole più caldo che in alcun’altra ora del giorno, avea le sue pecore sotto l’ombra d’uno altissimo faggio raccolte, e, dritto appoggiato ad un mirteo bastone, questa sua nuova sampogna con gran diletto di se medesimo sonava, e niente di meno alla dolcezza di quello le pecore faceano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, sanza niuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l’altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Fecelo. Piacque loro. Tornano più volte ad udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a più nobili suoni, e sforzasi di piacere: Gannai, più vaga del suono che alcuna dell’altre, lo ’ncalcia a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questo s’aggiungono dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e estima beato colui cui gl’iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile gli paresse, d’essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollicitatore delle vagabunde menti, disceso di Parnaso, gli sopravenne, e per le rustiche medolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al desiderio subita speranza. Eucomos si sforza di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli spiace, ma pur discerne non convenevole a lasciarla, sanza saper come. I suoi suoni pieni di più dolcezza ciascun giorno diventano, sì come aumentati da sottigliezza di miglior maestro: l’ardenti fiamme d’amore lo stimolano; per che egli, nuova malizia pensata, propone di metterla in effetto, come Gannai verrà più ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de’ mondani accidenti, conscia del futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos usata era d’udire, e supplica, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli suoni: è ubidita. Ma il pastore malizioso con la bocca suona e con gli occhi disidera, e col cuore cerca di mettere il suo diviso ad effetto: per che, poi ch’egli vide Gannai intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua gregge, e egli dietro ad esse, e con lenti passi pervenne in una ombrosa valle, ove Gannai il seguì: e quasi avanti dall’ombre della valle si vide coperta che essa conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le avea l’anima presa. Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a quelle aggiungendo lusinghe e impromesse; e cominciolle a mostrare che questo molto saria nel cospetto degl’iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto, però che egli a lei saria come il suo padre alla sua madre era stato: e nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse, molte altre cose aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette, dubitando forse costui non forza usasse, dove le dolci parole o’ prieghi non le fossero valuti: e udendo le ’ngannatrici lusinghe, semplice le credette, e solo per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre era stato, così a lei sarebbe, e i suoi piaceri nella profonda valle li consentì, dove due figliuoli di lei generò, de’ quali io fui l’uno, e chiamommi Idalogos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che abandonata la semplice giovane e l’armento, ritornò ne’ suoi campi, e quivi appresso noi si tirò, e non guari lontano al suo natale sito, la promessa fede a Gannai, ad un’altra, Garemirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo poco spazio riceveo. Io semplice e lascivo, come già dissi, le pedate dello ’ngannatore padre seguendo, volendo un giorno nella paternale casa entrare, due orsi ferocissimi mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia morte, de’ quali dubitando io volsi i passi miei, e da quella ora in avanti sempre l’entrare in quella dubitai. Ma acciò che io più vero dica, tanta fu la paura, che, abandonati i paternali campi, in questi boschi venni l’apparato uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a più alto disio. Egli un giorno riposandosi col nostro pecuglio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl’inoppinabili corsi della inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dell’acquistare chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione il centro del cerchio il suo corpo portante, allora due volte circuisce il differente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, che l’equante una; e da che natura potenziata la virtù dell’uno pianeto all’altro portasse, e similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò tutta, non tacendo de’ suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni, mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e così essere necessario, a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere, mostrando del rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le loro regioni, e quali in quelle a loro fossero più degne dimoranze e più care, passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando, prima del Montone friseo disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello i masculini e quali feminini, quali lucidi e quali tenebrosi, quali putei, quali azemena, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual pianeto fosse casa, e quale in esso s’essaltasse, e la triplicità, e’ termini di ciascuno in quello, e le tre facce; questo ancora mostrando del sacrificato Tauro da Alcide per la morte di Cacco, e de’ due fratelli di Clitemestra, nella fine de’ quali l’estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del retrogrado Cancro cantò, e del feroce Leone, e della onesta Vergine, nella fine della quale il coluro di Libra, equinozio faccente, disse incominciare; e di lei cantò come degli altri avea cantato, mostrando nella sua fine la combustione avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte, spaventato dall’animale uscito della terra a ferire Orione: la cui prima faccia, come di Libra l’ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella avea detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale solstizio; poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de’ Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli il coluro d’Ariete cominciarsi insieme con l’equinozio del detto segno: mostrando appresso così de’ pianeti, come de’ segni le complessioni e’ sessi e le potenze diterminate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in sette e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, così quello che sotto li sette climati s’abita, come l’altro, con questo dicendo la variazione delle loro elevazioni per li diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l’udii, dopo questo, cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura più presso al polo artico dimorassero, faccendo cenìt alle maggiori notti, e assegnare la cagione per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da Occeano come l’altre bagnare. E seguitò dove Boote e la corona d’Adriana e Alcide, vincitore dell’alte pruove, fossero locati; e sanza mutar nota cantò del Corvo, per la recente acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo messo ad aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l’apportato Serpente e con lo caro Crate d’oro, essere in cielo dal mandatore locati e ornati di più stelle. E insieme con questi raccontò il luogo dove colei che la palma delibuta porta e dove il Portatore del serpente e Eridano e la paurosa Lepre co’ due Cani dimorassero, cantando poi del Nibbio, il quale le ’nteriora del fatato Toro, ucciso da Briareo, portò in cielo, ove egli fu da Giove locato e adornato di nove stelle, seguendo appresso d’Erisim, d’Istuc e d’Auriga i luoghi, e dell’Australe Corona, movendo con più soave suono come Orione, cantando sopra il portante Dalfino, fuggì il mortal pericolo, e poi per li meriti del l’uno e dell’altro meritassero il cielo, e qual parte d’esso; e dove il primo Cavallo e l’altro intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare dimorassero, dimostrò; e segnò la gloria di Perseo, e ’l suo luogo, con la testa d’Algol e dell’Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del Vaso. E rimembromi che disse ancora del Centauro e del celestial Lupo le stelle, di dietro a’ quali del Pesce e dello Alare i luoghi dimostrò, con quelli di Cefeo, e del Triangolo, e di Ceto, e d’Andromaca, e del pagaseo Cavallo; passando dietro a questi dentro alle regioni degl’iddii con più sottile canto col suo suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la rozza mente, ch’io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa di divenire esperto meritai. E già abandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m’avvidi lui essere alcuna stagione dell’anno, e massimamente quando Ariete in sé Delfico riceve, visitato da donne, le quali più volte, lente andando, io con lento passo le seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto, continuamente i dardi di Cupido fuggendo, temendo non forse, ferito per quelli, in detrimento di me aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetera d’Orfeo, poi ad essere arciere mi diedi, e prima con la paura del mio arco, del numero delle belle donne, le quali già per lunga usanza tutte conoscea, una bianca colomba levai, e fra’ giovani albuscelli seguii con le mie saette più tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere punse però mai di malinconia il cuore, che più del suo valore per poco che d’altro si dilettava. Dallo studio di costei seguire, del luogo medesimo levata, mi tolse una nera merla, la quale movendo col becco rosso piacevoli modi di cantare, oltre modo disiderare mi si fece, non però in me voltando le mie saette; e più volte fu ch’io credetti quella ricogliere negli apparecchiati seni. E di questo intendimento un pappagallo mi tolse, delle mani uscito ad una donna della piacevole schiera. A seguire costui si dispose alquanto più l’animo, ch’alcuno degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo, essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati, i campi e gli arbori partoriscono, andando le donne all’usato diletto, fece del piacevole coro di quelle levare una fagiana, alla quale io per le cime de’ più alti arbori con gli occhi andai di dietro; e la vaghezza delle variate penne prese tanto l’animo a più utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguire questa tutto si dispose, non risparmiando né arte né saetta né ingegno per lei avere, sentendo il puro cuore già tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti contaminato. Allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con discrezione m’era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne essere d’una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, più che alcuna dell’altre avea bella stimata. Allora conobbi lo ’nganno da Amore usato, il quale non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d’altra forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a quello; e rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle altre falliva, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m’apparve, e così disse: "Che ti disponi a fuggire? Nulla persona più di me t’ama". Queste parole più paura d’inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e dubitai, però che ella era di bellezza oltre modo dell’altre splendidissima, e d’alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per le quali cose io dicea essere impossibile che me volesse altro che schernire, e se potuto avessi, volontieri mi sarei dallo ’ncominciato ritratto. Ma la nobiltà del mio cuore, tratta non dal pastore padre, ma dalla reale madre, mi porse ardire, e dissi: "Seguirolla, e proverò se vera sarà nell’effetto come nel parlare si mostra volonterosa". Entrato in questo proponimento e uscito dell’usato cammino, abandonate le imprese cose, cominciai a disiderare, sotto la nuova signoria, di sapere quanto l’ornate parole avessero forza di muovere i cuori umani: e seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare tali disii. E certo non sanza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond’io avendola presa, a’ focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio cuore: e ella, abandonata la boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E s’io bene comprendea le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de’ feminili cuori, parandosi agli occhi di costei nuovo piacere, dimenticò com’io già le piacqui, e prese l’altro, e fuggita del mio misero grembo, nell’altrui si richiuse. Quanto sia il dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col propio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che ’l sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di racquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lagrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequizia a niuna delle dette cose prestò audienzia, né concedé occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale avere mai non potei, non essendo ancora il termine del dover finire venuto. Il quale io volendo, come Dido fece o Biblide, in me recare, e già levato in piè di questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, già stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in frondi di questo albero trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione d’esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle più che altro vicino albero la sua cima distende, così come io già tutto all’alte cose inteso mi di stendea. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolci a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale volessero gl’iddii ch’io ancora avessi! Ma l’agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il cuore abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le frondi verdi, e mostrerà mentre le triste radici riceveranno umore dalla circunstante terra, in che la mia speranza, molte volte ingannata, né ancora secca, né credo che mai secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e così come questo legno meglio arde ch’alcuno altro, così io, prima stato ad amare duro, poi più che alcun amante arsi, e per ogni piccolo sguardo sì mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch’io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch’io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete adunque per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servino agli speranti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, né niuna ragione si truova. Esse, schiera sanza freno, secondo che la corrotta volontà le muta, così si muovono: per la qual cosa, se licito mi fosse, con voce piena d’ira verso gl’iddii crucciato mi volgerei, biasimandogli perché l’uomo, sopra tutte le loro creature nobile, accompagnarono di sì contraria cosa alla sua virtù" -.
- Le parole del misero appena erano finite, che Biancifiore levata da sedere del luogo dove stava, per più appressare le parole sue al rotto pedale, così cominciò a dire: - O Idalogo, che colpa hanno le buone, e di diritta fede servatrici, se a te una malvagia, per tua simplicità, nocque non osservando la promessa? -. A cui Idalogo: - Se io solo da’ vostri inganni mi sentissi schernito, tanta vergogna m’occuperebbe la coscienza, che mai a’ prieghi di alcuno, quanto che e’ fossero da essaudire, non direi i miei danni, come a voi ho fatto; ma però che tutto il mondo infino dal suo principio fu e è delle vostre prodizioni ripieno, sentendomi nel numero de’ più caduto, lascio più largo il freno al mio vero parlare. Ma se gl’iddii dalle malvage ti seperino, non mi celare chi tu se’, che sì pronta alla difesa delle buone surgesti, come se di quelle fossi -. - Io sursi - disse Biancifiore - a quello che ciascuna prima operare e poi difendere dovria, sentendomi di quel peccato pura del quale in generale tutte ne biasimi: e acciò ch’io non aggiunga noia alle tue pene, sodisfarotti del mio nome. E sappi ch’io sono quella Biancifiore la quale la fortuna con tribulazioni infinite ha dal suo nascimento seguita, ma ora meco pacificata, quelle a sé ritrae, e, concedutomi il mio disio, in pace vivo -. - Or se’ tu - disse Idalogo - quella Biancifiore per la quale il mondo conosce quanto si possa amare, o essere con leale fede amato? Se’ tu colei la quale, secondo che tutto il mondo parla, è tanto stata amata da Florio figliuolo dell’alto re di Spagna, e che, per intera fede servargli, se’ nimica della fortuna stata, dove amica l’avresti potuta avere rompendo la pura fede? Se quella se’, con ragione delle mie parole ti duoli -. - Io sono quella - rispose Biancifiore. - Adunque - disse Idalogo - singulare laude meriti: tu sola se’ buona, tu sola d’onore degna, niun’altra credo che tua pari ne viva. E certo se io nella memoria avuta t’avessi, quando in generalità male di voi parlai, te avrei dello infinito numero delle ingannatrici tratta; ma in verità e’ mi pare ciò che di te ho udito maggiore maraviglia che il sentirmi in questa forma ove mi vedi. Ma se la fortuna lungamente pacifica teco viva, dimmi, che è di quel Florio, che tu tanto ami e che te più che sé ama, sì come la fama rapportatrice ne conta? -. Rispose Biancifiore: - Il mio Florio ha infino a ora teco parlato, e è qui meco: e come mi potrei io sanza lui dire felice e con la fortuna pacificata? -. - O felicissima la vita tua! - disse il tronco, - molto m’è a grado, e assai me ne contento, che voi, che già tanto foste infortunati, ora contenti stiate, pensando ch’io possa prendere speranza di pervenire a simile partito de’ miei affanni -.
- Già i corpi percossi dal tiepido sole porgevano lunghe ombre, e Febeia si mostrava in mezzo il cielo, andante alla sua ritondità, quando, Biancifiore non più parlante, Filocolo disse: - O Idalogo, dinne, per quella fede che tu già ad amore portasti, come a’ tuoi orecchi pervenne la nostra fama, con ciò sia cosa che appena ne’ nostri regni credevamo che saputi fossero i nostri amori? -. A cui Idalogo così rispose: - Come in queste parti i vostri fatti si sapessero m’è occulto, ma come io li sappia vi narrerò. Sì come voi vedete, io porgo con le mie frondi graziose ombre dintorno al mio pedale, e il suolo di fiori e d’erbe ogni anno s’adorna più bello che alcuno altro prato vicino: per la qual cosa i miei compagni, sì per conforto di me che d’udirgli mi dilettava, sì per riposo e diletto di loro medesimi, qui sovente soleano venire, e nelli loro ragionamenti dire quelle cose le quali mancamento delle mie doglie credevano che fossero, e talora credendomi piacere, con fresche onde le mie radici riconfortavano. E quando costoro questo luogo non avessero occupato, molti gentili uomini e donne vegnenti a’ santi bagni, ove voi forse ora dimorate, qui a ragionare di diverse materie, qui a far festa, se ne sogliono venire. E quando di questi tutti solo rimanessi, da’ pastori non sono abandonato: a’ quali, però che mi ricorda ch’io già di loro fui, più fresca ombra porgo che ad alcuni. E come degli altri qui vegnenti odo i varii ragionamenti, così i loro e le loro contenzioni e le battaglie de’ loro animali spesso sento, e di me hanno fatto prigioniere del perditore: tra’ quali ragionamenti molti, non so che gente un giorno qui si venne, a’ quali quasi interi i vostri casi udii narrare, forse non credendo essi essere uditi, i quali non minori che i miei riputai; e fummi caro ascoltargli, sentendo che solo negli amorosi affanni non dimorava -.
- Queste cose udite, parve a Filocolo di partirsi, e disse: - Idalogo, gl’iddii quella perfetta consolazione che tu disideri ti donino, sì come tu a noi hai delle domandate cose donata. Noi, costretti dalla sopravegnente notte, più con teco non possiamo stare, e però ti preghiamo che se per noi alcuna cosa fare si può che piacere ti sia, la ne dichi, con ferma speranza che fornita fia giusto il potere nostro -. Assai potreste fare - rispose Idalogo, - e però che nella vostra grande nobiltà confido, vi farò un priego: com’io poco avanti vi dissi, io amai una donna, dalla grazia della quale abandonato, disiderando in essa ritornare, porsi prieghi e lagrime infinite, le quali la durezza del cuore di lei niente mutarono, per che io sono in questa forma. Ora avvenne poco tempo appresso la mia mutazione, giovani a me carissimi, e consapevoli de’ miei mali, qui s’adunarono, e quasi come se a me le parole porgessero, credendomi della vendetta degl’iddii rallegrare, dissero la bella donna in bianco marmo essere mutata, allato ad una piccola fontana di chiara acqua, dimorante nelle grotte del duro monte Iberno, a mano sinistra, passata la grotta oscura. Della qual cosa io non lieto ma dolente fui, pensando che se avanti dura era a’ miei prieghi stata, omai pieghevole non saria; ma di ciò sono incerto, e però la speranza del pregare non ho lasciata, per che io vi priego che quando verso la città andrete non vi sia noia il visitare la fresca fontana, e quelle parole di me porgete alla bianca pietra che pietà vi consente. Né vi partite prima di qui, che il pezzo della dura scorza, tolta a me dal vostro dardo, sia al suo luogo renduta: poi con la grazia degl’iddii licito siavi l’andare -.
- Udito questo, Filocolo giurando promise di fare quello che dimandato gli era, e la scorza rendé al domandante, la quale così dall’albero fu ripresa come da calamita ferro: e dettogli addio, co’ suoi si partì del luogo pieno di maraviglia, del nuovo caso ragionando co’ suoi. E parlando pervennero al loro ostiere, ove preso il cibo dierono i corpi a’ notturni riposi.
- Salito il sole nell’aurora, Filocolo e’ suoi compagni si levarono e il cammino verso Partenope ripresono; e già le tenebrose oscurità della forata montagna passate, vicini al luogo dall’albero disegnato pervennero. Quivi vaghi di vedere cose nuove, non sappiendo il luogo né trovando cui domandarne, vanno con gli occhi investigando, e ciascuna grotta pensano essere la domandata fonte: ma quella nascosa da frondi, quanto più cercano più s’occulta. Ciascuno guarda se vedesse alcuno che, domandandolo, li certificasse. Niuno veggono; ma Parmenione ascoltando udì di lontano risonare l’aere di tumultuose voci, per che chiamati gli sparti compagni, disse: - Se noi in quella parte andiamo ove io sento romore di gente, leggieri ci sarà quello che cerchiamo trovare -. Piacque a tutti l’andarvi: seguitano il suono, il quale, essendo da loro, quanto più andavano, più chiaro udito gli fa certi non deviare per pervenire a quello: al quale, dopo non gran quantità di passi, lieti pervennero, e videro alquanti pastori raccolti sotto fresche ombre fare i loro montoni urtare insieme, e in merito del vincitore corone d’alloro essere poste da una parte; i quali, quando ad urtare venieno, ciascuno i suoi con voce altissima aiutava; e questo a vedere dimoravano più altre persone, per accidente quivi, sì come costoro, venute. Filocolo co’ suoi fu con festa a vedere ricevuto; ove dimorato alquanto, fé uno de’ pastori domandare della nascosa fontana. Questi li disegnò il luogo, profferendosi di mostrarla, se a guardare non avesse la vincitrice mandria. Queste parole udirono due speziosissime giovani quivi venute con loro compagnia a vedere, le quali, reputando non picciola cortesia agli strani giovani piacere, dissero: - Signori, ella è a noi notissima, né greggia, né altro impedimento ci occupa che mostrare non la vi possiamo, se i nostri passi seguire non isdegnate -. Alle quali Filocolo: - Niuna altra cosa dubitavamo, se non di non essere degni di seguire così care pedate, quando altrui che voi, di ciò che cerchiamo, dimandammo; ma poi che a voi piace verso di noi per vostra virtù essere cortesi, procedete, certe che contentissimi siamo di seguirvi -.
- Mossersi le graziose giovani, il nome delle quali l’una Alcimenal, l’altra Idamaria era, e con voci soavi e radi ragionamenti, passo inanzi passo, i disideranti menarono alla fontana, alla quale essi più volte erano stati vicini, né veduta l’aveano. Ma ciò non è da maravigliare, però che la natura, maestra di tutte le cose, co’ suoi ingegni nelle ’nteriora del monte aveva volto un rozzo arco, sopra ’l quale fortissima lammia si posava, coperchio delle chiare onde, e quel luogo, il quale essa scoperto vi lasciò per porger luce, alberi di frondi pieni l’aveano occupato. Ad essa venuti, Alcimenal disse: - Signori, qui è la fresca fonte che cercate, e quinci s’entra ad essa -, mostrando loro un piccolo pertugio, dentro al quale a scendere all’acque alcuno grado scendere si conveniva.
- Entrò in quella Filocolo, e quasi opposito all’entrata vide il bianco marmo soprastante a parte dell’acqua, e sceso in essa, fresca e dilettevole molto la vide: e ben che, di fuori dimorando, la fontana fosse d’alberi nascosa agli occhi de’ viandanti, nondimeno dentro fra fronda e fronda graziosa luce vi trapassava. Ella era d’una parte e d’altra di spine, per adietro state cariche di fresche rose; e per mezzo, a fronte al marmo, un bellissimo melogranato, le cui radici fino al fondo si distendeano, era, le cui foglie e frutti gran parte de’ solari raggi cacciava dalla fontana. Filocolo si rinfrescò le mani e ’l viso con la chiara acqua; poi, posto a sedere allato al bianco marmo, così da tutti udito cominciò a dire:
- - O pietà, santissima passione de’ giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi del misericordioso seno di Giove discendi e visiti i commossi petti dalle vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d’una medesima pena partecipi. Tu rechi agli occhi quelle lagrime le quali più che altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da’ loro proponimenti nefandi e di scacciare l’ardente ira del turbato fiele. Tu nimica delle miserie, se’ dell’offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl’iddii ci ricongiungerebbe, da’ quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se tu nol facessi? Tu se’ degli assaliti dalla fortuna cagione di graziosa speranza e di consolazione apportatrice. Che più dirò di te? Tu piena di tanta umanità se’, che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, più tosto ferino che umano sia. Tu e ’l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli sanza te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria poriano gl’iddii porgere sì grave, che molto maggiore a chi del suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu me, che dell’ultimo ponente sono, facesti dell’angosce d’Idalogo partefice, il quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e avendola amata: per che degnamente ora di sé può porgere manifesto essemplo a’ riguardanti. O amore, per la grazia del quale io i meritati doni posseggo, viva in etterno il tuo valore: il quale, io merito nel tuo cospetto alcuna grazia più che quella ch’io ricevuta posseggo, ti priego che di così fatti cuori il lontani, però che tu, benivolo co’ malivoli, degno luogo non puoi avere. Sia l’acerbità consumatrice de’ cuori che la nutricano, degni di perdere e la tua grazia e quella degli uomini -.
- Così tosto come Filocolo, dette queste parole, tacque, Idamaria, che interamente l’avea notate, disse: - O giovane, se gl’iddii te al nominato paese riportino con prospera vita, dinne onde t’è manifesto ciò che qui parli in degno dispregio della pietra che tu tocchi. Tu ne fai maravigliare, essendo tu d’occidente e noi paesane, non essendoci quello che a te è, manifesto -. Alla quale Filocolo parlando sodisfece, e domandò se ’l modo della trasformazione di quella - fosse loro noto che gliele dicessero. A cui Alcimenal: - Per udita tutto il sappiamo; e poi che n’hai col tuo dire appagate, col nostro sanza dimoranza t’appagheremo, e fiati caro -. E cominciò così:
- - I nostri antichi, che con solenne memoria le cose della loro età notarono, ne dicevano sé ricordarsi in questa parte né la pietra né il bel granato né queste spine, le quali, pochi dì sono passati, fiorite vedemmo, sì come ora sono bocciolose, non esserci, ma sola l’acqua e la grotta di questo luogo si contentavano. E similemente ne dicevano che questo luogo, il quale ora più da’ pastori che da altra gente veggiamo visitato, rideva tutto d’arbori e d’erbe, essendo con ordine il suo suolo cultivato da maestra mano: per la qual cosa i gentili uomini e le donne, vaghi di riposo e di diletto, qui per prendere quello soleano venire. Per che avvenne che di questa stagione, un giorno, donne di Partenope qui vennero a sollazzarsi, e schiusa da’ loro cuori ogni malinconia, tutte liete si dierono a’ cibi: delle quali quattro bellissime, abandonato ogni vergognoso freno, forse oltre al dovere presero de’ doni di Bacco, da’ quali stimolate, lasciata la loro compagnia, con ragionamenti e atti dissoluti si dierono ad andare fra li fruttiferi alberi correndo, l’una tal volta cacciando l’altra e l’altra tal volta dall’una essendo cacciata. Per che, riscaldate e dall’affanno e da Lieo e da’ solari raggi, per cacciare quello, le fresche ombre di questo luogo cercarono. Nel quale entrate, l’una chiamata Alleiram dove cotesto marmo dimora, non essendovi esso, essa si pose a sedere; la seconda, Airam chiamata, qui a fronte, dove le vecchie radici del bel granato vedete, s’assise; la terza, il cui nome era Asenga, dal sinistro, e Annavoi, la quarta, dal destro ad Alleiram si posero, le contrarie mani d’Airam tenendo ciascuna. E qui riposando i corpi, a’ lascivi ragionamenti non dierono riposo, ma cominciando i sommi iddii a dispregiare, sé e le loro lascivie lodando, l’una dicendo e l’altre ascoltando, così cominciarono a ragionare, prima all’altre Alleiram parlando in questa forma:
- "Già ne’ semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da riverire, dicendo alcuni, d’una semplicità con meco presi, che qui Diana, dopo i boscherecci affanni, col suo coro venia a ricreare, bagnandosi, le faticate forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteon qua entro guardando, essendoci ella, meritò di divenire cervio. Qui ancora le ninfe di questo paese testavano riposarsi, qui le naiade e le driade nascondersi: ma la mia stoltizia ora m’è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono gl’ingannati occhi de’ mondani, i quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi templi, quelle adorano, dicendole piene di deità. O rustico errore più tosto che verità! Elli hanno appo loro gl’iddii e le dee e i celestiali regni, e vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirisi i nostri visi, adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza di muovere gli uomini a grandissime cose. Dunque, quali iddii o quali dee, qual Venere, qual Cupido, o qual Diana più di noi è da esser riverita? Folle è chi crede altra deità che la nostra. Noi commoveremmo i regni a battaglie e ne’ combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl’iddii non poterono fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come:
- Quanto io fossi di sangue nobilissima non bisogna di dire, che è manifesto, né alcuno di quelli che iddii si chiamano, potrebbe con giusta ragione mostrare più la sua origine che la mia antica. Io similemente in dirvi quant’io di ricchezze abondi non mi faticherò, però che è aperto Giunone a quelle non potere dare crescimento discernevole con tutte le sue. La copia de’ parenti è a me grandissima: e oltre a tutte le cose che nel mondo si possono disiderare, son io bellissima come appare, e nel più notabile luogo della mia città situata è la lieta casa che mi riceve. Davanti la quale niuno cittadino è che sovente non passi; e quelli forestieri, i quali per terra l’oriente e ’l freddo Arturo ne manda, e Austro e Ponente per mare, tutti, se la città disiderano di vedere, conviene che davanti a me passino, gli occhi de’ quali tutti la mia bellezza ha forza di tirarli a vedermi. E ben che io a tutti piaccia, però tutti a me non piacciono; ma nullo è ch’io mostri di rifiutare, ma con giuochevole sguardo a tutti igualmente dono vana speranza, con la quale nelle reti del mio piacere tutti gli allaccio, non dubitando di dare né di prendere amorose parole. E se le mie parole meritano d’essere credute, vi giuro che Cupido molte volte, per lo piacere di molti, s’è di ferirmi sforzato. Ma né lo spesseggiare del gittare de’ suoi dardi, né lo sforzarsi, mai ignudo poterono il mio petto toccare: anzi, faccendo d’essere ferita sembiante, ho ad alcuni vedute le sue ricchezze disordinatamente spendere credendo più piacere. Alcuno altro, dubitando non alcuno più di lui mi piacesse, contra quello ha ordinato insidie; e altri donandomi mi credono avere piegata. E tali sono stati, che, per me se medesimi dimenticando, con le gambe avolte sono caduti in cieca fossa: e io di tutti ho riso, prendendo però quelli a mia satisfazione i quali la mia maestra vista ha creduti che siano più atti a’ miei piaceri. Né prima ho il fuoco spento, ch’io ho il vaso dell’acqua appresso rotto, e gittati i pezzi via. Tra la quale turba grandissima de’ miei amanti, un giovane, di vita e di costumi e d’apparenza laudevole sopra tutti gli altri, mi amò, il cui amore conoscendo, i’ ’l feci del numero degli eletti al mio diletto, e ciò egli non sanza molta fatica meritò. Egli, in prima che questo gli avvenisse, poetando, in versi le degne lodi della mia bellezza pose tutte. Egli di quelle medesime aspro difenditore divenne contra gl’invidi parlatori. Egli, occulto pellegrino d’amore, in modo incredibile cercò quello che io poi gli donai, e ultimamente divenuto d’ardire più copioso ch’alcuno altro che mai mi amasse, s’ingegnò di prendere, e prese, quello ch’io con sembianti gli volea negare. Mentre che questi dilettandomi mi tenea, non però mancò l’amore suo verso di me, ma sempre crebbe: le quali cose tutte io, fermissima resistente a Cupidine, non guardai, ma sì come d’altri alcuni avea fatto, così di lui feci gittandolo del mio seno. Questa cosa fatta, la costui letizia si rivolse in pianto. E brievemente egli in poco tempo di tanta pieta il suo viso dipinse, che egli a compassione di sé movea i più ignoti. Egli mi si mostrava, e con prieghi e con lagrime, tanto umile quanto più poteva, la mia grazia ricercava, la quale acciò ch’io gliele rendessi, Venere più volte si faticò pregandomi e talora spaventandomi e in sonni e in vigilie. Ma ciò non mi poté mai muovere: per che rimanendo perdente, il giovane, che si consumava, trasmutò in pino, e ancora alle sue lagrime non ha posto fine; ma per la bellezza ch’io posseggo, io prima dove l’albero dimora non andrò che io in dispetto di Venere farò più inanzi al dolente albero sentire la mia durezza, ch’io con le taglienti scuri prima il pedale, poi ciascun ramo farò tagliare e mettere nell’ardenti fiamme. Ben potete avere per le mie parole compreso quanta sia la potenza di Venere, la quale non de’ minori iddii, ma nel numero de’ maggiori è scritta, e per consequente possiamo di ciascun altro pensare: e però se non possono, non deono essere con così fatto nome né di tanti onori reveriti. Noi che possiamo, noi dobbiamo essere onorate: e che io possa già l’ho mostrato, e ancora, come detto ho, più aspramente intendo di dimostrarlo".
- Avea detto costei, quando Asenga, che alla sua sinistra sedea, così cominciò a dire: "Veramente ingiuria sanza ragione sostegnamo; e ben che ogni potere agl’iddii, sì come voi dite, falsamente s’attribuisca, ancora con questo è alle dee e a loro attribuita ogni bellezza. E prima diciamo della Luna, la quale non si vergognò per adietro d’amare, e sanza vergogna sostiene d’essere bella chiamata. Or non ci è egli ogni mese mille volte manifesto il suo viso variarsi in mille figure, tra le quali molte una sola n’è bella, e quella è quando essa, opposita al suo fratello, tutta quanta ci si mostra lucente, ancora che allora non so di che nebula ne mostri il suo viso dipinto? Ciascun’altra stagione, da questa infuori, difettuosa e laida ci appare, né ci si mostra, se ben riguardiamo, se non la notte, bella nella quale stagione le più laide si possono, sanza essere conosciute, tra le bellissime mescolare. Ma s’egli avviene che tra lei e Febo alcuna volta la terra si ponga, noi la veggiamo di sozza rossezza tutta contaminata: perché dunque bella? Giunone similmente e Apollo da un poco d’austro sono turbati, e guaste le loro bellezze per li suoi nuvoli. Diana non dico, però che è a presumere che se stata fosse bella non avria consentito che Atteon, per averla veduta, fosse tornato cervio, ma che avesse parlato e narrato la sua bellezza agl’ignoranti avria consentito. E più possiamo ancora di lei dire che, per che ella conobbe più la sua rustichezza essere atta alle cacce che ad amare, però quello uficio si prese. E come di queste diciamo, così di Venere possiamo dire, la quale se bella come si canta fosse stata, saria sì piaciuta ad Adone, che egli pauroso di perdere per morte sì bella dea, avria i suoi sani consigli seguiti. E similemente possiamo di molte altre dire quello che di noi non avviene. Io, bellissima, continuo bella nella mia forma mi mostro, né cambio viso né figura perch’io cambi stagione; né patisco eclissi come la luna fa, né mi nocciono i nuvoli d’austro, né i rischiaramenti d’aquilone mi giovano come ad Appollo e a Giunone fanno, anzi, e con questi e sanza quelli, continuamente bella dimoro. Né similemente mai al viso d’alcuno riguardante mi nascosi, né mi nasconderei, ma sentendomi com’io sento bella, mi diletto da molti essere amata e guardata. Io non comandai, né pregai, né consigliai mai cosa ch’ella non fosse con sollecitudine messa in effetto e osservata: dunque, più tosto io che alcuna delle sopradette sono da essere chiamata dea". E qui si tacque.
- Da poi che Asenga tacque, Airam, quasi non meno che la prima superba, lodandosi oltre modo, cominciò a parlare seguitando: "Voi la impotenza degl’iddii e ’l difetto delle loro bellezze biasimate, cosa da non sostenere in sì alto nome sanza effetto: ma più di loro mancanza vi narrerò. Essi, sì come voi sapete, delle future cose veridici proveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a’ dimandanti, aggiugnendo che le presenti sanza mezzo conoscono, e in memoria ritengono le passate. Ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: se, come già si disse, avessero forza, gli oltraggi che tutto giorno impuniti veggiamo, sanza punizione non passerieno. Similemente se le bellezze loro le nostre avanzassero, contenti ne’ loro termini non quelle per le mondane abandonerebbero, come molte volte hanno fatto e fanno. Se sì providi fossero come si tengono, non agl’ingegni delle semplici giovani si lascerebbono ingannare , né quelle con ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro mutarsi per ingannare Europa? Se belli, perché in oro per ingannare Danne? Se savi, perché non provedere all’impromessa fatta all’amata Semelè? Niuna di queste cose è in loro, e voi le due avete mostrate, e io mostrerò la terza. Io non meno bella d’Alcitoe, amata da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cuore non patefeci, ma per non disciogliere da’ miei legami alcuno, quelli che tal volta più m’erano in odio con più lusinghevole occhio li riguardava. Del numero de’ quali Febo, proveditore de’ futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli, per più lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, affrettandosi essi come erano usati d’andare all’onde di Speria, e spesso, non avendo ancora loro rimessi i freni, a quelli medesimi si crucciò, volonteroso di cercare l’aurora prima che ’l convenevole! Oh, quante volte si dolfero con lamentevoli voci le Notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo l’occupava! E’ mi ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendea, che egli ebbe presso che smarrito l’usato cammino. E se non fosse il romore di Cinosura, che, vedendolo di lontano, temeo le sue fiamme, che ’l fece in sé ritornare, egli pure avria la seconda volta arso il cielo, e io di ciò m’avria riso, se fulminato fosse caduto come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se così fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singulare signore dell’anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d’ogni parte que’ doni ch’egli credea che mi dovessero più piacere, e con quelli s’ingegnava di servare l’amore mio verso di lui, e per quelli sovente tentava di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, più oltre non la richiese. Ma io, più provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cuore lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché più m’era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credea per la sua bellezza più ch’altri piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l’amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sì come io avea voluto, di lei fidandomi, de’ miei segreti, e disegnolli il luogo degli amorosi furti, il quale egli della somma altezza vide: per che quasi per grieve dolore turbato più giorni luce non porse. Ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell’usato uficio il fece tornare: ma mai da quell’ora in avanti con diritto occhio non mi guardò, ma passando davanti a me traverso, quasi sdegnoso mi mira; di che io poco mi curo. Ora poi che così colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si faria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che molto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se non sopra loro meritiamo, almeno loro pari riputare, sanza alcuna ingiuria di loro, ci possiamo: e se l’avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama che gli chiama dei, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della nostra grazia vogliamo far degni di quella i disianti".
- Risero delle parole di costei le stolte compagne; e poi la quarta di loro, chiamata Annavoi, disse: "Perché in tante parole ci distendiamo? Veramente nell’iddii né potenza, né senno, né bellezza dimora: e ancora più, essi detti misericordiosi da tutti i viventi, di quella niente hanno. Pietà niuna in loro si trova: tiranni e usurpatori sono dell’altrui cose. E che feci io già in dispetto di Diana, la quale vendicatrice dea è chiamata? Non le levai io con la mia bellezza e con la forza della mia lingua, delle quali due cose io fui sopra tutte le partenopensi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l’uno dopo l’altro, avvegna che d’età fossero dispari, però che i due già vicini erano all’arco sopra il quale umane forze più non s’avanzano ma vengono mancando, e gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e ’l quinto non piena la barba a maggior quantità la serbava per iscemarla? Certo sì. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi e con la dolcezza del mio parlare, per lo quale meritai Sirena essere chiamata, legai io sì nelle mie reti, che avendo loro fatti gittare gli archi co’ quali prima per li boschi servivano Diana, prima de’ loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto la mia balia ascosi, cavando loro poi del sinistro lato i sanguinosi cuori, li lasciai sanza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette seguono i meno possenti. Io tale quale sia essa non la curo: e cessi del mio petto che io mai più in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno o li coltivi o porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri iddii: e quali celesti regni più belli che questi nostri si poriano trovare? Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l’errore rustico chiama iddii, si tengono signori. Chi dubita che miglior partito ha chi nella sua città guarnito dimora, che chi di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle, noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerà, e degne di quello onore che Giove e gli altri ingiustamente s’hanno usurpato".
- Tacque costei; e già la seconda volta nell’usato ordine ricominciavano il maladetto parlare con più aspre parole, quando gl’iddii, né più né meno che i cittadini della città, le cui mura subito sono assalite dal nascoso agguato de’ nemici, corrono or qua or là sanza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo delle case prendono l’arme e cercano sanza troppe parole la loro difesa, correndo a’ dubbiosi luoghi, fecero, fra’ celesti scanni da subita ira commossi, forse non meno infiammati che quando dal bestiale ardire de’ Giganti fu il cielo assalito. Li quali così corsi dierono pauroso suono e chiusero il mondo d’oscure nuvole, né a niuno vento fu tenuta la via: e crucciati tutti discesero sopra questo luogo, la cui ira temendo la terra tremò forte. Ma essi lasciato il furore, si dice che prima Venere con Cupido in questo luogo entrarono, né trovarono però il malvagio colloquio cessato, anzi quelle ferme in quello, sanza alcuna paura del divino giudicio, dimoravano. Qui Venere non salutò né fu salutata; ma volta ad Alleiram disse: "Dunque, o iniqua giovane, prendi tu gloria d’aver dispiaciuto a noi, e insuperbisci per la tardata vendetta, e minacci di peggio operare? Or non pensi tu che con riposato andamento noi procediamo delle nostre ire alla vendetta, poi il tardato tempo con accrescimento di pena ristoriamo? Tu rea di gravissimo peccato, ora riceverai guiderdone. Tu rifiutatrice de’ nostri dardi, diverrai fredda e impossibile a quelli ricevere: né più avanti piacerai, né vedrai chi per te o spenda, o muova brighe, o si dimentichi, né più di cotali riderai, né eleggerai, né romperai vasi. E come tu già niuna compassione avesti verso chi quella meritava, così molti, sappiendo i tuoi casi, forse di te compassione avranno: ma niente ti gioverà. E come altri a te per pietà già porse prieghi, così a te fia tolto di poterne porgere. E sì come io non ti potei a’ miei voleri recare, così me a’ tuoi non conducerà né uomo né dio. E prima le lagrime di colui che già fu tuo finiranno, e tornerà la perduta allegrezza per più dolce obietto che tu non fosti, che tu solamente in speranza ritorni di ritornare nella perduta forma. E le laude già dette della tua bellezza in amorosi versi, altro titolo che della tua prenderanno, né mai ti fia possibile il più nuocergli che nociuto gli abbi: anzi se la mia deità merita di conoscere alcuna delle future cose, tu, vaga di riavere la sua grazia, di quella patirai difetto, come mi pare, e misera conoscerai quanta sia la mia potenza da te con parole orribili dispregiata. Tu, dura e immobile a’ miei voleri, in durissima marmore mutera’ti, e questa grotta nella quale tu siedi ti fia etterna casa"; e più non disse. Queste parole udendo Alleiram mutò cuore, e sariasi voluta volentieri pentere, ma non ci era il tempo. Ella volle con alta voce domandare mercé, ma il sopravenuto freddo, che già alla lingua così come agli altri membri avea tolta la possa, nol sofferse: la pigra freddezza con disusato modo nel ventre ritirò le dilicate braccia e le candide gambe, e in picciol spazio niuna cosa della bella giovane si saria potuto vedere se non un bianco tronco, il quale in durissimo marmo mutato, come voi vedete, fu trovato. E se forse alcuna rossezza in quello vedete, dicesi che Lieo gliele diede, di cui più copiosa che ’l convenevole dimorava, quando qui più furiose che savie vennero baccando.
- Mentre che così Venere parlava ad Alleiram, Airam dubitò forte, e volle fuggire del luogo, ma le gambe, davanti snelle, già fatte pigre barbe di questo albero, la ritennero. E Febo venuto presente con soave voce così le cominciò a dire: "Adunque, o giovane, d’avermi ingannato, il tuo cuore celandomi e togliendomi i cari doni, ti vanti? Male e poco senno è contra lo stimolo calcitrare, ma acciò che a te non paia che noi le mal fatte cose impunite lasciamo, come avanti cantasti, tu prima per lo tuo parlare sarai punita, sì come Perillo da Falaris per lo suo medesimo artificio fu. E già parte in albero convertita, tutta in quello, avanti ch’io mi parta, ti muterai; e però che tu avesti ardire di dire di volere essere nostra pari, tu i tuoi pedali avrai torti, né fia loro licito il potersi troppo in alto distendere, ma più tosto fieno sì bassi, che con poco affanno di terra ciascuno piccolo uomo coglierà i tuoi pomi. E sì come tu de’ miei doni ti dicesti occulta sottrattrice, così de’ tuoi frutti gran parte gitterai alla terra prima che maturi li vegga: né quelli che rimarranno, sanza vederli io, maturerai già mai. E farò che, come tu del tuo cuore fosti a ciascuno occultatrice, che i frutti tuoi, come il dolce tempo della loro maturazione sentiranno, così incontanente, aprendosi in più parti, a me e a chi vedere le vorrà mostreranno le tue interiora. E della tua corteccia, però che sopra tutte l’altre bellezze la tua essaltasti, farò che chi alcuna cosa in oscuro colore vorrà del suo mutare non possa sanza il sugo di quella". E mentre che egli queste parole dicea, il miserabile corpo a poco a poco stremandosi, li suoi membri riducea a questa forma che voi vedete questo granato. Né prima che in questo albero fosse mutata, le fu possibile dire una sola parola, e manco poi.
- Asenga, nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria davanti dell’ira degli iddii fuggire? La Luna turbata le sopravenne, dicendo: "O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da noi offesa non fosti, fuori solamente se io a tuoi furtivi amori avessi forse già porta luce, fuggendola tu; ma perché io di ciò a te dispiacessi, io ad infinita gente ne piaceva: né però fu che io alcun tempo, a te e all’altre di ciò dilettantesi, non lasciassi atto a’ vostri falli. Tu noi mille forme mutare in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non più paiamo, e te continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l’anno saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute fieno, in quel colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi, le tue bocciole torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale fieno guardate, quando le frondi, di verdi tornate in gialle, fiano dal primo autunno percosse". E questo detto, il bel corpo in gracile fusto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutaro, e ’l candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo luogo.
- Diana, la cui ira non molto era mancata, stette sopra la timidissima Annavoi, dicendo: "Ancora che la vendetta s’indugi, non menoma il dolore del dolente ricevitore di quella. Tu, perfida ucciditrice de’ miei suggetti, sempre il commesso male mostrerai. Tu in essiguo corpo e debile a ciascuno offenditore, ti muterai, e nella sommità di quello partorirai un fiore, il quale, chiuso, in cinque frondette verdi mostrerà le tre età varie de’ miei sudditi, e, aperto, paleserà i mal tolti tesori, dintorno a’ quali i cinque cuori de’ miei suggetti si vedranno"; né disse più. E questa subitamente in quella forma e in quel modo che Asenga si mutò, e essa similmente; ma i fiori furono diversi, ché dove Asenga in bianco fiore con molte frondi, Annavoi in vermiglio con cinque sole, e in mezzo gialla, si trasformò. E questo fatto, gl’iddii tornarono ne’ loro regni, e l’aere cacciò i suoi nuvoli e rimase chiaro -.
- Con maraviglia ascoltò Filocolo infino a qui la parlante giovane, dicendo poi: - O giusta vendetta, quanto dei tu essere temuta da ciascuno che queste cose ascolta! Assai sostenne la divina pietà, ché certo la menoma delle molte parole meritava maggior pena! -. E con voce da questa assai diversa seguì queste altre parole: - O superbia, pericolosa pestilenza del tuo oste, maladetta sii tu! Tu, a te iniqua, non sostieni compagno. Tu, non conoscente, se’ de’ meriti guastatrice, invocatrice d’ira e suscitatrice di briga; chi seco ti tiene non sarà savio, poi che tu, più altera che possente, hai vestite le tue armi, e con gli occhi ardenti spaventi il mondo. Tu ti credi con le corna toccare le stelle, e, parlando aspro, col muovere impetuoso, rigidamente operando cacci avanti a te i men possenti; ma la vendicatrice giustizia di te contenta l’animo de’ sofferenti. Così dopo pochi passi torna la tua potenza come vela che per troppo vento, l’albero rotto, ravolta cade. Tu simile a’ robusti cerri, prima ti rompi che tu ti pieghi a’ soffianti venti. Male s’armarono queste misere per loro delle tue armi. Male le tue corna si posero: giusta vendetta l’ha umiliate, com’è degno -. E queste parole dette, si volse al carro della luce, e videlo già il meridiano cerchio aver passato, e declinare così il caldo come i raggi, per che a’ compagni tempo di tornare alla città disse che gli parea; ma prima con queste parole parlò dicendo: - O sacro fonte, veramente delle dee luogo e guardatore delle loro vendette, per quella pietà che a giusta ira le mosse ti priego, se per te Idalogo può niuno soccorso avere, donagliele: spruovisi alquanto la tua dolcezza ad ammollare l’acerba durezza della bella pietra da lui infino allo estremo dolore amata -. Alle cui parole, se possibile fosse stato le ’nteriora del marmo vedere, vedute si sarieno tremare, ma la morbida durezza del bianco aspetto, tenendo forse la sua faccia, quello non lasciò palesare. E questo detto, Filocolo con le giovani uscì di quella al chiaro giorno.
- Il debito ringraziare alle giovani da Filocolo fatto, mostrò quanto fosse stato a Filocolo caro la dimostrazione della fonte fatta da loro, e simile il chiarimento delle degne mutazioni: dopo il quale, da loro con piacevoli parole prese congedo, verso la città co’ suoi ritornando. Alla quale ancora non pervenuto, di lontano conobbe Caleon, a lui carissimo per lo non dimenticato onore, al quale egli sopravenne avanti che da lui conosciuto fosse. Ma non prima Caleon lo conobbe che con riverenza il riceveo: e partita la maraviglia, e l’amorose accoglienze finite, Caleon voltò i passi e con Filocolo nella città ritornò, de’ suoi felici casi contento, ben che a’ suoi, contrarii, alquanto la sforzevole entratrice invidia aggiugnesse dolore.
- Tornati alla città, Filocolo domanda che sia della bella Fiammetta, per adietro stata loro reina nell’amoroso giardino; alla cui domanda Caleon subito non rispose, ma bassò la fronte, e con dolore riguardava la terra. A cui Filocolo: - O caro amico, come prendi tu ora turbazione di ciò che già mi ricorda ti rallegravi? Qual è la cagione? Non vive Fiammetta? -. Allora Caleon dopo un sospiro disse: - Vive, ma la fortuna volubile m’ha mutata legge, e tale me la conviene usare, che assai più cara mi saria la morte -. - E come? - disse Filocolo. A cui Caleon: - Quella stella, al chiaro raggio della quale la mia picciola navicella avea la sua proda dirizzata per pervenire a salutevole porto, è per nuovo turbo sparita: e io misero nocchiero rimaso in mezzo mare sono d’ogni parte dalle tempestose onde percosso, e i furiosi venti, a’ quali niuna marinesca arte mi dà rimedio, m’hanno le vele, che già furono liete, levate, e i timoni, e niuno argomento m’è a mia salute rimaso: anzi mi veggio d’una parte al cielo minacciare, e d’altra le lontane onde mostrano il mare doversi con maggior tempesta commuovere. I venti sono tanti ch’io non posso né avanti né adietro andare, e se io potessi, non saprei qual porto cercare mi dovessi. E ancora che la morte mi fosse cara se mi venisse, nondimeno mi pure spaventa ella sovente sopra le torbide onde con le sue minacce, e gl’iddii hanno gli occhi rivolti altrove, e a’ miei prieghi turati gli orecchi, e i falsi amici m’hanno lasciato, e il buono non mi può atare: qual io stia omai pensatelvi -.
- Filocolo, che già tali mari avea navicati, a se medesimo pensando, di Caleon divenne pietoso, e disse: - Giovane, a quel maestro che ha più volte operando la sua arte esperta si puote e deesi credere con più giusta ragione che a quello o che la sperimenta o sperimentare la dee; né questo si può negare. Sono adunque i mutamenti della fortuna varii e le sue vie non conosciute. Già fu che io con più tempesta ne’ mari dove il tuo legno dimora mi trovai che tu non truovi, e certo io non potea sperare se non morte, né altro dintorno mi vedea, quando subitamente in porto di salute mi vidi con tranquillo mare. E tu ti dei ricordare, non sono ancora molti anni passati, quanto la tua vita alla mia fosse contraria, quando ti specchiavi nel tuo disio, e io pellegrino con grieve doglia ignorava ove il mio fosse; e ora io il mio veggio e tengo, e tu quello che avevi non tieni; per che, a me riguardando, dei sperare bene. La tua doglia è grandissima: ma chi dubiterà che dopo gli altissimi monti non sia una profonda valle? Io, il quale ho corsi i dolenti mari tutti, e a cui né scoglio né secca né porto s’occulta, in quelli voglio della tua navicella essere nocchiero, e spero con quella arte che io a salutevole porto pervenni, te delle pestilenziose onde trarrò quando ti piaccia -. - Adunque - disse Caleon, - o signor mio, nelle tue mani sia la vita mia -.
- Finito il ragionamento, e Filocolo dimorato alcun giorno con Caleon, lo stretto vinculo del paterno amore lo ’ncominciò a stringere, e con intera volontà disidera di rivedere i parenti, e così propone e comanda che verso Marmorina si prenda il cammino, e con seco mena Caleon, disideroso della futura salute. Elli passano, o Capis, la tua città, Capo di Campagna; e le fredde montagne, fra le quali Sulmona, uberissima di chiare onde dimora, si lasciano dietro, e pervengono al luogo ove l’uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica mano si dovea ancora portare in insegna. E quindi partiti, passano l’alpestre montagne e truovano le dolci onde del Tevero; e passando avanti, i gelati monti truovano ancora tiepidi delle battaglie di Persio. Né videro la sera del secondo giorno che alle graziose montagne pervennero, che nel futuro da’ vecchi doveano pigliare etterno nome. Quivi venuti, Filocolo si ricordò di Fileno, il quale in fonte lasciato avea sopra il cerruto poggetto, e disideroso di rivederlo, là egli e’ suoi compagni n’andarono, non avendo il sole ancora di quel giorno l’ottava ora toccata.
- Li grandi arnesi s’acconciarono al riposo de’ caldi giovani, e sopra le verdi erbe fra’ salvatichi cerri presono il cibo, dopo il quale, in picciolo spazio, con non pensato passo la notte li sopravenne, e il cielo pieno di chiare stelle dava piacevole indizio al futuro giorno. Per che Filocolo vicino alla fontana, sopra un praticello pieno di verdi erbette, fece chiamare Biancifiore, alla quale era ignoto il luogo dov’ella fosse, e con parole piacevoli così le cominciò a dire: - O lungamente da me disiderata giovane, dimmi, per quello amore che tu mi porti, il vero di ciò ch’io ti domanderò -. - Sì farò - disse Biancifiore. A cui Filocolo seguì: - Etti uscito della memoria Fileno, a cui tu con le propie mani donasti per amore il caro velo? O sospirasti mai per lui poi che di Marmorina temendomi si partì? -. A queste parole dipinse Biancifiore il suo candido viso per vergogna di bella rossezza, ma le notturne tenebre le furono graziose, e quello celarono, e rispose così: - Signor mio, a me sopra tutte le cose caro, e a cui niuno mio segreto dee essere ascoso, assai volte di Fileno mi sono ricordata e ricordo. E come potrà egli mai della mia memoria uscire, con ciò sia cosa che ancora mi spaventi la rimembranza della pistola ch’io da te ricevetti, turbato per falsa oppinione avuta in me per lo ricordato velo, il quale io, costretta dalla tua madre, donai, non per mia voglia? Ma veramente mai amore per lui sospirare non mi fece: anzi giuro che se licito mi fosse odiarlo, io chiederei di grazia agl’iddii che la sua memoria levassero di terra -. Disse allora Filocolo: - Sariati caro vederlo? -. A cui Biancifiore: - Certo sì, nella vostra grazia; e la cagione che a questo mi moveria non saria amore ch’io gli porti, ma sola pietà de’ suoi parenti, la vita de’ quali io reputo che simile a quella de’ vostri sia, con ciò sia cosa che egli a’ suoi unigenito sia, come voi ai vostri: ma voi per me lasciaste i vostri dolenti, e egli sanza alcuna colpa, che per sospecione di me legittima commettesse, meritò la vostra ira. Amommi, e però fu tolto al padre. Or che avria la fortuna fatto alli nocenti, se elli m’avesse odiata? Concedano gl’iddii e a voi e a me che da tutti siamo di buono amore amati, e se essere non può che amati siamo di qualunque amore, amando noi ciascuno come si conviene -. - Ottimamente parli - disse Filocolo, - e io la mia grazia e la tua presenza gli renderò, certo della tua fede, della quale ben fui per adietro certo; ma noi amanti ogni cosa temiamo, e però odiai. Come Febo ne renderà il nuovo giorno, rendute grazie agl’iddii che prima di te mi dierono speranza buona, ti farò lui vedere, il quale per dolore in su questo poggio in fontana si convertì -.
- Posaronsi la notte nel salvatico luogo sotto le tese tende, difesi da’ sopravegnenti casi da’ suoi sergenti; ma venuto il giorno, il duca e Ascalion e gli altri compagni insieme con Caleon furono a chiamare Filocolo, il quale levato, fece l’antico tempio mondare, come altra volta avea fatto, e accendere i fuochi sopra gli umidi altari; e fatti uccidere più tori per la salvazione di sé e de’ suoi compagni, con puro cuore offerse a’ fuochi le debite interiora di quelli, rendendo con queste voci grazie de’ ricevuti beni: - O sommo Giove, governatore dell’universo con ragione perpetua, e tu, o santa Giunone, la quale con felice legame congiugni e servi longevi i santi matrimonii, e tu, o Imineo, degno e etterno testimonio di quelli, lodati siate voi! Ora per voi sento pace, e ho la lunga sollecitudine abandonata, però che gli occhi miei veggono ciò che per adietro lungamente disiderarono, e le mie braccia stringono la sua salute. E tu, o santissima Venere, madre de’ volanti amori, insieme col tuo amante Marte, ricevete i nostri sacrificii; i quali sì come a protettori e guidatori delle nostre menti offeriamo. E voi qualunque iddii del solitario e diserto luogo siete abitatori, e da cui la veridica promessione ricevemmo, prendete olocausto in riconoscenza di tanto dono. O cielo, adorno di molte stelle, ricevi con tutti i tuoi iddii le nostre voci, e tu, terra, co’ tuoi, e similemente co’ suoi il verdeggiante mare; e della nostra salvazione, visitati con possibili sacrificii, vi rallegrate, e per inanzi di bene in meglio ne prosperate, acciò che nelle nostre bocche sempre cresca la vostra loda -. Biancifiore e Glorizia, Ascalion e ’l duca e gli altri compagni e servidori di Filocolo, tutti ginocchioni nel tempio davanti a’ crepitanti fuochi dimoravano, seguendo con tacita voce ciò che Filocolo alto dicea nel cospetto degl’immortali iddii. Ma finite le divote orazioni, e levati da quelle, ordinarono, ad onore di quelli, giuochi con solenne ordine, e di quindi se ne vennero sopra la bella fontana; alla quale venuti, sopra la verde erbetta che i margini di quella adornava, Biancifiore prima e poi ciascuno degli altri si posero a sedere e videro quella per li due luoghi del mezzo, sì come usata era per adietro, bollire. Di che Biancifiore, che ancora veduta non l’avea, si maravigliò, e pensando allo stato di Fileno nel quale già per adietro veduto l’avea, e a quello in che ora il vedea, pietosa sanza fine quella riguardando divenne, e parlato avria la sua pietà dimostrando, se non che avanti di lei cominciò verso Filocolo Menedon a dire queste parole:
- - O grazioso signore, debita pietà mi muove, la quale, dentro al cuore, del misero Fileno mi porge compassione, pensando che gli avversarii fati tanto tempo fuori della sua forma in questa l’abbiano tenuto: e certo se benivoli mi fossero gl’iddii, io gli pregherei per la sua salute, dove a voi dispiacere non credessi, però che egli mi fu assai caro e a voi non dovria già dispiacere, però che se voi avete i vostri disii ricevuti, degli altrui danni non dovete essere vago -. - Non m’aiutino essi iddii - disse Filocolo, - se io la salute di Fileno non disidero, e se quella non mi fosse cara, se la vedessi -.
- Mentre così sopra la chiara onda si ragionava, quella, tutta commossa, del mezzo di sé mandò fuori una pietosa voce, e disse: - O tu, il quale da debita pietà de’ miei danni se’ mosso a sì bene per me parlare, e cui alla voce riconoscere mi pare, se lungo dolore, o voce a quella ch’io credo simile, non m’inganna, gl’iddii mettano il tuo piacere avanti, e te guardino da simile caso, acciò che mai non pruovi quello di che se’ con ragione pietoso. Io ti priego per quella pietà che di me nel tuo petto dimora che, s’io mai ti fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch’io così ti possa vedere come io t’odo parlare, e adempiasi quello che la speranza mi promette -. Menedon e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta l’avessero udita parlare, e tacquero alquanto; poi Menedon rincominciò: - Niuna ammirazione ho se la mia voce conosci, però che sì com’io credo, le avversità non danno a chi le riceve dell’amico oblianza; ma dimmi, se non t’è grave, qual via sia a’ tuoi beni più utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel pristino stato -. A cui Fileno: - Oimè, quanto lontano a quella ti sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo dell’alto re Felice, a cui già ti conobbi compagno: gl’iddii me ne sieno testimonii che fedelmente l’amai e amo! E’ non è lungo tempo passato che i miei dolori multiplicarono, sentendo io da un giovine, di Marmorina vicino, che quinci passò, com’egli avea la sua bella Biancifiore perduta, e pellegrinando con dolore la ricercava: e se quella riavessi, certo io conosco gl’iddii sì misericordiosi, ch’essi mi renderieno la perduta forma. Dunque, sola quella mi procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se me vuoi trarre d’affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi, io tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come giovane amai: e cui? Non sua nimica, ma quella giovane che lui sopra tutte le cose del mondo amava: io dico di Biancifiore, la cui bellezza quanti la vedeano tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo l’avessi, ben che il cuore dell’amore di lei portassi feruto, con forza mi sarei infinto di non amarla. E ben che io pur molto l’amassi, guastava però il mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non mutò cuore? Certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi fu di tanto male, quant’io sento e ho poi sentito, cagione, ella, invita, comandandogliele la reina, mel concedette: dunque per amore puoi vedere ch’io mi dolgo. Oimè, che se l’ira d’uno potesse trarre amore del cuore ad un altro, io direi che licito gli fosse stato l’adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l’ha però mancato il lungo essilio. Or quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente ti giuro che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch’io sconcia cosa di Biancifiore disiassi, né disidererei già mai, sentendo com’io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch’egli più si debba contentare che io la ami che se io la odiassi. E se quello c’ho detto non si concede, e dicasi pure ch’io gravemente abbia fallito, consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a’ suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi domandano perdono. Veramente mi saria grazia, s’io fallii, che ’l mio signore mi perdoni, ché s’io non fallii, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto servigio. Se io fossi in Marmorina e servissilo e avessi la sua grazia intera, di ciò al mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a’ signori dovria essere spesso caro il fallire de’ suggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza mostrassero. Sanno però gl’iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sì fatta pena, sotto questo titolo d’avere Biancifiore amata, non sanza ragione, m’ha menato. Bella vittoria e grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore e per lo mio utile priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l’affanno, che non fia piccolo, malagevole, acciò che me possa rendere lieto a’ miseri parenti, ignoranti de’ miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se ’l farai, spero che lungamente gl’iddii ti serveranno lieto a’ tuoi, se gli hai -.
- - Non fia sì lungo come pensi l’affanno - rispose Menedon alla fonte. E volto a Filocolo, a cui niente riferire bisognava, ché tutto avea udito, con umile preghiera gli domandò che la sua grazia gli rendesse, e con Menedon ciascuno degli altri in merito del lungo affanno similemente la dimandarono. A’ quali Filocolo liberamente la concedette, giurando per se medesimo che di perfetto amore l’amerà per inanzi, e le preterite cose sì come fanciullesche metterà in oblio: di che tutti il ringraziarono. E Filocolo a Biancifiore commise che sì lieta novella narrasse all’aspettante, la quale graziosa non aspettò il secondo comandamento, ma voltato sopra la fonte il viso, riguardando in essa, disse: - O giovane, che nelle liquide onde la tua forma nascondi, confortati, la grazia del tuo signore t’è renduta: e però sicuro nella sua presenza ti presenta -. La chiara fonte sì tosto come in sé riceveo la bella imagine della sua donna, così la conobbe, e lasciato l’usato bollire, con soave movimento intorno a quella mostrava festa, e la voce entrata per le dolenti caverne rendé letizia al misero; per che così parlò: - O immortali iddii, a’ quali niuna cosa si occulta, sia lodata la vostra inestimabile potenza. Io per la vostra benignità di quella dolcezza ho gustata, che la nemica fortuna mi tolse quando Marmorina abandonai, e quella donna, per cui l’amara iniquità sostenni, quella la riavuta grazia m’ha annunziata. Piacciavi adunque misericordiosamente operare ch’io nella prima forma tornando lieto a’ cari amici mi presenti -. Egli dicea ancora queste parole, quando i circunstanti videro le chiare acque coagularsi nel mezzo e dirizzarsi in altra forma abandonando il loro erboso letto, né seppero vedere come subitamente la testa, le braccia e ’l corpo, le gambe e l’altre parti d’uno uomo, di quelle si formassero, se non che, riguardando con maraviglia, co’ capelli e con la barba e co’ vestimenti bagnati tutti trassero Fileno del cavato luogo, e davanti a Filocolo il presentarono. Al quale egli, come il vide, s’inginocchiò davanti e con pietose voci dimandò perdono, e appresso di Filocolo la benivolenza: le quali cose benignamente Filocolo gli concesse. Egli fu di nuovi vestimenti adorno, e i raviluppati capelli e la male stante barba furono rimessi in ordine, levandone le superflue parti, e lieto si diede con gli altri cavalieri a far festa, maravigliandosi non poco qual caso quivi gli avesse menati insieme con Biancifiore. Il cui viso poi ch’egli ebbe veduto, stimandolo più bello che mai gli fosse paruto, contento tacitamente si dispose al vecchio amore, credendo sanza quello niuna cosa valere.
- Queste cose così faccendosi, s’udì nel luogo un grandissimo romore, come di gente che, combattuto, avesse la vittoria del campo acquistata. Del quale Filocolo e’ suoi si maravigliarono e dubitarono alquanto, e domandarono Fileno se noto gli fosse che significasse il romore e chi ’l facesse. A’ quali Fileno rispose sé molte volte simili romori avere uditi, ma per che fatti fossero del tutto ignorava. Allora sì come a Filocolo piacque, il duca Ferramonte e Messaallino, sopra forti cavalli, armati e accompagnati da molti de’ servidori, andarono per conoscere la cagione di tanto romore, e usciti del folto bosco videro nel piano, alla riva del picciolo fiume, dall’una parte e dall’altra, molta gente rustica nel sembiante, a’ quali non tenda, non padiglione era, ma tagliati rami dava loro le disiate ombre; né alcuno v’era di cappello d’acciaio o d’elmo che rilucesse, né alcuno cavallo facea fremire il povero campo, né tromba risonare, ma rozzi corni movea la disordinata gente a’ suoi mali; e quasi la maggior parte delle loro arme erano bastoni, e poche spade teneano occupati i loro lati, le quali poche non aveano forza di piegare i solari raggi in altra parte, che dove il sole gli mandava. I loro scudi erano ad alcuni le dure scorze del morbido ciriegio, e altri si copriano di quelle della robusta quercia, e alcuni, forse più nobili, gli aveano, ma sì affumicati, che in essi niun’altra cosa che nera si vedea. In luogo di balestra usavano rombole, e i loro quadrelli erano ritondi ciottoli; le loro lance si prendeano da’ fronduti canneti. Archi erano loro assai, le cui saette in luogo di ferro erano apuntate col coltello, né era loro bandiera alcuna, fuori che una di tela assai vile, la quale mezza bianca e mezza vermiglia si mostrava al vento, credo più tosto di pecorino sangue tinta che di colore; e simigliante l’avversa parte l’avea di tanto diversa, che all’una era il bianco di sopra e all’altra di sotto; e di dietro a queste ora qua, ora là, quale poco e quale assai, correano disordinati.
- Come il duca e Messaallino videro il rozzo popolo, di loro si risero, e alquanto gli riguardarono, e già aveano determinato di ritornarsi indietro, quando Messaallino disse: - Perché non andiamo noi a loro, e di loro condizione ci facciamo certi, acciò che tornando a Filocolo, il quale di tutto loro essere ci domanderà, non sappiendogliele ridire, non siamo da lui scherniti? -. - Andiamo - rispose il duca; e verso quelli che già mostravano di loro dubitare, con segno di pace s’appressarono, e con graziosa voce, non mostrando d’avere la loro picciola condizione a schifo, gli salutarono, e quelli, che sopra la riva del fiume dimoravano dal lato del bosco, domandarono chi essi fossero e perché quivi stessero, e quale era stata la cagione del loro romore poco avanti. A’ quali uno di loro, il quale forse degli altri avea il maestrato, così rispose: - Noi, i quali voi qui vedete, siamo abitatori d’un picciolo poggio qui vicino, il quale i nostri antichi chiamarono Caloni, e noi da quello Caloni ci chiamiamo, popolo robusto e fiero nelle nostre armi, né niuno altro è a cui il lavorio della terra meglio sia noto, né che fatica in ciò a comparazione di noi possa durare: e la cagione per che qui dimoriamo è acciò che passare possiamo questo fiumicello e di sopra quel terreno cacciare in perdizione la gente che vi vedete, la quale nuovamente venuta qui, un poggio simile al nostro, che nostra iurisdizione era, s’hanno preso, e abitanlo oltre a nostro volere, e chiamansi Cireti. I quali, come voi vedete, a contradirci il passo qui a fronte a noi sopra la riviera si sono posti, né in alcuna parte possiamo su per quella andare che essi non ci vengano tuttavia davanti. Il gran romore che fu poco avanti fu per due che nell’acque si combatteano, a conforto de’ quali ciascuna col gridare aiutava il suo; ma ultimamente il nostro ebbe vittoria, per che di quercia il coronammo, come là vedere il potete -. Disse allora Messaallino: - Secondo ch’io avviso, voi dovreste con pace poter sostenere che coloro abitassero il vostro poggio, però che sì gran popolo non mi parete che soperchio terreno sanza quello che coloro hanno preso non abbiate, ma n’avete tanto che sanza cultura la maggior parte veggiamo -. - Certo - disse il villano - più contrarietà di sangue che vaghezza di terreno ci muove a queste brighe, per mio avviso -. - E che contrarietà di sangue è tra voi? - disse Messaallino; - non siete voi tutti uomini, e in una contrada abitate e in un luogo? -. A cui colui rispose: - Noi fummo dell’antica città di Fiesole, e allora di quella uscimmo quando Catellina, de’ nostri mali singulare cagione, superato da Antonio e da Afranio ne trasse i nostri antichi, i quali della mortale battaglia appena campati qui fuggirono, e quasi in dubbio di loro salute abitarono quel poggetto che davanti vi dissi, sotto quel nome ch’avete udito che ci chiamiamo. Ma costoro, non è gran tempo passato, quando Attila guastò la nuova città da’ romani fatta a piè della nostra, temendo le fiamme e l’ira del tiranno, qui fuggirono, e sanza alcuno congedo s’abitarono il paese prima da noi occupato: per che noi, a giusta ira mossi, ogni anno a quello che ora ne vedete ne siamo e saremo infino a tanto o che noi di questo paese fuggendo gli cacceremo o che essi noi alle nostre case renderanno vinti -.
- Udite queste cose, il duca Ferramonte e Messaallino si partirono da loro e tornarono a Filocolo, e ciò che udito aveano e veduto gli dissero: di che Filocolo si rise, e volle andare a vedere. E venuto ad essi, tanto con parole gli commosse che essi, preso ardire, si misero a passare il fiume, il quale non sopra la cintura gli bagnava. Ma essi non furono giunti all’altra riva, che i loro avversarii armati loro vennero incontro, e in mezzo ’l fiume incominciarono sanza ordine la loro battaglia, forte co’ duri bastoni lacerando le salvatiche armi e i loro dossi. Arco né rombola non ci avea luogo per la loro vicinità; e se alcuna spada v’era, o dava in fallo o se feriva si torceva. L’acqua che già più rossa che bianca correa gl’impediva molto, e tal volta i più codardi facea valorosi combattitori, ritenendo i loro piedi nella molle arena, i quali per lo duro campo sarieno fuggiti. Ma poi ché lungo spazio combattendo ebbero durato, tornandone molti dall’una parte e dall’altra magagnati, avendo Filocolo assai riso co’ suoi compagni de’ modi nuovi di costoro, col suo cavallo entrò nell’acqua, e i pochi rimasi alla battaglia divise, e ciascuno pari fece al suo campo tornare. Ritornati così costoro, non dopo molto spazio le risa di Filocolo si voltarono in pietà, vedendo i magagnati dolersi e sanza alcuno compenso a’ loro mali. E però che a lui parea di ciò essere cagione, si pensò di volergli pacificare, e in restaurazione de’ loro danni edificare loro una terra nella quale sicuri vivessero sotto savio duca: e questo narrando a’ compagni, da tutti li fu lodato.
- Allora Filocolo fece a sé chiamare dell’una parte e dell’altra i principali, e la cagione domandò della loro discordia. De’ quali l’uno perché combatteva, l’altro perché si difendeva narrarono interamente, a’ quali Filocolo così disse: - O miseri, poveri d’uomini e d’avere, perché al piccolo numero di voi, il quale ha più tosto d’aumento bisogno che d’altro, combattendo cercate distruzione? A voi dovria bastare seguire di Saturno la dottrina, sanza volere di Marte usurpare l’uficio, però che in voi né nobiltà di cuore, né ordine, né senno, né arme non dimora. Voi combattete acciò che soli qui rimagnate in questo piano, ma voi non v’avvedete che se questo continuate in brieve tempo il piano di voi rimarrà solo, e le case che voi avete con affanno fatte e dovreste in pace abitare, gente strana verrà che sanza affanno le si goderà. Or fu dagl’iddii data alla terra l’ampia superficie, perché un popolo solo la dovesse abitare? Non vi bastava il luogo che possedete? Che vi facea se costoro alquanto da voi lontani si posero a dimorare, i quali, pensando che vostri antichi fratelli furono, se ben si guarda, dovavate nelle vostre case propie ricevere, pensando similmente che voi così come essi fuggitivi veniste in questo luogo, e quella ragione ci avavate che essi ora per loro difendono? Io pietoso de’ vostri danni voglio che l’uno all’altro perdoni le ricevute offese, e sia tra voi vera e perfetta pace; e sì come voi foste fratelli, così ritorniate, e de’ due popoli piccoli e cattivi divegnate uno buono e grande. E io, acciò che l’uno non disdegni andare a casa l’altro ad abitare, vi darò nuova abitazione, la quale io vi cignerò di profondi fossi e d’altissime mura e di forti torri, e in quella vi donerò armi, per le quali, se alcuno vicino invidioso del vostro luogo ve ’l volesse torre, il potrete difendere. Io vi darò in quello similemente chi vi guiderà con ragionevole ordine e le vostre quistioni con diritto stile terminerà, e sotto la cui protezione sicuri viverete come uomini: e oltre a tutto questo, vi donerò doni, per li quali ornare vi potrete e parer belli quando gli altrui paesi visitare vorrete -. Dinanzi al viso del magnifico uomo niuno seppe che dirsi, ma contenti dell’alte promesse, strignendo le spalle, dopo alquanto risposero: - Messere, noi faremo ciò che voi vorrete -. E tornati, ciascuno a’ suoi queste cose riferì. E quale migliore novella poria loro essere contata? Essi, poco davanti stati in tanta discordia, insieme nel cospetto di Filocolo tutti ne vennero, e quelli che impotenti erano per li ricevuti colpi vi si fecero portare, e gittatiglisi a’ piedi, con una voce tutti la proferta grazia domandarono, la quale Filocolo disse di dare. E fattigli entrare nel santo tempio, prima per la futura pace offersero sacrificio agl’iddii e quella con orazione divota domandarono, poi in presenza degl’iddii e di Filocolo e de’ suoi baciandosi tutti insieme giurarono mai per alcuno accidente tal pace non rompere, ma intera essi e loro successori servarla, e sempre essere a Filocolo, o a chi per lui vi rimanesse, suggetti.
- Queste cose fatte, Filocolo rimase in sollecitudine d’osservare le promesse cose, e co’ suoi compagni cavalca per la contrada salvatica, essaminando con gli occhi e con la mente qual luogo più alle nuove mura fosse atto, appresso del quale insieme andavano Fileno e Caleon simile cosa guardando. E avendo per lungo spazio attorniato il paese, Caleon disse a Fileno: - Perché Filocolo sopra questo poggio, dove questo cerreto dimora, non edifica la nuova terra? Niuno luogo ho veduto ancora in queste parti tanto atto a tal mestiero: questo tutta la contrada signoreggia, questo forte luogo e bello, questo d’acque abondevole, sì come molti piccioli rivi ne mostrano. Questo è quasi in mezzo tra l’una abitazione e l’altra de’ due popoli tornati uno. Niuno difetto è qui, per lo quale più tosto sia da cercare altro luogo. Elli ha similemente dalla orientale piaggia vicino il fiume ove fu la sconcia zuffa di costoro, e ’l mezzogiorno dà loro il veloce fiume chiamato Elsa. Io direi che questo fosse il migliore luogo che avere si potesse in questa parte -. Questo diviso piacque a Fileno, e parveli di dirlo a Filocolo. Le quali cose come Filocolo udì, così acconsentì al loro consiglio dicendo: - Veramente così è come voi dite, e qui per lo vostro consiglio fermeremo a’ villani la nuova terra -.
- Chiamaronsi i villani come a Filocolo piacque, e l’antica selva, dove mai scure non avea suo taglio provato né dente d’alcuna bestia fatto offesa, per paura degl’iddii, credendo i circunstanti che eziandio qualunque fronda era in quella fosse piena di deità, comandò che si tagliasse tutta, prima con pietosa orazione scusandosi agl’iddii, se in essa forse alcuni n’abitavano, così dicendo: - O iddii di questo luogo abitatori, se alcuno ce ne abita, perdonatemi la nuova ingiuria la quale io non arrogante contro alla vostra potenza commetto come Erisitone fece, ma disideroso di darvi per abitaculo più fruttuosa selva che di cerri, fo questo -. E dette queste parole, con le propie mani faccendo quello che molti dubitavano di fare, a tutti porse ardire.
- Tagliasi l’antico bosco, e Filocolo, pietoso de’ disperati popoli, pensa al loro riposo, con sollecitudine disiderando poi di rivedere il padre. Ma Biancifiore da altra sollecitudine è molestata: Glorizia, che il dolce aere della vicina Roma sentiva, accesa d’ardente disio di rivedere quella oltre all’usato modo, dimorando sola un giorno con Biancifiore, così le cominciò a dire: - O giovane donna lungamente per lo mondo errata, come non ti strigne l’amore della tua patria? Come non disideri tu di vedere la tua Roma la quale tu mai non vedesti? Or non ti saria egli caro vedere gli stretti parenti del tuo padre e quelli della tua madre, i quali tu niente conosci né essi te? Tu ora se’ a quella vicina, né niuno tempo puoi a rivederla eleggere migliore: e certo quello che fu in disiderio agli strani, posti nell’ultime parti de’ regni, de’ quali io ancora ti vedrò coronata, ben dee essere a te, di lei figliuola, in volontà: pregane il tuo Florio che di quindi andiamo, il quale niuna cosa pare che tanto disideri quanto piacerti. E se egli forse per la nuova impresa vuole pure essere qui, e questo fornito, non vuole più tempo mettere in mezzo a rivedere il padre, concedati almeno che in questo mezzo noi possiamo andar a vederla, accompagnate dal suo e tuo maestro Ascalion. Noi peneremo poco a tornare qui, ché certo quinci partendoci non si vedrà il sole sei volte nuovo, prima che Roma tu, veduti i tuoi strettissimi parenti e di Roma grandissimi prencipi, vedrai. Le grandissime nobiltà della tua terra, tra le quali il gran palagio ove i romani consigli si faceano, vedrai, e similemente il Coliseo, e Settensolio, fatto per gli studii delle liberali arti. E vedrai la sepoltura del magnifico Cesare, tuo antico avolo, posta sopra aguto marmo di Persia; e vedrai la colonna Adriana e l’arco adorno delle vittorie d’Ottaviano. O quante cose mirabili ancora, vedute queste, ti resteranno a vedere! Io poi da tutti i tuoi parenti conosciuta, darò con le mie parole ferma fede che tu di Lelio e di Giulia sii stata figliuola, e sarò creduta, però che i miei parenti, ancora che io al tuo servigio sia, non sono ignobili. E essendo tu riconosciuta da’ tuoi, sarai ricevuta negli alti palagi e intorniata di nobilissime donne, le quali per grande amore che t’avranno e per le tue bellezze ti guarderanno per maraviglia, faccendoti ciascuna onore a pruova, e sarai da tutte tacitamente ascoltata narrando i tuoi casi, i quali esse ascoltando spanderanno lagrime d’amore baciandoti mille volte, e appena parrà loro che tu con esse sia, tanto fia il disiderio loro d’essere con teco. E i fratelli del tuo padre, lieti di sì bella nipote, ordineranno feste, parendo loro avere racquistato il perduto Lelio, e saranno molto più di te ora contenti che se piccolina t’avessero avuta, e massimamente sentendo la verità della tua virtuosa vita, laudevole infra le dee del cielo, e ancora veggendoti sposa di Florio, figliuolo di sì alto re, come è quello di Spagna: e più si rallegreranno, sentendo che corona d’oro sia alla tua testa apparecchiata quando il vecchio re morisse, ancora che molti de’ tuoi antichi la portassero. Perché mi fatico io di dirti quanto tu dell’andarvi diverrai contenta, con ciò sia cosa che io mai la menoma parte dire non te ne potrei? Però andianvi, ché, se niuna altra cosa te ne seguisse, se non che tu conoscerai te non essere quella che forse tal volta la coscienza ti dice, per le udite parole sì vi dovresti tu volere andare. E con tutte queste cose ancora farai tu me lieta più ch’altra femina fosse mai, però che io rivedrò i miei, i quali forse già è lungo tempo dierono per me pietose lagrime, credendo ch’io fossi morta. Non essere a’ miei prieghi dura, io te ne priego, ma se io mal grazia da te meritai, concedi quello ch’io con tanti prieghi t’adimando -.
- Glorizia tacque, e Biancifiore così le rispose: - O donna, a me più cara che madre, e cui io sola per madre riconosco, perché con tanto effetto priego sopra priego aggiugnendo mi prieghi, né più né meno come se tu avessi in me sì poca fede che incredibile ti fosse ch’io per te non facessi ciò che per me si potesse operare? Tu disideri d’essere in Roma, e a me t’ingegni, dov’io d’esservi non disiderassi, di farmelo disiderare con le tue parole, le quali in verità il gran disio, ch’io ho di vederla, assai m’hanno acceso: e se io mai disiato non l’avessi, vedendolo a te disiare, sì lo disidererei; ma come poss’io mettere ad effetto, se non quanto piace al mio Florio? Non sai tu che per matrimoniale legge gli sono legata? Io non posso, né debbo, far più ch’e’ voglia, però che egli è mio signore per molte ragioni. Non fu’ io in casa sua nutricata? Non sono io da lui per tutto ’l mondo stata ricercata? Non m’ha egli con pericolo della sua persona tratta delle mani della canina gente, ov’io era in servaggio venduta? Non sono io per lui due volte stata liberata da morte? Non sono io similemente sua sposa? Dunque seguire i suoi piaceri deggio, non egli i miei. Se tu vuoi ch’io il prieghi, ben so che nulla cosa è che a mio priego e’ non facesse; ma io debbo riguardare di che io priego, però che sovente priegano alcuni di cose che pregando a sé negano il servigio. Come potrei io giustamente pregare Florio che a Roma venisse, con ciò sia cosa ch’egli m’abbia detto, già è assai, che egli sopra tutte le cose del mondo disidera di rivedere il vecchio padre, della cui morte egli dubita molto, per lo dolore nel quale il lasciò, quando da lui per cercar me si partì? Dirogli io: "Veggiamo in prima Roma", sappiendo ch’egli altro disidera? E come tu di’, la magnificenza e la bellezza di Roma ha potere di trarre a sé gli uomini de’ lontani paesi a farsi vedere: dunque, quanto maggiormente dee potere, veduta, ritenergli! Ecco che Florio a’ miei prieghi vi venisse, e di quella vago oltre la sua intenzione vi dimorasse, e in questo tempo alcuna novità nel suo regno nascesse, la quale egli andandovi trovasse, non direbbe egli: "Biancifiore, per te m’è questo avvenuto, che mi tirasti a Roma"? E s’egli il dicesse, qual dolore mi saria maggiore? E forse ancora per quello che il suo padre fece al mio, dubita di venirvi, e non sanza ragione: però ch’io ho già udito che i romani niuna ingiuria lasciano inulta. Ma tu di’: "Andiamvi sanza lui"; ora non pensi tu come mai me da sé partiria, a cui, per l’essere noi divisi, tanta noia quanta tu sai ci è avvenuta? Certo egli tenendomi in braccio appena mi si crede avere, e continuamente dubita che i contrarii fati non tornino che me gli tolghino; e non una ma molte volte m’ha detto che mai altro che morte non ne dividerà, la quale gl’iddii facciano lungo tempo lontana da noi. E s’egli pure avvenisse che sanza sé in alcuna parte mi fidasse, non è alcuna ove egli più tosto non mi lasciasse andare che a Roma, però che egli s’imagina che i miei parenti incontanente a lui mi togliessero, e ad altrui mi dessero, la qual cosa io mai non consentirei: dunque seguiamo prima i suoi piaceri, però che si conviene lasciargli rivedere il vecchio padre e la dolente madre e il suo regno; i quali veduti, con più audacia gli domanderò Roma vedere co’ miei parenti. Tanto abbiamo sostenuto, ben possiamo questo piccolo termine sostenere; e io te ne priego che infino allora, per amore di me, con pazienza sostenghi il tuo disio -.
- Non parlò più avanti Glorizia, se non: - Quanto ti piace attenderò -; e tacitamente da lei partendosi, fra sé disse: - Quello Iddio cui io adoro e in cui io spero, tosto me la faccia vedere -. Sopravenuta la notte, Biancifiore nel dilicato letto si diede al notturno riposo: la quale poi che de’ gradi con che sale ebbe passati cinque, nel sonno furono da Biancifiore mirabili cose vedute. A lei pareva essere in parte da lei non conosciuta, e quivi vedere davanti da sé sospesa in cielo una donna di grazioso aspetto molto, e le bellezze di quella le sue in grandissima quantità le parea che avanzassero; a cui ella vedea sopra la bionda testa una corona di valore inestimabile al suo parere, e i suoi vestimenti vermigli e percossi da una chiara luce fiammeggiavano tutto il circunstante aere, de’ quali niuna parte d’essa era sanza adornamento di nobilissime pietre o d’oro; e nella destra mano le vedea una palma verde, simile da lei mai non veduta, e la sinistra tenea sopra un pomo d’oro, che sopra il sinistro ginocchio si riposava, e sedea sopra due grifoni, i quali verso il cielo volando, tanto l’avevano verso quello portata, che le parea che la sua corona con le stelle si congiungesse, e sotto i suoi piedi tenea un altro pomo, nel quale Biancifiore rimirando estimava che tutte le mondane regioni descritte vi fossero e potesservisi vedere. Ella vide similemente dal destro e dal sinistro lato di costei, da ciascuno, un uomo di grandissima autorità ne’ suoi sembianti; ma quelli che dalla destra della bella donna sedea, le parea che fosse antico, e negli atti suoi modesto molto, similemente come la donna incoronato di corona significante incomparabile dignità, il quale era vestito di vestimenti bianchi, ben che un vermiglio mantello sopra quelli avesse disteso, e sopra uno umile agnello le parea che si sedesse, nella mano destra tenendo due chiavi, l’una d’oro e l’altra d’ariento, e nella sinistra un libro, e i suoi occhi sempre avea al cielo. Ma certo colui che dalla sinistra della donna sedeva, era d’altro aspetto: egli era giovane e robusto e fiero ne’ sembianti, incoronato d’una corona tanto bella che quasi con la luce che da essa movea e la donna e ’l vecchio tutti facea risplendenti, e era di vermiglio vestito come la donna, e sedea sopra un ferocissimo leone, nella sinistra mano tenendo una aquila e nella destra una spada, con la quale in quel ritondo pomo che la bella donna sotto i piedi tenea, faceva non so che rughe. Le quali cose Biancifiore con ammirazione riguardando, e massimamente la bellezza della gentil donna, fra sé le parea così dire: - O bella donna, la quale nel viso non sembri mortale, beato colui che sì singulare bellezza possiede come è la tua! Certo io non vorrei per alcuna cosa che così com’io ti veggio il mio Florio ti vedesse, però che mi pare essere certa che di leggiere me per te metteria in oblio; ma caro mi saria molto conoscerti, acciò che la degna laude che tu meriti, con la mia voce manifestassi agl’ignoranti -. Queste parole dette, parea a Biancifiore che la donna così le parlasse: - O cara figliuola, tanto si stenderà la mia vita quanto il mondo si lontanerà; e allora che tutte le cose periranno, e io. Le mie bellezze, secondo la tua estimazione, n’hanno già molti fatti beati e fanno e faranno, solamente che di quelle si truovino disianti, le quali però sì come tu imagini, non hanno potenza di nuocere alle tue. Tu disiderosa nel tuo parlare di conoscermi, il dì passato rifiutasti di venirmi a vedere e a conoscere. Io per te perdei il tuo padre e la tua madre, e tu di loro non vuoi il difetto rintegrare. Se io ti paio così bella come tu di’, come a vedere non mi vieni? Ora io voglio che tu sappi ch’io sono la tua Roma. E se i peccati del tuo suocero, de’ quali gran parte fieno, per costui, volgendosi al vecchio, davanti la maestà del sommo Giove deleti, non fossero, il tuo Florio la spada di quest’altro ancora terrebbe; però viemmi a vedere sanza alcuno indugio: il tuo fattore vuole, e non sanza gran bene di te e del tuo marito -. E questo detto sparì, né più la vide avanti Biancifiore; per che rimasa stupefatta nel sonno di tanta bellezza, dopo picciolo spazio si svegliò, né più dormì quella notte: anzi, sopra ciò che veduto avea, pensosa stette infine che il sole apparve. Allora ella e Filocolo levati e venuti a’ verdi boschi, e rimirando i nuovi tagliatori, ciò che Glorizia il passato giorno l’avea parlato e quello che la notte avea veduto, detto e udito gli raccontò; dopo ciò che detto l’avea, intimamente pregandolo che, se essere potea sanza disturbamento del suo avviso, che essi avanti a tutte l’altre cose dovessero visitare Roma, la quale mai veduta non aveano. Molto si maravigliò Filocolo di ciò che a Biancifiore udì contare, e vedendo il disio di Biancifiore così acceso d’andare a Roma, mutò disio, e rispose: - Biancifiore, cara sposa, tanto m’è caro quanto a te piace: a tuo volere sia la nostra andata, quando ordinato avrò quello che i fati hanno voluto ch’io incominci -. A cui Biancifiore disse: - Signor mio, a tua posta sta e l’andare e ’l dimorare; ma se di ciò il mio disio si seguisse, il più tosto che si potesse saremmo in cammino -. - E sì saremo noi - rispose Filocolo.
- Egli era già al piccolo monte levata tutta la verde chioma, né niuna cosa alta sopra quello si vedea se non le mura del vecchio tempio, quando Filocolo, fatti prendere buoi, con profondo solco disegnò i fondamenti delle future mura, e appresso ordinò i luoghi delle torri e in quali parti le mura aperte per dar luogo agli entranti dovessero rimanere. E similemente divisò le diritte rughe, e quali luoghi per etterne abitazioni rimanessero. E fatto questo, chiamò a sé Caleon, a cui egli disse: - Giovane, tu, secondo il tuo parlare, ami crudelissima donna sanza essere da lei amato; e se io ho bene le tue parole per adietro notate, così come già ti fu caro l’essere suggetto ad amore, così ora carissimo partirti del tutto da lui ti saria: alla qual cosa fare, ottimo oficio t’ho trovato, quando e’ ti piaccia. Io, come tu vedi, la nuova terra ho cominciata, la quale producere a fine, concedendolo gl’iddii, ho proposto, e con ciò sia cosa che sollecitudine mi stringa maggiore, questo affatto intendo di commettere altrui, insieme col quale il dominio del luogo concederò a chi il prenderà. Se tu il vuoi prendere, la sollecitudine tua converrà essere molta, e in molte cose e diverse, la quale avendo, la vaga anima per forza abandonerà gli amorosi pensieri, e quelli abandonando, metterà in dimenticanza, e dimenticati, potrai dire te essere dalla infermità ché sostieni liberato, e fuori delle mani dell’amore della crudele donna. E non ti sia noia se io edificatore ti faccio di mura, e gente rozza e grossa ti do a governare più tosto che terra fatta con gente ordinata, la quale alla tua gran virtù conosco si converria, però che se io ti dessi quelli a reggere, il loro ordine e la loro mansuetudine poco affanno o niuno daria alla tua mente, e così in quelli pensieri ove dimori, in quelli perseverando staresti, né mai liberato saresti da amore. Ma costoro, inordinati e materiali, sovente ti moveranno ad ira, la quale tu paziente sosterrai, e la loro inordinatezza ti sarà materia di pensare come a ordine li possi recare: de’ quali pensieri, e d’altri molti, quello che già ti dissi ti seguirà. A diverse infermità, diversi impiastri adopera il savio medico: prendi questo alla tua per mio consiglio, se disideri di sanare -.
- Caleon, udendo il savio consiglio e conoscendo la liberalità di Filocolo, e similmente il perpetuo onore e l’utile che di ciò che Filocolo gli proferea gli potea seguire, rispose: - Signor mio, a molto più valoroso di me sì alto uficio si converria, il quale ancora, come voi dite, ottimo rimedio il conosco alla mia infermità, e però in luogo di grazia singulare da voi il ricevo, apparecchiato ad ogni riconoscenza che voi vorrete di tanto dono; e là dov’io insofficiente fossi, quant’io posso divoto priego gl’iddii che in luogo di me il mio difetto suppliscano, e voi lungo tempo conservino in vita, sempre di bene in meglio aumentando -. Concessegli adunque Filocolo il luogo, e de’ suoi tesori gran parte gli fece donare, acciò che la cominciata opera potesse magnificamente adempiere; e fatti convocare tutti e due i pacificati popoli, i quali del nuovo luogo doveano essere abitatori, a Caleon fece intera fedeltà giurare, e promettere che elli lui per signore e per difenditore avrebbero sempre, né i suoi comandamenti in alcuno atto trapasserebbero: i quali se passassero, secondo il suo giudicio del passamento sosterrieno la punizione; e quelle leggi, che egli desse loro, quelle serverieno, essi e i loro discendenti. E così similemente Caleon promise di servarli e guardarli e governarli come cari fratelli e suggetti, da qualunque persona ingiustamente offendere li volesse. Allora Filocolo disse a Caleon: - Omai edifica, e di bene in meglio la tua terra, la quale tu chiamerai Calocepe, accrescerai -. E fatti i suoi arnesi acconciare, a ciascuno vietando che sanza sua licenza chi e’ fossero non manifestasse ad alcuno, in abito di pellegrini montarono a cavallo, e accomiatati da Caleon, cavalcarono verso Roma.
- Rimase Caleon col rozzo popolo chiamato Calocepi, e il primo comandamento fatto da lui alla nuova gente fu che da essi fossero tutte le loro case disfatte e che essi dentro al cerchio fatto per le mura future dovessero le loro case apportare, e in quello abitare co’ loro figliuoli e con le loro famiglie: di che egli fu ubidito sanza niuno indugio, faccendo a difensione de’ solari raggi e del lagrimoso verno case di giunchi assai rozze, di terra e di bovino sterco mescolato murate. Questo fatto, egli fece i profondi fondamenti cavare, e di cotti mattoni fece fare bellissime mura, delle quali circuì tutta la nuova terra, faccendo a quelle otto porte, e a ciascuna di sopra ad essa una fortissima e alta torre, e dopo questo, ampissimi fossi aggiunse al circuito. Ella parea già terra, e di lontano le merlate mura si poteano guardare: per che egli pensando che le mura sanza uomini e gli uomini sanza arme niuna cosa a resistenza de’ nimici valeano, a ciascuno uomo all’arme possibile donò arme, mostrando loro con non poca fatica come vestire e usare le dovessero, e poi riparò il vecchio tempio con gran divozione dedicandolo a Giove; e quivi sacerdoti ordinò, ammaestrati a’ sacrificii statuiti per lui al sommo Giove; e similmente i giuochi da Filocolo ordinati rinnovò, e quelli comandò che si facessero ciascuno anno, entrante il sole nel suo Leone. Queste cose così fatte, gli piacque nella più alta parte della sua terra edificare a sé reale abituro, il quale magnifico fece, e, sopra esso dimorando, potea tutto il suo popolo vedere: nella gran corte del quale avea ordinato di dare leggi al popolo, per le quali essi debitamente vivessero. E già veggendo a ciascuno avere la rustica casa in bello abituro tornato di pietre e di mattoni cotti a instanza del suo, e le rughe essere diritte e piene di popolo contento, volle loro dare modo di vestimenti, e diede, acciò che uomini e non selvagge fiere paressero. Similmente statuì loro ferie, nelle quali cessare dalle fatiche dovessero e darsi al riposo: egli similmente a diversi studii delle liberali arti ne dispose alcuni, e altri alle meccaniche. Né lungo spazio si volse che con ordine costoro serrati nel picciolo cerchio sicuri la notte dormiano contenti di tal reggimento, e conoscenti che divenuti erano uomini per la discrezione e sollecitudine di Caleon: e egli similemente di tali suggetti si contentava, vedendogli abili e disposti a qualunque cosa egli volea. Che più dirò di lui? Egli in tale ordine e disposizione recò il luogo in pochi anni, che le mura ampliare si convennero, le quali poi invidiate ne’ futuri tempi, miseramente caddero sotto altro duca.
- Il pellegrino Filocolo in pochi giorni pervenne a Roma, e in quella tacitamente entrarono, e sì come a lui piacque, in un grande ostiere smontarono, vicino agli antichi palagi di Nerone. Quivi dimorati alcun giorno sanza essere conosciuti, avvenne che andando Filocolo insieme con Ascalion, col duca, con Fileno e con gli altri in pellegrina forma vedendo le mirabili cose di Roma, Mennilio Africano, a Lelio stato fratello, si scontrò con loro, e vide Ascalion, la cui riconoscenza non gli tolse l’abito pellegrino, ma con alta voce chiamandolo, ricordandosi lui essere stato congiunto di stretta amistà con Lelio, gli disse: - O santo Ascalion, or privaci la tua santità delle tue parole, perché peccatori siamo? Perché sì largo passi sanza parlarne? -. Allora Ascalion, che ben lo riconoscea, si volse e disse: - Dolce amico, tutto il contrario mi facea dubitare di parlarti -. Elli s’abbracciarono quivi molte volte e insieme gran festa si fecero, ripetendo i tempi preteriti; ma dopo l’amichevoli accoglienze, Mennilio domandò chi fossero i compagni, al quale Ascalion rispose: - Questi sono giovani miei amici, i quali udendo la gran fama della vostra città, con meco, pellegrino, pellegrinando vollero venire a vederla, e già qui dimorati siamo più giorni, e omai credo ci partiremo -. Disse allora Mennilio: - Ora conosco che solo l’amore di Lelio mio fratello alla mia casa ti menava, e non il mio, poi che, lui tolto di mezzo, alla nostra casa disdegni di venire. Oimè, come tu grave mente offeso m’hai, essendo altrove dimorato in Roma, che meco! Io ti priego per quella fede che tu a Lelio portasti, che tu co’ tuoi compagni ad esser meco vegnate, mentre in Roma a dimorare avete -. A cui Ascalion assai disdisse, pregandolo che di ciò nol gravasse, con ciò fosse cosa che a’ compagni forse non piaceria, però che le donne d’alcuni erano con essi loro. A cui Mennilio disse: - E le donne di loro con le nostre saranno, e voi con noi -. Ascalion, non potendosi da’ prieghi di Mennilio difendere, con licenza di Filocolo quello che Mennilio volle consentì, e tutti insieme con Biancifiore e con Glorizia entrarono nel gran palagio per adietro stato di Lelio, nel quale le donne dalle donne e gli uomini dagli uomini onorevolemente ricevuti furono.
- Onorati così costoro da Mennilio, tenendo Ascalion stato di maggiore di tutti, sì come a Filocolo piacea, egli in sé rimembrando le passate cose, s’incominciò a dolere, veggendosi per l’antica amicizia di Lelio onorare da’ fratelli, e egli avea avuta paura di dare sepoltura al morto amico, essendovi presente, avvegna che tardi gli fosse noto: e similemente a Giulia più benivolo non essersi mostrato, e a Biancifiore nelle sue avversità: e le cose che già di lei avea dette per ritrarre Filocolo da tale amore, ora l’incominciarono a dolere. Egli fece a Filocolo vietare a Glorizia che in nulla maniera a Biancifiore dovesse narrare chi coloro fossero dove albergati erano, sappiendo bene che essa gli conoscea. Ma Filocolo, dopo alcun giorno, vedute le magnificenze de’ due fratelli, cioè di Mennilio e di Quintilio, e essendogli molto piaciute, e similemente l’onore che ad Ascalion e a loro tutti era fatto, e quello che Clelia, di Mennilio sposa, stata per adietro di Giulia sorella, e Tiberina, moglie di Quintilio, facevano a Biancifiore e a Glorizia e all’altre che con Biancifiore erano, li venne volontà di sapere chi costoro fossero, e domandonne Ascalion. - Come, caro figliuolo, non sai tu dove tu se’ e in casa cui? -. - Certo - disse Filocolo - in Roma so ch’io sono, e in casa di Mennilio; ma chi esso sia io non so: e s’io il sapessi, a che fare te ne domanderei io? -. Disse allora Ascalion: - Ora sappi che di costoro fu fratello Lelio, il padre di Biancifiore, il quale dal tuo padre fu ucciso, e quella donna chiamata Clelia, la quale tanto Biancifiore onora, sorella carnale fu di Giulia sua madre. Vedi ove la fortuna ci ha mandati! Io penso che senno sarebbe omai di qui partirci, però che di leggieri, se conosciuti fossimo da loro, potremmo in questa fine del nostro cammino ricevere impedimento: e io ho veduto, e molte volte udito, nave correre lungo pileggio con vento prospero, e all’entrare del dimandato porto rompere miseramente. La fortuna ci è in molte cose stata contraria: che sappiamo noi se ancora la sua ira verso noi è passata? Da fuggire è la cagione acciò che l’effetto cessi -. Queste parole udendo Filocolo si maravigliò molto, pensando alla grande nobiltà de’ zii di Biancifiore, e alla miseria in che la fortuna l’avea recata, ponendola nella sua casa come serva, e così da tutti riputata; e molto in se medesimo si contentò che donna di sì nobile progenie gli fu dagl’iddii per amante mandata e poi per isposa: e con Ascalion delle iniquità del padre e della madre verso di lei usate si duole, e più che mai le biasima e odia, e con turbato viso grievemente riprende il suo maestro riducendogli a memoria ciò che per adietro sconciamente della giovane aveva parlato, e dice che - meritamente gl’iddii dovriano a costoro notificare chi tu se’, acciò che dove tu onore ricevi, fossi, come hai servito, guiderdonato -. Poi con più temperato viso dice: - Veramente io dubito che conosciuti non siamo in questo luogo, però che costoro hanno sangue toscano: essi non mettono mai l’offese in oblio sanza vendetta. Se io forse da loro fossi conosciuto, io non credo che mi riguardassero per ch’io loro congiunto sia: ma come mi potrò io anche partire sanza la loro pace, o almeno sanza la loro conoscenza, la quale io in niuna parte posso meglio che qui trattare? -. Ascalion, che tutte le sue parole ascoltava, né niente si turbò per riprensione udita, però che già debita compunzione per se medesimo avea presa della commessa colpa, così gli disse: - Filocolo, tu e’ tuoi compagni siete giovani e per diverse parti del mondo sconosciuti siete pellegrinati, per la qual cosa alcuna persona non è che vi conosca per quelli che siete: però, se di qui partirti disideri, fare lo possiamo, né fia chi saputo abbia chi voi vi siate. Se la conoscenza e la pace de’ tuoi parenti disideri, non è prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, infino a tanto o che mi parlino d’alcuna cosa, per la quale io possa a ragionare de’ tuoi fatti debitamente venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun’altra via ci si prenda migliore, per la quale il loro intendimento possiamo conoscere; il quale conosciuto, quello che operare deggiamo conosceremo -. A questo s’accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.
- Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il migliore, Filocolo solo con Menedon dall’ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si poteano di guardare, lodando la magnanimità di coloro che fatte l’aveano fare e de’ facitori il maestro. E così andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s’adorna che prima nel diserto comandò penitenza a’ peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e dalla rana cognominato del rabbioso Nerone; e in quello entrarono, e rimirando di quello le grandezze in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell’universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare: e qual fosse la cagione delle forate mani, de’ piedi e del costato pensare non sapea, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella quale dimoranza stando, uno uomo antico non troppo e di bella apparenza, in iscienza peritissimo, il cui nome, secondo ch’egli poscia manifestò, era Ilario, disceso di parenti nobilissimi, d’Attene quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell’inclito imperadore Giustiniano, quivi venuto, e all’ordine de’ cavalieri di Dio scritto, forse a guardia del bel luogo diputato, gli sopravenne, e vide Filocolo così quella imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il mirò molto, e parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non conoscendolo, così l’incominciò a parlare: - O giovane, con molta ammirazione l’effige del creatore di tutte le cose riguardi, come se mai da te non fosse stato veduto -. A cui Filocolo graziosamente rispose: - Sanza dubbio, amico, ciò che tu di’ è vero; e però ch’io mai più nol vidi, con ammirazione ora il riguardava -. - E come può essere - disse Ilario - che tu molte volte non l’abbi veduto, se de’ servatori della sua legge se’? -. - Certo - disse Filocolo - né lui, come già dissi, mai più vidi, né qual sia la sua legge conosco -. - Adunque qual legge servi, o cui adori? - disse Ilario. A cui Filocolo rispose: - La legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond’io sono servano, e io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii posseditori delle celestiali regioni, a’ quali, quante volte di loro abbiamo bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e le dimandate cose riceviamo -. - Dunque tu idolatrio se’ della setta de’ gentili? -. - Così sono come tu di’ - rispose Filocolo. - Ora ignori tu - disse Ilario - che noi cotesta setta abbiamo, e degnamente, in odio, sì come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio? -. - Non lo ignoro - disse Filocolo. - Dunque - disse Ilario - come sicuro qui, gentile, vivi tra ’l popolo di Dio? Non sai tu che come voi a noi parate insidie, così a voi potrebbero essere da noi parate? Ma che? Di questo per nulla ti domando, ché chi alla salute dell’anima non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare? Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro: escitene fuori! -. A cui Filocolo disse: - Male può servare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra legge udissi o quello ch’io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio diventerei -. - Già per udirla, se mai più non l’udisti, non perderai: io la ti mostrerò tutta, avvegna che a ben volerlati fare intendere mi converrà distendere in molte parole, le quali dubito non ti fossero tediose ad udire -. A cui Filocolo disse: - A te non sia affanno il dire, che a me mai l’ascoltare non rincrescerà -. - Adunque - disse Ilario - sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che fruttuose siano le mie parole -.
- Posersi a sedere Filocolo e Menedon, e Ilario in mezzo di loro, nel cospetto della reverenda imagine. A’ quali parlando Ilario con soave voce mostrò chi fosse il creatore di tutte le cose, e come sanza principio era stato, così niuna fine era da credere a lui dovere essere; e dopo questo loro dichiarò di tanto fattore le prime opere, cioè il cielo e la terra, con ciò che in essi di bene e di bellezza veggiamo o sentiamo, o vedere o sentire si puote. Egli mostrò loro appresso la creazione de’ belli spiriti, i quali non conoscenti prima contro al loro fattore alzaron le ciglia, per la qual cosa etterno essilio meritarono de’ beati regni, essendo loro per perpetua carcere l’infimo centro della terra donato. E dopo questo narrò come a restaurazione de’ voti scanni, il primo padre con la sua sposa furon formati in Ebron e messi in paradiso; e fatto loro dalla divina voce il mal servato comandamento, il trapassare del quale a loro e a’ loro successori guadagnò morte e affanno. Piacqueli ancora di dire quanto il principio della prima età fosse dalle seguenti variato, mostrando come i loro digiuni le ghiande solveano, e gli alti pini davano piacevoli ombre, e i correnti fiumi davano graziosi beveraggi agli assetati, e l’erbe soavissimi sonni; e come semplici vestimenti contenti gli copriano, e come ciascuno sola la sua contrada conoscea sanza cercare l’altrui, e come i terribili suoni delle battaglie tacevano e l’armi non erano e l’arte di quelle non si sapea, per che la terra il beveraggio dell’umano sangue non conoscea; seguendo come a costoro, a’ quali sì semplice vita bastava, non bastarono gli ordini della natura, né la lussuria, né il loro vero Iddio per adorare, ma passando nell’una e nell’altra cosa i termini meritarono l’ira del sommo fattore, per la quale il mondo allagò, riserbato solamente da Dio un padre con tre figliuoli e con le loro spose, però che erano giusti, nella salutifera arca, con l’altre cose necessarie alla mondana restaurazione. Appresso questo, dimostrò loro con aperta ragione l’uscimento dell’arca lontanamente stata a galla, e ’l nascimento de’ popoli discesi di Cam, Sem e Iafet, e le edificazioni e della gran torre e dell’altre città fatte da’ rifiutanti l’ombre degli alberi; e il primo trovamento di Bacco schernitore del suo primo gustatore, e le varie maniere de’ vestimenti e de’ loro colori, e i cercamenti degli altrui paesi, e quali fossero i fedeli servatori de’ piaceri di Dio, e quali da quelli diviassero: né niuna notabile cosa lasciò a narrare che stata fosse infino a’ tempi del primo Patriarca. Qui posta alla prima e alla seconda età fine, della terza cominciò a parlare, e le cose state fatte da Abraam, dal fratello, dal figliuolo e dal nepote tutte disse, insieme con le vedute e udite da loro. E contando del duodecimo fratello, trenta danari dagli altri venduto, narrò le sue avversità e l’uscimento di quelle e ’l salimento alla sua gloria; e ’l passamento del popolo di Dio in Egitto di dietro a lui, e quello che qui operasse, e quanto i discendenti vi stessero, e sotto quale servitute mostrò aperto, infino alla natività di colui che, dell’acque ricolto, da Dio i dieci comandamenti della legge riceveo, da’ quali, quelle che noi oggi serviamo, tutte ebbero origine. E questo detto, seguì quanti e quali fossero i segni fatti nella presenza del crudo prencipe, che oltre al loro volere nella provincia d’Egitto gli tenea racchiusi. Né tacque come sotto la sua guida esso popolo, per dodici schiere passando il rosso mare, uscissero di quello con secco piede, avendo per pedoto la notte una colonna di fuoco e ’l giorno una nuvola, e similemente come, seguiti, gli avversarii nelle rosse acque rimasero. Mostrò ancora quanta e quale fosse la vita loro nel diserto luogo, e come, morto il primo legista, sotto il governo di Iosué rientrarono in terra di promissione, e quivi con quali popoli avessero le già cominciate battaglie, dicendo loro ancora con quanta reverenza trovata fosse e servata e riportata l’arca santa. E come lo sciolto popolo si reggesse, e sotto quali giudici, e chi fra loro con divina bocca parlasse, e di che, disse, e come elli disiderasse re e fosse loro dato, narrò infino a David. Qui alla terza età pose fine e cominciò la quarta, le avversità di David e le sue opere tutte narrando, dicendo all’altre principali come Micol acquistasse, e quello che per Bersabè operasse, né tacque d’Ansalon come morisse e per che, né della mirabile forza di Sansone, né della scienza di Salamone, mostrando com’egli a Dio il gran tempio di Ierusalem avea edificato, e con questa l’altre sue operazione tutte. E per consequente de’ suoi discendenti e degli altri prencipi successori disse ciò che stato n’era e che operato aveano: e de’ profeti stati per li loro tempi, infino che alla trasmigrazione di Bambillonia pervenne. Quivi la quinta età cominciò, della quale a dire niuna cosa lasciò notabile, infino alle gloriose opere de’ Maccabei, le quali furono non poco da commendare. E con tutto che egli queste cose del popolo di Dio narrasse, non mise egli in oblio però le notabili cose state fatte per gli altri di fuori da quello, ma per i suoi tempi ogni cosa narrò. Egli mostrò come di Nebrot fosse disceso Belo, primo re degli Assiri, il cui figliuolo Nino era stato primo prevaricatore de’ patrimoniali termini, con mano armata soggiogandosi l’oriente. E disse ciò che Semiramis avea già fatto, e degli altri ancora successori ciò che vi fu notabile, e come per trentotto re, l’uno succedente all’altro, il reame era pervenuto a mano di Sardanapalo, il quale i bagni e gli ornamenti delle camere e ’l dilicato dormire e i piacevoli cibi trovò, al quale Cirro, re di Persia, tolse il regno, e similmente a Baldassar, di Nabucdonosor, re di Bambillonia, successore, insieme con Dario re de’ Medi, e a’ Medi soggiogato rimase. Né lasciò a dire che il regno de’ Medi cominciò sotto Arbato, e Arbato fu il primo re, e dopo il settimo re pervenne ad Alessandro, e similemente quello de’ Persi, de’ quali Cirro fu principio e Dario fine, tra l’uno e l’altro avuti undici re, il quale Alessandro discese de’ greci re, de’ quali il primo fu Saturno, cacciato da Giove. E mostrò loro ancora da costui, lasciante a Tolomeo quello per eredità, essere ricominciato il regno degli Egiziaci, finito poi nel tempo di Cleopatra per la forza de’ romani, che ’l soggiogarono; e narrò come degli Argivi il primo re fu Inaco, e de’ Lacedemoni Foroneo, primo donatore di legge a’ suoi popoli. E non di meno mostrò a che tempo l’antica Tebe s’era edificata, e chi fossero i suoi re, e sotto cui distrutta. E similemente della gran Troia e de’ suoi reali e della sua distruzione disse. Né mise in oblio di narrare Iano essere d’Italia stato primo re, e Romolo de’ romani, contando di quella la notabile edificazione. E disse d’Agrileon stato primo re di Sitronia; e molte altre cose recitò laudevoli intorno a quelle, del giudaico popolo: mostrando ancora i diversi errori di molti erranti e non sappienti, che e come agl’idoli sacrificare s’era pervenuto dagli antichi, abandonata la diritta via. Ma parendogli delle vecchie cose avere assai detto, quelle lasciando disse: - Giovani, ciò che davanti detto avemo poco è a quello che dire intendiamo, necessario di sapere, ma vuolsi credere, e è introducimento a ciò che dire vi credo appresso: e però ascoltate e con diligenza notate le mie parole -.
- - Quanto sia stato nelle cinque età passate, vi credo con aperta ragione aver mostrato - disse Ilario; - ora alla sesta piena di grazia, nella quale dimoriamo, con più lento passo ci conviene procedere, e dicovi così. Come voi poteste nel principio del mio parlare comprendere, se bene ascoltaste, uno è il creatore di tutte le cose, a cui principio non fu né fine sarà mai, il quale, da sé gittate le superbe creature, volle di nobile generazione riempiere i voti luoghi, e creò l’uomo, al quale morte annunziò se il mandato passasse, com’io vi dissi. Ma quelli, vinta la sua sposa dalle false subduzioni dell’etterno nimico, piacendo a lei il trapassò, per che cacciato con lei insieme del glorioso luogo, agli affannosi cultivamenti della terra ne venne, e morì; e noi, sì come suoi successori, corporalmente tutti moriamo. Ma però che le nostre anime, fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a’ dolenti regni de’ malvagi angeli, non tanto giustamente fosse col corpo vivuta, né niuna era possibile per suo merito a risalire colà donde peccando era caduta, il creatore di quelle per sua propia benignità verso noi divenne pietoso, e nel principio di questa sesta età, regnante Ottaviano Augusto e tenendo tutto il mondo in pace quieta, il suo unico Figliuolo volle che s’incarnasse in una vergine di reale progenie discesa, il cui nome fu e è Maria, alla quale in Nazaret, città di Giudea, per convenevole messo il fece annunziare. Dal quale essa rassicurata, al volere del suo signore sì rispose, dicendo: "Ecco l’ancilla del Signore, sia a me secondo la sua parola". La quale risposta fatta, cooperante la virtù del Santo Spirito, l’unico Figliuolo di Dio fu incarnato; alla quale incarnazione niuna naturale operazione fu mescolata, né opportuna, se bene si guarda. Fu adunque la incarnazione, come detto v’ho, del Figliuolo di Dio, il quale poi glorioso nacque, acciò che poi passione e morte sostenendo le nostre colpe lavasse, e facessene possibili a salire a quella gloria donde ne cacciò disubidendo il primo padre, non perché Iddio non avesse con la sua parola sola potutone perdonare e rifarci degni, che bene avria potuto, però che nella sua potenza ogni cosa si richiude; ma egli fece questo acciò che più apertamente la benivolenza, la quale continua ha verso di noi, ne dimostrasse, e acciò che noi più pronti a’ suoi servigi ci disponessimo, veggendone tanto dono conceduto sanza averlo servito, ma più tosto diservito. Incarnato adunque costui, le leggi della presa carne seguendo, nove mesi nel ventre della Vergine fé dimora, la quale venendo con Giosep suo sposo, uomo di lunghissima età, il quale abandonare l’avea voluta per la non conosciuta pregnezza, se l’ammonizione dell’angelo non fosse, da Betelem in Ierusalem a pagare una moneta che dieci piccioli valesse, detta denaro, sì come Ottaviano avea mandato comandando, acciò che ’l numero de’ suoi sudditi sapesse, menando un bue e uno asino seco: il bue per vendere acciò che le spese sostentasse del parto, e l’asino per leviare l’affanno del cammino. Sentendo la Vergine il tempo del partorire, così andando, ad una grotta, la quale lungo la via era dove i viandanti soleano tal volta loro bestie legare per fuggire l’acque o’ caldi, o per riposo, entrarono, però che per li molti andanti ogni casa era presa. Quivi poveramente la notte si riposarono, la quale già mezza passata, la Vergine, così come con diletto carnale non avea conceputo, così sanza alcuna doglia spuose il suo santo portato: il quale, acciò che dal freddo che era grande il guardasse, povera di panni, nel fieno, che davanti al bue e all’asino era, l’involse. E che deono fare gli uomini, poi che quelle bestie, conoscendo il Salvatore del mondo, s’inginocchiarono, quella reverenza faccendogli che il loro poco conoscimento amministrava? In quell’ora s’udirono l’angeliche voci degli angeli tornanti al cielo, cantando ’Gloria in excelsis Deo’, con quanto di quello inno si legge poi. In quell’ora si videro per lo mondo mirabili cose, e massimamente in questa città. Or non ruinò elli quella notte il gran tempio della pace, il quale, secondo a’ romani domandanti fu risposto, doveva tanto durare che la Vergine partorisse, per che essi, imaginando quella mai non dover partorire, nella sommità della porta di quello scrissero "il tempio della pace etterno", e sopra le ruinate mura fu poi edificato un altro salutifero tempio, da colei nominato che Vergine partorì? Non la imagine di Romolo, re de’ romani, cadde e tutta si disfece? Certo sì; e l’imagini fatte a dimostrazione delle mondane provincie, a’ romani suddite, tutte si ruppero, né restò nel mondo alcuno idolo intero. Quella notte, oscurissima, divenne chiara come bel giorno, e una fonte d’acqua viva in liquore d’olio in questa città si converse, e olio corse tutto quel glorioso giorno infino al Tevero. E apparve a tre re orientali, stanti sopra il vittoriale monte, quel giorno una stella chiarissima, nella quale elli videro un fanciullo piccolo con una croce in testa, e parlò loro che in Giudea il cercassero. E quel giorno medesimo, avvegna che alcuni dicano che prima apparissero, apparvero in oriente tre soli, i quali, poi che veduti furono, in un corpo tutti e tre ritornarono, per li quali assai aperto l’essenza della Trinità si manifestò. E certo Ottaviano Augusto volle da’ romani essere adorato per iddio, ma egli, discreto, i consigli della savia Sibilla domandò; alla quale, venuta a lui il giorno di questa natività gloriosa, egli disse: "Vedi se niuno dee di me nascere maggiore, o se io per iddio a’ romani mi lascio adorare". La quale, nella sua camera dimorando, in un cerchio d’oro, contra il sole apparito, gli mostrò una vergine con un fanciullo in braccio, la quale egli con maraviglia riguardando, s’udì dire: "Hec est Ara celi", né vide chi ’l dicesse. A cui la Sibilla poi disse: "Quelli è maggiore di te, e lui adora". Le quali parole udite, egli gli offerse incenso, e in tutto a’ romani rinunziò l’esser adorato per iddio, però che mortale e non degno di ciò si sentiva. E in questo medesimo giorno apparve un cerchio, il quale tutta la terra circuì, fatto a modo che iri; e le vigne d’Egando, le quali proferano il balsamo, fiorirono quella notte, e diedero frutto e liquore. E pochi dì avanti questo si truova che arando alcuni con buoi, i buoi dissero: "Gli uomini mancheranno e le biade aumenteranno". Similemente i pastori, che in quella notte guardavano le loro bestie, essendo loro dagli angeli nunziato il nascimento del garzone, andando in quella parte, trovarono vero ciò che loro era stato detto, e adoraronlo. In quella notte similmente si truova che quanti soddomiti erano, tanti ne furono estinti, avendo Iddio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contra natura ne umana natura operarsi, per poco non rimase d’incarnarsi. Dunque tante cose, e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sì estrema povertà nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli, signore di tutte le cose, è credibile che se voluto avesse, potea ne’ gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie; ma acciò che l’umiltà mostrasse a tutti dovere esser cara, così bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con più disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque così costui, fu all’ottavo giorno della sua natività circunciso secondo la giudaica legge. E i tre re d’oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, però che udito avea il re de’ Giudei dovere nascere, disse: "E’ non è qui, andate e trovatelo, e da me tornate, acciò che io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo". I quali, usciti di Ierusalem, e riveduta la stella, in Betelem lo trovarono, e adoraronlo, e offersonli oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall’angelo, per altra via nelle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch’egli incominciò: "Nunc dimittis etc.". Erode poi, veggendosi da’ tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giosep, ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggì in Egitto: gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli già nel duodecimo anno nel tempio di Dio co’ dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente sanza peccare fino al trentesimo anno servò: il quale venuto, andato nel deserto ove Giovanni era, da lui prima prese battesimo, e quello per che era venuto cominciò a mostrare nelle sue predicazioni, eleggendosi dodici discepoli, i quali sì come fratelli amò e loro la diritta via del regno suo mostrò, la quale essi, sì come le loro opere manifestano, conobbero bene, e seguironla. E avendo già cominciato questo Figliuolo di Dio a mostrare come egli vero Iddio e vero uomo fosse, convitato alle nozze d’Alclitino, il vino mancandovi, di pura e vera acqua fece bonissimo vino tornare. Elli, fatta la quadragesima e vinte le tentazioni dell’antico oste, cominciò a predicare alle turbe e a sanare gl’infermi, a liberare gl’indemoniati, a mondare i leprosi, a dirizzare gli attratti e a guarire i paraletici, e qualunque altra infermità, e a suscitare i morti, per le quali cose da molti era seguito. Egli similemente liberò una femina presa in adulterio, scrivendo in terra a’ Farisei: "Quale di voi è sanza peccato pigli la prima pietra". Egli pascé di cinque pani e di due pesci cinquemila uomini, e femine e fanciulli sanza fine, e avanzonne dodici sporte, e ad una Samaritana, cercando bere ad una fonte, narrò le più segrete sue cose, per ch’ella, questo manifestato nella città, con molti il seguitò. Egli a’ prieghi delle care sorelle suscitò Lazzaro, stato già quattro giorni nella sepoltura; e mangiando con Simone fariseo, alla donna di Magdalo, lunga peccatrice stata, la quale con le lagrime gli avea lavati i piedi e asciutti co’ capelli e unti con prezioso unguento, perdonò i molti peccati, dicendo: "Va, e non peccare più". Egli similemente sanò un povero, lungo tempo stato alla pescina per lavarsi nella commossa acqua. Ma poi per le molte cose da’ Giudei invidiato, fu cercato di lapidare, la cui ira egli la prima volta fuggì, ma poi con onore grandissimo, sedendo sopra una asina, essendogli tutta Ierusalem con rami d’ulive e di palma e con canti uscita incontro, rientrò in quella, ove poco tale onore gli durò. Ma egli già conoscendo il tempo della sua passione essere vicino, cenò co’ discepoli e loro com’egli dovea essere tradito da uno di loro nunziò. Dopo la qual cena, lavati a tutti i piedi, andò in un giardino fuori della città ad orare con alcuni di quelli; ma colui che ’l tradimento avea ordinato, venuto quivi co’ sergenti del prencipe de’ Farisei, tradendolo, con gran romore e furore come un ladrone fu preso. Ma s’egli avesse voluto fuggire, niuno era che ’l tenesse, quando tramortiti caddero tutti nel suo cospetto; ma egli sollicito alla nostra redenzione stando fermo, rendute loro le prime forze, si lasciò pigliare: e volete udire più benignità di lui? Avendo Pietro Simone, uno de’ suoi discepoli, il quale egli capo degli altri e suo vicario avea ordinato, tagliata l’orecchia a uno de’ servi de’ prencipi, ammonendo lui che il coltello riponesse, l’orecchia sanò al magagnato. Fu adunque, così preso, costui menato nel cospetto di Caifas e d’Anna, i quali a Pilato il mandarono, di lui ponendo false accuse, sì come quelli che per invidia la sua morte cercavano, pensando che se egli vivesse tutto il loro popolo trarrebbe alla vera fede da lui predicata, e essi rimarriano sanza. Pilato, il quale quivi per li romani era preside, infino alla mattina legato il tenne. La mattina, udendo che galileo fosse, il mandò ad Erode, il quale, disideroso di vederlo, poi a Pilato, vedutolo, il rimandò; e stato lungamente suo nimico, per questo, suo amico è ritornato. Pilato non trovando in lui alcuna colpa, il volea lasciare, ma il gridante popolo lo spaventava, ond’egli, fattolo flagellare duramente, credendo che ciò bastasse, il volle loro rendere, i quali gridando la sua morte, a quella il condussero e in croce in mezzo a due ladroni il crocifissero, schernendolo e dandogli aceto e fiele a bere con una spugna: sopra la quale egli morì. Quello che, morendo costui, avvenne, ascoltatelo: elli tremò la terra fortissimamente; le pietre, sanza essere tocche, si spezzarono in molte parti; il velo del tempio di Salamone si divise per mezzo; i monumenti aprirono, e molti corpi risuscitarono; il sole oscurò, essendo la luna in quintadecima, e tutta la terra universalmente sostenne tenebre per più ore: le quali cose Dionisio veggendo, essendo in Attene, e della vostra setta, disse: "O il signore della natura sostiene ingiuria o tutto il mondo perirà". E Longino, cieco cavaliere, ferendo con la sua lancia il santo costato, di quello sentì sangue e acqua viva venire giù per la lancia, per che agli occhi ponendosela riebbe la vista. Centurione, stato avanti degli schernitori, vedendo queste cose, confessò lui veramente essere stato Figliuolo di Dio. Dunque dove tante e tali cose si videro, ben si puote credere colui Figliuolo di Dio e Redentore a noi essere stato. Venuto il vespro, fu il beato corpo diposto della croce da Nicodemo e da Giosep di Bramanzia e con odorifere cose involto in un mondo lenzuolo, fu posto in una sepoltura, la quale da armate guardie e suggellata fu guardata, acciò che i suoi discepoli, i quali tutti abandonato l’aveano, quando fu preso, non venissero e furasserlo, e poi dicessero: "Risuscitato è". Ma la santa anima sì tosto com’ella il corpo abandonò, così discese all’etterna prigione e rotte le porti della potenza dell’antico avversario, trasse i santi padri, i quali in lui venturo debitamente credettero, e, aperta la celestiale porta infino a quel tempo stata serrata, nella gloria del suo Padre gli mise. Poi al terzo dì ritornando al vero corpo, con quello veramente risuscitò, e più volte apparve e a suoi discepoli e ad altrui. E dopo il quarantesimo giorno, vedendolo tutti i discepoli suoi e la sua madre, se ne salì al cielo, faccendo loro nunziare che ancora a giudicare i vivi e i morti ritornare dovea. E dopo il decimo giorno tutti del Santo Spirito gl’infiammò, per lo quale ogni scienza e ogni locuzione di qualunque gente fu loro manifesta: e predicando la santa legge, tutti per diverse parti del mondo andarono -.
- - Ora - disse Ilario - avete udito quello che noi crediamo, adoriamo e la cui legge serviamo. Udito avete la cagione della sua incarnazione, la quale né per angelo né per altra creatura si potea supplire se non per questa. Udito avete la gloriosa natività come fosse, e la concezione. Udito avete la laudevole e virtuosa e miracolosa vita di lui. Udito avete l’affannosa e vituperosa fine e cruda morte ch’egli per noi sostenne; e similemente la pia redenzione, la vittoriosa resurrezione, e la mirabile apparizione, e la gloriosa ascensione v’ho mostrato, e ultimamente la donazione graziosa del Santo Spirito, e nunziato v’ho il futuro giudicio: le quali cose se ben pensate, vero Iddio e vero uomo incarnato, nato, vivuto e passo e morto e risuscitato essere il conoscerete. Né vi si occulterà ne’ vostri pensieri quanta la sua infinita pietà sia stata verso di noi, il quale per la nostra salute diè se medesimo. Gran cosa è quando un servo per la liberazione del signore, o l’uno amico per l’altro, o l’uno per l’altro fratello, o ’l padre per il figliuolo, o ’l figliuolo per il padre prende morte: ma quanto è maggiore il signore, per lo servo liberare, vituperosa pigliarla! Noi, servi del peccato, tanto perfettamente da lui fummo amati, che egli non disdegnò l’altezza de’ suoi regni abandonare per pigliare carne, acciò che possibile si facesse a patire e a pigliare morte per nostra redenzione. Adunque non vi vinca la terrena cupidità, alla quale le vostre false e abominevoli leggi sono più atte che la nostra, ma cacciate da voi i giuochi dello ingannevole nimico delle nostre anime, e nuovi davanti a Dio vostro Creatore vi presentate -.
- Ascoltarono con gran maraviglia Filocolo e Menedon le cose dette da Ilario, e quelle notarono, parendo loro, sì come erano, grandissime: e visitando poi Ilario più volte, ogni fiata ridire se ne faceano parte, né niuna cosa rimasa decisa fu che essi distesamente dire non si facessero, e come e quando e dove di tutte si fecero narrare. Le quali udite tutte, Filocolo domandò Ilario in che la credenza perfetta di chi salvare si volea si ristringesse. A cui Ilario cominciò così: - Noi prima fedelmente crediamo, e semplicemente confessiamo uno solo Iddio etterno e incommutabile e vero, in cui ogni potenza dimora. Crediamo lui incomprensibile e ineffabile Padre, Figliuolo e Santo Spirito, tre persone in una essenzia, in una sustanzia, overo natura semplice omnino. Crediamo il Padre da niuno creato, il Figliuolo dal Padre solo e lo Spirito Santo da ciascuno procedere: né mal ebbono principio e così sempre saranno sanza fine. Crediamo lui di tutte le cose principio e creatore delle visibili e invisibili, delle spirituali e corporali. Crediamo lui dal principio aver creato di niuna cosa la spirituale e corporale creatura, cioè l’angelica e la mondana, e appresso l’umana, quasi comune di spirito e di corpo. Crediamo che questa santa e individua Trinità al profetato tempo desse all’umana generazione salute, e l’unigenito Figliuolo di Dio di tutta la Trinità comunemente della Vergine, cooperante il Santo Spirito, fu fatto vero uomo di razionale anima e di corpo composto, avendo una persona in due nature. Egli veramente ne mostrò la via della verità, con ciò sia cosa che, secondo la divinità, immortale e impassibile fosse, secondo l’umanità si fece passibile e mortale. Il quale ancora per la salute dell’umana generazione crediamo che sopra il legno della croce sostenesse passione e fosse morto, e discendesse all’inferno, e risuscitasse da morte e salisse in cielo. E crediamo che veramente egli discendesse in anima, e risuscitasse in carne, e salisse in cielo parimenti con ciascuna. E crediamo che nella fine del secolo egli verrà a giudicare i vivi e i morti, e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, o buone o ree che state sieno, e così a’ malvagi come a’ buoni, i quali tutti con li loro propii corpi che ora portano risurgeranno, acciò che come avranno meritato ricevano: quelli con Pluto in pena etterna, quelli con Giove in gloria sempiterna. Crediamo ancora de’ fedeli una essere l’universale ecclesia, fuori della quale niuno crediamo che si salvi, nella quale esso Iddio è sacerdote e sacrificio, il cui corpo e sangue nel sacramento dell’altare sotto spezie di pane e di vino veramente si contiene, transustanziati il pane in corpo e ’l vino in sangue per divina potenza, acciò che a compiere il ministerio dell’unità togliamo del suo quello che egli del nostro tolse; e questo sacramento niuno il può fare, se non quello sacerdote che sarà dirittamente ordinato secondo le chiavi della chiesa, le quali egli agli apostoli concedette e a’ loro successori. Crediamo similemente il sacramento del battesimo, il quale ad invocazione della individua Trinità, cioè Padre e Figlio e Santo Spirito, si consacra nell’acqua: così a’ piccoli come a’ grandi, da chiunque egli è, secondo la forma della chiesa, dato, giova a salute. Dopo il quale ricevuto, s’alcuno cadesse in peccato, crediamo che sempre per vera penitenza può tornare a Dio: e non solamente le vergini e’ continenti, ma ancora i congiugati per diritta fede, piacenti a Dio, crediamo potere ad etterna beatitudine pervenire. E così a te e a qualunque altro di quella vuole essere partefice conviene credere, dannando ogni altra oppinione che alcuni altri avessero avuta e avessero delle predette cose, sì come eretici e contrarii alla diritta fede -.
- - Grandissime cose e mirabile credenza ne conta il tuo parlare - disse Filocolo ad Ilario, - le quali tanto piene d’ordine, di santità e di virtù veggio, che già disidero con puro animo d’essere de’ tuoi; ma sanza i miei compagni, con li quali riferire voglio l’udite cose, niuna cosa farei, ancora che faccendolo sanza loro conosco saria ben fatto -. A cui Ilario: - Giovane, confortati nelle mie parole, e con teco i tuoi compagni vi conforta: e fuggendo le tenebre, nelle quali colui, cui voi orate, vi tiene, venite alla vera luce da cui ogni lume procede, e che per la vostra e nostra salute se medesimo diede a obbrobriosa morte. Correte al santo fonte del vero lavacro, il quale, lavando l’oscura caligine delle vostre menti, vi lascerà conoscere Iddio, il quale l’orazioni de’ peccatori essaudisce nel tempo opportuno. Assai è tra’ miseri miserabile colui che può uscire d’angoscia e entrare in festa, se in quella pur miseramente dimora. Venite adunque e lavatevi nel santo fonte, e di quelle tre virtù nobilissime, Fede, Speranza e Carità vi rivestite, sanza le quali niuno può piacere a Dio; e così chi le veste, impossibile è che gli etterni regni siano serrati. Dunque v’è licito venire al donatore di tutti i beni a servire, e la prigione etterna fuggite mentre potete. Né vi faccia vili la poca autorità, che forse io confortante dimostro, ché le parole da me dette a voi non sono mie, anzi furono de’ quattro scrittori delle sante opere del nostro fattore, de’ quali ciascuno testimonia quello che parlato v’ho, e con loro insieme molti altri, i quali, avvegna che fossero più e diversi, un solo fu il dittatore, cioè il Santo Spirito, la cui grazia discenda sopra voi, e vi dimori sempre -.
- Partironsi adunque Filocolo e Menedon da Ilario, sopra l’udite cose molto pensosi, e ripetendole fra loro più volte, quanto più le ripeteano, più piaceano: per che essi in loro deliberarono del tutto di volere alla santa legge passare, e di narrarlo a’ compagni proposero. E accesi del celestiale amore, tornarono lieti al loro ostiere, dove essi il duca e Parmenione e Fileno e gli altri trovarono aspettargli, maravigliandosi di loro lunga dimora così soli. Co’ quali poi che Filocolo fu alquanto dimorato, non potendo più dentro tenere l’accesa fiamma, chiamatili tutti in una segreta camera, così loro cominciò a parlare:
- - O cari compagni e amici, a me più che la vita cari, i nuovi accidenti nuove generazioni di parlari adducono, e però io sono certo che voi vi maraviglierete assai di ciò ch’io al presente ragionare vi credo; ma però che da nuova fiamma sono costretto, e secondo il mio giudicio il debbo fare, non tacerò ciò che il cuore in bene di voi e mio conosce. Noi, sì come voi sapete, non siamo guari lontani al giorno nel quale il terzo anno si compierà che voi per amore di me seguendomi lasciaste, sì com’io, le case vostre, e in mia compagnia, non uno solo, ma molti pericoli avete corsi, per li quati io ho la vostra costanza e fidele amicizia conosciuta, e conosco perfetta, e sanza fine ve ne sono tenuto. Ma come che l’avversità sieno state molte, prima da Dio e poi da voi la vita e ’l mio disio riconosco: per le quali cose mi si manifesta che se io a ciascuno donassi un regno, quale è quello ond’io la corona attendo, non debitamente vi avrei guiderdonati; ma il sommo Iddio, proveditore di tutte le cose, e degli sconsolati consiglio, ha parati davanti agli occhi miei degni meriti alle vostre virtù, i quali da lui, non da me, se ’l mio consiglio terrete come savi, prenderete, e in etterno sarete felici. E acciò che le parole, le quali io vi dirò, voi non crediate che io da avarizia costretto le muova, infino da ora ogni potenza, ogni onore, ogni ricchezza che io avere deggio nel futuro tempo nel mio regno, nella vostra potenza rimetto, e quello che più vostro piacere è, liberamente ne fate come di vostro: e ciò che io in guiderdone de’ ricevuti servigi v’intendo di rendere si è che io annunziatore dell’etterna gloria vi voglio essere, la quale e a voi e a me, se prendere la vogliamo, è apparecchiata, e dirovvi come -. E cominciando dal principio infino alla fine, ciò che Ilario in molte volte gli avea detto avanti che si partisse, quivi a costoro disse, come se per molti anni studiato avesse ciò che dire loro intendea. E mirabile cosa fu che, secondo ch’egli disse poi, nella lingua gli correano le parole meglio che egli prima nell’animo non divisava di dirle; la qual cosa superinfusa grazia di Dio essere conobbe, seguendo dopo queste parole dette: - Non crediate, signori, che io come giovane vago d’abandonare i nostri errori sia corso a questa fede sanza consiglio e subito: io ci ho molto vegghiato, e molto in me medesimo ciò ch’io vi parlo ho essaminato, e mai contrario pensiero ho trovato alla santa fede. E poi penso più inanzi che dove il mio consiglio non bastasse a discernere la verità, dobbiamo credere che quello di Giustiniano imperadore, il quale, in uno errore con noi insieme, quello lasciando, ricorse alla verità, e in quella dimora, come noi sappiamo, vi fia bastevole. Dunque de’ più savi seguendo l’essemplo, niuno può degnamente essere ripreso, o fare meno che bene. Siate adunque solleciti meco insieme alla nostra salute -.
- I giovani baroni, che ad altre cose credeano costui dovere riuscire nel principio del suo parlare, udendo queste cose si maravigliarono molto, e guardando al ben dire di costui, similemente così com’egli, conobbero grazia di Dio nella sua lingua essere entrata; e i nobili animi, i quali mai da quello di Filocolo non erano stati discordi, così come nelle mondane e caduche cose aveano con lui una volontà avuta, similemente di subito con lui entrarono in un volere della santa fede, e ad una voce risposero: - Alti meriti ne rendi a’ lunghi affanni: sia laudato quel glorioso Iddio, che con la sua luce la via della verità t’ha scoperta. Fuggansi le tenebre, e te, essendo duce, seguiamo alla luce vera. I vani iddii e fallaci periscano, e l’onnipotente, vero e infallibile Creatore di tutte le cose, sia amato, onorato, adorato e creduto da noi. Venga il vivo fonte che dalle preterite ordure, nelle quali come ciechi dietro a cieco duca siamo caduti, ci lavi, e facciaci Iddio essere manifesto -.
- Levansi lieti i giovani dal santo parlare, e tra gli altri, più che alcuno, Ascalion, però che il suo lungo disio, il quale per tiepidezza mai mostrato non avea, vede venire ad effetto. E essendo già tempo più di dormire che di ragionare, Filocolo entrò nella sua camera, e con Biancifiore cominciò le sante parole a ragionare, la quale da Clelia sua zia, santissima donna, di tutte era informata; ma udendole a Filocolo dire, contenta molto gli rispose: - Quello che tu ora vuoi che io voglia, io ho già più dì disiderato, e dubitava d’aprirti il mio talento: però qualora ti piace, io sono presta, e già mi si fa tardi, che io sopra mi senta la santa acqua versare, e nella salutifera legge divenga esperta -. Queste parole udendo Filocolo contento ringraziò Iddio e ne’ pensieri della santa fede il più della notte dimorò, con disio attendendo il giorno, acciò che in opera mettesse il suo diviso con la sua sposa e co’ compagni.
- Rendé la chiara luce di Febo i raggi suoi confortando le tramortite erbette, e Filocolo di quella vago, levato con Menedon lieto tornò ad Ilario, il quale sopra la porta del santo tempio trovarono: e lui salutato, con esso passarono nel tempio, e con chiara verità ciò che fatto aveano gli narrarono, e come i loro compagni di tal conversione letizia incomparabile aveano avuta e mostrata, per la qual cosa disposti alla predicata credenza erano del tutto. Allora Ilario, lietissimo di tanta grazia, quanta il datore di tutti i beni avea nelle sue parole messa, ringraziò Iddio e disse a Filocolo: - Dunque niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo lavacro -. A cui Filocolo rispose: - Sì faremo, ma prima, ove io di voi fidare mi possa, alcuno mio segreto vi vorrei rivelare, acciò che, come all’anima porto avete salutifero consiglio, così similemente provveggiate al corpo -. - Ciò mi piace - disse Ilario, - e con quella fede a me parla ogni cosa che con teco medesimo faresti, sicuro che mai per me niuno il sentirà -. Per che Filocolo così cominciò a dire:
- - Caro padre, io il quale voi in abito pellegrino così soletto vedete, ancora che a me non stiano bene a porgervi queste parole (ma costretto da necessità le dico), sono di Spagna, e figliuolo unico del re Felice signoreggiante quella; e nelle fini de’ nostri regni, sì come alcuni m’hanno detto, uno tempio ha ad uno dei dodici discepoli del Figliuolo di Dio dedicato, al quale i fedeli della santa legge che voi tenete e ch’io tenere credo, hanno divozione grandissima, e sovente il visitano. E avendo a quello uno di questa città nobilissimo singulare fede, il cui nome fu Lelio Africano, con più giovani a visitarlo si mise in cammino, e con lui menò una sua donna, il cui nome era Giulia. Né erano ancora pervenuti a quello, che essendo al mio padre stato dato a vedere che suoi nimici fossero e assalitori del suo regno, passando essi per una profonda valle, da lui e da sua gente furono virilmente assaliti: e per quello che io inteso abbia, egli co’ suoi mirabilissima difesa fecero, ma ultimamente tutti, nel mezzo de’ cavalieri di mio padre, che di numero in molti doppii loro avanzavano, rimasero morti, tra’ quali Lelio similemente fu ucciso. Dopo cui in vita Giulia rimase, e gravida per singulare dono, per la sua inestimabile bellezza fu alla mia madre presentata, la quale da lei graziosamente ricevuta e onorata fu: e di ciò mi sia testimonio Iddio ch’io dico vero. Era similemente la mia madre pregna, e amendune in un giorno, la mia madre me, e Giulia una giovane chiamata Biancifiore partorì, e rendé l’anima a Dio, e sepellita fu onorevolemente in uno nostro tempio secondo il nostro costume. Noi, nati insieme, con grandissima diligenza nutricati fummo, e in molte cose ammaestrati, e sì come io ora credo, volere di Dio fu che l’uno dell’altro s’innamorasse, e tanto ne amammo, che diverse avversità, anzi infinite, n’avvennero. Ma ultimamente il mio padre, credendo lei di vile nazione essere discesa, acciò che io per isposa non la prendessi, né mai avanti la vedessi, come serva la vendé a’ mercatanti, e fu portata in Alessandria, e a me dato a vedere ch’era morta. Ma io poi la verità sappiendo, con ingegni e con affanni e con infiniti pericoli seguendola la racquistai, e per mia sposa la mi congiunsi, e lei amo sopra tutte le cose del mondo. E certo io n’ho un piccolo figliuolo, al quale appena che il sesto mese sia compiuto, e è ’l suo nome Lelio; e però che del padre di Biancifiore valore oltre misura intesi, così il chiamai: ella e egli sono qui meco. E dicovi più, che la fortuna n’ha portati ad essere in casa di Quintilio e di Mennilio, fratelli carnali, secondo ch’io ho inteso, di Lelio; ma già non ne conoscono, né Biancifiore di loro conosce alcuno, né sa chi essi sieno, avvegna che con lei sia una romana, la quale con la madre fu presa e che sempre con essa è stata, il cui nome è Glorizia, la quale tutti li conosce, e a lei per mio comandamento il tien celato. Adunque quello per che io queste cose v’ho detto è che, prendendo il santo lavacro, dubito non mi convenga palesare, e palesandomi, costoro la vendetta della morte del loro fratello sopra me non prendano: e d’altra parte, ancora che io sanza palesarmi, potessi il santo lavacro pigliare, sì mi saria la pace di tanti e tali parenti carissima, né sanza essa volentieri mi partirei, se per alcun modo credessi poterla avere. E avvegna che io nella morte del loro fratello niente colpassi e il mio padre disavedutamente ciò facesse, sì mi metterei io ad ogni satisfazione che per me si potesse fare molto volontieri. Certo la vita di Lelio mi saria più che un regno cara: Iddio il sa. Voi, dunque, discreto mostratore della via di Dio, quella del mondo non dovete ignorare, ché chi sa le gran cose, le piccole similemente dee sapere. Udito avete in che il nostro consiglio a me bisogni: dunque, per amore di colui alla cui fede recato m’avete, vi priego che al mio bisogno, utile consiglio porgendo, proveggiate -.
- Ilario ascoltò con maraviglia le parole di Filocolo, e più volte reiterare se le fece, né alcuna particularità fu ch’egli sapere e udire non volesse, e dell’alta condizione di Filocolo, e del basso stato che egli mostrava quivi ebbe ammirazione, e penollo assai a credere, e poi così gli rispose: - La tua nobiltà mi fa più contento d’averti tratto d’errore, che se tu un particulare uomo fossi; e allora che tu sarai uomo di Dio, come tu se’ dell’avversaria parte, io t’onorerò come figliuolo di re si dee onorare. E certo se io noto bene le tue parole, lunga è stata la sofferenza di Dio, che di tanti e tali pericoli t’ha liberato, sostenendo la vita tua. Ma nullo altro merito ti ha tanta grazia impetrata, se non la conversione alla quale ora se’ venuto, di che tu, se ’l conosci, molto gli se’ tenuto: e veramente di ciò che tu dubiti è da dubitare, ma confortati, ché io spero che colui, che di maggior pericolo t’ha tratto, così similemente di questo ti libererà. E io ci prenderò modo utile e presto, come tu vedrai, però che Quintilio è a me strettissimo amico, né niuna cosa voglio che egli similemente non voglia, per che di leggiere la loro pace avrai. Ma certo tanto ti dico: siati la tua sposa cara, né guardare perché in guisa di serva la sua madre fosse alla tua donata: ella fu del più nobile sangue di questa città creata, sì come de’ troiani Iulii, e il padre fratello di costoro, in casa cui tu tacitamente dimori, trasse origine dal magnanimo Scipione, l’opere e la nobiltà del quale risonarono per tutto l’universo. E acciò che tu non creda che io forse meno che ’l vero ti dica, tu il vedrai. Egli è in questa città patrizio Bellisano, figliuolo di Giustiniano imperadore de’ romani, il quale alla cattolica fede, come avanti ti dissi, tornò, non sono ancora molti anni passati, dirizzandolvi Agapito sommo pastore; il quale Bellisano è di lei congiuntissimo parente: io il farò a te benivolo, sì come colui che come padre m’ubidisce, e farollo al tuo onore sollicito, insieme con Vigilio qui sommo pontefice e vicario di Dio. Dunque confortati e spera in Dio, che il sole non vedrà l’occaso, che tu conciliato sarai co’ fratelli del tuo suocero -.
- Niuno indugio pose Ilario alla sua promissione fornire; ma partito Filocolo, mandò per Quintilio e per Mennilio, i quali a lui insieme con le loro donne venire dovessero. I quali, questo udito, maravigliandosi che ciò esser volesse, prima essi e le loro donne appresso v’andarono, lasciando sola Biancifiore con Glorizia; e venuti a lui nel gran tempio, in una parte di quello così Ilario disse loro: - Mirabile cosa è a’ miei orecchi pervenuta oggi, come udirete. Questa mattina andando io per questo tempio, un giovane di piacevole aspetto assai con un suo compagno, così come io, andavano; il quale io donde egli fosse dimandai. Egli mi rispose: "Spagnuolo sono". Per che io entrando in ragionamento con lui delle cose di quelli paesi, per avventura mi venne ricordato Lelio vostro fratello, il quale là rendé l’anima a Dio, e dimanda’lo se di lui mai alcuna cosa sentito avea: a che e’ mi rispose che, vigorosamente combattendo, dall’avversaria parte non conosciuto fu morto, e che dietro a lui rimase una bellissima donna chiamata Giulia, gravida, la quale una fanciulla, il cui nome egli non sa, partorendo, di questa vita passò nelle reali case del re di Spagna. E in quel giorno similemente la reina del paese, a cui donata era stata, un figliuolo fece. Il quale, secondo che lui mi narra, crescendo, e con la giovane insieme nutrito, di lei molto s’innamorò e ultimamente, oltre a’ piaceri del padre, per isposa se l’ha copulata: e dopo la morte di lui, sì come unigenito, la sua fronte ornerà della corona del regno, e ella, reina, insieme con lui viverà. Le quali cose udendo, mi furono care, e volsivele fare sentire, però che quinci possiamo conoscere Iddio i suoi mai non abandonare: ché, s’egli a sé chiamò Lelio, egli vi donò una che ’l numero delle corone della vostra casa aumenterà, di che mi pare che vi deggiate contentare, avendo novellamente una reina per nipote ritrovata, della quale niuna menzione era tra voi. E secondo che il giovane mi dice, il marito di lei assai vi ama, e ciò manifesta un piccolo figliuolo, il quale poco tempo ha che egli nacque di lei, il quale elli per amore del vostro fratello chiamò Lelio. Egli sanza comparazione la vostra conoscenza disidera, e sariali sopra tutte le cose cara la vostra pace, e se avere la credesse, volontieri vi verria a vedere; ma sentendo la vostra potenza, con ragione teme non sopra di lui la morte del vostro fratello, alla quale egli, non nato ancora, niente colpò, voleste vengiare: per che a me parria che a lui sì come innocente si dovesse ogni cosa dimettere, e ricevendolo per parente, dargli la vostra pace: e così la vostra cara nipote rivedreste reina -.
- L’antica morte, per le molte lagrime sparte per adietro, non rintenerì i cuori con tanta pietà, che per l’udite parole agli occhi venissero lagrime, anzi riguardando l’un l’altro stettero per ammirazione alquanto muti, né seppero tristizia della ricordata morte mostrare, né letizia della viva nipote; ma poi Quintilio disse: - Quanto dura e amara ne fu la morte del nostro fratello, tanto ne saria dolce e cara la sua figliuola vedere e tenere come nipote; ma come sanza vendetta si possa sì fatta offesa mettere in oblio non conosco, avvegna che dir possiate il giovane innocente, e i piaceri di Dio convenirsi con pazienza portare: il quale è da credere che così come egli combattendo consentì che morisse, così vivendo l’avria potuto fare essere vittorioso. Non per tanto ciò che tu ne consiglierai faremo, fidi che altro che nostro onore non sosterresti -. A cui Ilario così rispose: - Veramente in tutte le cose vorrei l’onore vostro. Io conosco in queste cose che voi potete molto piacere a Dio, e sanza vostra vergogna, la quale, ancora che ci fosse, la dovreste prendere per piacergli, se voi volete, e a voi grandissima gloria e consolazione acquistare. A Dio potete piacere, ricevendo il giovane in Roma, il quale, tenendo per difetto d’amaestramento contraria legge, a quella di Dio di leggiere tornerà, e similemente la vostra nipote; e per consequente tutto il loro grandissimo reame. Che vergogna non vi sia il pacificamente riceverlo è manifesto: voi state in pensiero di vendicare la morte di Lelio, la quale non vendicata vergogna vi riputate. Or non la vendicò egli avanti che morisse? Egli col suo forte braccio uccise un nipote del nimico re e molti altri, e quando pure vendicata non l’avesse, a Dio si vogliono le vendette lasciare, il quale con diritta stadera rende a ciascuno secondo che ha meritato. Che consolazione e che gloria vi fia vedervi una nipote in casa reina, pensatelo voi! Elli ancora se ne poria aumentare la nostra republica, però ch’egli potrebbe il suo regno al romano imperio sommettere come già fu: per che a me pare, e così vi consiglio, che s’egli la vostra pace vuole, che voi gliela concediate, e qui venendo esso onorevolemente il riceviate -. A questo niuno rispondea; ma Clelia udendo che viva fosse la sua cara nipote, di cui mai alcuna cosa più non aveano udito, accesa di focoso disio di vederla, con assidui prieghi cominciò a pregare Mennilio e Quintilio che la loro pace concedessero al giovane, secondo il consiglio d’Ilario, e facesserlo in Roma con la cara sposa venire. Per che Mennilio, dopo alquanto, conoscendo la verità che Ilario loro parlava, e vinto da’ prieghi della sua donna, disse: - E come si poria questa cosa trattare, con ciò sia cosa che esso a noi non manderia, perché dubita, e noi a lui non manderemmo, però che contrarii sono alla nostra fede e i mandati offenderiano? -. A cui Ilario: - Se voi la vostra pace volete rendere al giovane, e promettermi che venuto egli qui come parente il riceverete e avretelo caro, io credo sì fare con la speranza di Dio, che tosto lui e la vostra nipote e ’l piccolo Lelio vi presenterò -. - E noi faremo ciò che tu divisi - rispose Mennilio. E andati davanti al santo altare, davanti alla imagine di Colui a cui la morte per la nostra vita fu cara, per la sua passione e resurrezione giurarono in mano d’Ilario che qualora egli la loro nipote e ’l marito e ’l figliuolo di lei loro presentasse davanti, che essi come carissimo parente il riceverebbero e onorerebbero, e più, che ciò che Lelio con Giulia già possedeo li donerebbero. - Niuna cosa più vi domando - disse Ilario; - andate, e quando io vi farò chiamare verrete a me -. Per che costoro da Ilario partiti verso la loro casa tornarono.
- Biancifiore rimasa con Glorizia sola nel gran palagio del suo padre, essendo già in Roma dimorata molti giorni co’ suoi zii, sanza conoscerne alcuno, né osante di dire alcuna cosa a’ dimandanti, o dimandare, tutta in sé ardeva di disio di conoscere i suoi, i quali Glorizia per adietro le avea detto; per che così a Glorizia cominciò a dire: - O Glorizia, o donna mia, ove sono i gran parenti, i quali già mi dicesti che io qui troverei? Ove i molti abbracciari? Ove la gran festa della mia venuta? Oimè, io non ho ancora niuno veduto, né tu mostrato me n’hai alcuno. Deh, perché alcuno almeno non me ne mostri? Io dubito che tu non m’abbi gabbata, e datomi ad intendere quello che non è vero, per venire a vedere la tua Roma, ov’io ancora a nessuno ti vidi parlare. Certo io mi pento già d’essere qui venuta per tale conveniente, che io non conosca né sia da alcuno conosciuta, ché in verità già per vedere alti palagi o intagliati marmi io non avrei il mio Florio dal suo intendimento svolto -. A cui Glorizia rispose: - Tanto a te e a me convien sostenere, quanto piacere sarà di Florio, che taciturnità n’ha imposta -. E fra sé di dire come dalla sorella carnale della sua madre e da’ fratelli del suo padre era onorata, tutta ardea, e similemente di farsi a Clelia conoscere, a cui piccola giovane era stata congiunta compagna, e ora, più d’anni piena, da lei non era riconosciuta, e ancora alcuno de’ fratelli le parea aver veduto in compagnia di Mennilio; né d’avere avuto ardire d’abbracciarlo, tutta si consumava. E stando essa e Biancifiore in questi ragionamenti, sopravenne Clelia, da loro lietamente ricevuta, e ruppelo loro, narrando ciò che udito aveano. A’ quali ragionamenti Filocolo sopravenne: e se non fosse che a Biancifiore accennò, che già costei le parea riconoscere per zia, quivi erano scoperti. Ma Biancifiore, vedendo Filocolo, chetò alquanto l’ardente disio, sperando che tosto con li loro si rivedrebbono.
- Fece Ilario chiamare a sé Filocolo, e come egli nelle sue mani de’ suoi parenti la pace avea giurata gli narrò: della qual cosa Filocolo contentissimo, che fare dovesse il domandò. A cui Ilario disse: - Giovane, io ho promesso di farti qui di Spagna venire, e però acciò che essi, alquanto la tua venuta tardandosi, più nel disio s’accendano di vederti, va, e con li tuoi compagni per modo convenevole prendi congedo, e fuori di questa città ne va a dimorare in alcuno luogo vicino, nel quale sì cheto stia che la fama di te non pervenga a’ loro orecchi: e quivi tanto aspetta, che io per te mandi. E quando il mio messaggiere vedrai, allora come figliuolo d’alto re che tu se’ t’adornerai, acciò che con la tua sposa magnificamente e con la tua famiglia venghi; e sì come tu vedrai, io a’ tuoi parenti sicuro ti presenterò -.
- Sanza niuno indugio partitosi Filocolo da Ilario, e tornato all’ostiere, narrò a’ suoi compagni che fare doveano, e similemente a Biancifiore e a Glorizia, acciò che malcontente nel piccolo spazio non dimorassero. Per che veduto luogo e tempo, Ascalion disse a Mennilio che partire li convenia: e preso da lui congedo e da Quintilio, e Filocolo e gli altri compagni similemente rendendo degne grazie del ricevuto onore, e Biancifiore e Glorizia da Clelia e da Tiberina ancora s’accomiatarono, con pietose lagrime partendosi. E saliti sopra i buoni cavalli, con tutta la famiglia e ’l piccolo figliuolo, che all’ostiere loro primo era rimaso, fattisi venire li grandi arnesi, cercarono Alba, antica città da te, o Enea, edificata, alla quale assai tosto pervennero: e quivi stando celati, attesero il messaggio d’Ilario.
- Ilario, che all’impresi fatti era sollecito, avendo con molti altri ragionamenti gli animi di Mennilio e di Quintilio accesi d’ardente disio di vedere Filocolo e la loro nipote e ’l piccolo Lelio, parendogli tempo, per singulare messo a Filocolo nunziò che la futura mattina venisse sanza alcuno indugio. E questo fatto, andato a Vigilio sommo sacerdote, e avvisatolo della venuta del giovane prencipe, e la cagione, con umili prieghi ad obviarlo il commosse con eccellente processione, e dopo lui il vittorioso Bellisano a simile cosa richiese: il quale, udendo chi il giovane fosse, graziosamente il promise. Allora Ilario mandò per Mennilio e per Quintilio, e loro la venuta di Filocolo nunziò, confortandoli che onorevolemente gli uscissero incontro e graziosamente il ricevessero.
- Venne il grazioso giorno, bello per molte cose e da Biancifiore e da Glorizia sopra tutte le cose disiderato. Filocolo comandò che il grande arnese si caricasse e alla città n’andasse avanti: la qual cosa secondo il suo comandamento fu fatta. E egli, lasciato il pellegrino abito, d’un bellissimo drappo a oro si vestì co’ suoi compagni insieme e stette sopra un gran cavallo, bellissimo a riguardare come il sole, nell’aspetto mostrando bene quello che era, da molti sergenti intorniato e da’ suoi compagni, sé nobilissimi nella vista ripresentanti, seguito: e dopo loro e avanti, scudieri e altra famiglia assai bene e onorevolemente adorni cavalcavano. Appresso i quali Biancifiore, vestita d’un verde velluto adorno di risplendente oro e preziosissime pietre, messi con maestrevole mano i biondi capelli in dovuto ordine e sopr’essi un sottilissimo velo, e sopra quello una nobilissima corona portava, cara e per magistero e per pietre grandissimo tesoro, veniva, bellissima tanto quanto ogni comparazione ci saria scarsa. E dall’una parte a piccolo passo cavalcava Ascalion, e dall’altra le veniva il duca: e dopo loro Glorizia magnificamente con molte altre donne, d’Alessandria venute in loro compagnia, e in braccio portava il piccolo garzonetto. Mennilio, che in sollecitudine d’obviare Filocolo dimorava, come vide il giorno, così con Quintilio e con molti altri parenti e amici e compagni e con Ilario onoratamente molto salirono a cavallo, e con istrumenti molti e con gran festa ad obviare Filocolo uscirono, e appresso di loro Clelia e Tiberina in guisa di grandissime principesse ornate: e da’ nobili uomini di Roma e da molte donne accompagnate, cavalcando di Roma uscirono, non credendo Clelia poter pervenire a tanto che la sua cara nipote vedesse: la quale ella non conoscendo, né da lei conosciuta, tanti giorni veduta avea. E cavalcando così costoro verso Filocolo, e Filocolo verso loro, non molto lontani a Roma, dalla lungi si videro i cari parenti, per la qual cosa Ilario, a tutti entrato inanzi, come vide Filocolo, smontò del cavallo, e Filocolo, vedendolo dismontato, similemente discese, e Mennilio e Quintilio già discesi s’appressarono ad Ilario. A’ quali Ilario disse: - Nobili giovani, ecco qui il figliuolo di Felice re di Spagna, e sposo della vostra nipote: onoratelo e pacificamente il ricevete come avete promesso, e come dovete -. E a Filocolo disse: - Altissimo prencipe, ecco qui i zii della tua sposa: come degni li conosci, così li onora -. E posta la destra di Filocolo nelle destre di Quintilio e di Mennilio, tacque, e le trombe e gli altri strumenti infiniti riempierono l’aere di lieto suono. Essi allora s’abbracciarono e baciaronsi in bocca, e fecersi maravigliosa festa, ben che alquanto Mennilio e Quintilio stupefatti fossero, ricordandosi che poco avanti loro oste era stato, e non l’aveano conosciuto. E non essendo ancora a cavallo rimontati, Biancifiore sopravenne, la quale veggendo il suo signore a piè, dismontò di presente, e Ilario, presala per la mano, e di braccio a Glorizia recato in braccio a sé il piccolo Lelio, nel cospetto di coloro la menò ove Clelia e Tiberina con l’altre donne già giunte e dismontate onoravano Filocolo, e disse: - Signori e donne, ecco qui Biancifiore vostra nipote e ’l piccolo Lelio suo figliuolo -. A questa voce furono mille grazie rendute a Dio, e Mennilio e Quintilio con tenero amore abbracciarono la loro nipote, sopra tutte le cose del mondo maravigliandosi della sua bellezza. E Clelia, che mai vedere non la credea, l’abbracciò mille volte e baciandola, di tenerezza lagrimando, tutto il bel viso le bagnò, e ’l simile fece Tiberina, e molte altre donne a lei congiuntissime parenti, dolendosi del tempo che con loro non conosciuta da esse era stata. Poi Clelia, preso in braccio il grazioso garzonetto, con maravigliosa festa mirandolo, ringraziava Iddio dicendo: - O dolce signore Iddio, omai consolata viverò ne’ tuoi servigi, poi che Lelio e Giulia renduti m’hai -. La festa fu grande: e chi la poria intera narrare? Chi pellegrinando alcuna volta per lungo tempo andò, tornando alla casa, quale essa fu il può pensare. La quale faccendosi essi rimontarono a cavallo; e Filocolo dall’una parte e ’l duca dall’altra accompagnando Clelia cavalcarono; Tiberina in mezzo di Menedon e di Messaallino veniva; Mennilio e Quintilio, che della bellezza della loro nipote non si poteano ricredere, accompagnavano Biancifiore, e Parmenione e Ascalion Glorizia, che il piccolo Lelio portava, tanto contenta, quanto mai fosse stata, da Clelia sanza fine onorata e riconosciuta: e l’altre nobili donne da nobili uomini accompagnate, delle grandissime bellezze di Biancifiore e della magnificenza di Filocolo ragionando, cavalcarono infino all’entrata della nobile città. Quivi Vigilio, sommo pastore, già venuto trovarono, al freno del cui cavallo videro Bellisano e Tiberio nobilissimo romano: il quale come Filocolo di lontano vide, così lasciate le donne, da cavallo dismontò, e, inginocchiandosi, gli fece debita riverenza, e poi umilemente a baciargli il piè li corse. Poi volto a Bellisano, il quale egli ben conoscea, inchinandosi molto, l’abbracciò, e poi dirizzandosi si baciarono e fecersi graziosa festa, e Tiberio fece il simigliante: e Biancifiore similmente da cavallo discesa, e trattasi la ricca corona, di lontano dovuta reverenzia fece al santo padre. Al freno del quale, rinunziandolo Vigilio, Filocolo con Bellisano volle essere, riputando sconvenevole cosa che il figliuolo di tanto imperadore andasse a piè e egli a cavallo, e, concedendogliele Tiberio, vi fu: e così infino al santo tempio, ove la predicazione della santa fede udita avea da Ilario, andarono, al quale tutta Roma era corsa per vederlo e Biancifiore similemente. Quivi pervenuti, ogni uomo dismontò da cavallo e entrò nel santo tempio, ove onorevolemente da Ilario era stata aprestata la santa fonte con l’acqua per battezzarli, nella quale prima che altro si facesse, Filocolo e il piccolo Lelio e tutti i suoi compagni, nel cospetto di tutti i romani, da Vigilio ricevettero, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, battesimo, confessando la santa credenza e rinunziando la iniqua. Nella qual fonte Filocolo il suo appositivo nome, cioè Filocolo, lasciò, e Florio, suo naturale, riprese. Biancifiore similemente con le sue donne in più segreta parte simile lavacro con divoto cuore ricevettero. E rivestiti tutti, con la benedizione del santo padre si partirono; e accompagnati da Bellisano e da Tiberio e dagli altri romani prencipi, con grandissimo onore e festa, a’ grandi palagi di Mennilio pervennero.
- Quivi pervenuti e saliti alle gran sale, si rincominciano le mirabili carezze e feste. E Mennilio con gli altri, parlando con Ascalion escono di dubbio udendo la cagione per che altra volta a loro si tenessero celati: e rimasi contenti, niuno ad altra cosa che a festeggiare intende. Florio, delle avvenute cose oltre contento, quivi la sua magnanimità comincia a mostrare, e i gran tesori lungamente guardati dona e dispende, pure che i prenditori sieno. Niuno gli va davanti, che sanza dono si parta, e ’l simigliante il duca e gli altri fanno: e quasi niuno è in Roma che per ricevuto dono o molto o poco non sia loro tenuto. Ampliasi la loro fama, e come dii vi sono riveriti. Niuno v’è che non s’ingegni di piacere loro e di servirgli: e questo aggrada molto a Mennilio e a Quintilio, e lieti vivono di tale parente, e con gli altri faccendo festa, quella lungamente fanno durare.
- Glorizia, onorata molto da Clelia, dalla quale veramente fu riconosciuta, di rivedere il padre e la madre e’ suoi sollicita, con licenza di Biancifiore, accompagnata da molti, ricerca i suoi palagi, ove due fratelli solamente avanti nati di lei lasciò nel suo partire, e ora piena di molti la ritruova. Ella due sorelle già grandi, e con figliuoli, e tre fratelli più che gli usati vi vede, e, non conosciuta, non è chi le parli. Il padre vecchissimo giace, e appena vede alcuna cosa. Sempronio di lei maggior fratello, il quale ella bene riconosce, ma egli lei no, però che nell’aspetto nobile donna gli pare, e vedela di bellissimi vestimenti ornata e accompagnata da molti valletti, l’onora e dicele: - Gentil donna, cui adomandate voi? -. A Cui Glorizia: - O caro fratello Sempronio, or non mi conosci tu? Non vedi tu che io sono la tua Glorizia, la quale sì piccola da voi mi partii seguendo Giulia e Lelio al lontano tempio? Che? Voi ora non mi riconoscete? Certo io riconosco ben voi -. A cui Sempronio: - Gentil donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice: e non è atto di nobile donna andare gli antichi dolori delle morte persone per modo di beffe ritornando a memoria. Noi vi siamo, quando vi piaccia, e fratelli e servidori, e la nostra casa è a’ vostri piaceri apparecchiata, ma cessi che sotto colore di Glorizia noi qua entro ricevere vi vogliamo, però che già Apollo è oltre a venti volte tornato alla sua casa, poi che Glorizia mutò vita, sì come noi ben sappiamo, che la piangemmo molto come cara sorella, e questo ancora a tutta Roma è manifesto; e sappiamo ancora Domeneddio ora non essere in terra sceso a risuscitar lei. Voi siete errata: guardate che caso non vi faccia meno che bene parlare -. Allora Glorizia, tutta nel viso cambiata per le due sorelle di lei e per li tre fratelli nati dopo la sua partita, i quali ella non conoscea, e per gli altri circunstanti, dopo un gran sospiro disse: - Oimè, fratello, or come mi parli tu? Sono io femina cui in alcuno atto la gola leda? Certo per singulare grazia da Dio questo conosco, che tra l’altre io sono una delle più modeste. Oimè, che io perché io le mie case ricerco, m’è detto che io meno che bene parlo! E più, che m’è detto che io, che mai non morii, già è gran tempo fui morta, pianta e sepellita. Deh, Iddio!, come può egli essere che Clelia, a cui io niente per consanguinità attengo, m’abbia riconosciuta, e i miei fratelli non mi conoscono, ma mi scacciano? -. Ma poi, lasciando del dolersi i sembianti, passò più avanti dicendo: - Io sono Glorizia, e vivo, né mai morii. Onoratemi nella mia casa come è degno. Mostratemi Lavinio mio padre e Vetruria mia madre, e fate venire Scurzio mio promesso marito, il quale io giovane qui con voi e con Afranio mio fratello lasciai -. Sempronio, udendo questo, più s’incominciò a maravigliare, e più fiso mirandola, quasi già la veniva raffigurando; ma la memoria del falso corpo, per adietro da lui sepellito, non gli lasciava credere ciò che vera imaginazione gli raportava. Il vecchio padre udì la questionante figliuola, e la voce, non udita di gran tempo, riconobbe, e già quasi gli fu manifesto essere per adietro stato ingannato; e chiamato a sé Sempronio, gli comandò che dentro a lui menasse la donna, la quale prima alla sua poca vista non fu palese, che egli, come potea, grave, la corse ad abbracciare, dicendo: - Veramente tu se’ Glorizia mia cara figliuola -. E narratole come morta pianta l’aveano, sanza fine la fecero maravigliare, e poi dolere della trapassata madre e rallegrare della multiplicata prole, a’ quali faccendola nota con intera chiarezza, con festa a Scurzio suo marito, il quale lei credendo morta un’altra n’avea menata, che poco tempo era passato che similemente morta s’era, la rendeo, con cui ella felicemente poi lungamente visse.
- Ricevuta Glorizia, e riso molto di questo accidente da Biancifiore e da Clelia alle quali poi essa lo narrò, e durante ancora la festa grande di Florio, Ascalion, già molto pieno d’anni, infermò, e dopo lunga infermità, in buona disposizione rendé l’anima a Dio. Il cui passare di questa vita sanza comparazione a Florio dolfe, ma fattolo di nobilissimi vestimenti vestire e a guisa di nobile cavaliere adornare sopra un ricchissimo letto, vergognandosi di spandere lagrime nella presenza de’ circunstanti, quindi comandò ogni persona partire, e rimaso solo, con amarissimo pianto bagnando il morto viso, così cominciò a dire:
- - O singulare amico a me intra molti, a cui le mie avversità sempre furono tue, dove se’ tu? Quali regioni, o Ascalion, cerca testé la tua santa anima? Certo io credo le celestiali, però che la tua virtù le meritò. O caro amico, quanto amara cosa da me t’ha diviso! Ove a te il ritroverò io simile? Chi, se la contraria fortuna tornasse, di vivere mitissimamente mi daria consiglio, come tu facesti più volte, essendo amore di morte nel mio misero petto? Chi alle mie gravi avversità aiutarmi sostenere gli avversarii fati sottentrerebbe, come tu sottentravi? Oimè, che queste cose sempre mi saranno fitte nell’intime medolle, e prima il mio spirito le sottili aure cercherà, ch’elle passino della mia memoria. Alcuni vogliono lodare per amicizia grandissima quella di Filade e d’Oreste, altri quella di Teseo e di Peritoo mirabilemente vantano, e molti quella d’Achille e di Patrocolo mostrano maggiore che altra; e Maro, sommo poeta, quella di Niso e di Eurialo cantando sopra l’altre pone, e tali sono che recitano quella di Damone e di Fizia avere tutte l’altre passate: ma niuno di quelli che questo dicono la nostra ha conosciuta. Certo niuna a quella che tu verso di me hai portata si può appareggiare. Se Filade Oreste furioso lungamente guardò, egli però te non passò di fermezza. E chi fu alla mia lunga follia continua guardia se non tu? E quale più dirittamente si può dire folle, o fa maggiori follie, che colui che oltre al ragionevole dovere soggiace ad amore sì come io feci? Se Peritoo ardì di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé più maraviglia che odio mettendo nel doloroso iddio, gran cosa fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patrocolo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu più robustamente operasti, faccendo sì con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d’amore verso lui mostrando, e tu similemente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morire meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l’udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fossi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistà, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto più l’avversità m’infestava, tanto più a’ miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta, e molte cose al mio petto fidatamente davi a tenere coperte, e tu similemente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che, tu dolce amico, non eri di quelli che così vanno con l’amico, come l’ombra con colui cui il sole fiere, tra’ quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu così nell’un tempo come nell’altro, sempre fosti equale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontà dalla mia non partisti, ove pari a te il ritroverò? O discreto maestro, e a me più che padre, i cui ammaestramenti seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so chi mi fia fido duca negli ignoti passi. A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterà al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s’egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanto amara mi pare la tua partenza! Or fosse piacere di Dio che la morte teco m’avesse tratto! Io ne venia contento sì come colui che della sua Biancifiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con così fatto compagno, partendomi di questa vita, non crederia potere esser passato se non a più felice. Ora io credo che tu in lieta vita dimori, e Iddio nel mondo grazia mirabile ti concedeo, faccendoti tanti anni vivere che alla vera conoscenza tornassi: per che da sperare è che nel secolo ove tu dimori da lui similemente abbi ricevuta grazia, la quale se così hai com’io credo, ti priego che per me dinanzi al tuo e al mio Fattore impetri grazia, che mi lasci, mentre io vivo, nel suo servigio divotamente vivere, e quando a passare di questa vita vengo, costà su mi chiami, ov’io spero che grazioso luogo mi serberai, acciò che, com’io qua giù nella mortale vita sempre fui caro teco, così nella etterna carissimo teco dimori -.
- Queste parole dette, Florio, asciutti i lagrimosi occhi, uscì della camera ove stava, e con onore grandissimo in Laterano fece sepellire il morto corpo, il quale Biancifiore, sanza prendere alcuna consolazione, più giorni pianse, dicendo sé mai altro padre di lui non avere conosciuto, e il simigliante Glorizia, la quale molto l’amava; il duca Ferramonte ancora, e Messaallino e Parmenione e gli altri, non era chi potesse riconfortare. E certo Mennilio e Quintilio e le loro donne, di ciò dolenti, assai il fecero molto onorare alla sepoltura.
- Essendo la gran festa della tornata di Florio e di Biancifiore lungamente durata, e venuta a fine, e le lagrime cessate del trapassato Ascalion, a Florio si raccese il disio di rivedere il padre. Per che egli a Mennilio e al fratello e alle donne cercò licenza di poterlo andare a vedere, e similemente la madre e il suo regno: la quale benignamente gli fu conceduta, ben che più caro fosse stata a’ conceditori la loro dimoranza. Ma prima che essi si partissero, di grazia fece loro Vigilio mostrare la santa effigie di Cristo, recata di Ierusalem a Vespasiano. E dopo quella, la quale Florio con divozione riguardò, la inconsutile tunica fu loro mostrata, e quella testa appresso, che fu, per servare il giuramento d’Erode, merito della saltatrice giovane. E poi videro quella del Prencipe degli apostoli, insieme con quella del gran Vaso di elezione: né niuna altra notabile reliquia in Roma fu che essi non vedessero. Le quali vedute, Florio di grazia impetrò dal sommo pontefice che Ilario con lui dovesse andare, acciò che nelle cose da lui ignorate fosse da Ilario chiarificato, e insegnateli, e appresso perché egli quello che a lui avea predicato, predicasse al vecchio padre e a molti popoli del suo regno, e a quelli che si convertissono desse battesimo. E concedutogli da Vigilio, prese comiato e con la sua benedizione si partì; nella cui partenza, Bellisano con molti altri romani nobili uomini andarono infino fuori della città, e similemente Clelia e Tiberina con Biancifiore. Ma Florio, ringraziando Bellisano e gli altri nobili e accomiatatosi da loro, si partì, cavalcando con Mennilio e con Ilario, i quali seco menava avanti, e Biancifiore appresso con pietose lagrime promettendo di ritornare tosto, lasciò Quintilio, suo zio, e Clelia e Tiberina, seguendo Florio suo marito.
- Cavalcati adunque costoro verso Marmorina più giorni, e a quella già forse per una dieta vicini, piacque a Florio di significare al padre la sua felice tornata per convenevoli ambasciadori, la quale esso attendeva e sopra tutte le cose disiderava, avendo da’ marinari de’ tornati legni interamente saputa la sua fortuna, della quale saria stato contento, se la nobiltà di Biancifiore avesse saputa, ma per quello dolente vivea, ben che con disiderio attendesse il figliuolo: e ancora, con tutto che Florio suscetta avesse di lei graziosa prole, gli andavano per lo iniquo cuore pensieri di nuocerle. Andarono adunque i mandati al vecchio re, e lui d’età pieno trovarono salito sopra un’alta torre del suo real palagio; e sopra quella stando, rimirava i circunstanti paesi, acciò che di lontano potesse conoscere la venuta del suo figliuolo. A cui i mandati ambasciadori lietamente di quello la venuta nunziarono, aggiungendo, come loro fu imposto, che con ciò fosse cosa che egli la verace credenza battezzandosi avesse presa, che similemente a lui dovesse piacere di pigliarla nel suo venire, se non, che mai nella sua presenza non tornerebbe. Le quali cose udendo il re, prima della sua venuta allegrissimo, come l’altre cose ascoltò, così divenne turbato, e con grandissimo romore alzando la grave testa disse: - O misera la vita mia, perché figliuolo mai d’avere disiderai niuno? Avanti che io l’avessi, chi fu più di me felice, ben che io il contrario mi reputassi, tenendo che alla mia felicità niuna cosa se non figliuoli mancasse, e sanza quelli nulla fossi? E, avutolo, che felicità si fosse mai non conobbi! Oimè, ora non mi fosse mai nato, che certo ancora col mio nome durerebbe l’effetto. Io, misero, nella sua natività mi pote’ uno IN aggiungere al santo nome, acciò che in misero l’avessi mutato, come la fortuna mutò le cose. Io mi credetti avere bastone alla mia vecchiezza, e io gravissimo peso mi v’ho trovato aggiunto. Questi dalla sua puerizia cominciò quella cosa a fare, per la quale io dovea vivere dolente, e essendo infino a qui tristo, di lui e della sua pellegrinazione sempre temendo, vivuto, credendo per la sua tornata alquanto menomare la mia doglia, l’ho accresciuta, e egli l’accresce continuo. Sia maladetta l’ora ch’egli nacque, e che io prima d’averlo disiderai! Egli a me s’ha lungamente tolto, e ora in etterno a’ nostri iddii s’ha furato, e me similemente vuole loro torre; ma e’ non sarà così, né mai farò cosa che gli piaccia e cessino gl’iddii che io di farla abbia in pensiero. Dunque ha egli i nostri veri iddii, da’ quali egli ha tanti beni ricevuti, abandonati per altra legge, e ha creduto a’ sottrattori cristiani, de’ quali maggiori nimici non ci conosce? Ora ha egli messo in oblio la santa Venere, la quale, secondo ch’io udii, gli porse celestiale arme a difendere l’amata Biancifiore contra mio volere? Ha egli dimenticato Marte, il quale non isdegnò abandonare i suoi regni per venirlo ad aiutare nell’aspra battaglia campale, ov’egli, se l’aiuto di quello non fosse stato, saria rimaso morto? Ha egli dimenticati gl’iddii, da cui prima risponso ebbe della perduta Biancifiore, o quelli che lui nello acceso fuoco difesero? Ora sia la loro potenza maladetta, poi che da lui tanto sostengono. A loro avviene, e a me similemente, come a colui che nel suo grembo con diligenza il serpente nutrica: egli è il primo morso dal velenoso dente. Quando riceverà egli mai dal nuovo Iddio tante grazie, quante da quelli, ch’egli ha abandonati, ha ricevute? Certo non mai. Io non credo che egli fosse mio figliuolo; ma più tosto delle dure quercie e delle fredde pietre fu generato, e dalle crudeli tigre bevve il latte. Mai niuna mia afflizione il fé pietoso, ma sempre quelle cose che egli ha sentito che noiose mi siano, quelle ha operate: e però guardisi mai a me inanzi non apparisca; niuno nimico di me potrà aver maggiore. Egli, continua tristizia dell’anima mia, so che quella, divisa dal corpo, trista manderà agl’infernali iddii: quelli iddii, i quali elli ha per nuova credenza abandonati, me ne facciano ancora vedendolo turpissimamente morire essere contento! -.
- Tacque il re, e costoro la fiera risposta udita, gli si levarono davanti, né a rispondere poterono tornare a Florio, per la sopravenuta notte. Ma la reina, la quale non picciola cura stringea di sapere del figliuolo novelle, vedendo costoro partiti dal turbato re, a sé chiamare li fece, e da loro particularmente dello stato del figliuolo s’informa, e dell’essere di Biancifiore: delle quali cose di tutte saria stata contenta, se la nuova ira del padre non fosse stata per la nuova legge dal figliuolo novellamente presa. Ella, udendo che per quella sì aspramente il padre da sé l’accomiata, e lui d’altra parte fermo di non venire davanti a lui, se la presa legge non prende, vorria morire. Ma dopo lungo pensiero, con dolci parole priega gli ambasciadori che l’adirata risponsione del padre non portino al suo figliuolo; ma mitigandola sì gli dicano che egli nella sua presenza venga, però che il re prima nol vedrà che egli si muterà d’animo, e il debito amore che tra loro dee essere sanza niuna sconcia parola o altro mezzo gli concederà. - Certo qualora il vecchio re - dicea la reina - vedrà la chiara giovanezza del figliuolo, egli lieto in se medesimo disidererà di piacergli, né niuna cosa sarà che egli a lui domandi, che esso non disideri di adempierla. Dunque venga, che molte cose a’ principali si concedono, le quali l’uomo non si vergogna di disdire a’ medianti -. Con molte altre parole ancora la reina conforta i messaggi che il figliuolo a venire dispongano, disposta, se egli non viene, d’andare lui a vedere ove ch’e’ sia.
- Era già della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partì, e essi molto onorati, sì come ella avea comandato, andarono a dormire. Il vecchio re, a cui il riposo più ch’altro porgea nutrimento alla debole vita, andato di grande spazio avanti a riposarsi, e rivolgendosi sopra i niquitosi pensieri, in quelli s’adormentò, e più fiso dormendo, sentì nella sua camera uno strepito grandissimo, simile a quello che suol fare squarciata nube: per che egli pieno di paura riscotendosi si svegliò, e la camera sua piena di mirabile splendore vide. E non sappiendo che ciò si fosse, prima ruina avendo temuta, e ora temendo fuoco, pavido cominciò a dire: - Or che è questo? -. Ma poi che fuoco non essere il conobbe, con aguto viso cominciò a riguardare per la luce, nella quale, o perché ella fosse molta o perché la vista del re fosse poca, niuna cosa dentro vi discernea, ma bene udì alle sue parole rispondere: - Io sono colui che tutto posso, e a cui niuno pari si truova, e in cui il tuo figliuolo con la sua sposa e co’ suoi compagni credono novellamente, a’ cui piaceri se tu benignamente non acconsenti, io il farò in tua presenza, o vuogli tu o no, regnare tanto che de’ suoi giorni il termine fia compiuto, il quale niuno può passare: e te farò viver tanto, che tu la sua morte vedrai. Appresso la quale, la ribellione de’ tuoi baroni ti fia manifesta, i quali davanti agli occhi tuoi, contradicendolo tu, a poco a poco il tuo regno ti leveranno: e quello perduto, in tanta miseria verrai, che il morire di grazia mille volte il giorno domanderai, né ti sarà dato, prima che le mani t’abbia per rabbia rose; e dopo questo vituperevolemente morrai, e abominevole a tutto il mondo -. E questo detto, a un’ora tacque la voce e sparve lo splendore. Per che il re desto e pauroso, in sé molte volte ripeté l’udite parole dicendo: - Or chi potrebbe esser costui che tutto puote, che sì aspramente ne minaccia? Certo la sua venuta venuta di Dio risembra, e similemente il partire! Dunque è da temere, e da fare i piaceri suoi, anzi che incorrere nella sua ira: ma come gli farò, ch’io nol potei vedere né nol conosco? -. E in questi pensieri stando, sanza punto più la notte dormire che dormito infino allora avesse, venne il giorno, e egli si levò. E sappiendo che gli ambasciadori di Florio non erano partiti, a sé gli fece chiamare, e umilemente li pregò che di ciò che detto avea la passata sera niente al figliuolo narrassero, però che egli, spaventato con minacce la notte dal novello Iddio, avea mutato proposito, e però gli dicessero ch’egli venisse, e troverialo ad ogni suo piacere disposto.
- Allora si partirono costoro, e in brieve tornati a Florio, ciò che fu loro imposto renderono: di che Florio contento, come di Marmorina per dolore uscito era vestito di violato, così in quella propose di rientrare vestito di bianco in segno di letizia e di purità, e così sé e’ suoi fé vestire. E montato a cavallo, con tutti verso Marmorina cavalcarono, a’ quali i nobili uomini di Marmorina a cavallo menando grandissima gioia e con strumenti infiniti uscirono incontro; né fu alcuna ruga in Marmorina che di nobili drappi non fosse ornata, per le quali le donne e i garzoni faccendo festa, attesero il loro signore, ciascuna con la più bella roba fattasi bella. Con la quale così grande allegrezza Florio entrò in Marmorina sotto onorevole palio, e Biancifiore similemente dopo lui. E pervenuti al real palagio, ricevuti furono con mirabile allegrezza dal vecchio padre e dalla pietosa madre, e con loro insieme tra gli altri fu molto onorato Mennilio: e’ compagni di Florio prima dal re e dalla reina lietamente veduti, poi da’ suoi stretti amici e parenti con maggiore letizia furono ricevuti. Né niuna cosa è che non sia lieta in tutto il paese: solamente i grandi parenti del trapassato Ascalion piangono la morte del valoroso uomo, la quale già in brieve non si mise in oblio.
- Mentre la gran festa dura, e Biancifiore è dal re e dalla reina come figliuola onorata, da loro saputo che d’imperiale stirpe discesa sia, domandatole delle passate offese perdono, alle quali etterno silenzio ella comandò e pregò che fosse, più giorni trapassano. Dopo i quali, già alquanto riposandosi il festeggiare, Florio domanda che il re e la reina si dispongano a prendere la santa fede, sì come promesso aveano, e appresso loro tutto il marmorino popolo e l’altro rimanente del regno: al cui piacere il re si dispose in tutto. E fatto in una gran piazza ragunare la molta gente della città, tacitamente la predicazione di Ilario ascoltarono, dopo la quale il re prima e la reina appresso e tutta l’altra gente, uomini e femine, piccoli e grandi, presero da Ilario il santo lavacro. La qual cosa fatta, Florio per tutto il regno mandò legati a seminare la santa semenza, e per tutto mandò comandando che chi la sua grazia disiderasse, prendesse il battesimo, e abbattessero i fallaci idoli a reverenza fatti de’ falsi iddii: e de’ templi fatti a loro facessero templi al vero Iddio dedicati, e lui adorassero e temessero e amassero. Il cui comandamento non dopo molto tempo per tutto fu messo ad essecuzione.
- Faccendosi della venuta di Florio la gran festa, Sara, a cui notificato fu, acciò che il suo voto adempiesse, una corona di grandissima valuta, venendo alla corte del suo signore, recò, e quella presentò a Biancifiore, la quale, di tanto dono ringraziandolo, benignamente la prese. E Messaallino, che il suo vanto non avea messo in oblio, i cari piantoni fece venire, e con lieto viso glieli presentò, a cui ella, ringraziandolo, disse mai ad albero sì fatte radici non avere vedute: - ricca è la terra che le produce -. E in questa maniera la festa grande e notabile, ricominciata per lo preso lavacro, dura lungamente. E i paesani, che vedovi credeano rimanere di signore, ora riconfortati, lieti il riveggono.
- Quanta l’allegrezza di Florio fosse, dire non si poria. Egli si vede la disiderata Biancifiore sposa, e di nobile stirpe, a lui ignota nel principio dello innamoramento, discesa, e di lei un bellissimo figliuolo. Egli si vede, dopo molti pericoli, da tutti campato, nel suo regno salvo tornato. Egli si vede il vecchio padre e la cara madre, i quali egli appena credea ritrovare vivi. Egli si vede il molto popolo, e da tutti essere amato: e quello che sopra tutte queste cose gli è grazioso è che della setta de’ fedeli a Dio è divenuto, e con lui tutti i suoi seguaci. Nella quale letizia di tutte queste cose dimorando, chiamò a sé i cari compagni con lui stati nel lungo pellegrinaggio, de’ quali alcuno ancora alla sua casa non era tornato, e disse loro: - Signori e cari amici, finito è il lungo cammino, il quale noi più anni è cominciammo: e, lodato sia Iddio!, non invano avemo camminato. Ma ben che io la disiderata cosa abbia acquistata, la vostra fatica, e la paura e l’affanno de’ corsi pericoli, non è stata meno, ne’ quali mai da voi non mi vidi diviso, ma solleciti sempre per levare me de’ mali voi volonterosi conobbi a sottentrarvi; le quali cose in me più volte pensate, con ragione mi vi conosco obligato. E però io qui giovane, e ancora sotto paterna potestate obligato, più lontano ch’io possa profferire non vi posso, ma a quello che per me si puote, tutto sono vostro, disposto a niuno pericolo né affanno rifiutare per voi già mai. E dopo questo, se mai avviene che la mia fronte sostenga corona, io sia chiamato re e voi governate e possedete il reame, del quale se il nome come l’utilità si può comunicare in molti, molto più sono contento che di quello ancora così com’io godiate: e dove tutto questo a satisfazione di tanto servigio non bastasse, che so che non basta, Iddio per me vi meriti il rimanente. Siavi adunque licito omai a vostro piacere rivedere le vostre case, e fare lieti i padri e le madri e gli stretti amici e parenti, i quali voi, già è tanto tempo, sanza pigliar congedo per accompagnarmi abandonaste. Né sia però dalla mia anima la vostra lontana, perché lontanandovi partiamo i corpi, ma così congiunte, come per adietro state sono, le tenete sempre, tornando a rivedermi quando riveduti i vostri avrete: e riposatevi tanto che sieno contenti -.
- La grande liberalità di Florio e il suo dolce parlare gli animi prese de’ valorosi giovani, e a’ suoi servigi disposti legò con più forte catena. Elli quasi a tanta proferta non sapeano che rispondere, che a quella loro paresse degno ringraziare, ma dopo alquanto spazio, ciascuno per sé e tutti insieme dissero: - Florio, assai ci è caro, e di maggior servigio il terremo guiderdone, che Iddio sì liberale giovane ci ha dato per signore; per che della gran proferta, l’attenere della quale crediamo che saria molto, maggiormente ti siamo tenuti: Iddio il tuo regno e i tuoi beni aumenti sempre, e la grandezza della corona, che sarà tua, con gloriosa fama prolunghi fino al gran giorno. Sempre siamo tuoi, e se ’l profferire altrui le sue cose non fosse arroganza, ci profferremmo; poi che a te quello che a noi medesimi aggrada, cioè che noi le nostre case riveggiamo, con la già conceduta licenza ci partiremo -. E queste parole dette, pietà entrò ne’ fedeli petti: e abbracciandolo ciascuno, e da Biancifiore e dal re e dalla reina prendendo congedo, lagrimando si partirono, in sei parti dividendo la lunga e unica compagnia, tornando ognuno alle sue case.
- Stette Florio quanto il lagrimoso verno durò col suo padre e con la sua madre. E negli oziosi tempi narra loro i nuovi e perversi accidenti avvenutigli dopo la sua partita. Egli prima all’altre cose dice l’avversità avuta della sua nave negli ondosi mari e mostra loro come quella, da più contrarii venti combattuta, ad alcun porto dirizzare non potea la sua prora; poi come dalle rotte onde del mare, ora d’una parte ora d’altra percossa, e talora da quelle coperta, più volte perduta, e loro con lei si riputarono, e come essendo loro dal vento la vela e l’albero tolto, e dal mare i timoni, e il cielo minacciando crudelissime tempeste, spesso aprendosi con grandissimi tuoni, quella per perduta già vinti abandonarono: e giacendo sanza potersi atare si concederono alla fortuna, la quale poi in Partenope con la già rotta nave li trasportò. - Quivi - disse Florio - ci ritenne contrario vento, tanto che cinque volte tonda e altretante cornuta si mostrò per tutto il mondo Febeia -. Poi per molti mezzi mostrò come in Alessandria venisse, e quello che quivi facesse, e quanto vi stesse: e con una verghetta che in mano tenea, disegna loro l’alta torre da Sadoc guardata, e le sue bellezze conta, come colui che vedute l’avea. Poi con quella verga più spazio pigliando, qual fosse e quanto il verde prato dimostra, e dove l’amiraglio sedesse, quando fra le rose nella cesta gli fu presentato avanti: e dice quanta la sua paura fosse sentendosi tirare i biondi capelli. Poi disegna da che parte della torre fosse su tirato, e come nella bella camera di Biancifiore fosse messo, e quello che egli facesse, e che dicesse, e come stesse, tutto narra. Poi il principio della stata presura ignorando, come egli collato giù della torre fosse con Biancifiore ignudi dice, e mostra con la verga in che parte del prato fosse il fuoco acceso intorno a loro due, e quando a loro l’oscuro nuvolo discese, e dove la battaglia di Ascalion e de’ suoi compagni con gli avversarii fosse fatta per lo suo scampo; e conta come poi levato del pericolo, dall’amiraglio riconosciuto fu onorato. Dice ancora della sua tornata, e del trovato Fileno, e della posta terra; e similemente come in Roma entrasse, e dove prima arrivasse, e come poi uscitone, e ritornandovi, fu onorato. Le quali cose il padre e la madre udendo, subitamente paurosi divennero, e quasi a’ partiti che disegnava, pare loro vedere. Poi lieti tornando de’ ricevuti onori, dimenticano la paura e lodano Iddio che loro, non per loro merito, ma per sua benignità renduto l’ha sano e salvo.
- Poi che la dolente stagione fu passata, e la dolcissima primavera recata da Febo avendo già di nuove e belle erbette e fiori rivestita la terra e gli alberi, a Florio venne in disio di visitare il santo tempio, al quale Lelio non era potuto pervenire con la sua Giulia, e a ciò si dispose, e con Mennilio e con Ilario entrò al disiato cammino, e con loro Biancifiore. E ’l vecchio re, che lungo tempo in Marmorina dimorato era, volonteroso d’andare a Corduba, egli e la reina insieme con Florio infino a quella andarono, e quivi essi rimasero, con loro ritenendo il piccolo Lelio; e Florio e’ suoi cavalcarono avanti al loro viaggio.
- Camminando costoro per alcuna giornata, partiti da Corduba lieti, e ragionando delle bene avvenute cose per adietro, essi pervennero a’ piè d’uno altissimo monte, in una profonda valle, la quale tutta d’ossa bianchissime biancheggiava; di che Florio molto si maravigliò e Mennilio; e chiamarono a sé un vecchio scudiere, non sappiendo pensare essi che ciò si fosse, e dimandaronlo se mai udito avesse per che quel luogo d’ossa sì pieno si mostrasse. A’ quali il vecchio scudiere rispose: - Io molte volte ho udito il perché, e certo ancora mi ricorda ch’io il vidi -. - E quale è la cagione? - disse Florio. A cui lo scudiere, però che Mennilio vedeva e Biancifiore, non rispose, ma stette alquanto, e poi disse: - Signor mio, camminiamo avanti, e alla vostra tornata io vel dirò -. - In verità noi non ci partiremo - disse Florio, - che tu nel dirai -. - E se col mio dire - disse lo scudiere - io vi porgo turbazione, di ciò non sarà mia la colpa -. - No - rispose Florio; - sicuramente qual fosse la cagione interamente ne conta -. - Certo, signor mio - disse egli allora, - in questo luogo tra infinita moltitudine di cavalieri di vostro padre, di questo monte discendenti, e tre piccole schiere di Lelio, padre di Biancifiore, fu asprissima battaglia, e io la vidi: e ben che quelli di Lelio, e Lelio similemente, molti de’ vostri cavalieri uccidessero, vigorosamente difendendosi, ultimamente essi morti qui tutti rimasero; a’ quali non essendo sepoltura data, e de’ romani e degli spagnuoli insiememente mescolate, consumate le carni, qui l’ossa vedete -.
- Udendo Mennilio e Biancifiore queste parole, alquanto da pietà ristretti sparsero molte lagrime, ma riconfortati da Florio, parendo loro il migliore di rimanere quivi quella sera, acciò che ricogliere potessero le sparte ossa, e poi metterle in santo luogo, fecero tendere un padiglione sopra un verde prato. E dismontati da cavallo, insieme con la loro famiglia, tutte per li campi andandole ricogliendo si misero; e di quelle ricolte fecero un grandissimo monte, e di portarle via diliberarono; ma Biancifiore disse: - Che portar vogliamo? Il nostro operare niente è valuto; non qui così l’ossa de’ morti cavalli raccolte sono come quelle dei nobili uomini? Per niente affannare vogliamo: e però se distinguere l’une dall’altre sappiamo l’umane ne potremo portare; se non, qui tutte le sotterriamo, ché non è licita cosa che con le umane membra quelle de’ bruti animali occupino i santi luoghi -. Alla qual cosa fare si misero, ma niente operavano, perché non sappiendo che farsi né qual partito in ciò prendersi, parendo loro male di portare le bestiali ossa a Roma e male di lasciare le romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto che la oscura notte loro sopravenne. Per la qual cosa, lasciate stare quelle, tornarono a’ tesi padiglioni dicendo: - In domattina c’indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio provederà alla nostra ignoranza -.
- Entrati ne’ padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancifiore in fulvida luce un giovane di grazioso aspetto con una giovane bellissima accompagnato, di vermiglio vestiti, le apparvero, e nel suo cospetto si fermarono, i quali Biancifiore parve che riguardasse, e tanto belli e tanto lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduta avesse alcuna cosa. E volendoli domandare chi fossero, il giovane cominciò a dire: - O bella e graziosa donna, nella pia opera faticata questa passata sera col tuo marito ricogliendo gli sparti membri, a’ quali le ruinose acque hanno lungamente perdonato per la tua futura venuta, sepera le sante reliquie dalle inique, ché non è giusta cosa che una terra quella che l’altre occupi -. A cui Biancifiore parea che rispondesse: - O glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, però che, sì come io ho veduto, più alle giuste che alle ingiuste niuno segno dimora; ma se a te piace, poi che una pietà con meco insieme hai, andiamo, e mostramele e meco insieme le scegli -. A cui il giovane: - Sanza me le conoscerai; abandona i pigri sonni, e col tuo marito ti leva su, e con Mennilio tuo zio, e a ricogliere l’andate. Voi le vedrete tutte vermiglie rosseggiare, come se di fuoco fossero, e quelle che così fatte vedrete, di quelle sicuri vivete che siano de’ romani giovani morti in questo luogo; le quali poi che raccolte avrete, con diligenza le rendete a Roma, di cui vivi furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu più lieta viva, chi io sia io mi ti manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu con meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu e è Giulia la tua madre, e così come cari e fedeli nel mondo fummo, e a Dio con puro cuore servidori, così gloriosi vivemo nella vita alla quale niuna fine sarà già mai. La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi che tu tutte le vermiglie ossa avrai ricolte, alla destra parte del tuo letto farai cavare, e quivi il mio corpo così, come Giulia il vi pose, troverai col viso del suo velo ancora coperto, e l’armato corpo d’un verde mantello; il quale tu piglierai, e quello di Giulia togliendo di Marmorina, insieme in Roma gli sepellirai -; e più non disse. Ma volendo già dire Biancifiore: - O Giulia, cara madre, fammiti toccare -, la luce sparve e le sante persone, e il sonno si ruppe della giovane, la quale tutta stupefatta si levò sanza indugio, e chiamati Florio e Mennilio, ciò che veduto e udito avea per ordine disse loro: di che essi maravigliatisi, assai ringraziarono Iddio, e levati tutti e tre andarono sanza alcun lume a fare il pietoso uficio. Essi non uscirono prima de’ padiglioni che, la notte essendo molto oscura e non porgente alcuna luce, videro la profonda valle per diverse parti tutta rilucere, ove un poco ove un altro, sì come il cielo nel tranquillo sereno mostra le chiare stelle, e tutte le accomunate ossa sparte trovarono, e mutate del luogo ove lasciate l’aveano. Essi nel principio con paura di cuocersi, givano ricogliendo le rosseggianti reliquie, e tutte quelle per diverse parti della valle sparte ricolsero divotamente, e quelle poste sotto diligente guardia, dove Biancifiore disse, cavarono. Né molto fu loro bisogno andare a fondo, che essi trovarono il promesso corpo ancora e del velo e del mantello coperto, fresco come se quel giorno di questa vita misera passato fosse: cui viso Biancifiore, ancora che morto fosse, al bello e lucente, che veduto avea, raffigurò. Ella il bagnò di molte lagrime, nelle quali Mennilio e Florio l’accompagnarono, tanta pietà li strinse. Poi riconsolati, preso quello, e involtolo in un caro e mondo drappo, così armato come stava, il misero in una cassa; e ossa rosseggianti per la cavata terra, forse d’altri corpi in quello medesimo luogo sepelliti per Giulia, raccolte, aggiunsero all’altre.
- Queste cose faccendo costoro, sopravenne il chiaro giorno. Per la qual cosa essi, il corpo e l’ossa ricolte sotto sofficiente custodia lasciate, cavalcarono avanti al loro cammino, e poco distanti, in brieve al dimandato tempio pervennero, nel quale essi entrarono e offersero grandissimi doni, e porsero pietose orazioni, e voltarono i passi loro. E venuti al luogo ove lasciato aveano il corpo di Lelio e le vermiglie reliquie, quelle prese, sanza ristare in alcuna parte, a Marmorina ne le portarono: e quivi con solennità tratta della bella sepoltura Giulia, e acconciatala in una cassa, con l’altro corpo e con le vermiglie ossa a Roma ne le portarono, e quivi fatte grandissime e belle ossequie, con li loro padri le sepellirono. Le quali cose fatte, lasciata la non profittevole malinconia, lietamente veduti e ricevuti, a far festa co’ parenti loro si dierono.
- Stato Florio in Roma più giorni in allegrezza e in festa co’ suoi, dalla cara madre un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre gravissima infermità sostenere a Corduba, per la qual cosa egli dovesse sanza indugio tornare. Le quali cose udite Florio, egli e Mennilio con pochi compagni, lasciando Biancifiore con Clelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino: al quale essi entrarono e con pietoso viso di suo essere domandarono. I quali quando il re vide, contento molto disse: - Omai, o signor mio Domeneddio, prendi l’anima mia quando ti piace -. Poi a Florio rivolto così gli parlò: - Caro figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso più vivere: la lunga età e la grave infermità mi mostrano la vicina morte, la quale io certo non debbo mal volontieri prendere, però che lungamente vivuto sono, e delle sue ragioni ho più tosto prese che ella delle mie. E appresso, avanti ch’ella abbia la mia vita occupata, assai di quello ch’io ho disiderato e che ora fu, io non credetti mai vedere, ho veduto: però qualora viene lietamente la riceverò. La quale poi che del mondo tolto m’avrà, e renduta l’anima al futuro secolo, tu del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona e ’l reggimento. Per che io all’altre cose principalmente ti priego e comando che te prima regghi e governi, sì che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sarà che di bene essere retto non speri. Siati la superbia nimica, e quanto puoi la fuggi, però che ne’ suggetti, seguendola, suole rebellazioni e indegnazioni d’animo e inobedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto quella, però vivi umilemente, e co’ tuoi suggetti sii familiare quanto si conviene. Né l’iracunda rabbia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliono dolere. Niuna vendetta sia da te presa adirato, però che l’ira ha forza d’occupare l’animo sì che egli non possa discernere il vero: dunque, passata quella, con discrezione procedi sopra quello per che t’adirasti. E ben che talora sia fallo che aspra vendetta meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a’ signori gran gloria l’avere perdonato. Né ti muova invidia a dolerti degli altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni più che i suoi uberosi, fare sanza utilità dolere altrui de’ beni del prossimo, e per consequente disiderare la sua ruina: e di quella, s’avviene, far lieto altrui. Oh, che iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della fortuna sieno molte e varie, e strabocchevoli i suoi movimenti! Tale rise già degli altrui danni, che de’ suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso. Dolersi con giusto animo delle altrui calamità non fu mai male. Rallegrati adunque degli altrui beni, e di quelli che tu possiedi ringrazia Iddio. E l’avarizia, divoratrice e insaziabile male, del tutto da te fa che lontana sia: più che tu abbia non t’è di necessità disiare. I termini del tuo regno gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d’ampliarli non entrerai in sollecitudine: spesse volte, per avere l’uomo più che si convegna, quello che convenevolemente avea, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell’uomo, e per quelli multiplicare in alto monte, far fare forze a quelli i quali più tosto per la loro vita poter governare ne bisognerebbono, che esser loro tolti quelli che hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l’avarizia, la quale ove dimora conviene che giustizia se ne parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho spesi, né ora morendo mi possono un’ora di vita accrescere né seguirmi. Sii adunque liberale, e con retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e quelli co’ tuoi suggetti, non dimenticando gl’indigenti, godi: e guardati non forse tanto liberale essere disideri, che tu in prodigalità cadessi, la quale a non meno mali altrui conduce che l’avarizia. Guardati similemente che l’animo accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci, e per consequente alle operazioni: ella fa gli uomini molli e miseri di cuore, e pigri alli loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe dee essere lieta nel cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese dee essere magnanimo, e fuggire, essercitandosi, i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu similmente fa. Sia il tuo essercizio continuo e studii nelle virtù e nel ben vivere de’ tuoi suggetti, le cui utilità e riposi più che le tue medesime dei pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e unità, però che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti e le gran cose commesse, perché ne’ morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi, sì come pastori, a popoli come mansuete pecore ne conviene vegghiare: la qual cosa, se saviamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e già, come tu puoi avere udito, più uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con disordinato appetito presi superflui, generarono già molti mali: l’uomo per quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Iddio, che è peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare più che in altrui, è in coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale, quantunque si piglia genera danno, e è chiamato con ragione vizio. Similemente ti sia la lussuria nimica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa è nemica con la sua corta e fastidiosa dolcezza e singulare laccio dell’antico nemico ad inretire l’anime de’ cattivi. Oh, quanti e quali mali già costei ha fatti evenire! Quello rettore che l’userà, darà a’ suoi uomini materia d’enfiare, de’ quali enfiamenti niuna altra cosa resulterà se non o tradimento o insidie: però schifala. A te è la tua Biancifiore, bellissima e d’alta schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata e con sollecitudine guadagnata; guardalati, e siati cara, e sola come si conviene ti basti sanza più avanti cercare. E siati a mente che il guardarsi da’ vizii non basta, sanza operare le virtù, a gloriosa vita volere: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto puoi l’adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenzia, sanza la quale niuno regno bene si governa. E similmente sanza giustizia niuno regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia, in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la deono volere servare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo debito rendi: né ti muova amore, odio, amicizia, o parentado, o dono a giudicare con torta bilancia. E similemente ne’ grandi uomini fortezza d’animo si richiede, imperò che quanto maggiori sono gli uomini, tanto maggiori sogliono e possono le avversità avvenire; e però più forza a sostenere loro che agli altri si richiede, non forse negli avversi casi mostrando mestizia, negli animi de’ suggetti pusillanimità generino. E in tutte le cose fa che temperato sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli onori, e aumenta la vita, e la sanità serva sanza affanno. E vivi caritevole, ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio, nella sua misericordia spera, la quale la morte de’ peccatori non vuole, ma la vita, acciò ch’elli si penta e viva, acciò che tu per queste possi all’etterna gloria pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sì come io ho già compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le virtù seguire con intero animo possi, sempre davanti agli occhi porta la tua fine, la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa portarsi se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero questo, che queste cose, le quali tu possederai e che io possedei, non ne sono date per nostra singulare virtù, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per divina grazia l’abbiamo e reggiamo. E però che graziosamente ricevute l’abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi, e altrui non ledere, e a ciascuno quello che suo è dà. E onora la tua madre sopra tutte le cose del mondo, acciò che la sua benedizione, quando allo infallibile passo mi seguirà, meriti. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne’ teneri anni, e ne’ virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti sia consolazione. E priegoti che l’anima di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t’ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata -. E queste parole dicendo, allentando a poco a poco la voce, finì le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò: - Io me ne vo -; e seguì poi: - O signor mio, ricevi nelle tue mani l’anima del tuo servo -. E così dicendo rendé l’anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con pietosa mano chiuse gli occhi al moriente padre, e piangendo i lieti vestimenti abandonò e pigliò i lugubri con molti compagni, tra’ quali Mennillo similemente prese.
- Ilario, il quale con somma sollecitudine avea al vecchio re i santi sacramenti della chiesa con divozione donati, poi che della presente vita passato il vide, come a Florio piacque, secondo la romana consuetudine mise in ordine i grandi ossequi; e con molto onore, sì come a tanto re si convenia, il fece sepellire nella maggior chiesa della città.
- Pianselo Florio molti giorni; ma venuto il tempo che le lugubri vesti lasciare si doveano e Florio fu riconfortato; i baroni e i grandi uomini del suo reame vennero nella sua presenza, acciò che, egli presa la corona, la debita fedeltà gli giurassero. Alla quale coronazione Florio fece chiamare Biancifiore, a cui la morte del re era per amore di Florio assai doluta. Con lei venne la valorosa donna Clelia, e Tiberina, e Glorizia e altre donne di Roma, le quali Quintilio con Scurzio e con Sempronio accompagnarono. E Caleon, a cui era in cura allora di fare fontane alla nuova terra, udendo della coronazione di Florio la novella, lasciato stare ogni cosa, vi venne. E Fileno, e ’l padre e la madre e’ parenti lasciati, ancora vi venne, e ’l duca Ferramonte similemente, e Sara, e Parmenione, e Messaallino e Menedon e qualunque altro grande del paese, ove elli furono tutti da Florio lietamente e con onore ricevuti.
- Il dolce tempo era, e il cielo tutto ridente porgeva graziose ore: Citerea, tra le corna dello stellato Tauro splendidissima, dava luce, e Giove chiaro si stava tra’ guizzanti Pesci; Apollo nelle braccia di Castore e di Polluce più lieto ogni mattina nelle braccia della sua Aurora si vedea entrare; Febeia correa con le sue agute corna lieta alla sua ritondità. Ogni stella ridea, e il sottile aere confortava i viventi, e la terra niuna parte di sé mostrava ignuda: ogni cosa o erba o fiori si vedea, sanza i quali niuno albero si saria trovato, o sanza frutto. Gli uccelli, che lungamente aveano taciuto, davano graziosi canti, né alcuna cosa era sanza lieto segno, quando la gran festa della futura coronazione di Florio si cominciò per Corduba: le rughe della quale, da ciascuna parte ornate di simili drappi quali quelli d’Aragne, tutte ridono. Niuna casa, niuno luogo è sanza maravigliosi suoni. E i giovani e le donne lieti e riscaldati nel festeggiare, con graziose note cantano gli antichi amori. Altri sopra i correnti cavalli, inghirlandati di novella fronde, ornati sé e i loro cavalli di molto oro e di sonanti sonagli, corrono, e i vaghi occhi delle giovani tirano a riguardarsi. Alcuni apparecchiano le forti armi per mostrare in pacifiche giostre quant’elli sotto quelle sia poderoso. E altri divisano altri giuochi, né niuno è sanza festa. E le molte e diverse brigate de’ festeggianti niuno riposo conoscono, e ben che Febo co’ suoi cavalli si tuffi nelle onde di Speria, non toglie egli loro il festeggiare: quello che il nascoso sole toglie, l’accese faglie suppliscono, graziose alle non così belle giovani. Ma poi che in così grande allegrezza, apparecchiate le necessarie cose, il diterminato giorno della coronazione fu venuto, Florio vestito di reali vestimenti venne in una gran piazza accompagnato da’ nobili del reame, e quivi Ilario e ’l duca Ferramonte, eletti da tutti gli altri in generale all’alto mestiere, celebrato il santo uficio, invocato divotamente il nome di Dio a sua laude e reverenza, del reame di Spagna con corona d’oro coronarono Florio, in cospetto di tutto lo ’nfinito popolo, del quale le voci a cielo andarono sì alte, che oppinione fu di molti che dentro passassero, dicendo: - Viva il nostro re -. Il quale, poi che la corona ricevuta ebbe, si fece venire avanti Biancifiore, e con le propie mani di simile regno la coronò reina. Queste cose fatte, rincominciò la festa grandissima, e le trombe e i molti strumenti sonarono, e l’armeggiare cominciò grandissimo, e tanta e sì generale festa per tutto si fa, che niuna altra cosa vi si vede o sente.
- Florio, novello re, fattisi venire i ragunati tesori dal padre, e quelli liberamente dona a’ suoi baroni, e non consente che niuno sanza grandissimo dono si parta da tanta festa. E poi con loro insieme per la terra andando, ovunque egli viene fa festa multiplicare; e festeggia sempre seco avendo i cari compagni del suo pellegrinaggio, e quelli onora e sopra tutti gli altri vede volentieri, e a coloro dà i grandissimi doni: e a dare a ciascuno il suo regno gli paria far poco. E durata per molti giorni la festa grandissima sanza comparazione, gli amici e’ servidori del re Florio contenti disiderano di rivedere le loro case e cercano congedo, il quale il re Florio come può lieto concede. Caleon torna a Calocepe, Fileno a Marmorina, Mennilio e Quintilio e gli altri giovani romani con le loro donne, e con grandissimi doni lieti ricercano Roma, e con loro il reverendo Ilario. Il quale prima in quella non giunse, che con ordinato stile, sì come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane re: il quale, con la sua reina Biancifiore ne’ suoi regni rimasi, piacendo a Dio, poi felicemente consumò i giorni della sua vita.
- O piccolo mio libretto, a me più anni stato graziosa fatica, il tuo legno sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e già il vento richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia. Fermati, adunque, ricogliendo quelle, e a’ remi stimolatori delle solcate acque concedi riposo, e agli scogli dà l’uncinute ancore, e de’ segati mari e della lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosa donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerà, prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce: - Ben sia venuto -; e forse con la dolce bocca ti porgerà alcun bacio. La qual cosa s’avviene, chi più di te si potrà dire beato? E certo se altro merito non ti seguisse del lungo affanno, se non che i suoi begli occhi ti vedranno, sì ti fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra’ navicanti. Ella, la quale io sempre figurata porto nell’amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerà che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa ne fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t’è cura, dimora con lei, ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò sia cosa che tu da umile giovane sii creato, il cercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Virgilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare, e confermarla ad essere d’un solo amante contenta. E quelli del valoroso Lucano, ne’ quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sermontino Ovidio seguiti, delle cui opere tu se’ confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sì come piccolo servidore molto dei reverente seguire. Lascia a costoro il debito onore, il quale volere usurpare con vergogna t’acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La cicogna figliante nell’alte torri discende a vivere a’ fiumi. A te bisogna di volare abasso, però che la bassezza t’è mezzana via. E Alcione volando batte le sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua donna, a cui è licito darti alto e basso luogo secondo che le piace: dalla quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel suo grembo? Quali mani più belle ti poriano toccare, o occhi riguardare, o voce profferere le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli altrui occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de’ più savi sostieni, e secondo il loro diritto giudicio ti disponi alla menda. Al cinguettare de’ folli non porgere orecchi, ch’è bassa voglia; e a coloro che con benivola intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell’invidia quanto puoi schifa, ne’ denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se’ di tal donna suggetto che le tue forze non deono esser piccole. E a’ contradicenti le tue piacevoli cose, dà la lunga fatica di Ilario per veridico testimonio, e, nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che ’l tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandati, e de’ beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua donna Amore conservi.
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