- Filocolo
- Giovanni Boccaccio
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- GIOVANNI BOCCACCIO
- IL FILOCOLO
- a cura di
- SALVATORE BATTAGLIA
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- tipografi-editori-librai
- 1938
- Indice
- Libro I
- Libro II
- Libro III
- Libro IV
- Libro V
- Nota
- Indice dei nomi
- IL FILOCOLO
- DI MESSER GIOVANNI BOCCACCIO
- nel quale si narra l’amore di florio e biancofiore
- LIBRO PRIMO
- Mancate giá tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la quale, la morte della pattuita Didone cartaginese non avendo voluto inulta dimenticare, e all’altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli antichi peccati de’ padri sostenere a’ figliuoli aspra gravezza, possedendo la loro cittá, la cui virtú l’universe nazioni si sottomise, sentí che quasi nell’estreme parti dell’ausonico corno ancora un picciolo ramo dell’ingrata progenie era rimaso, il quale s’ingegnava di rinverdire le giá seccate radici del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di riducerlo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori aveva altra volta abbattuta, con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli occhiuti uccelli, e davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei teneva il santo uficio, e cosí disse: «O tu, il quale alla somma degnitá se’ indegno pervenuto, qual negligenza t’ha messo in non calere della prosperitá dei nostri avversarii? quale oscuritá t’ha gli occhi, che piú debbono vedere, occupati? lévati su: e perciò che a te è sconvenevole guidare l’arme di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra l’inutile ramo dimorano, le cui radici giá è gran tempo furono secche, e in maniera che di loro mai piú ricordo non sia. Intra ’l ponente e i regni di Borea sono fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso dell’antico sangue di colui che giá li tuoi antecessori liberò della canina rabbia de’ longobardi, loro rendendo vinti con piú altri nemici alla nostra potenza. Chiama costui, perciò che noi gli abbiamo quasi l’ultima parte delle nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io farò li fauni e’ satiri e le ninfe graziose ne’ suoi affanni; Nettunno ed Eolo disiderano di servirmi; e Marte a’ miei prieghi vigorosamente l’aiuterá. E ’l nostro Giove è di tutte queste cose contento, perciò che ha preso isdegno, veggendo a gente portare per insegna quello uccello, nella cui forma giá molte volte si mostrò a’ mondani, che piú a’ sacrificii di Priapo intendono che a governare la figliuola di Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le infernali furie un’altra volta gli abominevoli regni in suo servigio, come giá feci quando ne’ paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruina non permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse perdono, e ancora perciò che sentiva che di lui dovea discendere l’edificatore di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai, senza piú porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani». E detto questo, si partí, discendendo a’ tenebrosi regni di Plutone; e con lamentevole voce chiamata Aletto, disse: «A te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti che discesero da colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza sí del tutto sturbare che negl’italici regni smisurate forze non prendesse: e ciò fu nel principio delle prosperitá; ma questo fia nell’ultima parte dell’avversitá, la quale ultima parte la loro fama spegnerá nel mondo». E questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni a cotale novella si dolsero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare: ma al volere della santa dea non si poteva resistere. Però Aletto, lasciati quelli, tornò agli altri, i quali ella giá a crudeli battaglie aveva commossi, e quivi gli animi de’ piú possenti impregnò di volontá iniqua contra al principale signore, mostrando loro come venereamente i loro matrimoniali letti avea violati; e quelli, pregni d’iniquo volere e d’ira mormorando, lasciò focosi, ritornando donde partita s’era. Il vicario di Giunone senza indugio chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a’ suoi servigi, il quale allora signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in tale servigio con le sue forze si mettesse, e ultimamente gli promise d’adornare la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maledetta pianta del tutto n’estirpasse.
- Non fece il valoroso giovane disdetta a sí fatta impresa, ma disideroso di dare a sé e a’ suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con vigorose forze all’ammirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e co’ promessi aiuti la recò a fine, posando il suo soglio negli addomandati regni, avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuove progenie generate, stato per alquanto spazio, rendé l’anima a Dio. Quegli che dopo lui rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra’ quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituito, rimase interamente con l’aiuto di Pallade reggendo ciò che da’ suoi predecessori gli fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenzia pervenisse, costui, preso del piacere d’una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei una bellissima figliuola; e volendo di sé e della giovane donna serbare l’onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d’altro padre, teneramente la nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento che addivenne per l’ardito gusto della prima madre. Questa giovane come in tempo crescendo procedeva, cosí di mirabile bellezza s’adornava, patrizzando cosí ancora ne’ costumi come nell’altre cose che facea; e per le sue notabili bellezze e opere virtuose, piú volte fece pensare a molti che non d’uomo ma di Dio figliuola stata fosse. Avvenne che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo giá Febo co’ suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi trovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificarsi sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata, e quivi con canto pieno di dolce melodia ascoltava l’uficio che in tale giorno si canta, celebrato da’ sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente esaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e giá essendo, secondo che il mio intelletto stimava, la quarta ora del giorno sopra l’orientale orizzonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza della prefata giovane, venuta in quello loco a udire quel che io attentamente udiva: la quale sí tosto com’io ebbi veduta, il cuore incominciò sí forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondeva per li menomi polsi del corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che egli giá s’imaginava che avvenire gli doveva per la nuova vista, incominciai a dire: «Oimè! o che è questo?»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo alquanto spazio, rassicurato un poco, presi ardire, e intentivamente cominciai a rimirare ne’ begli occhi dell’adorna giovane; ne’ quali io vidi, dopo lungo guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, il quale lungamente a mia instanzia aveva risparmiato, fece tornare disideroso d’essergli per cosí bella donna soggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, cosí cominciai a dire:
- «Valoroso Signore, alle cui forze non poterono resistere gl’iddii, io ti ringrazio, perciò che tu hai posta dinanzi agli occhi miei la mia beatitudine: e giá il freddo cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che tu, mediante la virtú de’ begli occhi ove sí pietoso dimori, entri in me con la tua deitade. Io non ti posso piú fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e divoto mi sottometto a’ tuoi piaceri». Io non aveva dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna scintillando guardarono i miei con acuta luce, per la quale una focosa saetta d’oro, al mio parere, vidi venire, e quella, per gli occhi miei passando, percosse sí forte il core del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo tremore ancora trema; e in esso entrata, v’accese una fiamma, secondo il mio avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell’anima rivolse a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di quindi con piagato core partito mi fui, e sospirato ebbi piú giorni per la nova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de’ celestiali uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri vestimenti vestite, coltivavano tiepidi fochi, e divotamente laudavano il sommo Giove; lá dove io giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio core stare con festevole e allegro ragionamento, nel quale io e alcuno compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d’un ragionamento in altro, dopo molti, venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali udendo la gentilissima donna, senza comparazione le piacquero, e con amorevole atto verso me rivolta, lieta, cosí cominciò a parlare: «Certo grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla gran costanza de’ loro animi, i quali in uno volere per l’amorosa forza sempre furono fermi serbandosi ferma fede, a non essere con debita ricordanza la loro fama esaltata da’ versi d’alcun poeta, ma lasciata solamente ne’ favolosi parlari degli ignoranti. Ond’io, non meno vaga di poter dire che io sia stata cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de’ loro casi, ti priego per quella virtú che fu negli occhi miei, il primo giorno che tu mi vedesti e a me per amorosa forza t’obbligasti, che tu t’affanni in comporre un picciolo libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, l’innamoramento e gli accidenti de’ detti due, infino alla lor fine, interamente si contengano». E detto questo, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole procedenti dalla graziosa bocca, e pensando che infine allora la nobilissima donna pregato non m’aveva, il suo priego in loco di comandamento mi reputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de’ miei disii, e cosí risposi: «Valorosa donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi stringe sí, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quel che detto avete sará fornito». Benignamente mi ringraziò, e io, costretto piú da ragione che da volontà, col piacere di lei di quel loco mi partii, e senza alcuno indugio cominciai a pensare di voler mettere ad esecuzione quello che promesso aveva. Ma perciò che, come di sopra è detto, insofficiente mi sento senza la tua grazia, o donatore di tutti i beni, ad impetrar quella quanto piú posso divoto corro, supplicandoti, con quella umiltà che piú possa fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora nelle sante leggi de’ tuoi successori spendo il tempo mio, tu sostenga la non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa volontà senza alcun freno in cosa che fosse men degna esaltatrice del tuo onore, ma moderatamente in eterna laude del tuo nome la guida, o sommo Giove.
- Adunque, o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a’ venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti, disiosi di pervenire a porto di salute con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che divotamente prestiate alquanto alla presente opera l’intelletto, perciò che voi in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie permutazioni e tempestose, ne’ quali poi con tranquillo mare s’è lieta rivolta a’ sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non esser sostenitori primi dell’avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi. Di che prendere potrete consolazione, se quello è vero: che a’ miseri sia sollazzo d’avere compagni nelle avversitá; e similmente ve ne seguirá speranza di guiderdone, la quale non verrá senza alleggiamento di pena. E voi giovinette amorose, le quali ne’ vostri petti dilicati portate l’ardenti fiamme d’amore piú occulte, porgete li vostri orecchi con non mutabile intendimento a’ nuovi versi: i quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell’antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell’animo alcuna durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dell’innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali vi fiano graziosi molto. E, udendogli, potrete sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua mente, senza porgere a molti vano intendimento, perciò che molte volte si perde l’un per l’altro, e suolsi dire: ‘chi due lepri caccia, talvolta piglia l’una e spesso niuna’. Dunque apprendete ad amare un solo, il quale ami voi perfettamente, sí come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose a voi giovani e donzelle generano ne’ vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere divote laudi a Giove e al nuovo autore.
- Quello eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de’ celestiali regni posseditore, tiene l’imperiale corona e lo scettro, per la sua ineffabile provvidenza avendo a sé fatti molti cari fratelli e compagni a possedere il suo regno, e conoscendo l’iniquo disio di Pluto, il quale piú grazioso e maggiore degli altri aveva creato, che giá pensava di volere dominio maggiore che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua parte a lui e a’ suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circondati dalle stigie paludi, e loro eterno esilio assegnò dal suo lieto regno; e provvide di nuove generazioni volere riempiere l’abbandonate sedie, e con le proprie mani formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo Pluto, dolente che strana plebe fosse apparecchiata per andare ad abitare il suo natal sito, del quale egli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di far sí, che le nuove creature da quella abitazione facesse esiliare; e con sottile inganno la sua imaginazione mise ad effetto, perciò che nel santo giardino voltò le prime creature sí, che per suo consiglio il precetto del loro creatore miserabilmente prevaricarono, e seguentemente essi con tutti i loro discendenti rivolse alle sue case, rallegrandosi d’avere per sottigliezza annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede questa ingiuria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietá inverso di coloro che stoltamente s’avevano lasciati ingannare e che stavano ne’ tenebrosi luoghi rinchiusi, miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò in terra da’ celestiali regni, e disse: «Va, e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stato cosí lungo carcere, e appresso te lascia in terra sí fatte armi, che gli altri futuri, a’ quali elle ancora non si sono mostrate, prendendole si possano valorosamente difendere dalle false e occulte insidie di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento nuove folgori, le quali, tu gittandole, dimostrino quanta sia la nostra potenza, sí come giá fecero». Discese al comandamento del suo Padre l’unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a sostenere per noi l’iniqua percossa d’Atropos, apportatore delle nuove armi, in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio, sí come negli altri uomini. La terra, come sentí il nuovo incarco della deitá del figliuolo di Giove, diede per diverse parti della sua circonferenza allegri e manifesti segni di futura vittoria agli abitanti; ed egli, giá in etá ferma pervenuto, cominciò a riempiere la terra dell’apportate armi, e a fare avvedere coloro, che con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno porto dall’antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riavevano, cosí delle nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti della veritá movevano varie battaglie e molte; e contra loro alcuno che ’l volesse non si trovava potere resistere, perciò che senza cura d’affanno e di corporale morte gli trovavano. E giá delle vittorie de’ nuovi cavalieri, entrati contro a Pluto in campo, non pur tutto l’oriente ne risonava, ma ancora delle loro magnifiche opere l’occidente ne sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti prigioni l’antica cittá di Dite, ed essendo al suo padre ritornato, e mandato a’ prencipi de’ suoi cavalieri il promesso dono del santo ardore, volendo che l’ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de’ suddetti prencipi, quello che piú forte gli parve a potere resistere all’infinite insidie che ricevere dovea, e sopra l’onde d’Esperia trasportare il fece a un notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della somma deitá, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi rivestí. Ma poi, dopo molto combattere, trovata piú resistente schiera, senza volgere viso o senza alcuna paura l’ultimo colpo d’Atropos umile e divoto sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e graziosa anima. I suoi seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in notabile loco reverentemente le sepellirono non senza molte lagrime. E ad eterna memoria di cosí fatto prencipe, poco lontano all’ultime onde d’occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio, il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. Ed egli, giusto esauditore, non fu nella sua vita tanto valoroso resistente ai difenditori della falsa opinione, quanto dopo il suo ultimo dí fu molto piú grazioso conservatore de’ suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio, esaudendo le debite orazioni, mirabili cose faceva, onde la fama dell’occidentale Iddio risonava per l’universo. Certo ella passò in breve tempo le calde onde dell’orientale Gange, e alle boglienti arene di Libia fu manifesta, e dagli abitanti nelle agghiacciate nevi d’Aquilone fu saputa; perciò che egli non porgeva risponso, sí come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere operazioni ne’ bisogni soccorreva e soccorre i di voti dimandatori: e per questo piú la santa fama per il mondo risuona.
- Suona adunque la gran fama per l’universo della mirabile virtú del possente Iddio occidentale, e in te, o alma cittá, o reverendissima Roma, la quale egualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl’indomiti colli, tu sola permanendone vera donna, molto piú che in alcun’altra parte risuona, sí come in degno loco della cattedra! sede de’ successori di Cefas. E tu, dico, dentro di te non poco ti rallegra, ricordando te essere quasi la prima prenditrice delle sante armi, perché conoscesti te in esse dover tanto divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto piú; onde contentati, o Roma, ché, come per l’antiche vittorie piú volte la tua lucente fronte ornata fu delle belle frondi di Penea, cosí di questa ultima battaglia, con le nuove armi trionfando tu vittoriosamente, meriterai d’essere ornata di eternale corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine fra le stelle onorevolmente sani allogata, tra le quali co’ tuoi antichi figliuoli e padri beata ti troverai. E giá i tuoi figliuoli per nuova fama prendono a’ lontani templi divozione, e, addimandando al Dio dimorante in essi i bisognevoli doni, promettono graziosi voti. I quali doni ricevuti, ciascuno s'ingegna d’adempiere la volontaria promessione visitandogli, ancor che stiano lontani: la qual cosa appo Dio grandissimo merito senza fallo ti impetra.
- Risonava, sí come è detto, la gran fama per Roma, nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell’africana Cartagine. Era questo ornatissimo di bei costumi, e abbondante di ricchezze e di parenti, e giá per la sua virtú prescritto all’ordine militare, e aveva, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una nobilissima giovane romana, nata della gente Giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontá era molto da lui amata. E giá era con lei, poi che Imeneo coronato delle frondi di Pallade fu prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che Febo cinque volte era nella casa della celestiale vergine rientrato, ed egli ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de’ quali sopra tutte le cose era disideroso; e, in molte maniere cercato come egli potesse fare che la giovane concepisse, e niuna pervenutane ad effetto, sentiva nell’animo angoscioso tormento. Ma l’infinita pietá di Colui a cui nulla cosa si nasconde, non sostenne che, senza parte del suo disio vedere, egli finisse i giorni suoi, a’ quali poco piú spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo: che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udí narrare di quello Iddio, che sopra gli esperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch’egli ebbe udite, se n’andò in un santo tempio, la dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse cosí: «O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l’anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, se sono da essere esaudite, nella tua presenza. E cosí come a niuno, che divotamente giusto dono ti dimanda, il nieghi, cosí a me la mia dimanda, se è giusta, non negare, ma perfettamente me l’adempi. Io sono giovane d’eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente citta copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobile e bella giovane, con la quale io sono stato tanto tempo, che io veggio incominciare la sesta volta al sole l’usato cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo il nostro ultimo giorno possa il nostro nome ritenere, e possedere l’antiche ricchezze possedute lungamente per retaggio, per che nell’animo sostengo grave noia. Onde io divotamente ti priego che nel cospetto dell’onnipotente Signore grazia impetri, che se Egli deve esser della mia anima bene, e del suo e del tuo onore esaltamento, che Egli uno solamente concedere me ne deggia, il quale dopo me mi rappresenti. La qual cosa se Egli mi concederá, io ti prometto e giuro, per l’anima del mio padre e per la deita del sommo Giove, che il tuo lontano tempio sará da me visitato personalmente, e i tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati». E fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento, ché, cosí come niuno giusto priego può esser fatto senza essere esaudito, cosí quel priego, che era giusto, senza esaudizione non poteva trapassare. Ma giá i disiosi cavalli del sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano nelle marine acque d’occidente, e le menome stelle si potevano vedere, ed erano giá Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel coniugai letto, nel quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il giusto priego, fatto il preterito dí, gli fosse a grado; e disceso dagli alti çieli, ed entrato radiante di maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gli cominciò a parlare, dormendo egli, e disse cosi: «O Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione chiamasti, pregando ch’io impetrassi grazia, nel cospetto di Colui che tutte le dona senza rimproverare, che tu potessi avere degno erede del tuo nome, nel quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso esauditore de’ giusti prieghi, e di tutti i beni benignissimo donatore, per me ti manda a dite che ’l tuo priego esaudito è da Lui, e che, la prima volta che tu con la tua sposa onestamente ti congiungerai, veramente riceverai il dimandato dono». E queste parole dette, ad un’ora egli e ’l sonno da Lelio si partirono. Lelio svegliato, pieno di maraviglia e d’allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi per la camera per vedere se ancora l’apportatore della lieta novella vi fosse; ma poi che vide lui non esservi, umilmente ringraziato colui che porta aveva tanto disiata ambasciata, chiamò Giulia, la quale ancora dormiva, e le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta quasi senza fine cominciò a ringraziare Dio. E non molto spazio dopo quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s’avvide Giulia essere gravida, secondo che il santo di Dio avea annunziato.
- Non dopo molti giorni, mostrando giá Calisto dintorno al polo quanto era lucente, incominciarono Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo alquante parole, Giulia, che aveva sentito e sentiva in sé il disiato frutto nascosto, disse: «Certo, Lelio, giá per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, perciò che piú grave essere mi pare che per lo passato». Quando Lelio udí queste parole, fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse: «Adunque niuno indugio si vuole porre a fare i promessi doni; ma sí tosto come i chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io, con quella compagnia che mi parrá, voglio prendere il lungo cammino, e portare i graziosi incensi promessi al lontano al- tare». Allora disse Giulia: «Dch! ora sará il tuo cammino senza me fatto?». Lelio rispose: «Giulia, tu se’ giovane, e sí fatto affanno sarebbe alla tua tenera etá impossibile a sofferire e noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata». Giulia, udendo queste parole, bagnò il suo viso d’amare lagrime, dicendo: «Certo, quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie piú possente sostenitrice dell’armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non fu Ipsicratea a Mitridate, non che nelle felicita, nelle quali il venirti appresso mi porgera smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai accompagnata di molti pensieri e varii: il mio petto sará sempre pieno di molte sollecitudini, e nascosamente sosterrò molto maggiore affanno, sempre di te dubitando, ch’io non potrei mai fare venendo teco». O Tiberio Gracco, fu tanta la pietá che tu avesti di Cornelia tua cara sposa, quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua propria, quanta fu quella di Lelio vedendo le lagrime della sua cara compagna? Certo appena! Ond’egli le rispose: «Giulia, poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me senza te non saranno ricercati, e però disponi il tuo virile animo al lungo cammino, che al nuovo giorno credo cominceremo». Giulia contenta si tacque.
- L’Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo aveva giá rasciutte le brinose erbe, quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da’ notturni riposi, e comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, senza indugio fossero apparecchiate; e mandato per quelli i quali a loro piacque d’eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto avvenimento, comandando ad essi che immantanente fossero presti d’andare con loro a mettere ad effetto le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad ogni loro piacere.
- Fu senza alcuno indugio messo ad esecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e Giulia con la loro compagnia, tornando da’ santi templi da porgere pietosi prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a’ cari parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo cominciarono il disavventurato cammino.
- Il miserabile re, il cui regno Acheronte circonda, veggendo che l’esercizio era alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d’essa fuggivano l’inique tentazioni e meritavano il regno mal conosciuto da lui, il quale egli, per disiderare oltre al dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sí fatte imprese con paura; e convocati nel suo cospetto gl’infernali ministri, disse: Compagni, voi sapete che Giove non dovutamente degli alti regni, i quali egli possiede, ci privò, e diecci questa strema parte sopra il centro dell’universo a possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi riempiesse: e noi ingegnosamente li sottraemmo, si ché noi volgemmo i loro passi alle nostre case. Ed Egli ancora non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò il suo Figliuolo a spogliarcene, il quale, non possendogli noi resistere, ce ne spogliò, e dopo tutto questo fece avveduti gli abitanti della terra de’ nostri lacciuoli, e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano: sí che noi di questi oltraggi ci abbiamo a vendicare sopra di loro. Il salire in su c’è vietato, ed Egli è piú possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il nostro regno aumentare, e fare di riavere ciò che per adietro abbiamo perduto. Tra l’altre cose che il Figliuolo di Giove lasciò in terra a’ suo’ popoli, a noi piú contrarii, fu continuo esercizio, al quale del tutto si vuole intendere da noi, acciò che si spenga con volontario ozio dalle loro menti, e da’ romani massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo esercizio molto impreso, e quasi ogni gente da loro l’imprende. Ond’io ho proposto almeno ritrargli dell’andar gli strani templi visitando, con paura; e questo senza fallo mi verrá fatto troppo bene sopra gran quantitá d’essi, che ora vanno al tempio che sopra l’ultime piagge d’Esperia è posto: sopra i quali io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque voi ne sentirete alcuni».
- Dette queste parole a’ suoi, prese una forma simigliante ad un nobilissimo cavaliere, il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitor de’ regni d’Esperia, nipote di Atlante sostenitore de’ cieli, governava vicino a’ colli d’Appennino una citta chiamata Marmorina, e salito sopra un cavallo, le cui ossa per magrezza quasi quante erano apertamente mostrava, e correndo sopra esso, pervenne ne’ lontani regni, e trovato il re, il quale silvestre bestie cacciando prendea diletto, si fece davanti a lui: e come tal volta sogliano i corpi morti gravosi cadere alla terra senza essere urtati, cotale costui fittivamente cadendo gli si gittò a’ piedi, e con voce affannata, tanto che appena s’udiva, piangendo cominciò a dire: «O signor mio, tu vai l’innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro interiora metti aizzando gli acuti denti de’ feroci cani, ma io misero ho nella tua citta Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì come io vidi giá per i piú alti luoghi, tutta la citta guastava: e come ciò avvenisse a me è occulto. Se non che noi avendo il giorno avanti celebrati i santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte, riposandosi ciascuno, avea giá di sé la quarta parte passata, quando io, quasi dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto di uomini, di garzoni e di femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora abbandonato del tutto il quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e vidi tutta la citta piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono ripiene le mie orecchie. E giá presso alla nostra casa udendo il terribile suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire armato nelle fortezze della nostra casa; e iscendendo incontrai molti amici, i quali contra i crudeli osti, per lo bene della citta, s’apparecchiavano con le taglienti spade d’aspramente combattere. Ai quali dissi, quasi avendo della loro vita compassione: ‛O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle presenti cose? Quelli iddii, nella forza de’ quali era la speranza della nostra signoria, sono fuggiti e hanno abbandonato i loro altari, e però voi indarno soccorrete la cittá. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi, andiamo, e in mezzo de’ nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo, o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie, perciò che sola salute è a’ vinti non isperar salute’. La cittá da tutte parti presa, era da’ nemici con gli acuti spuntoni guardata; ma noi poi assicurati ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via. Oimè! chi potrebbe mai narrar la ruina e la tempesta di quella notte? Chi potrebbe parlando dire la menoma parte dell’uccisione, o con lagrime agguagliar la fatica? L’antica cittá, la quale molt’anni vittoriosa sotto le nostre braccia dimorò, fu da’ miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta in picciola ora; ma noi miseri, portati da’ miserabili fati, ovunque andammo, per le larghe vie trovammo cadere corpi gravati da mortale gelo, e ad ogni passo trovammo nuovi pianti, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E andando per diverse parti della cittá, dandone l’accese case gli aperti passaggi, piú volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma giá quasi propinqui all’ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci virilmente, vidi io gran parte de’ miei compagni bagnare la terra del loro sangue, e senza niuna misericordia esser dagli avversarii uccisi. Onde non potendo noi piú sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle, fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata piú aspra battaglia, quasi furiosi, senza alcuna speranza di salute, io e’ miei compagni tra gli acuti ferri de’ nemici ci gittammo. Io, ferito in molte parti, rientrai nelle mie case, nelle quali alquanti de’ miei compagni vinti vilmente si fuggirono. E noi, saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la cittá essere d’ardenti fiamme e di noiosi fumi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo assaliti da nuovo accidente, perciò che rotte le porti dell’antico palagio, salí uno grandissimo uomo capitano romano con molti compagni, il quale, come il fiero lupo le timide pecore senza difesa strangola, cosí andava uccidendo qualunque dinanzi gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre, e due miei figliuoli, e molti altri. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta, ricevetti infiniti colpi dalla sua spada. Ma poi la vecchia madre, e altre femine con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e il mio corpo, fortunosamente mi trassero dalle sue mani. E uscito fuori della non giá ritta cittá, veggendo che per me piú niuno soccorso le si poteva porgere, miserabilmente verso queste parti m’indirizzai, e qui nel tuo cospetto mi sono fuggito. E dicoti che ’l tuo regno è senza dubbio assalito da gente tanto acerba, che non pur contro a te, ma ancora contro a’ nostri iddii ha prese l’armi; e che ciò ch’io ho contato sia vero, manifestaloti il sangue mio, il quale per tante ferite puoi vedere davanti a te spandere. Io appena fuggendo ho potuto la mia vita ricuperare, la quale omai credo che sará brieve; e le mie ferite, le quali piú tosto medico e riposo che affanno richiedevano, marcite costringono l’anima d’abbandonare il misero corpo. E però ti priego che t’apparecchi, acciò che i tuoi nemici, i quali credo che non sieno di qui guari lontani, possa con piú forte fronte ricevere che io non potei, acciò che altresí vendichi le mie ferite, in guisa che io tra gli altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte». E appena finí queste parole con intiera voce, che davanti al re il corpo senza anima freddo lasciò.
- Con le mani prese, e nell’aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltar le infinte parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abbandonato il corpo e piú non dire, mutato il natural colore, tornò palido, e, oppresso nel secreto petto da varie cure, quasi per grave doglia appena ritenne le lagrime. Non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, pur mostrandosi vigoroso per rincarare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e abbandonata l’incominciata caccia, volse i passi co’ suoi compagni verso le reali case. Alle quali poi che fu giunto, sospirando a’ suoi cavalieri comandò che senza alcuna dimora prendessero l’usate armi; e sollecitamente fatti convocare i vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costrignevano, raunò un grandissimo esercito in pochi giorni, intendendo di volere ovviare gli assalitori del suo regno.
- E poi che questo tutto fu fatto, e il giorno, nel quale avea secretamente proposto di movere col suo esercito, fu venuto, egli comandò che di voti sacrificii s’apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deitá, la quale verso loro pareva indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; ed esso personalmente volendo sacrificare, acciò che il suo andare prosperamente s’indirizzasse verso i suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti all’altare di Marte, la cui effigie riguardando per piú affettuosamente porgere divoti prieghi, vide bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi imaginando che Marte per compassione de’ suoi danni avesse lagrimato, alquanto riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra il detto altare sacrificare, disse cosí: «O vera deitá, la quale a’ nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione, ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata». E, dette queste parole, ferí l’indomito toro, il quale, come sentí la puntura del freddo coltello, per duolo sí forte si scosse, che, uscito dalle mani di coloro che ’l tenevano, furiosamente fuggí verso i marini liti d’occidente, il suo sangue spargendo e torcendo i passi da quella parte donde i nemici, secondo il falso detto, dovevano il reame avere assalito.
- Veggendo questo, il re non poté dentro per forza d’animo ritenere le lagrime, ma, forte piangendo, cominciò a dire: Ora manifestamente possiamo noi ben vedere l’ira degl’iddii quanto contra noi s’adopra, e quanto i fortunosi fati ci sono incontro rivolti! Oimè, che Marte lagrimando, non de’ preteriti danni ma de’ futuri mostra d’aver compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, come fatti da non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché giá il toro ferito per mitigar la loro ira, è fuggito dinanzi da’ loro altari dalle nostre mani, e va dell’innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i miseri meritano d’essere da voi in alcuno atto esauditi, non ischifate le mie piangenti voci, perciò che, sí come voi sapete, io non sono quel Dionisio, il quale piú volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d’altri adornamenti degni a’ vostri altari. Io giammai, o Giove, non ti spogliai sí come costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all’uno tempo e all’altro. Né a te, o figliuolo d’Apollo, feci mai con tagliente ferro levare l’aurata barba sí come il sopraddetto fece, affermando quella mal convenirsi a figliuolo, il cui padre si vede ancor senza essa. Né a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, sí come Quinto Fulvio fece, per ricoprirne alcun altro: per le quali cose, sí come sacrilego, io e ’l mio popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e’ vostri templi furono da noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a’ nostri antecessori benignamente conceduta, crudelmente e senza cagione si distrugga da quel popolo, il quale con nuove armi alla nostra forza s’ingegna di contrastare. E se pur ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira giustamente contro a noi si mova, la quale o io o ’l mio popolo abbia commessa contro alla vostra deitá, venga di grazia sopra me tutto il pondo.
- Deh! non mi fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani molto per lui esaltati, per la sua orazione la quale esaudiste, mandarono quivi a poco tempo in esilio: avvegna che l’arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e’ partiti spiriti de’ nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficienti a mitigarvi. Sia da voi conceduto adunque che io prima, percosso da Atropos, renda lo spirito agl’iddii infernali co’ precedenti morti insieme, che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare».
- Mentre che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto i lagrimosi occhi verso quella parte nella quale il furioso toro era fuggito, il vide in uno vicino bosco, per difetto di sangue, caduto, e sopr’esso come folgore volando, disceso di cielo, il divino uccello, e sopr’esso toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare verso quella parte donde dovevano quel giorno prendere il cammino i suoi popoli. La qual cosa veduta, il re in se medesimo, preso il volo di quello uccello per buono augurio, assai piú d’allegrezza e di speranza si riempié, che non fece Paulo alla voce di Tarsia quando disse: ‛Persa è morto’, né Lucio Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne’ campi di Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce incominciò a dire al suo popolo: «Rallegratevi e prendete debito conforto, figliuoli, però che Giove pietosamente ha mutato consiglio, e, fatto verso noi pietoso, gli è de’ nostri danni incresciuto, però che io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che dalle nostre mani fuggí, egli l’ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo uccello, il quale, veduto il toro giá con poca forza rimaso abbattuto nel vicino bosco, e sopr’esso per lungo spazio pasciutosi, levandosi, il suo volo prese verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi abbiamo a fare. Onde par che Giove benignamente ricevuto l’abbia, poi che alle nostre schiere ha mandato si fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e pieni d’allegrezza accendete i fuochi sopra i santi altari, e porgete agl’iddii divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi senza alcuno indugio i nostri passi verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, perciò che giá si manifesta agli occhi miei la disiderata vendetta dovere pervenir a prosperevole fine».
- Arsi i fatti fuochi, e dissoluti i nebulosi fumi avvolti ne’ sacri templi, le trombe sonarono, e i cavalli presti alle fiere battaglie, uditi i suoni, cominciarono a fremire; e il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del detto augurio, comandò che le reali bandiere fossano spiegate a’ venti, e che tutti i suoi, abbandonandosi a’ fortunosi fati, verso Marmorina indirizzassero il loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu senza alcuna dimoranza. Ma il misero Lelio dell’ultimo giorno, a lui ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a’ suoi compagni simigliantemente, non s’accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a’ dolenti fati; e giá quattro volte cornuta ed altrettante tonda s’era mostrata la figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea rivedere, e camminando s’aveva lasciate dietro le bianche spalle d’Appennino, affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da’ suoi occhi non dovea essere veduto, né da alcuno altro de’ suoi compagni.
- Entrava il sole nella rosata Aurora con lento passo, e’ torbidi nuvoli occupavano il suo viso, per la qual cosa la sua luce sí come usato era non porgeva chiara, ché forse a lui, che tutto vede, era manifesta la ferita del crudel giorno, al quale egli s’apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti a’ loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia molto impediva le loro viste, tanto che appena l’uno vicino all’altro si poteva vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che pareva che trapassando i nuvoli con le stelle si congiungesse, la quale pensando di dover passare, giá per la sua ertezza cominciavano ad allentare i loro passi. Sopra la detta montagna l’avversario re, da loro non conosciuto, giá era pervenuto con la sua gente, e quella notte sopr’essa per piú sicurtá del suo esercito, senza discendere al piano, s’era attendato. Ma giá avendo il sole con gli acuti raggi cominciato a dissolvere l’oscure nebbie, il re, che sopra l’alta montagna dimorava, nella sua mente imaginando il cammino che col suo popolo far doveva, ficcando gli occhi tra la folta nebbia nel fondo dell’oscura valle, vide la divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando, non altrimenti e’ s’arse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della risonante frombola vola, e volando imbianca per gli impeti che dinanzi trova alla sua foga; e con alta voce voltato a’ suoi cavalieri gridò: «Venite, franchi compagnoni e cari amici e fratelli, perciò che giá credo che i nostri nemici ci si manifestino». E poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò cosi: «Signori, se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sí come mostrato v’ho, parte de’ nostri avversarii giá essere nella profonda valle appiè del monte, e venir verso noi, ed essi, sí come io credo, ancora di nostro movimento, né delle nostre armi prese, niente sanno, né noi ancora qui hanno potuto vedere per la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi fossero da essere ovviati con aspro scontro senza piú dimorare, acciò che essi, non avvedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potessero prendere rimedio a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io sono certo che essi sono infino a questo loco venuti senza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso che essi cavalcano senza alcuna paura dissolutamente; perché assalendoli subito, gli troveremo senza alcuno argomento, e di loro avremo o la morte o la vita, qual piú ne piacerá: onde io vi priego che senza alcuno dimoro vigorosamente siano da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E giá vedeste voi, anzi che noi le nostre case abbandonassimo, che gl’iddii ne mostrarono segni di riconciliazione, e per piú certezza di questo ci dierono il santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi indirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato. Appresso a questo, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e per voler nelle nostre interiora bagnare le loro spade, senza ragionevole cagione; e vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle strane parti del mondo in doloroso esilio. Adunque, sí per lo laudevole augurio, il quale prospero fine ci dimostrò, e sí per la ragione la qual perfettamente ne mostra il difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli, ciascuno, sí come vigoroso cavaliere, debba le sue armi adoperare. Pensate che voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma di ritenere continuamente per la vostra maravigliosa fortezza quello che acquistato avete in molte vittorie per adietro avute. Simigliantemente ancora vi deve porgere molto piú ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme, essendo oramai quasi negli anni della mia ultima etá, alla quale piú tosto riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi debbono muovere ad esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello augurio che voi l’acquistiate». E, dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono segno di gran volontá di combattere, e le trombe sonarono e’ corni, e altri strumenti molti; e li cavalieri senza alcuno altro ordine si mostrarono cosí furiosi, come tal volta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi dell’antico bosco, seguendo la preda corre senza alcun ritegno, discendendo l’alpestro monte.
- Sí come gli impetuosi fiumi, i quali dall’alte montagne, turbati per la piovuta acqua, ruinosi impetuosamente caggiano senza ritegno, menando seco alcuna volta grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l’acque; cosí giú per la straripevole montagna, senza tener via o sentiero diritto, si dirupava l’iniquo esercito, goloso dell’innocente sangue, con un romore e con una tempesta sí di suoni, di corni, di trombe e d’altri crudeli strumenti, e sí del forte strepito dell’armi medesime de’ cavalieri, che tutta la valle faceva risonare. Giulia, piena di varie sollecitudini, sentendo il romore in prima s’avvide dell’iniqua gente; la quale, vedendoli sí tempestosamente venire, divenne come la timida cerva dinanzi al leone diviene, e divenuta fredda sí come i bianchi marmi, a Lelio timorosamente s’accostò, e con rotta voce cominciò a dire: «O Lelio, ov’è fuggito il tuo lungo avvedimento? Or non vedi tu quella gente armata che sí furiosamente verso di noi discende dall’alto monte? Che gente può ella essere? Come non provvedi tu al necessario rimedio or se essi vengono per offenderei?». A questa voce alzò Lelio gli occhi, e guardossi davanti, e vide il maladetto popolo ancora assai lontano, ma non tanto che il fuggire avesse potuto sé e i suoi compagni trarre dalle mani degli avversarii; onde egli alquanto pavido nella mente, rivolto alla sua compagna disse: «Non dubitare, fatti sicura, ché questi noi non cercano», tenendo con forte viso nascosa la paura; e poi cominciò a pensare, tra sé dicendo: «Certo costoro scendono sí furiosi per prenderei al varco della montagna, e vogliono da noi l’una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori privandone noi, o essi vogliono, sí come ribelli della nostra legge, privarci di vita, essendo giá loro in alcuno atto manifesta la nostra condizione. E dire che di qua fuggendo volessimo scampare, questo è impossibile, perciò che i loro cavalli freschi e possenti assai tosto sopraggiungerebbero i nostri affannati; e volendo noi con l’arme resistere, siamo picciola quantitá a sí gran moltitudine. Dunque aspettare solamente la loro pietá e misericordia, fermandoci, è il meglio, acciò che fuggendo noi non incrudeliamo piú gli animi loro; la quale pietá se essi concederanno, avanzeremo con Dio il nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga l’ultima parte della nostra salute».
- Giá tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, congiunti per lo loro scampo nella sua compagnia, disiderosi di pervenire a quel tempio medesimo dove costoro andavano, cominciarono tra loro a mormorare pèr la veduta gente; e giá quasi ciascuno dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopraddetto pensiero occupato, quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza, si voltò ad essi con pietoso aspetto, cosí parlando: Nobilissimi giovani e cari amici e compagni, che avete infino a questi luoghi seguiti i miei passi, faccendo me duce e principale capo di tutti voi, non per dovere, ma, essendone perfetto amore, mediante cagione, a’ miei orecchi sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente, che a’ nostri occhi giú per lo monte si manifesta, avete dette. Ond’io, essendo stato di voi ne’ prosperevoli passi lieto conducitore, ne’ dubbiosi non sosterrò, in quanto in piacere vi sia, essere voi per alcun altro condotti; ma, prendendo in questo caso luogo di franco e vero duce, prima il mio avviso vi narrerò, e poi i miei passi secondo il vostro consiglio proseguirò. Quando da prima agli occhi miei, per le parole di Giulia, queste genti che noi veggiamo corsero, incontanente, considerando il loco dove noi siamo, due pensieri nella mente mi vennero: l’uno de’ quali fu che costoro, bisognosi delle mondane ricchezze, veggendo il nostro arnese abbondante e forse avendone manifesto indizio, mossi si fossero e venissero per volere del tutto privarcene. La qual cosa se avviene che cosí sia, niuna resistenza si faccia loro a lasciarle prendere, ma liberamente di piano patto sia tutto l’oro donato, perciò che, lodando Colui che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono in Roma copiose di molto oro, e però a loro forse questo ancora fia molto e a noi poco sarebbe. L’altro pensiero fu questo, il quale molto piú che ’l primo mi spaventò, che io dubitai molto che costoro non recassero nelle loro mani la nostra morte, però che noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha piú perseguitori della nostra novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ora me ne accerta piú il vedere il modo per lo quale essi discendono a noi, ché voi vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate e con terribile romore, il quale andare non suole esser de’ predoni. E però a quest’ultimo, piú che al primo pensando, e nella mia mente ogni via esaminata, niuna utile per noi ne trovo, perciò che, sí come voi vedete, il voler fuggire nulla sarebbe, se non accender gli animi loro a maggiore ira, e forse dare loro materia d’offenderci, dove essi non l’avessero; e poi, come che noi volessimo pur fuggire, manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, perciò che da alte montagne d’ogni parte in questa valle ci veggiamo rinchiusi. E voler con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a rispetto di loro; e però a me pare che quivi siano da aspettare: e convocata la loro misericordia, se essi si muoveranno a pietá di noi, ringraziando Iddio, lo nostro cammino meneremo a perfezione, e se no, con le nostre braccia vigorosamente aiutandoci ci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali Giove per lungo tempo cessi da noi».
- Mentre Lelio le sue pietose parole porgeva a’ cari compagni, ciascuno, portando a se medesimo e a lui compassione, amaramente piangeva. Alcuni dicevano: «Oimè! vecchio padre, che vita sará la tua dopo la mia morte, se egli avviene che io muoia, il quale ora cresciuto doveva essere bastone che la tua vecchiezza sostenesse?». Altri piangevano i piccioli figliuoli rimasi in Roma con le giovani donne, ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l’abbandonate ricchezze per seguir Lelio. E tutti generalmente piangevano la cara compagnia e amistá tra loro e Lelio sí dolcemente congiunta, e che in sí breve tempo mostrava di doversi cosí amaramente partire. Ma ciò non durò molto spazio per li conforti di Lelio, lo quale diceva loro: «O vigorosi compagni, dove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Èvvi si tosto partito dalla memoria l’aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo, volendo piú tosto morir libero che vivere servo de’ suoi nemici, dando insiememente esempio a’ suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara libertá? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? credo che voi vie piú lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de’ vecchi padri, né delle giovani donne, né de’ piccioli figliuoli, né ancora dell’abbandonate ricchezze, le quali voi avete abbandonate in servigio di Colui che ve le donò, perciò che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, ed egli tutti a buon fine gli recherá. E non è gran fatto se in servigio di cosí gran donatore si pone alcuna volta il mortal corpo». D’abbandonar le lagrime si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca e per signore continuamente avevano tenuto e tenevano, e che piacea loro per inanzi tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ogni suo piacere erano disposti di mettere con lui insieme ad esecuzione, offerendosi di seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di resistere a’ nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli mise quelli giovani nelle cui forze piú si confidava, fece guidare ad un giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo uomo e ardito. La seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per cammino s’erano accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della tua terra, o Stazio sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella quale la maggior parte della sua poca gente riserbò, diede a conducere a Sulpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutti faccendo capitano e corregitore; e poi che cosí gli ebbe ordinati, parlò cosí verso loro:
- «Cari signori e compagni, sí com’io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso di noi venire con tanta furia, a noi della loro venuta la cagione è occulta. Ma tanto mi par bene ch’essi siano gente iniqua e ribelli alla nostra legge, presumendo ciò dal loco dove trovati gli abbiamo. Essendo tal gente, per niuna altra cagione si deve credere tanto furiosi venire a noi, se non per privarci di vita avanti che per noi alcuno scampo si possa prendere. Onde se questo avviene, che essi in noi le lor mani vogliano crudelmente distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminar la vostra fama eterna per viltá, ma continuamente nel preterito tempo voi e’ vostri predecessori avete poste l’anime e’ corpi per eternale onore. E che questo sia vero, l’inestinguibile memoria de’ nostri antichi il manifesta, la quale, ah!, quanto dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran forza d’Orazio Cocle vi torna a mente! Il quale, sí come voi sapete, al tempo che’ toscani entrarono in Roma con grandissime forze, giá essendo per prendere il ponte Sublicio e per passare nell’altra parte della cittá, andato sovr’esso, ritenne la loro potenza con aspri combattimenti infin che ’l forte ponte gli fu di dietro tagliato, e la cittá per quello tagliamento liberata. E similmente Marco Marcello, che assalí i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto oprò la sua forza, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quel che fece Publio Cassio per non esser soggetto ad Aristonico. Oh, quanti e quali esempli de’ nostri antichi si potrebbero porre! E tutti non tanto per sé quanto per la repubblica sostennero gravosi affanni e pericoli. Or dunque noi, che qui per salute di noi medesimi e per l’onore di tutti siamo a sí stretto partito, che dobbiamo fare? Certo piú vigorosamente combattere, anzi che noi, che giá molti servi francammo, divegnamo servi de gli iniqui barbari e siamo da loro vilmente uccisi. Ma perciò che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattitori, porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sí come fanno le timide pecorelle a’ fieri lupi senza alcuna difesa, ma fate che essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi in questo loco contro a costoro siete in loco di campioni e forti difenditori della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell’empie mani di Pluto, nelle quali il nostro primo padre disubbidendo miseramente ci mise, sapete quanto obbrobriosa e crudel morte sostenne! Dunque non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in esaltamento della sua legge e per salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s’avvien che muoiano, per la presente morte l’anime meriteranno perdono ed eterna fama ed esser loro rimesse le preterite offese., con ciò sia cosa che niuno viva senza peccare; e le nostre anime viveranno in eterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate, sí come noi visitavamo il santo tempio: al quale ancora io spero che lietamente e tosto perverremo. E perciò ciascuno si porti vigorosamente».
- Giulia, la qual dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a dolersi, e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di core, vedendola, s’avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante, e in cotal maniera parlò a Lelio: «Oimè! dolce signor mio, questo non è l’intendimento per lo quale noi abbandonammo le nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire al santo tempio del benedetto Iddio, posto in su gli stremi liti d’occidente: e tu ora pare che voglia con arme cominciare a muovere battaglie. Deh! ora pensa se a’ pellegrini sta bene cosí fatto mestiero? certo no. Deh! almeno perché ti affretti tu cosí di combattere? Che sai tu chi costoro si siano? Non credi tu che le diverse nazioni del mondo abbiano tra sé altra nimistà che quella dei romani? Io dubito forte, ed è da dubitare, che essi veggendo armati te e’ tuoi compagni, forse credono che voi siate quelli nemici che essi vanno cercando, è per questo avranno cagione di cominciar la forse non pensata battaglia, e avranno ragione. Lascia adunque governar questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese armi tu co’ tuoi compagni. E se tu disarmato temi le loro lance, credi tu che siano tanto crudeli, e sì vili, che andassero armati a ferire i disarmati? certo no. E tu simigliantemente per adietro co’ tuoi prieghi solevi attutare l’acerba volonta della giovinaglia romana, superba per troppo bene non conquistato da lei, e non ti fidi con le tue parole ammollare l’ira di costoro se sopra a te adirati venissero? Forse tu imagini di non essere ascoltato da loro: or credi tu che questi siano nati delle dure querce o dell’alpestre rocce, che essi non abbiano pietà, o che essi non ascoltino le tue parole? le quali sì tosto come udiranno piene di soavità, cosí daranno incontanente loco alla nostra via. Deh! non ti recare a volere la forza del tuo picciolo popolo sperimentare con sí grande esercito, ch’egli è fortuna e non ragione, quando da cosí fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i tuoi compagni volentieri senza prendere armi si sarebbero stati, perché essi conoscono il pericolo, se a te non l’avessero vedute pigliare? Ma tu, prendendole, ne se’ stato loro cagione. E se tu pur dubiti della crudelta di coloro, molto meglio è fuggire mentre che noi possiamo, che voler combattere con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi valloni, ne’ quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi in un’altra. Deh! non aspettiamo piú le punte di quelli ferri, i quali, veggendoli, giá mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura. Niuno nemico deve piú volere dal suo avversario, che vederlosi fuggire dinanzi, mostrando di temere la sua potenza. Però se elli vengono per offenderei, essi saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo tra loro, riterranno i correnti cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe non curiamo, solamente che noi scampiamo dalle loro mani. Poi se lecito non c’è d’andar piú avanti, torniamo prima a Roma che noi voler morire e non sapere come: perciò che ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il piú che puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del signore, né cosí fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati, !asciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze, le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio, concedendolo Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte sia il mio consiglio udito e osservato da te, e non guardare che feminile sia, perciò che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente sono presi dall’uomo. Sia questa la prima e l’ultima grazia a me conceduta in questo viaggio, nel quale alcuna altra dimandata non t’ho». Queste parole e molte altre, piangendo, Giulia fortemente diceva, abbracciando sovente Lelio e rompendogli le parole in bocca, alle quali egli, ascoltato un pezzo, rispose cosí:
- «Giulia, queste non sono le parole le quali in Roma nelle nostre case mi dicevi, quando di grazia mi chiedesti di voler venire meco nel presente viaggio. Com’è il tuo virile ardire cosí tosto fuggito? Tu dicevi che piú vigorosamente sosterresti ne’ bisogni l’arme e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate; e io aveva intendimento d’aggiungerti al numero de’ miei cavalieri con l’armi indosso, se non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente per la veduta d’uomini de’ quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo certi, né sappiamo se sono amici o nemici, vuogli non sapendo per che, pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu a Cesare, il tuo antico avolo, il quale ardire e prodezza ebbe piú che alcuno altro romano avesse mai. Ora, cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato ed esaminato, e niuno piú utile che quello ch’è preso troviamo per la nostra salute. E credi che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s’acquistino, ma virtuosamente affannando: e però taci e nelle nostre virtú come noi medesimi ti confida».
- Udendo Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, piú amaramente piangendo gli si gittò al collo, dicendo: «Poi che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né me far lieta della dimandata grazia, fammene un’altra, la quale l’ultima sia a me di tutte quelle che fatte m’hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate saranno co’ non conosciuti nemici, e che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che verso te dirizzeni l’acuta lancia, io misera, come tuo scudo, riceva il primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri d’offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, perciò che un solo colpo terminerá infiniti dolori. O me sconsolata! se egli avvenisse che io senza te mi trovassi viva, qual dolore, quale angoscia mai fu per alcuna misera sentita sí noiosa, che alla mia si potesse assimigliare? E quel che piú mi recherebbe pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se questo avvenisse, io senza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe segui il suo misero Piramo, cosí la mia anima, cacciata dal mio corpo con acuto coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m’è serbata: e io, la quale spero d’andare ne’ santi regni di Giove, ti farò fare presto degno loco alla tua virtú». Mentre costei cosí, pietosamente piangendo, parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato il viso delle sue lagrime, il suo cuore per grave dolore temendo di morire, chiamate a sé tutte l’esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che la voleva confortare, veggendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la portò in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a giacere vi pose suso, e raccomandandola ad alquante damigelle di lei, prestamente risalito a cavallo, tornò a’ suoi compagni. Oimè, Lelio, dove ora lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non devi rivedere? Deh! quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtú tanto tempo caramente congiunti, e ora nell’ultimo partimento non consentí che voi v’aveste insieme baciati, o almeno salutati. Tu vai, o Lelio, al tuo pericolo correndo, ed ella semiviva abbandoni ne’ suoi danni. Oh! quanto le fia gravoso piú il ritornare a sé degli spiriti, i quali vagabondi par che vadano per lo vicino aere, che se mai non ritornassero, perciò che con minor doglia le parrebbe d’essere passata. A’ quali compagni ritornato, Lelio li trovò sí animosi della battaglia per le predette parole, che, poco piú che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per andar contra i loro nemici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale aveva menato con seco per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sí alto che tutti potevano vedere, voltato a’ suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero Giove per la loro salute. E cosí senza discender de’ loro cavalli, in atto reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti, disse cosí: «O sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtú con perpetua ragione si governa l’universo, se tu per alcuno priego ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente bisogno porgine il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, cui niuna cosa si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente perché la tua vera legge per negligenza di noi non s’occulti sotto la falsa volontá di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le sia ribelle. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, senza il quale indarno s’affatica ciascuno operante, e poi alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne’ tuoi servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene oprare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, senza dovere, nel nocente». Appena ebbe finito Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una nuvoletta tanto lucente che appena potevano con li loro occhi sostenere tanta luce; della quale una voce uscí, e disse: «Sicuramente e senza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi a vendicar le vostre morti; e senza alcuna ammirazione le presenti parole ascoltate, che tal volta convien che ’l sangue d’un uomo giusto per salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero tempio di Colui che voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate alla vostra vittoria vi donerò». E questo detto, come subita venne, cosí subitamente sparve. Allora Lelio e i suoi lieti si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro armi, s’apparecchiarono di resistere a’ lor nemici, i quali con grandissimo romore giá s’appressavano a loro.
- Non credo che ancora i giovani compagni di Lelio avessero ripreso nelle destre mani le loro lance, ripieni per le udite parole di vigoroso ardire e disideranti di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro il nimico esercito si scontrò molto vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte potevano, essendo gittati, ferire i loro avversarii. Gli acuti raggi del sole, il quale aveva giá dissolute le noiose nebbie, gli lasciavano insieme apertamente vedere, e quelli, che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte senza alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati e con aguzzata schiera, superbi negli aspetti, aspettarli fermati, dubitarono di correre alla mortale battaglia cosí subiti. I divoti giovani stavano feroci avendo giá dannata la loro vita, sicuri della battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga: e niuno romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a picciolo passo mosse la prima schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all’altre che senza bisogno non li seguissero. E giá innumerabile quantitá di saette e d’appuntati dardi era sopra i romani giovani discesa, gittata dagli archi di Partia e dall’ arabe braccia, quando Lelio, nell’animo acceso di maravigliosa virtú, mosso il possente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto pareva guidatore e maestro di tutti gli altri, al quale niuna arme fè difesa, ma morto cadde del gran destriero. Questi portò in prima novelle, dell’iniqua operazione commessa da Plutone, a’ fiumi di Stige; questi in prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li romani ferri. Sesto, che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone uno altro, diede compagnia alla misera anima. E de’ valorosi giovani seguenti i loro capitani, niun ve n’ebbe che men buono principio facesse che Lelio, ma tutti valorosamente combattendo, abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. Essi aveano la maggior parte di loro, per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le quali percosse da’ chiari raggi del sole riflettendo minacciavano i sopravvegnenti nemici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti senza alcuna paura combattevano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti procedevano, combattevano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e resistenti trovarono. E mentre l’aspra pugna durava, la moltitudine dell’iniqua gente abbondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da viva forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale aveva giá abbattuto il suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirati indietro; allora volta la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuí dicendo: «L’ora della vostra virtú disiderata è presente: spendete le vostre forze. Alla nostra salute non manca altro che l’operar de’ ferri aiutati dalle nostre braccia. Qualunque uomo disidera di riveder l’abbandonata patria, i cari padri, i figliuoli e le mogli, e’ lasciati amici, con la spada gli dimandi: Iddio ha poste tutte queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione e che ci porge speranza di vittoria, è il valore di noi pochi combattitori, perciò che la grande quantitá de’ nemici impedirli loro medesimi ristretti nel picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino i vostri padri, e le vostre madri, e’ vostri figliuoli piccolini, e in ginocchioni lagrimando preghino che voi adoperiate sí l’arme, che voi vi rendiate a loro medesimi vincitori; sí che poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli facciate in una medesima ora««. Le parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de’ romani giovani, i quali sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non picciola quantitá della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gía riguardando la gente del suo signore, per picciola quantitá di combattitori invilita, voltarsi verso le sue insegne: e come stimolo de’ suoi e rabbia dell’empio popolo, per tema che ’l cominciato male non perisca, da alcuna parte si parò dinanzi a’ paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada, e chi aveva le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatteva bene e chi no; e questo veduto, parlò cosi: «Ah! vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale speranza di guiderdone rivolgi i tuoi passi verso le riguardate bandiere? Certo la mia spada taglierá qualunque uomo arditamente non combatterá co’ nemici». Le spente fiamme de’ barbarici cuori alquanto per le parole di costui si ravvivarono, onde essi rivoltarono i ferocissimi visi verso il poco numero dei valenti romani. Scurmenide accendeva i cuori con le sue voci, e dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i contrarii senza alcuna pietá fossero uccisi. Egli commoveva e faceva andare innanzi i suoi, e coloro che si cessavano sollecitava con la battitura della rivolta asta, e si dilettava di veder bagnare i freddi ferri nell’innocente sangue. Grandissima oscuritá di mali vi nasceva e tagliamenti e pianti, a similitudine di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori. L’armi sonavano per lo peso de’ cadenti colpi, le spade erano rotte dalle spade. Sesto co’ suoi non poteva piú sostenere, perciò che la picciola quantitá era ridotta a minor numero d’uomini. Lelio, che i casi della battaglia tutti provvide con sollecita cura, con altissime voci e con manifesti atti provocò la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che lungo spazio avea sostenuto il disio dell’azzuffarsi, mové sé e’ suoi, i quali con dovuto ordine e volenterosi sottentrarono a’ gravi pesi del combattere. E nel primo scontro s’indirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo l’acuta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l’abbatté morto. Molti n’uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle sue mani una tagliente scure, e sostenendo il sinistro corno della battaglia, andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano. E Lelio e Sesto nel destro corno della battaglia combattevano. Un ardito arabo, il quale Meneab si chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo faceva del barbarico popolo con la nuova arma, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l’avvisò sotto il braccio nell’alzare ch’egli facea della scure, e quivi feritolo con una velenosa saetta credette averlo morto. Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi come se niuna doglia sentita avesse, con la propria mano trasse la venenata saetta dalle sue carni fuori. E ripresa la scure e dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che giá s’era apparecchiato di gittar l’altra, sopraggiuntolo, gli diè sí gran colpo sopra la testa che in due parti gliela divise. Quivi fu egli da molti de’ nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra il quale, poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente. La furiosa gente gli si premeva tutta adosso, ed egli uccideva qualunque nemico gli s’appressava. E giá n’avea tanti uccisi dintorno a sé, che, quanto la sua scure era lunga, per tanto spazio dattorno a sé aveva co’ corpi morti agguagliata l’altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto, ma in loco di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri combattitori. Infinite saette e lance senza numero ferivano sopra Artifilo, del quale il forte elmo era in molti pezzi diviso. E giá era piú carico di saette, fitte per lo duro e forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s’ardisse d’appressare. Ma egli, sopra i corpi morti andando, s’appressava a’ suoi nemici uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che lo soccorressero. Veggendo questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra’ suoi cavalieri, lui ferí con una grossa lancia nel petto, ed egli, giá debile per lo mancato sangue, cadde in terra, lá dove da’ compagni di Tarpelio fu morto senza alcuna dimora. Lelio, che aveva gli occhi volti inverso quella parte, e molto si maravigliava della gran virtú d’Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le lagrime, ma sotto l’elmo chetamente per pietá bagnò il suo viso; e abbandonato Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de’ compagni d’Artifilo rimasi vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro compagno e capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i suoi pochi compagni. Ma poi che egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito, combattere ed essere male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse la terza schiera di Sulpizio Gaio, loro ultimo soc-corso; al quale Sesto e quelli che erano nella battaglia pochi rimasi delle due prime schiere, tutti s’accostarono, e ricominciarono sí forte la sventurata zuffa, che alcuna volta prima non v’era stata tale. E con ciò fosse cosa che i resistenti fossero molti, alla loro moltitudine il picciol loco noceva, perciò che l’uno impediva la spada dell’altro per istrettezza: onde Sesto e Sulpizio, li quali avanti agli altri vigorosamente combattevano co’ pochi loro cavalieri per forza uccidendogli, gli facevano rinculare e fuggire ne’ campi ancora non bagnati d’alcun sangue. Il re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto raffreddò l’ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili suoni de’ battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E tanta polvere coperse l’aere con la sua nebbia per la furia de’ correnti cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la superba e nova compagnia de’ cavalieri sopravvenne adosso agli stanchi combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, perciò che non fu lecito a’ cavalieri di Lelio d’andare adosso a’ nemici, si furono subitamente intorniati di lunge e da presso con le piegate e con le diritte lance. La piova delle saette mandate dagli affricani bracci, e le gittate lance avevano coperto la luce alla picciola schiera de’ romani, i quali s’erano in picciola ritondita raccolti, tanto che per le sopravvute saette, senza potere fare alcuna difesa, si morivano e rimanevano ritti e’ loro corpi sostenuti dagli stretti compagni. Sulpizio, il quale non aveva ancora le sue forze provate, fu il primo che partito dalla ritonda schiera uscí correndo forte verso il re, il quale s’apparecchiava d’affrettare la loro morte, e ferillo sí vigorosamente sopra l’elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon soccorso de’ suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto ricominciarono la battaglia, faccendosi fare con le loro spade amplissimo loco. Ma Sesto fortunosamente correndo tra’ nemici fu intorniato da loro, e mortogli il cavallo sotto, e caduto in mezzo del campo, anzi che egli debile rilevar si potesse, fu miseramente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di grave dolore conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dell’annunzio fatto loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il popolo, disse cosí: «O sommo Giove, e tu beato Iddio, il cui tempio visitar credevamo, poi che a voi è piaciuto che i nostri passi piú avanti che questo luogo non si distendano, io non intendo di volere, co’ pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga abbandonar l’anime di quelli che avanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se vostro piacere è». E dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale voleva spogliare le pertugiate armature a Sesto, e ferillo sí forte sopra il sinistro omero con la sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo a terra, e lo fece cader morto sopra Sesto. Egli cominciò a far sí maravigliose cose, che nullo ve n’aveva che non se ne maravigliasse. E Sulpizio non si portava male. E i pochi compagni cominciarono piú aspramente a mostrare le loro forze che non avevano fatto per adietro, ma poco poterono durare. Il re, che d’ira ardeva tutto dentro, veggendo Lelio sí maravigliosamente combattere, e aver giá perdute per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece vicino, e gittatagli una lancia il ferí nella gola, e l’abbatté morto a terra dal debile cavallo. Sulpizio, veggendo questo, corse con la sua spada in mano per fedire il re e per vendicar la crudele morte del suo amico, ma un cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò dinanzi al colpo, il quale, disceso sopra il chiaro cappello d’acciaio tagliandolo, il fendé quasi infine a’ denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo colpo, non la poté riavere. Onde egli, assalito di dietro da’ nemici, fu crudelmente ucciso. Nel campo non era piú alcuno rimase de’ miseri compagni, anzi senza altro combattimento rimase il re Felice vittorioso nel misero campo, faccende cercare se la misera fortuna n’avesse alcuno riposto con cheto nascondimento tra’ suoi medesimi. Ma poi che alcun non ne fu vivo trovato, egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte, che al nuovo giorno poi procederebbero.
- Veggendo il re che i fortunosi casi avevano conceduta la vittoria alle sue armi, in se medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche e guardando con torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantitá de’ suoi cavalieri giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l’allegrezza della dolente vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in amare lagrime, imaginando l’aspetto de’ suoi cavalieri, i quali tutti sanguinosi giacevano morti al campo, e udendo le dolenti voci e ’l triste pianto che i suoi medesimi feriti facevano per lo campo. Egli diede a’ suoi cavalieri libero arbitrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro rubate, e che ciò che ciascun prendesse fosse suo, la qual cosa in brieve spazio fu fatta. Essi disarmarono tutti i romani con preste mani, e non ne trovarono alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantitá di nemici morti, e che non fosse passato da cento punte. E i miseri cavalieri, che questo andavano faccendo, avevano perduta la conoscenza de’ loro padri, fratelli e compagni che morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi che essi, nettandoli co’ propri panni per riconoscerli, ve n’ebbero ritrovati molti, e tutti i piú valorosi, il pianto e il romore cominciò si grande, che il re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti, ricogliendoli dentro ne’ chiusi campi.
- O misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane cose! O v’è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu all’ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? O ve la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace ne gli strani campi. Almeno gli avestú concedute le romane lagrime, e che le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e che l’ultimo onor della sepoltura gli si avesse potuto fare! Aveva giá, nel brieve giorno, Pean, che nell’ultima parte della guizzante coda di Amaltea, nutrice dell’alto Giove, dimorava, trapassato il meridiano cerchio, e con piú studioso passo cercava l’onde d’Esperia, quando Giulia misera dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentí piangere le dolenti compagne, che giá i loro danni avevano veduti; alle cui voci subitamente levatasi, disse: «O me misera, qual è la cagione del vostro pianto?» E riguardandosi dattorno non vide il caro marito, nelle cui braccia aveva perdute le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime, disse: «Misera me! or dov’è fuggito il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute l’insegne al mio marito contro a’ non conosciuti nemici!». E dicendo queste parole, quasi uscita di sé si dirizzò, e i miseri fati le volsero gli occhi verso quella parte, che le doveva mostrare il suo dolor manifestamente; e verso quella mirando, sentí lo spiacevole romore degli spogliatori, e vide il giá secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno della nemica gente. Allora il dubitante core ii quello che avvenuto era, manifestamente conobbe i suoi grandi danni. Ella non fu dalla feminile forza delle sue compagne potuta ritenere, che non andasse tra’ morti corpi senza alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani ne’ biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a tor dell’usato ordine. I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere. E bagnando delle sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente sicura contro i nemici ferri, incominciò a cercare tra’ morti il corpo del suo caro marito, dicendo alle sue compagne: «Lasciatemi andare, e’ non è convenevole che cosí valoroso uomo rimanga ne’ campi lontani dalla sua cittá, senza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha negate le lagrime del suo padre e de’ suoi parenti e del romano popolo, non gli vogliate anche torre queste della misera moglie». E andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi morti con le proprie mani rivolgeva, per ritrovare il suo misero marito, ma i sanguinosi visi nascondevano la manifesta sembianza all’intelletto. E poi che ella n’ebbe molti rivoltati, riconosciuto alle chiare armature il suo Lelio, il quale di molti morti nemici morto attorniato giaceva, quivi sopr’esso semiviva piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente si cominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le tenere gote. E avevasi giá si concia, che tra il vivo e ’l morto sangue che sopra il viso le stava, non Giulia, ma piú tosto uno de’ brutti corpi morti nel campo pareva. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell’ampie piaghe di Lelio, anzi l’aveva giá quasi tutte piene d’amare lagime. Ella spesse volte il baciava e abbracciava strettamente, e nell’amaro pianto, riguardandolo, diceva cosí: «Oimè! Lelio, dove m’hai tu abbandonata? ove m’hai tu lasciata tra gente barbarica diversa da’ nostri costumi, de’ quali io alcuno non conosco? Almeno mi facesse Giove tanto di grazia, che la loro crudeltá fosse con le loro mani adoprata in me, sí come essi l’operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietá in quelli petti ov’ella non fu mai. Almeno sarei io piú contenta che la mia anima seguisse la tua ovunque ella andasse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte. Deh! perché non fu lecito al tuo virile animo di credere al feminile consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo insieme vivuti lieti. Dove fuggí la tua pietá, quando tu in dubbio di morte nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi dalle tue schiere? Come non aspettasti tu che io almeno t’avessi veduto prima che tu fossi entrato nell’amara battaglia, e che io con le proprie mani t’avessi allacciato l’elmo, il quale mai per mia volontá non sarebbe stato legato, perciò che io conosceva sola la fuga essere rimedio alla nostra salute? O me dolente, quant’è sconvenevole cosa volere adempiere l’uomo i suoi desiderii contra il piacer di Giove! Noi desiderammo miseramente i nostri danni in quell’ora che noi dimandammo di aver figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella allegrezza Giove senza alcun voto ci avrebbe conceduta. O iniquo pensiero, o sconvenevole volontá, recate la morte a me, che non l’ho meno meritata che costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato lecito di pararmi dinanzi a’ crudeli colpi, i quali costui innocente sostenne, sí come io aveva di grazia dimandato! Omai non è al mio dolore piú rimedio se non tu, morte! O morte, io come misera ti priego che tu non mi risparmi, ma che tu venga a me senza alcuno indugio. Tu non devi mai piú esser crudele, e massimamente a’ prieghi delle giovani donne, in tal luogo se’ stata! Deh! piacciati prima di farmi fare compagnia ne’ miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo esempio di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar piú! O me dolente! come ho io malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti del bestiale sangue, temendo non fosse stato offeso, costrinse l’anima a partirsi dal misero corpo subitamente, rendendola a’ sommi iddii. Oh! quanto le fu prosperevole il morire, perciò che morendo gli occhi suoi non videro quella cosa che per dolore condotta l’avrebbe a maggior pena e dopo a morte, ma morendo vinse il dolore. E io, misera!, davanti agli occhi miei veggo il mio dolore, e non mi è lecito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per paura sento che cerca l’ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltá. Oimè, morte, io, t’addomando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i dispregiatori delle loro potenze s’ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fedeli: e tu coloro che piú ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori della tua potenza lungamente, e di questi sempre piú tardi che degli altri ti vendichi. Oh, quanto misero è colui, che cosí comunal cosa, come tu se’, gli manca al suo bisogno! Ella, piangendo, piú volte con acuti ferri caduti per lo campo si volle ferire il tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri rubatori e diceva: «Deh! crudeli cavalieri, i quali senza alcuna pietá metteste l’acute lance per l’innocente corpo, ammendate il vostro fallo divenendo pietosi: deh! uccidete me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava, e fate che io sia del numero degli uccisi. Questa pietá sola usando vi fará meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente operato. E dette queste parole, tornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si poteva veder sazia, anzi l’aveva giá tutto con le lagrime lavato, e piangendo forte sopr’esso si dimorava dolente.
- Ma poi che il sole nascose i suoi raggi nell’oscure tenebre, e le stelle cominciarono a mostrar la loro luce, il campo si cominciò con taciturnitá a riposare, sí per l’affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva a gli affannati membri riposo, e sí per l’allegrezza della vittoria che molte menti aveva nel vino sepellite. Sol l’angoscioso pianto di Giulia e delle sue compagne faceva risonare la trista valle, e questo risonava negli orecchi del vittorioso re. Ed egli, che ne’ tesi padiglioni si riposava, udendo quelle voci, chiamò un nobile cavaliere, il quale s’appellava Ascalione, e disse: «Or di cui sono le misere voci che io odo, sí che non lasciano partire della nostra mente in modo alcuno la crudele uccisione fatta nel passato giorno?». «Sire» disse Ascalione, «io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie d’alcuno del morto popolo, e cosí mi par d’avere inteso da’ compagni, e similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta». Allora gli comandò il re che andasse ad essa, e comandassele ch’ella tacesse, acciò che ’l suo pianto non aggiungesse piú cagione al dolore del preterito danno. Mossesi Ascalione con alquanti compagni, e per la scura notte con picciol lume, per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andò in quella parte dov’egli sentí le dolenti voci, e pervenne a Giulia; alla quale, come Ascalione la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso, mosso dentro a pietá, quasi lagrimando disse: «O giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io ti priego, per quella nobiltá che ’l tuo aspetto mi rappresenta, che tu ti conforti e ponga fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch’ella si sia, non credo che per lo tuo pianto si possa ammendare, ma piú tosto piangendo aumentare la potresti. E noi medesimi, i quali abbiamo ricevuto danno, se volessimo ben pensare, certo non faremmo mai altro che piangere considerando quel che è fatto: pur ne ingegnamo di dimenticare quello che non vuole fuggire dalle nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi dinanzi al suo cospetto. Giulia, udendo la romana loquela, la quale Ascalione, lungamente dimorato in Roma, appresa aveva, alzò il viso verso di lui, forse credendosi che fosse alcun de’ miseri compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere, veggendo che quello era dell’iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro, disse: «Niun conforto sentirá l’anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m’avete con le vostre spietate braccia ucciso colui il quale era il mio compagno, il mio conforto e la mia ultima speranza. Acciò che l’anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio Lelio, questo conforto graziosamente vi dimando, e questo sia l’ultimo bene che io aspetto, e a voi fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanto sangue, che io non accrescerò la somma de’ vostri peccati per la mia morte, ma la farò minore per la pietá che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste numero de’ morti corpi, acciò che si possa dire: ‛Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella fu morta con lui insieme ne’ sanguinosi campi’. E se voi non volete usar questa pietá, almeno prestate alle mie mani la tagliente spada, e consentite che, senza briga di queste mie compagne, io possa morire, essendone le mie mani cagione». Ascalione e’ suoi compagni, che vedevano il chiaro viso tanto rigato di vermiglio sangue, lagrimavano tutti per pietá di costei; e piangendo egli le rispose e disse: «Giovane, gl’iddii facciano le mie mani di lungi da sí fatto peccato. Certo oggi io fuggii per non bagnarmi nella dolente uccisione: ma tu, perché piangendo e sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché disideri d’incrudelire contro a te medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? questo sarebbe impossibile. Ma levati su, e non volere, per qui stare, alla sopravvegnente notte apparecchiare la tua bella persona alle salvatiche bestie, le quali alla tua salute potrebbero essere contrarie, perciò che vivendo ancora potrai forse riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar di venire alli reali padiglioni con le tue compagne, ch’io ti giuro, per quelli iddii ch’io adoro, che, mentre essi mi concederanno vita, il tuo onore e delle tue compagne sani sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia. Ora ti leva, non dimorare piú qui, vieni alla presenza del nostro signore, il quale, ancor che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onoreRá come degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventariano gli infiniti spiriti de’ morti corpi, spartI per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli scellerati uomini che sogliano essere ne’ tumultuosi eserciti, i quali, trovandoti qui, non si curerebbero di contaminare il tuo onore e delle tue compagne? Deh! vieni adunque, che vedi che io e’ miei compagni per compassione di te righiamo i nostri visi d’amare lagrime». Giulia non faceva altro che piangere; e ben ch’ella fosse molto dolorosa, non per tanto dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle nell’avversita parere villana a’ divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso con le sue mani un bianco velo, e coperto il palido viso di Lelio e con un suo mantello tutto il corpo, si volse ad Ascalione e disse: «I vostri prieghi hanno sí presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere al niego di quello che dimandato m’avete. E poi che Iddio e voi mi negate la morte, questa cosa ch’io piú disidero, io m’apparecchio di venire in quelle parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando primieramente me e appresso le mie compagne e ’l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che guida i vostri membri, che come di care sorelle il riserbiate, e non consentiate che di quello, di che le misere anime de’ nostri mariti, rinchiuse ne’ mortali corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare». E volendosi levare, per la debolezza tra le sue compagne cadde supina. Allora Ascalione teneramente per lo destro braccio la prese, e dall’altra parte un suo compagno sostentandola e con dolci parole confortandola, e con lento passo andando, pervennero alle reali tende; alle quali entrati, il re vedendo costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo giá udito da Ascalione gran parte della condizione di lei, comandò ch’ella fosse onorata. Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pure gli s’inginocchiò dinanzi e lagrimando disse: «Alto signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto, nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuto avere. Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne’ loro danni sentissero maggiore doglia che io senta in quello che ho da voi ricevuto, né credo che sí affettuosamente alcuna di loro disiderasse de’ suoi nemici vendetta, com’io disidero di voi, sol che prendere la potessi. Ma poi che la fortuna m’ha il potere levato, e fattami vostra prigioniera, datemi, per guiderdone della fiera volontá c’ho verso voi, la morte». Non sofferse il re che Giulia stesse in terra dinanzi a lui, ma con la propria mano levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e rispose cosí: «Giovane donna, il vostro lagrimoso aspetto non solo m’ha fatto divenire pietoso, ma quasi m’invita con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare, il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole esser de’ miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell’ora che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E perciò che io conosco che ora voi piú adirata che consigliata dimandate la morte, e mostrate verso me crudel volonta, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora l’adirate parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro a voi del tutto adirata, bench’ella vi abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che sia stato il meglio rimanere in vita, sí per voi e sí per l’anima del vostro marito. Ma ditemi, se v’è in piacere, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi voi siete, e donde e dove voi andavate».
- Giulia, piangendo, con pietosa voce gli rispose: «Io sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le proprie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al santo Dio, posto nell’ultime fini de’ vostri regni, per lo ricevuto dono della mia pregnezza». Udendo questo il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse: «Oimè! or dunque non foste voi con quelli assalitori del mio regno, i quali all’entrare in esso arsero la ricca Marmorina?». «Signor no» rispose Giulia, «ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di nobile popolo.» Allora dolse al re molto di quello che era fatto; e sospirando disse: «O giovane donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quel che oramai non può tornare indietro, e che ci dole. E non è dubbio che voi abbiate nel preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma perciò che il nostro lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a chi il lagrimare stia bene, a me si disdice, il quale col proprio viso a confortare ho i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo il ripreso conforto, s’a voi piacerá altro marito, io ho nella mia corte assai nobili cavalieri, de’ quali chi piú vi piacerá, in guiderdone dell’offesa che fatta vi fu, vi donerò volentieri; e se voi alle ceneri del morto marito vorrete pure serbar castitá, continuamente in compagnia della mia sposa come cara parente vi farò onorare. E se l’esser meco non vi piacerá, io vi giuro per l’anima del mio padre che, dopo l’alleviamento del vostro peso, infine a quella parte ove piú vi piacera d’andare, onorevolmente vi farò accompagnare. A dire quanto mi dolga di quel che è fatto per lo mio subito furore, sarebbe troppo lungo a narrare, perciò che ho perduto un caro nipote e molti buoni cavalieri, e voi senza vostra colpa offesi». Giulia non rattemperò per tutte queste parole il dolente pianto, ma, piangendo, nell’animo savio diliberò di stare, considerando che molto valea meglio di rimanere al profferto onore, fingendo il suo mal talento, infine che fortuna la ritornasse nel pristino stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta da dolenti singhiozzi, rispose: «Signor mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal vostro piacere». Comandò allora il re che in un padiglione, sotto la fidata guardia d’Ascalione, ella e le sue compagne fossero onorate.
- Come il nuovo sole uscí nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia, verso Siviglia, antica cittá negli Esperii regni, presero il cammino; ma avanti che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia dimandò che ’l corpo del suo Lelio esca de’ volanti uccelli non rimanesse. Al quale il re comandò che onorevole sepoltura fosse data, e a tutti gli altri che piacesse a lei. Fu allora Lelio, con molti altri, con molte lagrime sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.
- Rimaso solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero a pascersi sopra i mortali pasti. E i leoni africani corsero al tristo fiato tingendo gli acuti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il tristo fiato della bruttura dell’insanguinato tagliamento, lasciarono l’antiche selve e i secreti nascondimenti delle loro caverne, E i fedeli cani abbandonarono le case de’ lor signori: e ciò che con sagace naso sentí il non sano aere si mosse a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avevano seguitato i celesti pasti, si raunarono; e l’aere mai non si vestí di tanti avoltoi, e mai non furono tanti uccelli veduti insieme adunati, se ciò non fosse stato nella misera Farsaglia, quando i romani prencipi s’affrontarono. Ogni selva lí mandò uccelli: e i tristi corpi, cui la fortuna non avea conceduto né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le loro carni pascevano gli affamati rostri. E ogni vicino arbore pareva che gocciolasse sanguinose lagrime per li unghioni sanguinosi che premevano sopra gli spogliati rami: il passato autunno gli aveva spogliati delle loro foglie, e’ crudeli uccelli col morto sangue premuto da’ loro piedi gli avevano rivestiti di color rosso, e i membri portati sovr’essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abbandonati dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de’ morti non era tutto mangiato infino all’ossa, che, ancor che squarciato dalle fiere si partisse, gran parte ne giaceva rifiutato, ben che dilacerato fosse tutto: il quale il sole e la pioggia e ’l vento maceravano sopra la tinta terra fastidiosamente, mescolando le romane ceneri con le barbariche non conosciute.
- Entrò il re Felice vittorioso con gran festa in Siviglia; e poi che egli fu smontato del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti abbracciamenti dell’aspettante sposa, egli prese l’onesta giovane Giulia per la mano destra, e dinanzi alla reina sua sposa la menò dicendo: «Donna, tieni questa giovane, la qual è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando, e priegoti ch’ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinitá congiunta, e ogni onore e ogni bene che puoi, usa verso di lei». Teneramente la reina ricevette, a’ prieghi del re, Giulia e le compagne; ma non dopo molti giorni, partendosi il re da Siviglia, con lui se ne andarono a Marmorina: nella quale giunto, il re vide quello non essere che falsamente Plutone, in forma di cavaliere, gli aveva narrato; e, trovato ancora vivo colui il quale morto credeva aver lasciato ne’ lontani boschi, forte in se medesimo si maravigliò, e disse: «O gl’iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato. A me pur con vera voce pervenne che la presente cittá era da romano foco accesa, e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di cosí fatte cose pur mori nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti vivo mi sta presente». In questi pensieri lungamente stato, non potendo piú la nuova ammirazione sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale giá credeva che nell’arene di Spagna fosse dissoluto, e dissegli: «Le tue non vere parole t’hanno degna morte guadagnata, perciò che non è ancora passato il secondo mese, poi che elle mossero il nostro costante animo a grandissima ira e ad iniqua operazione senza ragione. Or non ci narrastú la distruzione della presente cittá con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo senza alcun difetto? Tu fosti cagione di farci muovere tutto il ponente contro l’inestimabile potenza de’ romani, del qual movimento ancora non sappiamo che fine seguire ne debba. Maravigliossi molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilmente: «Signor mio, in voi sta il farmi morire e il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai non me ne partii, e a ciò chiamo testimonii gl’iddii e ’l vostro popolo della presente cittá, il quale seco mi ha continuamente veduto: né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna novitá». Allora si maravigliò il re piú che mai, dicendo tra se medesimo: «Veramente hanno gl’iddii voluto tentar le mie forze, e aggiungere la presente vittoria alla nostra magnificenza». E allegro della salva cittá abbandonò i pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.
- La reina gravida di prosperevole peso, affannata per il lungo cammino, volontieri si riposava, e con lei Giulia molto piú affaticata, ma quasi continuamente il bel viso bagnato di amarissime lagrime e la bocca piena di sospiri teneva; alla quale un giorno la reina, veggendola dirottamente a piangere, disse cosí: «Giulia, senza dubbio so che tu, sí come io, in te nascondi disiato frutto, e’ manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo piangere gravemente e te e lui offendi. Tu hai giá quasi il bel viso tutto consumato e guasto, e le tue lagrime l’hanno occupato d’oscura caligine e di palidezza; onde io ti priego che tu non perseveri in questo: anzi ti conforta, e ispera che noi avremo insieme gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare il ricevuto danno non si menoma? Poi che i fati a te sono stati avversi, appara a sofferire e a sostenere con forte animo le contrarie cose e’ dolenti casi della fortuna. Deh! or tu m’hai giá detto, se ho bene le tue parole a mente, che tu se’ nata di gentilissima gente romana; or se questo è il vero, sí come io credo, ti dovrebbe tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto Marzio, tornato da’ fuochi dell’unico figÌiuolo, diede quel giorno senza lagrime le leggi al popolo. Questi e molt’altri vostri antichi avoli con fermo animo nell’avversitá mostrarono la loro virtú, per la quale il mondo lungamente si contentò d’essere corretto da cotali reggitori. Or dunque se da cotal gente hai tratta origine, si disdicono a te, piú che ad un’altra, le lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversitá sostenessero doglia, sí come tu fai? certo sí fecero, ma essi vollero seguire piú la magnanimita de’ loro nobili animi, i quali conoscevano la natura delle caduche e transitorie cose, che la pusillanimitá della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero esempio a’ loro successori in ciascuno atto». Queste e molte altre parole usava spesso la reina a conforto di Giulia.
- La quale, conoscendo veramente che la reina l’amava molto, e che da grande amore procedevano queste parole, le quali vere la reina le diceva, cominciò a prender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire l’ozio, il quale di trista memorazione de’ suoi danni le era cagione, con le proprie mani, lavorando sovente, faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate, appetto alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate di nebulose macchie, sí come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di lavorare a prova. Queste opere aveano senza fine moltiplicato l’amore della reina in lei, perciò che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l’amore, cosí l’onore a lei e alle sue compagne moltiplicare fece.
- Non parve a Plutone avere ancora fornito il suo iniquo proponimento, posto ch’egli avesse con le sue false parole commosse l’occidentali rabbie sopra gl’innocenti romani; anzi, poi ch’egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato disfatto vilmente il falso corpo, un’altra volta riprese forma d’una giovane damigella di Giulia, chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava, e con sollecito passo entrò nell’ampio circuito delle romane mura. E giá Calisto mostrando la sua luce, ella tacitamente co’ disciolti capelli entrò negli alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne’ quali poi che ella fu ricevuta dal padre del morto Lelio e da’ cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti tutti di tale accidente, taciti si maravigliarono, essa forte piangendo cosí cominciò loro a parlare:
- «Poi che gli avversarii movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicitá, trassero della dolente cittá il vostro caro figliuolo, e la sua moglie, a me carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e da cui voi, porgendo i teneri baci e le vostre destre mani, vi divideste piangendo, noi avventurosamente, finché a’ miseri fati piacque, camminammo. Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicitá, noi una mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantitá di predoni, vaghi del copioso arnese, il quale da noi non molto lontano andava, e del nostro sangue: e l’assalirci e ’l privarci del nostro arnese non occupò piú che un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi, Lelio e i suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io pavida piangendo, non so come dall’inique mani mi fuggii; e fuggendo, per tema di non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino piú volte ho sostenuto mortal dolore»; e co’ pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddo liquore le forze esteriori.
- Incominciossi nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangeva. L’aria risonava tutta di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo che tu appena, o Bruto, riformatore della libertá del popolo romano, vi fosti tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell’ora inanzi ciascun romano incominciò ad essere pauroso d’andar cercando gli strani altari e di portare gl’incensi a’ lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, cosí gli altri romani, come i suoi parenti.
- Mentre la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s’appressò il termine del partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno, eletto per festa de’ cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una medesima ora quelle doglie, che partorendo per l’altre femine si sogliano sentire. E dopo molte grida, essendo giá la terza ora del giorno trapassata, la reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta molto in se medesima di tal grazia, senza fine lodando i celestiali iddii; e similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, perciò che senza alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. E niuno altare fu in Marmorina negli antichi templi senza divoto fuoco. I freschi giovani con varii suoni, cantando, andavano faccenda smisurata festa. L’aere risonava d’infiniti sonagli, per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni gioia grandissima. Aveva giá il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con altissime voci invocando il divino aiuto, sosteneva grandissima doglia. Ma tra l’erronea gente si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese, resistendo a’ suoi párti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da Galante la convertí in mustella; e con divoti fuochi s’ingegnavano di mitigare la sua ira, per liberare Giulia da cotal pericolo. Ma poi che a Giove piacque di dar fine a’ suoi dolori, egli a lei partorendo concedette una figliuola, non variante di bellezza dalla sua madre; la quale subito nata, Giulia, sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere di Dio, dimandò che la sua unica figliuola, inanzi a morte sua, le fosse posta nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di Giulia, coperta la picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale, poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo, voltata a Glorizia, gliela rendé, dicendo: «Cara compagna, senza dubbio di presente sento che mi converrá rendere l’anima a Dio, e nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sí come è della dimandata progenie e della disiderata morte. Ond’io ti raccomando la cara figliuola, e, per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sia tu sempre madre»; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell’un braccio teneva la picciola fanciulla e nell’altro il capo di lei parlante, rendé la vita al suo fattore umilmente e divota.
- Cominciassi nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea: «O sventurata figliuola, inanzi alla tua nativitá cagione della morte del tuo padre, e nascendo hai la tua madre morta. Oimè! quanta sarebbe l’allegrezza de’ miseri tuoi parenti, se in vita t’abbracciassero, sí come io fo! O figliuola di lagrime e d’angoscie, quanto ha Giove mostrato che la tua nativitá non gli piaceva! Oimè, di che amaro peso sono io ancora senza umano conoscimento divenuta madre!». Poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietá porgeva a chi morto lo riguardava, che per dolore ciascuno ne torceva le luci, ed ella disse: «O cara donna, o ve m’hai tu misera con la figliuola tua lasciata? Deh! perché non mi è lecito poterti seguire? Giá uscito della mente m’era il gravoso dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m’hai doppia doglia rinnovata. O me misera! ormai niun conforto piú per me s’aspetta». Cosí piangendo questa, e l’altre che con lei nella camera dimoravano, pervennero le dolorose voci all’orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo, in prima si maravigliò, dicendo: «Chi piange invidioso de’ nostri beni?», e poi piú efficacemente dimandò di volerlo sapere. E fatta chiamare alcuna femina della camera dove le misere piangevano, dimandò qual fosse la cagione del loro pianto. Quella rispose: «Madonna, quando Febo lasciò il nostro emisferio senza luce, Giulia si diliberò, partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio, rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato tra noi il grazioso corpo sí pieno d’umiltá nell’aspetto, che chiunque il riguarda non può ritenere in sé l’amaro pianto: e questo è quello che voi udito avete». Quando la reina udí queste parole, sospirando disse: «Oimè! adunque ci ha la piacevole Giulia abbandonati?». E comandò che ’l corpo di Giulia fosse nel suo cospetto recato; sopra il quale, poi che l’ebbe veduto, sparse amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non s’era tanto al presente giorno rallegrato della nativitá dell’unico figliuolo, quanto la morta Giulia col suo pietoso aspetto l’attristò. Ella comandò che fosse il vegnente giorno onorevolmente sepellita; e presa nelle sue braccia la bella figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo: «Poi che alla tua madre non è piaciuto d’esser piú con noi, certo tu in luogo di lei e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e parente nel continuo». Molte fiate, nel futuro pianto, queste parole ricordò la reina, le quali nescientemente profetico spirito l’aveva fatto parlare.
- Sparsesi per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la quale con la sua piacevolezza aveva giá sí presi gli animi di coloro che sua notizia avevano, che niuno fu che per pietá non ispandesse molte lagrime. E il re similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito tra’ freddi marmi, con quello onore che a sí nobile giovane si richiedeva, gli scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:
- «Qui, d’Atropos il colpo ricevuto,
- giace di Roma Giulia Topazia,
- dell’alto sangue di Cesare arguto
- discesa, bella e piena d’ogni grazia,
- che, in parto, abbandonati in non dovuto
- modo ci ha: onde non fia giá mai sazia
- l’anima nostra il suo non conosciuto
- Dio biasimar che fè sí gran fallazia.»
- Assai sturbò la gran festa incominciata della nativitá del giovane la compassione che ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e con alcun barone entrato nella camera della reina, prima dolcemente la confortò dimandandola del suo stato, poi comandò che le due creature gli fossero recate davanti, e furongli recati amendui li garzonetti ravvolti in preziosi drappi: i quali, poi che gli ebbe amendui nelle sue braccia, per lungo spazio riguardò, e vedendoli l’uno e l’altro pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti, disse cosí: «Certo piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua bellezza, e i cavalieri simigliantemente e le gaie donne s’allegravano faccendo gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra nativitá, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da cosí fatto giorno nominati. E però tu, caro figliuolo, come primo nato, sarai da tutti universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome Biancofiore; e cosí comandò che da quell’ora inanzi fossero continuamente chiamati. E voltatosi alla reina, primieramente Florio le raccomandò, e appresso la pregò molto che Biancofiore tenesse cara, perciò che aspetto aveva di dovere ogni altra donna passar di bellezza, e che ella in luogo di Giulia sempre la volesse tenere. E dopo queste parole, contento di sí belli eredi, si partí dalla reina.
- Teneramente raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le facea nutricare. Ma poi che, lasciato il nutrimento delle balie, vennero a piú ferma etá, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente vestir le faceva; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezze ciascun giorno cresceva, men cara che fosse il suo figliuolo Florio. E veggendo che giá Citerea, donna del loro ascendente, s’era dintorno a loro ne’ suoi cerchi voltata la sesta volta, provvide di volere che, se la natura gli avesse in alcuno atto fatti difettosi, essi, studiando, per la scienza potessero ricuperare cotal difetto. E fatto primieramente chiamare un savio giovane, chiamato Racheo, nell’arti di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovanetti affettuosamente dovesse in saper leggere ammaestrare. Appresso chiamato Ascalione, similmente amendui gli raccomandò, dicendo: «Questi siano a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o a donne si convenga, sia che a costoro non insegni, perciò che in loro ogni mia speranza è fissa: essi sono l’ultimo termine del mio disio». Ascalione e Racheo promisero i commessi uficii; e senza alcuna dimoranza incominciò Racheo a mettere il suo in esecuzione con intera sollecitudine. E loro in brieve termine insegnato a conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro d’Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si debbano ne’ freddi cuori con sollecitudine accendere.
- LIBRO SECONDO
- Adunque cominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne’ primi anni puerili, ad imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa dea, madre del volante fanciullo, con tanto affetto nominare, non poco negli alti regni con gli altri iddii se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano fossero da’ giovani petti sapute cosí alte cose come i laudevoli versi narrano, ma, involti i candidi membri in una violata porpora, circondata di chiara nuvoletta, discese sopra l’alto monte citereo, la dove ella il suo caro figliuolo trovò temperante nuove saette nelle sante acque, a cui con benigno aspetto cominciò cosi: «O dolce figliuolo, non molto distante agli acuti omeri d’Appennino, nell’antica cittá Marmorina chiamata, secondo che io ho dagli alti nostri regni sentito, sono due giovani, i quali affettuosamente studiano i versi che le tue forze insegnano acquistare, invocando co’ casti cuori il nostro nome, disiderando d’essere del numero de’ nostri soggetti. E certo i loro aspetti, pieni della nostra piacevolezza, molto piú s’apprestano a’ nostri servigi che a coltivare i freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori cose, e solo nel rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le leggieri ale. E sí come giá nella non compiuta Cartagine prendesti forma del giovane Ascanio, cosí ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di Florio; e quando se’ la dove essi sono, come egli quando va a loro li abbraccia e bacia costretto da pura benevolenza, cosí tu, abbracciandoli e baciandoli, metti in loro il tuo segreto foco, e infiamma sí l’un dell’altro, che mai il tuo nome de’ loro cuori per alcuno accidente non si spenga. E io in alcun atto occuperò sí lo re, che la tua mentita forma per sua venuta non si manifesterá.
- Mossesi Amore a’ prieghi della santa madre, poi che spogliati s’ebbe le lievi penne; e pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali tetti, passando con lento passo nella secreta camera, ove egli Florio e Biancofiore trovò soletti puerilmente giocare insieme. Essi si levarono verso lui sí come far solevano, ed egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo seno, e porgendogli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo disio: il quale Florio poi, riguardando ne’ lucenti occhi di Biancofiore con diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancofiore, e ispirandole nel viso con piccolo fiato, l’accese non meno che Florio avesse davanti acceso. E dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro, li lasciò stare; e rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, lasciati pieni di nuovo disio, riguardandosi, cominciarono a maravigliarsi stando muti. E da quell’ora inanzi la maggior parte del loro studio era solamente in riguardar l’un l’altro con timorosi atti; né mai, per alcuno accidente che avvenisse, partir si voleano, tanto il segreto veleno adoperò in loro subitamente.
- Sí tosto come Amore dalla sua madre fu partito, cosí ella in una lucida nuvoletta fendendo l’aere pervenne a’ medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò ad una camera sopra un ricco letto, dove d’un soave sonno l’occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: cioè che lui pareva esser sopra un alto monte, e quivi avere presa una cerva bianchissima e bella, la quale a lui era diviso che gli fosse molto cara; e quella tenendo nelle sue braccia, gli pareva che dal suo corpo uscisse un lioncello presto e visto, il quale egli insieme con quella cerva senza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma stando alquanto, vedeva scender giú dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente; il quale apriva con le proprie mani il lioncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la qual la cerva disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerva il simigliante, e che fatto questo si partisse. Appresso a questo, egli temendo non il lioncello volesse mangiar la cerva, lo allontanava da sé: e di ciò pareva che l’uno e l’altro si dolesse. Ma poco stando, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerva per distruggerla, e il re gliela parava davanti; ma il lioncello correndo subitamente tornava alla difesa della cerva, e co’ propri unghioni quivi dilacerò sí fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerva a lui che dolente gliela pareva ripigliare, tornandosi all’usato loco. Ma non dopo molto spazio gli pareva vedere uscir da’ vicini mari due girfalchi, i quali portavano a’ piè sonagli lucentissimi senza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da’ piè i detti sonagli, e dava loro la cerva cacciandogli da sé. E questi, presa la cerva, la legavano con una catena d’oro, e tiravansela dietro su per le salate onde insino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro cosí legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il lioncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerva, n’andava la dove ell’era; e quivi gli pareva che il lioncello, occultamente, dal cane guardandosi, si congiungesse con la cerva amorosamente. Ma poi avvedendosi il veltro di questo, l’uno e l’altro parea che divorar volesse co’ propri denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava lá onde partiti s’erano. Ma inanzi che al monte ritornassero, gli pareva che essi si tuffassero in una chiara fontana, dalla quale il lioncello, uscendone, pareva mutato in figura di uno nobilissimo e bel giovane, e la cerva simigliantemente d’una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li riceveva; ed era tanta la letizia che egli con loro faceva, che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sovr’esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio, in quell’ora che Amore s’era da’ suoi nuovi suggetti partito.
- Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’uno l’altro fiso, Florio in prima chiuse il libro, e poi disse: «Deh, che nova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancofiore, da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu giá non mi solevi tanto piacere; e ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti!». Biancofiore rispose: «Non so, se non che ti posso io dire che a me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtú de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia acceso le nostre menti di nuovo foco, e adoperato in noi quello che in altri giá veggiamo adoperare». «Veramente» disse Florio, io credo che sí, come tu dí, sia: perciò che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci!» «Certo tu non piaci meno a me, che io a te» rispose Biancofiore. E cosí stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti, Racheo, che per dare a’ cari scolari dottrina andava, giunse nella camera, e ciò veduto, loro gravemente riprendendo, cominciò a dire: «Questa che novita è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine del vostro studio?». Florio e Biancofiore, divenuti i candidi visí come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro piú disiderosi dell’effetto che della cagione, torti si volgevano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrar soleva i mostrati versi, balbuziando andava errando. Ma Racheo pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma piú ferma esperienza della veritá volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere senza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea che, come da loro partito s’era, incontanente chiusi i libri, si porgevano abbracciandosi semplici baci, e mai piú avanti non procedevano, perciò che la novella etá, in che erano, i nascosi diletti non conosceva. E giá il venereo foco li avea sí accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuto rattiepidire. Ma poi che piú volte Racheo li ebbe veduti nella sopra scritta maniera, e alcuna volta gravemente ripresi, egli tra se medesimo disse: Certo quest’opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch’io fo, che pervenendo poi agli orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l’averla taciuta. Io manifestamente conosco ne’ sembianti e negli atti di costoro la fiamma di che elli hanno accesi i cuori: adunque perché non li lascio ardere sotto l’altrui protezione, piú tosto che sotto la mia? Io pure ho inf.no a qui fatto l’ufficio mio, riprendendoli piú volte, né m’è giovato: e però per mio scarico il meglio è di dirlo al re». Cosí ragionando tra sé Racheo, Ascalione sopravvenne: il quale, in molte cose peritissimo, quando lo studio rincresceva loro, mostrava loro diversi giochi, e tal volta con essi cantando si sollazzava, avendo giá ciascuno da lui medesimo appresa l’arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheo pensando, cui disse: «Amico, qual pensiero si t’aggrava la fronte, che, occupato in esso, altro che rimirare la terra non fai?» A cui Racheo narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalione intese questo, niente gli piacque: «Ma» disse, «andiamo, e senza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene n’avvenisse, noi non possiamo essere ripresi». E dette queste parole, voltati i passi, amenduni n’andarono nella presenza del re; al quale Ascalione parlò cosí:
- «Nella vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessitá a narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato molto avremmo che, dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma perciò che disiderosi del vostro onore, non volendo ancora il nostro contaminare, conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a voi noia né mancamento de’ nostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è generato ne’ semplici cuori del vostro figliuolo Florio e Biancofiore; e questo ne’ loro atti piú volte abbiamo conosciuto, sí come l’iddii sanno: essi piú volte affettuosamente abbracciarsi e darsi amorosi baci abbiamo veduto, e appresso sovente, guardandosi nel viso, l’un l’altro gittare sospiri accesi di gran disio. E ancora piú manifesto segnale n’appare, il quale voi assai tosto potrete provare, che niuna cosa è che l’uno senza l’altro voglia fare, né li possjamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio abbandonato: anzi, sí tosto come noi della loro presenza siamo partiti, incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell’altre cose, gravemente piú volte ripresi li abbiamo, credendo poterli di ciò ritrarre: ma poco giovò la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi posto, v’abbiamo voluto questo palesare. Voi, sí come savio, anzi che piú s’accenda il foco, provvidamente pensate di stutarlo, ché in quanto a noi il nostro potere ci abbiamo adoperato.»
- Niente piacquero al re l’ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso, rispose: «Non cessi però il vostro uficio con riprensione castigarli, e con ispaventevoli minacce impaurirli. Essi ancora per la giovane etá sono da potere essere ritratti da ciò che l’uomo vuole; e io, quando per voi dall’incominciata follia rimaner non si volessero, prenderò in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro onore per vile cagione non diventi minore». E detto questo, con l’animo turbato si partí da loro, ed entrossene in una camera; e quivi cacciando da sé ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano alla mascella, cominciò a pensare e a rivolgersi per la mente quanti e quali accidenti pericolosi potevano avvenire del nuovo innamoramento; e di cotale infortunio tra se medesimo incominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravvenendo il vide, e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse: «O valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sí l’animo vostro, che io, pensando, nell’aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia, perciò che niuna felicitá o avversitá ancora dovete senza me sostenere: se voi lo mi dite, forse che consiglio o conforto vi porgerò». Rispose il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse: «E’ mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della quale è questa: con ciò sia cosa che la Fortuna infino a questo tempo ci abbia con la sua destra tirati nella sommità della sua volubile rota, accrescendo il numero de’ nostri vittoriosi trionfi, ampliando il nostro regno, moltiplicando le nostre ricchezze, e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie, a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando, dubito che ella, pentuta di queste cose, non s’ingegni con la sua sinistra d’avvallarci. E gl’iddii credo che ciò consentano; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl’iddii lungamente pregati ricevemmo; e sapete che ne’ nostri regni nella sua natività niuno altare fu senza divoto foco e senza incensi, né niuno degl’iddii fu che con divota voce non fosse per la nostra cittá ringraziato. Ora conoscendo la Fortuna quanto questo figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e tristizia, in vile modo s’ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo egli in vita, dandoci manifesto esempio che, poi che alla piú cara cosa comincia, discenderci senza fallo all’altre minori: e udite com’ella s’è ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovanetto figliuolo di Citerea, non meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli è entrato nel giovine petto di Florio, e l’ha sì infiammato della bellezza di Biancofiore, che Paris di quella d’Elena non arse più: e non vede piú avanti che Biancofiore, secondo che i loro maestri m’hanno detto poco avanti. E certo non mi dolgo che egli ami, ma duolmi di colei cui egli ama, perché alla sua nobilta è dispàri. Se una giovane di real sangue fosse da lui amata, certo per matrimonio gliela aggiugnerei; ma che è a pensare che egli sia innamorato d’una romana popolaresca femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Adunque che cercherete voi piú avanti della mia malinconia? Non è questa gran cagione da dolermi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora deve sotto il suo imperio governar questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io non n’avrei avuto alcuna malinconia se gl’iddii l’avessero al loro servigio chiamato nella sua puerizia, sí come di Ganimede fecero. E certo la morte di Grillo non fu da Senofonte suo padre sostenuta con sí forte animo, come io avrei fatto o farei, se gl’iddii avessero consentito ch’io avessi per simile caso perduto Florio che Senofonte perdé Grillo. Né Anassagora ancora ebbe cagione di piangere, perciò che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, sí come io medesimo quello accidente senza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io lo possa piú che morto chiamare, il dolore che quinci mi nasce, mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della vita. Né so che di questo io mi faccia, ché io dubito, se io di tal fallo il riprendo, o m’ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve l’accenda piú suso, o forse egli del tutto non m’abbandoni, e vada vagabondo per gli strani regni, fuggendo le mie riprensioni: e cosí avremmo senza alcuno utile accresciuto il danno. E se io taccio questa cosa, il foco ognora piú s’accenderá, e cosí mai da lei partire nol potremo».
- Molto fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando il dimostrò; ma dopo breve spazio, con pietoso aspetto disse: «Caro signore, non è per questo accidente da disperarsi, né degl’iddii né della fortuna, perciò che non è mirabile cosa se Florio della bellezza della vaga giovane è inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo, e continuamente con lei dimori, ed ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio, se questo amor s’avanzasse sí come voi dite che egli ha cominciato, che noi potremmo dire che ’l nostro figliuolo vivendo fosse perduto, pensando alla piccola condizione di Biancofiore. Ma quando le piccole piaghe sono recenti e fresche, allora si sanano con piú agevolezza che le vecchie giá putrefatte non fanno. Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e senza dubbio egli non può essere altrimenti, e simigliantemente novelli sono gli amanti, né mai altro foco li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere, e al parer mio niuna piú leggiera via ci è che dividere l’uno dall’altro: la qual cosa in questa maniera si può fare. Florio, giá ne’ santi studii indirizzato, è da mettere a piú sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Feramonte duca di Montorio, a noi per consanguinita congiuntissimo, e in niuna parte del nostro regno piú solenne studio si fa che in Montorio. Noi possiamo sotto spezie di studio mandar la Florio a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio di tempo dimorare, gli potrá agevolmente della memoria uscir questa giovane, non vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l’avrá, allora noi gli potremo dare sposa di real sangue senza alcuno indugio, e cosí potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E giá per ciò esso non ci sará tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond’io, caro Signore, vi priego che questa malinconia cacciata sia da voi, prendendo senza indugio questo rimedio».
- Piacque al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che quanto il foco piú si stringe, con piú forza cuoce; e poi che egli sopra ciò lungamente ebbe pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal pericolo fuggire non vedeva. Oh, quanto fu tale imaginazione vana, con ciò sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de’ superiori corpi, avvegna che possibile! Venere era nell’auge del suo epiciclo, e nella sommitá del deferente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu donna, senza alcuna resistenza d’opposizione o d’aspetto o di congiunzione corporale o per orbe d’altro pianeta, dell’ascendente della loro nativitá. Il saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero. Oimè, che mai acqua lontana non ispense vicino foco! Ove credeva il re poter mandare Florio senza la sua Biancofiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente nel suo animo figurata con piú bellezza che il vero viso non possedeva, e quello che prende e lascia amore era sempre con Biancofiore? I corpi si dovevano allontanare, ma le menti con piú sollecitudine si dovevano far vicine. Niuna cosa è piú disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole ad avere. Per quale altra cagione diventò vermiglio il gelso, se non per l’ardente fiamma ristretta, la quale prese piú forza ne’ due amanti costretti di non vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi essere negato il suo disio? Ella fu femina mentre stette in forse con isperanza. O re, tu credi apparecchiare fredde acque all’ardente foco, e tu v’aggiugni legne. Tu t’apparecchi di dare non conosciuti pensieri a’ due amanti senza alcuna utilitá di te o di loro, e t’affretti di pervenire a quel punto il quale tu con disio ti credi piú di fuggire. Oh, quanto piú sanamente adoperresti lasciandoli semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza far sentire quanto sieno amari e dilettevoli i sospiri che da amoroso martire procedono! Elli amano ora tacitamente. Niuno disidera piú avanti che solo il viso, il quale per forza conviene che per troppa copia, se stare li lascia, rincresca, perciò che le cose di che l’uomo abbondevole si trova, infastidiano. Ma che si può qui piú dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza riguarda la necessitá degli abbandonati, non volle çhe il nobile sangue, del quale Biancofiore era discesa, sotto nome di vera amica divenisse vile, e, acciò che con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentí che le pensate cose senza indugio si mettessero ad effetto?
- Diede il giorno loco alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce. Ma poi che Febo co’ tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sé chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sé l’accolse, e cosí gli disse: «Bel figliuolo, e a me sopra tutte le cose caro, ascoltino le tue orecchie pazientemente le mie parole e i miei comandamenti, i quali da te debitamente debbono essere osservati, e per te sieno messi ad effetto. Non essendo alcuna speranza rimasa di gloria alla mia lunga etá, agl’iddii piacque di donarmi te, in cui la mia speme, senza fallo giá secca, ritornò verde; e dissi allora: ‛Omai la fama del nostro antico sangue non perirá, poi che gl’iddii ci hanno conceduto degno erede’; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, come unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l’alto uficio a che gl’iddii t’hanno apparecchiato, sí come è adornar la tua fronte della splendida corona degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancor che io nella tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura divenire, nondimeno con disaminato animo imaginai che per l’accidentali scienze molto t’avanzeresti. E della imaginazione del dovuto tempo venni all’effetto; e infino a questo giorno, come la tua eta è stata per la gioventú debiletta a sostenere, cosí con picciole scienze t’ho fatto nutricare. Ora che in piú ferma eta se’ pervenuto, disidero che tu a piú alti studii disponga il tuo intelletto, e massimamente a’ santi principii di Pittagora, de’ quali venendo con l’aiuto de’ nostri iddii a perfezione, sí come io stimo, ti seguirá grandissimo onore: con ciò sia cosa che la scienza in niuna altra maniera di gente sia tanto lucida e risplendente quanto ne’ prencipi. E ciò puoi tu medesimo considerare, ricordandoti quanto fosse eccellente la fama del re Salomone, ancor che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per imprender questa scienza, certo a te non converrá andare cercando i solleciti studii d’Atene, né alcuno altro paese lontano, perciò che qui a noi molto vicina è una cittá chiamata Montorio, dotata di molti diletti, la quale per noi il valoroso duca Feramonte governa, a noi congiuntissimo parente, non molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti fará. Quivi con ordinato stile si leggono le sante scienze. Quivi, secondo ch’io stimo, ne potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io voglio che tu senza veruno indugio vi vada. Né ciò ti dee parer grave, considerando primieramente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare niuno danno né sconcio se ne deve rifiutare: appresso, che tu non sarai da noi diviso, perciò che ci se’ per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi venire a veder te e tu noi senza sconcio dello studio: il quale noi non intendiamo che tu prenda in maniera che alcun tuo diletto se ne sconci; e, oltre a questo, tu sarai con persona che senza fine t’ama, e che disidera di vederti, cioè col duca. E però ora che il tempo è molto piú atto allo studio che al sollazzo, però che giá vedi signoreggiare le stelle Pliade, e la terra rivestire di bianco molto sovente, avendo perduto il verde colore, prendi quella compagnia che piú ti diletta e vanne».
- Florio, udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, perciò che nemiche le sentia al suo disio, e, lasciato il parlare del padre, lungamente egli guardando la terra, mutolo senza alcuna cosa rispondere stette; e dimandatagli dal padre piú volte risposta, dopo il trar d’un grandissimo sospiro, disse cosi: «A me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione perché sí giovane e con tanta fretta da voi dividere mi volete, essendo voi pieno d’etá, sí come io veggo. Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non è meno disiderata da me. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio, da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate che io lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso, ma quasi continuamente crederò che sconcio accidente occupi con infermitá la vostra persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno dubbii per la mente che la vostra vita, da me molto da tener cara, non sia con insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, perciò che io non fui generato dalle querce del monte Appennino, né dalle dure grotte di Peloro, né dalle fiere tigri, ma da voi, cui amo piú che alcun’altra cosa: e di quelle cose che sono amate si deve dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo petto, qual parte di scienza vi potra mai entrare? E ancora manifestamente veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl’iddii, non essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a’ loro regni? la qual cosa sia lontana per molto tempo da voi. Ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con piú pietosa mano gli occhi nell’ultima ora gravati, che io farei? La qual cosa, se io vi sono lontano, come farò? E se a me lontano da voi questo accidente avvenisse, che veggiamo sovente avvenire, ché piú tosto si secca il giovane rampollo che ’l vecchio ramo, chi sará colui che piú pietoso di voi li miei chiudesse? Certo niuno! E chi porrebbe al mio foco l’acceso tizzone? Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete pensato, e vedete ancora se convenevole cosa è che io, unico figliuolo di cosí fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però piú utile e migliore consiglio mi pare il far qui da Montorio o d’altre parti, ove piú sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale piú v’aggrada che io appari, e qui, nella vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni dubbio, apprenderò, e con piú diletto studierò, vedendovi continuamente in prosperevole stato».
- Quando il re udi la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le scuse da lui porte, non da pietá che di suo padre avesse, ma dall’astuzia d’amore che a Biancofiore l’astringeva, nascevano; onde egli cosí gli disse: «Figliuolo, siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse metti nel futuro. E se pure avvenissero, ne sarai tanto vicino, che ben potrai al pietoso officio essere chiamato. Ma tu senza dovere ti rammarichi, ponendo inconvenevole cosa che un figliuolo di tal re, quale io sono, vada per le strane scuole studiando. Or dove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che ’l troppo amore de’ padri verso i figliuoli li fa le piú volte pigri alle virtú, certo io m’atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che niuno atto di pigrizia dal grande amore ch’io ti porto ti succedesse, mi fo io alquanto di contro a me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu lo devi aver caro, perciò che la tua etá piú tosto richiede affanno che agio. Il sole, poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, quattordici volte ad un medesimo punto è ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, ed è entrato nel cammino usato per compiere la quintadecima, ed è giá al terzo della via, o piú avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d’andar cosí vicino a noi, come poss’io presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, non si disdice a’ giovani disiderosi di pervenir valorosi prencipi, l’andare veggendo i costumi delle varie genti e nazioni del mondo. Giá sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi dell’etá tua, solo figliuolo maschio di Minos re della copiosa isola di Creti, andò allo studio d’Atene, lasciando il padre pieno d’etá forse piú che io non sono, perché in Creti non era studio soffidente al suo valoroso intendimento. E Giasone, piú disposto all’arme che a’ filosofici studii, con nuova nave tentò i pericoli del mare per andare all’isola di Colcos a conquistare il Montone con la cara lana, e con esso eterna fama, perciò che ne’ suoi paesi mostrare non poteva la virtuosa forza sua, e giovanissimo abbandonò il vecchio padre senza alcuno erede: né l’onore del mondo, né i celestiali regni s’acquistano senza affanno. Io conosco manifestamente che affettuoso amore ti strigne a essere sempre meco, e che niuna altra cagione ti fa recusar l’andata; ma l’andare a Montorio non sará allontanarti da me. Onde, caro figliuolo, va, e sí sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possa meco in breve tempo senza aver piú a studiare ricongiungerti, e venire valoroso giovane».
- Allora Florio, non potendosi quasi piú celare, perciò che ira e amore dentro l’ardevano, rJspose: «Caro padre, né Androgeo né Giasone seguirono l’uno lo studio e l’altro l’arme, se non per avere il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E veramente a me non sarebbe piú grave il provare le tempestose onde del mare, né i pericoli della terra, andando molto piú lontano da voi, in qualunque parte del mondo, che ciascun di loro non fece, credendomi trovar la cosa da me disiderata e quietare la mia volontá. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo, se quello che amo, e quello che io disidero è meco? Voglio io andare perdendomi, e non sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d’avere alcuna volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare. Io non posso fare che io non mi vi scopra: egli è qui nella vostra real casa la nobile Biancofiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo, e certo non senza cagione; e l’ultimo fine de’ miei disii è solamente vedere il suo bel viso, il quale è piú che matutina stella risplendente, ed è quello che disidero di studiare.
- Onde io caramente vi priego che voi, come padre di figliuolo, abbiate pietá della mia vita, la quale senza fallo, dividendomi da Biancofiore, si dividerá da me. E acciò che ’l tempo in lungo sermone non s’occupi, vi dico che senza lei non sono disposto d’andare in alcuna parte del mondo, né vicina né lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi ove volete, ché tutto mi parrá leggiero e grazioso l’andare. E dell’amore che io porto a costei vi dovete molto ben contentare, pensando che Amore abbia tanto bene per noi provveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna lontana da’ nostri regni faccia sí come giá fece Perseo, il quale scelse tra le nere indiane Andromeda, e similmente Paris che degli altrui regni ne portò Elena insieme col foco che arse poi li suoi, e che cercando io lei non abbandoni voi vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una cittá, in una medesima casa m’ha conceduto dilettoso piacere, di sí grazioso dono gli siamo noi molti tenuti. E poi che cosí è, graziosamente vi priego che vi piaccia senza affanno lasciarmi questo singolar bene possedere».
- Sí tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato cosí gli rispose: «Ah, caro figliuolo, che è quel che tu dí? Io non avrei mai creduto che sí vile cagione ti ritenesse di volere andare a pervenire a cosí alto effetto, come è quello in che lo studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Solo la pietá di me vecchio credeva ti tenesse: ora hatti giá tanto insegnato Amore, che sotto spezie di veritá porga inganno a me tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io sotto la correzione di Racheo t’ho fatto fare? Oimè, che ora conosco pur manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e bene conosco che la verita da’ tuoi maestri mi fu porta, poi che cosí parli; e senza fine di te mi maraviglio, volendomi dare a vedere che di quel di che tu ed io piú ci dovremmo dolere, dobbiamo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta sia la viltá, la quale ha il tuo animo occupato, disponendoti a dover cosí fatta femina, come tu ami, amare; della qual cosa doppiamente se’ da riprendere: principalmente d’avere avuta cosí poca costanza in te, che a sí vile passione, come è amare una serva, oltre misura hai lasciato vincere il tuo virile animo; appresso di non por mente quanti e quali siano i pericoli da questo amor giá proceduti e che procedono. Non udistú mai dire come miserabilmente Narciso per amore si consumò? e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? e che ancora gl’iddii sostennero noia di tal passione? e massimamente Apollo, il quale, di tutte le cose grandissimo medico, a sé medicina non poté porgere, poi che ferire s’ebbe lasciato, forse non per viltá ma per provare? e che, in breve, niuno è cui questo amore non dissecchi le midolla dell’ossa? E tu, inconsiderato, il vai seguendo! E ancora di tutto questo, tenendo lo stile della piú gente, ti potresti scusare; ma non consideri di cui ti sia inamorato, e per cui tu cosí faticosa passione sostenga: e ciò è per una serva nata nelle nostre case, la quale a te non si confarebbe in alcuno atto. Se ti fossi d’una valorosa e gran donna simile alla tua nobiltá inamorato, assai mi dorrebbe, ma pur mi sarebbe d’alcuna consolazione. Io non potrei mai sopra queste tanto dire quanto io disidero; ma perciò che so che ancora da te medesimo, senza riprensione alcuna, ti riconoscerai del tuo errore, e rimarra’ tene, mi tacerò. E se io credessi che ciò non avvenisse, certo leggiera cosa mi sarebbe ora con propria mano d’ucciderti. Ma acciò che tu seguiti lo studio, in questa parte, ancora che io conosca che manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sí tosto come tua madre, la quale alquanto non sana è stata, sí come tu puoi vedere, avra intera sanitá ricuperata, io la ti manderò a Montorio; e ora teco la manderei, se non fosse che senza lei tua madre in cotale atto non vuoi rimanere».
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- Turbossi alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando cosí rispose: «Padre mio, sí come voi sapete, né il sommo Giove, né il risplendente Apollo, da voi dianzi ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno di viril forza tanto armato, né sí crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io giovinetto contro a cosí generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono cosí gravosamente da riprendere, come voi fate, ma èmmi da rimettere, pensando che il mio spirito non è stato sí villano, che per rigidezza abbia rifiutato quello che ciascun altro gentile ha sostenuto. E la mia forma, la quale mercé gl’iddii è bellissima, richiede tale uficio, piú tosto che alcuno altro. E che si potrá giustamente dire a me s’io amo, poi che ad Ercole e ad Aiace uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la qualitá della femina che io amo, perciò che popolaresca e serva la reputate; e io vi credo in parte ignorante di qual sangue questa giovane, cui amo, sia discesa, sí come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con picciola schiera alla vostra moltitudine, uccideste, il qual forse non fu di minor qualitá che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi sappiamo, noi pure abbiamo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste, discese dell’alto sangue del vittorioso Cesare, giá conquistatore de’ nostri regni. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane esser vile si conoscesse, conosciamo lei essere tanto gentile o piú, quanto se d’imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch’è solo virtú d’animo. E qualunque uomo con animo virtuoso si trova, quegli debitamente si può e deve dir gentile. E in cui si vide giá mai tanta virtú, quanta in costei si trova e vedesi manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la prudentissima evidenza della cumana Sibilla ritornata; né fu la casta Penelope piú temperata di costei, né Porzia, figliuola di Catone, piú forte negli avversi casi, né con piú egualitá d’animo. Liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si potrebbe agguagliare alla dolcissima eloquenza dell’antico Cicerone. A cui mai tante grazie concedettero gl’iddii quante a questa sommamente virtuosa? Adunque senza comparazione è gentile. Non fanno le vili ricchezze, né gli antichi regni, sí come voi forse, essendo in un errore con molti, estimate, gli uomini gentili né degni posseditori de’ grandi oficii: ma solamente quelle virtú che costei tutte in sé racchiude. Deh, ora come mi poteva o potrebbe giá mai Amore di piú nobil cosa far grazia? Questa ha in sé una singolar bellezza, la quale passa quella che Venere teneva, quando ignuda si mostrò nella profonda valle dell’antica selva chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m’accende nel cuore uno ardore virtuoso sí fatto, che, s’io d’un vil ribaldo nato fossi, mi faria subitamente divenir gentile. Niuna volta è che io i suoi lucentissimi occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcun n’avessi. Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi mena, non che è ella gentile, come sopra detto è, ma se fosse la piú vil femina del mondo, si è ella da dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v’aggrada che io studii, acciò che reputato non mi possa essere in vizio il non obbedirvi, farollo volontieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l’effetto: non vi mandate me, il quale sono però presto d’andarvi, poi che a voi piace e poi che mi promettete di mandarmi lei. Siano de’ loro amori ripresi la trista Mirra e lo scellerato Tereo e la lussuriosa Semiramis, li quali sconciamente amarono, e me piú non riprendete, se la mia vita v’aggrada». Non rispose piú il re a Florio, però che egli vedeva. largamente che volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si partí da lui, e gli comandò che egli acconciasse il suo arnese, acciò che la seguente mattina s’andasse a Montorio.
- Alle parole state tra il re e Florio non era guari lontana la misera Biancofiore, ma, in alcun luogo celata, con intentivo animo tutte l’avea notate, ascoltando quello che ella non avrebbe voluto udire. E bene aveva con grave doglia inteso l’aspre riprensioni fatte a Florio per l’amore che egli a lei portava, e similmente udito aveva dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò la buona difensione di Florio, fatta in aiuto di lei, le rendé molto il perduto conforto. Ma quando ella dire udí a Florio: ‛poi che mandare mi dovete Biancofiore a Montorio, io v’andrò’, allora dolore intollerabile l’assalí, perciò che manifestamente conobbe l’iniquo intendimento del re, il quale questo imprometteva per piú leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò con tacito pianto a lagrimare e a dire tra sé cosí: «Oimè, Florio, solo conforto dell’anima mia, cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che tu in prima mi piacesti, ora cui credi tu e a quali parole t’hai lasciato ingannare? Or non vedi tu ch ’el prometteva di mandarmiti, perché consentissi all’andata, sí come hai fatto? Egli non mi manderá mai dove tu sia. Deh, non conosci tu la falsitá del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te, ma egli non lascerá mai venire te lá dove io sia. Tu ti se’ lasciato ingannare con meno arte che non si lasciò Issifile: e quella era femina! Ella credette alle parole, agli atti, alla fede promessa e alle lagrime dello ingannatore; ma tu se’ per la menoma di queste cose stato ingannato, e hai detto sí di quella cosa che laido ti sarebbe a tornare adietro; e non hai conosciuto ch’egli, non disideroso del tuo studio, ma di trarmi dalla tua memoria, t’allontana da me, acciò che per distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abbandoni tu, o Florio, la tua Biancofiore? Ove n’andrai tu con la mia vita? O me misera, e io senza vita come rimarrò? E se a me vita rimarrá, come sará ella fatta trovandomi senza esser teco continuamente e senza vederti? O luce degli occhi miei, perché ti fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrá mai di te riconfortare, che con la bocca hai impromessa la partita? O beata Arianna, che, ingannata dal sonno e da Teseo, dopo alcune lagrime meritò miglior marito! E piú felice Fedra, che col suocero in nome d’amante finí il disiato cammino! Or mi fosse stata lecita l’una di queste felicitá: o essere stata da te con inganno abbandonata, o averti potuto seguire. Oimè, se quello amore che tu m’hai piú volte con piacevole viso mostrato è vero, perché nel cospetto del crudel tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non ti valeano? E non ti si disdiceva, ché ciascuno sa che niuno può dar legge agli amorevoli atti, però che la forza d’amore tiene l’uomo, piú che alcun altro vincolo, stretto. Io credo che, se le tue lagrime fossero state con soavi prieghi mescolate, egli avrebbe conceduto che tu fossi prima qui rimaso che vedutoti piú lagrimare, perciò che la pietá, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e rimutato il suo nuovo proponimento: ché tutti i padri non hanno gli animi feroci contro a’ figliuoli come ebbe Bruto, primo romano console, il quale giustamente per la sua crudeltá fu da riprendere. Ma, oimè!, se ’l tuo amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti prima che consentir di dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per forza menare. E in questo non ti si disdiceva l’essere al tuo padre disubbidiente, perciò che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito disdirla. Come ti sará egli possibile il partirti senza me, se le tue parole a me dette per adietro non sono quali furono quelle del falso Demofoonte a Fillis, il quale la promessa fede e le vele della sua nave diede ad un’ora a’ volanti venti? Oimè, potrai tu in alcuna parte senza core andare? Tu mi solevi dire ch’io l’aveva nelle mie mani, e che io sola era l’anima e la vita tua: ora se tu senza queste cose ti parti, come potrai tu vivere? O me misera, quanto dolore è quello che mi strigne, pensando che tu contro a te medesimo sia incrudelito, né hai avuta alcuna pietá alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia t’incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che per te la metterei ad ogni pericolo prima che da te allontanarmi? Ma tu avrai, partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se morte no, vita piú dolorosa che morte non ci falla! Tu te n’andrai a Montorio col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; né mai in alcuna parte senza me sarai, e niun diletto sará da te preso, che io col lamentevole disio non ti seguiti ognora. Né sia per te fatto alcuno studio che io similmente imaginando non istudii, disiderando piú tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl’iddii hanno ragione d’essere avversi a’ nostri disii, co’ quali abbiamo si lungamente avuto spazio di poter toccare l’ultime possanze d’amore, e mai non le tentammo: la qual cosa forse, se fatta fosse stata, o piú forte vincolo avrebbe me teco e te meco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggieri, sí come ora saremo, o quel che ci strigne sarebbe in tutto o nella maggior parte soluto, e non mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne duole, ma per la servata onestá sono contenta che la nostra etá sia stata casta, alla quale ancora ben bene sí fatta cosa non si conveniva. E appresso credo che forse gl’iddii ci serbano a piú lieti congiungimenti, e con migliore cagione: ma, o me dolente, che questo non so io, né giá per tale speranza il mio dolor si scema! Or volessero gl’iddii che, poi che dividere mi debbono da te, che se’ solo mio bene, mia luce e mia speranza, mi fosse lecito il morire! Oimè, Aretusa, quanto miserabilmente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io piú affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita! Oimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t’era negata, il convertirti in cane! io ti porto invidia, e similmente alla tua morte! O Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato tizzone, io disidererei che i tuoi fati fossero rivolti sopra me. O sommi iddii, se gli afflitti e miseri amanti meritano d’essere uditi, vi priego che di me v’incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto senza indugio mandiate. E tu, o Florio piú che crudele, che te ne vai, in veritá mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltá in te dovesse aver luogo; ma poi che allontanandoti il dimostri, il conosco. Io ti giuro per l’anima della mia madre che mai senza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com’io a vedere ti possa venire in qualche modo. Io allegra sarò s’a te mi manderanno, e se non sarò mandata, io pur ne verrò».
- Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento di doversi partire la seguente mattina, e partito il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e tra se medesimo dicea: «Oimè, che ho io fatto? Ah, che ho io consentito alla mia medesima distruzione, per ubbidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire senza Biancofiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch’egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m’avrebbe egli, ché io uccidere non m’avrei lasciato. Niuna peggior cosa mi poteva fare che cacciarmi da sé: la qual cosa ei non avrebbe mai fatta; ma se pur fatta l’avesse, Biancofiore non sarebbe rimasa, perciò che meco la ove che io fossi andato l’avrei menata: la quale io piú volontieri, senza impedimento d’alcuno, liberamente possederei, che non farei la grande ereditá del reame che m’aspetta. Ma poi che promesso l’ho, io v’andrò, acciò che non paia ch’io voglia ogni cosa fare a mio senno. Egli m’ha impromesso di mandarlami; se non la mi manderá, io avrò legittima cagione a venirmene, dicendo: ‛Voi non m’atteneste l’impromesso dono: io sostenere non posso di stare piú lontano da lei per ubbidire voi’. E da quell’ora in avanti mai piú un tal sí mi trarrá dalla bocca, quale egli ha oggi fatto. S’egli me la manderá, molto piú sarò contento d’esser con lei lontano da lui che in sua presenza stare, e piú beata vita mi reputerò d’avere». E con questo pensiero si levò, e andò in quella parte ov’egli trovò Biancofiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangeva; cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse:
- «Oimè, dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare?». La quale prestamente levatasi in piè, forte piangendo gli si fece incontro, e disse: «Oimè, signor mio, tu m’hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O malvagio amante, non degno de’ doni della santa dea, alla quale i nostri cuori sono disposti: oh, come avestú core di dir tu medesimo sí di dovermi abbandonare? Deh, or non pensi tu dove mi lasci? Io tenera pulcella sono lasciata da te, sí come la timida pecora tra la feritá de’ bramosi lupi. Manifesta cosa è che ogni onore, che io qui riceveva, m’era per lo tuo amore fatto, non perch’io degna ne fossi, sí come a colei che era tua sorella da molti reputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna, a me, per loro stimazione prospera e benivola tenuta per la tua presenza, ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro iniquitá dimostrare con aperto viso, avendola infino a qui per tema di te celata. E ora volessero gl’iddii che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! ma tu mi lasci l’animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io sempre spero d’avere senza te angosciosa vita! la quale, ancor che da te non abbia meritata, mi fia bene investita, perciò che, quando da prima ne’ tuoi begli occhi vidi quel piacere, che poi a’ tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, senza pensare alla mia qualitá vile e popolaresca, e ancora in servitudine, e atta in niuna maniera da potere alla tua magnificenza adequare, mi lasciai con isfrenata volontá pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu, ora, abbandonandomi come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore costringendomi di te, da me stoltamente amato, con grave doglia mi punite, faccendomi riconoscere la mia gran follia, questo non posso io né altri dire che si sconveriga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtú, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, perciò che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha piú volte posto in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita d’Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio esercitassi in me: e certo io l’avrei per me volentieri fatto, ma, dubitando d’offendere quella piccola particella d’amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo sol la mia vita cara per piacere a te. Ma gl’iddii sanno quale ella sará partendoti tu, però che io non credo che mai giorno né notte fia, che io non sofferi molto piú aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro non puoi, ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pure udii io che tu con la tua bocca dicesti d’andare a Montorio! Oimè, or m’avessi tu detto prima: ‛Biancofiore, pensa di morire, perciò che io intendo d’abbandonarti’ , che dire sí, a fidanza delle vane e false parole del tuo padre, il quale promise di mandarmi a te. Certo egli nol fará giammai, perciò che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita della tua mente». Queste e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti baci amorosi, diceva Biancofiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole il parlare, le disse cosí:
- «Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu dí? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli della menoma parte de’ nostri danni. Principalmente giá sai tu che mai per me onorata non fosti, ma solo la tua virtú è stata sempre cagione debita agli onoranti di tale onore: la qual virtú per la mia partita non credo che manchi, né similmente l’onore. E chi sarebbe mai quegli che contra te potesse incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno ne fosse, io non sarò sí lontano che tu di leggieri non possa farlomi sentire, acciò che io con subita tornata qui punisca l’iniquitá di quello: e però di questo vivi sicura e senza pensiero. Ma, oimè, di quel foco, del qual tu dí che io ti lascio l’anima accesa, io ardo tutto! E nel vero, mentre che io starò lontano da te, la vita mia non sará meno angosciosa che la tua: e io lo sento giá, perciò che nova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma senza fine mi dogliono le parole che tu dí, avvilendoti senza alcuna ragione. E certo di quello ch’io ora ti dirò, non me ne sforza amore né me n’inganna, ma è cosí la veritá come io stimo in te. Niuna virtú né bel costume fecero piú gentilesca creatura nell’aspetto, che i tuoi te senza fallo fanno. La chiaritá del tuo viso passa la luce d’Apollo, né la bellezza di Venere si può adequare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose che non fece la cetra del trazio poeta o del tebano Anfione. Per le quali cose l’eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagna; e ancora più: egli è mia opinione che, se possibil fosse che Giunone morisse, niuna piú degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti reputi vile? Or che ha la mia madre piú di valore di te, la quale nacque di ricchissimi re d’Oriente? certo niuna cosa: né di tanto, traendone il nome, ch’è chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se’ tu da me degnamente amata, sì com’io poco inanzi dissi a mio padre. E cessino gl’iddii che tu in alcuno atto o per alcuna cagione t’avessi offesa o t’offendessi, perciò che nessuna persona m’avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le proprie mani ucciso. Vera cosa è questa, e ben la conosco, che, consentendo io l’andata mia a Montorio, a te dessi gravoso dolore: ma certo e’ non dolse piú a te che a me. Ma che volevi tu che io facessi piú avanti? Volevi tu che io con mio padre avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: ed egli potrà assai urtare il capo al muro, che non ci andrò! E se tu consenti che io vi vada, egli m’ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non farà, io volgerò tosto i passi indietro, perciò che io so bene che senza te vivere non potrei lungamente. E non pensare che, per allontanarmi da te, egli mi possa mai trarre te della mente: anzi, quanto piú ti sarò col corpo lontano, tanto piú ti starò con l’animo vicino. E certo impossibile sarebbe che io mai ti dimenticassi, ancor che tutto Lete per la bocca mi passasse; però, anima mia, confortati, e lascia il lagrimare, e fa ragione ch’io sia sempre teco, e non pensare che ’l mio amore sia lascivo come fu quello di Giasone e di molti altri, i quali per nuovo piacere senza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai altra che te, né mai altra donna signoreggerá l’anima mia se non Biancofiore». E dicendo queste parole, piangevano amendui teneramente, spesso guardando l’un l’altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo del vestimento, le lagrime dei chiari visi.
- Nel tempo della seconda battaglia stata tra ’l magnifico giovane Scipione Africano e Annibale cartaginese tiranno, essendo giá la fama del valore di Scipione grandissima, avvenne che uscito del campo d’Annibale un cavaliere in fatti d’arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda nel terreno de’ romani, acciò che ’l campo d’Annibale copioso di vettovaglia fosse, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro fatta, gli sconfisse, e lui ferí mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede vedendosi abbattuto, e sentendosi solo, da’ suoi abbandonato e ferito a morte, alzò il capo, e riguardò il giovane, il quale la sua lancia aveva a sé ritratta, forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente pareva robusto né forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò: «O cavaliere, non ferire, perciò che la mia vita non ha bisogno di piú colpi a essere cacciata di quelli che io ho, né credo che il sole tocchi l’esperie onde che l’anima mia fia a quelle d’Acheronte. Ma dimmi se tu se’ quel valoroso Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso». Il quale Scipione, riguardandolo, e udita la voce, il riconobbe, perciò che in altra parte aveva la sua forza sentita, e disse: «O Alchimede, io sono Scipione». Allora Alchimede gli porse la destra mano, e con fievole voce gli disse: «Disarma il giá morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai, prendi e guardalo, perciò che in lui questa mirabile virtú troverai: che a qualunque persona tu il donerai, ella, riguardando in esso, conosceni incontanente se noioso accidente avvenuto ti sia, perciò che il colore dell’anello vedrá mutato, e sí tosto come l’avra veduto, la pietra tornerá nel primo colore bella. E a me per tale cagione il donò Asdrubale, fratello del mio signore Annibale, a cui tu tanto se’ avversario, quando di Spagna mi partii da lui, che piú che sé m’amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e solo d’alcuno amico; onde, se io qui muoio, con esso meco perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la sua virtú non conoscerli, o forse non sará degno d’averlo: e però io amo meglio che tu, ancor che offeso m’abbi, il tenga in guiderdone della tua virtú, che altri il possegga per alcuno de’ detti modi». E detto questo, la debile testa sopra il destro omero abbassò, e dopo picciolo spazio si morí. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro, piú disioso della virtú dell’anello che del valore, trovò il detto anello bellissimo, e di fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, e molto chiara e bella: il quale egli prese, e, mentre che visse, con gran diligenza il guardò. Ma poi, venendo d’uno discendente in altro della casa, pervenne al valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d’andare sovente per bene della repubblica, come valoroso cavaliere non tralignante da’ suoi antichi, fuori di Roma contro a’ resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la virtú, acciò che ella senza cagione di lui non dubitasse. E quando fu l’infortunato caso da non ricordare, l’aveva ella in mano, e per dolore sel trasse e diello a guardare a Glorizia, dicendo: «Omai non ho io di cui viva piú in dubbio, né per cui la virtú del presente anello piú mi bisogni». Ma dopo la morte di Giulia, Glorizia lo donò a Biancofiore, dicendo come primieramente del padre di lei era stato, e appresso della madre, e la virtú di lui: il quale Biancofiore lungo tempo caramente aveva guardato. E ricordandosene allora, andò per esso e portollo la dove Florio era, e cosí cominciò piangendo a parlare:
- «Deh, perché s’affannano le nostre mani a rasciugar le lagrime de’ nostri visi nel principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai ristea di lagrimare, mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, perché tu mi dí: ‛comanda ch’io non vada a Montorio’? Deh, or perché bisogna egli che io tel comandi? Non sai tu come io volontieri vi ti vedrò andare? Tu lo dovresti ben pensare. Io volontieri lo farei, se convenevole mi paresse; ma perciò che io non disidero meno che ’l tuo. dovere s’adempia che ’l mio volere, poi che tu promettesti d’andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperosa cosa non paia, volendotene rimanere, il disdire quel che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non paiano vento, io concedo, cosí volontieri come amore me ’l consente, che tu vi vada, anzi che tu adempia il piacer del tuo padre. Ma sopra tutte le cose del mondo ti priego che tu nell’assenza non mi dimentichi per alcun’altra giovane. Io so che Montorio è copioso di molti diletti; tutti ti priego che da te siano presi, solamente agli occhi tuoi ponendo freno quando le vaghe giovani scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere, cantando amorosi versi, perciò che a’ loro canti giá molti giovani furono presi: perché se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t’infiammasse, come furiosa m’ingegnerei di venir dove tu ed ella foste; e se io la trovassi, con le proprie mani la squarcerei tutta, né nel suo viso lascerei parte che graffiata non fosse dalle mie unghie, né niuno ordine avrebbero i composti capelli che io, tutti tirandoglile di capo, nol rompessi; e dopo questo, per vituperevole ed eterna tua memoria, co’ proprii denti del naso la priverei: e questo fatto, me medesima ucciderei. Questo però non credo, ben che possibile sia, dovere avvenire: ma come leale amante ne dubito, e però lo dico. Tu avrai molti altri diletti, e ciascuno s’ingegnerà di piacerti, acciò che io ti dispiaccia: ma mi fido nella tua lealtá. E perciò che io sono certa che come tu in molti e varii diletti starai, cosí io in molte avversitá, le quali forse non ti potrò far note sí com’io vorrei, ti voglio pregare, poi che gl’iddii adoperano verso noi tanta crudeltá, e la fortuna mostra le sue forze in dipartirci, che ti piaccia, per amore di me, portar questo anello, il quale, mentre che io senza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare. Io ti priego che allora senza alcun indugio mi venga a vedere: e priegoti che tu sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu lo vedi. Piú non ti dico, se non che sempre il tuo nome sará nella mia bocca, come quello che è nella memoria segnato, e nello inamorato cuore col tuo bel viso figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali pregar debbo della mia felicitá: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, come a colui in cui le mie speranze e’ miei pensieri tutti si fermano per aver pace. E brevemente una cosa ti ricordo: che s’egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te sí come promesso t’ha, che il tornare tosto faccia a tuo potere, perciò che se troppo senza vederti dimorassi, lagrimando del tutto mi consumerei». E dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; né prima abbracciando si giunsero, che i loro cuori, da grieve doglia costretti per la futura partenza, paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il suo sangue a render caldo, e i membri abbandonati rimasero freddi e vinti, ed essi caddero semivivi, prima che Florio potesse alcuna parola rispondere. E cosí, col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sí che chi veduti gli avesse, piú tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio, il core rendé le perdute forze a’ sopiti membri di Florio, il quale tornò in sé tutto debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto; e tirando a sé le braccia, gravate dal candido collo di Biancofiore, si dirizzò, e vide ch’ella non si moveva, né alcun segnale di vita mostrava. Allora pieno di smisurato dolore, con gran fatica si ritenne che la seconda volta non cadesse: e disiderato avrebbe d’esser subitamente morto; ma veggendo che ’l dolore nol consentiva, piangendo forte si tolse la semiviva Biancofiore in braccio, e temendo forte che la misera anima non avesse abbandonato il corpo e mutato mondo, con timida mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di vita rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla veritá, ché forse caldo trovava e parevagli essere ingannato, cominciò piangendo a baciarla, e diceva: «Oimè, Biancofiore, or se’ tu morta? Dov’è ora la tua bella anima? In quali parti va ella senza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl’iddii essere tanto crudeli che essi abbiano alla tua morte consentito? O Biancofiore, deh, rispondimi! Oimè, ch’io sono il tuo Florio che ti chiama! Deh, tu mi parlavi dianzi con tanto affetto, disiderando di mai da me non ti partire, ed ora non mi rispondi? Se’ tu cosí tosto sazia di essere meco? Oimè, che gl’iddii manifestano bene che ora di me sono invidiosi, e che m’hanno in odio. Ma di questo male m’è piú cagione il mio crudel padre, il quale ha sí subitamente affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l’avrai interamente! Le parole da me dette questa mattina ti saranno dolente augurio e oggi ti faranno dolente apportatore del foco, dove tu miseramente ardere mi vedrai: la tua crudeltá è stata cagione della morte di costei, ed ella e tu sarete cagione della mia. Vivere possa tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl’iddii prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che tu sia, rallegrati, ch’io m’apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua congiunti, tali tra le non conosciute ombre in eterno amandoci staremo insieme. Una medesima ora, un medesimo giorno perderá due amanti, e alle loro pene amare sará principio e fine». E giá aveva posto mano sopra l’aguto coltello, quando egli si chinò prima per baciare il tramortito viso di Biancofiore, e chinandosi il trovò riscaldato, e vide muovere i palpebri degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso lui. E giá il tiepido caldo, che dal core rassicurato movea, entrando pe’ freddi membri, recando le perdute forze, addusse un sospiro angoscioso alla bocca di Biancofiore, e disse: «Oimè!». Allora Florio udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio, e disse: «O anima mia dolce, or se’ tu viva? Io m’apparecchiava di seguitarti nell’altro mondo». Allora si dirizzò Biancofiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma Florio, veggendola levata, disse: «O sola speranza della vita mia, dove se’ tu infino a quest’ora stata? Qual cagione t’ha tanto occupata? Io stimavo che tu fossi morta! Oimè, perché pigli tu tanto sconforto per la mia partita? Tu la mi concedi in prima con le parole, e poi con gli atti pieni di dolor la mi vieti. Io ti giuro pe’ sommi iddii che, s’io vi vado, o tu verrai tosto a me sí come promesso m’ha il mio padre, o io poco vi dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io la dimorerò, e ancora mentre ch’io starò in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e lascia tanto dolore: ché, s’io credessi che questa vita dovessi tenere, io in niuno atto v’andrei; e s’io pur v’andassi, credo che pensando al tuo dolore morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia mente, che il presente anello, il quale ora donato m’hai, sempre guarderò, tenendolo sopra tutte le cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imagínerò di vederti. E se mai accidente addiviene ch’egli si turbi, che Iddio non lo voglia, niuno accidente mi potrá ritenere ch’io non sia a te senza alcuno indugio: e però ti priego che tu ti conforti». Queste parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri, furono tra Florio e Biancofiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi che egli chiudendola divenne tenebroso, i due amanti pensosi, teneramente dicendo: ‛A Dio!’si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.
- Quella notte fu a’ due amanti molto gravosa, e non fu senza molti sospiri trapassata, ancor che assai breve la reputassero, perciò che piú tosto avrebbero voluto quelle pene sostenere essendo cosí vicini, che doversi il vegnente giorno dipartire. Ma poi che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui, Florio si levò, e con lento passo n’andò davanti al re e alla reina, dove Biancofiore similmente pensosa giá era venuta; e fatta la debita riverenza al padre, e preso congedo dalla madre, la quale, in vista non sana, giaceva sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e verso la madre, e caramente raccomandò loro Biancofiore, pregandoli che tosto gliela mandassero, e poi abbracciata Biancofiore, nella loro presenza la baciò dicendo: «A te sola rimane l’anima mia; chi ononera te onorerá me»; e appena, cosí parlando, costrinse per vergogna le lagrime, che ’l grave dolore che al cuor sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera poté dire: «Rimanetevi con Dio»; e, discese le scale, salí a cavallo, e senza piú indugio si partí.
- Molto dolse a tutti la partita di Florio, posto che il re e la reina contenti ne fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma sopra tutti dolse a Biancofiore. Ella l’accompagnò infino a’ piè delle scale, senza far motto l’uno all’altro; e poi che a cavallo il vide, riguardando lui con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salí sopra la piú alta parte della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto le fu possibile di vederlo. Ma poi che piú veder noi poté, ella, accomandandolo agl’iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sí gran pianto, che ne sarebbe preso pietá a chiunque udita l’avesse o veduta, e dicendo cosi: «Oimè, Florio, ora pur te ne vai tu: or pure ho veduto quello che io non credetti mai che gli occhi miei sostenessero di vedere! Deh, or quando sani che io ti rivegga? Io non so come io mi faccia; io non so come senza te possa vivere. Oimè, perché ieri non mori’ io nelle tue braccia, quando fui sí presso alla morte, che tu credesti che morta fossi? Io non sentirei ora questa doglia per la tua partenza, e l’anima mia ne sarebbe ita lieta, in qualunque mondo ne fosse ita, essendo io morta in sí beato loco». Glorizia, la quale allato le sedea, piangendo forte per pietá di lei, la confortava quanto piú poteva, dicendo: «Oh, Biancofiore, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo bel viso, e consumarti tutta?’Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò che la tua bellezza conservata moltiplicasse sí, che, qiuando tu andrai a Montorio, tu piacessi a Florio, il quale, se consumata ti vedrá, ti rifiuterá: e io credo che tu vi sarai tosto mandata, sí come io ho udito dire al re. Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli s’ucciderebbe. Or che faresti tu se egli fosse andato piú lontano, dove a te non fosse lecito l’andare? Eh, non si vuoi far cosí! Usanza è che gli uomini e le donne innamorate spesso abbiano per partenza o per altro accidente alcune pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che questa vita tu durare non potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire anche lui: adunque se per amore di te non vuoi prendere conforto, prendilo per amor di lui, acciò che e’ viva». E con cotali parole e con molte altre appena la poté racconsolare.
- Florio partito molto si turbò nel viso, mostrando il dolore che l’angoscioso animo sentiva. Ma alcuni de’ suoi compagni andavano lasciando i volanti uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle paurose bestie. E cosí, chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta piú noia gli davano che diletto: perciò che egli talora imaginando andava d’essere stretto dalle braccia di Biancofiore, sí come giá fu, e non gli pareva cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la cittá, la quale egli mal volontieri abbandonava, si rivolgeva; e cosí rivolgendosi andò infino che lecito gli fu di poterla vedere. E cosí andando con lento passo, s’era molto avvicinato a Montorio, quando il duca Feramonte, che la sua venuta aveva saputa, contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s’apparecchiò di cavalcare e di riceverlo onorevolmente. E coverti sé e i loro cavalli di sottilissimi e belli drappi di seta, rilucenti per molto oro, circondati tutti di risonanti sonagli, con bagordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii, e coronati tutti di diverse frondi, bagordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo risonare l’aere di molti suoni.
- Quando Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando quella allegrezza e festa, che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e i suoi compagni ricevette, e fu similmente da loro ricevuto. E con questa festa, la quale quanto piú alla terra s’appressavano tanto piú cresceva, n’andarono infino alla cittá, la quale trovarono per tutte le rughe ornata di ricchissimi drappi, e piena di festante popolo: né veruna casa v’era senza canto o allegrezza. Ogni uomo di qualunque etá faceva festa, e similmente le donne cantando versi d’amore e di gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi con quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da’ piú nobili della terra ricevuto. E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio riposati, presero l’acqua alle mani, e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio, molti giorni solennemente per la cittá festeggiarono.
- Biancofiore cosí rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate sopra l’alta casa, in parte donde vedeva Montorio apertamente, e quello riguardava con molti sospiri e aveva alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima: «Lá è il mio disio e il mio bene». E tal volta avveniva che stando ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venir da quella parte, e ferivala per mezzo la fronte, il quale ella con aperte braccia riceveva nel suo petto, dicendo: «Questo toccò il mio Florio, sí come egli fa ora me, inanzi che egli giungesse qui; e poi, quindi partendosi, andava in tutti quelli luoghi della casa dov’ella si ricordava d’avere giá veduto Florio, e tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcuna volta d’amare lagrime. Questi erano i templi degl’iddii e gli altari, i quali ella piú visitava. E niuna persona veniva da Montorio, che ella o tacitamente o in palese non dimandasse del suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio non fosse da lei molte fiate ricordato; e s’ella andava a dormire, non senza ricordare piú volte Florio vi si poneva, e niuna cosa senza il nome di Florio non faceva; e s’ella dormendo alcun sogno faceva, si era di Florio; e per questo sempre avrebbe disiderato di dormire, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse ritrovata: ben che poi, trovandosi dal sogno ingannata, le fosse assai gravosa noia. E pregava sempre gl’iddii che ’l suo Florio da fortunoso caso guardassero, e che le dessero grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a lei. Ella non si curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato ordine, ma quasi tutta rabbuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Né mai si curava di lavare lo splendido viso, o di vestir belli e preziosi vestimenti, perciò che non v’era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare e l’allegrezza e la festa del tutto avea lasciato per intendere a sospirare. Né alcuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando di tosto riveder Florio prendeva quel conforto che ella poteva, tenendo sempre l’anima nelle mani di lui.
- Florio simigliantemente a niuna cosa, stando in Montorio, aveva tanto l’intendimento fisso quanto alla sua Biancofiore, né era da lei una volta ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E cosí come Montorio era da Biancofiore vagheggiato e rimirato spesso, cosí egli riguardava spesso Marmorina. E niuno suo ragionamento era giá mai se non d’amore o della bellezza della sua Biancofiore, la quale sopra tutte le cose disiava di rivedere. Egli da quel dí che Amore occultamente l’accese del suo foco infino a quell’ora, non la baciò mai, né fece alcuno amoroso atto, che cento volte il di tra sé noi ripetesse, dicendo: «Deh, ora mi fosse lecito pur di vederla solamente!»; e tra sé sovente piangeva il tempo il quale indarno gli pareva avere perduto stando con Biancofiore senza baciarla o abbracciarla, dicendo che se mai piú con lei si ritrovasse cosí, come giá s’era trovato, mai piú per ozio o per vergogna non rimarrebbe che egli non ispendesse il tempo in amorosi baci. Egli si portava molto saviamente, prendendo col duca e Ascalione e con molti altri compagni, varii diletti, quali nel iemale tempo prendere si possono, sperando sempre che ’l re di giorno in giorno gli dovesse mandar Biancofiore. E con questi diletti, mescolati di speranza, sempre aspettando, assai leggiermente si passò tutto quel verno senza troppa noia, perciò che alquanto l’amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel core rattiepidito e ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Montone Frisseo, e la terra cominciò a spogliarsi le triste vestigie del verno, e a rivestirsi di verdi e fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l’usate forze all’amorose fiamme, e cominciarono a cuocere piú che usate non erano per adietro nella mente dell’innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi lontano da Biancofiore, incominciò a provar nuovo dolore da lui ancora non sentito in alcun tempo, sí ch’egli diceva cosí: «Ora pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancofiore, stando all’alte finestre della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra gli altri le ne piacerá, e che ella, per lo non poter veder me, avendomi dimenticato, s’innamori di colui? Oimè, che questo m’è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilitá la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse, niuna cosa altro che la morte mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per gli antichi miei si fece o si deve far cosa che alla vostra deitá aggradi, facciate che questo non sia». E questo pensiero piú che altro gli stava nella mente. Egli non vedeva alcuna giovane che il riguardasse, che egli incontanente non dicesse: «Oimè, cosí fa la mia Biancofiore; i non conosciuti giovani ella rimira tutti, come costoro fanno me, cui esse forse mai piú non videro. E qual cagione recò Elena ad innamorarsi dello straniero Paris se non la follia del suo marito, che, andandosene all’isola di Creti, lasciò lei assediata da’ piacevoli occhi dell’innamorato giovane? Né mai Clitennestra si sarebbe innamorata d’Egisto, se Agamennone continuamente appresso stato le fosse: il quale poi lei insieme con la vita per tale innamoramento perdé. Ma di questo non n’ha colpa se non l’empia iniquitá del mio padre, il quale gl’iddii consumino, sí com’egli fa consumare me. Egli m’impromise piú volte di mandarlami senza fallo qua, e in brieve, e mai mandata non me l’ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo inganno, e trovo che vere sono le parole che Biancofiore mi disse, dicendo che mai non ce la manderebbe, e che egli qua non mi mandava se non per far che ella m’uscisse di mente. Oh, come male il suo avviso è venuto al pensato fine, con ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsí come io ardo ora». E istando Florio in questi pensieri, tanto gli cominciò a crescere il disio di voler vedere Biancofiore che egli non trovava loco, né ad altro pensar poteva notte e giorno. Egli aveva per questo ogni studio abbandonato, né di mangiare né di bere pareva che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a Marmorina senza la licenza del re, acciò che egli a far peggio non si mettesse, ch’egli voleva avanti sostenere quella vita cosí noiosa; ed era giá tale nel viso divenuto, che di sé faceva ognuno maravigliare. E non avendo ardire di tornare a Marmorina, andava il giorno senza alcun riposo cercando gli alti luoghi, da’ quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli sapeva che Biancofiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente e solo se n’andava infino alle porte del palagio del suo padre, non dubitando d’alcun fiero animale, o d’ombra stigia, o d’insidie di ladroni, o d’altra cosa: e quivi giunto, si poneva a sedere e con sospiri e con pianti piú volte le baciava, dicendo: «O ingrate porte, perché mi tenete voi che io non possa appressarmi al mio disio, il quale dentro da voi serrato ritenete?». E certo piú volte egli fu tentato di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di romperle per passar dentro, ma per paura della feritá del padre, il cui intendimento giá apertamente conoscere gli pareva, se ne rimaneva, tornandosi a Montorio per l’usata via. E sí lo strigneva amore, che vita ordinata non poteva tenere, ma sí disordinata la teneva, che piú volte il duca e Ascalione avvedendosene il ripresero; ma poco giovava. Egli pure da amore costretto, piú volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio piú attendere non poteva, e però egli se ne voleva con sua licenza tornare a Marmorina.
- Il re, il quale piú volte aveva inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e similmente aveva udito a molti recitare la dolorosa vita ch’egli in Montorio menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n’andò ad una camera dove la reina era, al quale, sí tosto come la reina il vide, dimandò quello che egli aveva, che sí pieno d’ira e di malinconia nell’aspetto si mostrava. Il re rispose: «Noi molto ci rallegrammo dell’andata di Florio a Montorio, credendo che egli incontanente dimenticasse Biancofiore, ma egli m’è stato detto da piú persone che la sua vita è tanto angosciosa, perché e’ non può venire a vederla, che ciò è maraviglia. E diconmi piú, che egli del tutto lo studio ha lasciato: la qual cosa fosse il maggior danno che mai ce ne potesse venire! Ma egli ancora da grande amore costretto non mangia né dorme, anzi in pianti e in sospiri consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso divenuto tale che poco piú fu Erisitone quando in ira venne a Cerere, e non pare Florio, sí è egli impalidito; e non vuole udire d’altrui parlare che di Biancofiore, né prender vuole alcun conforto che porto gli sia. Né a questo vale alcuna riprensione che fatta gli sia. E ancora m’ha mandato piú volte dicendo che venir se ne vuole; ond’io non so che m1 fare, né che mi dire, se non che d’ira e di malinconia mi consumo e ardo».
- Grave parve molto alla reina l’udire queste cose, e, accesa d’ira nel viso, subitamente rispose: «Ahi, come gl’iddii giustamente vi pagano! Or che avevate a fare co’ romani pellegrinanti, quando tanti n’uccideste? E poi che tanti n’aveste uccisi, perché la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciaste? Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa essi nel ventre di quella occulto foco vi mandarono a casa. Or chi dubita che mentre Biancofiore viverá, Florio mai non la dimenticherá? certo niuno: questo è manifesto. E cosí per la vita di costei perderemo Florio; e cosí per una vil feminella potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque pensisí come costei moia». Rispose il re: «Prima oggi che domani, ché certo mi pare che è come voi dite, che, mentre che ella sará in vita, non sará dimenticata da Florio». Allora disse la reina: «E come faremola noi subitamente morire senza avere cagione che legittima paia? Se noi lo facciamo, ce ne potra gran biasimo seguire. E certo se Florio lo risapesse, e’ sarebbe un dargli materia di disperarsi e d’uccidere se medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni uomo giudicasse ch’ella giustamente morisse; e cosí saremo di mala fama e della vita di Biancofiore insieme disgravati». E, senza guari pensare, la reina piú avanti disse: «La cagione potra essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto il vostro regno si fa la gran festa della vostra nativitá, s’appressa; e dove ch’ella si faccia grandissima, sí si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancofiore presentato, o che Biancofiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma veramente abbiate ordinato col siniscalco che qualunque si sia quella cosa ch’ella apporterá, che celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti a voi sará posato, ed ella partita dal vostro cospetto, fate che in alcun modo o cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse: della qual cosa chiunque sará il primo mangiatore, o subitamente morrá, o enfierá, per la potenza del veleno, e cosí a tutti fia manifesto che ella abbia voluto avvelenarvi; e come voi avrete questo veduto, fate che vi turbiate molto, e, faccendo il romor grande, la facciate prendere, e subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. E chi sará colui che non dica che tale morte non sia ragionevole? O che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua salute? E certo questo non vi sará malagevole a fare molto, però che il siniscalco vostro l’ha in odio: e la cagione è questa, ch’egli piú volte ha voluto il suo amore, ed ella sempre l’ha rifiutato faccendosi di lui beffe». «Certo» disse il re, voi avete ben parlato, e cosí si fará, né giá pietá che la sua bellezza porga mi vincerá.» Partissi il re dalla reina, e fece chiamare a sé incontanente Massamutino, suo siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse cosí: «Tu sai che ai tuoi orecchi niuno mio segreto fu mai celato, né mai alcuna cosa senza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran leanza la quale io ho in te trovata. Ora poi che gl’iddii hanno te eletto per mio secretario, piú che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale senza mai manifestare ad alcuno, fa che tu tenga occulta; però che se per alcun tempo fosse rivelata ad altri, senza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse danno. Ciascuno, il quale vuole saviamente menar sua vita seguendo le virtú, deve i suoi vizi abbandonare, acciò che fine onorevole ne gli segua; ma quando avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse, non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si fugga: e fra gli altri mondani prencipi che nelle virtuose opere si sono dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu lo sai. Ma ora nuovo accidente mi conduce a forza a cessarmi alquanto da virtuosa vita, temendo di piú grave pericolo che non sarebbe il fallo che fare intendo; e dicoti cosí, che a me ha mandato la fortuna tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio io ingiustamente far morire Biancofiore, la quale io in veritá ho amata molto e amo ancora, o voglio che Florio mio figliuolo per lei vilmente si perda; e sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sará la morte di Biancofiore che la perdenza di Florio, e piú mio onore e di coloro che dopo la mia morte debbono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perché. Tu sai manifestamente quanto Florio ami Biancofiore; e certo se egli, giovanissimo d’eta e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, ché mai natura non adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancofiore risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sí come io stimo, è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per isposa; e io dubitando che tanto amore della sua bellezza l’accendesse, che egli la si facesse sposa, per fargliela dimenticare il mandai a Montorio, sotto spezie di volerlo fare studiare. Ma egli giá per questo non la dimentica, ma, secondo che a me è stato porto, egli per amor di costei si consuma, e, rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli, dargliela non mi convenga per isposa, e, s’io non gliela do, che egli niuna altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliela donassi, o che egli occultamente la prendesse, primieramente a me e a’ miei grande vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abbassato per isposa discesa di sí vile nazione, come stimiamo che costei sia. Appresso, voi non lui dovreste reputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi rimarrebbe nato di sí picciola condizione, sí come sarebbe nascendo di lei. E s’io non gliela do per isposa, egli niun’altra ne vorrá, e non prendendone alcuna, senza alcuno erede seguirá l’ultimo giorno: e cosí la nostra signoria mancherá, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che queste cose dette si cessino, il meglio è a fare che Biancofíore muoia, come detto ho, imaginando che com’ella sará morta, egli per forza se la caccerá dal core, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancofiore ci potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno possiamo aver cagione, che parrá giusta e convenevole alla sua morte: e odi come. E’ non passeranno molti giorni che la gran festa della mia nativitá si fara, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno ad onorarmi: in quel giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare un pavone bello e grasso, pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancofíore il presenti da sua parte, quando io e’ miei baroni saremo alle tavole. E acciò che niuno non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo piú tosto recare a Biancofiore che ad alcuno altro scudiere o donzello, sí le dirai che a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col pavone in mano vada dimandando le ragioni del pavone, le quali se non da gentili pulcelle possono essere addimandate. E sí tosto come questo fatto avrai, ed ella avrá lasciato davanti da me il pavone, io, faccendone prendere alcuna estremitá, e gittatola a terra, so che alcun cane la ricoglierá, la quale mangiando subitamente morrá. E quinci sembrerá a tutti quegli che nella sala saranno, che Biancofiore m’abbia voluto avvelenare, e imagineranno che ella abbia voluto far questo, perché io la doveva mandare a Montorio, e non ve l’ho mandata. E io, mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di qualunque vi sará, ella sará giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che senza indugio sia messa ad esecuzione, e cosí saremo fuori del dubbio nel quale io al presente dimoro». Poi che il re ebbe cosí detto, egli si tacque aspettando la risposta del siniscalea; la quale fu in questo tenore:
- «Signor mio, senza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta avete, la quale sempre con quella debita lealtá che buon servidore deve a naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre che in vita dimorerò. E l’avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe altro che piacere: ond’io il lodo, e dicovi che saviamente preveduto avete. Con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti con diritto stile è da riputar sapienza, quanto le future con perspicace intendimento riguardare. E senza dubbio, se molto durasse la vita di Biancofiore, quello che narrato avete, n’avverrebbe; ma inanzi mandando cautamente le predette cose, credo sí fare che il vostro intendimento sareiá fornito senza che alcuno mai niente ne senta». E questo detto, senza piú parlare, partirono il maladetto consiglio.
- Oimè, misera fortuna! O Biancofiore, or dove se’ tu ora? perché non ti fu lecito d’udire queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a riguardar que’ luoghi ove tu continuamente con l’animo corri e dimori, disiderando d’esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d’andare a Montorio a veder Florio, o che egli ritorni a veder te, nutrichi l’amorose fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna t’apparecchia a sostenere. A te pare ora stare nell’infima parte della sua rota, né puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quel che tu hai per l’assenza di Florio a Montorio; ma tu dimori nel piú alto loco, a rispetto di quello che tu sarai. Oimè, che tu, lontana al consiglio iniquo, spandi amare lagrime per amore, le quali piú tosto per pietá di te medesima spandere dovresti, avvegna che a coloro che semplicemente vivono, gl’iddii provveggano a’ bisogni loro, e molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che quando ella falsamente ride ad alcuno.
- La real sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali sostenevano l’alte lamie che la coprivano, fatte con non picciolo lavoro e gravi per molto oro; e le finestre divise da colonnelli di cristallo vi si vedevano, i cui capitelli e d’oro e d’argento erano, per le quali la luce entrava dentro. E nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l’ossa degl’indiani liofanti, commesse maestrevolmente, con sottili intagli lavorate, v’erano per porte; e in quella sala si vedevano ne’ rilucenti marmi intagliate l’antiche storie da ottimo maestro. Quivi si poteva vedere la dispietata rovina di Tebe, e la fiamma dei due figliuoli di Giocasta, e l’altre crudeli battaglie fatte per le loro divisioni, insiememente con l’una e con l’altra distruzione della superba Troia. Né vi mancava alcuna delle vittorie del grande Alessandro. Con queste ancora vi si mostrava Farsaglia tutta sanguinosa del romano sangue, e’ prencipi corrucciati, l’uno in fuga e l’altro spogliare il ricco campo degli orientali tesori. E sopra tutte queste cose v’era intagliata l’imagine di Giove, vestito di piú ricca roba che quella che Dionisio fiero giá gli spogliò, intorniato d’arbori d’oro, le cui frondi non temevano l’autunno, e i loro pomi erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendevano grandissima quantitá di vasella d’oro e d’argento; né fu alcuno strumento che la entro quel giorno non risonasse, accompagnati da dolcissimi e diversi canti. Né in tutta Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, né alcuno altare di qualunque iddio vi fu senza divoto foco e debito sacrificio, da’ quali il re e gli altri gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza di essa. E appressandosi l’ora del mangiare, presa l’acqua alle mani, andarono a sedere. Il re s’assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava l’altre, e con seco chiamò sei de’ maggiori e de’ piú nobili baroni che seco avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra, stando di reali vestimenti vestito in mezzo di loro. E quelli che dalla sua dritta mano sedeva, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso dall’antico Borea re di Trazia; appresso del quale sedeva Ascalione, nobilissimo cavaliere e antico per etá e per senno, degno d’ogni onore; e poi sedeva un altro giovane chiamato Messalino, figliuolo del gran re di Granata, piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Feramonte duca di Montorio piú presso gli sedeva, il quale aveva Florio quel giorno lasciato soletto per venire a tanta festa; al quale appresso uno chiamato Sara, ferocissimo nell’aspetto, signore di monte di Barca, sedeva con un giovane grazioso molto, chiamato Menedon, disceso dall’antico Iarba re de’ getuli. Appresso, nelle piú basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da nobilissimi giovani e di gran pregio.
- Massamutino, al quale non eta giá il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente e con molta sollecitudine apparecchiare un bello pavone, il quale egli di sugo d’una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quel giorno per tale operazione si vedrebbe vendicato di Biancofiore, che per amadore l’avea rifiutato. E fatto questo, avendo giá la reale mensa e tutte l’altre di piú vivande servite, né quasi altro v’era rimaso a fare che mandare il pavone, accompagnato con piú scudieri andò per Biancofiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse alcuna cosa di male pensare, aveva fatta quel giorno vestire nobilmente d’un vermiglio sciamito, e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avvolti al capo, sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendeva, e ’l chiaro viso, giá lungamente di lagrime bagnato, s’aveva quel giorno lavato per volontá della reina, il quale dava piacevole luce a chi la vedeva: posto che questo Biancofiore aveva mal volontieri fatto, pensando che ’l suo Fiorio non v’era. Ma perché bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo né ardito di fare ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua compagnia, disse cosí: «Madonna, oggi si celebra, sí come voi sapete, la gran festa della nativitá del nostro re, per la qual cosa volendo noi la vostra festa fare maggiore e piú bella, provedemmo di fare apparecchiare un pavone, il quale noi vogliamo fare davanti al re presentare e a’ suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la qual la festa divenga maggiore e piú bella; né si fatto uccello è convenevole d’esser portato alla reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; e io non ne conosco alcuna, né qua entro né in tutta la nostra cittá, che a Biancofiore si possa appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sí fatto servigio vi piaccia di concederle licenza, che con esso noi venga incontanente, perciò che l’ora del portarlo è venuta, né si può piú avanti indugiare. La reina, che ben sapeva come l’opera doveva andare, sí come quella che ordinata l’aveva, stette alquanto senza rispondere; ma poi che la crudele volonta vinse la pietá che di Biancofiore le venne, udendo ch’ell’era richiesta d’andare a quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, ella disse: «Questo ci piace molto»; e voltata verso Biancofiore, le disse: «Vavvi», ammaestrandola che i debiti del pavone addimandasse a tutti i baroni che alla reale tavola dimoravano, senza andare ad alcuno altro, e poi davanti al re posasse il pavone, e tornassesene, tenendo bene a mente quello in che ciascuno si vantasse. Biancofiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti, senza aspettare piú comandamento se n’andò col siniscalco; il quale, poi che presso furono all’entrare della sala, le pose in mano un grande piattello d’argento, sopra il quale l’avvelenato pavone dimorava, dicendo: «Portato avanti, però che piú non c’è da stare». Biancofiore, preso quello senza farsene alcuna credenza, non avvedendosi dello inganno, con esso passò nella sala, nella quale, sí tosto com’ella entrò dentro, parve che nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza del suo bel viso; e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri che mangiavano salutati, s’appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto, dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l’aurora, in cielo in diverse parti dipigne, cosí disse: «Poi che gl’iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendo conceduto che io a questo onore fossi, piú tosto che alcun’altra giovane, eletta a portare davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per quella dea, al cui servizio giá fu disposto, merita che qualunque alla sua mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e caramente vi priego che voi e i vostri compagni a ciò rendere non mi siate ingrati, ma con benigno aspetto continuiate la valorosa usanza. E voi, altissimo signore, sí come piú degno per la real dignitá, per senno e per etá, in prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per esempio di voi debitamente procedano». E qui si tacque.
- Al nuovo e mirabile splendore si maravigliarono tutti i dimoranti della gran sala, non meno che alla chiara voce di Biancofiore, piena di soavissima melodia; e a lei graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell’animo, perciò che giá vedeva per la pensata via appressarsi al disiderato fine, con lieto viso, poi che tutta la sala tacque, disse: «Certo, Biancofiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnitá del santo uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; né a questo alcun di noi può debitamente disdirsi: ond’io, sí come principale capo del nostro regno, comincerò, poi che la ragione con il tuo volere il domanda». E voltatosi verso l’antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiato, disse: «Io giuro per la deita del sommo Giove, la cui figura dimora davanti a noi, e per qualunque altro iddio che insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo mio antico avolo Atalante, sostenitore d’essi regni, e per l’anima del mio padre, che avanti che ’l sole ricerchi un’altra volta quel grado nel quale ora dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono lieta vita, d’averti donato per marito uno de’ maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente pavone ti sia ora donato». Assai coperse il re con queste parole il suo malvagio inganno, ignorando quello che i fati gli apparecchiavano; ed ella sospirando tacitamente al suono di queste parole, in prima notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono augurio, tra se stessa dicendo: «Adunque avrò per marito Florio, il quale io solo per marito disidero, però che nullo barone c’è maggiore di lui in questo regno»; e poi ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il quale incontanente cosí disse: «Io imprometto al pavone che, se gl’iddii mi concedono che io vi vegga per matrimoniale patto dare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani, vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, addestreremo il vostro cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta sarete nella nuova casa». «Adunque» disse Biancofiore, «piú che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare»; e passò avanti ad Ascalione, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo: «O caro maestro, e voi che vantate al pavone?». Rispose Ascalione: «Bella giovine, ben che io sia pieno d’etá e che la mia destra mano giá tremante possa male balire la spada, sí mi vanto io per amor di voi al pavone, che quel giorno che voi sposa novella sarete, la qual cosa gl’iddii inanzi la mia morte mi facciano vedere, io con qualunque cavaliere sará nella vostra corte disideroso di combattere meco, con la tagliente spada senza paura combatterò, obbligandomi di sí saviamente combattere, che senza offendere io lui o egli me, o voglia egli o no, gli trarrò la spada di mano, e davanti a voi la presenterò». Ciascuno che questo udí si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancofiore andando avanti venne in presenza di Messalino, il quale veggendola, quasi della sua bellezza preso, disse: «Giovane graziosa, per amore di voi io vanto al pavone che quel giorno che voi prima sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di datteri coperti di frondi e di frutti, non d’una natura con gli altri, però che quelli, dei quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un bisante d’oro». Inchinandosigli Biancofiore, il ringraziò molto; e volti i passi suoi verso il duca Feramonte, che alla sinistra del re sedeva, e davanti da lui posato il pavone, richiese quello che avanti agli altri aveva richiesto. A cui il duca rispondendo, disse: «E io prometto al pavone che per la piacevolezza vostra, il giorno che sposa novella sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerá, di mia mano della coppa vi servirò quando vi piacerá». «Certo» disse Biancofiore, «di tal servidore Giove, non che io, si glorierebbe»; e passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse: «Io vanto al pavone che quel giorno che gl’iddii vi concederanno onore di matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose pietre e di risplendente oro bellissima; e ove che io sia, se saprò avanti la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani». Il quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse: «E io prometto al pavone che se gl’iddii mi concedono che io maritata vi vegga, tanto quanto la festa delle vostre nozze durerá, io con molti compagni, vestiti ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con aste in mano e con bandiere bagordando ed armeggiando a mio potere esalterò la vostra festa». Ringraziollo Biancofiore, e tornata indietro, davanti al re posò il pavone, e cosí disse: «Principalmente voi, o caro signore e singolare mio benefattore, e appresso questi altri baroni, quanto io posso, tutti de’ promessi doni vi ringrazio, e priego gl’immortali iddii che la dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, essi con la loro benignitá di ciò vi meritino»; e questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partí, e con lieto viso tornò alla reina, narrandole gl’impromessi doni. A cui la reina disse: «Ben ti puoi oMai gloriare, pensando che uno sí fatto prencipe qual è il nostro re, e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo onore e piacere obbligati».
- Rimase sopra alla real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancofiore si fu partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane chiamato Salpadino, al re per consanguinitá congiunto, il quale quel giorno davanti il serviva del coltello, prese con presta mano il pavone, e, gittata a terra alcuna stremitá, cominciò a volerlo ismembrare; ma non prima caddero a terra le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese, e, mangiandole, incontanente gl’incominciò a surgere una tumorositá dal ventre, e venirgli alla testa, la quale tanto gli ingrossò subitamente che quasi piú era la testa grossa fatta che esser non soleva tutto il corpo; e similmente discorsa per tutti gli altri membri, oltre a’ loro termini grossi ed enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza pareva che della testa schizzare gH dovessero, ed esso con doloroso mormorio, mutandosi di piú colori, disteso tal volta in terra e tal volta in cerchio volgendosi, in picciolo spazio quivi morí. La qual cosa da molti veduta, la gran sala fu tutta a romore levata, e i soavissimi strumenti tacquero, ostrandosi questo al re, il quale incontanente gridò: «Che può essere questo?». E voltato a Salpadino, il quale giá voleva fare la credenza, disse: «Non tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi; prendasi un altro membro del presente pavone, e gittisi ad un altro cane, però che questo qui presente morto mostra che per veleno morisse, onde che egli il prendesse, o dalle stremita da te gittate in terra, o d’altra parte». Salpadino senza alcun dimoro gittò la seconda volta a terra un maggiore membro ad un altro cane, il quale non prima l’ebbe mangiato, che, con simile modo voltandosi che ’l primo, e del mortale dolore affannato, cadde, e quivi in presenza di tutti morí. Onde il re con furioso atto gridò: «Chi ha la nostra vita con veleno voluta abbreviare?». E gittata in terra la tavola che dinanzi a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancofiore, il siniscalco e Salpadino fossero presi, però che dubitava che alcuno d’essi tre avvelenare l’avesse voluto co’ suoi compagni. O sommo Giove, or non potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo ingannatore, prima che la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente ricevesse? Or tu sostenesti che i tuoi compagni fossero co’ membri umani tentati alla tavola di Tantalo, quando l’omero a Pelope fu rifatto con uno d’avorio; e similemente sostenesti che il misero Tereo sepoltura fosse dell’unico suo figliuolo! Erati dunque cosí grave per giusta vendetta abbagliare l’iniquo senso del re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperitá, provi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.
- Furono presi i tre senza dimora con rabbiosa furia, e messi in diverse prigioni. Ma poi che Biancofiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le potesse, né ella ad altri. Del siniscalco e di Salpadino furono le scuse diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancofiore e non altri quel fallo avere commesso. Di questo’ i circustanti si maravigliarono non poco, non potendo questo credere né pensare; ma pure il manifesto presentare del pavone faceva che tutti non potevano disdire quello che essi medesimi non avrebbono voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto racchetato, e il siniscalco e Salpadino per le loro scuse sprigionati, il re fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui erano quella mattina stati a tavola, e adunato con molti in una camera, disse cosí: «Senza dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per molte ragioni che Biancofiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere che senza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella mia corte le ho fatto, sí come di recarla da serva a libertade, e farla ammaestrare in iscienza, e continuamente vestirla con vestimenti reali col mio figliuolo, e darla in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nemica ma cara figliuola avere. E sí come avete potuto questa mattina vedere e udire, non si finiva questo anno che io intendeva di maritarla altamente, perciò che giá vedeva la sua eta richiedere ciò. E di tutto questo a me è avvenuto come avviene a chi riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi Aquiloni soffiano, che egli è il primo da lei morso. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto onore m’ha voluto uccidere: e sí avrebbe ella fatto, se ’l vostro avvedimento non fosse suto. Laonde io intendo, sí come detto v’ho, di volerla di ciò gravemente punire, acciò che mai alcun’altra a sí fatto inganno fare non si metta. Ma però che di ciò dubito che non mi seguisse piú vergogna che onore, se subitamente il facessi, perciò che parra a molti impossibile a credere per la sua falsa piacevolezza, la quale ha a molti gli animi presi, io voglio primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fedelmente porgere mi dovete, disiderando il mio onore e la mia vita, come membri e vero corpo di me vostro capo».
- Lungamente si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbono risposto volentieri il duca e Ascalione, però che a loro pareva manifestamente conoscere chi questo veleno aveva mandato e ordinato; ma perciò che la volontá del re conobbero, ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fero tutti quelli che presenti erano, fuori che Massamutino, il quale dopo lungo spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse: «Caro signore, io so che ’l mio consiglio sará forse a questi gentili uomini, qui presenti, sospetto per la presura che di me subita fare faceste senza colpa, e so che diranno che ciò che io consiglio, io il faccia a fine di scaricar me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò giá a quello che ciascheduno possa dire o dica, ch’io non vi dia consiglio in quello che dimandato avete, sí come a legittimo e vero signore dar si debba, e in tutto ciò che per me conosciuto sará, sempre riserbandomi all’ammendamento di voi, dov’io fallassi. E cosí m’aiutino gl’immortali iddii, come io sono quello che con diritta coscienza giudicherò; e cosí dico: ‛Il fallo, il quale Biancofiore ha fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si pote, né simigliantemente si pote occultare il grande onore fattole da voi: per la qual cosa ella avendo cosí fatto fallo voluto fare, merita maggiore pena. E certo, se quello che in effetto s’ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di morire; onde per mio consiglio e giudicio dico che misurando giustamente la pena col fallo, che ella muoia: e sí come ella voleva che la vostra vita per la focosa forza del veleno si consumasse, cosí la sua con ardente foco consumata sia’. E certo tale giudicio assai pare a me medesimo crudele; e non volontieri il dono per consiglio che si dea, perciò che per la sua piacevole bellezza assai l’amava; ma nella giustizia, né amore, né pieta, né parentado, né amistá deve alcuno piegare della diritta via della veritá. Non per tanto, voi siete savio, e appresso di molti piú savii uomini che io non sono avete, e come signore potete ogni mio detto indietro rivolgere, o mettere in esecuzione. Però lá dove nel mio consiglio, il quale giusto al mio arbitrio donato v’ho, si contenesse fallo, saviamente l’ammendate». E piú non disse.
- Non fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedevano, che si levasse a parlare contro a Biancofiore, ma tacendo tutti, di questa opera stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, ben che a molti senza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancofiore era in prigione, in maniera che sue ragioni scusandosi non poteva usare: e volontieri per difender lei avrebbono parlato, ma quasi ognuno s’era avveduto che al re piacevano queste cose e con sua volontá eran fatte, onde per non dispiacergli ciascuno taceva. Perché vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco niuno diceva, né a quello era alcuno che opponesse, disse: «Adunque, signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancofiore debba di fuoco morire, e certo in tal parere era io medesimo; e però vengano immantinente i giudici, i quali di presente la giudichino, che senza giudiciale sentenza io non intendo di fatto farla morire, acciò che alcuno non possa dire che io in ciò i termini della ragione trapassi, né similmente voglio far dare alla giustizia troppo indugio, perciò che le troppo indugiate giustizie molte volte sono da pietá impedite, né hanno poi il compimento loro». Furono di presente i giudici nel cospetto del re, a’ quali egli comandò che senza dimora la crudele sentenza dessero contro a Biancofiore. Al quale i giudici risposero: «Signore, le leggi vietano di dare in dí solenni mortale sentenza contro ad alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennitá, quanta voi sapete; ma noi scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo senza fallo, e la faremo mettere ad esecuzione». A’ quali il re disse: «Poi che oggi le leggi il vietano, domattina per tempo senza dimora si faccia». E questo detto, si partí lo iniquo consiglio. E il duca e Ascalione senza prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire l’iniqua sentenza; e avanti che il sole le sue luci messe avesse sotto l’onde occidentali, giunsero a Montorio, dove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con molti pensieri trovarono.
- Era con la reina ancor Biancofiore i vanti de’ gran baroni recitando, quando i furiosi sergenti vennero impetuosamente senza alcun ordine a prenderla, e lei piangendo, senza dire per che presa l’avessero, ne la menarono. O misera fortuna, subita rivolgitrice de’ mondani onori e beni, poco avanti niuno barone era nella real corte, ch’avesse avuto l’ardire di porre la mano adosso a Biancofiore, o di farne sembiante, ma ciascuno s’ingegnava di piacerle, e ora a vilissimi ribaldi si dispregiare consentisti la sua grandezza, che, senza narrare il perché, presala oltraggiosamente ne la menarono via. Certo con poco senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento davanti ordinato. E veramente ne le pur dolse, ancor che assai tosto di tal doglia prendesse conforto e consolazione, imaginando che per la morte di lei, giá messa in ordine da non poter fallire al suo parere, l’ardente amore si partirebbe dal petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sí fatto amore, quale era quello che è ne’ due amanti, sí fatta fine né sí corta, come costoro volevano senza cagione apparecchiare.
- Quel giorno, nel quale la gran festa si faceva in Marmorina, era Florio rimáso tutto soletto di quella compagnia che piú gli piaceva, cioè del duca e d’Ascalione, in Montorio; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in cosí fatto giorno egli con la sua Biancofiore, vestiti di una medesima roba, solevano servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e d’altri sollazzi. Onde sospirando, cosí incominciò a dire: «O anima mia, o dolce Biancofiore, che fai tu ora? Deh, ricorditi tu di me, sí come io fo di te! Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia assenza. Oimè, perché non m’è egli lecito solamente di poterti vedere? Io mi ricordo che in sí fatto giorno piú volte t’ho abbracciata, porgendoti puerili e onesti baci. Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne’ quali Priapo piú volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre mani? E ove sono le ricche camere, le quali de’ nostri dimoramenti si rallegravano? Deh, perché non sono io teco, sí come io soleva, continuamente? O almeno di quanti giorni volge l’anno uno solo? O perché non mi se’ tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che ’l mio padre m’inganna, sí come tu mi dicesti. E tu ora dimori nella gran sala, e ivi col tuo bel viso nuova luce porgi a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che piú che altra cosa ti disidero, è tolto il vederti. Maladetta sia quella deitá che si m’ha fatto vile, che io per paura del mio padre dubito di venirti a vedere, e ora ch’io possa o vederti o da te esser veduto. Oimè, quanto m’offende quella piccola quantitá di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno ch’io da te mi dipartii, che mai alcuno diletto non sentii, ben che alcuna volta dormendo io ed essendomi tu con benigno aspetto apparita, m’abbia alquanto consolato: la qual consolazione in gravoso tormento si volta, sí tosto com’io mi sveglio dall’ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl’iddii mi concedano che io alcuna volta inanzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa converrá che sia, se io devessi muovere aspre battaglie contro al vecchio padre, o furtivamente rapirti dalle sue case. E a questo, se egli non mi ti manda, o non mi fa dove tu se’ tornare, non porrò lungo indugio, perciò che piú sostenere non posso l’esserti lontano». E mentre Florio queste parole e molte altre sospirando diceva, continuamente al caro anello porgeva amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che donato glielo aveva. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò la testa, e, chiusi gli occhi, s’addormentò; e dormendo, nuova e mirabile visione gli apparve.
- A Florio parve subitamente vedere l’aere pieno di turbamento, e i popoli d’Eolo usciti dal cavato sasso senza alcun ordine furiosi recare d’ogni parte nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia della terra, mandandole piú alte che la loro ragione, faccendo sconci e spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il loco dell’altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi tuoni per le squarciate nuvole, le quali pareva che accender volessero la tenebrosa terra e le stelle parevagli che avessero mutato legge e loco, e parevagli che il freddo Arturo si volesse attuffare nelle salate onde, e la corona dell’abbandonata Adriana fosse del suo loco fuggita, e lo spaventevole Orione avesse gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i regni di Giove pieni di sconforto, e gl’iddii piangendo visitar le sedie l’uno dell’altro; e parevagli che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella figura del sole, perciò che piú non porgeva luce; e la luna impalidita aveva perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli parevano ripieni d’innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi guai sopr’essi. I paurosi animali e’ feroci insiememente gli parevano per paura fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, né pareva che arbore ne potesse alcuno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che di paura piangeva, si mostrarono, gli pareva veder davanti a sé la santa dea Venus, in abito senza comparazione dolente, e vestita di neri e vilissimi vestimenti, tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse: «O santa dea, qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietá mi costringe a piangere, come tu fai? E dimmi perché i subiti mutamenti de’ cieli e della terra avvenuti sono? Intende Giove di fare l’universo tornare in caos come giá fu? Non mel celare, io te ne priego, per la virtú del potente arco del tuo figliuolo». «O me misera rispose Venere, ora ètti occulta la cagione del pianto degli uomini e degl’iddii? Levati su, che io la ti mostrerò»; e preso Florio, involto seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece vedere l’avvelenato pavone posto in mano a Biancofiore dal siniscalco, e ’l pensato inganno, e la subita presura, e ’l crudele rinchiudimento, e la malvagia e iniqua sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancofiore: le quali cose mostrategli e riportatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli disse: «Ora t’è manifesta la cagione del nostro _pianto». «Oimè!» rispose Florio, «quando ti vidi, santa dea, madre del mio signore, senza la risplendente luce degli occhi tuoi e senza gli adorni vestimenti, privata della bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all’animo la cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond’io ti priego che mi dica qual morte piú crudele io possa eleggere, poi che Biancofiore muore. Insegnalami, ché io non voglio piú vivere appresso la sua morte. Io sono disposto a volere seguire la sua anima graziosa dovunque ella andrá, ed essere cosí congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi mostra qual via c’è alla difensione della sua vita, se alcuna ce n’è, però che nullo sí grande né sí alto pericolo fia, al quale io non mi sottometta per amor di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo». A cui Citerea cosí rispose: «Florio, non credere che il pianto mio e degli altri iddii sia perché noi crediamo che Biancofiore debba morire, ché noi abbiamo giá la sua morte cacciata con deliberato consiglio, e provveduto al suo scampo, sí come appresso udirai; ma noi piangiamo perciò che la natura, veggendosi sopra sí bella creatura, com’è Biancofiore, offendere dalla crudelta del tuo padre, quando egli ordinò che a morte sentenziata fosse, si mostrò, salendo a’ nostri scanni, tanto mesta e sí dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua liberazione. E similmente l’aire, la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti costrinse. E perciò che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non istimi, dopo molte avversitá, vogliamo che in questa maniera al suo scampo t’eserciti. Tu sí tosto, come il sole compiendo l’usato cammino avni i suoi raggi nascosi, occultamente di questo palagio ti partirai, e andranne a quello d’Ascalione, a te fedelissimo amico e maestro, e fidandoti del tutto a lui di tutto tuo intendimento, ti farai armare di fortissime armi e buone, e fara’ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai, senza alcuna compagnia fuori che la sua, se egli la ti profferirá, celatamente prendi il cammino verso la Braa, perciò che a quel loco sará la tua Biancofiore menata da coloro che d’ucciderla intendono. La sorella di colui che mena i poderosi cavalli portanti l’eterna luce, la quale, ancora pochi dí sono vi si mostrò senza alcuno corno tutta nella figura del celestiale Ganimede, m’ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce; quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per mano del mio marito Vulcano, quando bisognò alla battaglia degli ingrati figliuoli della terra, e a me prestata da Marte mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto che la tua Biancofiore vedrai menare per esserle data l’ultima ora. E allora, senza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito core ti trarrai inanzi senza farti conoscere ad alcuno, e contradirai a tutto il presente popolo che Biancofiore ragionevolmente non è stata condannata a morte, né deve morire, e ciò tu se’ acconcio di provare con qualunque cavaliere o con altra persona che di questo volesse dire altro; e non dubitare d’assalire tutto il piano pieno del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a questa spada che io ti dono, niuna arme potrá durare, e il mio Marte m’ha promesso e giurato per le palude Stige di mai non abbandonarti. Né v’è alcuno iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti abbandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo, che la fortuna t’apparecchia graziosamente onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e levata Biancofiore dal mortal pericolo, prendera’ la per mano e rendera’la al tuo padre, raccomandandogliela tutt’ora senza farti conoscere; e, ritornando a Montorio, fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi fuochi con graziosi sacrificii; e quivi mi vedrai essere venuta dal mio antico monte, della mia nativitá glorioso, con gli usati vestimenti, significanti letizia, circondata di mortine e coronata delle liete frondi di Penea; e starò sopra li miei altari a te manifestamente visibile, e incoronerotti dell’acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per alcuno accidente; né, per parole che Ascalione ti dicesse, da questa impresa ti rimanga». E dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada, si partí subitamente tornando al cielo.
- Tanto fu a Florio piú il dolore delle vedute cose che l’allegrezza della futura vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo forte, e veggendo partire la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in piedi, trovandosi il petto e ’l viso tutto d’amare lagrime bagnato, e nella destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere vero ciò che veduto aveva nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua Biancofiore, e la cagione per che da lei aveva ricevuto il bello anello, e la virtú di esso, piangendo il riguardò dicendo: «Questo fia infallibile testimonio della veritá»; e riguardandolo, il vide turbatissimo e senza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il piú doloroso pianto che mai udito o veduto fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo: «O dolce speranza mia, per la quale infino a qui mi sono contentato di vivere in doglia e in tormento, sperando di rivederti in quella allegrezza e festa che io giá molte volte ti vidi, quale avversitá ti si volge ora al presente sopra? Or non bastava alla invidiosa fortuna d’averci dati tanti affannosi sospiri allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e porgerei maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di volerti levare la vita, e a me insiememente? E chi è quegli che ti fa ingiustamente nocente il mio vecchio padre? Oimè, or cred’egli far morire te senza me? Vano pensiero l’inganna. Oimè, è questa la festa ch’io soleva in tal giorno avere teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribolazioni è circondata! Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrá la vita: o questa spada la racquisterá a te e a me come promesso m’è stato, tenendola io nelle mie mani combattendo, o ella si bagnerá nel mio core cacciandovela io, o io diverrò cenere teco in uno medesimo foco, sí come Capaneo con la sua amante donna divenne a piè di Tebe». E dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa tornava, venne; il quale come Florio il sentí, celando il nuovo dolore, nel viso allegrezza mostrando, e andandogli incontro lietamente nelle sue braccia il ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore s’amavano; e come essi insieme furono nella sala montati, Florio dimandò il duca se la festa era stata bella e se egli aveva veduto Biancofiore. E duca rispose che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v’era fallata, fuor solamente che la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s’era, e de’ vanti che dati s’avevano al pavone che Biancofiore avea portato. Ma ben si guardò di non dire l’ultima cosa che avvenuta v’era, cioè dell’avvelenato pavone, per lo quale Biancofiore doveva morire, per tema che Florio non se ne desse troppa malinconia; e di ciò ben s’avvide Florio, che ’l duca si guardava di dirgli quel che egli avrebbe voluto che avvenuto non fosse: però, senza piú addimandare, disse che bene gli piaceva che la festa era stata bella e grande, e che volontieri vi sarebbe stato se agl’iddii fosse piaciuto.
- Giá aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta nell’animo maggiore sollecitudine che di dormire, e senza addormentarsi aspetta che gli altri s’addormentino della casa; i quali non cosí tosto come Florio avrebbe voluto s’andarono a letto, ma ridendo e gabbando con diversi ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per ore, con angosciosa cura dubitando non s’appressasse l’ora che andare di necessitá gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio, e la casa fu d’ogni parte ripiena d’oscuritá, Florio con cheto passo, aperte le porte del grande palagio con sottile ingegno, senza farsi sentire passò di fuori, e tutto saletto pervenne all’ostiere d’Ascalione, ove piú voci chiamò, acciò che aperto gli fosse. E ’l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalione, il quale senza alcuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua venuta, e del modo e dell’ora non meno. E poi che essi furono dentro alla fidata camera senza altra compagnia, Ascalione disse: «Dimmi qual è stata la cagione della tua venuta a sí fatta ora, e perché se’ venuto solo». E mentre che queste parole diceva, dubitava molto non il duca gli avesse detto l’infortunio di Biancofiore. Ma Florio rispose: «La cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d’essere tutto armato, e d’avere un buon cavallo. Ond’io non sappiendo ove di tale bisogna fossi piú fedelmente e meglio servito che qui, qui m’indirizzai piú tosto che in altra parte: priegovi adunque che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente». E mentre che diceva queste parole, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali dal premuto core, ricordandosi perché queste cose voleva, si movevano. Disse Ascalione: «Niuna cosa ho né potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sí subita volontá d’armarti? Perché non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi l’uomo a questa ora, non veggendosi alcuna necessitá espressa, parrebbe un matto e subito volere, come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che hanno il natura senno perduto; ma se tu mi dí perché a questo se’ mosso, la cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse avanti. Giá sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia cosa ch’io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e amoti come se caro figliuolo mi fossi: dunque non ti guardar da me». Florio rispose: «Caro maestro, veramente se alcuna virtu è in me, dagl’iddii e da voi la riconosco; e senza dubbio, s’io non avessi avuto in voi ferma fede, niuno accidente mai per tal cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace sapere il perché a quest’ora per l’armi sia venuto, vel dirò. A voi non è stato occulto l’ardente amore che io a Biancofiore ho portato e porto, della quale, oggi, dormendo io, mi furon mostrate dalla santa dea Venus di lei dolorose cose: però che stando io con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia semplice giovane, e porle uno avvelenato pavone in mano, e vidiglielo portare per comandamento altrui alla reale mensa dove voi sedevate; e dopo questo vidi e udii il grande romore che si fece, avveggendosi la gente dell’avvelenato pavone, e lei vidi furiosamente mettere in una cieca carcere; e ancora dopo lungo consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si deve domattina contra lei. E queste cose tutte vedeste voi, e a me non ne diciavate cosa alcuna. Ma io ne ringrazio gl’iddii che mostrate me l’hanno, e datomi vero aiuto e buono argomento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sí come credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la difensione di Biancofiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente vivendo stentare». «Oimè, dolce figliuol mio» disse Ascalione, «che è questo che di tu di voler fare? Per cui vuoi tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane etá ancora è impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l’affanno delle gravanti armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore t’aspettiamo, e lascia andare i popolareschi uomini a’ fati. Tu vuogli combattere per Biancofiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d’una romana giovane, la quale, essendole stato ucciso il suo marito, per serva fu donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che ’l tuo padre l’ha fatto per adietro, e quinci credi forse ch’ella sia nobilissima giovane: tu se’ ingannato, però che questo non le fu fatto se non per essere ella stata tua compagna nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sí piccola condizione; e però la lascia andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha fatta l’offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sí fatte cose, né dar fidanza a’ sogni, i quali o per poco o per soverchio mangiare, o per imaginazione avuta davanti d’una cosa, sogliono le piú volte avvenire, né mai però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto t’hai, nullo fia che non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di corrucciarsi e d’infiammarsi piú contra lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne priego». Allora Florio con turbato viso riguardandolo nella faccia, disse: «Ah, villano cavaliere, e isconoscente e malvagio, qual cagione lecita o ancora verisimile vi muove a biasimar Biancofiore, e chiamarla figliuola di serva? Non v’ho io piú volte udito raccontare che il padre di Biancofiore fu nobilissimo uomo di Roma, e d’altissimo sangue disceso? Certo sí. E quando questo non fosse vero, natura non formò mai sí nobile creatura com’ella: e però che non le ricchezze, o il nascere de’ possenti e valorosi uomini, fanno l’uomo e la femina gentile, ma l’animo virtuoso con le operazioni buone, essa per la sua virtú si confarebbe a maggior prencipe che io non sarò mai. E posto che di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i valorosi me ne loderanno, avvegna che io sí segretamente l’intenda fare, che alcuno nol saprá giá mai. E se pur si sapesse e parlassesene, il robusto cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane pioppo non può resistere a’ veloci aquiloni. Faccia l’uomo in prima suo dovere, e poi parli chi voglia. E senza dubbio del corruccio del mio padre io mi curo poco, ché d’uomo di cosí vile animo come il sento, che si è posto a volere con falsitá vendicare le sue ire sopra una giovane donzella innocente, sua benivolenza e amistá si deve poco curare, e in grande grazia mi terrei dagl’iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la salute di Biancofiore, però che io con quel braccio, col quale ancora, se e’ fosse quell’uomo ch’esser dovrebbe, il dovrei sostenere, gli lievi la vita mandandolo ai fiumi d’Acheronte, ove la sua crudeltá avrebbe luogo: vecchio iniquissimo ch’egli è, che nell’ultima parte de’ suoi giorni, alla quale quando gli altri che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si sogliano con bene operare riconciliare agl’iddii, incomincia a divenire crudele e a fare opere ingiuste. E di ciò che piacere o dispiacer io gliene faccia, mai della mia mente non si partirá Biancofiore, né altra donna avrò giá mai: né mi parra grave il peso dell’armi in servigio di lei. E certo Achille non aveva molto piú tempo ch’io abbia ora, quando egli abbandonando i veli insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d’Ettore fortissimo combattitore. Né Eurialo era di tanto tempo di quanto io sono, quando sotto l’armi incominciò a seguire gli ammaestramenti di Niso. Io sono giovane di buona etá, volonteroso alle nuove cose, e innamorato e difenditore della ragione, ed èmmi stato promesso vittoria dagl’iddii, e veggio la fortuna disposta a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che nel piú alto loco della sua rota ci ponga. Ora poi che ella con benigno viso mi porge gli addimandati doni, follia sarebbe a rifiutarli, ché l’uomo non sa quando piú a tal punto ritorni. Io m’abbandonerò a prendergli ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua rota, e quivi, senza insuperbire, quanto mi potrò in alto mantenere, mi manterrò. E se avviene che alcuna volta scenderne mi convenga, con quella pazienza che io potrò, sosterrò l’affanno. Né mi vogliate far discredere quello che la vera visione mi ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d’ogni veritá: poi che voi non lo mi voleste dire, tacete almeno di farlomi discredere, però che io ho piú testimoni di questa veritá: e principalmente il mio anello con la perduta chiarezza mi mostrò l’affanno di Biancofiore, e appresso la celestiale spada, ritrovandolami nella destra mano quando mi svegliai, mi affermò la credenza delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di farmi il servigio, e però con tante contrarietá v’andate al mio intendimento opponendo. Ond’io vi priego, senza piú andare con tante circostanze faccendomi perder tempo, che mi rispondiate se fare lo volete o no: ché io vi prometto che mai non sarò lieto, né dalla mia impresa mi partirò, infino a tanto che io con la mano destra non avrò diliberata Biancofiore dal foco, e da qualunque altro pericolo le soprastesse».
- Quando Ascalione sentí cosí parlare Florio, e videlo pur fermo in voler difendere Biancofiore, assai si maravigliò del gran core che in lui sentiva, e piú della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera fatta per mano d’uomo, e in prima tra sé disse: «Veramente la fortuna ti vuole recar a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e gl’iddii mostra che ’l consentano». E poi rispose a lui: «Florio, senza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch’io ti diceva, io non lo ti diceva che io non conoscessi bene ch’io non diceva il vero, ma io il diceva acciò che da questa impresa ti ritraessi, se io avessi potuto ritrartene. E se io avessi dal principio conosciuto che cosí fermamente t’avessi posto in core di far questo, certo senza alcun’altra parola t’avrei detto: ‛andiamo’; ma io volea provare altresí con che animo c’eri disposto. E non dir ch’io dubiti di servirti, ch’io voglio che manifesto ti sia che alcuno disio non è in me tanto quanto è quello di servire te. Onde io ti priego caramente, poi che del tutto alla difensione di Biancofiore se’ fermo, che, se ti piace, lasci a me questo peso, perché tu non sai chi dinanzi ti de’ uscire a resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre senza fallo ha molti valorosi cavalieri espertissimi e usati in fatti d’arme lungamente, a’ quali tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse cosí resistere come si converrebbe. E non ti voler fidare solo nella forza della tua giovanezza, ché non solamente le forti braccia vincono le battaglie, ma i buoni e savi provvedimenti dánno vittoria le piú volte. E posto che io giá vecchio non ho forse guari i membri piú poderosi di te, almeno so meglio di te qual colpo è da fuggire e quale è da aspettare, e quando è da ferire e quando è da sostenere, come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci. E, d’altra parte, se io soperchiato fossi, a te non manca allora il potere combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancofiore». A cui Florio rispose brevemente: «Maestro, io ora novellamente porterò arme; ma come detto v’ho, io sono giovane, e amore mi sospigne, e la buona speranza: io voglio senza alcun fallo essere il difenditore di quella cosa che io piú amo; ché a me non è avviso che alcun cavaliere non tanto fosse valoroso e dotto in opera d’arme che potesse quivi adoperare quanto io potrò. E se io consentissi che voi andaste a combattere, e foste vinto, a me non si converrebbe d’andare a volere racconciar quello che voi aveste guasto, né potrei né mi sarebbe sofferto. Io voglio cominciare a provare quell’affanno che l’armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben credo poter sofferire l’armi ad una picciola battaglia. E nella giovinezza si debbono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E se pure addivenisse che la speranza della vittoria mi fallasse, farò si che la vita e la battaglia perderò ad un’ora, la qual cosa mi fia molto piú cara che se io, dopo la morte di Biancofiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che poi Biancofiore non si curerebbe, sí che piú ch’uno non bisogna che combatta». Disse Ascalione: «Poi che ti piace che sia cosí, io ne sono contento, ma veramente non t’abbandonerò mai; e se io vedessi
- che il peggio della battaglia avessi mai, chiunque ucciderà te, ucciderà me altresì, prima che la tua morte vedere voglia. Ma io priego gl’iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, ch’essi ti donino la disiderata vittoria, sí come promesso t’hanno, acciò che io teco insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e iscampata Biancofiore, mi possa di sì prospero principio rallegrare».
- Veduta Ascalione la ferma volontà di Florio, senza piú parlare, lo ’ncominciò ad armare di belle e buone arme; e poi che gli ebbe fatto vestire una grossa giubba di zendado vermiglio, primieramente gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e appresso i pungenti sproni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere lucenti, come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente fattogli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d’un vermiglio sciamito, guarniti di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni prova. E poi che gli ebbe armato le braccia di be’ bracciali e musacchini, gli fece cignere la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra il quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre preziose, sopra il quale un’aquila con l’ale aperte di fino oro risplendeva, gli mise, dandogli un paio di guanti quali a tanta e tale armatura si richiedevano; e appresso il sinistro omero gli armò d’un bello e forte scudetto e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie campeggiavano. E come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna, cosí Ascalione diceva a Florio: «Caro figliuolo mio, non ischifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sí come nell’altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa maggiormente gli abbia, perciò che è cosa, non osservandola, che porta piú pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contro al disiderato nemico, quanto piú puoi prendi la piú alta parte del campo, acciò che andando verso lui, prima il sopragiudichi che tu sia da lui sopragiudicato: però che gran danno tornò a’ greci la poca altezza, che’ troiani avevano, vantaggio al cominciar la battaglia. E guarda non t’opporre a’ solari raggi, però che essi dando altrui negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di tenere il viso. Né contro al polveroso vento devi metterti, però che dandoti esso negli occhi t’occuperebbe la vista. Né moverai il corrente cavallo con veloce corso lontano al tuo nemico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo, però che quando sarai presso al nemico, spronandolo forte, esso il suo corso impetuosamente incominci: perciò che le forze del volonteroso cavallo sono molto maggiori dal cominciare dell’aringa che nel mezzo, quando col disteso capo corre alla distesa. Né ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte, quando elle trovano alcun ritegno e lo trapassano. E chi fece Protesilao piú volenteroso che ’l dovere, se non l’essere ritenuto contro alla calda volontá? Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava piú temperatamente. Né non abbasserai la lancia nel principio dell’aringo, però che il savio nemico prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio dal peso sarebbe stanco avanti che a lui giugnessi; ma ponendo mente in prima a lui, t’ingegna, se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con forte braccio abbassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola ti ponga che nella sommitá dell’elmo: i bassi colpi nocciono, posto che gli alti siano piú belli. E se egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se giá non fossi molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, ché tal ferire sará senza danno di te. Ma poi che le lance piú non si adopereranno, non esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio che tu però meni molti colpi, ma maestrevolmente, quando luogo e tempo ti parrá di ferire allo scoperto, copertamente fieri, sempre intendendo bene a coprire te, piú che al ferire molto l’avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di sotto di te, ché allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera’ti bene che per tutto questo niente del campo ti lasci torre, perciò che con vergogna sarebbe e con danno. Né ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le gambe: la qual cosa se avviene, non volere troppo tosto sforzarti d’abbatterlo in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto affannato vedrai, piú leggiermente potrai allora mettere le tue forze e abbattere lui. E sopra tutte le cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. E niuno romore o di lui o del circustante popolo ti sgomenti, ma senza alcuna paura ti mostra vigoroso; e sovente la tua parte sia aiutata dal grido: e il nemico vedendoti ognora piú vigoroso, dubiterá della tua vittoria, però che ben ti seggiano l’armi indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, piú ch’altro cavaliere giá è gran tempo vedessi». Florio con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe allora essere stato a’ fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo che a volgere era, e molto in se medesimo si gloriava veggendosi armato; e disse ad Ascalione: «Caro maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo, ove il bisogno sani, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v’armiate, e vengano i cavalli, e andiamo, però che giá mi pare che le stelle, che sopra l’orizzonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio della mezza notte».
- Cominciassi ad armare Ascalione, e mentre ch’e’ s’armava, Florio andava per l’ostiere ora correndo ora saltando d’una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada faccenda diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com’egli la potesse alzare e abbassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose cosí destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l’avesse, avvegna che Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalione, lodando la sua leggerezza, si maravigliò molto; ed essendo giá egli medesimo armato, tutto solo se ne andò alla stalla, e messe le selle e’ freni a due forti cavalli, li menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sé di due sopravveste verdi, e prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e senza piú dimorare presero il cammino verso la Braa.
- Giá Febea con iscema ritonditá teneva mezzo il cielo, quando Florio e Ascalione, lasciando la cittá, cominciarono a cavalcare pe’ solinghi campi. Ella porgeva loro col freddo raggio grande aiuto, però ch’ella mitigava il caldo che le gravi armi porgevano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era usato, e poi faceva loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si rallegrava, perché giá gli pareva avere incominciato a ricevere l’impromesso aiuto degl’iddii. E piú si rallegrava imaginando che egli s’appressava al luogo dove egli vedrebbe la sua Biancofiore in pericolo, e iscampata da quello per la sua virtú. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all’aiuto degl’iddii, volto verso la figlia di Latona, cosí cominciò a dire: «O graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, laudata sia; tu alleviando la mia madre di me, piegandoti a’ suoi prieghi, le mi donasti, degna allegrezza dopo il ricevuto affanno. Adunque, poi che per te nel tempestoso mondo venni, aiutami nelle sue avversitá, e priegoti pe’ tuoi casti fuochi, i quali giá ne’ miei teneri anni debitamente coltivai, che come tu hai nel mio aiuto incominciato, cosí perseveri. Oh! ricordati quando tu giá ferita di quello strale di che ora io sono, ardesti di quel foco del quale io ardo; e priegoti per le oscure potenze de’ tuoi regni, ne’ quali mezzi tempi dimori, che tu domani, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e fervente raggio mi renda alle abbandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi togli. Tu m’hai porta speranza del futuro soccorso degl’iddii col tuo principio, ond’io con piú ardita fronte il dimando. E te, o sommo prencipe delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu giá sopra i figliuoli della terra avesti, e per tutte l’altre, che tu sia a me favorevole aiutatore, però che io non cerco, sí come vedi, di volere per la presente battaglia possedere né acquistare la vostra celestiale casa, né intendo di levare a Giove la santa Iunone; né similmente è mio intendimento d’occupare la fama delle tue grandi opere, ma col tuo medesimo aiuto d’accrescerla, e solamente cerco di difendere la vita di Biancofiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo piú ardito per la promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi qui quanto la tua forza possa adoperare. E similemente tu, o santa Giunone, donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio inganno, il quale questi iniqui, contro a’ quali ora vo, copersero col tuo santo uccello, non serbandoti la debita reverenza. E voi, qualunque deitá abitate ne’ celestiali regni, siate al mio soccorso intente; e massimamente tu, Astrea, la cui giusta spada il mio padre intende di sozzare con innocente sangue, aiutami». E cosí dicendo e tutt’ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo spazio avanti dí: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
- La misera Biancofiore, non sappiendo perché con tanto furore né perché sí subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, senza alcuna parola, sostenne la grave ingiuria, entrando nell’oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che nulla persona materia avesse di poterle in alcun modo parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sé la chiave. E dimorando lá entro Biancofiore, niuno sí picciolo movimento v’era che forte non la spaventasse, e le varie imaginazioni, che la fantasia le recava inanzi, le porgevano molta paura, e ’l suo viso impalidito, anzi smorto, non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per grave doglia incominciò a piangere e a dire: «O me misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? Di che ho io offeso? Certo in niuna cosa, che io sappia. Io mai né con parole né con operazioni offesi la reale maestá, e la reina mia cara donna sempre onorai, né mai rubando né spogliando i santi templi né gli altari degl’iddii commisi sacrilegio, né mai si tinsero le mie mani né l’altrui per me d’alcun sangue: dunque perché questo m’è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sia tu! Or non ti potevi chiamare sazia delle mie avversitá, pensando che divisa m’avevi da quella cosa nella quale ogni mia prosperitá e allegrezza dimorava, senza volermi ancora fare questa vergogna d’essere ora messa in prigione senza averlo io meritato? Deh, se tu avevi volontá di nuocermi, perché avanti non mi uccidevi? Ma credo che conoscevi che la morte mi sarebbe stata somma felicitá, però che ella i miei sospiri avrebbe terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contro a’ tagli delle spade, e contro alle punte delle acute lance, infino a tanto che il cielo avrá volto il loro tempo, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti mostrasti poco avanti cosí lieta, faccendomi piú degna che alcun’altra giovane della real casa di portare il santo pavone alla mensa, dove il re sedeva, accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si vantarono! È questa la fine che tu vuoi a’ loro vanti porre? Oimè, com’è laida e vituperevole! Oimè, come tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno del mio nascimento! Io fui cagione di forzata morte al mio padre e alla mia madre, i quali io giá mai non vidi, e ora non so come la mi pare avere a me meritata. Oimè, che gl’iddii e ’l mondo m’hanno abbandonata, e massimamente tu, o Florio, in cui solo io portava speranza! Deh, dove se’ tu ora, o che fai tu? Forse pensi che il tuo padre m’acconci per mandarmiti a te, però che dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie sollecitudini, e non so per che né a che fine, né se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or non t’è egli la mia avversitá palese? Non riguardi tu il caro anello da me ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, ch’io dubito che tu piú nol riguardi, come cosa la qual credo che poco cara ti sia! Immantanente imagino che tu m’abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane sí costante e tanto innamorato, che veggendo tante belle giovani, quante ho inteso che costá sono, scalze dintorno alle fresche fontane, e talora sopra i verdi prati, coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il primo obbietto pigliandone un secondo? E se tu non m’hai dimenticata, perché non mi soccorri? Chissá s’io dopo questa prigione avrò peggio? Chissá se io di fame ci sarò lasciata morire dentro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, se ora io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo in alcun modo farti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè, dove sono ora tanti amici tuoi, a’ quali soleva di me per amor di te calere, quando tu c’eri? Non ce n’ha egli alcuno che tel venisse a dire? Io credo di no: però che gli amici della prosperitá, insieme con essa sono fuggiti. Ma l’anello ch’io ti donai ha egli perduta la virtú? Io credo di sí, però che alle mie avversitá niuna speranza è lasciata. O santa Venere, al cui servigio l’animo mio è tutto disposto, per la tua somma deita non mi abbandonare, e per quello amore che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane, usata nelle reali case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perché io sia sí vilmente rinchiusa sola. La paura mi confonde. A me pare che quante ombre vanno per la nera cittá di Dite, tutte si parino davanti agli occhi miei, con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de’ tuoi santi raggi in compagnia; e, in brieve, della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci che bisogna, ché tu vedi bene che io aiutar non mi posso». Non aveva ancora Biancofiore compiuto di dire queste parole, che nella prigione subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d’alloro, con un ramo delle frondi di Pallade in mano, dimorava. La quale, quivi giunta, subitamente disse: «O bella giovane, non ti sconfortare. Noi giá mai non ti abbandoneremo: confortati. Credi tu che la nostra deitá abbandoni cosí di leggieri i suoi suggetti? Le voci tue percossero le orecchie insino nel nostro cielo, al pietoso suono delle quali subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascerò sola. E non dubitare per cosa che ti sia stata fatta infino a qui, che da questa ora inanzi niuna cosa ti sará fatta, per la quale altra offesa che solo un poco di paura te ne seguisca». Quando Biancofiore vide questo lume e la bella donna dentro la prigione, tutta riconfortata, si gittò ginocchioni in terra davanti a lei, dicendo: «O misericordiosa dea, laudata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera rimaso, se tu venendo non m’avessi riconfortata. Oh, quanto ti debbo esser tenuta, pensando alla tua benignitá, la quale non isdegnò di venire da’ gloriosi regni in questa oscuritá e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta grazia giá mai meritata. Ma dimmi, o pietosa dea, poi che con le tue parole m’hai renduto alquanto del perduto conforto, se lecito m’è a saperlo, qual è la cagione per la quale fatta m’è questa ingiuria». A cui la dea rispose: «Niun’altra cagione ci è, se non che tu e Florio siete al mio servigio disposti; ma non sotto questa spezie s’ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sará piú manifesto. E, d’altra parte, io poco avanti discesa giú dal cielo, ordinai la tua diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domani al meridiano cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Piú avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domani». Con questi ragionamenti, e con molti altri, si rimase Biancofiore con la santa dea infino al seguente giorno, quasi rassicurata, senza prendere alcun cibo, infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.
- Cominciassi per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che tenuto aveva del fallo che doveva aver fatto Biancofiore: e tutti i baroni e l’altre genti, chi in una parte e chi in un’altra ne ragionavano; e a tutti pareva impossibile a credere che Biancofiore avesse giá mai tanta malvagitá pensata, con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri dicevano che Biancofiore non avrebbe mai tal fallo commesso né pensato, ma che questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla morire, però che Florio piú ch’altra femina l’amava, e il re temeva che egli non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcun’altra. Alcuni dicevano ciò non potere essere, ché, se il re l’avesse avuto animo adesso, per altro modo l’avrebbe fatta morire, né mai si sarebbe vantato di maritarla, sí come la mattina aveva fatto, affermando d’attenere il suo vanto con tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura del siniscalco, però che l’aveva in odio, perché rifiutato l’aveva per marito. E altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendeva il re, e chi Biancofiore; ma a tutti generalmente ne doleva, e niuno poteva credere che difetto di Biancofiore fosse mai stato. E molti ve n’aveva che, se non fosse stato per tema di dispiacere al re, avrebbono parlato molto avanti in difesa di Biancofiore, e ancora prese l’arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei, e chi per amore di Florio. E cosí d’uno ragionamento in un altro il giorno passò, e sopravvennero le stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell’animo, sperando che il seguente giorno per la morte di Biancofiore terminerebbono il loro disio.
- Il re dormí poco quella notte, tanto il costringeva l’ardente disio che il nuovo giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, e piú volte svegliandolo, egli alfine disse: «O notte, come sono lunghe le tue dimoranze piú che essere non sogliano! O il sole è contra il suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che tu la maggior parte del tempo del nostro emisferio possiedi, o Biancofiore credo che con le sue orazioni prieghi gl’iddii che rallungare ti facciano, quasi indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente s’inframette, ché a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra ad altare né visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, perciò che quando tu ti partirai dal nostro emisferio, io la farò ardere nelle cocenti fiamme, né di ciò alcuno pregato iddio la potra aiutare, né trarla dalle mie mani: adunque partiti, e lasciami tosto veder l’apparecchiato fine al mio disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso sí prestamente suoli tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perché dimori tanto? Vienne, non dubitar di venire sopra l’orizzonte, perché io debba fare per la tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l’acerbissimo peccato del comune figliuolo de’ due fratelli, mangiato da essi e porto dalla crudel madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti dare quel giorno luce alla terra, perché sopra sé sí fatta crudeltá avea sostenuta. Tu desti piú volte luce a Licaone operatore di maggior crudeltá che questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l’ucciso figliuolo, dandole tu lume, si fuggisse della giusta vendetta di Tereo; né si celò la tua luce nella morte dei due tebani fratelli. Adunque, poi che ad Atreo e a Tieste, a Licaone, a Progne, ad Eteocle e a Polinice ne’ loro falli il tuo splendore concedesti, è cosí mirabile cosa se tu a me ora ne porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, né sará l’ultima, né è a te piú che un’altra cara. Dunque vieni. Deh, non dimorare piú! Fuggano omai le stelle per la tua luce. Non mi fare piú disiderare quello che tu naturalmente suoli a tutti donare». Cosí parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparí, subito si levò, e fece chiamare i giudici, e loro comandò che Biancofiore senza indugio fosse giudicata.
- Quella mattina il sole coperto d’oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l’aria da noiosa nebbia impedita pareva che piangesse, quasi pietosa degli affanni di Biancofiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re, ed ebbero il comandamento ricevuto, stettero stupefatti al cospetto reale. E conoscendo quasi il volere degl’iddii, e la ingiusta sentenza che dar dovevano, temendo, e mossi a pietá, s’ingegnarono d’aiutar Biancofiore, e dissero: «Altissimo signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicar dobbiamo, in prima a’ nostri orecchi non confessa con la propria bocca il fallo, per lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo ancora udito da Biancofiore alcuna cosa, o s’è vero o non vero quello di che voi volete che a morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest’opera secondo il giudiciale ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sé aver commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, senza fare il debito modo, la sentenza non torni sopra i nostri capi». Assai si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancofiore ascoltata non fosse, e per quello il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non pervenisse agli orecchi a Florio, rispose: «Questo fallo fatto da costei non ha bisogno di confessione alcuna, perciò che è sí manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l’anima mia e de’ miei figliuoli la giudicate incontanente». Comandarono adunque i giudici che Biancofiore fosse di presente tratta di prigione, e menata davanti da loro, veggendo essi la volontà del re essere disposta pure a volere che senza indugio alcuno giudicata fosse.
- Adunque Biancofiore, tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce che accompagnata l’aveva subito partita da lei, ed essa vestita di neri drappi, i quali la reina mandati le aveva, acciò che come nobile femina andasse a morire, venne tacitamente davanti a’ giudici, quasi perdendo ogni speranza che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de’ giudici levato in piè con empia voce cosí disse: «Sia manifesto a tutti che la presente iniqua giovane Biancofiore per suo inganno e tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signor re Felice avvelenare con un pavone, sotto spezie d’onorarlo; e però, acciò che nullo uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s’ausi, noi condanniamo lei, ch’ella sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata». E questo detto, comandò che al foco senza indugio menata fosse.
- Biancofiore aveva perduto il naturale colore e per la paura e per lo digiuno; e il suo bel viso era divenuto palido e ismorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile giudicio contro a lei dato senza ragione, forte cominciò a piangere, e a dire tra se medesima: «O me misera, or conviemmi egli morire? Or che ho io fatto?». E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame congiunte, ella s’avrebbe i suoi biondi capelli dilaniati e guasti, e ’l bel viso senza alcuna pietá lacerato con crudeli unghie, stracciando i neri drappi significanti la futura morte, e avrebbe riempito l’aere di dolorose e alte grida; ma vedendosi impedita, e circondata da innumerabile quantitá di popolo, costretta da savio proponimento, raffrenò le sue voci, e senza alcun romore fra sé tacitamente rincominciò a dire: «Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata piú graziosa nelle braccia di Florio, sí com’io mi credetti giá che tu mi venissi! Deh, ora mi fossi tu venuta almeno in quell’ora ch’io chiamata fui a portare il male avventuroso uccello per me, perciò che allora sarei morta onestamente e senza vergogna d’alcuna infamia. O anime del mio misero padre e de’ suoi compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste, rallegratevi, che io, stata di sí crudel cosa cagione, sono punita degnamente. Niuna altra cosa credo che noccia a me misera, se non questa insieme con l’aver portata troppa lealtá e onore a colui che ora mi fa morire. O crudelissimo re, perché mi rechi a sí vile fine? Che t’ho fatto io? Certo niuna colpa ho commessa, se non ch’io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh, or che mi faresti tu, o piú crudele che Pisistrato, s’io l’avessi odiato? Quale tormento m’avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai, né lui pregai ch’egli di me s’innamorasse. Se gl’iddii concedettero al mio viso tanto di piacevolezza che ’l suo gentile core fosse per quella preso, ho io però meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata augurio di sí dolorosa fine, io con le mie mani l’avrei deturpata, seguendo l’esempio di Spurino, giovane romano. Ma fuggano omai gli uomini i doni degl’iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei giá potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volonta piú m’avesse guidata, o congiugnerlo meco per matrimonial nodo, se io avessi voluto, se non fosse stata la pietá che il mio leale core ti portava. O vecchio re, per l’onore che io da te riceveva non ti volli mai del tuo unico figliuolo privare, e io del bene operare sono cosí meritata. A questo fine possano venire i servidori de’ crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove, il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la veritá di questo fatto, e conosci che io non fallai mai: non consentire adunque che le pietose opere abbiano cotal guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto, fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi con l’effetto del nome, il tuo cielo ricuopra l’iniquitá del re Felice contra di me; manifestamente fa nota la veritá. E tu, o Giunone santissima, nel cui uccello tanta falsitá fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che questa cosa non rimanga inulta, ma sia letta ancora intra l’altre vendette da te fatte, acciò che la tebana Semele o la misera Eco non si possano di te giustamente dolere. E tu, o pietosissima Venere, soccorri tosto col promesso aiuto; non indugiar piú, perciò che, non veggendolo, a me fugge la speranza delle tue parole da tutte parti, però che io al foco mi sento condannare, e veggiomi i feroci sergenti dattorno armati, come se io fierissima nemica delle leggi mi dovessi torre loro per forza, e veggio il siniscalco, a me crudelissimo nemico, sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, né piú né meno che se egli della mia salute dubitasse. Né veggio che per pietá di me cangi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque soccorri tosto, ch’io dubito che se troppo indugi, che io non muoia di contraria morte di quella che apparecchiata m’hanno costoro, perciò che la molta paura m’ha giá si raffreddato il core, che egli gli è poco sentimento rimaso».
- Mentre che Biancofiore, ascoltando la crudele sentenza, tacitamente fra sé si ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia vennero a vederla, giá volendola i sergenti menare via. Ma Biancofiore col viso pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai riveder non credeva, vide ad un’alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora piú la costrinse il dolore, e con piú amare lagrime s’incominciò a bagnare il petto. Ma non per tanto cosí, com’ella poté, si sforzò di parlare, e con debile voce, rotta da molti singhiozzi di pianto, disse: «O carissimo padre, re Felice, da cui conosco l’onore e ’l bene che io per a dietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre, essendo noi stranieri romani, tu e la tua compagnia rimanete con la grazia degl’iddii, li quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi senza ragione. E certo piú onore vi tornava a tutti l’essere degnamente stati pietosi, che ingiustamente crudeli contra me, che mai a’ vostri onori non ruppi fede; e ancora li priego che essi a voi siano piú prosperevoli che a me non sono stati». E dicendo Biancofiore queste parole, il siniscalco in su un alto cavallo, con un bastone in mano, sopravvenne, e dando su per le spalle a’ sergenti che la menavano, a lei disse: «Via avanti, qui non bisognano al presente queste parole: priega per te, e non per loro». Onde Biancofiore piangendo bassò la testa, andando oltre senza piú parlare. Il re e la reina, che quelle parole avevano udite, alquanto piú che l’usato modo costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e tanto ne dolse alla reina, che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato aveva, e volontieri avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l’avessero potuto. I sergenti forte e molto vituperosamente tiravano Biancofiore verso la Braa, dove il fuoco apparecchiato giá era; ed ella che dal cospetto dell’iniquo re s’era piangendo dipartita, andava col capo basso, pianamente dicendo: «Oimè, Florio, dove se’ tu ora? Deh, se tu cosí m’amassí come giá tu m’amasti e come io amo te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sí vicina, che faresti tu? Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m’ami piú. Io conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e buono fosse stato, sí come è il mio verso di te, niun legame t’avrebbe potuto tenere a Montorio, o che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte, se lecita è o no; o solamente saresti venuto a vedermi prima ch’io morissi, mostrando che della mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io lo ti mandi a dire, ma tu non pensí come io possa, che non che mandarloti a dire mi fosse lecito, ma una picciola scusa non ha voluto il re ascoltare da me, né consentire che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, non ti potresti scusare che tu non lo sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho tacitamente udito ragionare a molti che ’l duca e Ascalione per non vedere la mia morte se ne sono venuti costá, e so che essi t’hanno contato tutto il mio disavventurato caso, come coloro che lo sanno interamente. Dunque perché non mi vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti lievi? Tu forse dubiti d’aiutarmi, dicendo: ‛S’ella muore giustamente, leverommi io a volere difendere la giustizia?’Certo tu se’ ingannato, che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte ch’io vo a prendere m’è ingiustamente data, e tu me ne se’ principale cagione. E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che t’ho sempre portato, non mi dovresti ragionevolmente aiutare, e difendere da sí sozza morte, acciò che la gente non dicesse: ‛Colei cui Florio amava cotanto, fu arsa’? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niun’altra cosa si partí Ascalione di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non te l’avesse detto, il mio anello, il quale ti donai quando da me ti partisti, non telo deve aver celato. Manifestamente col suo turbare ti deve aver mostrato le mie avversitá; e credo che egli, del mio aiuto piú sollecito di te, giá te l’abbia mostrato. Ma dubito che tu negligente al mio soccorso ti stai costá, forse contento d’abbracciare o di vedere alcun’altra giovane, e, dimenticata me, hai de’ miei impedimenti poca cura. Ond’io, dolorosa, senza conforto per te mi muoio, avvegna che uno solo ne porterá l’anima mia agl’infernali iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona doler della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se gl’iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch’io ti potessi solamente un poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi quest’ultima consolazione, se l’aiutarmi in altro t’è noia». Queste e molte altre parole andava fra sé dicendo Biancofiore, menata continuamente con istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale accidente non piangesse, e l’aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non potendo, piú oltre che ’l piangere, mostrare che di lei gli dolesse, diceva: «Gl’iddii ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua anima graziosa nella pace de’ loro regni». E giunti i sergenti al misero luogo dov’era acceso il fuoco, e ragunato infinito popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che senza impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancofiore corsero agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che giá a lei s’avvicinavano per la sua difesa: e senza sapere piú avanti del loro essere che gli altri che quivi erano, imaginò che l’uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della promessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e cacciando da sé alquanto di paura, si cominciò a riconfortare, e a prendere speranza della sua salute.
- Florio e Ascalione, pervenuti al tristo luogo per grande spazio prima che il giorno apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perché era giovane e non uso d’alcuna asprezza, e Ascalione per lunga etá giá tutto bianco, smontato ciascuno dal suo cavallo, e legatolo a un arbore, dissero: «Qui alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia». E cavati gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a dormire.
- O Florio, che fai tu? Tu fai contra all’amorose leggi. Niuno sonno si conviene a sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli sottilmente sottentra ne’ disiderosi occhi e negli affannati petti? Ora dove sono fuggite le sollecite cure, che strignevano il tuo animo poco avanti? E’ ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con l’arme indosso sopra la dura terra ti se’ addormentato? Credi tu forse Biancofiore aver tratta di pericolo perché tu ti sia armato? Ell’è ancora in quel pericolo che ella si fu avanti che tu t’armassi. Ma tu forse credi il sonno a tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirá. E se egli alquanto ti ritiene piú che a Biancofiore non bisogna, a che sará ella? Certo alla morte! Forse tu ti fidi che gl’iddii ogni volta ti deggiano con nuovi segni destare? Forse non ti desteranno: e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, piú tosto da dire pigrizia? Venere infino a qui ha fatto il suo dovere: se tu a quello ch’ella t’ha detto sarai pigro, ella si riderá di te, e terratti vile, e scherniratti con dovute beffe. Deh, come male, se tu soverchio dormi, avrai adoperata la ricevuta spada? Ora non ti strigne amore? Or non t’è a mente Biancofiore? Ogni sollecitudine è testé da te lontana! Ma la misera Biancofiore, forse giá fuori della cieca prigione e della non giusta sentenza data contro di lei, forse è vilmente menata all’acceso foco; e ripetendo tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or s’ella muore, che varrá la tua vita? Ella si potrá piú tosto dire ombra di morte. Ora se Biancofiore sapesse che un poco di sonno, sopravvenuto ne’ tuoi occhi, t’avesse fatto dimenticare li suoi affanni, non avrebb’ella ragione di non amarti giá mai, ma degnamente odiarti? E s’ella morisse, potendola tu aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai piú viver lieto non dovresti. Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai nullo pigro guadagnerá graziosi doni.
- Nel piccolo spazio che Florio quivi addormentato stette, gli fu la fortuna molto graziosa, perché a lui pareva, cosí dormendo, con le sue forze avere giá liberata Biancofiore d’ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno d’erbe e di fiori e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana coperta e circuita di giovanetti arbuscelli, in maniera che appena i chiari raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli pareva con lei sedere con due strumenti in mano sonando e cantando amorosi versi, e insieme fare allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e talora disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e che ella abbracciasse lui, e dessersi amorosi baci. E giá non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il parergli d’averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima nel sogno gli aveva narrato ch’era stata. E cosí Florio, che dormendo disiderava di non dormire, si stava, quando il giorno cominciò alquanto a rischiarare. Allora l’altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese dal suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai, sopraggiunse a costoro; e ismontato da cavallo, prese per lo braccio Florio, che ancora dormiva, e disse: «Ah, cavaliere, leva su, non dormire: non vedi colui, il cui figliuolo seppe si mal guidare l’ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni, che giá co’ suoi raggi ha cacciate le stelle?». Allora Florio, tutto stupefatto, subitamente si dirizzò in piè guardando dattorno, e forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l’avea, che della rossa luce di che era coperto tutto pareva che ardesse, e disse: «Cavaliere, chi siete voi che queste parole mi dite e che m’avete il dolce sonno rotto?». «Io sono guidatore e maestro delle celestiali armi» rispose Marte, «e insieme sono in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che novello cavaliere se’ tu entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e te’ questo arco con questa saetta: niuno tuo nemico ti sará si lontano, che con questa non l’aggiunga, solamente che tu il vegga: folle è chi l’aspetta, ardito chi la saetta, e iddio è chi la fabbrica; però tieni caro l’uno e l’altra, acciò che donandoli non te n’avvenisse come alla misera Procris, la quale molto piú lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare, perché niuna arma è, fuori che le nostre, che a’ suoi colpi possa resistere. L’ora si appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo.»
- Di questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una grandissima barba, e sí lucente, che appena poteva sostener di mirarlo. Ma udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo, bassatosi in terra, gli s’inginocchiò davanti, dicendo: «O sommo iddio, sempre sia il tuo valore esaltato, sí come è degno; quanto per me si può, tanto piú ti ringrazio del caro e buono arco che donato m’hai, e della tua compagnia, la quale a me indegno t’è piaciuto di fare in questa necessitá. Perché io ti priego che tu, come promesso hai, cosí al mio aiuto sia avvisato in non abbandonarmi, acciò che io, tornando a Montorio con l’acquistata vittoria, le mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni. E questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalione, disse: «Cavalchiamo, che tempo è, e a me pare giá vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e parmi vedere l’accese fiamme risplendere in mezzo di loro». Ascalione senza indugio si levò, e vide che egli dicea il vero. Allora messisi gli elmi, e presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti a loro cavalcava, verso quella parte dove Biancofiore doveva essere menata. Ascalione, che a Florio vedeva portare il forte arco, disse: «O Florio, chi t’ha donato quest’arco, poi che noi venimmo qui?». «Certo» rispose Florio, «l’alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca; poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi quest’arco e questa saetta, e dissemi che noi cavalcassimo, allora ch’io ti chiamai. Disse Ascalione: «Dove è quel duca che tu di che tel donò? Io non veggio davanti a noi se non uno splendore molto vermiglio, del quale io t’ho voluto piú volte dimandare se tu lo vedevi». Disse allora Florio: «Quegli è desso; io veggio lo splendore e l’iddio che dentro vi dimora». Allora disse Ascalione: «Ben ti dico che ora veggio che gl’iddii t’amano, e che tu devi pervenire a grandissimi fatti. Quale vuo’ tu della tua futura vittoria piú manifesto segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa, aringando a’ disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo Scipione, non fu piú manifesto segno del futuro trionfo. Né quello ancora, che apparve a Tullio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di Tanaquilla, fu piú manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della diliberazione di Biancofiore. Adunque confortati, e prendi vigoroso ardire, seguendo le vestigie del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, senza dubbio ti credo, ben che insino a qui molto dubitato abbia che vere non fossero le tue parole».
- Cosí parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco aveva giá fatto fare dintorno al foco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva d’appressarsi; e chi nel piano entrava, non sappiendo di che, aveva paura. Ma il siniscalco, che con rivolta redina aveva ripreso il secondo cerchio maggiore, per dare maggiore spazio a’ sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver paura, molto in sé maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale che gl’iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancofiore. Ma pure per non parere men che ardito, e per meno sgomentare gli altri, passò avanti, con non piú sicuro animo che Cassio in Macedonia contro a Ottaviano, veduta la figura di Cesare vestito di porpora venire contro a lui, tanto che pervenne ad esso senza far motto, e a’ due cavalieri che appresso gli stavano, i quali Biancofiore molto di lontano aveva veduti, con rabbiosa voce disse: «Signori, tiratevi a dietro». Allora Marte ristette, e a Florio disse: «O giovane coperto delle nuove armi, ecco colui che tu devi oggi recare a villana fine; questi fia campione contro alla veritá: e veramente ha meritato ciò che da te riceverá, però che egli è colui che mise in effetto l’ordinato male de’ tuoi parenti: rispondigli, né per lui da questo luogo ti muovere». Allora Florio si trasse avanti con tanta forza e fierezza, quanta se quivi uccidere senza indugio l’avesse voluto, e disse: «Cavalier traditore, né tu né altri mi fara di qui mutare, piú che mi piaccia». Il siniscalco crucciato, e impaurito per la compagnia che con lui vedeva, si tirò indietro con intendimento di tornargli adosso con piú compagni; ma Florio, alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancofiore assai presso del foco, giá da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e veggendo Florio vestita di nero colei che soleva essere perfetta luce del suo core, e veggendo i begli occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli senza alcun maestrevole legamento attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietá sotto il rilucente elmo il piú dirotto pianto del mondo, dicendo: «Oimè, dolcissima Biancofiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta crudeltá regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, né mai credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non mi aiutino, se tu non se’ da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme lietamente viveremo». E queste parole fra sé dette, ferí il cavallo degli sproni fieramente, rompendo la calcata gente, la quale per la partita del siniscalco aveva riempiuta l’ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e maggiore spazio, comandò a’ sergenti, che giá Biancofiore volevano gittare nel foco, che incontanente sciogliendo a lei le mani la dovessero lasciare, né piú avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu obbedito senza dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si ritirarono. Allora Florio rivolto a lei, con alta voce disse: «Giovane damigella, fugga da te ogni paura, che gl’iddii, pietosi di te, vogliono che io ti difenda: dimmi qual sia la cagione che il re t’ha fatto giudicare a sí crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, ché io ti protnetto, che o ragione o no che il re abbia, infin che i miei compagni ed io avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per amor della tua piacevolezza, ti difenderemo». Vedendosi Biancofiore confortare dal cavaliere, lasciata da’ sergenti, alzò il viso con gli occhi pieni di lagrime, e dopo un amaro sospiro cosí disse: «O cavaliere, chi che tu sia, o mandato dagl’iddii in mio aiuto o no, come può egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m’è? E’ pare che le insensibili pietre, non che gli uomini ne ragionino, per quello che io misera n’ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della nativitá del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io fui mandata dal siniscalco con un pavone, il quale era avvelenato; e io di ciò non sappiendo cosa alcuna, fatto quello di esso che comandato mi fu, il lasciai davanti al re, e tornaimene alla camera della reina: ove essendo ancora un poco dimorata, fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E senza volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa morte. Ma se a’ giuramenti de’ miseri si deve alcuna fede prestare, io vi giuro per la potenza de’ sommi iddii che questo peccato io non commisi, e senza colpa mi conviene patire la pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale credo che io sia fatta morire, che voi m’aiutiate e difendiate, acciò che io sí vilmente non muoia». Florio, il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancofiore, piangendo continuamente sotto l’elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno s’avvedesse, molto disiderava di farlesi conoscere; poi per lo ammaestramento della santa dea ne dubitava, ma alla fine così le rispose: «Bella giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl’iddii mi presteranno vita». E alzata la visiera dell’elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era venuto, disse così:
- «Signori, i quali qui adunati siete per vedere lo strazio disonesto e ingiusto che di questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietá alcuno fosse in voi rimaso, dovreste fuggire di vedere, a me chiaramente pare, per le parole che io ho da lei intese, le quali credo, e manifestamente appare quelle essere vere, che la sentenza, data contro a lei, sia, nella presenza degl’iddii e degli uomini, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale glielo comandò, è colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui, e non sopra costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo volesse dire, o il siniscalco o altri per lui, sono io presto e apparecchiato di difendere quello ch’io ho detto sia la verita, e in ciò arrischierò la persona e la vita. Perciò che la manifesta ragione mi strigne ad essere pietoso della ingiusta ingiuria fatta a costei; e, d’altra parte, io sono distrettissimo e caro amico di Florio, ed ella per amore di lui mi priega ch’io l’aiuti e difenda nella ragione: e io cosí son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a qualunque la vuoi far morire, però che s’altro ne facessi, molto alla cara amistà mi parrebbe fallare, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente riprendere».
- Assai nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v’era la maggior parte di quelli che vantati s’erano al pavone, a’ quali molto di Biancofiore doleva: i quali queste parole udendo, tutti dissero che il çavaliere dicea bene, e che convenevole cosa era che ’l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a quel che la contradiceva, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti messaggeri subitamente, contenti tutti senza fine di tale accidente, favoreggiando Biancofiore in quanto potevano. E alcuni di quelli giudici, che tenziata l’aveano, trovandosi ivi presenti, udite le parole di Florio, comandarono che piú avanti non si procedesse, infino a tanto che ’l cavaliere non avesse il suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira tutto si rodea, veggendo che Biancofiore aveva aiuto, e che di consentimento di tutti all’opera si dava indugio, e che il cavaliere si vituperose parole aveva dette di lui, incominciò a bestemmiare quella deitá che avuto aveva potere d’indugiare tanto la morte di Biancofiore, e che per inanzi se ne inframettesse in non lasciarla morire; e cosí bestemmiando si trasse avanti, e disse: «Il cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; ché Biancofiore deve ragionevolmente morire, e cosí morrá ella in dispetto di lui e di Florio, per cui richiamata s’è, e di qualunque iddio la volesse aiutare». E detto questo, comandò a’ sergenti che incontanente la mettessero nel foco, e lasciassero dire al cavaliere: che, se difender la voleva, fosse venuto avanti che la sentenza fosse data, ché omai non si puote ella tornare indietro per cosa che alcuno dica. Florio si volse subito a’ sergenti, dicendo: «Niuno di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane quanto egli vuole; e se egli disidera di farla morire, venga avanti a toccarla». Allora Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio, e disse: «Villan cavaliere, chi se’ tu che si contrari’ la nostra potenza con sí oltraggiose parole? Poco che tu parli piú avanti, io ti farò prendere e ardere con lei insieme. Via, levati di qua incontanente». Florio, non potendo piú sostenere, alzò la mano, e diegli sí gran pugno in su la testa, che quasi cadere lo fece sopra l’arcione della sella tutto stordito; e questo fatto, dirizzatosi sopra il destriere, e accostatosi a lui, preso l’avea sotto le braccia per gittarlo dentro l’acceso foco; ma molti furono gli aiutatori, quasi piú per iscusa di loro che per buona volontá, i quali se stati non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli da Florio libero, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi, n’andò al real palagio; e venuto nella presenza del re, vi trovò alcuni, mandati da’ nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, li quali da parte loro gli recitavano l’accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento loro, giungendo furioso, e cosí disse: «Ahi, signor mio, ascolta le mie parole. Lá alla Braa è venuto il piú villano cavaliere che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che provare mi vole per forza d’arme che la sentenza, da’ nostri giudici data contro a Biancofiore, sia falsa, e ch’ella non deve morire: intendi che a me, che disarmato a’ suoi intendimenti resisteva, ha fatto villania e oltraggio; e certo ivi era presente Parmenione, e Sata, e altri uomini a voi suggetti, sí com’io a voi, che piú tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e la vostra potenza, e favoreggiando Biancofiore. E il cavaliere ha detto ch’è fedelissimo e stretto amico di Florio; onde Biancofiore per parte di lui gli s’è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai senza battaglia non partirsi, e di scampar lei, o di morire egli. Ond’io vi priego carissimamente che a me concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e cavallo, acciò ch’io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza negl’iddii e nelle mie forze che senza dubbio con vittoria vi menerò preso il villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata».
- Niente piacquero al re tali novelle, anzi con dolente animo l’ascoltava, e fra sé diceva: «Deh! ora chi ha sí tosto queste cose a Florio rivelate, che egli si subito soccorso mandato le ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Io non so. O iddii, maladetta sia la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch’io rechi a perfezione un mio intendimento!». E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la mente le non piacevoli cose, sospirando rispose: «Non so chi sia questi che ’l mio intendimento s’ingegna d’impedire; ma sia chi vuole, che forse egli morrá, e Biancofiore non camperá». E poi soggiunse al siniscalco: «A me par l’ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare il cavaliere, e onorario infino al mattino; e poi, quando il sole con piú tiepido lume ritorneni, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia». «Sire» rispose il siniscalco, «in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia, però che il cavaliere che la dimora è di sí fiero coraggio e ardimento, che qualunque persona volesse Biancofiore toccare, converrebbe che con lui combattesse, o la lasciasse stare; né la alcuno v’è a cui della morte di Biancofiore non incresca, né che piú tosto in aiuto di lei non mettesse la persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da’ vostri comandamenti e piaceri mai non mi partii né partirò; e però se voi mi concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se no, se ne vorrò far venire Biancofiore alla prigione, io so che combattere mi converrá. Priegovi adunque che voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso». Rispose allora il re: «Poi che egli è come tu dí, e che oggi la battaglia non si può cessare, va e prendi l’arme, e qualunque de’ nostri cavalli piú ti piace, e fa che onori acquisti con vittoria: pensa che nelle tue mani deve stare oggi la perfezione del nostro avviso, e la veritá della nostra bocca si deve con la forza del tuo braccio osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro intendimento non recida, se ti parrá di poterlo fare, comanderai a’ tuoi sergenti che mentre che la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che essi subitamente gittino Biancofiore nell’acceso foco; poi questo fatto, della tua vittoria non ti curare». «Questo sará a mio potere fornito», rispose il siniscalco, e partissi da lui.
- Prese adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancofiore, né campata, né del tutto rimasa dannata, quivi si stava intra’ due continuamente piangendo; e poco valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse, ben che se saputo avesse che colui che si pietosamente la confortava fosse stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non curandosi del pericolo nel quale essere le pareva. Ella dimandava sovente: «O cavaliere, che è di Florio? Quando è che voi lo vedeste?». E ogni volta al nominar Florio, piú forte piangeva. E Florio le rispondeva: «Giovane donzella, in veritá, che la passata sera il vidi, e con lui dimorai per grande spazio di tempo in Montorio, lá ove io poi il lasciai faccendo sí grandissimo pianto e duolo di ciò che addivenuto t’è, che niuna persona il poteva né può racconsolare. Egli chiaramente mi pregò che io dovessi qui senza dimoro venire a liberarti da questo pericolo; ed egli sdenza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera, forza sarebbe che egli o per grave doglia morisse, o per quella il natural senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui, e che tu il tenga a mente, sí come egli fa te, ché mai per bellezza d’alcuna altra giovane non ti poté né crede poter dimenticare». Assai piacevano a Biancofiore queste parole, e molto in se stessa se ne confortava, e poi fra sé diceva: ‛Deh, chi è questo sí caro amico di Florio, che qui al mio soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che amano Florio’. E mentre questo tra sé ragionava, sempre guardava l’armato cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d’averlo altre volte veduto; ma l’angoscia e la paura che per lo petto le si volgevano e per la mente, non lasciavano all’estimativa comprendere niuna vera fazione di Florio: e, d’altra parte, egli per l’armi e per le lagrime aveva nel dilicato viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montorio andasse, non s’era nel cospetto di Biancofiore cambiato. E volendo ella dimandare del nome Massamutino apparve al campo tutto armato con due compagni, ciascuno a cavallo sopra altissimo destriere, l’uno de’ quali un forte scudo avanti gli portava, nel quale un lione rampante d’oro in uno azzurro campo risplendeva, e l’altro una corta lancia e grossa, con un pennoncello a simigliante arme: per la qual cosa la gente cominciò tutta a gridare e a dare luogo, dicendo: «Ora
- vedremo che fine avrà l’orgoglio del siniscalco»; e questo a Biancofiore tolse con subito tremore il non potere piú parlare al cavaliere. Ma Florio sì tosto come questo vide, bassata la visiera dell’elmo, disse: «O giovane, fatti sicura che il tempo della tua libertà è venuto»; e voltato al forte iddio e ad Ascalione, disse: «O somma deità ascosa nella vermiglia luce, e tu, o caro compagno, ecco l’avversario mio: alla battaglia non può essere piú indugio. Io vi priego che questa giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre combatterò, alcuna ingiuria fatta non le fosse». E dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando Massamutino con sicuro core.
- Massamutino non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de’ sergenti, quelli in cui piú si fidava, e così pianamente disse loro: «Sì tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina, e voi allora prestamente la prenderete e gitteretela nel foco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne siamo piú tosto ispediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza non perisca la giustizia». I sergenti risposero che ciò senza alcuno fallo sarebbe fatto. Allora il siniscalco prese lo scudo e la lancia, e cavalcò tanto che davanti a Florio pervenne, a cui egli disse così: «O villan cavaliere, ecco chi abbasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada riconoscere il tuo errore». A cui Florio rispose: «Iniquo traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la quale tu menti, oggi il provera, sí come io credo; e in ciò gl’iddii m’aiutino, sí come campione e difenditore della verità, e però tra’ti adietro, e, quanto vuoi, del campo prendi, ché se’ armato, e l’offenderti non mi si disdirà».
- Senza piú parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi ciascuno per offendere l’altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante piú alto che il mezzo termine imposto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancofiore, quando il grande grido si levò: «Ecco il siniscalco!» Ella non morí, e non rimase viva, e s’alcuno colore l’era nel viso ritornato, o rimaso, tutto si fuggí, e quasi ogni sentimento del corpo abbandonò le sue parti, e l’anima si ristrinse nelle ultime parti del core, e quasi la volle abbandonare; ma poi che la vita tornò egualmente per tutti i membri, ella, inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso inver lo cielo: «O sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli con tutte l’altre creature, e in cui ogni potenza ha fermamento, se tu ad alcuni prieghi ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietá merito, porgimi il tuo aiuto, sí come facesti al vecchio Anchise, quando sano senza alcun impedimento da’ crudeli fuochi dell’antica Troia il traesti. Deh, non volger li tuoi pietosi occhi in altra parte; riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa. Tu sai se io ho avuta colpa in ciò che costoro ingiustamente m’appongono. O signor mio, aiuta me e aiuta chi per me s’affanna. Non si tinga oggi la spada d’Astrea nell’innocente sangue. Dá vigore al mio cavaliere, il quale forse piú per lei, che per amore di me o d’altrui, s’ingegna di avere vittoria; e non abbandonare me misera posta in tanta tribolazione».
- Quando i due cavalieri si furono allungati l’uno dall’altro, quando le teste de’ cavalli con presta mano l’uno verso l’altro voltarono, allora s’accostò Marte a Florio, e disse: «Giovane cavaliere, qui si parráquanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu seguiti nelle battaglie gli ammaestramenti del tuo compagno». E questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell’elmo, e alitogli nel viso, e poi gliela richiuse; e acconciandogli in mano la forte lancia, disse: «Muovi, che giá il tuo nemico è mosso». Florio sospirando riguardò verso quella parte dove Biancofiore dimorava, e appresso ferí il corrente destriere co’ pungenti sproni, dirizzandosi verso Massamutino, che inverso lui correndo veniva con la lancia abbassata. Ma giá non parve alla circostante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e giungendo sopra il siniscalco, sí forte con la sua lancia il ferí nella gola, che quella ruppe, e lui miseramente abbatté nel campo sopra la nuova erbetta, passando avanti. E appena aveva ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la gente attenta piú a riguardar loro che Biancofiore, s’accostarono per voler prendere lei, e farne quello che il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose, faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sí grande nel campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano, senza avere ferito, e riguardandosi intorno, e vedendo il nemico suo a cavallo tornare verso di lui, tutto isbigottí, dicendo: «Oimè, or con chi combatto io? Quegli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie con gl’iddii? Giá mi manifestò il core stamani, incontanente ch’io vidi la vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancofiore. Io veggio costui che d’iniquitá o d’altro arde tutto nel primo aringo: or che fará egli quando piú sará riscaldato nella battaglia? Se egli è iddio, non gli potrò resistere; s’egli è uomo, troppo mi sará duro alla sua fierezza contrastare. Volentieri vorrei di tale impresa esser digiuno; ma piú non posso». E cosí dicendo, prestamente si dirizzò, e volontieri si saria partito se potuto avesse; e, traendo fuori la spada, disse: «Facciano di me gl’iddii quello che loro piace: io pur proverò se egli è cosí fiero con la spada in mano come con la pungente lancia, avanti che io, senza aver bagnata la terra del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto». In quella Florio si appressò a lui e disse: «Cavaliere, certo mala prova ci fa il tuo orgoglio, e giá del primo assalto stai male. Disse il siniscalco: «Niente starei peggio di te s’io fossi a cavallo; ma giá questo vantaggio non avrai tu da me». E questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferir Florio sopra la testa, ma il colpo fu corto, e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio, vedendo il colpo, saltò tantosto a terra dal cavallo, e acceso d’ira, tratta fuori la celestiale spada, andò verso lui, e sí forte col petto l’urtò, che e’ credette di averlo fatto cadere; ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui, non lasciandolo da quella volta in lá piú accostare, ma ferendolo continuamente di grandi e spessi colpi. Florio riceveva sopra il rilucente scudo le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre in riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando loco e tempo gli parve, avvisandolo in quella parte della gola la ove la lancia avea le armi guaste, alzato il braccio, si forte il ferí, che alcuna arme non gli giovò che egli non gli ficcasse la spada assai nelle gnude carni: e se il colpo fosse stato traverso, sí come fu diritto, opinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe la testa. Per quel colpo cadde il siniscalco, e tutti credettero fermamente che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande: «Morto è il siniscalco, e liberata è Biancofiore»; e di ciò tutti rendevano grazie agl’iddii e facevano festa. Mentre il gran romore si faceva, il siniscalco, che per quel colpo morto non era, ma stordito, si dirizzò tacitamente, e salito sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma Florio, che verso Biancofiore se n’era andato, voltato per lo romore che la gente gli facea dietro vedendolo fuggire, quasi niente gli parea aver fatto, però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l’aperse, saettandogli appresso, e disse: «Senza mio affanno questa ti giungerá piú tosto che tu non credi». E lui fuggente ferí dietro nelle reni, nulla arme faccendo alcuna resistenza a quel colpo, ma, passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco, sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto appiè venuto il prese per la irsuta barba, e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all’acceso foco, nel cospetto di Biancofiore, cui Marte aveva giá della sua luce tratta, lo trascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto, disse: «Malvagio e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietá, narra davanti a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re». A cui il siniscalco cosí rispose: «Poscia che gl’iddii v’hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la veritá sia manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne sia, il vi dirò sí come potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere, acciò che io stando alquanto alto possa essere da tutti udito e veduto». Fecelo Florio sostenere a’ suoi sergenti medesimi, ed egli cosí incominciò a dire:
- «Egli è vero, o signori, che ancora non è gran tempo, io amai sopra tutte le cose del mondo Biancofiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore, che gli piacesse di congiugnerla meco per matrimonial legge, il quale liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito dar le voleva, ella rispose che sí vile uomo com’io era mai in suo potere non l’avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl’iddii; e poi piangendo, gittandoglisi a’ piedi, il pregò che gli piacesse che non la mi desse: onde egli mosso a pietá di lei, che l’amava come figliuola, disse: «Non piangere, che io nol ti donerò». Io, risapendo queste cose, molto mi turbai, e quello amore ch’io le portava si convertí in odio, e sempre pensai com’io vituperosamente la potessi o far morire o fare che cacciata fosse; onde iermattina celebrandosi la gran festa della nativitá del re, io feci cuocere e segretamente avvelenare quel pavone, il quale io poi a lei feci portare alla real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale questo cavaliere vincendomi l’ha campata».
- Guardossi assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, perciò che campare credeva e non voleva rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu bene contento Florio, che la iniquitá del suo padre non fosse si manifestamente saputa. Ma sí tosto come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare: Muoia, muoia!». E Marte, che udite aveva queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto se non da Florio, disse: «Sia questa l’ultima ora della sua vita; gittalo in quel foco dov’egli fatto avea giudicare Biancofiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di cosí fatti uomini niuna pietá si vole avere». Florio, udita questa voce, ripreselo per la barba e gittollo nel presente fuoco. Quivi con grandissime grida e con grave doglia finí il siniscalco miseramente la sua vita ardendo.
- Fu da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del siniscalco e della liberazione di Biancofiore: e chi la vi portò credendolo rallegrare, e chi per lo contrario, narrandogli molti per ordine ciò che stato era nel campo tra’ due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e ciò che confessato aveva il siniscalco inanzi la sua morte. Il re in atto fece vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e noiosa senza comparazione gli era all’animo tal novella; ma per non iscoprire ciò che infino a quell’ora aveva con fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto era, e cosí disse: «In veritá, che a me molto è a grado che Biancofiore sia da tal pericolo scampata, poi che colpevole non era; però che io l’amo quanto cara figliuola, avvegna che assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino a qui per leale uomo e valoroso aveva tenuto; ma poi che tanta malvagitá occultamente in lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E s’io voglio ben considerare tutto ciò che da voi m’è stato detto, io veggo manifestamente me essere molto tenuto a’ nostri iddii; e similmente conosco me da loro molto essere amato, veggendo che essi inver di me tanta benevolenza dimostrano, che essi non soffrano che nella mia corte alcuna iniqua cosa senza punizione si faccia, per la quale la mia eterna fama potesse da alcuno ragionevolmente essere contaminata».
- Avendo Florio gittato il siniscalco nell’ardenti fiamme, fece egli Biancofiore montare sopra un bel palafreno; e l’accompagnarO il grande iddio ed egli e Ascalione, con molti altri compagni, verso il reale palagio. Ella quasi paurosa, che appena potea credere d’essere ancora fuori del tristo pericolo, si voltò tutta tremante a Florio, e disse: «O signor mio, or dove mi menate voi? Voi m’avete tratta d’un pericolo, e riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh, perché volete voi avere perduta la vostra fatica? Io non sarò prima lá, che come voi vi sarete partiti, io mi sarò a quel pericolo che io m’era quando molto di lontano vi vidi, avvisando che in mio aiuto foste venuto. Deh, se voi siete cosí amico di Florio come voi dite, e come l’operazioni dimostrano, perché non me ne menate voi a lui a Montorio? Io non dubito di venir con voi ovunque mi menerete, solo che io creda trovar lui. Egli sará piú contento che voi mi rendiate a lui, che se voi mi rendete al suo padre». A cui Florio rispose: «Piacevole donzella, non dubitare: gl’iddii e Florio vogliono che tu sia renduta ora al re, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che piú da lui non avrai altro che bene e onore. E io, quando tornerò a Montorio, farò si che Florio verrá tosto a vederti, o che egli manderá per te». E mentre che cosí ragionando andavano, pervennero al reale palagio. Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancofiore per mano, e cosí la menò nella sala davanti all’iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che rapportate gli avevano le novelle della morte del siniscalco. Il quale, vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse: «Sire, io vi raccomando questa giovane donzella, la quale io, con la forza dell’iddii e con la mia, della iniqua sentenza ho liberata per parte di Florio, per amore di cui io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo: ve la raccomando, e vi priego che piú sopra di lei non troviate cagioni che facciano ingiustamente la morte parere giusta, sí come ora faceste; però che la veritá pur si conosce infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di costei, la quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, è da voi piú che da alcuno altro cercata, insieme quella di Florio dimandate: tenetela omai piú cara che infino a qui fatto non avete»; e datala in sua mano si tirò adietro.
- Con lieto viso la prese il re, e abbracciatala, come cara figliuola la baciò in fronte, ed ella savissima incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli i piedi, e poi in ginocchi levata disse: «Padre e signor mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi perdoni, che semplicitá e non malizia m’ha fatto in ciò peccare; e priegoti che del tutto dall’animo ti fugga che io in quel fallo, per lo quale condannata fui, avessi colpa: e prima che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino gl’iddii subitamente morte. Chi fu quello che in ciò falli, a tutto il tuo popolo è manifesto, è però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della quale ingiustamente fui spogliata». Il re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno di molto amore l’abbracciò, dicendo: «Mai a me non fosti graziosa e cara quanto ora se’, e però ti conforta». E rivolto a Florio, disse: «Cavaliere, ignoto m’è chi tu sia, ma però che di che amico se’ di Florio nostro figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore che n’hai con la tua spada illuminato e fattoci conoscere la veritá, la quale a’ nostri occhi senza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale pericolo costei, la quale quanto figliuola l’amo, tu mi se’ molto caro, e senza fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato ha commesso cosí debitamente punito, dando acerba pena all’iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti sarò. E promettoti per quella fede che dobbiamo agl’iddii avere, che per amore di Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che nell’animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi dolente molto; e certo a tutti costoro poté essere manifesto il mio viso e il petto pieno di lagrime, quando sentenziare la udii: e se la pietá si dovesse antiporre alla giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sí fatta cagione uscita».
- «A me» rispose Florio, «non è al presente lecito di dirvi chi io sia, e però perdonatemi; e quando vostro piacer fosse, io volontieri mi partirei co’ miei compagni». «Poi che saper non posso chi tu se’, va, che gl’iddii ognora in meglio ti prosperino», disse il re. Allora Florio piangendo guardò Biancofiore, che ancora piangeva, e disse: «Bella giovane, io ti priego per amor di Florio, che tu ti conforti, e rimanti con la grazia degl’iddii». E detto questo, e preso commiato dal re, smontate le scale, e risaliti sopra i loro cavalli, Marte, egli e Ascalione, de’ quali nullo era stato conosciuto, si misero in cammino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte aveva destato Florio, Marte volto verso lui si fermò, e disse: «O cavaliere, omai tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare ond’io discesi, e tu e il tuo compagno ve n’andrete a Montorio». Fiorio e Ascalione, udite queste parole, incontanente smontarono da cavallo e gli si gittarono a’ piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e, porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono adunque costoro a cavallo, e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve ritornarono a Montorio.
- Poi che pervenuti furono a Montorio i due cavalieri, senza alcuno romore o pompa, quanto piú poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro a quello fecero accendere fuochi sopra de’ suoi altari, ne’ quali divotamente misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a’ santi altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti di bianchissimi vestimenti se n’andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino, tutti soletti; e quello fatto aprire, Florio uccise con sua mano un giovane vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentí un tacito mormorio, dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata d’alloro, e tanto lieta nel suo aspetto quanto mai per alcuno accidente fosse veduta, e con sommessa voce cosí cominciò a dire: «O tu giovane, sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl’iddii è piaciuto che io ti debba porgere la corona del tuo trionfo, acciò che tu per inanzi ne’ nostri servigi e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e piú ferma fede nelle nostre parole»; e detto questo, con le proprie mani prese la corona dal suo capo e ne coronò Florio. Allora Florio, in sé di tanta grazia molto allegro, cosí cominciò a dire: «O santa dea, per la cui pietá tutti coloro che a’ loro cuori sentono i dardi del tuo figliuolo, sí com’io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina tua mano porto m’hai. Ma perciò che piú la tua potenza che il mio valore adoperò nella odierna battaglia, io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari. E questo detto, trattasi la corona dalla testa, in su li santi altari con grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito dal santo tempio, niuno altro in Montorio ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato di degni sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalione, tornati al palagio del duca, cosí freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliarono, e giá ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l’avevano quel giorno. E quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro l’accolse, dicendo: «Dolce amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v’abbiamo? Certo noi eravamo tutti in pensiero di voi». A cui Florio faccendo grandissima festa disse: «In veritá io sono stato, e Ascalione meco, in un bellissimo giardino, con donne e con piacevoli donzelle in amorosa festa tutto questo giorno». «Ciò mi piace» disse il duca, «e questa è la vita che i valorosi giovani innamorati debbono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e perdendo il tempo senza utilitá alcuna.» E detto questo, essendo l’ora tarda, apprestata la cena, e le tavole apparecchiate, a mangiar s’assettarono. Ma il re Felice, che con altro core aveva Biancofiore da Florio ricevuta che il viso non mostrava, la menò alla reina, e disse: «Donna, ecco la tua Biancofiore, la cui morte agl’iddii non è piaciuta. Guardala e sieti cara, poi che i fati l’aiutano: forse che essi serbano costei a maggior fatti che noi non veggiamo». La reina con lieto viso e con buono animo la prese, contenta molto che diliberata era da quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali vestimenti, con lei insieme visitò tutti li templi di Marmorina, rendendo debite grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio e dea, che da tal pericolo campata l’aveano. E cosi, prima che al real palagio ritornassero, niuno iddio senza sacrificio rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata aveano. Ma ritornati al palagio, Biancofiore in quella benivolenza e grazia ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente, si curasse, né che portasse animo ad alcuno, ma ancora, senza farne alcuna menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.
- LIBRO TERZO
- Ritornato Florio a Montorio, lieto per la campata Biancofiore non meno che per l’avuta vittoria, avendo ancora gli occhi alquanto della lunga sete sbramati, e prendendo riposo del ricevuto affanno, incominciò a menar lieta vita, contentandosi dell’aiuto degl’iddii, al quale si vedeva congiunto. E giá gli pareva che i fati rivolti gli fossero benivoli, and’egli sperava tosto i suoi disiri compiere. Adunque la sua festa era senza comparazione in Montorio: e i cavalli che lungamente per lo suo amoroso dolore avevano negligente riposo avuto, ora inforcati da lui, e le redini tenute con maestrevole mano, correndo a diversi ufficii rimettono le trapassate ore. Egli, vestito di drappi di Siria, tessuti dalle turche mani, rilucenti dell’indiano oro, dimostra la sua bellezza coronata di frondi. Altre volte co’ cani e col forte arco nelle oscure selve caccia i paurosi cervi, e nelle aperte pianure i volanti uccelli gli fanno vedere dilettevoli cacce. E spesse fiate le fresche fontane di Montorio erano da lui con diversi diletti ricercate. Niuna allegrezza gli mancava fuor solamente la sua Biancofiore, la quale gli era troppo piú lontana che la speranza non gli porgeva.
- Menando Florio, per la futura speranza che lo ingannava, lieta vita, la non pacificata fortuna, invidiosa del fallace bene, non poté sostenere di tenergli alquanto celato il nebuloso viso, ma affrettandosi di abbreviare il lieto tempo, con questi pensieri un giorno subitamente l’assalí. Era entrato l’innamorato giovane, nell’ora che il sole cerca l’occaso, in un piacevole giardino, d’erbe e di fiori e di frutti copioso, per lo quale andando con lento passo assai lontano a’ suoi compagni, vide tra molti pruni un bianchissimo fiore e bello, il quale intra le folte spine sua bellezza serbava. Al quale rimirare Florio ristette, e pareagli che ’l fiore in niuna maniera potesse piú crescere in su, senza essere dalle circostanti spine pertugiato e guasto, né similmente dilatarsi, o divenir maggiore. Onde egli cominciò a pensare, e tra se medesimo a ragionare tacitamente cosi: «Oimè, chi e qual cosa mi potrebbe piú apertamente manifestare la vita e lo stato della mia Biancofiore che fa questo bianco fiore? Io veggio ciascuna punta delle circostanti spine rivolta al fresco fiore, e quasi ognuna è presta a guastare la sua bellezza. Queste punte sono le insidie poste dal mio padre e dalla mia madre alla innocente vita della mia Biancofiore, le quali lei alquanto muovere non lasciano senza amara puntura. Deh, misera la vita mia, or di che mi sono io, nel passato tempo, sperando, rallegrato tanto, che le infinite avversitá apparecchiate per me a Biancofiore mi siano uscite di mente? Oimè, perché dopo la disiderata diliberazione ti lasciai al mio padre?». Con queste e con altre parole malinconico molto si ritornò alla sua camera, nella quale tutto solo si rinchiuse. E quivi gittatosi sopra il suo letto, cominciò a piangere con queste voci: «O bellissima giovane, sono ancora cessate le malvage insidie poste alla tua vita da’ miei parenti? Morto è l’iniquo siniscalco, a te crudelissimo nemico: certo cessate dovriano essere. Io non credo che per la morte di colui la malizia del re sia menomata, e la mia fortuna ria penso che ti faccia spesso noia: ond’io credo che piú che mai alla tua vita ne siano poste. Oimè, misero, or dove ti lasciai? Io lasciai la paurosa pecorella intra li rapaci lupi. Deh, ove lasciai io la mia Biancofiore? Tra coloro che sono affamati della sua vita, e disiderano con inestinguibile sete di bere il suo innocente sangue. Certo il comandamento della santa dea ne fu cagione, il quale volesse il sommo Giove che io non avessi osservato. Oimè, Biancofiore, in che mala ora fummo nati! Tu per me se’ con continua sollecitudine cercata d’offendere perché io t’amo, e io sono costretto di stare lontano da te acciò che io ti dimentichi; ma certo questo è impossibile, ché amore non ci legò con legame da potersi sciogliere. Niuna cosa, altro che morte, non ci potrá partire, però che né noi il consentiamo, né amore vuole: anzi con piú forza continuamente mi cresce nello sventurato petto, tanto che d’ogni cosa mi fa dubitare; ed è cresciuto a tanta quantitá, che quasi dubito che tu non m’ami, o che tu per altri non mi abbandoni. O forse ancora per li conforti della mia madre, e per campare la vita, la quale con le proprie braccia campai, lasci di amarmi. Oimè, che amaro dolore mi sarebbe questo! O graziosa giovane, non dimenticar colui che mai te non dimenticherá: gl’iddii concedano che com’io ti porto nell’animo, tu porti me». In simili ragionamenti e pensieri e pianti consumò lo innamorato giovane quel giorno e la maggior parte della notte, né potea nel suo petto entrar sonno, per la continua battaglia de’ pensieri e degli abbondanti sospiri, i quali i suoi sonni contrastavano. Ma dopo lungo andare, la gravata testa prese temoroso sonno; e infino alla mattina, forse con battaglie non minori nel suo dormire che essendo desto, si riposò. Oimè, quanto è acerba vita quella dell’amante, il quale dubitando vive geloso. Infino a tanto che Procris non dubitò di Cefalo, fu la sua vita senza noia, ma poi che ella udí al male rapportante servidore ricordare Aurora, cui ella non conosceva, fu ella piena d’angosciose sollecitudini, infino che alla non pensata morte pervenne. Venne il chiaro giorno, levossi Florio; il quale per lo lieve sonno dimenticati non aveva gli angosciosi pensieri, e levato, non uscí della trista camera, sí come era l’altre mattine usato; ma in quella stando, si tornò sopra i pensieri del di preterito; e in quelli dimorando, il duca, che per grandissimo srazio atteso l’aveva, entrò nella camera dicendo:«Florio, leva su, non vedi tu il cielo che ride? Andiamo a pigliare gli usati diletti». E quasi ancora di parlare non era ristato, che, rimirandolo nel viso, il vide palido e nell’aspetto malinconico e pieno di pensieri, e i suoi occhi, tornati per le lagrime rossi, erano d’un purpureo colore intorniati: di che egli si maravigliò molto, e mutata la sua voce in altro suono, . cosí disse: «Florio, e quale subita mutazione è questa? Quali pensieri t’occupano? Quale accidente t’ha potuto si costrignere che tu mostri ne’ sembianti malinconia?». Florio vergognandosi bassò il viso, e non gli rispose; ma crescendogli la pietá di se medesimo, perché da persona che aveva di lui pietá era veduto, cominciò a piangere e a bagnar la terra d’amare lagrime. La qual cosa come il duca vide, tutto stupefatto, ricominciò al piangente a dire: «O Florio, perché queste lagrime?
- Ov’è fuggita l’allegrezza de’ passati giorni? Qual cosa nuova ti conduce a questo? Certo se i fati m’avessero conceduto sí graziosa coronazione, quale fu quella della notabile vittoria che tu avesti, a me da altrui che da te palesata, io non credo che mai niuno accidente mi potesse turbare. Dunque lascia il piangere, il quale è atto feminile e di pusillanimo core, e alza il viso verso il cielo, e dimmi qual cagione ti fa dolere. Tu sai ch’io sono a te congiuntissimo parente, e quando questo non fosse, si sai tu che io di perfettissima amistá ti sono congiunto:
- e chi sovverra gli uomini negli affanni e nelle avversitá di consiglio e d’aiuto, se i parenti e i cari amici non gli sovvengono? E a cui similmente si fiderá alcuno, se all’amico non si fida? Di sicuramente a me quale sia la cagione della tua doglia, acciò che io in prima ti possa porgere debito consiglio e conforto, e poi operando aiuto. Pensa che infino a tanto che la piaga si nasconde al medico, diviene ella putrida e guasta il corpo, ma palesata, le piú volte lievemente si sana. E però non celare a me quella cosa la quale questo dolore ti porge, però che io disidero darti secondo il mio potere intero conforto, e liberartene».
- Dopo alquanto spazio Florio alzò il lagrimoso viso, e cosí all’aspettante duca rispose: «Il dolce addimandar che voi mi fate e ’l dovere mi costringono a rispondervi e a manifestarvi quello che io credeva che manifesto vi fosse. E però che spero che non senza conforto sará il mio manifestarmivi, dal principio comincerò a dirvi la cagione de’ passati dolori e de’ presenti, posto che alquanto le lagrime, le quali io non posso ritenere, mi impediscano. Ne’ teneri anni della mia puerizia, sí come voi potete sapere, ebb’io continua usanza con la piacevole Biancofiore, nata nella paternale casa meco in un medesimo giorno, la cui bellezza e’ nobili costumi e l’adorno parlare generarono un piacere, il quale sí forte prese il giovinetto core, ch’io niuna cosa vedeva che tanto mi piacesse. E di questo piacere era multiplicatore e ritenitore nella mia mente un chiarissimo e splendidissimo raggio, il quale, come strale, da arco mosso, corre con la aguta punta all’opposito segno, cosí da’ suoi begli occhi movendo termina nel mio cuore, entrando per gli occhi miei: e questo fu il principale posseditore in luogo di lei. E, con ciò sia cosa che questi ogni giorno piú la fiamma di tal disio aumentasse, in tanto l’accrebbe, che convenne che di fuori paresse, e scopersemisi allora ella, non meno che io d’essa, essere innamorata. Né questo fu lungamente occulto pe’ nostri sospiri, di ciò dimostratori al nostro maestro, il quale piú volte con gravi riprensioni s’ingegnò di trarre indietro quello che agl’iddii saria impossibile far tornare; ma fattolo alla notizia del mio padre venire, egli imaginò che, allontanandomi da lei, della mia memoria la caccerebbe: la quale, se per la mia bocca tutto Lete entrasse, non la potria da quella spegnere. Ma non per tanto egli faccendomi allontanare da lei, non fu senza grande dolore dell’anima mia e di quella di Biancofiore. E in questo luogo mi relegò in esilio, sotto colore di volere che io studiassi. Ma qui dimorando, e trovandomi lontano da quella bellezza in cui tutti i miei disiderii si terminano, incominciai a dolermi, né mi lasciava il doloroso cuore mostrare allegro viso: e di questo vi poteste voi molte fiate avvedere. Ora, come la mia doglia fosse manifesta al re m’è ignoto, ma egli, o per questa cagione o per altra iniquitá compresa ingiustamente sopra la innocente Biancofiore, cercò d’uccider lei, e nella sua morte l’anima mia: e voi foste presente al nascoso tradimento, né vi fu occulto lei essere a vilissima morte condannata, né di ciò niente mi palesaste. Ma li pietosi iddii e il presente anello non soffersero che questo fosse; ma questi mostrandomi con turbato colore lo stato di lei, e gl’iddii ne’ miei sonni manifestandolomi, mi fecero pronto alla salute d’essa, e, porgendomi le loro forze, con vittoria la vita di lei e la mia insiememente campai, e poi ricevetti debita coronazione di tale battaglia, avendo giá rimessa la semplice colombetta intra gli usati artigli de’ dispietati nibbi: di che ora ricordandomene, e parendomi aver mal fatto, mi doglio. E piú doglie mi recano le vere imaginazioni che per lo capo mi vanno, che mi par vedere un’altra volta avvelenare il prezioso uccello, e condannare la mia Biancofiore a torto, ed essere il foco maggiore che mai acceso. E quasi mi pare intorno al core avere uno amarissimo fiume delle sue lagrime, le quali tutte mi gridano mercé. Io non so che mi fare. Io amo, e amore di varie sollecitudini riempie il mio petto, le quali continuamente ogni riposo, ogni diletto e ogni festa mi levano, e leveranno sempre, infino a quell’ora che io nelle mie braccia riceverò Biancofiore per mia, in modo che mai della sua vita io non possa dubitare. Io non vi posso con intera favella esprimere piú del mio dolore, il quale credo che piú vi si manifesti nel mio viso, che nel mio parlare non è fatto. Gl’iddii mi concedano tosto quel conforto che io disidero, però che se troppo penasse a venire, cosí sento la mia vita consumarsi nell’amorosa fiamma come quella del misero Meleagro nel fatato tizzone si consumò. E questo detto, perdendo egli ogni potere, sopra il ricco letto subitamente ricadde supino, tornato nel viso quale è la secca terra o la scolorita cenere.
- Non poté il duca, che con dolente animo ascoltava quello che non gli era mica occulto, vedendo Florio supino ricadere sopra il suo letto, ritenere le lagrime con fortezza d’animo; ma pietosamente piangendo, si recò l’innamorato giovane, a cui in vista niuno sentimento era rimaso, nelle sue braccia; e rivocati con preziosi liquori gli smarriti spiriti ne’ loro luoghi, cosí gl’incominciò a dire: «Valoroso giovane, assai compassione porto alla tua miserabile vita, tanto che piú non posso, e forte mi pare a credere che vero sia che tu da amore cosí compreso sia come tu narri, con ciò sia cosa che amore sia sí nobile accidente, che sí vile vita non consentiria menare a chi lui tiene per signore, come tu meni; e io l’ho giá provato: e massimamente avendo tu cosí vera cagione di doverti rallegrare, come tu hai, se io ho bene le tue parole ascoltate. Tu, secondo il tuo dire, ami piú ch’altra cosa Biancofiore, e similmente di che piú ch’altra cosa ella te ama. Adunque se tu bene riguarderai a quel che io intendo di dirti, niuno uomo maggiore festa deve fare di te, né essere, secondo la mia opinione, piú allegro, però che quello che piú amando si disidera si è d’essere amato; perché, se tutte l’altre cose, che ad amore appartengono, senza questa s’avessero, niuno intero bene né diletto porgere potrieno, però che gli animi sarebbero diseguali. Questo adunque piú che gli altri amorosi beni è da tener caro. A questo acquistare suole essere agli amanti molto affanno e noia, il quale se procacciando l’acquistano, tutta la loro fatica pare loro essere terminata, o la maggior parte: e di questo l’antica etá tutta è piena di esempli. Giá hai tu inteso quello che Melanione sostenne da Ileo per acquistare la benivolenza d’Atalanta: quante volte portò egli sopra i suoi omeri le pesanti reti, e l’altre necessarie cose alle cacce, per acquistare quella, in servizio della cruda giovane? E quanto contentamento giunse nell’animo d’Aconzio, sentendosi con inganno avere acquistato l’amore di Cidippe? E questo amore tu l’hai dirittamente. Per questo niuno affanno ti conviene durare. Niuna turbazione e nulla malinconia dovresti avere nell’animo. E avendo questo, come tu hai, gelosia e ogni spiacevole sollecitudine dovria essere lontana da te: e la ove tu ti contristi, ti dovresti dell’acquistato bene rallegrare. Ancora ho compreso nel tuo parlare te avere gl’iddii e la virtú del tuo anello in aiuto. Or qual cosa pensi tu che contraria ti possa essere, se sí fatto aiuto hai teco, come è quello degl’iddii, alla cui potenza niuna cosa può resistere? Lascia piagnere a’ miseri, alle cui sollecitudini solo il loro ingegno è rimaso aiutatore. Tu devi pensare che avendo gl’iddii cura de’ tuoi bisogni, se essi non concedono che tu al presente sia con la tua Biancofiore, non è senza gran cagione. L’uomo non sa delle future cose la verità: a loro niuna cosa si nasconde. Tu dei credere ch’eglino pensano alla tua salute, e io credo senza dubbio che questa dimora non sia senza gran bene di te. Il loro piacere si dee pazientemente sostenere. Se essi volessero, tu saresti ora con lei; e il volere contra ’l piacer loro andare, fece alla molta gente di Pompeo perdere il campo di Tessaglia, assaliti dal picciolo popolo di Cesare. Mostra ancora che molto ti dolga l’essere stata Biancofiore voluta dal tuo padre fare morire, la cagione della qual morte dubiti non sia stata il re avere saputo te dolorosa vita menar per lei, e per tanto temi forse non a simile caso ritorni: la qual cosa se ritornasse non saria maraviglia, ma ragione, con ciò sia cosa che tu conosca il tuo padre muoversi adirato contra Biancofiore per te, che tristo per lei vivi; e tu, non come disideroso della vita di Biancofiore, ti rallegri ch’ella viva, ma in pianti e in dolori consumi la tua vita per abbreviare la sua. Certo non è questo atto d’amarla, ma di mortale odio è sembiante. E posto che mai nulla novità seguire le dovesse dal tuo padre per lo tuo attristarti, sì dei tu volere il bene e il conforto e l’allegrezza di lei, se cosí l’ami, e se ella cosí t’ama come tu dì: le quali cose tu cerchi di torle, menando la vita che tu sai; però che tu dei credere che se questo rapportato le sarà di te, ella di dolore si consumerà. Adunque niuna cagione ragionevole vuole che tu questa vita meni. Tu ami e se’ amato, de’ quali il numero è molto piccolo a cui questo avvenga. Tu se’ con l’aiuto degl’iddii, i quali hanno sempre sollecitudine della tua salute, e questo hai tu per opera veduto. Dunque confortati; e se per te non ti vuoi confortare, confortati per amor di lei e di noi, acciò che ella e noi abbiamo ragione di rallegrarci. L’essere lontano a lei credo senza comparazione ti sia noioso; ma non si può sì dolce frutto, com’è quello d’amore, gustare. senza alcuna amaritudine; e le cose disiderate lungamente giungono poi molto piú graziose. A Penelope pareva dolce appressarsi alla morte, sperando cheogni domane dovesse tornare Ulisse prima da Troia, e poi non sappiendo da che luogo. Pensa che tu non sarai tutto il tempo qui, né senza lei. Se io fossi in tuo luogo, userei per piú savio consiglio il simulare. Io mostrerei, faccendo festa, che piú di Biancofiore non mi calesse né me ne ricordassi, e ristrignerei l’amorose fiamme dentro con potente freno. Forse, cosí faccendo, il tuo padre si crederebbe che dimenticata l’avessi, e concederebbeti piú tosto il tornare a vederla. Quello che t’ho detto hai udito, e io te l’ho detto come colui che in simil caso il vorrei da altrui udire; ma non per tanto se altro consiglio piú savio vedessi, arditamente lo scuopri a me, che io non intendo di contradirti, né di partirmi mai dal tuo piacere. Priegoti, quanto piú posso, come congiunto parente e vero amico, che da te ogni paura e pensiero cacci, perciò che delle tue dubitazioni di lieve accertare ci possiamo; e i pensieri, come di sopra ho detto, non dei avere: e però levati su, e vinca il tuo volere i non dovuti pensieri i quali ti occupano per lo solingo ozio. Piglia alcuni diletti, sí come per adietro abbiamo giá fatto, acciò che in quello né i pensieri t’assaliscano, né la tua vita sí vilmente si consumi. In questo mezzo penso che gl’iddii per la loro benignitá provvederanno graziosamente a porre debito fine a’ tuoi disiderii, forse ora né da te né da alcuno giá mai pensato».
- Piacque a Florio assai il fedele consiglio del duca, e cosí, levata la testa, sospirando rispose: «Carissimo parente, questa gentil passione d’amore non può essere che alcuna volta a’ piú savi, non che a me, quando le sono soggetti come io sono, non faccia tenere simile vita: e però di me non vi maravigliate, ma crediate che io sia tanto innamorato quanto mai niuno giovane fosse o potesse essere. E ciò che voi m’avete narrato, conosco apertamente esser vero; e però, disposto a seguire il vostro consiglio in quanto io potrò, mi dirizzo: andiamo, e facciamo ciò che voi credete che vostra e mia consolazione sia». E detto questo, dirizzatisi amenduni, uscirono della camera; e, saliti sopra i portanti cavalli, andarono con gran compagnia ad un’ordinata caccia, ove quel giorno assai festa ebbero e allegrezza.
- Molti giorni in cosí fatta maniera faccendo festa, Florio ricoperse il sue dolore, avvegna che sovente a suo potere s’ingegnava di star solo, acciò ch’egli potesse senza impedimento pensare alla sua Biancofiore. E quando avveniva che egli solo fosse in alcuna parte, incontanente incominciava ad imaginare d’essere col corpo colá dov’egli con l’animo continuamente dimorava. Egli imaginava alcuria volta avere Biancofiore nelle braccia, e porgerle mille baci, e altrettanti riceverne da lei, e parlare con esso lei amorose parole, ed essere con lei sí come altre volte era stato ne’ puerili anni: e mentre che in questo pensiero. stava, sentiva gioia senza fine; ma come egli di questo usciva, e’ ritornava in sé, e trovandosi lontano da essa, allora si mutava la falsa gioia in vero dolore, e piangeva per lungo spazio, ramaricandosi de’ suoi infortunii. Poi ritornando al pensiero, tal fiata si ricordava del tristo pianto che veduto l’aveva fare nella bruna vesta temendo l’acceso foco, quando egli sconosciuto si mise in avventura per campar lei, e poi si doleva d’averla renduta al padre, e di non aversi almeno fatto conoscere a lei, acciò che egli l’avesse alquanto consolata e fattala piú certa dell’amore che egli le portava. E molte volte tra sé si chiamava misero e di vil core, dicendo: «Com’è la mia vita da biasimare, pensando che io amo questa giovane sopra tutte le cose del mondo, e per questo amore vivo in tanta tribulazione lontano da lei, e non sono tanto ardito che io abbia cuore d’andarla a vedere, e lasciola per paura d’un uomo, il quale piú tosto a sé che a me offenderebbe. Perché non vo io, ed entro nelle mie case, e rapiscola, e menolami qua su meco? E avendola io, ogni dolore e ogni gelosia e ogni sospetto fuggira da me. Chi sará colui che ardito sia di biasimare la mia impresa, o di contrariarla? nullo: anzi ne sarò tenuto piú coraggioso, la dove io debbo ora esser vilissimo reputato. Sono io piú vile di Paris, il quale non a casa del padre, ma de’ suoi amici andò per la disiderata donna, e non dubitò d’aspettare a mano a mano Menelao sollecito chieditore di quella. Io non debbo aver paura che questa da alcuno raddimandata mi sia, né con ferro né con altra maniera. Il peggio che di questo mi possa seguire, sará che al mio padre ne dorrá: e se e’ ne gli duole, che ne gli dolga! Io amo meglio che egli si dolga, che io di dolore muoia. E pur quand’egli vedrá ch’io abbia fatto quel dí che egli si guarda, gli passerá la doglia, se passare gli vorrá, e se non l’uccidera: che giá l’avesse ella ucciso! e poi non ne sará piu. Io il voglio fare: cosa fatta capo ha. E posto che egli per questo si volesse opporre alla vita di Biancofiore, egli s’opporrá ancora alla mia. Niuna cosa opererá contra lei, che io come lei nol senta. Se egli per forza la mi vorrá torre, e io con forza la difenderò. Io non sarò piú debile d’amici e di potenza di lui: e quando egli pure fosse piú forte di me, puommi egli piú che cacciare dal suo regno? Se egli me ne caccia, io starò in un altro. Il mondo è grande assai: l’andare pellegrinando mi fia cagione d’esercizio. Egli fu a Cadmo cagione d’eterna fama l’andar cercando Europa e non trovarla. A Dardano e a Siculo similmente il convenir loro partire del loro regno fu cagione di grandissime cose. Io pure il voglio fare. Peggio ch’io m’abbia non me ne può seguire. E poi ritornava al piangere: e in questi pensieri teneva la maggior parte della sua vita. Ed eravisi giá tanto disposto, che con opera il voleva mettere in effetto, e avrebbe messo, se il raffrenamento del duca e d’Ascalione non fosse stato, i quali il confortavano con migliore speranza, e il suo volere gli biasimavano.
- Per questi pensieri, e per molti altri, era tanto l’animo di Florio tribolato, che in niuna maniera poteva il suo dolore coprire, né per alcun diletto rallegrarsi: e giá gli era si la malinconia abituata adosso, che appena avrebbe potuto mostrar sembiante lieto se voluto avesse. Egli aveva sí per questo i suoi spiriti impediti, che quasi poco o niente era il cibo che egli poteva pigliare, e nel suo petto non poteva entrar sonno: per le quali cose il viso gli era tornato palido e afflitto, e’ suoi membri erano per magrezza assottigliati, ed egli era divenuto debole e stanco. E la maggior parte del giorno si giaceva, e stava come coloro i quali, da una lunga infermitá gravati, vanno cose nuove cercando, e niuna ne piace, e s’egli piace, non ne possono prendere. Della qual cosa al duca e ad Ascalione molto doleva, e similmente non sapeano che via tenere sopra questa cosa. Essi dubitavano di farlo sentire al re, temendo non egli facesse novitá per questo a Biancofiore, e di questo a Florio ne seguisse peggio. E similmente dubitavano di tenerlo in quella maniera senza farglielo sentire, dicendo: «Se egli per altrui il sente, noi n’avremo mal grado, e cruccerassi verso di noi, e avrá ragione». E in questa maniera, senza pigliar partito, stettero piú giorni, pur confortando Florio e dandogli buona speranza. A’ quali Florio rispondeva sé non avere questo per amore, ma che il caldo, che allora faceva, il consumava. Questa scusa non aveva luogo a coloro che i suoi sospiri conoscevano; ma essi, quasi a ciò costretti, la sostenevano.
- Stando un giorno il duca e Ascalione insieme ragionando molto efficacemente de’ fatti di Florio, disiderosi della sua salute, Ascalione cominciò cosí a dire: «Senza dubbio niuna cosa è tanto da Florio amata quanto Biancofiore, e di questo il re ci ha colpa a farlo stare lontano ad essa, e noi con parole piú volte ci siamo ingegnati di trarlo indietro, né mai abbiamo potuto; onde fermamente credo che piacere degl’iddii sia, al quale volersi opporre è mattezza. Ma non per tanto a tentare alcun’altra via forse non sarebbe reo, e per avventura ci verrebbe forse il nostro intendimento compiuto«. «E che via vi parrebbe da tenere?», disse il duca. Ascalione rispose: «Io il vi dirò. I giovani, come voi sapete, sono vaghi molto de’ carnali congiungimenti, però che la pronta natura gl’induce a quelli, e per questi sogliano ogn’altra cosa dimenticare. Florio giá mai con Biancofiore carnal diletto non ebbe; e se noi possiamo fare che con alcun’altra bella giovane l’avesse, leggieri sarebbe dimenticar quella ch’egli non ha per quello che possedesse; e posto che del tutto non la dimenticasse, almeno tanto in lei non penserebbe; e in questo mezzo il re o gl’iddii provvederebbero sopra questo, in modo che noi senza vergogna o danno ne riusciremo: e se questa via non ci è utile, niun’altra utile ne conosco».
- Gran pezza pensò il duca sopra questo, e poi disse: «Ascalione, io mi maraviglio molto di voi. Ecco che quello che divisate venisse interamente fatto, che avremmo noi adoperato? Niente: che scioglierlo in un luogo e legarlo in un altro, non so che si rilevi. Ma tanto potrebbe avvenire, che di leggieri peggioreremmo nostra condizione: e il trargli Biancofiore del core non è si leggiera cosa che per questo io creda che fatto dovesse venire, ben che leggieri ci sia il provarlo, se buono vi pare. Ascalione disse: «Certo io l’aveva per buono, però che, se egli avvenisse che per alcun’altra egli dimenticasse Biancofiore, piú lieve sarebbe a trargli di cuore poi quell’altra che volergli ora levar Biancofiore senza alcun mezzo: con ciò sia cosa che le nuove piaghe con meno pericolo e meglio che l’antiche si curino e piú tosto. «Certo» disse il duca, «questo è vero; e poi che vi pare, il provarlo niente ci costa; e però sopra questo pensiamo, e veggiamo se alcuna cosa ci giova, e se giovare la veggiamo, procederemo avanti con l’aiuto degl’iddii.»
- Accordandosi costoro a questo, segretamente si misero a cercare di trovare alcuna giovane, la quale, il piú che trovare si potesse, simigliasse Biancofiore, imaginando che quella piú graziosa che alcun’altra gli sarebbe, e piú tosto il potrebbe recare al disiderato fine. E cercando questo, da alcuno, il quale sempre in compagnia di Florio soleva andare, fur loro mostrate due giovanette di maravigliosa bellezza e di leggiadro parlare ornate, e discese di nobili parenti, le quali, secondo il detto di colui che le mostrò, assai delle bellezze di Florio si dilettavano, ma non come innamorate, però che non si sentivano uguali a lui, onde con la ragione raffrenavano la volontá. Le quali come costoro conobbero, assai si contentarono, dicendo: «Prendiamle amendue, poi che Florio piace loro: elle s’ingegneranno bene di recarlo al loro piacere, e la dove l’una fallasse l’altra supplirá». E questo diliberato, sotto spezie d’invitarle ad una festa, le fecero chiamare all’ostiere. Le quali venute davanti al duca e ad Ascalione, il duca cosí disse loro: «Giovani donzelle, nostro intendimento è di voler Florio di bella mogliera accompagnare; e cercando in questa cittá donna che degnamente a lui sí confacesse, nulla n’abbiamo trovata di tanta bellezza, né di sí belli e laudevoli costumi, come voi due ci siate state lodate: però per voi abbiamo mandato, acciò che voi proviate se lui da uno intendimento che egli ha possiate ritrarre e recarlo al vostro piacere, per donargli poi per moglie quale di voi due piú gli piacera». A cui l’una di queste, chiamata Edea, cosí rispose: «Signor nostro, noi ci maravigliamo non poco delle vostre parole, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo non essere giovani di tanta nobiltá dotate, quanto alla grandezza di Florio si richiede: e, d’altra parte, l’altissime ricchezze ci mancano, le quali leggiermente i difetti della gentilezza ricuoprono. E però caramente vi preghiamo che di noi non vi facciate scherno, e ancora vi ricordiamo che, come voi dovete essere del nostro onore guardatore, sí come buono e legittimo signore, che voi non vogliate esser cagione di cotal vergogna: però che pensar dovete che se a voi e a’ vostri siamo picciole, noi siamo a’ nostri grandissime e care». Allora il duca rispose: «Giovani donzelle, non crediate che io mi recassi a tanta viltá, quanta questa sarebbe, se quello fosse che voi dite, per farvi perdere il vostro onore; ma vi giuro per l’anima del mio padre e pe’ nostri iddii che io quello che detto v’ho, lealmente v’atterrò, se alcuna di voi gli piacerá». Disse Edea: «Poi che con giuramento l’affermate, noi faremo il vostro piacere. Ditene come vi piace che noi facciamo, e cos+ sará fatto: poi gl’iddii concedano questa grazia a chi piú n’è degna di noi due». Rispose il duca: «Il modo è questo. Voi si v’adornerete in quella maniera che voi piú crediate piacere, e andretene senza niuna compagnia nel nostro giardino, nel quale egli è costumato di venire ogni giorno; e sí tosto come i raggi del sole incominceranno a essere meno caldi, uscitegli incontro, faccendogli quella festa e mettendolo in quel ragionamento che piú crederete che piacevole gli sia: poi quale egli eleggerá di voi due, quella dico che sará sua».
- Era quel giardino bellissimo, e copioso d’arbori e di frutti e di fresche erbette, le quali da piú fontane per diversi rivi erano bagnate. Nel quale come il sole ebbe passato il meridiano cerchio, le due giovani, vestite di sottilissimi vestimenti sopra le tenere carni, e acconci i capelli con maestrevole mano, con isperanza di piú piacere e d’acquistare cotal marito, se ne entrarono solette, e quivi cercarono le fresche ombre, le quali allato ad una chiara fontana trovate, a seder si posero attendendo Florio.
- Venuta l’ora che giá il caldo mancava, Florio malinconico, uscito della sua camera con lento passo, di queste cose niente sappiendo, vestito d’una ricca giubba di zendado, soletto se n’entrò nel giardino, sí come egli era per adietro usato, e verso quella parte dove giá aveva il bianco fiore altra volta tra le spine veduto, dirizzò i suoi passi; e quivi venuto si fermò dimorando per lungo spazio pensoso. Le due giovanette s’avevano ciascuna fatta una ghirlanda delle frondi di Bacco; e aspettando Florio si stavano alla fontana insieme di lui parlando; e non avendolo veduto entrare nel giardino, per piú leggiermente passare il rincrescimento dell’attendere, incominciarono a cantare un’amorosa canzonetta con voce tanto dolce e chiara, che piú tosto d’angelo che d’umana creatura pareva: e di queste voci pareva che tutto il bel giardino risonasse allegro. Le quali udendo, Florio si maravigliò forte, dicendo: «Che novitá è questa? Chi canta qua entro ora cosí dolcemente?». E con gli orecchi intenti al suono, cominciò ad andare in quella parte ove il sentiva; e giunto presso alla fontana, vide le due giovanette. Elle erano nel viso bianchissime, la qual bianchezza quanto si conveniva di rosso colore era mescolata. I loro occhi pareano matutine stelle; e le picciole bocche di color di vermiglia rosa, piú piacevoli diveniano al muovere alle note della loro canzone. E i loro capelli come fila d’oro erano biondissimi, i quali alquanto crespi s’avvolgevano tra le verdi frondi delle loro ghirlande. Vestite per lo gran caldo, sí come è detto di sopra, le tenere e dilicate carni di sottilissimi vestimenti, i quali dalla cintura in su strettissimi mostravano la forma delle belle poppe, le quali come due ritondi pomi pingevano in fuori il resistente vestimento, e ancora in piú luoghi per leggiadre apriture si manifestavano le candide carni. La loro statura era di convenevole grandezza, e in ciascun membro bene proporzionate. Florio, questo veggendo, tutto smarrito fermò il passo, ed esse, come videro lui, posero silenzio alle dolci canzoni, e liete verso lui si levarono, e con vergognoso atto umilmente lo salutarono. «Gl’iddii vi concedano il vostro disio», rispose Florio. A cui elle risposero: «Gl’iddii ne l’hanno conceduto, se tu nel vorrai concedere». «Deh!» disse Florio, «perché avete voi per la mia venuta il vostro diletto lasciato?». «Niuno diletto possiamo aver maggiore che essere teco e parlarti», risposero quelle. «Certo e’ mi piace bene», rispose Florio. E postosi a sedere con loro sopra la chiara onda della fontana, incominciò a riguardare queste, ora l’una, ora l’altra, e a rallegrarsi nel viso, e a disiderare di poter loro piacere. E dopo alquanto le dimandò: «Giovani donzelle, ditemi che attendevate voi qui cosí solette?». «Certo» rispose Edea, «noi fummo qui maggior compagnia, ma l’altre, disiose d’andar vedendo altre cose, noi qui, quasi stanche, solette lasciarono, e debbono per noi ritornare avanti che ’l sole si celi: e noi ancora volontieri rimanemmo, pensando che per avventura potremmo vedere voi, sí come la fortuna ci ha conceduto». Assai graziosa era a Florio la compagnia di costoro, e molto gli dilettava di mirarle, notando nell’animo ciascuna loro bellezza, fra sé tal volta dicendo: «Beato colui a cui gl’iddii tanta bellezza daranno a possedere!». Egli le metteva in diversi ragionamenti d’amore, ed esse lui. Egli aveva la testa dell’una in grembo, e dell’altra il dilicato braccio sopra il candido collo; e sovente con sottile sguardo metteva l’occhio tra ’l bianco vestimento e le colorite carni, per vedere piú apertamente quel che i sottili drappi non perfettamente coprivano. Egli toccava loro alcuna volta la candida gola con la debile mano, e altra volta s’ingegnava di mettere le dita tra la scollatura del vestimento e le mammelle; e ciascuna parte del corpo con festevole atto andava tentando, né niuna gliene era negata, di che egli spesse fiate in se medesimo di tanta dimestichezza e di tale avvenimento si maravigliava. Ma non per tanto egli era in se stesso tanto contento, che niente gli pareva star male, e la misera Biancofiore del tutto gli era della mente uscita. E in questa maniera stando non picciolo spazio, questi loro e esse lui s’erano a tanto recato, che altro che vergogna non gli riteneva di pervenire a quell’effetto del quale piú inanzi da femina non si può disiderare. Ma il leale amore, il quale tutte queste cose sentiva, sentendosi offendere, non sofferse che Biancofiore ricevesse questa ingiuria la quale mai verso Florio non l’aveva simigliante pensata; ma tosto con le sue agute saette soccorse al core, che per oblio giá in altra parte stoltamente si piegava. E dico che stando Florio con queste cosí intimamente ristretto, e giá quasi avevano le due giovani il loro intendimento presso che a fine recato senza troppo affanno di parole, l’altra delle due donzelle chiamata Calmena, levata alta la bionda testa, riguardandolo nel viso, disse: «Deh! Florio, dimmi qual è la cagione della tua palidezza? Tu mi pari da poco tempo in qua tutto cambiato. Hai tu sentito alcuna cosa noiosa?». Allora Florio, volendo rispondere a costei, si ricordò della sua Biancofiore, la quale della dimandata palidezza era cagione, e senza rispondere a quella, gittò un grandissimo sospiro, dicendo: «Oimè, che ho io fatto?». E quasi ripentuto di ciò che fatto aveva, alquanto da queste si tirò indietro, cominciando forte a pensare con gli occhi in terra a quello che fatto aveva, e a dire tra se medesimo: «Ahi! villano uomo, non nato di reale progenie, ma di vilissima, che tradimento è quello che tu hai pensato infino a ora? Come avevi tu potuto per costoro o per alcun’altra donna mettere in oblio Biancofiore, tanto che tu disiderassi quello che tu disideravi di costoro? O che tu potessi mostrare amore ad alcuna, sí come tu a costoro toccandole giá mostravi? Ahi! perfidissimo, ogni dolore t’è bene investito, ma certo caro l’accatterá la tua iniquitá. Ora come ti dichinavi tu ad amare queste, la cui belta è picciolissima parte di quella di Biancofiore? E quando ella fosse pur molto piú, come potresti tu mai trovare chi perfettamente t’amasse come ella t’ama? Deh! se questo le fosse manifesto, non avrebb’ella ragionevole cagione di non volerti mai vedere? Certo sí» . Con molte altre parole si dolse Florio per lunga stagione. E cosí dolendosi tacitamente, Calmena, che la cagione ignorava, gli si appressò, dimandando perché a lei non rispondeva, dicendogli: «Deh, anima mia, rispondimi; dimmi perché ora soprastai cosí amaramente; deh, dimmi la cagione della tua nuova turbazione, né ti dilungare da colei che piú che sé t’ama». Allora Florio con dolente voce disse: «Donne, io vi priego per Dio che non vi sia grave lasciarmi stare, però che altro pensiero che di voi m’occupa la dolorosa mente». E detto questo, levato si sarebbe di quel luogo, se non fosse ch’egli non voleva far loro vergogna. Disse allora Edea: «E qual cosa t’ha cosí occupato la mente? Tu ora inanzi eri con noi dimestico, e parlando ci dimandavi e rispondevi cianciando, e ora malinconico non ci guardi, né ci vuoi parlare: certo tu ci fai senza fine maravigliare». A niuna cosa rispondea Florio, anzi a suo potere, col viso in’altra parte voltato, si scostava da loro; le quali quanto piú Florio da loro si scostava, tanto piú a lui amorosamente s’accostavano. E in tal maniera stando, Calmena, che giá s’era dell’amore di Florio accesa oltre al convenevole, piú pronta che Edea, s’appressò a Florio, e quasi a pena si ritenne che ella nol baciò, ma pure cosí gli disse: «O grazioso giovane, perché non dí tu la cagione della tua subita malinconia? Perché, dilungandoti da noi, mostri di rifiutarci, che ora inanzi eravamo da te sí benignamente accompagnate? Non è la nostra bellezza graziosa agli occhi tuoi? Certo gl’iddii si terrebbono appagati di noi, e non crediamo che Io, tanto perseguitata da Giunone, fosse piú bella di noi quando ella piacque a Giove, né ancora Europa che si lungamente caricò le spalle del grande iddio, né alcuna altra giovane crediamo essere stata piú bella di noi: e sí ne veggiamo il cielo adorno di molte! Adunque, perché tu ne rifiuti?». E con queste parole e con molte altre, con atti diversi e onesti, sospirando guardavano di ritornare Florio al partito nel quale poco avanti era stato. Alle quali Florio cosí disse: «Ditemi, giovani, se gl’iddii ogni vostro piacere v’adempiano, foste voi mai innamorate?». A cui esse subitamente risposero: «Sí, di voi solamente; né mai d’alcuna altra persona sospirammo, né tale ardore sentimmo se non per voi». «Certo» disse Florio, «di me non siete voi giá innamorate; e che voi non siate state né siate d’altrui si pare manifestamente, però che amore mai ne’ primi conoscimenti degli amanti non sofferse tanta disonestá, quanto voi verso me, con cui voi mai non parlaste, avete dimostrata: anzi fa gli amanti temorosi e adorni di casta vergogna, infin che la lunga consuetudine fa gli animi essere eguali conoscere. E che questo sia vero assai si manifestò nella scellerata Pasife, la quale bestialmente innamorata, con dubitosa mano ingegnandosi di piacere, e temendo di dispiacere, porgeva le tenere erbette al giovane toro. Ora quanto piú avria costei temuto d’uno uomo, in cui piú ragionevole conoscimento fosse stato, poi che d’un bruto animale dubitava? Certo molto piú, perciò che era innamorata. E chi volesse ancora nelle antiche storie cercare, infiniti esempli troverebbe d’uomini e di donne, a cui le forze sono tutte fuggite ne’ primi avvenimenti de’ loro amanti. E però che di me innamorate siete non mi vogliate far credere, ch’io conosco i vostri animi disposti piú ad ingannare che ad amare. Appresso, che voi non siete innamorate d’altrui, come voi dite, m’è manifesto, però che non m’avviso che verso di me, dimenticando il principale amadore, potreste dimostrare quello che dimostrate, ché ’l leale amore nol consentirebbe. Ond’io vi priego, belle giovani, che mi lasciate stare, però che voi con le vostre parole credete i miei sospiri menomare, e voi in grandissima quantitá gli accrescete: e di me in ogni atto, fuori che d’amore, fate quel che d’amico o di servidore fareste.» Udendo questo, Edea, la quale le infinite lagrime non avea guarí lontane, bagnando il candido viso, con lagrimevole voce, messesi le mani nel sottile vestimento, tutta davanti si squarciò, dicendo: «O me misera, maladetta sia l’ora ch’io nacqui! In cui avrò io mai speranza, poi che voi, in cui io sperava e per cui ora credeva sentir pace, mi rifiutate, né credete che ’l mio core per lo vostro amore si consumi, però che forse troppo pronta a volere adempiere i miei disiri vi sono paruta? Crediate che niuna cosa a questo m’ha mossa altro che soperchio amore, il quale del mio petto ha la debita vergogna cacciata, e me quasi furiosa ha fatto nella vostra presenza tornare. Oimè, misera, sará omai disperata la mia vita! O misera bellezza, partiti dal mio viso, poi che colui per cui io cara ti teneva, e ti guardava diligentemente, ti rifiuta. Deh, Florio, poi che a grado non v’è consentirmi quello che lunga speranza m’ha promesso, piacciavi che io nelle vostre braccia l’ultimo giorno segni. Io sento al misero core mancare le naturali potenze per le vostre parole. Oimè, uccidetemi con le proprie mani, acciò che io piú miseramente non viva. Mandatene la triste anima alle dolenti ombre di Stige, lá dove minor doglia aspetta che quella che ora sostiene. Oimè, quanto degnamente da biasimare sarete, quando si saprá la dolente Edea essersi per la vostra crudeltá partita di questa vita!». Florio, che le lagrime di costei non potea sostenere, per pietá la confortava, dicendo: «O bella giovane, non guastare con l’amaritudine del tuo pianto la tua bellezza; spera che piú grazioso giovane ti concedera quel che io non ti posso donare. Ritrova le tue compagne, e con loro l’usata festa riprendi, e non impedire i miei sospiri con la pietá del tuo pianto: ché io ti giuro per li miei iddii, che se io fossi mio, e potessimi a mia posta donare, niuna m’avrebbe se l’una di voi due non m’avesse. Ma io non posso quello che non è mio, senza congedo donare». Cominciò allora Calmena a dire: «O crudelissimo piú che alcuna fiera, or come puoi tu consentire di negare a noi quel che ti dimandiamo? Certo se tu hai ’l tuo amore ad altra donato, niuno amore è tanto leale, che a’ nostri prieghi non dovesse essere rotto. E pensi tu che se egli avviene che per la tua crudeltá alcuna di noi sofferisca noiosa morte, che quella giovane di cui tu se’, se tu se’ per avventura d’alcuna, te ne ami piú? Certo no, anzi biasimeni la tua crudeltá! E i nostri prieghi son tanti, che certo il casto Ippolito giá si saria piegato. Or come ci puoi tu almeno negare alcuno bacio, de’ quali poco avanti ci saresti stato cortese, se sí ardite, come tu ci fai, fossimo state? Certo se alcuno ce ne porgessi con quel volere che noi il riceveremmo, egli sarebbe non poco refrigerio de’ nostri affanni. Deh, adunque, concedine alcuno, acciò che gl’iddii piú benivoli s’inchinino a concedere a te quello che tu disii, s’alcuna cosa da te in questo atto è disiata». A cui Florio rispose: «Giovani donzelle, ponete fine a questi ragionamenti, però che quella parte che di me dimandate, piú cara che altra da me è tenuta, con ciò sia cosa che niun’altra ancora ne sia stata conceduta a quella di cui io sono interamente; e piú avanti non mi dimandate, ché da me altro che dolore avere non potreste. E priegovi che me, che piú di sospirare che di parlare con voi ora mi diletto, qui solo lasciate, e andatevene, perché ciò che mi dite è tutto perduto». Questo udendo le due giovani, col viso dipinto di vergogna, dalla sua presenza si levarono senza piú parlare; e perciò che giá il sole cercava l’occaso, tornate nel gran palagio si rivestirono, dicendo l’una all’altra: «Ahi, come giusta cosa sarebbe se mai d’alcuno giovane la grazia non avessimo, pensando al nostro ardire, le quali abbiamo tentato di volere questo giovane levare alla sua donna senza ragione, avvegna che gl’iddii ed egli ce n’hanno bene fatto quell’onore che di ciò meritavamo!». E rivestite, raccontarono al duca la bisogna come era, con non poca vergogna; e da lui, con grandissimi doni, sconsolate si partirono, tornando alle loro case.
- Avevano il duca e Ascalione veduto apertamente ciò che Edea e Calmena avevano adoperato, e ora fu che essi credettero che il loro avviso riuscisse al pensato fine; ma poi che videro quello esser fallito, dolenti della amara vita di Florio, si partirono del luogo dove stavano, e se ne vennero al giardino, dove Florio con dolore, pieno di pensieri e soletto era rimaso. E lui trovarono pensando avere la bionda testa posata sopra la sinistra mano; i quali poi che pietosamente alquanto riguardato l’ebbero, cosí cominciarono a dire: «Florio, amore tosto nella disiata pace ti ponga». Era Florio tanto nello imaginare la sua Biancofiore, che né per la venuta di costoro, né per lo loro saluto si mutò né cambiò aspetto, ma stette come colui che veduti né uditi ancora non gli aveva. Allora Ascalione, distesa la mano, il prese per lo braccio, e lui tirando, disse: «O innamorato giovane, ove se’ tu ora? Dormi tu, o se’, pensando, fuori di te uscito, che tu al nostro saluto niente rispondi?». Riscossesi allora tutto Florio, e quasi stordito, senza alcuna cosa rispondere, si mirava dintorno. Ma dopo molti sospiri, alquanto da’ pensieri sviluppato, alzata la testa, disse: «Oimè, or chi vi mena a vedere la miseria della mia vita, alla quale voi forse credete levar pena con parole confortevoli, e voi piú n’aggiungete? Se può essere, caramente vi priego che me qui solo lasciate, acciò che io possa quel pensiero ritrovare, nel quale io fui, quando scotendomi me ne cacciaste». A cui Ascalione cosí rispose: «Amore e maraviglia ci fanno qui venire, né giá da te intendiamo di partirei, se prima a’ prieghi nostri non dirai quale nuova cagione ti fa tanto pensoso». Disse Florio: «Niuna nuova cagione ci è del mio dolore: amore solamente in questa vita mi tiene». «E come?» disse allora il duca, «io mi credea che tu t’ingegnassi di seguire il mio consiglio, il quale io l’altr’ieri, quando cosí pensoso ti trovai, t’avea donato, e giá mi pareva che quello piacendoti cominciato avessi: e tu pure sopra l’usato modo se’ ritornato! Questa tua vita in niuno atto d’innamorato mi pare, onde forte dubitare ci fai che tu forse non sia del senno uscito, però che gli altri innamorati con varii diletti cercano di mitigare i loro sospiri, ma tu con pene mi pare che vada cercando d’accrescergli. Se volessi dire che come alcun altro non li potessi usare, sai che non diresti vero, però che niuna resistenza ci è: dunque perché pure in sul dolore ti dai? Deh, com’io altra volta ti pregai, ancora ti priego che alcuni ne prenda, i quali usando valicherai il tempo con meno tristizia, e gl’iddii in questo mezzo provvederanno a’ tuoi disii.»
- Udite queste cose, Florio sospirando disse: «Amici, ben conosco voi prontissimi alla mia salute, e veggio apertamente che la mia vita vi dole, né similmente occulti vi sono i diletti che prendere potrei, a’ quali con tanta efficacia v’ingegnate di trarmi, pensando che io forse del senno sia uscito, perché pure in dolore pensando dimoro: ora, acciò che voi conosciate com’io sia a quelli prendere disposto, e ancora come voi del mio dolore non vi dovete maravigliare, io voglio dire qual sia la mia vita. Dico che diverse imaginazioni e pensieri m’occupano continuamente, delle quali alcuna ve ne dirò. Primieramente io sopra tutte le cose disidero di vedere Biancofiore, come quella che piú che alcuna cosa è da me amata. E dicovi che tante volte, quant’ella nella memoria mi viene, tanto questo disio piú focoso in me s’accende e togliemi sí da ogni altro intendimento, che se allora io la vedessi, crederei piú che alcuno essere beato; e sentendomi questo essermi levato, solamente pèrché io l’amo, e non per altro accidente, niuno dolore è al mio simigliante. Appresso questo, io vivo in continua sollecitudine della sua vita, temendo non ella, la quale so che m’ama sí come io lei, sostenga simili dolori a quelli che io sostengo, li quali, però che di piú debile natura è ch’io non sono, dubito non la offendano o di gravosa infermitá o di morte. E troppo piú mi fa della sua vita dubitare l’acerbita del mio padre e della mia madre, li quali io sento contra lei prontissimi, e veder me li pare insidiatori della vita di lei. E niuna cagione falsa è che a lei inducere possa morte, che non me la paia vedere andare cercando al mio padre per fornire il suo falso volere, il quale altra volta gli venne fallato: e non pensa il misero che quella ora ch’ella morrá io non viverò piú avanti. E in gravissimo affanno mi tiene gelosia, e la cagione è questa. Le giovani donzelle sono di poca stabilitá, e per la loro bellezza da molti amanti sogliano essere stimolate: e gl’iddii, non che le femine, si rimuovono per li pietosi prieghi a far la volonta de’ pregatori. Io sono lontano da lei, né vedere la posso, né ella me; molti giovani credo che la stimolano per la sua bellezza, la quale ogni altra passa: or che so io se ella non potendo aver me, se ne prendeni alcun altro, posto ch’ella non possa migliorare? Egli si suoi dire generalmente che le femine hanno questa natura, ch’elle pigliano sempre il peggio. Con questi pensieri ne ho molti altri, li quali troppo penerei a volergli particolarmente spiegare; ma di loro vi dico che essi impediscono tanto la mia vita, che me l’hanno recata a noia; e per minor pena disidererei la morte, la quale ancora non pena reputerei, se gl’iddii donare la mi volessero, ma graziosa gioia. Veder potete come io mi posso a prendere alcuno diletto trarre: solo mio bene, sola mia gioia è il pensare a Biancofiore, e questo è quello che la poca vita, che rimasa m’è, mi tiene nel corpo. Ond’io vi priego che se la mia vita amate, non mi vogliate torre il poter pensare».
- Cominciò allora il duca cosí a parlare: «Ben ci è manifesto te essere da tanti e tali pensieri stimolato, quanti ne conti, e da molti piú. Ma tu non dei però volere con morte dar luogo al pensare piú tosto che con diletto prolungare la tua vita, acciò che piú tempo pensar possa. Onde, se alcun priego deve valere, noi ti preghiamo che tu prenda conforto, e da cotesti pensieri con continui diletti ti levi; e se forse t’è occulta, sí come tu nel tuo parlar dimostri, la cagione per che devi pigliar diletto, noi non ce ne maravigliamo, però che in cosí fatti affanni le piú volte il vero conoscimento si suole smarrire. Ma noi, che di fuori di tal tempesta dimoriamo, conosciamo quali sieno le vie da uscire di quella: e però non ti sieno gravi alquante parole, le quali se ascoltate metterai in effetto, ti vedrai senza periglio venire a grazioso porto. Tu ti duoli del focoso disio che ti stimola di veder Biancofiore, però che vedere non la puoi. Certo ben credo che ti doglia; ma credi tu per questo dolore, che tu te ne dai, piú tosto vederla? Certo no. Dunque sperando confortare ti devi, e dare alquanto sosta al presente disio, conoscendo, come tu fai, che al presente fornire non lo puoi con tuo onore. Pensa che la fortuna non terrá sempre ferma la rota: sí com’ella volvendo dal cospetto di Biancofiore ti tolse, cosí in quello ancora lieto ti riporrá. Similmente ti dico del pensiero che porti, non Biancofiore, per l’amore che ti porta, sostenga o gravosa infermitá o morte: ciò è vano pensamento e per niente il tieni, però che amore mai non porse morte dove le parti fossero in un volere. Che ella infermasse io il disidererei, solo che per amore fosse, pensando che per quella infermitá potrei conoscere me da lei tanto amato, che si fatto accidente ne le seguisse per lo non potermi vedere. Oimè, quanto piú è da pensare della sanitá, la quale i sonni interi e le malinconie lontane essere dimostra: e però questo del tutto devi lasciare andare. Se dubiti non il tuo padre forse, come giá fece, la voglia offendere, ciò non è da maravigliare, ché noi di niuna cosa abbiamo tanta ammirazione, quanto che egli abbia tanto sofferto la sua vita, sappiendo come sia fatta quella che per lei tu meni. Onde io ti dico che tenendo la maniera che fai, ragione hai di dubitare; ma volendo prendere conforto e seguire la via che io altra volta ti mostrai, niuna dubitazione te ne bisogna avere, che io ti giuro, per l’anima del mio padre, che il re ama Biancofiore quanto figliuola, e niuna cosa ad ira il potrebbe muovere contro ad essa, se non la tua sconcia vita. E se vuoi dire che gelosia ti stimoli, questo è contro a quello che davanti dicesti, cioè che Biancofiore piú che sé t’ama, però che gelosia non suoi capere se non in luoghi sospetti, e tu primieramente affermi niuna sospezione esserci che possa di te esser geloso. Ma certo, sí come tu parli, a me pare che niuna çosa sia tanto amata da Biancofiore quanto se’ tu: onde per questo niuno pensiero di lei avere ti conviene. Appresso chi sarebbe quella sí folle, che avendo l’amore d’un cosí fatto giovane come tu se’, bello, gentile, ricco e figliuolo di re, lasciasse quello per alcuno altro? Se vuoi dire: le femine pigliano sempre il peggio, questo non s’intende per tutte, ma solamente per le poco savie, la qual cosa ancora negli uomini si trova. E veramente Biancofiore è savissima, e ciò nel suo portamento e nelle sue operazioni è manifesto. Or dunque, pensando bene queste cose, chi dovrebbe piú confortarsi di te? Tu bello, tu ricco, tu gentile, tu giovane, tu amato da colei che tu ami, per amore della quale dovresti sempre pensare di vivere in modo che grazioso e sano le ti potessi presentare. Se simile caso fosse in me, io mi terrei oltra misura caro per piú piacerle, né per niuna cosa disidererei tanto la vita lunga, quanto per lungamente poterla servire. E tu, piú vinto da ira e da malinconia che consigliato dalla ragione, cerchi la morte per conforto, e sempre in pensiero e in dolore dimori, e vai imaginando quelle cose le quali non vedesti né vedrai giá mai, se agl’iddii piace. Folle è colui che pe’ futuri danni senza certezza spande lagrime, e in quelle piú d’impigrire si diletta, che argomentarsi di resistere a’ danni. Deh, se tu se’ uomo come sono gli altri giovani, tanti conforti, quanti noi ti doniamo, vagliano a mostrarti la veritá, come noi mostriamo; e non indugiare pure sopra il tuo non vero parere. Rallegrati, che tanto manca il senno quanto il conforto ne’ savi».
- Florio il quale sentiva in sé graziose parole all’animo innamorato, che di quelle aveva bisogno, con men dolente viso cosí rispose: «Amici, a’ subiti accidenti male si puote argomentare. Ma checché ’l mio padre si deggia fare, io pure m’ingegnerò di prendere il vostro consiglio, cacciando da me il dolore delle non presenti cose». E questo detto, si dirizzarono tutti; e uscendo del giardino con le stelle che giá avevano il cielo de’ loro lumi dipinto, tornarono quasi contenti alle loro camere.
- Mentre li fati trattavano cosí Florio, Biancofiore lasciata da lui al perfido padre tornò nell’usata grazia, dimorando ne’ reali palagi con non minore quantitá di sospiri che Florio, avvegna che piú saviamente quelli guardasse nell’ardente petto. Ma le trascorrenti avversitá che il loro corso verso Florio avevano volto, con non usato stimolo ancora lui miserabilmente assalirono in questa maniera. Era nella corte del re Felice, in questi tempi, un giovane cavaliere chiamato Fileno, gentile e bello, e di virtuosi costumi ornato, a cui l’ardente amore di Florio e di Biancofiore era occulto, però che di lontane parti era, pochi giorni dopo la crudel sentenza di Biancofiore, venuto. Il quale, sí tosto come la chiara bellezza vide del suo viso, incontanente s’accese del piacere di lei, e senza misura la cominciò ad amare, e in diversi atti s’ingegnava di piacerle, avvegna che Biancofiore di ciò niente si curava, ma, molto saviamente portandosi, mostrava che queste cose ella non conosceva. L’amore che Fileno portava a Biancofiore non era al re né alla reina occulto; i quali, acciò che il core di Biancofiore di nuovo piacere s’accendesse, e Florio fosse da lei dimenticato, contenti di tale innamoramento, piú volte nella loro presenza chiamavano Fileno, a cui facevano venire davanti Biancofiore, e con lei tal volta sollazzevoli parole usare; ma questo era niente, ché Biancofiore di lui si curava poco, anzi sospirando vergognosa bassava la testa come davanti le veniva, senza giá mai alzarla per rimirare lui, se ciò non fosse stato alcuna fiata in piacere del re e della reina, li quali ella conosceva essere di tale amore allegri, avvegna che Fileno pensasse che que’ sospiri, i quali dal core di Bianccifiore movevano, uscissero fuori essendone egli cagione. Mostrando Biancofiore per conforto della reina d’amare il giovane cavaliere, avvenne che dovendosi ne’ presenti giorni celebrare una grandissima solennitá ad onore di Marte, iddio delle battaglie, e nella detta solennitá si costumava un gioco nel quale la forza e l’ingegno de’ cavalieri del paese tutto si conosceva, Fileno propose di volere in quel gioco per amore di Biancofiore mostrare la sua virtú, ma ciò, se alcuna gioia da Biancofiore non avesse la quale in quel luogo per sopransegna portasse, non volea fare. Ond’egli un giorno si mosse, vedendo Biancofiore stare con la reina, e con dubbioso viso, davanti alla reina, cosí a Biancofiore cominciò a parlare: «O graziosa giovane, la cui bellezza Giove credo che nel suo seno formasse, e a cui io per volere di quel signore, alla forza del cui arco non poterono resistere gl’iddii, sono umilissimo e fedel servidore, se li miei prieghi meritano d’essere dalla tua benignitá uditi, con quello effetto che piú graziosamente gli ti presenti gli mando fuori, e priegoti che, con ciò sia cosa che la festa del nostro iddio Marte, le cui vestigie io come giovane cavaliere seguito, si debba di qui a pochi giorni celebrare, e in quella il gioco de’ potenti giovani, sí come tu sai, si deggia fare, e io intendo in quello per amore di te mostrare le mie forze, che tu alcuna delle tue gioie mi doni, la quale portando io in quella per sopransegna, mi doni tanto piú ardire, che io non ho, ch’io possa acquistare vittoria. Biancofiore, udendo quelle parole, di vergognosa rossezza dipinse il candido viso, sí tosto come il cavaliere si tacque, e non sappiendo che si fare, si voltò verso la reina riguardandola nel viso con dubitosa luce. A cui la reina disse: «Giovane damigella, alza la testa: e perché hai tu presa vergogna? Dubiti tu che ciò che dice il cavaliere non sia vero? Certo nella nostra grande cittá niuna donna dimora, la cui bellezza si possa adeguare al tuo viso; e perché egli ti dimandi grazia, come quegli che per amore disidera di servirti, ciò non gli deve esser da te negato, ma benignamente alcuna delle tue cose, quella che tu credi che piú gli aggradi, gli dona: ché usanza è degli amanti insieme donarsi tal volta delle loro gioie». Disse Biancofiore allora: «Altissima reina, e che donerò io al cavaliere che il mio onore e la dovuta fede non si contamini?». La reina rispose: «Biancofiore, non dubitare di questo, che quelle giovani a cui li fati ancora non hanno marito conceduto, possono liberamente donare ciò che a loro piace, senza vergogna. E che sai tu se essi ancora costui ti serbano per marito? E però donagli: e acciò che piú grazioso gli sia, prendi il velo col quale tu ora la tua testa copri. Egli è tal cosa, che se pur te ne vergognassi, potresti negare d’averglielo donato, affermando che da altra l’avesse avuto, però che molti se ne trovano simiglianti». Biancofiore, costretta dalle parole della reina, con la dilicata mano si sviluppò il velo della bionda testa, e sospirando il porse a Fileno, il quale in tanta grazia l’ebbe che mai maggiore ricevere non lo credeva. E rendute del dono debite grazie a Biancofiore, con esso da loro allegro si partí. E venuto il tempo del gioco, legatosi questo velo alla testa, niuno fu nel gioco che la sua forza passasse: per la qual cosa sovra quello, in presenza di Biancofiore, meritò d’essere coronato d’alloro.
- La fortuna non contenta delle tribolazioni di Florio, con dusse Fileno a Montorio pochi giorni dopo la ricevuta vittoria. Il quale la onorevolmente ricevuto da molti, nella gran sala del duca, incominciò a narrare a’ giovani cavalieri suoi amici quanto fosse stato l’acquistato onore, disegnando con parole e con atti quanta forza e ingegno adoperasse per ricevere in sé tutta quanta la vittoria, come fece. Poi, entrati in altri diversi ragionamenti, venuti a parlare d’amore,. similemente sé propose esser assai piú che altro innamorato, e di piú bella donna, e come da lei niuna grazia era che non gli fosse conceduta se dimandata l’avesse, e dopo molte parole disavvedutamente gli venne ricordata Biancofíore. E Florio, che non era troppo lontano, e aveva udite tutte queste cose, e piangeva sí in se medesimo d’amore, che lui peggio che alcuno altro innamorato trattava, come udí ricordare Biancofiore, e per le precedenti parole conobbe lei essere quella donna di cui Fileno tanto si lodava, incontanente cambiato nel viso si partí da’ compagni tacitamente; e stato per picciolo spazio, ritornò nella sala con l’usato viso, e amichevolmente verso Fileno se n’andò. Il quale come Fileno vide, levatosi in piè con quella riverenza che si conveniva, incontro gli si fece. Allora Florio, per piú accertarsi di ciò che sapere non avria voluto, mostrando di volere d’altre cose parlare con lui, presolo per lo braccio, senza altra compagnia nella sua camera ne lo menò. E quivi amenduni postisi a sedere sopra il suo letto, Florio con infinto viso de’ suoi accidenti e delle maniere de’ lontani paesi dov’egli era stato l’incominciò a dimandare; e poi quando tempo gli parve, gli disse: «Se ’l colore del vostro viso non m’inganna, voi mi parete innamorato». A cui Fileno rispose: «Signor mio, sopra tutti gli altri giovani amo». «Ciò mi piace assai» rispose Florio, «però che nulla cosa m’è tanto a grado, quanto avere compagnia ne’ miei sospiri; ma ditemi, se vi piace: da quella donna, cui voi amate, siete voi amato?» Disse Fileno: «Niuna cosa m’accende tanto amore nel core, quanto il sentire me essere amato da quella cui io piú che me amo». «Certo voi state bene» disse Florio; «ma ditemi, come conoscete che voi siate da quella, cui voi tanto amate, amato?» «Dirollovi» rispose Fileno: «che io sia amato da quella cui io amo, tre cose me ne fanno certo. La prima si è il timido sguardare con focosi sospiri, nelle quali cose io apertamente conosco intero amore; appresso, me n’accertano le ricevute gioie, le quali senza amore da gentile donna mai donate non sarieno. La terza cosa che questo mi mostra si è l’allegrezza della quale io veggio il bel viso ripieno d’ogni felice caso che m’avvenga.» «Bene sogliano essere le predette cose veri testimoni d’amore» disse Florio; «ma ditemi, se vi piace, che gioia riceveste voi gii mai dalla vostra donna: perciò che alcune sogliano donar gioie, le quali non sarieno degne di mettere in conto.» «Certo disse Fileno, non è di quelle la mia, ma è da tenere carissima; e acciò che voi sappiate quanto io ne deggia tenere cara una che io n’ho qui meco, io vi dirò come io la ricevetti. «Ciò mi piace», rispose Florio. Allora Fileno incominciò cosí a dire: «Dovendo noi giocare nel gioco che si fa nella solennitá di Marte, pochi dí passati celebrata, io nella sua presenza me n’andai, e umilmente la pregai che le piacesse a me, suo fedelissimo servidore, donare una delle sue gioie, la quale io per lo suo amore portassi nel gioco. Essa, al mio priego mossa, benignamente in mia presenza con le dilicate mani questo velo si levò d’in su la sua bionda testa»: e traendo fuori il velo, il mostrò a Florio; e poi seguendo il suo parlare, disse: «E appresso aggiunse che io per amore di lei mi dovessi portare bene. Onde se questo è assai manifesto segnale di vero amore, voi, come me, il potete conoscere». «Ma piú che manifesto» rispose Florio, «e certo ogni altra cosa maggiore è da esser da voi sperata.» Disse allora Fileno: «Sicuramente io molto piú avanti ne spero, né credo con l’aiuto de’ nostri iddii che la mia speranza venga fallita». Florio, ancora di tutto questo non contento, gli disse: «Fileno, se gl’iddii ve ne facciano tosto venire a quel che disiderate, ditemi, se lecito vi è, se questa vostra donna è bella, e chi ella è». Rispose Fileno: «Signor mio, mai ella non mi comandò ch’io dovessi il suo nome celare, né la sua bellezza richiede d’essere tenuta, a chi disidera di saperlo, occulta, né a voi niuna cosa da nascondere sarebbe; e oltre a questo mi fido tanto nel buono amore che io conosco ch’ella mi porta, che posto che alcuni il sapessero e volesserlami, amandola, torre, non potrieno. Onde, poi che vi piace di saperlo, io vi dirò il nome, il quale udendo conoscerete quanta sia la bellezza. La donna di cui tutto sono, e per cui amorosamente sospiro, si chiama Biancofiore, e dimora ne’ reali palagi del vostro padre in compagnia della reina. Voi la conoscete meglio che io non fo, e sapete bene quanta sia la sua bellezza, e quinci potete vedere se per graziosa donna io sono da amore costretto». Ringuardollo allora nel viso Florio senza mutare aspetto, e disse: «Veramente vi tiene amore per bella donna, e ora mi piace piú ciò che detto m’avete, che prima non faceva. Ma una cosa vi priego che facciate, che saviamente amiate, e guardatevi di non lasciarvi tanto prendere da amore, che a vostra posta partire non vi possiate da lui, però che io, il quale vivo pieno di sospiri, per niuna altra cosa mi dolgo, se non che vorrei da lui partirmi, e non posso; e la cagione è perché io amai giá una donna, e ancora piú che mai l’amo, e per quel che vedere me ne parve, ella amò me sopra tutte le cose, e in luogo di vero amore ella mi donò questo anello, il quale io porto in dito e porterò sempre per amore di lei; e poco tempo appresso lasciò me, e donassi ad un altro di molto minor condizione che io non sono: per la qual cosa ora mi vorrei partire da amore e non posso, e lei ho quasi del tutto perduta. Se a voi il simigliante avvenisse, certo egli sarebbe da dolerne a ciascuna persona che voi amasse». Disse allora Fileno: «Buono è il consiglio che mi date, e se io credessi che mi bisognasse, io il prenderei; ma senza dubbio la conosco tanto costante giovane, che mai dal suo proposito, cioè d’amarmi, non credo ch’ella si muti». «Dunque avete voi vantaggio di tutti gli altri» disse Florio; «e se cosí sará, piú che alcun altro iddio tener vi potete beato.» L’ora di mangiare gli levò da questo ragionamento, il quale non dilettava tanto all’una delle parti, quanto all’altra era gravissimo e noioso; e usciti della camera, lavate le mani, alle apparecchiate tavole s’assettarono.
- Stette Florio alla tavola senza prendere alcun cibo, rivolgendo in sé l’udite parole da Fileno, sostenendo con forte animo la noiosa pena che lo sbigottito core sentiva per quelle. Ma poi che le tavole furono levate, e a ciascuno d’andare fu lecito dove gli piaceva, Florio soletto se n’entrò nella sua camera, e serratosi in quella, sopra il suo letto si gittò disteso, e sopra quello incominciò il piú dirotto pianto che mai a giovane innamorato si vedesse fare; e nel suo pianto incominciò a chiamare la sua Biancofiore, e a dire cosi: «O dolce Biancofiore, speranza della misera anima, quanto è stato l’amore ch’io t’ho portato e porto da quell’ora in qua che prima ne’ nostri giovani anni ci innamorammo! Certo mai alcuna donna sí perfettamente non s’amò, come io ho te amata. Tu sola se’ stata sempre donna del misero core. Niuna cosa fu che per amore di te io non avessi fatto. Niuna gravezza è che lieve non mi fosse paruta. E certo, quando il noioso caso della misera morte, alla quale condannata fosti, niuno dolore fu simile al mio, infino a tanto che con la mia destra mano liberata non t’ebbi. Deh, misera la vita mia, quanti sono stati i miei sospiri, poi che lecito non mi fu di poterti vedere! Quante lagrime hanno bagnato il dolente petto, nel quale io continuamente effigiata ti porto cosí bella, come tu se’! Né mai niuno conforto poté entrare in me senza il tuo nome. Niuno ragionamento m’era caro senza esservi ricordata te, di cui ora la speranza cosí spogliato mi lascia, pensando che tu me per Fileno abbia abbandonato: e la cagione perché vedere non posso? Certo tu non puoi dire che io mai altra donna che te amassi: e da assai sono stato tentato, e niuna poté vantarsi che alquanto al suo piacere io mi voltassi; né in altra cosa conosco me averti giá mai fallato: dunque Fileno perché piú di me t’è piaciuto? Deh, or non sono io figliuolo del re Felice, nipote dell’antico Atalante sostenitore de’ cieli? Certo sí sono: e Fileno è un semplice cavaliere. È il viso suo di piú bellezza che ’l mio? È la sua virtú piú che la mia? Or foss’ella pur tanta. Se forse valoroso giovane ti pare sotto l’armi, quanto il mio valore sia non ti deve essere occulto, a tal punto in tuo servigio s’adoperò. Doni so bene che a questo non t’hanno tratta; ma io dubito che l’animo tuo, il quale soleva essere grandissimo, sia impicciolito, e dubiti d’amare persona che maggior titolo porti di te, dubitando d’essere da me sdegnata. Certo questa dubitazione non doveva in te capere, però ch’io so te essere degli altissimi imperadori romani discesa; la qual cosa se ancora vera non fosse, non potrebbe tra te e me capere sdegno. Dunque, perché m’hai lasciato? Oimè, misera la vita mia, quando troverai un altro Florio, che sí lealmente t’ami com’io t’ho amata? Tu nol troverai giá mai. Tu m’hai dato materia di sempre piangere, però che mai dal mio core tu non uscirai, né potresti uscire; e sempre ch’io mi ricorderò me essere del tuo core uscito, tante fiate sosterrò pene senza comparazione. E quello che piú in questo mi tormenta, si è ch’io conosco te non poter negare d’essere di Fileno innamorata, però che egli m’ha mostrato quel velo col quale tu coprivi la bionda testa, quando. con pietose parole ti dimandò una delle tue gioie, e tu gli donasti quello. O me misero, ove si vogliono omai voltare i miei sospiri a domandare conforto, poi che tu m’hai lasciato, ch’eri sola mia speranza? O me dolente, erati cosí noioso l’attendere di potermi vedere, che per cosí poco di tempo me per un altro, cui piú sovente veder puoi, hai dimenticato? Io non so che mi fare: io disidero di morire e non posso». E lagrimando per lungo spazio, ricominciava a dire: «O Amore, valoroso figliuolo di Citerea, aiutami. Tu che fosti del mio male cominciatore, non mi abbandonare in sí gran pericolo. Tu sai che io ho sempre i tuoi piaceri seguiti. Vagliami la vera fede che ho io portata alla tua signoria, la quale me a sé sottomettere non doveva senza intendimento d’aiutarmi infino alla fine de’ miei disiri. Volessero gl’iddii che mai la tua saetta non si fosse distesa verso il mio core, né che mai veduta fosse stata da me la luce de’ begli occhi di Biancofiore, dalla quale ora per la tua potenza medesima tradito e ingannato mi trovo! O me misero, quante volte giá per la tua potenza mi giurò ella che mai me per altri non lascerebbe, e io a lei simile promissione feci! Io l’ho osservata, ma ella m’ha abbandonato. Oimè, dov’è fuggita la promessa fede? E tu dove se’, o Amore, il cui potere è stato schernito da questa giovane: come non vendichi te e me similmente? Se tu cosí notabile fallo lasci impunito, chi avrá in te giá mai fidanza? Tu perseguitasti il misero Ippolito infino alla morte perché egli sdegnava tua signoria: come costei che l’ha ingannata, non punisci? Io non cerco però grave punizione, ma solamente che tu la ritorni nel pristino stato; e se questo conceder non mi vuoi, consenti di chiudere con le tue mani i miei occhi, acciò che piú la mia vita in sí fatta maniera non si dolga. Deh, ascolta i prieghi del misero, o caro signore; rivolgiti verso lui con pietoso viso, acciò ch’egli possa avere alcuna consolazione inanzi la morte, la quale tosto, in dispiacere del mio padre, prendere mi possa, il quale di questo male è cagione; però che se egli non fosse, io non sarei stato lontano, ed essendo stato presente, la mia Biancofiore non avrebbe me per Fileno dimenticato: avvegna che ancora io credo che per paura di lui ella si sia ingegnata d’avere altro amadore. Oimè, che nulla cagione è che a me non sia contraria! A me avviene sí come alla nave la quale è giá mezza inghiottita dalle tempestose onde, e ogni vento l’è contrario. O misera fortuna, i tuoi ingegni s’aguzzano a nuocere a me apparecchiato di ruinare.! Oimè, perché questo sia io non so. Tu fosti giá a me benignissima madre, e ora mi se’ acerba matrigna. Io mi ricordo giá sedere nella sommitá della tua rota, e veder te con lieto viso onorarmi: e questo era quando il lieto viso di Biancofiore m’era presente, mostrandomi quell’amore che parimente insieme ci portavamo; ma tu credo che invidiosa di sí graziosa gioia com’io sentiva, non sofferisti tener ferma la tua volubile rota, anzi voltandola, non senza mio grande dolore, allontanandomi dal bel viso, mi spingesti a Montorio. Qui con grandissimi tormenti stando, imaginava me essere nella piú infima parte della tua rota, né credeva piú potere discendere; ma tosto con maggiore infortunio mi facesti conoscere quella aver piú basso loco: e questo fu quando non bastandoti me avere allontanato da lei, t’ingegnasti d’apporti alle forze degl’iddii, volendola far morire, per la cui salute, non tua mercé, io fui arditissimo difenditore. E in tale stato, con piú sospiri che per lo passato tempo avuti non aveva, mi tenesti lunga stagione, sperando io di dovere risalire, se si voltasse: però che tanto m’era paruto scendere, che ’l centro dell’universo mi pareva toccare. Ma tutto questo non bastandoti, ancora volesti che niuno loco fosse nella tua rota, che da me non fosse cercato; e ha’mi ora in sí basso loco tirato, che con la tua potenza, ancora che benigna ritornassí come giá fosti, trarre non me ne potresti. Io sono nel profondo de’ dolori e delle miserie, pensando che la mia Biancofiore abbia me per altrui abbandonato. O dolore senza comparazione! O miseria mai non sentita per alcuno amante quanto è la mia! E avvegna che io non sia il primo abbandonato, io son solo colui che senza legittima cagione sono lasciato. La misera Isifile fu da Giasone abbandonata per giovane non meno bella e gentile di lei, e per la salute propria della sua vita, la quale senza Medea avere non poteva. Medea poi per la sua crudeltá fu giustamente da lui lasciata, trovando egli Creusa piú pietosa di lei. Oenone fu abbandonata da Paris per la piú bella donna del mondo. E chi sarebbe colui che prima non volesse una reina discesa del sangue degl’immortali iddii, che una rozza femina usata ne’ boschi? Oh, quanti esempli a questi simili si troverebbero! Ma al mio dolore niuno simile se ne troverebbe, che un figliolo d’un re per un semplice cavaliere sia lasciato, ove la virtú avanza nell’abbandonato. Deh, misera fortuna, se io avessi ad inganno avuto l’amore di Biancofiore, sí come Aconzio ebbe quello di Cidippe, certo alquanto parrebbe giusto che io fossi per piú piacevole giovane dimenticato; ma io non con inganno, non con forza, non con lusinghe ricevetti il grazioso amore, anzi benignamente e con propria volontá di lei, cercando co’ propri occhi s’io era disposto a prenderlo, e trovato di sí, mel donò: il qual ricevuto, a lei del mio feci subitamente dono. Adunque perché questa noia? Perché consentire me per altri essere dimenticato? Oimè, che le mie voci non vengono alli tuoi orecchi. Ora volessero gl’iddii che mai lieta non mi ti fossi mostrata! Certo io credo che ’l mio dolore sarebbe minore, perché io reputo felicissimo colui che non è uso d’avere alcuna prosperitá, però che da quella sola, perdendola, procede il dolore. E di che si può dolere chi dimora sempre con quello ch’egli ebbe? Tu ora m’hai posto sí basso, che mai piú non credo potere scendere: nel quale loco io, come piú doloroso che alcuno altro, mai senza lagrime non dimorerò. Piaccia agl’iddii che sopravvegnente morte tosto me ne cavi». E poi che queste parole piangendo aveva dette, riguardava l’anello che in dito portava, e diceva: «O bellissimo anello, fine delle mie prosperitá e principio delle miserie, gl’iddii facciano piú contenta colei che mi ti donò, che ella non fa me. Deh, come non muti tu ora il chiaro colore, poi che ha la donna tua mutato il core? Oimè, che perduta è la riverenza che io a te e all’altre cose da lei ricevute ho portata, e ogni mio affanno in picciola ora ho perduto! Ma poi ch’ella a me s’è tolta, tu non ti partirai da me. Tu sarai eterno testimonio del preterito amore, e come io sempre nel core la porterò, tu cosí sempre nella usata mano starai». E poi bagnandolo di lagrime, infinite volte il baciava, chiamando la morte che da tale affanno col suo colpo il levasse, e piú forte piangendo diceva: «Oimè, perché piú si prolunga la mia vita? Maladetta sia l’ora ch’io nacqui e che io in prima Biancofiore amai. Ora fosse quel giorno ancora a venire, né giá mai venisse. Ora fossi io in quell’ora stato morto, acciò ch’io esempio di tanta miseria non fossi nel mondo rimaso. Ma certo la mia vita non si prolungherá piú!». E postosi mano allato, tirò fuori un coltello, il quale da Biancofiore ricevuto aveva, dicendo: «Oggi verrá quello che la dolorosa mente imaginò quando mi fosti donato, cioè che tu dovevi esser quello che la mia vita terminerebbe: tu ti bagnerai nel misero sangue, tenuto vile dalla tua donna, la quale, sapendolo, forse avra piú caro avermiti donato, per quello che avvenuto ne sará, che per adietro». Mentre che Florio piangendo dolorosamente queste parole diceva, disteso sopra il suo letto, Venere, che il suo pianto aveva udito, avendo di lui pietá, discese del suo cielo nella triste camera, e a Florio mise un soavissimo sonno, nel quale una mirabile visione gli fu manifesta. Poi che Florio, da dolce sonno preso, ebbe lasciato il lagrimare, nuova visione gli apparve. A lui pareva vedere in un bellissimo piano un gran signore coronato di corona d’oro, ricca per molte preziose pietre, le quali in essa risplendevano maravigliosamente, e li suoi vestimenti erano reali. E parevagli che questi tenesse nella sua sinistra mano un arco bellissimo e forte, e nella destra due saette, l’una d’oro, e quella era acutissima e pungente, e l’altra gli pareva di piombo, senza alcuna punta. E questo signore, il quale di mezza eta, né giovane né vecchio, giudicava, gli pareva che sedesse sopra due grandissime aquile, e li piedi tenesse sopra due leoni, e nell’aspetto di grandissima autoritá. E quanto Florio piú costui guardava, tanto piú mirabile gli pareva, ventilando due grandissime ale d’oro, le quali dietro alle spalle aveva. Ma poi che a Florio parve per lungo spazio avere lui riguardato, gli parve vedere dalla destra mano del signore una bellissima donna, la quale inginocchioni davanti al signore umilemente pregava; ma egli non poteva intendere di che: se non che, fiso riguardando la donna, gli parve che fosse la sua Biancofiore. Poi alla sinistra mano del signore rimirando, vide un tempestoso mare, nel quale era una bella nave con l’albero gía rotto, e con le vele le quali piene d’occhi gli parevano tutte spezzate, e con li timoni perduti e senza niuno governo. E in quella nave gli pareva essere tutto ignudo, con una fascia davanti agli occhi, e non sapere che si fare; e dopo lungo affannare in questa nave, gli pareva vedere uscire di mare uno spirito nero e terribile a riguardare, il quale prendeva la proda di questa nave, e tanto forte la tirava in giuso che giá mezza l’aveva nelle tempestose onde tuffata. Allora Florio forte spaventato, sí per lo fiero aspetto dello spirito e sí perché si vedeva la morte vicina per la tempestante nave, con grandissimo pianto verso la poppa gli parea fuggire, e gridare verso quel signore aiuto. Ma egli non pareva che alle sue parole né a’ suoi prieghi colui si movesse; onde Florio piú temeva, vedendo ciascuna ora piú la nave affondare. Poi dopo alquanto spazio gli pareva che questo signore gli dicesse: «Io sono colui cui tu hai giá tanto chiamato ne’ tuoi sospiri: non credere che io ti lasci perire». Ma per tutto questo niente si moveva. Ma poi che a Florio piangendo con grandissima paura parve avere un grandissimo pezzo aspettato, a lui pareva che la fascia, che davanti agli occhi aveva, alquanto s’aprisse, e fossegli conceduto di vedere dove stava: e com’egli trasse gli occhi a riguardare, vide essere giá quella nave tanto tirata sotto l’onde, che poco o niente se ne pareva. Allora, piangendo forte, gli pareva dimandare mercé e aiuto, e alzando gli occhi al cielo per invocar quello di Giove, parendogli che quello di quel signore gli fallasse, egli vide una bellissima giovane tutta ignuda, fuori che in uno sottile velo involta, e dicevagli: ‛O luce degli occhi miei, confortati’. A cui Florio rispondeva: ‛E che conforto poss’io prendere, che giá mi veggio tutto sotto l’onde?’. La giovane gli rispondeva: ‛Caccia dalla tua nave quello iniquo spirito, il quale con la sua forza s’ingegna d’affondarla’. A cui Florio pareva che rispondesse: ‛E con che il caccerò io, che niuna arma m’è rimasa?’. Allora pareva a Florio che costei traesse del bianco velo una spada, che pareva che tutta ardesse, e dessegliela; la quale Florio poi che presa avea, gli pareva rimirare costei e dire: ‛O graziosa giovane, che ne’ miei affanni tanto aiuto vi ingegnate di porgermi, se vi piace, siami manifesto chi voi siete, perciò che a me conoscere mi vi pare, ma la lunga fatica m’ha si stordito, che il vero conoscimento non è meco’. Questa pareva che cosí gli rispondesse: ‛Io sono la tua Biancofiore, di cui tu oggi, ignorante la verita, ti se’ tanto senza ragione doluto ’; e questo detto, pareva a Florio che ella gli porgesse in mano un ramo di verde olivo e disparisse. Poi pareva a Florio con l’ardente spada leggerissimo andare sopra l’onde, e ferire l’iniquo spirito piú volte, ma dopo molti colpi gli pareva che lo spirito lasciasse il legno, tornandosi per quella via ond’era venuto. E, partito lui, a Florio pareva che il mare tornasse alquanto piú tranquillo, e il legno nel suo stato, di che in se medesimo si rallegrava molto. E volendo intendere a racconciare i guasti arnesi della sua nave, il lieve sonno subitamente si ruppe. E Florio dirizzatosi in piè, sospirando e quasi stordito per la veduta visione, si trovò in mano un verde ramo d’olivo: per la qual cosa vie piú d’ammirazione prese, e incominciò a pensare sopra le vedute cose e sopra il verde ramo. E poi che egli ebbe lungamente pensato, egli incominciò cosí fra se medesimo a dire: «Veramente avrá Amore le mie preghiere udite, e, forse, in soccorso della mia vita, vorrá tornare Biancofiore in quell’amore verso di me che ella fu mai, però che la voce di colei mi riconfortò nell’affannosa tempesta ov’io mi vidi, e diemmi argomento di campare da quella, e in segno di futura pace mi donò questo ramo delle frondi di Pallade: onde poi che cosí è, io voglio avanti piangendo alquanto aspettare ciò che Biancofiore mi mostrerá di voler fare, che sí subitamente, senza farle sentire ciò che Fileno mi ha detto, uccidermi con le proprie mani». E questo detto, riprese il coltello che sopra il letto ignudo stava, e quello rimise nel suo luogo; e senza piú indugio una lettera scrisse, la quale egli mandò a Biancofiore, in questo tenore:
- «Se gli avversarii fati, o graziosa giovane, t’hanno a me con l’altre prosperitá levata, come io credo, non con isperanza di poterti co’ miei prieghi muovere dal novello amore, ma pensando che lieve mi fia perdere queste parole insieme con te, ti scrivo. La qual cosa se non è com’io istimo, se parte alcuna di salute m’è rimasa, io la ti mando per la presente lettera, della quale volessero gl’iddii ch’io fossi inanzi apportatore; e per quell’amore che tu giá mi portasti, ti priego che questa senza gravezza insino alla fine legga. E perciò che pare che sia alcuno sfogamento di dolore a’ miseri, ricordare con lamentevoli voci le preterite prosperitá, a me misero Florio, da te abbandonato, con teco, sí come con persona di tutto consapevole, piace di raccontarle; e forse udendole tu, che pare che messe l’abbia in oblio, conoscerai te non dovere mai me per alcun altro lasciare. Adunque, sí come sai, o giovane donzella, tu, in uno giorno nata ne’ reali palagi con meco di pellegrino ventre, compagna a’ miei onori divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne’ quali onori tu e io parimente dimorando, Amore cosí l’uno come l’altro, ne’ nostri puerili anni, con la cara saetta ferí. Né piú fu, in sí tenera etá, perfetto l’amore d’Ifis e di Iante che fu il nostro. E quello studio che a noi, costretti da aspro maestro, ne’ libri si richiedeva, cessante Racheo, in rimirarci mettevamo, mostrando l’inestimabile diletto che ciascuno di ciò aveva. Oimè, che ancora niuno ricordo era nella nostra corte di Fileno, il quale di lontana parte dovea venire a donargli tu simile gioia. Ma poi la fortuna, mala sostenitrice dell’altrui prosperitá, invidiosa de’ nostri diletti, i quali con dolci sguardi e semplici baci solamente ci contentavamo, per l’etá che semplice era, verso di noi innocenti volle la sua potenza dimostrare, e, bassando con la sinistra mano la non riposante rota, il nostro occulto amore a sospette persone fece manifesto. Il quale dal mio padre, dopo gravi riprensioni maestrali, saputo, fui costretto di partirmi da te: nella quale partita, tu mia e io sempre tuo, per la somma potenza di Citerea, giurammo di stare, mentre Lachesis, fatale dea, la vita ne nutricasse. E nel mio partire mi vedesti piangere, e tu piangesti; e ciascuno di noi egualmente dolente, mescolammo le nostre lagrime. E come l’abbracciante ellera avviticchia il robusto olmo, cosí le tue braccia il mio collo avvinsero, e le mie il tuo simigliante; e appena ci era lecito ad alcuno di lasciare l’uno l’altro, infino a tanto che tu per troppo dolore costretta nelle mie braccia semiviva cadesti, riprendendo poi vita quando io cercava teco morire, te reputando morta. Ora fosse agl’iddii piaciuto che allora il termine della mia vita fosse compiuto! Ma tu poi levata, e donatomi quell’anello il quale te ancora mi tiene legata nel core e terra sempre, mi pregasti che mai io non ti dovessi dimenticare per alcun’altra. Alle quali parole s’aggiunsero sí tosto le lagrime che appena ne fu possibile dire addio. E, dopo la mia partita, mi ricorda avere udito che tu con gli occhi pieni di lagrime mi seguitasti infino a tanto che possibile ti fu vedermi, sí com’io similmente stetti sempre con gli occhi all’alta torre, ove te imaginava essere salita per vedere me. Tu rimanesti nelle nostre case visitando i luoghi dove piú fiate stati eravamo insieme, e in quelli con sí fatta ricordanza prendevi alcun diletto imaginando. Ma io misero, poi che i tristi fati m’ebbero da te allontanato, come gl’iddii sanno, niuno diletto si poté al mio animo accostare senza ricordarmi di te; e ciascun giorno i miei sospiri cresceano trovandomi lontano alla tua presenza; e quelle fiamme le quali il mio padre credeva, lontanandomi da te, spegnere, con piú potenza sempre si sono raccese e divenute maggiori. Oimè, ora quante fiate ho io giá pianto amaramente per troppo disio di vedere te, e quante fíate giá nel tenebroso tempo, quando amendui i figliuoli di Latona nascosi celano la loro luce, venni io alle tue porti dubitando di non essere sentito da’ miei minori servidori, e non temendo la morte che nelle mani degli insidianti uomini ne’ notturni tempi dimora, né de’ fieri leoni, né de’ rapaci lupi per lo cammino usati in sí fatte ore! Quante volte giá giovani donne per rattiepidire i miei tormenti, le cui bellezze sariano agl’iddii bene investite, m’hanno del loro amore tentato, né mai alcuna poté vincere il forte cuore, a te tutto disposto di servire! E poi, oltre a tutte l’altre mie tribolazioni, gl’iddii sanno quanto grave mi fosse ciò che di te intesi, quando ingiustamente condannata fosti alla crudele morte: alla quale io con tutte le mie forze, mercé degl’iddii che mi aiutarono, conoscendo la ingiustizia a te fatta, m’opposi in maniera che me con teco trassi di tale pericolo. E poscia ognora in maggiore tribolazione crescendo, dubitando della tua vita, mai non divenni vile a sostenere tormenti per te, né mai per tutte le contate cose una fiata mi pentii d’averti amata, né proposi di non volerti amare, ma ciascuna ora piú t’amai e amo, avvegna che te io abbia tutto il contrario trovata, però che tu non hai potuto la minor parte delle mie miserie sostenere in mio servigio. Tu, mobile giovane, ti se’ piegata come fanno le frondi al vento, quando l’autunno le ha d’umore private. Tu agl’ingannevoli sguardi di Fileno, il quale non lunga stagione ti ha tentata, se’ dal mio al suo amore voltata. Oimè, ora che hai tu fatto? E se tu questo forse negare volessi, non puoi, con ciò sia cosa che la sua bocca a me abbia tutte queste cose manifestate. E oltre a ciò, volendomi mostrare quanto il tuo amore sia fervente verso di lui, mi mostrò il velo che tu della tua testa levasti e donastilo a lui: il quale quando io vidi, un subito freddo mi corse per le dolenti ossa, e quasi smarrito rimasi nella sua presenza. Oimè, come io volentieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che s’ingegnava da te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo da me con grandissima vergogna; ma per non iscoprire quello che nel mio core dimorava, e per udire piú cose, sostenni con forte viso di riguardare quello per amor di te, imaginando che per adietro la tua testa, a me graziosissima a ricordare, avea coperta. Oimè, ora è questa la costanza che ho avuto inverso di te? Deh, or non sai tu quante e quali donne m’hanno per maritale legge al mio padre addimandato? E quante e quali egli me n’ha giá volute dare per volermi levare a te? Or non consideri tu quanti e quali dolori io ho giá per te sostenuti per l’esserti lontano, e sostengo continuamente? Queste cose non si dovrieno mai del tuo animo partire, le quali mostra che assai lontane da esso siano, vedendomi io essere per Fileno abbandonato. Deh, ora qual cagione t’ha potuta a questo muovere? Certo io non so. Forse mi rifiuti per basso legnaggio, sentendo te essere degli altissimi prencipi romani discesa, le cui opere hanno tanto di chiarezza, che ogni reale stirpe abumbrano, e me del re di Spagna figliuolo, onde reputando te piú gentile di me, m’hai per altro dimenticato? Ma tu, stoltissima giovane, non hai riguardato per cui, però che se bene avessi ricercato, tu avresti trovato Fileno non essere di reale progenie, né di romano prencipe disceso, ma essere un semplice cavaliere. E se forse piú bellezza in lui che in me ti move, certo questo è vano movimento, con ciò sia cosa che egli non sia bellissimo né io sia laido, che per quello dovessi essere lasciato da te. Se forse in lui piú virtú che in me senti, questo non so io, ma certo da alcuno amico m’è stato rapportato segretamente me essere nel nostro regno tra gli altri giovani virtuoso assai. Oimè, ch’io non so perché in queste cose menome io scrivendo dimoro, con ciò sia cosa che ’l piacere faccia parere il laido bellissimo, e colui ch’è senza virtú copioso di tutte, e il villano. gentilissimo reputare. Io mio piango con piú doloroso stile, pensando che quando tutte le ragioni di sopra dette aiutassero Fileno, com’elle debitamente me difendono, perché dovrei io da te essere lasciato giá mai? O ve credi tu mai trovare un altro Florio il quale t’ami sí com’io fo? Quando credi tu avere recato Fileno a tal partito ch’egli per te si disponga alla morte com’io feci? Oimè, dov’è ora la fede promessa a me? Deh, se io fossi molto allontanato da te con quella speranza con la quale io t’era vicino, alcuna scusa ci avrebbe: o dire: ‛Io mai piú vedere non ti credeva’, o porre scusa di rapportata morte: delle quali qui niuna porre ne puoi, però che di me continue novelle sentivi, e ognora potevi sentire me essere a te piú soggetto che mai. Oimè, ch’io non so quale iddio abbia la sua deitá qui adoperata in fare che tu non sia mia come tu solevi, né so qual peccato a questo mi noccia. Fallito verso di te non ho, salvo s’io non avessi peccato in troppo amarti dirittamente: al quale fallo male si confá la dolente pena che m’apparecchi, cioè d’amare altrui e me per altro abbandonare. Ma tanto infine ad ora ti manifesto che, con ciò sia cosa che mai io non possa senza te stare né giorno né notte che tu sempre ne’ miei sospiri non sia, se questo esser vero sentirò, con altra certezza che quella che io ti scrivo, per gli eterni iddii la mia vita in piú lungo spazio non si distendera, ma contento che nella mia sepoltura si possa scrivere: ‛Quivi giace Florio morto per amore di Biancofiore’, mi ucciderò: sempre poi perseguendo la tua anima, se alla mia non sará mutata altra legge che quella alla quale ora è costretta. Io aveva ancora a scriverti molte cose, ma le dolenti lagrime, le quali, ognora che queste cose che scritte t’ho, mi tornano nella mente, avvegna che dir potrei che mai non n’escano, mi costringono tanto, che piú avanti scrivere non posso. E quasi quel che io ho scritto non ho potuto interamente dalle loro macchie guardare; e la tremante mano, che similmente sente l’angoscia del core che mi richiama all’usato sospirare, non sostiene di potere piú inanzi muovere la volonterosa penna: ond’io nella fine di questa mia lettera, se piú merito da te esser udito sí com’io giá fui, ti priego che alle prescritte cose provegga con intero animo. Nelle quali se forse alcuna cosa scritta fosse la quale a te non piacesse, non malizia, ma fervente amore m’ha a quelle scrivere mosso, e però mi perdona. E se questo che ’l tristo cuor pensa è vero, caramente ti priego che, se possibile è, indietro si torni. E se forse l’amore che tu m’avesti gia, né i miei prieghi, a questo non ti strignesse, stringati la pietá del mio vecchio padre e della mia misera madre, a’ quali tu sarai cagione d’avermi perduto! E se cosí non è, non tardi una tua lettera a certificarmene, perciò che infino a tanto che questo dubbio sani in me, insino allora il tuo coltello non sí partira della mia mano, presto ad uccidere o a perdonare, secondo ch’io te sentirò disposta. Or piú avanti non ti scrivo, se non che tuo son vivuto e tuo morrò: gl’iddii ti concedano quello che onore e grandezza tua sia, e me per la loro pietá non dimentichino»
- Fatta la pistola, Florio piangendo la chiuse e suggellò; e, chiamato a sé un suo fedelissimo servidore, il quale era consapevole del suo angoscioso amore, cosí gli disse: «O a me carissimo sopra tutti gli altri servidori, te’ la presente lettera, la quale è segretissima guardia delle mie doglie, e con istudioso passo celatamente a Biancofiore la presenta, e priegala che alla risposta niuno indugio ponga, però che per te l’attendo. Se avviene che la ti doni, niuna cagione ti ritenga, ma sollecitamente a me, quanto piú cheto puoi, fa che la presenti, acciò che degnamente tu possa nella mia grazia dimorare. Va, che molto disio mi coce d’udir quello che a questa si risponderá; e guarda che niuno altro che quella propria a cui ti mando la vedesse».
- Prese il servo la suggellata pistola, e quella, con istudioso passo, pervenuto a Marmorina nelle reali case, presentò a Biancofiore occultamente. La quale come Biancofiore vide, primieramente con dolci parole dimandò come il suo Florio stesse. A cui il servidore rispose: «Graziosa giovane, niuno sospiro è senza lui. Egli si consuma in isconvenevole amaritudine, la cagione della quale è a me nascosa». Udito questo, Biancofiore cominciò a sospirare, dicendo: «Oimè, per quale cagione potrebbe questo essere?». «Per niuna, credo» rispose il servo, «se per amore di voi non è. Egli vi manda caramente pregando che senza alcun indugio alla presente pistola rispondiate; e io, se vi piacerá, attenderò la risposta». Allora Biancofiore la presa pistola si pose sopra la testa, e, avanti che l’aprisse, la baciò forse mille fiate, e, partita dal messaggiero, gli disse che di presente la risposta gli recherebbe, e sola nella sua camera se n ’entrò, dubitando che dir dovesse la presente lettera. E, rotto il tenero legame, aprí quella, né piú tosto la prima parte ne lesse, che i begli occhi si cominciarono a bagnare d’amare lagrime; e cosí, ognora piú forte piangendo come piú avanti leggeva, la finí di leggere. Ma poi che con pianti e con sospiri piú fiate l’ebbe recitata leggendo, angosciosa molto nella mente della falsa imaginazione di Florio, la quale aveva di veritá viso per lo mal donato velo, sopra il suo letto si pose, e a quella cosí al suo Florio nspose:
- «Non furono senza molte lagrime gli occhi miei, quando primieramente videro la tua pistola, o nobilissimo giovane, sola speranza della dolente anima mia, la quale con grandissima angoscia molte volte rilessi. E certo ella non fu dal tuo pianto macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono. E piú volte leggendo quella, tra me pensai aver difetto d’intendimento, alcuna volta dicendo tra me medesima: io non la intendo bene, però che non potrebbe essere che intendimento di Florio fosse di scrivermi le parole che semplicemente guardando pare che questa pistola porga. Altra volta diceva: forse Florio mi tenta, e vuole vedere se io mi muto per asprezza di parole. Ma poi che ogni intendimento si cessò da me, e lasciommisi credere che tu credevi quello che scrivevi, appena credetti potere a tanto sforzare la debiletta mano che la penna in quella sostenere si potesse per volerti rispondere; ma poi che pure sforzandomi gl’iddii mi concedettero potere a te rispondere, per questa, quella salute che per me disidero, ti mando. E se alcuna fede merita il leale amore ch’io ti porto, ti giuro per gl’immortali iddii che non t’era bisogno distenderti in tanto scrivere per mostrarmi quanto sia stato e sia l’amore che mi porti: però che molto maggiore credo che sia che la tua lettera non mostra, né tu per parole potresti mostrare. E similemente i lunghi affanni e i grandi meriti, a’ quali io mai aggiunger non potrei a remunerare il piú picciolo, per quella conobbi. Ma il sentirti piangere della intera fede la quale mai né ruppi, né disiderai di romperti, m’ha mossa a lagrimare, e costretta a scriverti, disiderosa di farti certo te mai da me non essere dimenticato, né potere possibile mai divenire che io ti dimentichi. Io, o grazioso giovane, non credo me essere nata di ferocissimi leoni barbarici, né delle robuste querce d’Ida, né de’ freddi marmori di Persia, alle quali cose risomigliando io passi di rigidezza i libiani serpenti; ma di pietoso padre e di benigna madre, sí come piú volte m’è stato detto, discesi, e per quella legge che sono gli umani corpi della natura tratti, e io similmente, ma non della fortuna. Né appresi mai, né so essere, né disidero di saperlo, crudele e senza umano conoscimento, sí come tu imagini. Tu mi scrivi che Amore me, come te, ne’ nostri puerili anni, insiememente ferí: della qual cosa io non meno di te mi ricordo. E certo egli mi trovò atta e disposta ad amare come te similmente, né piú durezza credo che trovasse nel mio che nel tuo core, o abbia mai trovato. Per la qual cosa, se tu con affanni infiniti se’ lontano da me dimorato, io non dimorai mai né dimorerò con diletto a te lontana, anzi mi sento da diverse punture molestare per simile cagione che senti tu, né mai infinte lagrime né falsa parola per piú accenderti udisti da me: ma volessero gl’iddii che possibile fosse te aver potuto vedere e udire le vere, le quali se vedute avessi, forse piú temperatamente avresti scritto, quando dicesti me non essere costante a sostenere per te un affanno né in amarti. Ma però che tutto questo spero con l’aiuto degl’iddii ancora doversi manifestare a te con apertissimo segno, piú non mi stendo a scriverti, essendo non meno da piú grave dolore costretta, sentendo te credere esser da me per Fileno abbandonato, sí come la tua lettera mostra, la quale quando vidi, assalita da non picciola doglia, per poco non morii. Oimè, quanto m’è la fortuna avversa! Tu vai cercando di mostrarmi cagioni per le quali io debba aver te per Fileno lasciato, e quelle tu medesimo annulli: e veramente da annullare sono! E se da te quel senno non s’è partito che aver suoli, dovresti pensare che io non sono del senno uscita, sí che io non conosca manifestamente te di nobiltá avanzare Fileno, semplice cavaliere della tua corte, e me picciolissima serva di te e del tuo padre, a cui tu rimproveri, faccendoti beffe di me, me esser discesa degli antichi imperadori romani, i quali gl’iddii guardino che a sí poco torni la loro potenza, che ad essere serva, sí com’io sono, divenga la loro sementa. Né ancora a me si occulta la tua virtú, né la bellezza piena di graziosa piacevolezza, a me cagione d’intollerabile tormento: per le quali cose saresti piú degno amante dell’alta Citerea che di me. E certo, ben ch’io ti conosca nobilissimo, virtuoso e pieno di bellezza piú che alcun altro, e me senza alcuna di queste cose, non sono però invilita sí ch’io non abbia ardire di perfettamente amarti, come è, o che mi si convenga o no. Ora, dunque, se tutte queste cose sono da me conosciute, com’è è credibile che te per Fileno potessi dimenticare? E non ti ritenesti di dire che io, femina di fragilissima natura, niuna avversitá per amor di te sostenere non aveva potuto, volendo quasi dire che per alleggiare i sospiri, che per te, a me lontano, sento insieme con molte pene, cercai di voler prossimano amadore, il quale piti spesso veggendo, io mi rallegrassi. Oimè, che falsa opinione porti, se questo credi! Ma certo piú per tentarmi, che per altro, il fai, però che io so che tu conosci che io mai dal mio nascimento, risomigliando a’ miei parenti, senza avversitá non fui, per la qual cosa a forza m’è convenuto divenire maestra di sostener quelle: e se io l’ho sostenute grandissime tu il sai, che gran parte meco insieme n’hai sentite. Pensa certamente che alcuni sospiri mai non furono sí cocenti come sono quelli i quali io per troppo disio di te mando fuori della mia bocca; né lagrime mai con tanta copia bagnarono il petto, quanto hanno le mie il mio bagnato, solo per lo tuo essere lontano. Ma veramente non molto tempo passerá che tu potrai dire ch’io sia fragile a sostenere l’avversita delle quali io sono circuita, però che sento la mia vita fuggire da me con istudioso passo, e l’anima, che il dolor del dolente core non può sostenere, l’ha giá piú volte voluto abbandonare, e solo un conforto, che io ho allora preso sperando di rivederti, l’ha ritenuta. Ma se cosí fatti dolori aggiugni a quelli ch’io ho infino a qui sentito, come hai fatto al presente per la tua pistola, io non aspetterò che l’anima cerchi congedo, anzi glielo darò costringendola del partire, se ella forse volesse dimorare. Io sono entrata in nuova dubitazione, la quale m’è a pensare molto grave, e appena mi si lascia credere. E amore, che ammollisce i duri cuori, mel fa alcuna volta credere, e alcun’altra discredere, che tu, o signor mio, scritto non m’abbia ch’io abbia te per Fileno dimenticato, acciò che io ragionevolmente di te piangere non mi possa, se me per alcuna altra hai costá dimenticata; ma tutta fiata non sono di tanta falsa opinione ch’io lo possa credere, anzi dico, qualunque ora quel pensiero m’assale: niuna cagione fara mai che Biancofiore sia se non di Florio, e Florio se non di Biancofiore. Ma senza fine mi s’attrista il core, qualora in quella parte della tua pistola leggo, dove scrivi me avere donato a Fileno in segno di perfetto amore il velo della mia testa, il quale di che quando il ti mostrò, volentieri avresti levatoglielo, squarciando lui tutto. La qual cosa volessero gl’iddii che tu fatto avessi, perciò che a me sarebbe stata non picciola consolazione nell’animo, e la cagione è questa: io non nego che quel velo, vilissima cosa, non fosse a lui donato dalle mie mani ma certo il core nol consentí mai, ma cosí costretta dalla tua madre mi convenne fare. Per lo quale egli, forse pigliando ferma speranza di pervenire al suo intendimento per tale segnale, piú volte con gli occhi e con parole mi tentò di trarmi ad amarlo, la qual cosa credo impossibile sarebbe agl’iddii, né mai da me piú avanti poté avere. Né è però da credere che in un velo o in altro gioiello si richiuda perfetto amore: solamente il core serva quello, e io, che, piú che altra giovane, il sento per te, posso con vere parole parlarne. E che io niuna persona ami, se non solo te, ne chiamo testimonii gl’iddii, a’ quali niuna cosa si nasconde: e però ti priego che il velo, non volonterosamente donato, non ti porga nel core quella credenza che da prendere non è. Niuna persona è nel mondo amata da me se non Florio. Lascia ogni malinconia presa per questo, se la mia vita t’è cara, e spera che ancora fermamente conoscerai quello che io ora ti prometto, e la tua vita con la mia insieme caramente riguarda: a luogo e a tempo gl’iddii rimuteranno consiglio, forse concedendoci migliore vita che noi da noi non eleggeremmo. Rifiuta i non dovuti ozii, e seguita i leali diletti; e se tu mi porterai tanto nell’animo quanto io fo te, tu conoscerai me non essere meno affannata da’ pensieri che tu sia. E caramente ti priego che con sí fatte lettere tu non solleciti piú l’anima mia, disposta a cercare nuovo secolo: che posto che tu con forte animo il mio coltello tenga nella mano, a me certo laccio non farebbe sostenere di leggieri la seconda, solo che in quella cosí come in questa mi parlassi. Biancofiore non fu mai se non tua, e tua sará sempre. Adoperino i fati secondo che ella ama, e senza fallo contento viverai.»
- Biancofiore piegò la scritta pistola, piena di non poco dolore, e posta in su il legame la distesa cera, avendo la bocca per troppi sospiri asciutta, con le amare lagrime bagnò la cara gemma, e, suggellata quella, con turbato aspetto uscí dalla camera, a sé chiamando il servo, che giá, per troppa lunga dimoranza che far gli pareva, si cominciava a turbare. Al quale ella disse: «Porterai questa al tuo signore, a cui gl’iddii concedano miglior conforto che egli non s’è ingegnato di donare a me». E detto questo, baciò la lettera, e posela in mano al fedele servo, il quale senza niuno indugio voltò li passi verso Montorio: e lá in picciolo spazio pervenuto, trovò Florio nella sua camera, dove lasciato l’aveva con grandissima copia di lagrime e di sospiri, a cui egli pose la portata pistola in mano, dicendogli ciò che da Biancofiore compreso aveva e le sue parole. E partito da lui, Florio aperse la ricevuta lettera, e quella infinite volte rilesse pensando alle parole di Biancofiore, sopra le quali faccenda diverse imaginazioni, sopra il suo letto con essa lungamente dimorò.
- Diana, alla quale niuno sacrifizio era stato porto come agli altri iddii fu, quando Biancofiore dal grandissimo pericolo fu campata, aveva infino a questa ora la concreata ira tenuta nel santo petto celata, la quale non potendosi piú avanti tenere, discesa dagli alti regni, cercò le case della fredda Gelosia, la quale nascosa in una delle altissime rocce d’Apennino, entro a una oscurissima grotta, trovò intorniata tutta di neve, né v’era presso arbore né pianta viva fuori che pruni o ortiche o simile erbe; né vi si sentiva alcuna voce di gaio uccello: il cuculo e ’l gufo aveano i nidi sopra la dolente casa. Alla quale venuta la santa dea, quella trovò serrata con fortissima porta, né alcuna finestra vi si vedeva aperta. Fu dalla immortale mano con soave toccamento toccata l’antica porta, la quale non prima fu tocca, che dentro cominciarono a latrare due grandissimi cani, secondo che le voci lo faceano manifesto, dopo il quale latrare una vecchia con superbissima voce, ponendo l’occhio a uno picciolo spiraglio, mirò di fuori, dicendo: «Chi tocca le nostre porte?». A cui la santa dea disse: «Apri a me sicuramente: io sono colei senza il cui aiuto ogni tua fatica si perderebbe». Conobbe l’antica vecchia la voce della divina donna, e a quella con lento passo andando, con non poca fatica, per gli arruginiti serramenti, aperse la porta, la quale nel suo aprire fece un grandissimo strido, che di leggieri poteva essere sentito infino all’ultime pendici del monte. E fatta la dea passar dentro, con non minore romore riserrò quella, difendendo appena i bianchi vestimenti della dea dalle agute sanne de’ bramosi cani, a’ quali per magrezza ogni osso si saria potuto contare, cacciando quelli con chioccia voce e con un grande bastone col quale sosteneva i vecchi membri. Era quella casa vecchissima e affumicata, né era in quella alcuna parte ove Aragne non avesse copiosamente. le sue tele composte; e in essa s’udiva una ruina tempestosa, come se i vicini monti, urtandosi insieme, giungessero le loro sommitá, le quali per l’urtare pestilenzioso diroccati caddessero giuso al piano. Niuna cosa atta ad alcuno diletto vi si vedeva. Le mura erano grommose di fastidiosa muffa, e quasi pareva che sudando lagrimassero; né in quella casa mai altro che verno non si sentiva, senza alcuna fiamma da riconfortare il forte tempo: ben v’era in uno de’ canti un poco di cenere, nella quale rilucevano due tizzoni giá mezzi spenti, de’ quali la maggior parte una gattuccia magra covando quella occupava. E la vecchia abitatrice di cotal loco era magrissima e vizza nel viso e scolorita; i suoi occhi erano biechi e rossi, continuamente lagrimando; di molti drappi vestita, e tutti neri, ne’ quali ravviluppata, in terra sedeva, vicino al tristo foco, tutta tremando, e al suo lato aveva una spada, la quale rare volte, se non per ispaventare, traeva fuori. Il suo petto batteva sí forte, che sopra li molti panni apertamente si discerneva, nel quale quasi mai non si crede che entrasse sonno; e il luogo acconcio per lo suo riposo era il limitare della porta, in mezzo de’ due cani. La quale la dea veggendo, molto si maravigliò, e cosí disse: «O antica madre, sollecitissima fugatrice degli scellerati assalti di Cupido, e guardia de’ miei fuochi, a te conviene mettere nel petto d’un giovane a me carissimo le tue sollecitudini, il quale per troppa liberalitá si lascia a feminile ingegno ingannare, amando oltre al dovere una mia nimica: e però niuno indugio vi sia, muoviti! Egli è assai vicino di qui, ed è figliuolo dell’altissimo re di Spagna, chiamato Florio; e senza fine ama Biancofiore, né mai sentí quel che tu suoli agli amanti far sentire. Va e privalo della pura fede, la quale egli tiene indegnamente, e, aprendogli gli occhi, gli fa conoscere com’egli è ingannato, ammaestrandolo come gl’inganni si debbano fuggire. La vecchia che in terra sedeva, con la mano alla vizza gota, alzò il capo mirando con torto occhio la dea, e con picciola voce tremando rispose: «Partiti, dea, da’ tristi luoghi, che niuno indugio darò al tuo comandamento». Partita la dea, la vecchia si vestí di nuova forma, e abbandonando i molti vestimenti, aggiunse alle sue spalle ali, e, lasciando le serrate case senza alcuno dimoro, pervenne dov’ella trovò Florio stante ancora sopra il suo letto leggendo la ricevuta lettera di Biancofiore. A cui ella occultamente con la tremante mano toccò il sollecito petto, e ritornassi alle triste case, onde s’era per comandamento di Diana partita.
- Aveva Florio piú fiate riletta la ricevuta pistola, e giá quasi nell’animo le parole di Biancofiore accettava, credendo fermamente da lei niuna cosa essere amata se non egli, sí come ella gli scriveva. Ma non prima gli fu dalla misera vecchia tocco il petto, che egli incominciò a cambiare i pensieri e a dire fra sé: «Fermamente ella m’inganna, e quel ch’ella mi scrive non per amore, ma per paura lo scrive. Briseida lusingava il grande imperadore de’ Greci, e disiderava Achille. Chi è colui che dalle false lagrime e dalle infinte parole delle femine si sa guardare? Se Agamennone l’avesse conosciute, la sua vita sarebbe stata piú lunga, né Egisto avrebbe avuto il non dovuto piacere. Senza dubio Fileno piace piú a Biancofiore che io non faccio: e chi sará quella che si levi un velo di testa, e donilo ad un suo amante, che possa poi far credere quegli non essere amato da lei? Certo niuna il potrebbe far credere, se non fosse giá semplicissimo l’ascoltatore. E in veritá e’ non è da maravigliare se ella ama Fileno: egli continuamente l’è davanti. e ingegnasi di piacerle, e io le sono lontano, né ella poté, giá è lungo tempo, vedermi. Il foco s’avviva e vive pe’ soavi venti, e amore si nutrica con dolci riguardamenti: e sí come le fiamme perdono forza non essendo da’ venti aiutate, cosí amore diviene tiepidissimo come gli sguardi cessano. Ma costei, se ella non m’ama, perché con lusinghe s’ingegna d’accendermi il core?». Poi ad altro ragionamento si volgeva, e diceva: «Fermamente Biancofiore m’ama sopra tutte le cose, e questo, se io voglio il vero riguardare, non mi si può celare; ma se ella non mi amasse, Fileno me ne saria cagione, del quale io prenderò senza dubbio vendetta.»
- In cotali pensieri istando, Florio tra sé ripeteva tutti i preteriti atti e fatti stati tra lui e Biancofiore, poi che Fileno tornò da’ lontani paesi nella sua corte, e quelli una volta pensava essere stati da Biancofiore fatti maliziosamente, e altra volta tra sé gli difendeva. Egli stette piú giorni senza alcuno riposo, pieno di sollecite cure. Egli alcuna volta imaginava e diceva: «Ora è Fileno davanti alla mia Biancofiore e lusingala: ma perché la lusingherebbe egli, ch’ella lo ama oltra misura?». Poi tra sé altrimenti imaginava. Egli andava vedendo con l’animo tutte quelle vie le quali sono possibili ad uomo di farlo pervenire a un suo intendimento, e niuna credeva che non fosse stata cercata da Fileno, se bisogno gli fu. Egli pensava che niuna persona mai parlasse a Biancofiore che da parte di Fileno non le parlasse, e de’ suoi servidori medesimi dubitava d’essere stato ingannato: e cosí dimora in istimolosa sollecitudine, e non sa che si fare, e pensa che Fileno ordini di portarla via, e che ella il consenta. Egli pensa che Fileno la dimandi al re, e siagli donata per isposa. Egli pensa che i messaggi da Fileno a Biancofiore, e da Biancofiore a Fileno sieno spessissimi. Ma poi che egli diverse cose in sé rivolte ebbe, cosí incominciò a dire: «Non è del tutto a credere ciò ch’io imagino, ché forte mi pare che, se stato fosse, io non ne avessi alcuna cosa sentita: e però la scusa delle passate cose fatta da Biancofiore è da ricevere. Ma chi sa di quelle che devono avvenire: da un’ora a un’altra si volgono gli animi, da diversi intendimenti essendo tentati! Niuno rimedio è qui se non levare ogni cagione per la quale Biancofiore dal mio amore si potesse mutare, acciò che niuno effetto segua. Io tornerò, a dispetto del mio padre, a Marmorina, e solleciterò co’ miei propri occhi il core di Biancofiore, e quindi la fuggirò in parte ov’io senza paura d’alcuno potrò dimorare con lei. Se il mio padre della mia tornata si mostrasse dolente, e ancora a Fileno farò levare la vita, o egli abbandonerá li nostri paesi. Niuna cosa ci lascerò a fare, acciò che colei sia sola mia, di cui io solo sono e sarò sempre». E con questi pensieri, lasciati gli amorosi, il piú del tempo dimorava, cercando, con amare sollecitudini, parte di quelli fuggire e parte metterne in effetto senza alcuno indugio.
- O amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa e piena di sollecitudine, chi potrebbe credere o pensare che la tua dolce radice producesse sí amaro frutto com’è gelosia? Certo niuno, se egli nol provasse. Ma essa ferocissima, come l’ellera gli olmi cinge, cosí ogni tua potenza ha circondata, e intorno a quella è si radicata che impossibile sarebbe oramai a sentir te senza lei. O nobilissimo signore, questa è a’ tuoi atti tutta contraria. Tu le tue fiamme mostri nell’altissimo e chiaro monte Citerea, costei sotto i freddi colli d’Apennino impigrisce nelle oscure grotte. Tu levi gli animi all’altissime cose, e costei gli declina e affonda alle piú vili. Tu i cuori che prendi tieni in continua festa e gioia, e costei da quelli ogni allegrezza caccia e con subito furore vi mette malinconia. Essa fa cercare i solinghi luoghi, e con aguto intelletto mai non sa che si sia altro che pensare. Ad essa pare che le spedite vie dell’aere siano piene d’aguati per prendere ciò che essa disidera di ben guardare. Niuno atto è che essa non dubiti che con falso intendimento non sia fatto. Niuna fede è in lei, niuna credenza: ella sempre crede essere tentata. E come tu di pace se’ veracissimo ordinatore, cosí questa con armata mano sempre apparecchia inimicizie e guerre. Ella magrissima e scolorita nel viso, di oscuri vestimenti vestita, egualmente ogni persona con bieco occhio riguarda: e tu, piacevolissimo nell’aspetto, con lieto viso visiti i tuoi soggetti. Ella non sente mai né primavera, né state, né autunno: tutto l’anno egualmente dimora per lei il sole in Capricorno! Ora, quanto è contraria la vostra natura! Ella si diletta essere senza alcuna luce, e tu ne’ luminosi luoghi adoperi i santi dardi. Ella con teco quasi d’un principio nata, di tutti i tuoi beni è guastatrice. E le piú volte avviene che di quella infermitá onde ella ha maggior paura, è piú spesso assalita e oppressa infino alla morte. Oltre a’ miseri miserissimo si può dire colui che seco l’accoglie in compagnia.
- Florio s’apparecchia con diliberato animo di nuocere a Fileno: la qual cosa la santa dea conoscendo dagli alti regni, e mossa a compassione di Fileno, cosí nel segreto petto cominciò a dire: «Che colpa ha Fileno commessa per la quale egli meriti morte o oltraggio da Florio? Niuno non merita morte alcuna, perché egli ami quello che piace agli occhi suoi. Cessi questo, che per cagione di noi il giovane cavaliere sia offeso. E detto questo, la seconda volta discese dal cielo, e cercò le case del Sonno, de’ riposi re, nascose sotto gli oscuri nuvoli, le quali in lontanissime parti stanno rimote, in una spelonca d’un cavato monte, nella quale Febo co’ suoi raggi in niuna maniera sottilmente può passare. Quel luogo non conosce quand’egli sopra l’orizzonte vegnendo ne reca chiaro giorno, né quand’egli, avendo mezzo il suo corso fatto, ci riguarda con piú diritto occhio, né similmente quand’egli cerca l’occaso: quivi solamente la notte puote, e il terreno da sé vi produce nebbie piene d’oscuritá o di dubbiosa luce. E davanti alle porte della casa fioriscono gli umidi papaveri copiosamente, ed erbe senza numero, i sughi delle quali aiutano la potenza del signore di quel luogo. Dintorno alle quali oscure case corre un picciolo fiumicello chiamato Lete, il quale esce d’una dura pietra, che col suo corso accendo commovere le picciole pietre, fa un dolce mormorio, il quale invita i sonni. In quel luogo non s’odono i dolci canti della dolente Filomena, i quali forse potessero mettere ne’ petti acconci al riposo alcuna sollecitudine con la sua dolcezza. Quivi non fiere, non pecore, né altri animali si sentono. Quivi Eolo veruna potenza non ha, e ogni fronda si riposa. Mutola quiete possiede il luogo, al quale niuna porta si trova, non forse serrando e disserrando potesse fare alcuno romore. Alcuno guardiano non v’è posto, né cane alcuno il quale latrando potesse turbare i quieti riposi. Quivi non è alcun gallo il quale cantando annunzi l’aurora; né alcuna oca vi si trova che i cheti andamenti possa con alta voce far manifesti. E nel mezzo della gran casa dimora un bellissimo letto di piuma, tutto coperto di neri drappi, sopra il quale si riposa il grazioso re co’ dissoluti membri oppressi dalla soavitá del sonno. Appresso del quale un poco, giacciono varii sonni di tante maniere e sí diverse, quante sono l’arene del mare, o le stelle di che il nido di Leda s’adorna. Nella qual casa la dea entrò, continuo le mani menando davanti al viso e cacciando i sonni dagli occhi santi: e il candido vestimento della vergine diede luce nella santa casa. Nella venuta della quale, appena il re levò i pesanti occhi, e piú volte la grave testa inchinando col mento si coperse il petto, e, rivolto piú volte sopra il ricco letto, con ramarichevoli mormorii alquanto sé pure destò. E appena levatosi sopra il gomito, dimandò quel che la dea cercava. A cui ella cosí disse: «O Sonno, piacevolissimo riposo di tutte le cose, pace dell’animo, fugatore delle sollecitudini, mitigatore delle fatiche e sovvenitore degli affanni, egualissimo donatore de’ tuoi beni, se a te è caro che Citerea si possa con gli alti iddii, a te e a me egualmente consorti, di te laudare, comanda che Fileno, innocente giovane, nei suoi sonni conosca l’apparecchiate insidie contra lui, acciò che, conosciutele, di quelle guardare si possa». E questo detto, per quella via ond’era venuta, appena da sé potendo il sonno cacciare, se ne tornò.
- Ella partita, svegliò l’antico iddio gl’infiniti figliuoli, de’ quali alcuni in uomini, altri in fiere, e quali in serpenti, e chi in terra, e tali in acqua, e alcuni in travi e in sassi, e in tutte quelle forme le quali negli umani animi possono vaneggiare, v’aveva che si trasformavano: tra’ quali poi ch’egli ebbe eletti quelli che a tal bisogno gli parevano sofficienti, appena destati, gli ammaestrò che essi dovessero li comandamenti della santa dea adempiere senza alcuno indugio. A’ quali essi disposti, senza piú stare, del luogo si partirono per adempierlo.
- Mentre che i fati le cose sinistre cosí per Fileno trattavano, Fileno di tutte ignorante si stava pensando alla bellezza di Biancofiore, con sommo disio disiderando quella, quando subito sonno l’assalí, e, gli occhi gravati, sopra il suo letto riposandosi s’addormentò. Al quale senza alcun dimoro furono presenti i ministri del pregato iddio adoperando ciascuno i suoi ufici: e parvegli nel sonno subitamente essere in un bellissimo prato tutto saletto, e rimirar lo cielo, le sue bellezze lodando, e adeguando quelle di Biancofiore alla chiaritá delle stelle che in quello vedeva. E cosí stando, subitamente uno di quelli uficiali in forma d’un caro suo amico gli parve che gli apparisse piangendo, e correndo verso lui, e dicessegli: «O Fileno, che fai tu qui? Fuggi, ch’io ti so dire che l’amore che tu hai portato a Biancofiore t’ha acquistato morte. Tu non potrai essere fuori di questo prato, che Florio armato con molti compagni ti saranno adosso, cercando di levarti la vita. Fuggi di qui, o caro amico, senza niuno indugio. Non volere ch’io di tal compagno, quale io ti tengo, rimanga orbato». E ancora non parve che questi avesse compiuto di parlare, che giá dall’una delle parti del prato si sentiva il romore delle sonanti armi degli armati, i quali a Fileno parve, come detto gli era stato, che venissero. Allora pareva a Fileno levarsi tutto smarrito, e non sapeva qual via per la sua salute si dovesse tenere; anzi gli pareva che le gambe gli fossero fallite, né di quel luogo potesse partirsi. Dove stando, in piedolo spazio gli pareva vedersi dintorno Florio con molti altri armati, e con grandissimo romore gridare: «Muoia, muoia il traditore», dirizzando verso lui gli acuti ferri senza alcuna pietá ingegnandosi di ferirlo. A’ quali pareva che dicesse: «O giovani, s’alcuna pietá è in voi rimasa, piacciavi che Fileno possa fuggendo la vita campare. Voi sapete che per amore io non merito morte». Non erano le sue parole udite, ma piú aspramente e con maggiore romore gli pareva ognora essere assalito, e parevagli essere in tante parti del corpo forato che potere campare non gli pareva. Ma quelli ancora di ciò non contenti, uscendo uno di loro gli pareva che la testa gli volesse levare dal busto e presentarla a Florio. Allora sí grande dolore e paura gli strinse il core, che per forza convenne che il sonno si rompesse, e quasi tutto spaventato si dirizzò in piè, rimirando dov’egli era, e con le mani cercando de’ colpi che gli pareva aver ricevuti, e rimirando il suo letto, il quale imaginava dovere essere tutto tinto del suo sangue, e quello vide bagnato di vere lagrime. Ma poi ch’egli si vide essere stato ingannato dal sonno, partita la paura, pieno di maraviglia rimase, non sappiendo che ciò si volesse dire, e dubitando forte si mise a cercare del caro amico che nel sonno aveva veduto. Il quale trovato, a lui brievemente ciò che dormendo aveva veduto, narrò; di che l’amico maravigliandosi, cosí gli disse:
- «Caro amico e compagno, ora non dubito io che gl’iddii con molta sollecitudine intendano a’ beni dell’umana gente. Certo tu mi fai senza fine maravigliare di ciò che tu mi racconti, però che poco avanti io tornai da Montorio, e ivi da cara persona e degna di fede udii essere da Florio la tua morte disiderata, e ordinata in qualunque maniera piú brievemente potesse. E dimandando io della cagione, mi rispose che ciò avviene per lo velo il quale da Biancofiore tu ricevesti, la quale Biancofiore egli piú che alcuna cosa del mondo ama; e per questo è di te in tanta gelosia entrato, che se egli vedesse che Biancofiore con le proprie mani ti traesse il core, forte gli sarebbe a credere che ella ti potesse se non amare. E adunque, acciò che questo amore cessi, egli cerca d’ucciderti: però per lo mio consiglio tu al presente lascerai il paese, e pellegrinando per le strane parti, della tua salute sarai guardiano. Tu puoi manifestamente conoscere te non essere possente a resistere al suo furore: dunque anzi tempo non volere perire, ma la tua giovane etá ti conforti di poter pervenire a miglior fine che il principio non ti mostra. La fortuna ha subiti mutamenti, e avviene alcuna volta che quando l’uomo crede bene essere nella profonditá delle miserie, allora subito si ritrova nelle maggiori prosperitá». A cui Fileno piangendo cosí rispose: «Oimè, or che fará Florio ad uno che l’abbia in odio, se a me che l’amo ha pensata la morte?». A cui quegli rispose: «Amerallo! Le leggi d’amore sono variate da quelle della natura in molte cose, e in tale atto niuno vuole volentieri compagno. Né per te fa di cercare gli altrui pensieri, ma pensare del tuo bene. Posto che Florio similmente volesse uccidere uno che odiasse Biancofiore, se’ tu però fuori del pericolo? Certo no: adunque pensa alla tua salute». «Oimè!» disse Fileno, «dunque lascerò io Marmorina e la vista di Biancofiore?». «Sí» gli rispose quegli, «per lo tuo migliore». Disse Fileno: «Certo io non conosco che vantaggio qui eleggere si possa se solo una volta si muore. Buono è il vivere, ma meglio è tosto morire che vivendo languire, e cercare la morte e non poterla avere». «Non è» disse l’amico, «a chi vive sperando nella potenza degl’iddii, sí come dianzi ti dissi, però che le future cose ci sono occulte. E in qualunque modo si vive è meglio che il morire. Ogni cosa perduta, volendo l’uomo valorosamente operare, si può ricuperare, ma la vita no: però ciascuno dee essere di quella buono guardiano.» «Certo» disse Fileno, «a chi può prendere speranza, e sperando aspettare, non dubito che di guardare la sua vita egli non faccia il meglio, che volere per un subito dolore morire. Ma come poss’io cosí fare, che non tanto partendomi, ma solamente pensando ch’io mi deggia partire dalla vista del bel viso di Biancofiore, mi sento ogni spirito combattere nel core e dimandare la morte, e l’anima, che sente questa doglia e questa tempesta, si vuoi partire?» A cui colui rispose: «Non sono cotesti pensieri necessarii a te, però che a coloro che in simile caso sono che se’ tu, conviene che facciano della necessitá diletto. Tu vedi che tu se’ costretto di partire: non imaginare di prendere eterno esilio, ma imagina che per comandamento di Biancofiore, per cui non ti sarebbe grave il morire, s’avvenisse ch’ella tel comandasse, tu sia mandato in parte onde tu tosto tornerai. Questa imaginazione t’aiuterá, e faratti piú possente a sostenere gli affanni della partita, infine a tanto che tu poi ausato la saprai sostenere senza tanta noia». A cui Fileno disse: «Questo che tu mi dí m’è impossibile, però che il sollecito amore non mi lascia durare tale pensiero nel core; ma qualora piú mi vi dispongo, allora co’ suoi piú m’assalisce: e chi è colui che possa la sua coscienza ingannare?». Disse quegli: «I pensieri d’amore non ti assaliranno, quando alcuna volta resistendo cacciati gli avrai da te, e la coscienza, posto che interamente ingannare non si possa, almeno l’uomo la può fare agevole sostenitrice di quello ch’e’ vuole, con un lungo e continuo perserverare sopra un pensiero». «Certo questo vorrei io bene», disse Fileno. «Dunque potrai tu», gli fu risposto. Allora disse Fileno: «Ecco, ch’io mi dispongo a pellegrinare per lo tuo consiglio». E quello disse: «E io in tua compagnia, se a te piace». A cui Fileno disse: «No, io amo meglio dolermi solo, che menar te senza consolazione». A cui quegli rispose: «Caro amico, ove che tu vada, le tue lagrime mi bagneranno sempre il core, il quale mai senza compassione di te non sani: però lasciami avanti venire, acciò che tu, avendo la mia compagnia, abbia cagione di meno dolerti». Disse Fileno: «Amico, a me piace piú che tu rimanga, perché almeno veggendoti Biancofiore si ricordi di me e dell’esilio ch’io ho per lei. E se accidente avvenisse per lo quale mi fosse lecito il tornare, voglio che tu sollecito rimanga a mandare per me, dove che i fortunosi casi m’abbiano menato». A cui quegli disse: «Cosí, come a te piace, sará fatto». Fileno allora si partí da lui, e, ritornato alla sua casa, cosí cominciò piangendo a dolersi tra se medesimo: «O misero Fileno, piangi, poi che la fortuna t’è piú avversa che ad alcun altro. Sogliono gli altri, per odiare o per male adoperare, lasciare li loro paesi, e tal volta morire; ma a te per amore conviene che tu vada in esilio. O che vita sará la tua? Sará dolente; ma certo io non la voglio lieta. Io conosco Biancofiore turbata, e scoprirmi il falso amore, mostrando nel viso d’avermi per adietro ingannato. Io mi fuggirò dal suo cospetto, e fuggendomi piacerò a Florio e a lei, l’amore de’ quali m’era occulto quando m’innamorai. Il velo da lei ricevuto sará sola mia consolazione della mia miseria». E, questo in se medesimo diliberato, volontario esilio, seguendo il consiglio del suo amico, prese occultamente. Quando Apollo ebbe i suoi raggi nascosi, e l’ottava spera fu d’infiniti lumi ripiena, Fileno con sollecito passo piglia la sconsolata fuga. Egli nella dubbiosa mente, uscito di Marmorina, non sa esaminare qual cammino sia piú sicuro alla sua salute; ma, del tutto abbandonato a’ fati, piangendo pone le redini sopra il collo del portante cavallo, e piangendo abbandona le mura di Marmorina, con gli occhi rimirando quella infino che lecito gli è. Ma poi che l’andante cavallo lui carico di pensieri ebbe tanto avanti traportato, che piú non gli fu lecito di vedere la sua cittá, egli con piú lagrime incominciò ad intendere al suo cammino. E primieramente veduto l’uno e l’altro lito di Bacchiglione, pervenne alle mura costrutte per adietro dall’antico Antenore, e in quelle vide il loco ove il vecchio corpo con giusto epitafio si riposava. Ma di quindi passando avanti, in poche ore pervenne alle sedie del giá detto Antenore, poste nelle salate onde, nell’ultimo seno del mare Adriano: e in quel loco non sicuro, salito in picciol legno ricercò la terra. E pervenuto all’antichissima cittá di Ravenna, su per lo Po con le dorate arene se ne venne alla cittá posta per adietro da Manto ne’ solinghi paduli. Ma quivi sentendosi piú vicino a quelli che egli piú fuggiva, dimorò poco, e salito su pe’ colli del monte Appennino, e di quelli declinando, scese al piano, pigliando il cammino verso le montagne, tra le quali il Mugnone rubesto discende. E quivi pervenuto, vide l’antico monte onde Dardano e Siculo primamente da Italo loro fratello si partirono pellegrinando; e poco avanti da sé vide le ceneri rimase d’Attila flagello di Dio, dopo lo scellerato scempio fatto de’ pochi nobili cittadini della cittá edificata sopra le reliquie del valoroso consolo Fiorino, quivi dagli aguati di Catelina miserabilmente ucciso. Alle quali avuta compassione, si partí, e senza tenere diritto cammino errando pervenne a Chiusi, ove giá Porsenna, secondo che gli fu detto, aveva il suo regno con forza costretto ad ubbidir sé. Né troppo lungamente andò avanti ch’egli vide il cavato monte Aventino, nel quale Caco nascose le ’mbolate vacche ad Ercole, strascinate nelle cave di quello per la coda. Ma dopo lungo affanno pervenne nell’eccellentissima cittá di Roma, ov’egli d’ammirazione piú volte ripieno fu, veggendo le magnifiche cose, inestimabili da ogni alto intelletto senza vederle: e in quella vide il Tevere, a cui gl’iddii concedettero innumerabili grazie. Egli vide l’antiche mura d’Alba, e ciò che era notabile nel paese. Ma quivi non fermandosi, volgendo i suoi passi a mezzogiorno, si lasciò dietro le grandissime Alpi e i monti i quali aspettavano l’oscurissima distruzione del nobile sangue d’Aquilone, e pervenne a Gaeta, eterna memoria della cara balia d’Enea. E da quella pervenne per le salate onde a Pozzuolo, avendo in prima vedute l’antiche Baie e le sue tiepide onde, quivi per sostenimento degli umani corpi poste dagl’iddii. E in quel luogo veduta l’abitazione della cumana Sibilla, se ne venne a Partenope; né quivi ancora fermato, cercò li campi de’ Sanniti, e vide la loro cittá. Donde partitosi, volgendo i passi suoi, vide l’antica terra di Capo di Campagna posta da Capis, e, quindi partendosi, pervenne tra li salvatichi e freddi monti d’Abruzzi, tra’ quali trovò Sulmona, riposta patria del nobilissimo poeta Ovidio. Nella quale entrando, cosí cominciò a dire: «O cittá graziosa a ciascuna nazione per lo tuo cittadino, come poté in te nascere e nutricarsi uomo, in cui tanta amorosa fiamma vivesse quanta visse in Ovidio, con ciò sia cosa che tu freddissima e circondata da fredde montagne sia?»; e questo detto, reverente per lo mezzo di quella trapassò. E continuando i lamentevoli passi, si trovò a Perugia, dalla quale partitosi, de’ cammini ignorante, pervenne alle vene Adoncie, onde le chiarissime onde dell’Elsa vide uscire. Dopo le quali discendendo, venne infino a quel loco dove l’Agliena, nata nelle grotte di Simifonte, in quella mescola le sue acque e perde nome. E quindi guardandosi dattorno, vide un bellissimo piano, per lo quale volto a man destra, faccenda dell’onde dell’Agliena sua guida, non molto lontano al fiume andò, ch’egli vide un picciolo monticello levato sopra il piano, nel quale uno altissimo e vecchio cerreto era. In quello mai alcuna scure era stata adoperata, né da’ circustanti per alcun tempo cercato, fuori che da’ loro antichi nell’antico errore de’ non conosciuti iddii, i quali in sí fatti luoghi si solevano adorare. In quello entrò Fileno, e non trovandovi via né sentiero, ma tutto da vecchie radici o da grandissimi rovi occupato, con grandissimo affanno infino alla sommitá del picciolo monticello salí. Quivi trovò un tempio antichissimo, nel quale salvatiche piante erano cresciute, e le mura tutte rivestite di verde ellera. Né giá per antichitá erano guaste le imagini de’ bugiardi iddii, rimasi in quello quando il figliuolo di Giove recò da cielo in terra le novelle armi, con le quali il vivere eterno s’acquista. Era davanti a quello un picciolo prato di giovanetta erba coperto, assai piacevole a rispetto dell’altro luogo. E quivi fermato Fileno stette per lungo spazio; e rimiratosi dintorno, e pensato lungamente, s’imaginò di volere quivi finire la sua fuga, e in quello luogo senza tema d’essere udito piangere i suoi infortuni, e se altro accidente non gli avvenisse, quivi propose di volere l’ultimo di segnare. E dopo lunga esaminazione, vedendo il luogo molto solitario, si pose a sedere davanti al tempio, e quivi nutricandosi di radici e d’erbe, e bevendo de’ liquori di quelle, stette tanto che agl’iddii prese pietá della sua miseria, sempre piangendo, e ne’ suoi pianti con lamentosa voce le piú volte cosí dicendo:
- «O impiissima acerbitá dell’umane menti, che commisi io ch’eterno esilio meritassi della piacevole Marmorina? Nullo fallo commisi: amai e amo. Se questo merita esilio o morte, torca il cielo il suo corso in contrario moto, acciò che gli odii meritino guiderdone. E se io forse amando ad alcuno dispiaceva, non con morte mi doveva seguitare, ma con riprensione ammaestrare. Ora che riceverá da Florio chi odierá Biancofiore? Non so ch’egli gli si possa fare, se a quello che a me ha fatto vorrá con eguale animo pensare. Ahi, Pisistrato, degno d’eterna memoria per la tua benignitá, il quale, udendo con pianti narrare la tua figliuola essere baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti rispondere: ‛Che faremo noi a’ nostri nimici, se colui che ci ama è per noi tormentato?’: tu il picciolo fallo con grandissima temperanza mitigasti, conoscendo il movimento del fallitore. Dimorar possa tu con pietosa fama sempre ne’ cuori umani! Ma certo egli non è men giusta cosa che io pianga li miei amori, che fosse il pianto del crudele artefice Perillo, che a Falaris presentò il bue di rame, al quale primo convenne mostrare del suo artificio esperienza. Io medesimo accesi il foco in che io ardo. Io, misero, fui il tenditore de’ lacci ne’ quali son caduto. Chi mi costringeva di narrare a Florio i miei accidenti, e di mostrargli il caro velo? Niuna persona. Ignoranza mi fece fallire: e però niuno savio piange, perché il senno leva le cagioni. Ma posto pur ch’io per ignoranza fallassi, eragli cosí gravoso a vietarmi che io piú avanti non amassi? Certo io non mi sarei poi potuto tenere di non amare, ma nondimeno per la disubbidienza a lui, cui io singulare signore teneva, avrei meritato esilio o grieve tormento; ma egli mai non mi comandò che io non amassi, anzi lá ov’io non mi guardava cercava la mia morte. O ragionevole giustizia partita dagli umani animi, perché dal cielo non provvedi tu alle iniquitá? Deh, misero me!, non ho io per la sfrenata crudeltá di Florio perduta la debita pietá del vecchio padre e della benigna madre? Certo sí. Ora io gli ho lasciati per lo mio esilio pieni d’eterne lagrime. Non ho io perduta la graziosa fama del mio valore? Sí ho. Quanti uomini, ignoranti qual sia la cagione del mio esilio, penseranno me dovere avere commesso alcuna cosa iniqua, e, per paura di non ricevere merito di ciò, mi sia partito? I nemici creano le sconce novelle dov’elle non sono, e le male lingue non le sanno tacere. La iniquitá da se medesima si spande piú che la gramigna pe’ grassi prati. Non sono io per lo mio tristo esilio divenuto povero pellegrino? Non ho io perduto gioia e festa? Non è per quello la mia cavalleria perduta? Certo sí. Oimè, quante altre cose sinistre con queste insieme mi sono avvenute per lo mio sbandeggiamento! Ma certo, per tutto questo, alcuna cosa del vero amore che io porto a Biancofiore, non è mancato. Piú che mai l’amo. Niuna pena, niuno affanno, né alcuno accidente me la potrá mai trarre del core. E certo se egli mi fosse conceduto di poterla solamente vedere, com’io vidi giá, tutte queste cose mi parrebbero leggiere a sostenere. Il non poterla vedere m’è sola gravezza. Questo mi fa sopra ogni altra cosa tormentare. Ella co’ suoi begli occhi, avvegna che falsi siano, mi potrebbe rendere la perduta consolazione. Io vo fuggendo per lei. Se l’amor di lei avessi, non che ’l fuggire ma il morire mi sarebbe soave! Ma poi che l’amore di lei non puoi avere, e il poterla vedere t’è tolto, piangi, misero Fileno, e dá pena agli occhi tuoi, i quali stoltamente nella forza di tanto amore, quanto tu senti, ti legarono. O me misero, non so da che parte io mi cominci piú a dolere, tanti e tali cose m’offendono! Ma, tra l’altre, tu, o crudelissimo signore, non figliuolo di Citerea, ma piú tosto nemico, mi dai infinite cagioni di dolermi di te e di biasimarti. Tu, piacevolissimo fanciullo, pigli con piacevole dolcezza gli stolti animi degl’ignoranti, e in quelli poi con solingo ozio rechi disiderati pensieri, e in quelli pensieri fabrichi le tue catene, con le quali gli animi de’ miseri, che tua signoria seguitano, sono legati. Ahi, quanto è cieca la mente di coloro che ti credono, e che del loro folle disio ti fanno e chiamano iddio, con ciò sia cosa che niuna tua operazione si vegga con discrezione fatta! Tu gli altissimi animi de’ valorosi signori declini a sottomettersi alle volontá d’una picciola feminella. Tu la bellezza d’un giovane, maestrevole adornamento della natura, con fallace disiderio leghi al volere d’un turpissimo viso, con díverse macule adornato oltre al dovere, d’una meretrice. E, brievemente, niuna tua operazione è con eguale animo fatta, anzi sogliano i miseri, ne’ tuo’ lacci avviluppati, prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale che né i doni di Pallade, né quelli di Giunone, né gentilezza d’animo riguarda, ma solamente il libidinoso piacere; e in questo credono alle tue opere aggiungere grandissime laudi, ma con degno vituperio te ed essi vituperano. Ma che giova tanto parlare? Tu se’ d’etá giovane: come possono le tue operazioni essere mature? Tu, ignudo, non devi poter porgere speranza di rivestire. Le tue ale mostrano la tua volubilitá, né m’è della memoria uscito d’averti in alcune parti veduto privato della vista: dunque come di dietro alla guida d’un cieco si può fare diritto cammino? Ahi, tristi coloro che in te sperano! Tu levi loro il pensiero de’ necessarii beni, ed empili di sollecitudine e di vana speranza. Tu gli fai divenire cagione delle schernevoli risa del popolo che li vede, ed essi, miseri e di questo ignoranti, assai volte di se stessi con gli altri insieme fanno beffe, né sanno quello che fanno: e tardi conoscono i tuoi effetti. Ma certo, mentre ignorante di quelli fui, niuno soggetto avesti che piú fede di me ti portasse, né che piú la tua potenza esaltasse: e ancora in quella semplicitá ritornerei, se benigno mi volessi essere, come giá fosti a molti. O me misero, che io non so che io mai contra te adoperassi, per la qual cosa cosí incrudelire in me dovessi, come fai! Io mai non ti rimproverai la tua giovanezza, né biasimai la forza del tuo arco, come fece Febo, né alla tua madre levai il caro Adone, né iscopersi i suoi diletti i quali con Marte prendeva, come tutto il cielo vide. Io mai non adoperai contra te, perché tu mi dovessi nuocere; ma tu di mobile natura, e nescio di quello che fai, mi tormenti oltre al dovere. Solo in uno atto si conosce te avere alcun sentimento, in quanto mai non cerchi d’essere se non in luogo a te simigliante, avvegna che questa discrezione piú tosto alla natura che a te si dovrebbe attribuire. Il tuo diletto è di dimorare ne’ vani occhi delle scimunite femine, le quali a te costrigni con meno dolore che i miseri che in tale laccio incappano; e poi con esse di quelli ti diletti di ridere, consentendo loro il potersi far beffe de’ tristi senza alcun affanno d’esse: delle quali, schiera di perfidissima iniquitá piena, non posso tenermi ch’io non ne dica ciò che dentro ne sento.
- Voi, o sfrenata moltitudine di femine, siete dell’umana generazione naturale fatica, e dell’uomo inespugnabile sollecitudine e molestia. Niuna cosa vi può contentare, destatrici de’ pericoli, commettitrici de’ mali. In voi niuna fermezza si trova: e, brievemente, voi e il diavolo credo che siate una cosa! E che questo sia vero, davanti a noi infiniti esempli a fortificare il mio parlare se ne trovano. E volendo dalla origine del mondo incominciare, si troverá la prima nostra madre per lo suo ardito gusto essere stata cagione a sé e a’ discendenti d’eterno esilio da’ superiori reami. E questo malvagio principio in tanto male crebbe, che la prima eta nello allagato mondo tutta peri, fuori che Deucalione e Pirra, a cui rimase la fatica di ristaurare le perdute creature. Ma posto che la quantitá delle femine mancasse, la vostra malvagitá nella poca quantitá non mancò. E non era ancora reintegrato il numero degli annegati, quando colei che l’antica Babillonia cinse di fortissime e alte mura, presa dalla libidinosa volontá col figliuolo si giacque, faccendo poi per ammenda del suo fallo la scellerata legge che il bene placito fosse licito a ciascuno. O cuore di ferro che fu quello di costei! Quale altra creatura, fuori che femina, avrebbe potuto sí scellerata cosa ordinare, che, conoscendo il suo male, non s’ingegnasse di pentere, ma s’argomentasse d’inducervi i soggetti? E ancora che questo fosse grandissimo fallo, quanto fu piú vituperevole quello che Pasife commise, la quale il vittorioso marito, re di cento cittá, non sostenne d’aspettare, ma con furiosa libidine essere da un toro ingravidata sostenne? Fu ciascuno dei detti falli scelleratissimo, ma nullo fu sí crudelmente fatto, come quello che Clitennestra miseramente commise: la quale, non guardando alla debita pietá del marito, il quale in terra era stato vincitore di Marte, per mare di Nettunno, ma presa dal piacere d’un sacerdote, rimaso ozioso ne’ suoi paesi, consentí che egli portasse ad Agamennone il non perfetto vestimento, e, in quello vedendolo avviluppato, Egisto miserabilmente l’uccise, acciò che poi senza alcuna molestia i loro piaceri potessero mettere in effetto. Quanto fu ancora la lascivia d’Elena, la quale, abbandonando il proprio marito, e conoscendo ciò che doveva della sua fuga seguire, anzi volle che il mondo perisse sotto le armi ch’ella non fosse nelle braccia di Paris, contenta che per lei si possa eternalmente dire Troia essere distrutta e i Greci morti crudelmente! Quanta acerbitá e quanta ira si puote ancora discernere essere stata in Progne, ucciditrice del proprio figliuolo per far dispetto al marito? E in Medea simigliantemente? E in cui si trovò mai tanto tracotato amore quanto in Mirra, la quale con sottile ingegno adoperò tanto che col proprio padre piú volte si giacque? E la dolente Biblis non si vergognò di richiedere il fratello a tanto fallo, e la lussuriosa Cleopatra d’adoperarlo. Non è ancora tra queste la madre d’Almeone, che per picciolo dono consentí il mortale pericolo d’Anfiarao suo marito? E qual diabolico spirito avrebbe potuto pensare quel che fece Fedra, la quale non potendo avere recato lppolito suo figliastro a giacere con lei, con altissima voce gridando e stracciandosi i vestimenti e’ capelli e ’l viso, disse sé essere voluta isforzare, e, lui preso, consentí che dal proprio padre fosse fatto squartare? Quanto ardire e quanta crudeltá fu quella delle femine di Lenno, che, essendo degnamente soggette degli uomini, per divenir donne, quelli nella tacita notte con armata mano tutti dierono alla morte? E simile crudeltá nelle figliuole di Belo si trovò, le quali tutti li novelli sposi la prima notte uccisero, fuori che Ipermestra. Oimè, ch’io non sono possente a dire ciò che io sento di voi! Ma senza dir piú avanti, quanti e quali esempli son questi della vostra malvagitá? O femine, innumerabile popolo di pessime creature, in voi non virtú, in voi ogni vizio: voi principio e mezzo e fine d’ogni male. Mirabil cosa si vede di voi, tra tanta moltitudine una sola buona non trovarsene. Niuna fede, niuna veritá è in voi. Le vostre parole sono piene di false lusinghe. Voi ornate i vostri visi con diverse arti ad irretire i miseri, acciò che poi, liete d’avere ingannato, cioè fatto quello a che la vostra natura è pronta, ve ne ridiate. Voi siete armadura dell’eterno nemico dell’umana generazione: láov’egli non può vincere co’ suoi assalti, incontanente a’ pensati mali pone una di voi, acciò che ’l suo intendimento non gli venga fallito. Guai eterni puote dire colui, che nelle vostre mani incappa, non gli fallano. Misera la mia vita, che incappato ci sono! Niuna consolazione sará mai a me di tal fallo, pensando che una giovane, la quale io piú tosto angelica figura che umana creatura reputava, con falso ragguardamento m’abbia legato il core con indissolubile catena, e ora di me si ride, contenta de’ miei mali. Ma certo la miserabile fortuna, che abbassato per li vostri inganni mi vede, assai mi nuoce, e niuno aiuto mi porge, anzi s’ingegna con continua sollecitudine di mandarmi piú giu che la piú infima parte della sua rota, se far lo potesse, e qui vi col calcio sopra la gola mi tiene, né possibile m’è lasciare il doloroso luogo.»
- Era il pianto e la voce di Fileno sí grande, però che in loco molto rimoto gli pareva essere da non dovere potere essere udito, che un giovane il quale al piè del salvatico monticello passava, sentí quello, e avendogli grandissima compassione, per grande spazio stette ad ascoltare, notando le vere parole di Fileno; ma poi volonteroso di vedere chi si dolorosamente piangesse, seguendo la dolente voce si mise per l’inviluppato bosco, e con grandissimo affanno pervenne al loco dove Fileno piangendo dimorava. Il quale egli nel primo avvento rimirando, appena credette che uomo fosse; ma poi ch’egli l’ebbe raffigurato, il vide nel viso divenuto bruno, e gli occhi, rientrati in dentro, appena si vedevano. Ciascuno osso pingeva in fuori la raggrinzata pelle, e i capelli con disordinato rabbuffamento occupavano parte del dolente viso, e similmente la barba grande era divenuta rigida e attorta, e i vestimenti suoi sordidi e brutti, ed egli era divenuto qual divenne il misero Erisitone, quando sé, per sé nutricare, cominciò a mangiare. Nullo che veduto l’avesse ne’ tempi della sua prosperitá, l’avrebbe per Fileno riconosciuto. Ma poi che ’l giovane l’ebbe assai riguardato, cosí gli disse: «O dolente uomo, gl’iddii ti rendano il perduto conforto. Certo il tuo abito e le tue lagrime e le tue voci m’hanno mosso ad a vere compassione di te; ma se gl’iddii i tuoi disideri adempiano, dimmi la cagione del tuo dolore: forse non senza tuo bene la mi dirai; e ancora mi dí, se ti piace, perché sí solingo luogo hai per poterti dolere eletto». Maravigliossi Fileno del giovane quando parlare l’udí, e voltatosi verso lui, non dimenticata la preterita cortesia, cosí gli rispose: «Io non ispero giá che gl’iddii mi rendano quello ch’essi m’hanno tolto, perché io li tuoi prieghi adempia: ma però che la dolcezza delle tue parole mi spronano, mi moverò a contentarti del tuo disio. E primieramente ti sia manifesto che per amore io sono concio come tu vedi»: e, appresso questo, tutto ciò che avvenuto gli era particolarmente gli narrò. Dopo le quali parole, ancora gli disse: «La cagione per che in sí fatto luogo io sono venuto, è perché io voglio senza impedimento potere piangere. E, appresso, io non voglio essere a’ viventi esempio d’infinito dolore, ma voglio che in fra questi arbori la mia doglia meco si rimanga». Udito questo, il giovane non poté ritenere le lagrime, ma con lui incominciò dirottamente a piangere, e disse: «Certo la tua effigie e le tue voci mostrano bene che cosí ti dolga, come tu parli; ma, al mio parere, questa doglia non dovria essere senza conforto, con ciò sia cosa che persone, che molto l’hanno avuta maggiore che tu non hai, si sono confortate e confortansi». Disse allora Fileno: «Questo non potrebbe essere: chi è colui che maggior dolore abbia sentito di me?». «Certo disse il giovane, «io sono.» «E come?», disse Fileno. A cui il giovane disse: «Io il ti dirò. Non molto lontano di qui, avvegna che vicina sia piú assai quella parte alla cittá di colui i cui amaestramenti io seguii, e dove tu non è molto tempo ci fosti sí come tu dí, era una gentil donna, la quale sopra tutte le cose del mondo amai e amo: e di lei mi concedette Amore, per lo mio ben servire, ciò che l’amoroso disio cercava. E in questo diletto stetti non lungo tempo, che la fortuna mi volse in veleno la passata dolcezza, che quando io mi credeva avere piú la sua benivolenza, e avere acquistato con diverse maniere il suo amore, e io con li miei occhi vidi questa me per un altro avere abbandonato, e conobbi manifestamente che lungamente e con false parole m’avea ingannato, faccendomi vedere che io era solo colui che il suo amore aveva. La qual cosa sí mi fu molesta, che niuno credo mai simile doglia sentisse a quella ch’io sentii: e veramente per quella credetti morire; ma l’utile consiglio della ragione mi rendé alcun conforto, per lo quale io ancora vivo in quello essere che tu mi vedi, ricoprendo il mio dolore con infinta allegrezza. Le cose sono da amare ciascuna secondo la sua natura. Quale sará colui sí poco savio che ami la velenosa cicuta per trarne dolce sugo? Molto meno savio fia colui che una femina amerá con isperanza d’essere solo amato da lei lunga stagione. La loro natura è mobile. Qual uomo sará che possa ammendare ciò che gl’iddii o li superiori corpi hanno fatto? E però come cosa mobile sono da amare, acciò che de’ loro movimenti gli amanti, sí come esse, si possano ridere: e se elle mutano uno per un altro, quegli possa un’altra in loco di quella mutare. Niuno si dorrá seguendo questo consiglio. Tu, non avendolo seguito, ora per niente piangi. Con ciò sia cosa che tu niente abbia perduto, di che ti duoli tu, sí come tu dí? Niente possedesti: e chi non possiede non può perdere; e chi non perde, di che si lamenta? Credesti alcuna volta, per alcuno sguardo fatto a te da quella giovane cui tu ami, che ella t’amasse: hai conosciuto che quello era bugiardo, e che ella non t’ama. Certo di questo ti dovresti tu rallegrare, e rendere infinite grazie agl’iddii, che t’hanno aperti gli occhi prima che tu in maggiore inganno cadessi. Se forse dell’esilio che hai piangi, non fai il meglio: ché, pensando il vero, niuno esilio si può avere, con ciò sia cosa che il mondo sia una sola cittá a tutti. Ove che la fortuna ponga altrui, ella nol può cacciare di quello. In ciascun loco giunge altrui la morte con finale morso. A’ virtuosi ogni paese è il loro. Lascia questi pianti e leva su: viene con meco, e virtuosamente pensa di vivere, e metti in oblio la malvagitá di quella giovane che a questo partito t’ha condotto: che da’ cieli possa foco discendere che egualmente tutte le levi di terra!». A cui Fileno disse: «Giovane, ben credo che ’l tuo dolore fu grande, e similmente il tuo animo, poi che con pazienza lo potesti sostenere; ma io mi sento troppo minore l’animo che la doglia, e però invano ci si balestrano confortevoli parole. Io sono disposto a piangere mentre che io viverò: gl’iddii per me del tuo buono volere ti meritino. Io ti priego per quello amore che tu giá piú fervente portasti alla tua donna, che non ti sia noia il partirti e ’l lasciarmi con continue lagrime sfogare il mio dolor»e. «Gl’iddii ti traggano tosto di tale vita», disse il giovane. E partitosi da lui, se ne tornò per quella via onde venuto era.
- Partito il giovane, Fileno ricominciò il doloroso pianto, e increscendogli della sua vita, con dolenti voci incominciò a chiamare la morte cosi: «O ultimo termine de’ dolori, infallibile avvenimento di ciascuna creatura, tristizia de’ felici e disiderio de’ miseri, o angosciosa morte, vieni a me. Vieni a colui a cui il vivere è piú noioso che il tuo colpo, vieni a colui che graziosa ti riputerá. Deh, vieni, che il tristo core ti chiede. Oimè, ch’io non posso con la debite voce esprimere quant’io ti disidero. Poi che un solo colpo dei tuoi debbo ricevere, piacciati di concederlo senza piú indugio. Non sia l’arco tuo piú cortese a me che al valoroso Ettore o ad Achille. Io tengo in villania il lungo perdono che da lui ho ricevuto. I doni disiderati, tosto donati, doppiamente sono graditi. Concedi questo a me che tanto disiderato t’ho, e che con sí dolente voce ti chiamo. Oimè, come son radi coloro che sí con volonteroso animo ti ricevono, come ti riceverò io! Dunque perché non vieni? Non consentire che disiderandoti, sí come io fo, io languisca piú. Io non ricuserò in niuna maniera la tua venuta. Vieni come tu vuoi, pur ch’io muoia. Io non fuggirei ora gli aguti ferri, né le taglienti spade com’io feci giá; l’agute sanne de’ fieri leoni non mi dorrebbono, né di qualunque altra fiera dilacerante il mio corpo: dunque vieni. O rapaci lupi e ferocissimi orsi, se alcuni nel dolente bosco, bramosi di preda, dimorate, venite a me, facciasi il mio corpo vostro pasto. Adempiete quel disio che altri adempiere non mi vuole. Oimè, perisca il tristo corpo, poi che perita è la speranza. Cerchi la dolente anima i regni atti al suo dolore, e vada con la sua pena alle misere ombre di Dite, ove forte sarei che maggior pena che ella al presente sostiene, vi trovi. O iddii abitatori de’ celestiali regni, se alcuno mai in questo loco ricevette onore di sacrificio, dolgavi di me. O deitá abitatrici di questi luoghi, fate che la misera vita mi fugga. O infernali iddii, rapite del mio misero corpo la vostra anima. Cessi che io piú me e voi stimoli con le mie voci». E cosí piangendo e gridando, tutto delle proprie lagrime si bagnava, baciando sovente il candido velo, sopra il quale per debolezza sovente cader si lasciava. Ma Florio, rimaso a Montorio, presto a mettere in esecuzione le triste insidie sopra Fileno, udito che il misero per paura di quelle avea preso volontario esilio, lasciò stare le cominciate cose, e incominciassi alquanto a riconfortare, imaginando che poi che quello era cessato, di che egli piú dubitava, niuna altra cosa, fuori che prolungamento di tempo, al suo disio gli poteva noiare.
- La santa dea, che due volte era discesa de’ suoi regni per impedire il ferventissimo amore tra Florio e Biancofiore cresciuto per lungo tempo, sentendo Florio rallegrarsi, e il misero Fileno avere per l’operazioni di lui preso dolente esilio, parendole niente avere fatto, propose del tutto di volere la sua imaginazione compiere. E discesa del cielo la terza volta, sopra un’alta montagna in forma di cacciatrice si pose ad aspettare il re Felice, che quivi cacciando su per quella doveva quel giorno venire. Ell’aveva i biondi capelli ravvolti alla sua testa con leggiadro avvolgimento, e il turcasso cinto con molte saette, e nella sinistra il forte arco portava. E quivi per picciolo spazio dimorando, di lontano vide il re Felice saletto correre dietro ad un grandissimo cervo, il quale verso quella parte dov’ella era fuggiva: al quale ella si parò davanti, e con soavissima voce salutatolo, abbandonato il cervo, il ritenne a parlar seco. A cui il re, non conoscendola, disse: «Giovane donna, come in questo luogo sí sola dimorate?». «Di qui non sono guari lontane le compagne» rispose Diana; «ma tu come a questi diletti intendi, con ciò sia cosa che il tuo figliuolo, per amor di colei cui tu tieni in casa, guadagnata ne’ sanguinosi campi, si muore? Io conosco il sopravvegnente pericolo, e dicoti che se tosto rimedio a questa cosa non prendi, ella il ti torrá.» E questo detto, subitamente sparve. Rimase il re tutto stupefatto e pieno di pensieri, quando, volendo consiglio dimandare, vide la dea sparita, e cosí tra sé, voltando i suoi passi, disse: «Veramente divina voce m’ha i miei danni annunziati». E di grieve dolore oppresso, lasciata la caccia, si tornò a Marmorina.
- Ritornato il re a Marmorina, dentro al suo real palagio, in una camera, soletto, con bassa fronte, si pose a sedere, pensando e ripetendo in sé l’udite parole dalla santa dea, e in sé rivolgendo che rimedio alle cose udite potesse prendere. E in tali pensieri dimorando, la reina sopravvenne; e vedendo il re turbato, si maravigliò, e timidamente cosí gli disse: «O caro signore, se lecito è ch’io possa sapere la cagione della vostra turbazione, io vi priego che la non mi si celi». A cui il re rispose: «Ella non ti si può né deve celare, e però io la ti dirò: oggi nel piú forte cacciare ch’io facea, correndo dietro a un cervo, non so che si fosse, o dea o altra creatura, ma in abito d’una cacciatrice, m’apparve una bella donna, la quale, dopo alquante parole, mi disse che se con subito provvedimento noi non soccorressimo, che Florio per Biancofiore perderemmo: e questo detto, sparve subitamente, né piú la potei vedere. Onde io da quell’ora in qua con grave doglia sono dimorato. Io conosco manifestamente che la fortuna, dei nostri beni invidiosa, si oppone a quelli, e vuolcene in miserabile modo privare. Io mi consumo pensando che per una serva io debba perdere il caro figliuolo acquistato con tanti prieghi. O maladetto giorno, o perfidissima ora della sua nativitá, perché mai venisti? Egli non per nostra consolazione, ma per dolorosa distruzione di noi nacque: ma certo la cagione di tanta e di tal tristizia converrá che prima di me perisca. Questi mali e queste angosciose fatiche solo per una vi!issima serva procedono. Io le leverò con le proprie mani la vita. La mia spada trapasserá il suo sollecito petto: e di questo segua che puote! E certo se i fati altra volta la trassero delle cocenti fiamme, essi non la trarranno ora dal mio colpo. Oimè, che mi pareva incredibile per adietro, quand’io udiva che sola Biancofiore era ancora da lui dimandata! E diceva: se ciò fosse vero, giá il duca e Ascalione me l’avrebbero fatto sentire. Ma io credo fermamente che la puttana l’abbia con virtuose erbe, o con parole, o con alcuna magica arte costretto, però che mai non si udí che femina con tanto amore durasse in memoria d’uomo, quanto costei è durata in lui. Ma certo a mio potere l’erbe e le incantagioni le varranno altresí poco: come a Medea valessono!».
- Poi che il re ebbe narrate queste cose, si tacque. La reina, dopo alcuno sospiro, cosí disse: «Oimè, ha egli ancora nella memoria Biancofiore? Certo, se questo è, negare non possiamo che in contrario non ci si volga la prosperevole fortuna passata. Io imaginava che egli piú non se ne ricordasse; ma poi che ancora gli è a mente, soccorriamo con pronto argomento». «Niun rimedio è sí presto come ucciderla» disse il re; «e acciò che infallibile sia il colpo, io la ucciderò con la propria mano». A cui la reina disse: «Cessino questo gl’iddii, che un re si possa dire che colpevole nella morte d’una semplice giovane sia, e che le mani vostre di sí vile sangue siano contaminate. Se noi la sua morte disideriamo, noi abbiamo mille servi presti a maggiori cose, non che a questa; ma noi, senza esser nocenti contra l’innocente sangue di lei, possiamo in buona maniera riparare: e ciò v’aveva giá piú volte voluto dire, ma ora, venuto il caso, vel dirò. Io intesi, pochi dí sono passati, che venuta era ne’ nostri porti, lá dove il Po le sue dolci acque mescola con le salse, una ricchissima nave, da che parte si venga non so, la quale, secondo che m’è stato porto, spacciato il suo carico, si vogliono partire: mandate per li padroni, e a loro sia Biancofiore venduta. Essi la porteranno in alcuna parte strana e molto lontana di qui, e di essa mai niuna novella si saprá: e a Florio date ad intendere che ella morta sia, faccendole fare nobilissima sepoltura e bella, acciò che piú la nostra bugia simigli il vero. Egli, credendo questo, poi s’ausera a disamarla».
- Niente rispose il re a’ detti della reina, ma in se medesimo alquanto rattemperato pensò di volere tal consiglio seguire, e seguendolo imaginò che senza fallo gli verrebbe il suo avviso fornito. E uscito della sua camera, a sé chiamò Asmenio e Proteo, giovani cavalieri e valorosi, e disse cosí a loro: «Senza alcuno indugio cercate i nostri porti la dove il Po s’insala: quivi n’è detto che una ricchissima nave è venuta; fate che voi la vediate, e conosciate di quella i padroni, e sappiate di qual paese viene, e di che è carica, e quando si dee partire, e ordinatamente tutto mi raccontate nella vostra tornata, la quale senza niuno indugio fate che sia».
- Mossersi i due giovani con quella compagnia che piacque loro, e, pervenuti a’ dimandati porti, montarono sopra la bella nave, ove elli onorevolmente ricevuti furono da Antonio e da Menone, signori e padroni di quella. E poi che Asmenio alquanto dimorato con loro fu, egli disse: «Belli signori, noi siamo cavalieri e messaggi dell’alto re di Spagna, ne’ cui porti voi dimorate; e siamo qui a voi venuti per essere di vostra condizione certi, e per sapere qual sia il vostro carico, e da quali liti vi siate con esso partiti, e che intendete di fare. Piacciavi adunque che di tutte queste cose noi al nostro signore possiamo rendere vera risposta». A cui Antonio, per etá e per senno piú da onorare, cosí rispose: «Amici, voi siate i ben venuti. Noi, brievemente, siamo ad ogni vostro piacere disposti, e però alla vostra dimanda cosí vi rispondiamo, e cosí a chi vi manda risponderete: il presente legno è di questo mio compagno e mio, i quali, egli Menone ed io Antonio siamo chiamati, e nascemmo quasi nelle ultime parti dell’Ausonico corno, vicino alla gran Pompea, vera testimonia delle vittorie ricevute da Ercole ne’ nostri paesi, e da lui edificata; e vegnamo dalli lontani liti d’Alessandria in questi luoghi, non volonterosi venuti, ma da fortunale tempo portati, nel quale gl’iddii, la mercé loro, ci hanno tanto di grazia fatta, che quasi tutto il carico della nostra nave abbiamo spacciato, il quale fu in maggior parte speziere, perle, oro, e drappi per le indiane mani tessuti; e intendiamo, ove piacere de’ nostri iddii sia, di cercare le sedie di Antenore, poste nell’ultimo seno di questo mare, quando avremo tempo; e quivi di quelle cose che per noi saranno, intendiamo di caricare la nostra nave, e di ritornare agli abbandonati liti. Se per noi si può far cosa che al vostro signore e a voi piaccia, come umilissimi servidori a’ vostri piaceri ci disponiamo». Assai gli ringraziarono i due cavalieri e ultimamente gli pregarono che non fosse loro noia alquanti giorni attendergli, però che con loro credevano dovere avere a fare. A cui essi risposero che uno anno, se tanto lor piacesse, gli attenderebbono.
- Tornarono i due cavalieri al re, e chiaramente ogni cosa udita da’ padroni gli narrarono. A’ quali il re disse: «Tornate ad essi, e dimandate loro se essi volessero una bellissima giovane comperare, la quale innumerabile tesoro ho cara, e con la risposta tacitamente tornate». Ripresero i cavalieri il cammino, e, ricevuti con amorosi accoglimenti, a’ mercatanti la loro ambasciata contarono, aggiugnendo che dalla bella giovane contro la real maestá grandissimo fallo era stato commesso, per lo quale morte meritava, ma il signore, pietoso della sua bellezza, non ha voluta privarla di vita: ma, acciò che il fallo non rimanga impunito, la vuoi vendere, sí come contato v’abbiamo. A cui i mercatanti risposero ciò molto piacere loro: e se bella era come contavano, nullo migliore comperatore d’essi se ne troverebbe. «Adunque» disse Asmenio, «recate i vostri tesori e venite con noi, acciò che voi veggiate che quello che vi diciamo è vero.»
- Caricati i mercatanti i loro tesori, e presi molti loro cari gioielli, coi due cavalieri se ne vennero a Marmorina, ove dal re furono onorevolmente ricevuti. E quando tempo parve al re di volere che essi vedessero Biancofiore, egli disse alla reina: «Va e fa venire la giovane». Al cui comandamento la reina andata in una camera dove Biancofiore era, disse: «O bella giovane, rallegrati, che picciolo spazio di tempo è a passare che il tuo Fiorio sará qui, e però adornati, acciò che tu gli possa andare davanti e fargli festa, e che egli non gli paia che le tue bellezze siena mancate. Corse al core di Biancofiore una subita letizia, udendo le false parole, e per poco non il core, abbandonato dalle interiori forze corse di fuori a mostrar festa, per debolezza perí. Ma poi che quelle tornate ciascuna nel suo luogo furono, Biancofiore s’andò ad ornare. Ella i dorati capelli con sottile artificio mise nel dovuto stile, e, sé di nobilissimi vestimenti vestita, sopra la testa si mise una bella e leggiadra coronetta, e con lieti sembianti cominciò ad attendere, disiderosa d’udire: ‛Ecco Florio!’.
- Il re fece chiamare i due mercatanti, e con loro senza altra compagnia se n’entrò in una camera, e disse loro: «Voi vedrete di presente venire una creatura di paradiso in questo luogo, la quale sará al vostro piacere, se assai tesori avete recati». E questo detto, comandò che Biancofiore venisse. Allora la reina disse a Biancofiore: «Andiamo nella gran sala, non dimoriamo qui, acciò che di lontano possiamo vedere il caro figliuolo». Mossesi Biancofiore soletta dietro alla reina, e venne nel luogo ove i due mercatanti dimoravano. E come l’aria, di nuvoli piena, porge alla terra alcuna oscuritá, la quale poi, partendosi i nuvoli, dai solari raggi con lieta luce è cacciata, cosí pareva che dove Biancofiore giungeva, nuovo splendore crescesse. Videro i mercatanti la bella giovane, e, ripieni d’ammirazione, appena credettero che cosa mondana fosse, dicendo tra loro che mai si mirabile cosa piú era stata veduta. Elli comandarono che di presente tutti i loro tesori fossero portati davanti al re, i quali venuti in grandissima quantitá, cosí dissero: «Signore, senz’altro mercatare, de’ nostri tesori prendete quella quantitá che a voi piace, ché noi non sapremmo a cosí nobile e preziosa cosa porre prezzo alcuno». «Assai mi piace», rispose il re. E di quelli prese quella quantitá che a lui parve e l’altra rendé loro. Ed essi, contenti di ciò che fatto aveva il re, sopra tutto ciò che preso aveva, gli donarono una ricchissima coppa d’oro, nel gambo e nel piè della quale con sottilissimo artificio tutta la troiana ruina era smaltata, cara e per magisterio e per bellezza molto. Dopo i ricevuti tesori, il re con sommessa voce cosí parlò a’ mercatanti: «A voi conviene, poi che comperata avete costei, senza niuno indugio dare le vele a’ venti, né piú in questi paesi dimorare, non forse nuovo accidente venisse per lo quale il vostro e mio intendimento si sturbasse». Dissero i mercatanti: «Signore, comandate alla giovane, poi che nostra è, che con noi ne venga, che noi non l’avremo prima sopra la nostra nave, che essendo il tempo ben disposto, sí come ci pare che sia, che noi prenderemo nostro cammino e sgombreremo i vostri porti, perché per noi non fa il dimorare».
- Voltassi allora il re a Biancofiore, e disse: «Bella giovane, a me ricorda che quando mi recasti nella festa della mia nativitá il velenato paone, io giurai per lo sommo Iddio e per l’anima di mio padre, e promisi al paone che in brieve tempo io ti mariterei a uno de’ grandi baroni del mio regno: e però, volendo il mio voto osservare, t’ho maritata, e il tuo marito si chiama Sardano, signore della antichissima Cartagine, a noi carissimo amico e parente. Egli con grandissima festa t’aspetta, sí come i presenti gentiluomini da sua parte a noi per te venuti ne dicono: però rallegrati. E poi che piacere è di lui, a cui oramai sarai cara sposa, con costoro n’andrai, e noi sempre per padre terrai, la ove bisogno ti fosse tale paternitá». Le cui parole come Biancofiore udí, tutta si cambiò nel viso e disse: «Oimè, dolce signore, e come m’avete voi maritata, che io nel gran pericolo in che fui, quando ingiustamente al foco fui condannata, per paura della morte, a Diana votai eterna virginitá, se dallo ingiusto pericolo mi campava?». «Come disse il re, «richiede la tua bellezza eterna virginitá, la quale a’ venerei atti è tutta disposta? Giunone, dea de’ santi matrimonii, ti rimetterá questo voto, poi che il suo numero accresci.» «Oimè!» disse Biancofiore, «io dubito che la vendicatrice dea giustamente meco non si crucci». «Non fará» disse il re, «e posto che ciò avvenisse, questo è fatto omai, non può indietro tornare. Tu dovevi dirlo avanti se cosí avevi promesso. Imeneo lieto e inghirlandato tenga nella vostra camera le sante facelline.» E questo detto, comandò che Glorizia sua maestra le fosse per servigiale donata, sí come della misera Giulia era stata, e che ella fosse da’ mercatanti tacitamente menata via, e i tesori riposti. Biancofiore, che i segreti ragionamenti e l’abito de’ mercatanti e i ricevuti tesori tutti avea veduti, e il tacito stile che il re nella sua partenza teneva, e similmente l’unica servitrice a lei donata, e le ingannevoli parole della reina che detto l’aveva: ‛Vieni, che il tuo Florio viene’, nella mente ogni cosa notata, tra sé dolendosi incominciò a dire: «Oimè, ch’è questo? In sí fatta maniera non sogliono andare le giovani a’ loro sposi, anzi si sogliono fare grandissime feste, e io con taciturnitá sono cercata di menar via. Né ancora si sogliono per le mie pari da’ mariti mandare tesori, anzi ne sogliono ricevere. Né ancora costoro paiono uomini atti a portare ambascerie di sí fatte bisogne, ma mi sembrano mercatanti; e i segreti mormorii mi danno cagione di dubitare. E ove s’usa ancora una giovane andare a sí fatto sposo, quale egli dice che m’ha donato, con una sola servitrice? Oimè, che tutte queste cose mi manifestano che sono ingannata! Io misera, nata per aver male, non maritata ma venduta credo ch’io sono, come schiava da’ pirati in corso presa. Oimè, che farò? Come io mi sia, o venduta o maritata, come potrò io abbandonare il bel paese ove il mio Florio dimora?». E questo dicendo, incominciò sí forte a piangere, che a forza mise pietá ne’ crudeli cuori del re e della reina. Ma il re ciò non sofferse di stare a vedere, anzi si partí per paura di non pentersi, e la seconda volta comandò che portata ne fosse.
- Giá lasciava Febo veder la sua cornuta sorella disiosa di tornare alquanto con la sua madre, quando i mercatanti, apparecchiati i cavalli, levarono Biancofiore di braccio alla reina semiviva, e con Glorizia insieme, di quindi partendosi, la ne portarono. E pervenuti alla loro nave, contenti di tale mercatanzia, lei sopra quella posero, apparecchiando la piú onorevole parte d’essa, e pregando gl’iddii che prospero viaggio loro concedessero. E date le vele ai venti, si partirono con Biancofiore da’ vietati porti, comandando che ricercati fossero i lasciati liti di Soria.
- Zefiro ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando correva sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti prosperamente con la loro nave andavano a’ disiderati liti. Ma Biancofiore, che ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta, con continuo pianto e con piú grave doglia, veggendosi dalli occidentali liti allontanare, incominciò a piagnere, e a dire cosí: «Oimè, dolorosa la vita mia, ove sono portata? Chi mi toglie da’ dolci paesi o v’io lascio l’anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali sono i mali, che io, per essere fedelissima soggetta alla tua signoria, sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e ora, come vilissima serva venduta, per te, non so dove io mi sia portata. Se queste cose fossero manifeste, chi s’arrischierebbe mai a seguire tua signoria? Deh, perché non mi uccidesti tu avanti, quando ne’ begli occhi di Florio m’apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi sostenere? Oimè, ch’io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui mani io misera debbo venire. Ma a niuno ne verrò che uguale tristizia non sia la mia, poi ch’io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui rivedere? Io sono portata lontana da lui ed egli nol sa: dunque dove sarò da lui ricercata? E io come potrò lui ricercare, ché la mia liberta è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maledetta sia tu, che si lungamente in tante tribolazioni mi se’ durata! O dolcissimo Florio, cagione del mio dolore, gl’iddii volessero che io veduto mai non ti avessi, poi che per amarti tante tribolazioni e tante avversitá sostener mi conviene. Ma certo se io mai rivedere ti credessi, ancora mi sarebbe lieve il sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m’ami? Io mi reputai giá grandissimo dono degl’iddii avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto piú caro l’essere stata morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire, e intanto mi veggio miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora facciano gl’iddii di me ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto tempo, nel quale giá potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo, ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallare non ci dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O misero Fileno, in qualunque parte tu vagabondo dimori, rallegrati, che io, cagione del tuo esilio, ti sono fatta compagna con piú misera sorte. A te è lecito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertá possiedi, ma la mia è venduta. Gl’iddii e la fortuna ora mi puniscono de’ mali che tu per me sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno, mai io non dimostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre di colui di cui io sono. Oimè, quanto m’è la fortuna contraria! Ma certo ciò non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a’ parenti ne’ loro atti: chi piú infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre, avvegna che di tutto io fossi cagione? E se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio. Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male. O iddii, provvedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: esse sono tutte adunate in me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l’avrai in tua balia, e potrai poi di quelle dare a chi ti piacerá. E tu, o Eolo, leva co’ tuoi venti le triste vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ov’è ora la rabbia de’ tuoi suggetti, che a’ troiani levò gli alberi e i timoni, e parte de’ loro uomini e delle navi? Risurga, acciò che piú non sia portata avanti. Io disidero di morire ne’ mari vicini al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate acque sopra i nostri liti, muova a pietá colui di cui egli è, e da capo con le proprie lagrime il bagni. Almeno abbassa la potenza del fresco vento che ci pinge alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri, acciò che negli abbandonati porti un’altra volta sieno gittate le tegnenti ancore, e quivi forse da Florio, che giá la mia partita dee aver sentita, sarò dimandata con maggiore quantitá di tesori a costoro. Niuna altra speranza m’è rimasa. In niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è sommò mio bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero? Io mi allungo ciascun’ora piú da te, o Florio, in cui l’anima mia rimane. E però rimanti con la grazia degl’iddii, li quali io priego che da sí fatta doglia com’io sento, ti levino. Pensa d’un’altra Biancofiore, e me abbi per perduta: li fati e gl’iddii mi ti tolgono. Io non credo mai piú rivederti, però che veggendomiti ciascun’ora piú fare lontana, disperata mi dispongo alla morte, la quale gl’iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n’hanno». E piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso, risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.
- I due mercatanti vedendo questo, dolenti oltra misura, lasciando ogni altro affare, corsero in quella parte, e di grembo a Glorizia la levarono, e lei non come comperata serva, ma come cara sorella si recarono nelle braccia, e con preziose acque rivocarono gli spaventati spiriti a’ loro luoghi, e cosí cominciarono a parlare a Biancofiore: «O bellissima giovane, perché ti sconforti? Perché piangendo e con ismisurato dolore vuoi te e noi insieme consumare? Deh, qual cagione ti conduce a questo? Piangi tu l’avere abbandonato il vecchio re, il quale, pieno d’iniquitá e di mal talento, piú la tua morte che la tua vita disiderava? Tu di questo ti dovresti rallegrare. E forse ti pare che la fortuna miseramente ti tratti, però che tu a noi costi la maggior parte dei nostri tesori, parendoti avere preso nome di comperata serva, sotto la qual voce non pare che lieta vita si debba poter menare: ma certo da tale pensiero ti puoi levare, però che noi non guarderemo mai a’ donati tesori per te, ma, conoscendo la tua magnificenza, in ogni atto come donna t’onoreremo. E se forse ti duole il dover cercare nuovi liti, imaginando quelli dovere essere strani e voti di varii diletti, de’ quali forse ti pareva la tua Marmorina piena, certo tu se’ ingannata, però che cola ove noi ti portiamo è luogo abbondevole di graziosi beni, pieno di valorosa gente, nel quale forse la fortuna ti concedera piú tosto il tuo disio che fatto non ti avrebbe onde ti partisti: però che noi spesso veggiamo che quelli luoghi che paiono piú atti a uno intendimento d’un uomo o d’una donna, quelli sono di quelli ne’ quali mai tale intendimento fornire non si può; e cosí ne’ luoghi non pensati avviene che l’uomo ha quello che ne’ pensati disiderava. I futuri avvenimenti ci sono nascosi. Il primo aspetto delle cose porge speranza di quello che dee seguire: tu ricca, tu graziosa, tu bellissima! Le quali cose pensando, manifestamente si dee credere che gl’iddii a grandissime cose t’apparecchiano, e che in te non dee potere lunga miseria durare. Piangano coloro a’ quali niuna speranza è rimasa. Noi ti preghiamo che ti conforti, con ciò sia cosa che noi manifestamente conosciamo che con aperte braccia felicitá non pensata t’aspetta, alla quale gl’iddii tosto te e noi con prosperevole tempo, come cominciato hanno, ci portino».
- Con pietose lagrime ascoltava Biancofiore le parole de’ confortanti, e avvegna che niuno conforto di quelle prendesse, nondimeno con rotta voce prometteva di confortarsi. Ma poi che i due mercatanti, parendola loro quasi avere riconfortata, la lasciarono con Glorizia, essa soletta in una camera della nave, donata a lei dai signori, si rinchiuse, e in quella con tacite lagrime sopra il suo letto cosí cominciò a dire: «O graziosissima Citerea, ov’è la tua pietá fuggita? Oimè, come tante lagrime di me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererá in te, se io, che piú fede t’ho portata, per te perisco? E quando verra il tuo soccorso, se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera me, che feci io che meritassi d’essere venduta? Ora m’avesse il re avanti uccisa con le proprie mani: almeno il termine de’ miei dolori sarebbe finito! Deh, pietosa dea, quand’io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo mi campasti: perché ora piú grave t’è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto dal mio Florio, né so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi propriamente ne’ tuoi regni venire ad abitare, e’ mi sarebbero noiosi senza Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi passò il core per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine, che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io piú viva languendo. Muovanti tante lagrime, quant’io mando nel tuo cospetto, a questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace, riconfortami la seconda volta col tuo santo raggio, il quale nell’oscura prigione, ov’io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura compagnia. Io vo senza alcuna speranza, se da te non m’è porta. Deh, non mi lasciare in tanta avversitá disperata, ma come il tuo pietoso Enea negli africani liti, a’ quali io, piú ch’io non disidero, giá m’appresso, confortasti con trasformata imagine, cosí di me ti dolga, e fammi degna del tuo soccorso. A te niuna cosa s’occulta. Il mio bisogno tu il sai: provvedimi senza indugio, acciò che il numero delle mie miserie non multiplichi. E tu, o vendicatrice Diana, nel cui coro io per difetto di virginitá non avrei minor loco, aiutami: io sono ancora del tuo numero, e disidero d’essere infino a quel tempo che l’inghirlandato Imeneo mi penerá a concedere liete nozze. Concedi che io possa i tuoi beneficii interi servare al mio Florio, al quale se i miei fati non concedono che essi pervengano, prima la morte m’uccida, che quelli tolti mi sieno». E mentre che Biancofiore queste parole tra sé tacita pregando dicea, soave sonno sopravvenutole, le parole e le lagrime insieme finirono.
- Diana, che dagli alti regni conosceva la miseria in che Biancofiore era venuta per le operazioni di lei, in sé medesima si reputò essere vendicata del non ricevuto sacrificio, e temperò le sue ire con giusto freno, e le sante orecchie piegò a’ di voti prieghi di Biancofiore; e li suoi scanni lasciati, a quelli di Venere se n’andò, e cosí le disse: «O Venere, sono alle tue orecchie pervenuti i pietosi prieghi della tua Biancofiore, come alle mie?». «Certo sí» rispose Citerea, «e giá di qui mi voleva muovere per andare a porgerle il dimandato conforto; ma tu, che niuna tua ira vuoi senza vendetta da te cacciare, lascia omai le soperchievoli offese, e perdona il disavveduto fallo alla innocente giovane, acciò che io non abbia cagione di contaminare i tuoi cori con piú asprezza. Tu non meno di me se’ tenuta di aiutare costei, però che, ben che essa aggia me col core servita e serva, nondimeno ella t’ha sempre con le operazioni servita, e ora a te, come a me, soccorso nella presente avversitá domanda.» «Adunque» disse Diana, «andiamo: le mie ire sono passate, e vera compassione de’ suoi mali porto nel petto; porgiamle il dimandato conforto.» A cui Venere disse: «Io la veggio sopra le salate onde vinta da angosciosi pianti soavemente dormire, ed esserne portata verso il mio monte, al quale luogo spero che il suo disio ancora farò con letizia terminare, avvegna che senza indugio essere non può per quello che per adietro hai adoperato».
- Senza piú parlare si partí il divino consiglio, e amendue le dee, lasciati i luoghi, con lieto aspetto nel sonno si mostrarono alla dormente giovane. E Diana, che in quell’abito proprio era che portar soleva alla caccia, inghirlandata delle frondi di Pallade, l’apparve, e cosí disse: «O sconsolata giovane, l’avermi ne’ sacrificii, renduti agli altri iddii per lo tuo scampo, dimenticata, giustamente verso di te mi fece turbare: per la qual turbazione, essendone io stata cagione, hai sostenute gravose avversitá; ma ora i tuoi prieghi hanno addolcita la mia ira, e divenuta sono verso te pietosa: per la qual cosa ti prometto che la dimandata grazia infino alla disiderata ora ti sará da me conceduta, né niuno sará ardito di levarti ciò che tu nel core hai proposto di guardare». Ma Venere, che tutta nel cospetto di Biancofiore di focosa luce sfavillava, involte le nude carni in un sottilissimo drappo porporino, e coronata dell’amate frondi di Febo, cosí le disse: «Giovane, a me divota e fedelissima suggetta, lascia il lagrimare, e nelle presenti avversitá e nelle future con eguale animo ti conforta. Tu hai, co’ tuoi prieghi, mosse a pietá le nostre menti, e spera che tu sarai da Florio ricercata: in quella parte nella quale piú ti parra impossibile di doverlo potere avere o vedere, tel troverai nelle tue braccia ignudo». E, queste cose dette, sparvero, e Biancofiore si svegliò: e lungamente pensando alle vedute cose, molto conforto riprese, e con lieto viso a Glorizia queste cose tutte raccontò, di che insieme prendendo buona speranza dí futura salute, fecero maravigliosa festa.
- Nettunno teneva i suoi regni in pace, ed Eolo prosperosamente pingeva l’ausonica nave a’ disiati liti, sí che, avanti che Febea, nel loro partimento cornuta, avesse i suoi corni rifatti eguali, essi pervennero all’isola che preme l’orgogliosa testa di Tifeo. E quivi, di rinfrescarsi bisognosi, la ove Anchise la lunga etá finí, presero porto, e, onorevolmente ricevuti in casa d’una nobilissima donna chiamata Sisife, a’ mercantanti di stretto parentado ’congiunta, piú giorni quivi si riposarono. Con la quale Sisife dimorando Biancofiore, e nella mente tornandole alcuna volta Florio e la dolente vita, la quale egli doveva sentire poi che saputo avesse la partita di lei, pietosamente piangeva, e con tutto che la sua speranza fosse buona e ferma, non cessava però di dubitare, né per quella poteva in niuno modo porre freno alle sue lagrime. La qual cosa Sisife vedendo un giorno cosí le disse: «Dimmi Biancofiore, se gl’iddii ogni tuo disio adempiano, qual è la cagione del tuo pianto? Io ti priego, s’egli è lecito che io la sappia, che non la mi celi, però che la grandissima pietá, che di te sento nel core, mi muove a questo voler sapere: la qual cosa, se tu mi dirai, tale potra essere che conforto o utile consiglio vi ti porgerò». A cui Biancofiore disse: «Nobile donna, niuna cosa vi celerei che dimandata mi fosse da voi, solo ch’io la sapessi: e però di ciò che dimandato m’avete, volontieri la vostra volontá sodisfarò, avvegna che invano consiglio o conforto mi porgerete. Io, dal mio nascimento sfortunata, non saprei da qual capo incominciare a narrarvi i miei infortunii, tanti sono e tali. Ma posto che sieno stati e sieno al presente molti, solamente amore mi fa ora lagrimare, con ciò sia cosa ch’io, piú che alcuna giovane fosse mai, mi ritrovo nella sua potenza costretta, per la bellezza d’un valoroso giovane chiamato Florio, figliuolo dell’alto re di Spagna, il quale è rimaso la ond’io misera mi partii con questi signori della nave, i quali me comperata schiava portano, e non so dove. E ben che l’essere io di costoro mi sia grave, leggerissima riputerei questa e ogni altra maggiore avversitá, se con meco fosse il signore dell’anima mia, o in parte che io solamente una volta il giorno vedere lo potessi. Ma non che alcuna di queste cose m’abbia la fortuna voluto concedere, ma ella solamente non sofferse che io vedere lo potessi nella mia partita, o udire di lui alcuna cosa: anzi ingannata e semiviva, e tutta delle mie lagrime bagnata, fui da Marmorina tratta fuori, ov’io l’anima e ogni intendimento ho lasciato con colui di cui io sono tutta. E senza fine mi maraviglio come dopo la mia partenza, considerando allo intollerabile dolore che io ho sostenuto, m’è tanto la vita durata: ma la morte perdona a’ miseri le piú volte!». E quindi lagrimando, bassò la testa, e tacquesi. E Sisife cosí le cominciò a parlare: «Bella giovane, non ti sconfortare: senza dubbio conosco il tuo infortunio essere grande e il dolore non minore che quello; ma per tutto questo, posto ch’hai tu perduto il luogo ove meno dolore che qui sentivi, non dee però essere da te a speranza fuggita. E, appresso, nella presente vita si conviene le impossibili cose rifiutare, e l’avverse con forte animo sostenere. Niuno fu mai in tanta miseria che possibile non gli fosse l’essere in brieve piú che altro felice. I movimenti della fortuna sono varii, e disusati i modi ne’ quali ella i miseri rileva a maggiori cose. Se a te pare impossibile di dover mai ritornare lá dove dí che Florio lasciasti, né mai speri di rivederlo, fa che tu ti sforzi d’imaginare di mai non averlo veduto, e ogni pensiero di lui caccia da te. E quando riposata sarai la ove costoro ti porteranno, tu ne vedrai molti de’ quali non potrá essere che alcuno non te ne piaccia, e niuno sará a cui tu non piaccia. Colui che ti piacerá, colui sará il tuo Florio. Non conviensi che la tua bellezza perisca per amore d’un giovane, il quale avere non si può oramai». Quando Biancofiore ebbe per lungo spazio ascoltato ciò che Sisife le parlava, alzò la testa e disse: «Oimè, quanto mal conoscete le leggi d’amore! Certo elle non sono cosí dissolubili come voi nel parlare le mostrate. Chi è colui che possa sciogliersi e legarsi a sua volonta in sí fatto atto? Certo colui che ’l fa, o che far lo può, non ama, ma impone a se medesimo falso nome d’amante: però che chi bene ama, non può mai obliare. E come per alcun altro potrò io dimenticare il mio Florio, il quale di bellezza, di virtú e di gentilezza ciascuno altro giovane avanza? E quando alcuna di queste cose in sé non avesse, n’è in lui una sola, per la quale mai per alcun altro cambiare nol dovrei: che esso ama me sopra tutte le cose del mondo». «Fermamente conosco» disse Sisife, «che tu ami, e che le tue lagrime da giusta pietá procedono; ma piacciati confortarti, ché impossibile mi pare che sí leale amore gl’iddii rechino ad altro fine, che a quello che tu ed esso disiderate.»
- Poi che i mercatanti furono alcuni giorni riposati, e il tempo parve al loro cammino salutevole, risaliti con Biancofiore sopra l’usato legno, a’ venti renderono le vele, e con tranquillo mare infino all’isola di Rodi se n’andarono. Quivi il tempo mostrando di turbarsi, scesero in terra, e con Bellisano, nobilissimo uomo del luogo, per piú giorni dimorarono. E Biancofiore, dalle paesane ricevuta non come serva, ma come nobilissima donna, da tutte fu onorata, e, mentre quivi dimorarono, da tutte confortata fu, dandole speranza di futuro bene. Ma ritornato la terza volta il tempo da’ padroni dimandato, in su la nave risalirono. E giá la nuova luna cornuta di sé gran parte mostrava, quando essi allegri pervennero a’ dimandati porti, ove il cammino e la fatica insieme finirono.
- Quivi pervenuti, a’ venti tolsero le vele e dierono gli acuti ferri a’ tegnenti scogli, e con fido legame fermarono la loro nave. E da quella con grandissima festa discesi, ringraziando i loro iddii, cercarono la cittá, e in quella con la bella giovane entrati, da Dario alessandrino furono graziosamente non senza grandissimo onore ricevuti, e massimamente Biancofiore. E in questo luogo per alquanti giorni dimorati, vi venne un signore nobilissimo e grande, il quale era amiraglio del possente re di Babillonia, e per lui tutto quel paese sotto pacifico stato si possedeva. Il quale, come la bella nave vide, fece a sé di quella venire i padroni, e dimandolli qual fosse la loro mercatanzia, e onde venissero. A cui i mercatanti risposero: «Signore, noi lasciammo i liti quasi all’ultimo Occidente vicini, e quindi abbiamo, senza altra cosa piú, recata una nobilissima giovane, in cui è piú di bellezza che mai in alcuna altra si vedesse, la quale un grandissimo re, in quelle parti signoreggiante, ci donò per una grandissima parte de’ nostri tesori che noi a lui donammo». Disse allora l’amiraglio: «Venga adunque la giovane, la cui bellezza voi fate cotanta, e se sí bella è come la vantate, e di nobili parenti discesa, e ancora casta virginitá tiene, de’ nostri tesori quelli che vorrete prenderete e donereteci lei». Piacque a’ mercatanti, e per lei incontanente mandarono, la quale, di nobilissimi vestimenti vestita e ornata, insieme con Glorizia davanti all’amiraglio si presentò. Il quale graziosamente la ricevette, e non sí tosto la vide, come a lui parve la piú mirabile bellezza vedere che mai per alcuno veduta fosse, e comandò che a’ mercatanti fosse donato a loro piacere dei suoi tesori. E poi ch’egli ebbe di lei da loro ogni condizione udita, pietoso de’ suoi affanni cosí disse: «Io giuro per li miei iddii che omai piú la fortuna non potra esserle avversa: alle sue tribolazioni io con grandissima felicitámi voglio opporre, e voglio provare se la fortuna la potrá fare piú misera che io felice. E’ non passerá lungo tempo che il mio signore dee qui venire, al quale io intendo, in loco di riconoscenza di ciò ch’io tengo da lui, donare questa bellissima cosa, né conosco che gioia piú cara donar gli potessi. E sí prometto per l’anima del mio padre che tra le sue mogliere io farò che questa sará la principale, e sí farò la sua testa ornare della corona di Semiramis; e infino a quel tempo che questo sará tra molte altre giovani, le quali a simil fine si tengono, la farò come donna di tutte onorare, e sotto diligente guardia servare, con tutti que’ diletti e beni che alcuna giovane dee potere disiderare». E questo detto, comandò che onorevolmente alla gran torre dell’Arabo, insieme con Glorizia, fosse menata Biancofiore, e quivi con l’altre giovani donzelle dimorasse faccendo festa. Di questo furono assai contenti i mercatanti, sí per lo loro avere, il quale avevano forse nel doppio moltiplicato, e sí per la giovane a cui prosperevole stato vedevano promesso dal signore, che ben lo poteva attenere. E a lei rivolti, con pietose parole la confortarono, e da essa piangendo partirono, e pensarono d’altro viaggio fare con la loro nave. E quella, posta con l’altre pulcelle molte nella gran torre, non senza molto dolore, infino a quel tempo che agl’iddii piacque la promessa di Venere fornire, dimorò.
- Giá all’iniquo re di Spagna, partita Biancofíore, pareva avere il suo disio fornito; ma ancora pensando che necessitá gli era la sua malvagitá con falso colore coprire, imaginò di far credere che Biancofiore fosse morta, acciò che Florio, sentendo quella morta essere, dopo alcuna lagrima la dimenticasse. E, preso questo consiglio, per molti maestri mandò segretamente, a’ quali senza niuno indugio comandò che fosse fatta una bellissima sepoltura d’intagliati marmi, allato a quella di Giulia. La quale compiuta, preso un corpo morto d’una giovane quella notte sepellita, la mattina, co’ vestimenti di Biancofíore e con molte lagrime, la fece sepellire, dicendo che Biancofíore era: e questo con tanto ingegno fece, che niuno era nella cittá che fermamente non credesse che Biancofiore fosse morta, da coloro in fuori a cui di tale inganno il re fidato s’era. E, questo fatto, mandò a Montorio a Florio un messaggiere, il quale cosí gli disse: «Giovane, il tuo padre ti manda a dire che se a te piace di volere Biancofiore vedere avanti ch’ella di questa vita passi, che tu sia incontanente a Marmorina, però che subitamente un’asprissima infermitá l’ha presa, per la qual cosa appena credo che ora viva sia». Non udí sí tosto Florio questo, com’egli tutto si cambiò nel viso, e senza rispondere parola, ristretto tutto in sé si turbò e quivi semivivo cadde, e dimorò tanto spazio di tempo in tale stato, che alcuno non era che morto nol reputasse. Il vermiglio colore s’era fuggito del bel viso, e la vita appena in alcun polso si ritrovava; ma poi ch’egli pure fu per alcuni in vita ancora essere conosciuto, con preziosi unguenti e acque, dopo molto spazio, con molta sollecitudine furono i suoi spiriti rivocati: e tornato in sé aperse gli occhi, e intorno a sé vide il duca e Ascalione piangendo, i quali con pietose parole il riconfortavano, e altri molti con loro. A’ quali egli dopo un grandissimo sospiro disse: «Oimè, perché m’avete voi, credendo piacere, disservito? L’anima mia giá contenta andava per li non conosciuti secoli vagando senza alcuna pena, ma voi ora a dolersi l’avete richiamata. Oimè, ora sento che la lunga paura, che i’ ho avuta della vita di Biancofiore, m’è nell’avvisato modo con pericoloso accidente venuta adosso. Quale infermitá potrebbe sí subita sopravvenire a una fresca giovane, che a morte in un momento la inducesse? Fermamente che a forza è da’ miei parenti stata la mia Biancofiore a questa morte recata, se morta è, o se ora morra». E levatosi, comandò che i cavalli venissero, e preso il cammino con molta compagnia, cercando giá il sole l’occaso, sempre piangendo se n’andò verso Marmorina, cosí nel suo pianto dicendo:
- «O gloriosi iddii, della cui pietá l’universo è ripieno, porgete le sante orecchie alquanto a’ prieghi miei, e non mi sia da voi negata l’usata benignita tornando crudeli: discenda da’ cieli il vostro aiuto in questo espressissimo bisogno. Venga la vostra grazia, d’ogni noioso accidente cacciatrice, sopra la innocente giovane Biancofiore, la quale ora per noiosa infermitá pare che si disponga a rendervi la graziosa anima. Sostengasi per vostra pietá la sua vita, e siale renduta la perduta sanitá, e la giovane etá, nella quale essa dimora, prima di lei si consumi. Non muoiano in una morte due amanti. O buono Apollo, o luminoso Febo per cui ogni cosa ha vita, ascolta i miei prieghi! Non consentire che tanta bellezza alla tua simigliante per mortal colpo al presente perisca. O Citerea, o Diana, aiutate la vostra giovane. O qualunque iddio dimora nel celestiale coro, sturbate da costei morte, acciò che io, a voi fedelissimo servidore, viva. O Lachesis, tieni ferma l’ordita conocchia, composta da Cloto tua fatale sorella, non lasciare ancora il dilettevole uficio, dove sí corto affanno infino a qui hai sostenuto. E tu, o morte, generale e infallibile fine di tutte le cose, in cui la maggior parte della mia speranza dimora, quasi imaginando che in te stia quella salute la quale io cerco, non mi consumare ferendo la mia Biancofiore: dilungati da lei per li miei prieghi. In te sta il donarlami e il torlami. Deh, non essere tuttavia crudele! Vincasi questa volta la tua fierezza, e pietosa ti volgi a riguardare con quanta umiltá i miei prieghi ti sono porti, e riguarda quanta sia la noia che ricevo, se contra la bella giovane incrudelisci. Oimè, che io nol posso dire, ma il mio aspetto te lo deve manifestare. Oimè, perdona, risparmiando un solo colpo, allo infinito valore che dal mondo si partirebbe morendo questa. Perdona a tanta bellezza quant’ella possiede. Non si fugga per te tanta leggiadria quanta in costei si vede, né si diparta per lo tuo operare il fedele amore che insieme lungamente ci ha tenuti legati con pura fede, il quale a mano a mano se la ferissi, per lo tuo medesimo colpo si ricongiungerebbe. Aimè, raffrena per Dio il tuo volere: leva la pungente saetta che giá in sul tuo arco mi pare veder posta, per uccidere colei in cui gl’iddii piú di grazia che in alcuna altra posero. Sostieni che nel mondo si veggia costei per mirabile esempio delle celestiali bellezze. Se alcuni prieghi ti deono far pietosa, faccianti i miei, e questo sia senza indugio alcuno. Io non temo niuna cosa se non te. Riguarda le mie lagrime, e il palido aspetto giá dipinto della tua sembianza: solo questa grazia mi concedi, la quale se dura t’è a concederlami, concedi che quella saetta che il tuo arco dee nel dilicato petto di lei gittare, prima il mio trapassi, acciò che dopo il trapassare della mia Biancofiore io non rimanga per doverti biasimare, e piú la tua crudeltá far manifesta nella poca vita che mi lascerai».
- Mostravasi giá il cielo d’infiniti lumi acceso, quando cosí piangendo e parlando Florio entrò in Marmorina: per la quale tacito e senza niuna festa, maravigliandosi e dubitando, passò insino che alle reali case pervenne. Nelle quali entrato con la sua compagnia, e da cavallo smontato, e salendo su per le scale, la perfida madre gli si fè incontro con dolente aspetto. A cui Florio, come la vide, dimandò che di Biancofiore fosse, se migliorata era, e come stava, ché egli avanti venire non la vedeva. Alla cui domanda la madre niente rispose, ma abbracciandolo cominciò a lagrimare, e lui menò davanti al padre che nella gran sala sedeva, vestito di vestimenti significanti tristizia, tenendo crucciato aspetto, con molta compagnia.
- Levossi l’iniquo re alla venuta del figliuolo, e fattoglisi incontro, lui teneramente abbracciò e baciò, dicendo: «Caro figliuolo, assai mi sarebbe stato caro che ad altra festa la tua tornata fosse stata, o almeno piú sollecita, acciò che lecito ti fosse stato d’aver veduta la vita in colei, la cui morte ora con pazienza ti conviene sostenere: e però come savio, con forte animo ascolta le mie parole. E siati manifesto che la bellissima Biancofiore è stata chiamata al glorioso regno, lá ove le sante opere sono guiderdonate. E in quello Giove e gli altri beati della sua andata si rallegrano, i quali, invidiosi forse di tanto bene quanto noi per la sua presenza sentivamo, l’hanno a loro fatta salire. E ben che ella lietamente viva ne’ nuovi secoli, a noi grandissima noia ne’ cuori di tale partita è rimasa, però che infinito amore le portavamo, sí per la virtú e per la piacevolezza di lei, e sí per I’ amore che sentivamo che tu le portavi. Ma però che né nuova cosa né inusitata è stata la sua partita, ma cosa la quale ogni giorno avvenire veggiamo, e a noi similmente con forte animo aspettarla conviene senza speranza di poterla fuggire, ci conviene con pazienza tale accidente sostenere, e prendere conforto: però che sapere dobbiamo che per grieve doglia da noi sostenuta non sarebbe a noi renduta la cara giovane. Adunque, caro figliuolo, confortati, ché se gl’iddii ci hanno costei tolta, elli non ci hanno levato il poterne una piú bella cercare e averla. Noi te ne troveremo una la quale piú bella e di reale prosapia sará discesa, e a te in loco di Biancofiore per cara sposa la congiungeremo. Certo ella nella sua vita affannata da mortale infermitá e giá presso al suo passare, ebbe tanta memoria di te, che, chiamati me e la tua madre, con lagrime sopra le nostre anime impose che noi con ogni sollecitudine ti dovessimo del suo trapassare rendere conforto, e pregarti che per quello amore che tra te e lei era nella presente vita stato, che tu ti dovessi confortare, e niente ti dolessi, però che ella sí vedeva grazioso luogo apparecchiato ne’ beati regni, ne’ quali essendo, se le tue lagrime sentisse, molto la sua beatitudine mancherebbe. E questo detto, con pietoso viso, e col tuo nome in bocca, rendé l’anima agl’immortali iddii: e però noi cosí te ne preghiamo, e per parte di lei e per la nostra. Ella ha lasciati i mondani affanni: non le volere porgere nuova pena, ché doppiamente offende chi contro a coloro opera, che dopo la loro morte sono beatificati. Confortati, e della sua morte inanzi gioia che tristizia prendi, imaginando ch’ella in cielo, ove ora dimora, di te e dell’amore, che mentre fu di qua ti portò, si ricorderá, per merito del quale ragionando con gl’iddii delle tue virtú, li fará verso di te benivoli: la qual cosa senza grandissimo bene di te non potra essere».
- Con grandissima pena sostenne Florio le parole dell’iniquo re, ma poi ch’egli si tacque, Florio, gittata una grandissima voce, disse: «Ahi, malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore, tu m’hai ingannato e tradito!». E messesi le mani al petto, dal capo al piè tutto si stracciò la bella roba, e cadde di terra con le pugna serrate, e con gli occhi torti nel viso senza alcun colore rimase, risomigliando piú persona morta che viva. Ma dopo picciolo spazio ritornato in sé, e alzata la testa di grembo alla madre, comiciò a dire: «O iniquo re, perché l’hai uccisa? Che aveva la giovane commesso ch’ella meritasse morte? Tu se’ stato cagione della morte di lei, e ora credi con lusinghevoli parole sanare la piaga che il tuo coltello m’ha fatta, la quale mai altro che morte non sanerá. Ora se’ contento, iniquo re! Omai hai quello che tu lungamente hai disiderato: ma io ti farò tosto di tal festa tornare dolente!». E poi ricadde in grembo alla madre tramortito. E cosí piangendo e battendosi, senza volere udire alcun conforto da nullo che vi fosse, tutta la notte stette, faccendo piangere chiunque il vedeva, tanto era pietoso il suo parlare, che col doloroso pianto mescolato faceva.
- Era la misera madre insieme con Florio piangendo, quando il nuovo giorno apparve, e con alcune parole lui confortare non poteva. A cui egli disse: «Siemi mostrato il luogo ove la mia Biancofiore giace senza anima». A cui la madre rispose: «Come vuoi tu andare in tal maniera a visitare la sepoltura di Biancofiore? Vuoi tu far fare beffe di te? Rattempera il tuo dolore in prima, e poi temperato quello v’andremo, ché certo niuna persona è che ora vi ti vedesse, che non credesse che tu fossi del senno uscito: e io similmente senza fine di te mi maraviglio, non sappiendo onde questo si muova. Oimè misera, ora hai tu perduto ogni sentimento in Montorio, che tu voglia, per una giovane di sí piccola condizione come fu Biancofiore, consumarti e privarmi di te, di cosí nobile figliuolo? Hai tu paura che un’altra giovane non si trovi piú bella di Biancofiore? Ci sará! A’ nostri regni non è guari lontano il nobilissimo re di Granata, il quale si può gloriare della piú bella figliuola che mai niuno uomo del mondo avesse: ella ti sará sposa, se ti vorrai confortare». A cui Florio disse: «Reina, non volere ora porgere con lusinghevoli parole conforto colá dove con inganno hai messo tristizia: folle è colui che per medico prende il nemico da cui avanti è stata ferito a morte. Fammi mostrare dove giace colei che voi uccisa avete, e a cui l’anima mia si dee oggi accompagnare». Piangendo allora la reina, con lui, al quale niuno colore era nel viso rimaso, e i cui occhi aveano per lo molto piangere intorno a sé un purpureo giro, ed essi rossi erano rientrati nella testa, e con molti altri si misero in via, lui menando al tempio. Al quale andando Florio, ovunque egli giungeva vedeva genti piene di dolore, e nuovo pianto faceva cominciare, tanta era la pietá che ’l suo aspetto porgeva a chi ’l vedeva. E dopo alquanto pervennero al tempio dove Giulia sepolta stava, e dove le non vere scritte lettere significavano che quivi Biancofiore morta giacesse.
- Nel qual tempio entrati, la reina mostrò a Florio la sepoltura nuova, e disse: «Qui giace la tua Biancofíore». La quale come Florio vide, e le non vere lettere ebbe lette, incontanente perduto ogni conoscimento, quivi tra le braccia della madre cadde, e in quelle semivivo per lungo spazio dimorò. Quivi corsa quasi tutta la cittá, di doppio dolore compunti, facevano sí gran pianto e sí gran romore, che se Giove allora gli spaventatori de’ Giganti avesse mandati, non si sariano uditi. Ciascuno era tutto stracciato e di lugubre veste vestito, e gli uomini e le donne, e quasi tutti credevano Florio morto giacere nelle braccia della reina: per la qual cosa il piangere Biancofiore aveano lasciato, e tutti Florio miseramente piangevano. Ma poi che Florio fu per lungo spazio cosí dimorato, il core rallargò le sue forze, e ritornate tutte per gli smarriti membri, Florio si dirizzò in piè, e cominciò a piagnere fortissimamente, e a gridare e a dire: «Oimè, anima trista, ove se’ tu tornata? Tu ti cominciavi giá a rallegrare, parendoti essere da me disciolta e cercare nuovi regni. Oimè, perché hai tornato il diletto che tu sentivi, parendoti che io fossi morto, in grieve noia, rendendomi la vita? Ora di nuovo sento i dolori che la trista memoria aveva messi in oblio, mentre che tu in forse fuori di me dimorasti» . E, appresso questo, gittatosi sopra la nuova sepoltura, incominciò a dire: «O bellissima Biancofíore, ove se’ tu? Quali parti cerca ora la tua bella anima? Deh, tu solevi giá con lo splendore del tuo bel viso tutto il nostro palagio dilettevole di luce far chiaro: come ora in picciolo loco, tra freddi marmi, se’ costretta di patire noiosa oscuritá? Misera la mia vita, che tanto senza te dura! O dilicati marmi, cui mi celate voi? Perché colei che piú che altro piacque agli occhi miei, mi nascondete? Voi forse insieme col mio nimico padre, invidiosi de’ miei beni, mi celate quello di che piú mi dilettai di vedere, serbando la natura d’Aglauro, con voi insieme d’una qualitá tornata. Ma se gl’iddii ancora vi concedano d’esser lieti ornamenti de’ loro altari, apritevi, e concedetemi che io veggia quel viso che giá assai fiate vedendolo mi consolò, il quale veduto, possa contento prendere spontanea morte. Sostenete che gli occhi miei nel picciolo termine della vita loro servata abbiano questa sola consolazione, poi che lecito non fu a loro, anzi ch’ella mutasse vita, rivederla. O inanimato corpo, come non t’è egli possibile una sola volta richiamare la partita anima, e levarti a rivedermi? Io l’ho dalla passata sera in qua richiamata a me tante volte: richiamala tu una sola, e solamente la tieni tanto che tu mi possa morendo vedere seguirti. Oimè, Biancofiore, quale doloroso caso mi t’ha tolta? Deh, rispondimi, non t’odi tu nominare al tuo Florio? Deh, qual nuova durezza è ora in te, che ’l mio nome che ti solea cotanto piacere non è da te ascoltato, né alle mie voci risposto? Come ha potuto la morte tanto adoperare che ’l vero e lungo amore tra noi stato si sia in poco di tempo partito? Oimè, giorno maladetto sia tu! Tu perderai insieme due amanti. O Biancofiore, io, misero, fui della tua morte cagione! Io, o misera Biancofiore, t’ho uccisa per la mia non dovuta partenza, per ubbidire al mio nemico! I’ ho perduta te, dolcissima amica. Oimè, che troppo amore t’è stato cagione di morte. Io ti lasciai paurosa pecora intra rapaci lupi. Ma, certo, amore mi conducerá a simigliante effetto, e com’io ti sono stato cagione di morte, cosí mi credo ti sarò compagno. Io solo ti poteva dare salute, la quale omai dare né avere io posso. Gl’iddii e la fortuna e il mio padre e la morte hanno avuto invidia a’ nostri amori. Io, o morte perfidissima, s’io credessi che mi giovasse, il tuo aiuto dimanderei con benigna voce. Certo tu se’ stata in parte che essere dovresti pietosa e ascoltare i miseri; ma però che i miseri e quelli che piú ti chiamano sono piú da te rifiutati, io con aspra mano ti costrignerò di farti venire a me». E posta la destra mano sopra l’aguto coltello, incominciò a dire: «O Biancofiore, leva su e guatami: apri gli occhi avanti ch’io muoia, e di me prendi quella consolazione ch’io di te avere non potei. Io ti farò fida compagnia. Io per seguirti userò l’uficio della dolente Tisbe, avvegna ch’ella piú felicemente l’usasse ch’io non farò, in quanto ella fu dal suo amante veduta. Ma io non farò cosí. Io vengo: riceva la tua anima la mia graziosamente, e quell’amore che tra noi nel mortale mondo è stato, sia nell’eterno». E questo detto, si levò di sopra la sepoltura, la quale dalle sue lagrime era tutta bagnata, e tirato fuori l’aguto ferro, dicendo: «Il misero titolo della tua sepoltura, o Biancofiore, sará accompagnato da quello del tuo Florio», si volle ferire con esso nell’angoscioso petto. Ma la dolente madre con fortissimo grido prese il giovane braccio e disse: «Non fare Florio, non fare, rattempera la tua ira, e non voler morire per colei che ancora vive». Il romore si levò grandissimo nel tempio, e il pianto e le grida non lasciavano udire niuna cosa. Ma poi che Florio da molti fu preso, e trattogli della crudele mano l’aguto coltello, egli piangendo disse: «Perché non mi lasciate morire, poi che la cagione m’avete porta? Questa morte potrá indugiare alquanto ma non fallire. Consentite inanzi ch’io muoia ora, ch’io viva con piú dolore infino a quel termine che, senza essere tenuto, mi fia lecito d’uccidermi». «O caro figliuolo, perché il tuo padre e me, e tutto il nostro regno tanto vuoi far miseri? Confortati, che la tua Biancofiore vive.» A cui Florio rivolto disse: «Le vostre parole non mi inganneranno piú; con niuna falsitá piú potrete la mia vita prolungare». «Certo» disse la reina, «ciò che della sua morte t’abbiamo parlato, senza dubbio è stato falsamente detto: ma al presente noi non ti mentiamo.» «E come poss’io credere» disse Florio, «che voi ora diciate il vero, se per adietro usati siete di mentire?» Disse la reina: «Di questo veramente mi puoi credere al presente; e se ciò forse credere non volessi, i tuoi occhi te ne possono rendere testimonianza, che questa che qui giace è un’altra giovane, e non Biancofiore». «E come questo esser può» disse Florio, «che tutta Marmorina piange la morte sua, e ciascheduno rende testimonianza d’averla veduta mettere in questo luogo?» «Di ciò non mi maraviglio» disse la reina, «che certo quelli che qui la misero credono che ella sia. Ma noi per darti questo a credere, acciò che tu la dimenticassi, demmo la voce che morta era Biancofiore, e una giovane morta in quell’ora che tal voce demmo, tratta dalla sua sepoltura occultamente, ornata de’ vestimenti di Biancofiore, qui a sepellire la mandammo: e che questa sia un’altra, com’io ti dico, tu il puoi vedere.» E fatta aprire la sepoltura, a tutti si manifestò che quella non era Biancofiore, ma un’altra giovane. «Adunque disse Florio, «Biancofiore dov’è?» «Ella non è qui al presente», disse la reina; «ov’ella sia, andianne al nostro palagio, e tel dirò.» «Certo, io dubito ancora de’ vostri inganni», disse Florio; «voi avete in alcun altro luogo sotterrata la giovane, e ora col darmi ad intendere che viva sia, e che in altra parte mandata l’avete, volete la mia vita prolungare: ma ciò niente è a pensare.» «Fermamente» disse la reina, «Biancofiore è viva. Partiamci di qui, che tutto ti dirò nel nostro palagio come la cosa è andata senza parola mentire.»
- Allora si levò in piè Florio, e con la reina, e altra compagnia assai, tornarono nel loro palagio, dove il re doloroso a morte di queste cose, le quali tutte avea sapute, trovarono. E quivi pervenuti, e trattisi tacitamente in una camera, la reina cominciò cosí a dire a Florio: «Noi, il tuo padre e io, sentendo che in niuna maniera Biancofiore dal core ti poteva uscire, ben che lontano le dimorassi, proponemmo di pur volere ch’ella di mente t’uscisse, e tra noi dicemmo: ‛Giá mai questa giovane del core non uscirá a Florio mentre vivrá, ma s’ella morisse, a forza dimenticargliela converrá, vedendo che impossibile sia ad averla’. E quasi deliberammo d’ucciderla: poi per non volere essere nocenti sopra il giusto sangue di lei, mutammo consiglio, e a ricchissimi mercatanti, venuti ne’ nostri mari per fortuna, fattigli qua venire, infinito tesoro la vendemmo loro, ed essi ci promisero di portarla in parte sí di qui lontana, che mai alcuna novella per noi se ne sentirebbe. E come essi l’ebbero portata via, noi comandammo che la nuova sepoltura fosse fatta, nella quale dando voce che Biancofiore era morta, con occulto ingegno quella giovane che dentro vedesti vi facemmo mettere, credendo fermamente che dopo alquante lagrime il tuo dolore insieme con lei dimenticassi. E però a te, come a savio, senza fare queste pazzie, le quali hai da questa sera in qua fatte, ti conviene confortare, e fare ragione che mai veduta non l’avessi, e lasciarla andare. Noi ti daremo la piú bella giovane del mondo e la piú gentile per compagnia, e quella t’imagina che sia la tua Biancofiore».
- Quando Florio ebbe queste cose dalla madre udite, teneramente cominciò a piagnere, e cosí alla madre disse: «O dispietata madre, ov’è fuggito quell’amore che a me, tuo unico figliuolo, portare solevi? Qual tigre, qual leone, qual altro animale irrazionale ebbe mai di tanta crudeltá, che piú benigno verso li suoi nati non fosse che tu non se’ verso di me? Come, poi che tu conoscevi l’amore ch’io portava a Biancofiore, potesti tu mai consentire o pensare che sí vile cosa di lei si facesse come fu venderla? Deh, ora ella t’era come figliuola, e tu come figliuola la solevi trattare quando io c’era: or che ti fece ella che tu cosí subitamente incrudelire verso di lei dovessi? L’altre madri sogliono francare le serve amate da’ figliuoli, ma tu la libera hai fatta serva perché io l’amo. Oimè, che ’l tuo core con quello del mio padre è divenuto di ferro! Da voi ogni pietá è fuggita. In voi niuna umanitá si trova. A voi che faceva s’io amava Biancofiore, o se ella amava me? Perché ne dovevate voi entrare in tanta sollecitudine? Io credo che in te è entrato lo spirito di Progne o di Medea. Ma la fortuna mi fará ancora vedere che il crudele vecchio e tu, vinti da focosa ira di voi medesimi, con dolente laccio caricherete le triste travi del nostro palagio, con peggiore agurio che Aragne non fece quelle del suo. E io ne farò mio potere, rallegrandomi se la fortuna mi concederá di vederlo, e dirò allora che mai gl’iddii niuna ingiusta cosa lasciano senza vendetta trapassare. Voi in prima con ardente foco la morte della innocente giovane cercaste, la quale io con l’aiuto degl’iddii e col mio braccio campai, punendo degnamente colui che di tale torto, in servigio del mio padre, si faceva difenditore: cosí avessi io con la mia spada voi due puniti, quando in questo palagio lei paurosa vi rendei! Ma certo, se allora ella fosse morta, io con lei moriva. Ora l’avete venduta e mandata in lontane parti, acciò che io pellegrinando vada per lo mondo. Ma volessero i fati ch’ella fosse ora qui, che io giuro, per quegl’iddii che mi sostengono, che io piú miseramente di qui partire vi farei che Saturno, da Giove cacciato, non si partí da Creti! E allora provereste qual fosse l’andare tapini per lo mondo, come a me converrei provare, infino a tanto ch’io ritroverò colei la quale con tutti ingegni vi siete di tòrmi ingegnati. E certo se non fosse che io non ho il core di pietra, sí come voi avete, io non vi lascerei di dietro a me con la vita, ma non voglio che di tale infamia, pellegrinando, la coscienza mi rimorda. Voi avete disiderata la mia morte, della quale poi che gl’iddii non ve n’hanno voluti far lieti, né io altresí ve ne voglio rallegrare, ma inanzi voglio lontano a voi vivere che presenzialmente della morte rallegrarvi».
- Faceva la reina grandissimo pianto, mentre che Florio diceva queste parole, dicendo: «Oimè, caro figliuolo, che parole son queste che tu di? Cessino gl’iddii che tu possa vedere di noi ciò che tu ne disideri di vedere, avvegna che niuna maraviglia sia del tuo parlare, imperciò che, sí come adirato, parli senza consiglio. Niuna creatura t’amò mai tanto, né potrebbe amare, quanto tuo padre e io t’abbiamo amato e amiamo: e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua vita piú gloriosa si consumi, che oramai non fará, l’abbiamo adoperato. Adunque perché ci chiami crudeli, e disideri la nostra morte? Maladetta sia l’ora che il tuo padre gl’innocenti pellegrini assalí. Ora avesse egli almeno tra tanta gente uccisa colei che nel suo ventre la nostra distruzione in casa ci recò! Ella niuna cosa disiderava tanto quanto la morte, e intra mille lance stette e niuna l’offese. I suoi iddii, piú giusti che’ nostri, non vollero che tale ingiuria rimanesse impunita. Ora mi veggio venire adosso quello che detto mi venne ignorantemente, quando la maladetta giovane per noi nacque, la quale recandolami in braccio, dissi lei dovere essere sempre compagna e parente di te. Ora il veggio venire a esecuzione».
- Il re in un’altra camera dimorava dolente, in sé tutti i casi ripetendo dall’ora che il misero Lelio aveva ucciso infino a quest’ora, maladicendo sé e la sua fortuna; e, ricordandosi di ciò che di Marmorina gli era stato contato, e del morto cavaliere nel suo cospetto, le cui parole ritrovò mendaci, si pensò tutto quello essere piacere degl’iddii, al volere de’ quali niuno è possente a resistere. E però in sé propose di volere per inanzi con piú fermezza d’animo lasciare a’ fati muovere queste cose, che per adietro non aveva fatto. Ma Florio, cambiato viso e mostrandolo meno dolente, lasciò la madre piangendo nella camera, e, rivestito d’altre robe, pervenne nella gran sala, la dov’egli molti di tale accidente trovò che parlavano. Egli si fece quivi chiamare il vecchio Ascalione e Parmenione e Menedon e Massalino, a’ quali e’ disse cosií: «Cari amici e compagni, quanta forza sia quella d’amore a niuno di voi credo che occulta sia, però che ciascuno, si com’io penso, le sue forze ha provate. E la dove questo non fosse, manifestare vi si puote, se mai di Elena, o della dolente Dido, o dello sventurato Leandro o d’altri molti avete udito parlare: de’ quali chi l’eterno onore con vituperevole infamia non curava d’occupare, chi di perdere la propria vita si metteva in avventura per pervenire a’ disiati effetti, e chi una cosa e chi un’altra faceva per pervenire al disiato fine. E, ultimamente, ove a tutti gli esempli detti di sopra mancasse per lungo trapassamento di tempo degna fede, in me misero si puote la sua inestimabile potenza conoscere, per la quale dagli anni della mia puerizia in qua ho tanto amato e amo Biancofiore, che ogni esempio ci sarebbe scarso. E certo in alcuno amore i fati non furono mai tanto traversi quanto nel mio sono stati, però che senza alcuno diletto infinite avversitá me ne sono seguite, e ora in quelle piú che mai sono. E che l’amore di Biancofiore abbia sopra me grandissima forza e muovami a grandi cose, potrete appresso per le mie parole comprendere. Com’io v’ho detto, dalla mia puerizia fu Biancofiore piú che ogni altra cosa amata da me: del quale amore non prima il mio padre s’avvide, che sotto scusa di mandarmi a studiare, mandandomi a Montorio, da lei mi dilungò, pensando che per lontanarmi ella mi si partisse dal core, dove con catena da non potere mai sciogliere la legò amore in quell’ora ch’ella da prima mi piacque. E questo non bastandogli, acciò che piú intero il suo iniquo volere si fornisse, lei a morte falsamente fece condannare: ma gl’iddii che le malfatte cose non sostengono, prestandomi il loro aiuto, fecero sí ch’io di tal pericolo la liberai. Della qual cosa il mio padre dolente, dopo lungo indugio vedete quello che egli ha fatto: che egli lei, sí come vilissima serva, a’ mercatanti ha venduta, e mandatala non so in che parte. E perché questo non pervenisse a’ miei orecchi, falsamente mostrò che Biancofiore di subita infermitá morta fosse, un’altra giovane morta in forma di lei sotterrando: della qual cosa io sono senza fine turbato. E certo, se lecito fosse di mostrare la mia ira contra al mio padre e alla mia madre, io non credo che mai di tale accidente tale vendetta fosse presa qual io prenderei! Ma non m’è lecito, e dubito che gl’iddii ver me non se ne crucciassero. Ora è mio intendimento di giá mai posare, infino a tanto che colei cui io piú che altra cosa amo, ritrovata avrò. Ciascun clima sará da me cercato, e niuna nazione rimarrá sotto le stelle la quale io non cerchi. Io sono certo, in qual parte ella sia, se noi vi perverremo, la fama della sua gran bellezza ce lo manifesterá, né ci si potrá occultare. Quivi, o per amore o per ingegno o per denari o per forza intendo di riaverla. E però ho fatto chiamare voi, sí come a me piú cari, per caramente pregarvi che della vostra compagnia mi sovvegnate, e meco insieme volontario esilio prendiate: e massimamente te, Ascalione, le cui tempie giá per molti anni bianchissime, piú riposo che affanno domandano, acciò che sí come padre e duca e maestro ci sii, perché tutti siamo giovani, e niuno mai fuori de’ nostri paesi uscí. E il ricercare i non conosciuti luoghi senza guida ci saria duro, né ti dispiaccia la nostra giovane compagnia, però che come figliuoli i tuoi passi divotamente seguiremo. E in veritá questo, di che io te e gli altri priego, e il mio partire di qui, credo che degl’iddii sia piacere, acciò che i miei giovani anni non si perdano in accidiose dimoranze: con ciò sia cosa che noi non ci nascemmo per vivere come bruti, ma per seguire virtú, la quale ha potenza di fare con volante fama le memorie degli uomini eterne, cosí come le nostre anime sono. Adunque voi ancora come me giovani, non vi sia grave, ma al mio priego vi piegate, e qualunque di voi in ciò come fedele amico mi vuole servire liberamente di sí risponda, senza volermi mostrare che la mia impresa sia meno che ben fatta: ché quello ch’io fo, io ’l conosco, e invano ci balestrerebbe parola chi s’ingegnasse di farmene rimanere».
- Tacque Florio, e Ascalione cosí gli rispose: «O caro a me piú che figliuolo, tu mostri nella fine delle tue parole di me avere poca fidanza, e simile nel pregare che fai, di che io mi maraviglio. Certo non che a’ tuoi prieghi ma a’ tuoi comandamenti, se la mia vecchiezza fosse tanta che il bastone per terzo piede mi bisognasse, mai dalla tua signorevole compagnia né da’ tuoi piaceri mi partirei infino alla morte. Ben conosco come amore strigne: e però muovati qual cagione vuole, che me per duca e per vassallo mi t’affero a seguirti infino alle dorate arene dell’indiano Gange e infino alle veloci acque del Tanai, e per li bianchi regni del possente Borea, e nelle velenose regioni di Libia, e, se necessario sia, ancora nell’altro emisperio verrò con teco. Le quali parti tutte cercate, di dietro a te negli oscuri regni di Dite discenderò, e se via ci sani d’andare alle case de’ celestiali iddii, con te insieme le cercherò, né mai da me sarai lasciato mentre lo spirito sará con meco». Cosí appresso ciascuno degli altri giovani risposero, e si proffersero lieti sempre al suo servigio, dicendo di mai da lui non partirsi per alcuno accidente, e che piú piaceva loro per l’universo con lui affannare, che nel suo regno, senza lui, in riposo vivere. Allora li ringraziò Florio tutti, e pregolli che senza indugio ciascuno s’apprestasse di ciò che a fare avesse, ch’egli intendeva con loro insieme di partirsi al nuovo giorno vegnente appresso a quello.
- Queste cose dette, se n’andò davanti al re, che dolente dimorava e pensoso, e cosí gli disse: «Poi che voi avete gl’infiniti tesori, presi della vendita di Biancofiore, piú cari che la mia vita o che la mia presenza, assai mi spiace, però che da voi partire mi conviene, e andare pellegrinando infine a tanto ch’io trovi colei cui voi con inganno m’avete levata, né mai nella vostra presenza credo di ritornare se lei non ritrovo, la quale ritrovata, forse a voi con essa ritornerò: priegovi che vi piaccia ch’io vada con la vostra volontá». Udendo il re queste cose, il suo dolore raddoppiò, e, non potendo le lagrime ritenere, alzò il viso verso il cielo, dicendo: «O iddii, levimi per la vostra pietá la morte da tante tribolazioni! Non si distendano piú i giorni miei: troppo son vivuto! Chi avrebbe creduto ch’io fossi venuto nell’ultima etá ad affannare?». Poi rivolto a Florio cosí gli disse: «O caro figliuolo, che mi domandi tu? Tu sai ch’io non ho, né ebbi mai altro figliuolo che te, e in te ogni mia speranza è fermata. Tu devi il mio grande regno possedere, e la tua testa si dee coronare della mia corona. Tu vedi che la mia vita è poca oramai, e i miei vecchi membri ciascuno cerca di riposarsi sopra la madre terra: la quale vita se forse troppo ti pare che duri, prendi al presente la corona. Oimè, or che cerchi tu, poi che a tanto onore se’ apparecchiato? Dove ne vuo’ tu ire? Che vuo’ tu cercare? E chi sará colui, mentre che tu vivi, che nell’ultimo mio di degnamente mi chiuda gli occhi? Oimè, caro figliuolo, dalla nativitá del quale in qua i’ ho sempre per te tribolazioni intollerabili sostenute, concedi questa sola grazia a me vecchio. Fammi questa sola consolazione, che io sopra la mia morte ti possa vedere. Statti meco que’ pochi giorni che rimasi mi sono della presente vita. A te non si conviene d’andare cercando quello che cercare vuoi: e se pure cercare vuoi colei, falla cercare ad altri, o indugiati dopo la mia morte a ricercarla, però che male sarebbe, se io in quel termine che tu fuori del reame stessi, passassi ad altra vita, e convenisse che tu fossi cercato».
- Florio allora cosí rispose: «Padre, impossibile è che io rimanga, e veramente io non rimarrò: io in persona sarò colui che la cercherò; e se voi mi concedete ch’io vada, io v’andrò, e se voi non lo mi concedete, ancora andrò. Dunque piacciavi ch’io vada con la vostra licenza, acciò ch’io, della vostra grazia avendo buona speranza, se mai avviene che io colei cui vo cercando ritrovi, possa con piú sollecitudine e con maggiore sicurta tornare a voi. Né crediate che niuna grande impromessa che mi facciate qui ritenere mi potesse, ché certo tutti i reami del mondo alla mia volonta sommessi mi sarebbero nulla senza Biancofiore. Se forse la mia partita quanto dite vi grava, ciò, inanzi che voi la vedeste, dovevate pensare, acciò che, vedendola, cagione non mi donaste di pellegrinare: però che conoscere dovevate me tanto amarla, che, ove che voi la mandaste, la seguirei. Gli avvenimenti di dietro poco vagliono o niente».
- Vedendo il re Florio disposto pure ad andare, né poterlo con parole rivolgere da tale intendimento, cosí gli disse: «Caro figliuolo, assai mi duole il non poterti da questa andata levare, e però essa ti sará conceduta, e con la mia grazia andrai; ma concedi a me e alla tua madre, co’ quali tu giá è tanto tempo non se’ stato, che alquanti giorni della tua dimoranza ci possiamo consolare, e poi con l’aiuto degl’iddii prendi il cammino». A cui Florio rispose a ciò non essere disposto, ché troppo gli pareva aver perduto tempo, e però senza indugio aveva proposto di partirsi. A cui il re disse: «Figliuolo, a te, dunque, omai stia il partire, fermato ho nell’animo d’abbandonarti a’ fati, e di sostenere questo accidente, e ogni altro che di te per inanzi m’avvenisse, con forte animo: però che quanto io per adietro a quelli ho voluto con diversi modi resistere, tanto mi sono trovato assai piú adietro del mio intendimento, e veduto ho le cose di male in peggio seguire. Ma poi che disposto se’ all’andare, fa primieramente prendere tutti i tesori che della tua Biancofiore ricevemmo, e degli altri nostri assai, e quelli porta con teco, e in ogni parte ove la fortuna ti conduce fa che cortesemente e con virtú la tua magnificenza dimostri: e appresso prendi de’ cavalieri della nostra corte quelli che a te piace, sí che tu sia bene accompagnato. E poi che rimanere non vuoi, va in quell’ora che li nostri iddii in bene prosperino i passi tuoi, a’ quali acciò che piú breve affanno s’apparecchi, primieramente cercherai le calde regioni d’Alessandria, però che a quelli liti i mercatanti, che Biancofiore ne portarono, mi dissero di dovere andare. La quale se mai avviene che tu ritrovi, e che il tuo disio di lei s’adempia, o caro figliuolo, senza rimanere in niuna parte ti priego che tosto a me ritorni, però che mai lieto non sarò se te non riveggo. E se prima che tu torni si dividerá l’anima mia dal vecchio corpo, dolente se n’andrá agl’infernali fiumi: la qual cosa gl’iddii priego che non consentano».
- Fece allora Florio prendere i molti tesori e fare l’apprestamento grande per montare sopra una nave, posta nel corrente Adice, vicino alle sue case. La qual cosa vedendo la reina uscí della sua camera, e bagnata tutta di lagrime venne a Florio nella sala dove con li compagni dimorava, e disse: «O caro figliuolo, che è quello ch’io veggio? Hai tu proposto d’abbandonarci cosí tosto? Ove ne vuoi tu ire? Che vuoi andare cercando? Oimè, come cosí subitamente ti parti da me? Non pensi tu quanto tempo egli è passato che io non ti vidi, se non ora? E con tanta tristizia t’ho veduto, che se veduto non t’avessi, mi sarebbe piú caro! Deh, per amor di me, non ti partire al presente. Non vedi tu le stelle Pliadi, le quali pure ora cominciano a signoreggiare? Aspetta il dolce tempo nel quale Aldebaran col gran pianeta insieme surge sopra l’orizzonte: allora Zefiro levandosi fresco aiuterá il tuo cammino, e il mare, lasciato il suo orgoglio, pacifico si lascerá navigare. Deh, non vedi tu tempo ch’egli è? Tu puoi vedere ad ora ad ora il cielo chiudersi con oscuro nuvolato, e, levandoci la vista de’ luminosi raggi di Febo, di mezzogiorno ne minaccia notte: e poi di quello puoi udire sol versi terribilissimi tuoni e spaventevoli corruscazioni e infinite acque. E tu ora vuoi i non conosciuti regni cercare, ne’ quali se tu fossi, non saria tempo di partirsene per tornare qui? Deh, or non ti muove a rimanere la pietá del tuo vecchio padre, il quale tu vedi che del dolore che sente di questa partita si consuma tutto? Non ti muove la pietá di me, tua misera madre, la quale ho de’ miei occhi per te fatte due fontane d’amare lagrime? Oimè, caro figliuolo, rimani. Ove vuoi tu ire? Tu vuoi, per cercare quello che tu non hai, lasciare quello che possiedi, né forse avrai giá mai? Tu vuoi cercare Biancofiore, la quale non sai ove si sia: e se pure avvenisse che la trovassi, chi credi tu che sia colui che a te forestiere e strano la rendesse? Non credi tu che le belle cose piacciano altrui come a te? Chiunque l’avrá, la terrá forse non meno cara che faresti tu. Lasciala andare, e diventa pietoso a istanza de’ miei prieghi. E se non vuoi avere di noi pietá, increscati di te medesimo e de’ tuoi compagni, e non volere in questo tempo abbandonarti alle marine onde, le quali niuna fede servano, avvegna che esse con li loro bianchi rompimenti mostrano le tempeste ch’elle nascondono, e i venti similmente senza alcuno ordine trascorrono, ora l’uno ora l’altro, e fanno strani e pericolosi ravvolgimenti di loro in mare, e sogliono in questi tempi con tanta furia assalire i legni opposti alle loro vie, che essi rapiscono loro le vele e gli alberi con dannoso rompimento, e talora loro percuotono a’ duri scogli, o li tuffano sotto le pericolose onde. Témperati e rimanti di questa andata al presente: la qual cosa se tu non farai, piú tosto delle dure pietre e delle salvatiche querce sarai da dire figliuolo, che di noi. E se a te e a’ tuoi compagni, i quali paurosi ti seguitano conoscendo questi pericoli, farai questo servigio di rimanere, io m’auserò di sostenere la futura noia, pensando continuamente che da me ti debbi partire, né mi sará poi la tua andata sí noiosa come al presente sará, se subitamente m’abbandoni». A cui Florio rispose: «Cara madre, per niente prieghi, e dell’audacia che di pregarmi hai mi maraviglio. Fermamente, se io giá col capo in quelli pericoli che tu m’annunzi mi vedessi, io piú tosto consentirei d’andare giuso e di morire in quelli, che di tornare suso per dovere con voi rimanere, però che sí fattamente avete l’anima mia offesa, che mai da me perdonato non vi sará, infino a tanto che io colei cui tolta m’avete, non riavrò. E però voi rimarrete, e io co’ miei compagni, come la rosseggiante aurora mostrerá domattina le sue vermiglie guance, ci partiremo sopra la nostra nave, la quale forse ancora qui carica tornerá del mio disio».
- Piangendo allora la reina, che pure Florio fermo a tale andata vedeva, cosí disse: «Figliuolo, poi che né priego né pietá ti può ritenere, prendi questo anello, e teco il porta, e ognora che ’l vedi della tua misera madre ti ricorda. Egli fu dell’antichissimo Iarba re de’ Getuli, mio antico avolo: e acciò che tu piú caro il tenga, siati manifesto ch’egli ha in sé mirabile virtú. Egli ha potenza di fare grazioso a tutte genti colui che seco il porta, e le cocenti fiamme di Vulcano fuggono e non cuocono nella sua presenza, né è ricevuto negli ondosi regni di Nettunno chi seco il porta. Il mio padre, pacificato col tuo, quando a lui per isposa mi congiunse, il mi donò acciò che graziosa fossi nel suo cospetto. Egli ti potrá forse assai valere se ’l guardi bene. Priegoti, se vuoi, che il tornare sia presto: e priego quegl’iddii, li quali, vinti da’ molti prieghi, graziosamente ti ci donarono, che essi ti guardino e conservino sempre, e a noi tosto con allegrezza ti rendano» . Prese Florio l’anello, e quello per caro dono ritenne; e lei lasciata, a’ suoi compagni si ritornò.
- Sentí Feramonte, duca di Montorio, di presente, l’inganno fatto a Florio, e la partenza che far doveva de’ suoi regni; onde egli chiamato Fineo, valoroso giovane e suo nipote, la signoria di Montorio infino alla sua tornata gli assegnò, e senza alcuno dimoro a Marmorina se ne venne a Florio. Il quale, lui e i compagni trovati, narrata la cagione della sua venuta, pregò Florio che in compagnia gli piacesse di riceverlo in tale affare. Il quale Florio ringraziò assai, e lui per compagno benignamente ricolse, pregandolo ch’egli s’apprestasse per venire il seguente giorno.
- Acconci i molti arnesi e i gran tesori nella bella nave, e Florio e’ suoi compagni e’ servidori tutti di violate veste vestiti, e i corredi della ricca nave e i marinari similmente, la notte sopravvenne, e i suoi compagni per riposarsi in una camera insieme se n’andarono, nella quale del loro futuro cammino entrati in diversi ragionamenti, Florio cosí cominciò a parlare: «Cari amici, quanto la potenza del mio padre sia grande a tutto il mondo è manifesto, e similmente ch’io gli sia figliuolo, e il grande amore che ho portato e porto a Biancofiore è da molti saputo: per la qual cosa nuovo dubbio m’è nell’animo novamente nato. Noi non sappiamo certamente in che parte Biancofiore sia stata portata, né alle cui mani ella sia venuta, onde io cosí dico: se egli avvenisse che noi forse portati dalla fortuna pervenissimo lá ove Biancofiore fosse, tale persona la potrebbe avere, che sentendo il mio nome, di noi dubiterebbe, e lei occultamente terrebbe infino che nel loco dimorassimo, e massimamente i mercatanti, che di qua la portarono. E se forse lei possente persona tenesse, sentendomi nel suo paese, ragionevolmente m’avrebbe a sospetto, e di quello mi caccerebbe, o in quello forse occultamente m’offenderebbe, o lei guardando da’ nostri aguati, con maggiore guardia serverebbe: per la qual cosa, acciò che ’l mio nome non possa porgere ad alcuni temenza, o insidie a noi, mi pare che piú non si deggia ricordare, ma che in altra maniera mi deggiate chiamare, e il nome il quale io ho a me eletto è questo: Filocolo. E certo tal nome assai meglio che alcun altro mi si confá, e la ragione per che io la vi dirò. Filocolo è da due greci nomi composto, da e ‛philos’e da e ‛colon’; e ‛philos’in greco tanto viene a dire in nostra lingua quanto ‛amore’ e ‛colon’in greco similmente tanto in nostra lingua resulta quanto ‛fatica’: onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, Fatica d’Amore. E in cui piú che in me fatiche d’amore sieno state e siano al presente non so: voi l’avete potuto e potete conoscere quante e quali esse sieno state, sicché, chiamandomi questo nome, l’effetto suo s’adempierá bene nella cosa chiamata, e la fama del mio nome cosí s’occulterá, né alcuno per quello spaventeremo: e se necessario forse in alcuna parte ci fia il nominarmi dirittamente, non c’è però tolto. Piacque a tutti l’avviso di Florio e il mutato nome, e cosí dissero da quell’ora inanzi chiamarlo, infino a tanto che la loro fatica terminata fosse con grazioso adempimento del loro disio.
- Mentre la notte con le sue tenebre occupò la terra, i giovani si riposarono, e la mattina levati, accesero sopra gli altari di Marmorina accettevoli sacrificii al sommo Giove, a Venere, a Giunone, a Nettunno e ad Eolo e a ciascheduno altro iddio, pregandoli divotamente che per la loro pietá porgessero ad essi grazioso aiuto nel futuro cammino. E, fatti con divozione i detti sacrificii, s’apparecchiarono a montare sopra l’adorno legno con la loro compagnia nobile e grande. Ma venuti alla riva del fiume, videro quello con torbide onde piú corrente che la passata sera non era: per la qual cosa mutato consiglio, comandarono a’ marinari che la nave menassero nel porto d’Alfea, e quivi li attendessero. Ed essi, fatti venire i cavalli, e montati, con molte lagrime dal re e dalla reina, e dagli amici e da’ parenti, dando le destre mani, dicendo addio, si partirono: e lasciata Marmorina, al loro viaggio presero il meno dubbioso cammino.
- LIBRO QUARTO
- Il volonteroso giovane, abbandonate le sue case con poco dolore, sollecita i passi de’ compagni, seguendo quelli d’Ascalione, ammaestratissimo duca del loro cammino: ma i fati da non poter fuggire volsero in arco la diritta via. E primieramente venuti alla guazzosa terra ove Manto crudelissima giovane lasciò le sua ossa con eterno nome, passarono oltre per lo piacevole piano. Ma, poi che dietro alle spalle s’ebbero le chiare onde di Secchia lasciate, e saliti sopra i fronzuti omeri d’Appennino, e discesi di quello, essi si trovarono nel piacevole piano del fratello dell’imperiale Tevere, vicini al monte donde gli antichi edificatori del superbo Ilion si dipartirono. Qui vi s’apersero gli occhi d’Ascalione, e forte si maravigliò della travolta via, ignorando ove i fortunosi casi li portassero; ma senza parlarne a’ compagni, passando allato alle disabitate mura da Giulio Cesare e da’ compagni costrutte negli antichi anni, per uno antico ponte passarono l’acqua. Né però verso Alfea diritto cammino presero, avvegna che picciolo spazio la loro via forse per piú sicurtá elessero piú lunga, o che gl’iddii, a cui niuna cosa si cela, volenterosi a tal cammino li dirizzassero; e pervennero nella solinga pianura, vicina al robusto cerreto nel quale fuggito era il misero Fileno. E quivi trovandosi, l’acqua venuta per subita piova dalle vicine montagne rovinosa avanzò i termini del picciolo fiume che appiè dell’alto cerreto correva, e di quelli abbondevolmente uscí allagando il piano: onde costretti furono a ritirarsi sopra ’l cerruto colle, forse di maggiore pericolo dubitando. E quivi tirandosi, di lontano videro tra gli spogliati rami antichissime mura, alle quali, forse imaginando che abitazione fosse, s’accostarono, ed entrarono in quelle, né piú tosto vi furono, che il luogo essere stato tempio degli antichi iddii conobbero. Quivi piacque a Filocolo di fare sacrificii a’ non conosciuti e strani iddii, poi che i fati nel tempio recati li avevano: e fatte levare l’erbe e le fronde e i pruni cresciuti per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure degl’iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, dimandò che un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevoli a tale uficio, fece sopra l’umido altare accendere odorosi fuochi; e con le proprie mani uccise il toro, e le interiora di quello per sacrificio nell’acceso fuoco divotamente offerse; e poi inginocchiato dinanzi all’altare, con divoto animo incominciò queste parole: «O iddii, se in questo luogo diserto ne abita alcuno, ascoltate i prieghi miei, e non ischifi la vostra deitá il modo del mio sacrificare, il quale non forse con quella solennitá che altre volte ricevere solavate, è stato fatto; ma, riguardando alla mia puritá e alla buona fede, il ricevete, e a’ miei prieghi porgete le sante orecchie. Io giovane d’anni e di senno, oltre al dovere innamorato, pellegrinando cerco d’adempiere il mio disio, al quale senza il vostro aiuto conosco impossibile di pervenire, onde meriti la divozione avuta nel vecchio tempio, e l’adornato altare, e gli accesi fuochi con gli offerti doni, ch’io da voi consiglio riceva del mio futuro cammino, e, con quello, aiuto alla mia fatica». Egli non aveva ancora la sua orazione finita, ch’egli senti un mormorio grandissimo per lo tempio, soave come pietre mosse da corrente rivo, il quale dopo picciolo spazio si risolse in soave voce, né vide onde venisse, e cosí disse: «Non è per lo insalvatichito luogo mancata la deitá di noi padre di Citerea abitatore di questo tempio, cui tu divotamente servi, e dal quale costretti siamo di darti risponso; e perciò che con divoto fuoco hai li nostri altari riscaldati, lungamente dimorati freddi, molto maggiormente meriti d’avere a’ tuoi divoti prieghi vera risponsione de’ futuri tempi, e però ascolta. Tu, partito domane di questo luogo, perverrai ad Alfea: quivi la mandata nave t’aspetta, nella quale dopo gravi impedimenti perverrai all’isola del Fuoco, e quivi novelle troverai di quello che tu vai cercando. Poi di quindi partitoti, perverrai dopo molti accidenti nel luogo ove colei che tu cerchi dimora, e lá non senza gran paura di pericolo, ma senza alcun danno, la disiderata cosa possederai. Onora questo luogo, però che quinci ancora si partirá colui che i tuoi accidenti con memorevoli versi fará manifesti agli ignoranti, e ’l suo nome sará pieno di grazia». Tacque la santa voce. E Filocolo, di ammirazione e di letizia pieno, tornò a’ compagni, e a loro il consiglio degl’iddii ordinatamente recitò; e di questo contenti tutti a prendere il cibo nel salvatico luogo si disposero.
- Era nel non conosciuto luogo davanti al vecchio tempio un praticello vestito di palida erba per la fredda stagione, nel quale una fontana bellissima si vedea, alle cui onde la piovuta acqua niente aveva offeso, ma chiarissime dimoravano, e nel mezzo di quella a modo di due bollori si vedeva l’acqua rilevare. Alla quale Filocolo, uscito del tempio, appressandosi, gli piacque, e, chiara vedendola, divenne disideroso di bere di quella, e fecesi un nappo d’ariento portare; e con quello dall’una delle parti si abbassò sopra la fontana per prenderne, e, abbassato, col nappo alquanto le chiare onde dibatté. E questo faccendo, vide quelle gonfiare, e fra esse sentí non so che gorgogliare, e dopo picciolo spazio, il gorgogliare volgersi in voce e dire: «Bastiti, chi che tu sia che le mie parti molesti con non necessario rivolgimento, che io senza essere molestato, o molestarti, mitighi la tua sete, né perisca il fraternale amore, perché io, che giá fui uomo, sia ora fonte». A questa voce Filocolo tutto stupefatto tirò indietro. la mano, e quasi che non cadde, né i suoi compagni ebbero minore maraviglia; ma dopo alquanto spazio, Filocolo rassicuratosi cosí sopra la chiara fonte parlò: «O chi che tu sia, che nelle presenti onde dimori, perdonami se io t’offesi, ché non fu mio intendimento, quando per le tue parti sollazzandomi menava il mio nappo, d’offendere ad alcuno. Ma se gl’iddii da tal molestia ti partano e le tue onde chiare conservino lungamente, non ti sia noia la cagione per che qui relegato dimori narrarci, e chi tu se’, e come qui venisti e onde, acciò che per noi la tua fama risusciti, e, i tuoi casi narrando, di te facciamo ancora pietose molte anime, se pietá meritano i tuoi avvenimenti».
- Tacque Filocolo, e l’onde tutte si cominciarono a dimenare, e dopo alquanto spazio, una voce cosí parlando uscí dal vicino luogo a’ due bollori: «Io non so chi tu sia, che con cosí dolci parole mi costringi a rispondere alla tua domanda; ma però che maravigliare mi fai della tua venuta, non sará senza contentazione del tuo disio, solo che ad ascoltarmi ti disponga; e però che piú mia condizione ti sia manifesta, dal principio de’ miei danni ti narrerò i miei casi. E sappi ch’io fui di Marmorina, terra ricchissima e bella e piena di aobilissimo popolo, posseduta da Felice, altissimo re di Spagna, e il mio nome fu Fileno, e giovane cavaliere fui nella corte del detto re. Nella quale corte una giovane di mirabilissima bellezza, il cui nome era Biancofiore, con la luce de’ suoi begli occhi mi prese tanto il core del suo piacere, che mai uomo di piacere di donna non fu sí preso. Niuna cosa era che io per piacerle non avessi fatto, e giá molte cose feci laudevoli per amor di lei. Io ricevetti da lei, un giorno che la festivitá di Marte si celebrava in Marmorina, un velo col quale ella la sua bionda testa copriva, e quello per sopransegna portato nella palestra, sopra tutti i compagni per forza ricevetti l’onore del gioco. E da Marmorina partitomi andai a Montorio, dove un figliolo del detto re chiamato Florio dimorava; e quivi in sua presenza i miei amorosi casi narrai, ignorando che esso Biancofiore piú ch’altra cosa amasse, come poi detto mi fu ch’egli faceva: per le quali cose narrate meritai a torto d’essere da lui odiato. Questa fu principale cagione de’ miei mali, però che, s’io avessi taciuto, ancora in Marmorina dimorerei, contentandomi di poter vedere quella bellezza per la quale ora lontano in altra forma dimoro. Ma non essendo io ancora di Marmorina partito, poco tempo appresso della fatta narrazione, Diana, pietosa del crudele male che mi si apparecchiava, in sonno mi fece vedere infinite insidie poste da Florio alla mia vita, e similmente mi fece sentire i colpi che la sua spada e quelle de’ suoi compagni s’apparecchiavano di dovermi dare. Le quali cose vedute, e narrandole io poi ad un mio amico, il quale de’ segreti di Florio alcuna cosa sentiva, m’avverò quello che io veduto aveva, essermi senza alcun fallo apparecchiato, s’io da Marmorina non mi partissi. Seguitai adunque il consiglio del mio amico, e abbandonata Marmorina, e cercati molti luoghi, e pervenuto qui, mi piacque qui di finire la mia fuga, e di pigliare questo luogo per eterno esilio: e ancora mi parve solingo e rimoto molto, ond’io imaginai di poterei senza impedimento d’alcuno nascosamente piangere l’abbandonato bene, e cosí lungamente il piansi. Ma né per le mie lagrime, né per l’essere lontano mancava però lo verace amore ch’io portava e porto a colei che piú bella che altra mi pareva, anzi piú ciascun giorno mi costringeva e molestava molto. Laond’io un giorno incominciai con dolenti voci a pregare gl’iddii del cielo e della terra e qualunque altri che i miei dolori terminassero, e infinite volte dimandai e chiamai la morte, la quale impossibile mi fu di potere avere. Ma pure pietá del mio dolore vinse gl’iddii, li quali chiamando, come ho detto che faceva, sedendo in questo luogo, mi sentii sopra subitamente venire un sudore e tutto occuparmi, e, dopo questo, ciò che quello toccava in quello medesimo convertiva, e giá volendomi con le mani toccare e asciugare quello, né la cosa disiderata toccava, né la mano sentiva l’usato uficio adoperare, ma mi sentiva nel muovere de’ membri e nel toccarsi insieme né piú né meno come l’onde cacciate l’una dal vento e l’altra dalla terra insieme urtarsi: per che io incontanente me conobbi in questi liquori trasmutato, e mi sentii occupare questo luogo, il quale io poi con la gravezza di me medesimo ho piú profondo occupato. E cosí trasmutato, solo il conoscimento antico e il parlare dagl’iddii mi fu lasciato. Né mai mancarono lagrime a’ dolenti occhi, i quali nel mezzo di questa posti, da essi, come da due naturali vene, surge ciò che questa fontana tiene fresca, come voi vedete. E quella verdura sottile, che in alcuna parte copre le chiare onde, fu il velo della bella giovane col quale io coperto m’era quel giorno che con tanto affetto la morte disiderava, acciò che sotto la sua ombra, pensando di cui era stato, mi fosse piú dolce il morire: e, come vedete, ancora mi copre, ed èmmi caro. Ora per le mie parole potuto avete tutto il mio stato comprendere, il quale io quanto piú brevemente ho potuto t’ho dichiarato: non ti sia dunque grave il manifestarmi a cui io mi sono manifestato».
- Ascoltando Filocolo le parole di Fileno, si ricordò lui di tutto dire la veritá, e cominciò quasi per pietá a lagrimare, e cosí gli rispose: «Fileno, pietá m’ha mosso de’ tuoi casi a lagrimare; e certo io sovverrò al tuo dimando, poi che al mio se’ stato cortese, e non senza consolazione delle tue lagrime ascolterai le mie parole. E primieramente siati manifesto che io mi chiamo Filocolo, e sono di paese assai vicino alla tua terra, nato di nobili parenti, e per quello signore per lo quale tu in lagrime abbondi e in dolore, io similmente pellegrinando d’acerbissima doglia pieno vo per lo mondo. E, appresso, quel Florio, il quale tu mi nomini, io conosco troppo bene, e non è guari che io il vidi, e con lui parlai, e tanto dolente per le parole sue il compresi, che mai sí doloroso uomo non vidi. Ma certo egli, per quel ch’io intendessi, ha ben ragione di vivere dolente, però che il re suo padre quella bella giovane Biancofiore, la quale tu giá amasti, vendé a’ mercatanti come vilissima serva. I quali mercatanti lei sopra una loro nave trasportarono via, e dove non si sa: per la qual cosa egli, non sappiendo che si fare, muore di dolore. Onde s’egli a te nuocere voleva, di tale ingiuria gl’iddii l’hanno ben pagato, avvegna che la tua fuga gli spiacque e fugli noia. E però non pur crescere in angoscia, ma con ciò sia cosa che a te siano molti compagni e in simiglianti affanni, e io sia uno di quelli, confortati, sperando che quella dea che dalle insidie di Florio ti levò, come le fu agevole a rendere lo sbranato Ippolito vivo con intera forma, cosí te nel pristino stato potrá, a’ suoi servigi recandoti, rintegrare». La chiara fonte, finite le parole di Filocolo, tutta enfiò, e con le sue onde passò gli usati termini, producendo un nuovo soffiamento, ma piú a Filocolo non parlò, il quale lungamente alcuna parola attese. Ma poi che per lungo spazio fu dimorato, e quella riposata vide sí come quando prima col nappo mossa l’avea, egli si dirizzò, e con li compagni suoi, di questa cosa tutti maravigliandosi, incominciarono a ragionare, dolendo a ciascuno del misero avvenimento di Fileno, dicendo: «O quanto è dubbiosa cosa nella palestra d’Amore entrare, nella quale il sottomesso arbitrio è impossibile da tal nodo slegare, se non quando a lui piace. Beati coloro che senza lui vita virtuosa conducono, se bene guardiamo i fini a’ quali egli i suoi suggetti conduce. Chi avrebbe ora creduto che nel salvatico paese trovare Fileno convertito in fontana di lagrime, il qual fu il piú gaio cavaliere e il piú leggiadro che la nostra corte avesse? Chi potrebbe pensare Filocolo, figliuolo unico dell’alto re di Spagna, essere per amore divenuto pellegrino, e andare cercando le strane nazioni poste sotto il cielo, e ora in questo luogo trovarsi in questo tempo?». A questo rispose Filocolo dicendo: «L’essere qui venuto m’è assai caro; né per cosa alcuna vorrei non esserci stato, però che mirabile cosa e da notare abbiamo veduto nel diserto luogo, il quale n’è stato dagl’iddii comandato d’onorare, e detto il perché. Certo io non so in che atto il possa avanti di piú onore accrescere che io m’abbia fatto, rinnovando il santo tempio e il suo altare». A cui Ascalione disse: «Noi andremo secondo il santo consiglio, e fornito il nostro cammino e ricevuta la cercata cosa, nel voltare de’ nostri passi il tornar qui non ci fallirá, e allora quell’onore che in questo mezzo avremo ne’ nostri animi diliberato di fare, faremo e agl’iddii e al luogo, però che gl’iddii, solleciti a’ beni dell’umana gente, niuna utilitá pe’ nostri doni ci concedono, ma poi che elli hanno le dimandate cose a’ dimandanti concedute, dilettansi, ed è loro a grado, che i ricevitori in luogo di riconoscenza offerino graziosi doni e rendano debiti onori alle loro deitá, mostrandosi grati _dello ricevuto beneficio. E però, sí come dissi, nel nostro tornare, ricevute le desiate cose, ci mostreremo conoscenti del ricevuto consiglio, onorandolo come si converrá». Questo consiglio a tutti piacque, e tutto quel giorno e la notte quivi dimorarono senza piú molestare la misera fontana; e la vegnente mattina, secondo l’ammaestramento dello strano iddio, mancate l’abbondanti acque che il solingo piano avevano il preterito giorno allagato, presero il cammino, per lo quale sollecitamente pervennero ad Alfea e a’ suoi porti, avanti che l’occidentale orizzonte fosse dal sole toccato. Qui vi la mandata nave quasi in un’ora insieme trovarono essere venuta: di che contenti, sperando per quello le cose piú prospere nel futuro, su vi montarono senza alcuno indugio, e a’ prosperevoli venti renderono le sanguigne vele, comandando che all’isola del Fuoco il cammino della nave si dirizzasse. Eolo aiutava con le sue forze il nuovo legno, e lui con Zefiro a’ disiati luoghi pingeva, e Nettunno pacificamente i suoi regni servava: onde Filocolo e’ suoi compagni contenti al loro cammino senza affanno procedevano. Ma la misera fortuna, che niuno mondano bene lascia gustare senza il suo fele, non consentí che lungamente questa fede fosse a’ disiosi giovani servata; ma, avendo giá costoro posti il terzo giorno assai vicini al luogo ove, quando nella nave entrarono, avevano diliberato di riposarsi, le bocche di Zefiro chiuse, e diede a Noto ampissima via sopra le salate acque: e Nettunno in se medesimo tutto si commosse con ispaventevole mutamento. Onde dopo poco spazio i giovani, non usi di queste cose, quasi morti in tale affanno, senza ascoltare alcun conforto, nella nave si riputavano. Erasi Noto con focoso soffiamento di Etiopia levato, volendo il giorno giá dare alla notte loco, e aveva l’emisperio tutto chiuso d’oscurissimi nuvoli, minacciando noiosissimo tempo: e i marinari di lontana parte vedeano il mare aver mutato colore. Ma poi che ’l giorno fu partito, i marinari, da doppia notte occupati, non vedevano che si fare. Elli s’argomentavano quanto potevano di prendere alto mare e di resistere alla sopravvegnente tempesta pe’ veduti segni; ma mentre che gli argomenti utili alla loro salute si prendevano, subitamente incominciò da’ nuvoli a scendere un’acqua grandissima, e il vento a multiplicare in tanta quantitá, che levate loro le vele e spezzato l’albero, non come essi volevano, ma come a lui piaceva, li guidava. E li mari erano alti a cielo, e da ogni parte percotevano la resistente nave, coprendo quella alcuna volta dall’un capo all’altro: e giá tolto avevano loro l’uno de’ timoni, e dell’altro stavano in grandissimo affanno di guardare. E il cielo s’apriva sovente mostrando terribilissimi e focosi baleni con pestilenziosi tuoni, i quali, in alcune parti colti della nave, n’avevano tutte le bande mandate in mare: laonde tutti i marinari dopo lunga fatica, e combattuti dal vento e dalla sopravvegnente acqua e da’ tuoni, il potersi aiutare, o loro o la nave, avevano perduto, e chi qua e chi lá quasi morti sopra la coperta della nave prostrati giacevano vinti; e quasi ogni speranza di salute, per lo dire de’ padroni e per le manifeste cose, era perduta. Né ancora la notte mezze le sue dimoranze aveva compiute, né il tempo faceva sembianti di riposarsi, ma ciascun’ora piú minaccevole proffereva maggiori danni con le sue opere: onde niuno conforto né a Filocolo né ad alcuno che vi fosse era rimaso, se non aspettare la misericordia degl’iddii.
- Multiplicava ciascun’ora alla sconsolata nave piú pericolo, e quantunque il romore del mare e dei venti e de’ tuoni e dell’acque fosse grandissimo, ancora il faceano molto maggiore le dolenti voci de’ marinari, le quali alcune in rammarichii, altri in prieghi agl’iddii che gli dovessero atare dolorosissime dalle loro bocche procedevano, conoscendo il pericolo in che erano. Le quali cose Filocolo per lungo spazio avendo vedute, e a quelle conforto e aiuto co’ suoi compagni aveva porto quanto potuto aveva, vedendo la loro salute ognora piú fuggire, con gli altri insieme quasi disperato piangendo si cominciò a dolere, dicendo cosí: «O fortuna, sazia di me omai la tua iniqua volontá. Assai ti sono stato trastullo, assai di me hai riso. Ora in alto e ora in basso stato non pensare piú di recarmi a quell’ultimo male che continuamente hai disiderato: fallo tosto. Non m’indugiare piú la morte, poi che tu la mi disideri: ma se esser puote, io solo la morte riceva, acciò che costoro, i quali per me ingiustamente li tuoi assalti ricevono, non sofferiscano senza peccato pena. I tuoi innumerabili pericoli tutti, fuori che questo, m’hai fatti provare, e in questo, il quale ancora non avea provato, ogni tua noia si contiene: adunque sia questo, come maggiore, a me per fine riservato nelle mie miserie. A questo niuna cosa peggiore mi può seguire se non morte. Io la disidero: mandalami, acciò che gli altri campino, e la tua voglia s’adempia e i miei dolori si terminino. Sazisi ora ogni tua voglia, e in questo finiscano le tue fatiche e i miei danni. O miseri parenti rimasti senza figliuolo, confortatevi, ché piú aspro fine gli seguita che voi non gli dimandavate. Egli è ora nelle reti tese da voi miseramente incappato. Le vostre operazioni in questa notte avranno fine, e la vostra letizia non vedrá il morto viso, il quale vivo invidiosi lagrimato avete. Solo in questo m’è benigna la fortuna, e in questo la ringrazio, che sí incerta sepoltura mi donerá, che né vivo né morto mai ai vostri occhi mi ripresenterò: però che se mi odiate, come le vostre operazioni hanno mostrato, senza consolazione in dubbio viverete della mia vita; se mi amate, come figliuolo da’ parenti deve essere amato, la fortuna, rapportatrice de’ mali, morto mi vi paleserá senza indugio, e allora potrete conoscere voi debita pena portare del commesso male. Ma la mia opinione solo questa consolazione ne porterá con l’anima al leggero legnetto di Caronte, pensando che la vostra vecchiezza in dolore si consumerá, la quale non consentí che io lieto usassi i miei giovani anni. O Nettunno, perché tanto t’affanni per avere la mia anima? Copri la trista nave se possibile è, e me solo in te ne porta. Finisci il tuo disio e le mie pene ad un’ora: non noccia il mio infortunio agl’innocenti compagni». E poi ch’egli aveva per lungo spazio cosí detto, con piú pietosa voce alzava il viso mirando il turbato cielo, e diceva: «O sommo Giove, venga la tua luce alla sconsolata gente, per la quale i non conosciuti cammini del tuo fratello ci si manifestino! Aiuta il tuo popolo che solo in te spera, e, senza guardare a’ nostri meriti, con pietoso aspetto alla nostra necessitá ti rivolgi, e se lecito non ci è di poter la dimandata isola prendere con le nostre ancore, prenda la giá non piú nave, senza pericolo di noi, qualunque altro porto. Umilia il tuo fratello a cui niuna ingiuria facemmo mai. Movasi la tua pietá a’ nostri prieghi: non resistano i nostri commessi difetti, i quali sí come uomini continuo adoperiamo. E tu, o sommo iddio, a cui non ha tre dí passati, o forse quattro, feci debiti sacrificii, aiutaci, e la impromessa fatta dalla santa bocca non mettere in oblio. Non si conviene agl’iddii essere fallaci, né possibile è che siano; ma cessi che cosí la tua promessa mi sia attenuta, come quella di Giove fu a Palinuro. Io non men tosto disidero di prendere altri liti, se possibile non è d’avere questi, che per tal maniera la promessione ricevere. O santa Venere, aiutami nel tuo natal luogo. Non mi far perire lá ove tu nascesti, e dove tu piú forza che in altra parte devi avere. Ricordati della mia diritta fede. Cessino per lo tuo aiuto questi venti, e manifesticisi la bellezza del bel nido di Leda e la figliuola di Latona, e i mari, che di sé fanno spumose montagne, nelle sue usate pianezze riduci. Vedi che niuno di noi non può piú; solo il vostro soccorso sostiene le nostre speranze: quello solo attendiamo. Non s’indugi: l’albero e le vele e i timoni e le sartie da’ venti e dall’onde ci sono state tolte. I tuoni e le spaventevoli corruscazioni e le gravi acque cadenti dal cielo e mosse da’ venti ci hanno i nocchieri e i marinari e noi vinti, e renduti impossibili a piú aiutarci: in tempestoso mare, senza guida e in sconosciuto luogo, abbandonato da ogni speranza, per li tuoi servigi cosí mi ritrovo».
- Gli altri compagni di Filocolo tutti piangevano, e nulla salute speravano, ma dal fiero colpo d’Atropos, il quale vicino si vedevano, impauriti e mezzi morti giacevano tutti bagnati, e quasi ogni potenza corporale perduta, si conducevano secondo i disordinati movimenti della nave. Ma al vecchio Ascalione, il quale altre volte simiglianti avversitadi provate aveva, ancora che paurosa fosse, non gli pareva cosa nuova, e con migliore speranza viveva che alcuno degli altri, e tutti li andava riconfortando con buone parole come cari figliuoli. E mentre queste cose cosí andavano, la nave portata da’ poderosi venti senza niuno governamento, avanti che ’l giorno apparisse da nulla parte, ne’ porti dell’antica Partenope fu gittata da’ fieri venti, quasi vicina agli ultimi suoi danni: e quivi da’ marinari, che vedendosi in porto ripresero conforto, cosí spezzata dalle bande e fracassata, in sicuro luogo dall’ancore fu fermata, e aspettarono il nuovo giorno ringraziando gl’iddii, non sappiendo in che parte la fortuna li avesse balestrati.
- Poi che il giorno apparve e il luogo fu conosciuto da’ marinari, contenti d’essere in sicuro e grazioso luogo, discesero in terra. E Filocolo e’ suoi compagni, a’ quali piú tosto dalla sepoltura risuscitati pareva uscire che dalla nave, scesi in terra, e rimirando verso le crucciate acque, ripetendo in se medesimi i passati pericoli della passata notte, appena parea loro poter essere sicuri, e ringraziando gl’iddii che da tal caso recati gli avevano a salute, offersero loro pietosi sacrificii e cominciaronsi a confortare. E da un amico d’Ascalione onorevolmente ricevuti furono nella cittá, e quivi la loro nave fecero racconciare tutta, e di vele e d’albero e di timoni migliori che li perduti la rifornirono, e incominciarono ad aspettar tempo al loro viaggio, il quale molto piú si prolungò che ’l loro avviso non estimava. Per la qual cosa Filocolo volle piú volte per terra pigliare il cammino, ma, sconfortato da Ascalione, se ne rimase, aspettando il buon tempo, in quel luogo.
- Videro Filocolo e’ suoi compagni Febea cinque volte tonda e altretante cornuta, avanti che Noto le sue impetuose forze abbandonasse: né quasi mai in questo tempo videro rallegrare il tempo. Per la qual cosa malinconia grandissima e ira la disiderosa anima di Filocolo stimolava, dolendosi della ingiuria che da Eolo ricevere gli pareva. E piú volte la sua ira con voti e con pietosi sacrificii e con umili prieghi s’ingegnò di piegare, ma venire non poteva al disiderato fine, anzi pareva che quelli piú nocessero; onde egli spesso di ciò si doleva dicendo: «Oimè, che ho io verso gl’iddii commesso, che i miei sacrificii puramente fatti non siano accettati? Io non sacrilego, io non invidioso de’ loro onori, io non assalitore de’ loro regni, né tentatore della loro potenza, ma fedelissimo e divoto servidore di tutti: adunque che mi nuoce?». Egli dopo le lunghe malinconie andava alcuna volta a’ marini liti, e in quella parte, verso la quale egli imaginava di dovere andare, si volgeva, e rimirava, dicendo: «Sotto quella parte del cielo dimora la mia Biancofiore. Quella parte è testé da lei veduta, e io la voglio rimirare. Io sento la dolcezza ch’ella adduce seco, presa dalla luce de’ begli occhi di Biancofiore». E poi abbassati gli occhi sopra le salate onde, e vedendole verdi e spumanti biancheggiare nelle loro rotture con tumultuoso romore, e similmente il vento con sottili sottentramenti stimolar quelle, turbato in se stesso diceva: «O dispietata forza di Nettunno, perché commovendo le tue acque impedisci il mio andare? Forse tu pensi ch’io un’altra volta porti il greco foco alla tua fortezza, come fecero coloro a’ quali se tu sí crudele, come se’ a me, fossi stato, ancora le sue mura vedresti intiere e piene di popolo senza esser mai state offese. Io non porto insidie, ma come umile amante, col core acceso di fiamma inestinguibile, per lo piacere d’una bellissima giovane, sí come tu giá avesti, cerco mediante la tua pace di ritrovar lei, allontanata per inganni d’alcuni dalla mia presenza. Di che meritarono piú coloro nel tuo cospetto, che portandonela da me la divisero, che meriti io? Che ho io verso di te offeso, che commesso piú che gli ausonici mercatanti? Niuna cosa; anzi con sacrificii continui ho la tua deitá esaltata cercando di pacificarla verso me. Alla quale s’io forse mai offesi, ignorantemente il male commisi: e che che io m’avessi commesso, ben ti dovrebbe bastare, pensando quello che mi facesti, non è lungo tempo passato, quando me e’ miei compagni quasi per morti in questo luogo gittasti sopra lo spezzato legno. Adunque perché senza utilitá piú avanti mi nuoci? Certo, se i tuoi regni fossero da essere cercati per brieve quantitá come da Leandro erano, con la virtú dell’anello ricevuto dalla pietosa madre, mi metterei a cercare il disiato luogo oltre al tuo piacere, e crederei poter fornire quello che a lui fornire non lasciasti; ma sí lungo cammino per quelli ho ad andare, che piú tosto la forza mi mancherebbe che il tuo potere m’offendesse: e per questo cerco la tua pace, e quella disidero; non la mi negare, io te ne priego per quell’amore che giá per Ifimedia sentisti. E tu, o sommo Eolo, spietato padre di Canace, tempera le tue ire, ingiustamente verso me levate. Apri gli occhi, e conosci ch’io non sono Enea, il gran nemico della santa Giunone: io sono un giovane che amo, sí come tu amasti. Pensi tu forse per nuocermi avere da Giunone la seconda impromessa? Raffrena le tue ire; racchiudi lo spiacevole vento sotto la cavata pietra. Io non sono Macareo, né mai in alcuna cosa t’offesi. Sostieni ch’io compia l’incominciato viaggio, e quello compiuto, quando nel disiato luogo sarò con la mia donna, quanto ti piace soffia: graziosa cosa mi sará di quel luogo mai non partirmi. Allora mostrerai le tue forze, quando noioso non mi sará il dimorare. Ma ora che con angoscia perdo tempo, mitiga la tua furia, e sostieni che ’l mio disio io possa fornire, ché se tu non fossi, ben conosco che Nettunno priega di starsi in pace». Poi diceva: «Oimè, ove mi costringe amore di perdere i prieghi alle sorde onde e a’ dissoluti soffiamenti, ne’ quali niuna fede, come in cosa senza niuna stabilita, si trova!».
- Con cotali parole piú volte si dolea l’innamorato giovane sopra i salati liti, e da malinconia gravato ritornava al suo ostiere. Ma essendo giá Titano ricevuto nelle braccia di Castore e di Polluce, e la terra rivestita d’ornatissimi vestimenti, e ogni ramo nascoso dalle sue fronde, e gli uccelli, stati taciti nel noioso tempo, con dolci note riverberando l’aere, e il cielo, giá ridendo, a Filocolo il disiderato cammino promettendo con ferma fede, avvenne che Filocolo una mattina, pieno di malinconia e tutto turbato nel viso, si levò dal notturno riposo. Il quale vedendo, i compagni si maravigliarono molto, perché piú che l’altre fiate turbato stesse. Al quale Ascalione disse: «Giovane, iscaccia da te ogni malinconia, ché il tempo si racconcia, per lo quale, senza dubbio di piú ricevere sí noioso accidente come giá sostenemmo, ci sará lecito il camminare». A cui Filocolo rispose: «Maestro, certamente quello che tu dí, conosco, ma ciò alla presente malinconia non m’induce». «E come» disse Ascalione, «è nuovo accidente venuto, per lo quale tu debba dimorare turbato?» «Certo» disse Filocolo, «l’accidente della mia turbazione è questo, che nella passata notte ho veduto la piú nuova visione che mai alcuno vedesse, e in quella ho avuto gravissima noia nell’animo, veggendo le cose ch’io vedeva: per la qual cosa la turbazione, poi ch’io mi svegliai, ancora da me non è partita, ma senza dubbio credo che meco non lungamente dimorerá.» Pregaronlo Ascalione e i compagni che, cacciando da sé ogni malinconia, gli piacesse la veduta visione narrare loro, nella quale tanta afflizione sostenuta aveva. A’ quali Filocolo con non mutato aspetto rispose che volentieri, e cosí cominciò a parlare:
- «A me pareva essere da tutti voi lasciato, e dimorare sopra il falernese monte, qui a questa cittá sovraposto, e sopra quello mi pareva che un bellissimo prato fosse, rivestito d’erbe e di fiori assai dilettevoli a riguardare, e pareami da quello poter vedere tutto l’universo; né mi pareva che a’ miei occhi alcuna nazione s’occultasse. E mentre ch’io cosí rimirando intorno le molte regioni dimorava, vidi da quel cerreto dove noi la misera fontana trovammo, uno smeriglione levarsi e cercare il cielo; e poi che egli era assai alzato, pigliando larghissimi giri il vidi incominciare a calare, e dietro a una fagiana bellissima e volante molto, che levata s’era d’una pianura tra le salvatiche montagne posta, non guari lontana al natale sito del nostro poeta Naso: e nel giá detto prato a me assai appresso mi pareva ch’egli la sopragiungesse, e ficcatosela i piedi sopra la schiena, forte ghermita la tenea. Poi appresso, assai vicino di quel luogo onde levata s’era la fagiana, mi parve vedere levare quell’uccello che a guardia dell’armata Minerva si pone, e con lui un nerissimo merlo, e volando quella seguire, e nel suo cospetto e dello smeriglione posarsi. Poi, volti gli occhi in altra parte di quell’isola la quale noi cerchiamo, il semplice uccello, in compagnia di Citerea posto, vidi quindi levarsi, e insieme con un cuculo in quel luogo ancora porsi. E mentre ch’io in giro gli occhi volgeva, vidi tra l’ultimo ponente e i regni di Trazia di sopra a Senna levarsi uno sparviero bellissimo e un gheppio, e seguitare un girifalco e un moscardo e un rigogolo e una grue, che di sopra alla riviera del Rodano levati s’erano, e dintorno alla fagiana posarsi. Poi, in piú prossimana parte tirati gli occhi, vidi dalle guaste mura, lasciate da noi nel piano del fratello del Tevere, uscire un terzuolo, e con forte volo aggiungersi agli altri sopradetti, di dietro al quale la misera reina, ancora de’ suoi popoli nemica, levata di presso al luogo onde lo smeriglione levare vidi, volando seguia: e di non molto lontano alla nostra Marmorina surse il padre d’Elena, e qui venne, e da una costa di queste montagne vicine venne un avvoltoio e con gli altri nel bel prato si pose. E mentre ch’io dell’adunazione di questi uccelli in me medesimo mi maravigliava, e io guardai e vidi di questa piaggia molti e diversi altri levarsi, e co’ sopradetti congiungersi: e mi pareva, se bene stimai, un nibbio e un falcone e un gufo vedere agli altri procedere, e, a loro dietro, una delle figliuole di Pierio conobbi, e una ghiandaia che pigolando forte volava; e, dopo loro, quelli da cui Apollo è accompagnato, e il mirifico tiratore del carro di Giunone, e una calandra, e un picchio e poi un grande aghirone con la misera Filomena e con Tereo, a’ quali dietro volava un indiano pappagallo e un frusone, e con gli altri accolti, fatto di loro un cerchio dintorno alla fagiana, da’ piè di Niso sopr’essa. Io maravigliandomi incominciai ad attendere che questi volessero fare. E come ciò rimirava, tutti cominciaro a dare gravissimi assalti alla fagiana, e alcuni altri allo smerlo, gridando e stridendo, quale tirandosi adietro e quale mettendosi avanti, e chi penne e chi la viva carne di quella ne portava; ma lo smeriglione gridando, senza schermirgli punto, quanto poteva da tutti la difendeva; e in questa battaglia per lungo spazio dimorò, e quasi io piú volte fui mosso per andare ad aiutarlo, poi ritenendomi fra me dicevo: ‛Veggiamo la fine di costui, se egli avra tanto vigore che da tutti la difenda’. E cosí attendendo, dalle montagne vicine a Pompeana vidi un grande mastino levarsi, e correre in questo luogo, e tra tutti gli uccelli ficcatosi, e con rabbiosa fame il capo della fagiana preso, e quel divorato, per forza l’altro busto trasse degli artigli di Niso: il quale poi che voti della presa preda si trovò gli artigli, gridando il vidi non so come in tortora essere trasmutato, e sopra un vicino arbore, nel quale fronde verdi il novello tempo non avea rimesse, posarsi, e sopra quello a modo di pianto umano quasi la sentiva dolere. E cosí stando, mi parve vedere il cielo chiudersi d’oscuri nuvoli, molto peggio che quella notte, che noi di morire dubitammo, non fece. E picciolo spazio stette ch’egli ne cominciò a scendere un’acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta: e i tuoni e’ lampi erano innumerabili e grandissimi. E certo io dubitava non il mondo un’altra volta in caos dovesse tornare! E tutta questa pistolenzia parea che sovra il dolente uccello cadesse: la quale dolendosi con l’ale chiuse tutta la sosteneva. La terra e ’l mare e il cielo crucciati e minacciando peggio, parevano contra a quella commossi, né pareva che luogo fosse alcuno ov’essa per sua salute ricorso avere potesse. E cosí di questa visione in altre, le quali alla memoria non mi tornano, mi trasportò la non istante fantasia, infino a quell’ora che io poco inanzi mi svegliai, trovandomi ancora nella mente turbato dalla compassione avuta al povero uccello».
- «Strane cose ne conta il tuo parlare» disse Ascalione, «né che ciò si voglia significare credo che mai alcuno conoscerebbe: e però niuna malinconia te ne deve succedere. Manifesta cosa è che ciascuno uomo ne’ suoi sonni vede mirabili cose impossibili e strane, dalle quali poi sviluppato si maraviglia, ma conoscendo i principii onde muovono, quelle senza alcun pensiero lascia andare: e però quelle cose che ne conti che vedute hai, sí come vane nella loro vanitá le lascia passare. E poi che il tempo si rallegra, e de’ nostri disideri lieto indizio ci dimostra, e noi similmente ci rallegriamo, andiamo e ’l piacevole aere su per li salati liti prendiamo: e ragionando, del nostro futuro viaggio ci proveggiamo passando tempo.» Cosí Filocolo col duca e con Parmenione e con gli altri compagni si mosse, e con lento passo, di diverse cose parlando, verso quella parte ove le reverende ceneri dell’altissimo poeta Maro si riposano, dirizzarono il loro andare. I quali non furono cosí parlando guari dalla cittá dilungati, che essi pervenuti allato ad un giardino, udirono in esso graziosa festa di giovani e di donne. E l’aere di varii strumenti e quasi d’angeliche voci ripercossa risonava tutta, entrando con dolce diletto a’ cuori di coloro a li cui orecchi cosí riverberata venia: i quali canti a Filocolo piacque di stare alquanto a udire, acciò che la preterita malinconia, mitigandosi per la dolcezza del canto, andasse via. Ristette adunque ad ascoltare: e mentre che la fortuna cosí lui e i compagni fuori del giardino teneva ad ascoltare sospesi, un giovane uscí di quello, e videgli, e nell’aspetto nobilissimi uomini da riverire gli conobbe. Per che egli senza indugio ritornato a’ compagni, disse: «Venite, onoriamo alquanti giovani, ne’ sembianti gentili e di grande essere, i quali, forse vergognandosi di passare qua entro senza essere chiamati, dimorano di fuori ascoltando i nostri canti». Lasciarono adunque i compagni di costui le donne alla loro festa, e usciti dal giardino se ne vennero a Filocolo, il quale nel viso conobbero di tutti il maggiore, e a lui, con quella riverenza ch’essi avevano giá negli animi compresa che si convenisse, parlarono, pregandolo che in onore e accrescimento della loro festa gli piacesse co’ suoi compagni passare con loro nel giardino, con piú prieghi sopra questo strignendolo, che esso loro questa grazia non negasse. Legarono i dolci prieghi l’animo gentile di Filocolo, e non meno quello de’ compagni, e cosí a’ preganti fu da Filocolo risposto: «Amici, in veritá cotal festa da noi cercata non era, né similemente fuggita, ma sí come naufraghi gittati ne’ vostri porti, per fuggire gli accidiosi pensieri che l’ozio induce, andavamo per questi liti le nostre avversitá recitando; e come la fortuna ad ascoltare voi c’inducesse non so, ma disiderosa pare di cacciare da noi ogni noia, pensando che voi, in cui cortesia infinita conosco, ci ha parati davanti: e però a’ vostri prieghi sodisfaremo, ancora che forse parte della cortesia, che da noi procedere dovrebbe, guastiamo. E cosí parlando insieme nel bello giardino se n’entrarono, dove molte belle donne trovarono, dalle quali graziosamente ricevuti furono, e con loro insieme accolti alla loro festa.
- Poi che Filocolo per grande spazio ebbe la festa di costoro veduta, e festeggiato con essi, a lui parve di partirsi. E volendo prendere congedo da’ giovani e ringraziare del ricevuto onore, una donna piú che altra da riverire, piena di maravigliosa bellezza e di virtú, venne dov’egli stava, e cosí disse: «Nobilissimo giovane, voi per la vostra cortesia questa mattina a questi giovani avete fatto una grazia, per la quale essi sempre vi sono tenuti, cioè di venire ad onorare la loro festa: piacciavi, adunque, all’altre donne e a me la seconda grazia non negare». A cui Filocolo con soave voce rispose: «Gentilissima donna, a voi niuna cosa giustamente si può negare, comandate: io e’ miei compagni a’ vostri piaceri tutti siamo presti». A cui la donna cosí disse: «Con ciò sia cosa che voi, venendo, in grandissima quantitá la nostra festa multiplicaste, io vi voglio pregare che partendovi non la manchiate, ma qui con noi questo giorno, in quello che cominciato abbiamo, infino alla sua ultima ora consumiate». Filocolo rimirava costei parlante nel viso, e vedeva i suoi occhi pieni di focosi raggi scintillare come matutina stella, e la sua faccia piacevolissima e bellissima, né, poi che la sua Biancofiore non vide, gli pareva sí bella donna avere veduta. Alla cui domanda cosí rispose: «Madonna, disposto sono piú tosto il vostro piacere che ’l mio dovere adempiere, però quanto a voi piacerá, tanto con voi dimorerò, e i miei compagni con meco». Ringraziollo la donna, e ritornando con l’altre, con esse insieme si cominciò a rallegrare.
- In tal maniera dimorando Filocolo con costoro, prese intima dimestichezza con un giovane chiamato Galeone, di costumi ornatissimo e facondo di leggiadra eloquenza, a cui egli parlando cosí disse: «Oh, quanto voi agl’immortali iddii siete piú che alcun altro tenuti, li quali in una volonta pacifici vi conservano in far festa!». «Assai loro ci conosciamo essere obbligati» rispose Galeone; «ma quale cagione vi muove a parlare questo?» Filocolo rispose: Certo niun’altra cosa se non il vedervi qui cosí assembrati tutti in un volere». «Certo» disse Galeone, «non vi maravigliate di ciò, ché quella donna, in cui tutta la leggiadria si riposa, a questo ci mosse e tiene.» Disse Filocolo: «E chi è questa donna?». E Galeone rispose: «Quella che vi pregò che voi qui rimaneste, quando poco inanzi partire vi volevate». «Bellissima e di gran valore mi pare nel suo aspetto» disse Filocolo; «ma se ingiusta non è la mia dimanda, manifestisimi per voi il suo nome, e donde ella sia e da che parenti discesa.» A cui Galeone rispose: «Niuna vostra dimanda potrebbe essere ingiusta; e però di cosí valorosa donna niuno è che apertamente parlando non deggia palesar la sua fama, onde al vostro dimando interamente sodisfarò. Il suo nome è da noi qui chiamato Fiammetta, posto che la piú parte delle genti il nome di Colei la chiamino, per cui quella piaga, che il prevaricamento della prima madre aperse, si richiuse. Essa è figliuola dell’altissimo prencipe, sotto il cui scettro questi paesi in quiete si reggono, e a noi tutti è donna: e, brievemente, niuna virtú è che in valoroso core debba capere, che nel suo non sia; e voi, sí com’io stimo, oggi dimorando con noi, il conoscerete». «Ciò che voi dite» disse Filocolo, «non si può ne’ suoi sembianti celare: gl’iddii a quel fine, che sí singulare donna merita, la conducano; e certo quello e piú che voi non dite, credo di lei. Ma queste altre donne chi sono?» Disse Galeone: «Queste donne sono alcune di Partenope, e altre d’altronde in sua compagnia, sí come noi medesimi, qui venute». E poi che essi ebbero per lungo spazio cosí ragionato, disse Galeone: «Deh, dolce amico, se a voi non fosse noia, a me molto sarebbe a grado di vostra condizione conoscere piú inanzi che quello che il vostro aspetto rappresenta, acciò che, conoscendovi, piú degnamente vi possiamo onorare: però che tal fiata il non conoscere fa negli onoranti il debito dell’onorare mancare». A cui Filocolo rispose: «Niuno mancamento dalla vostra parte potrebbe venire in onorarmi, ma tanto me n’avete fatto avanti, che sovrabbondando avete i termini trapassati. Ma poi che della mia condizione disiderate sapere, ingiusto saria di ciò non sodisfarvi, e però, quanto lecito m’è di scoprire, ve ne dirò. Io mi sono un povero pellegrino d’amore, il quale vo cercando una mia donna a me con sottile inganno levata da’ miei parenti; e questi gentili uomini i quali con meco vedete, per loro cortesia nel mio pellegrinaggio mi fanno compagnia: e il mio nome è Filocolo, di nazione spagnuolo, gittato dal tempestoso mare ne’ vostri porti, cercando io l’isola de’ siculi». Ma tanto coperto parlare non gli seppe, che il giovine di sua condizione non comprendesse piú avanti che Filocolo disiderato non avrebbe: e de’ suoi accidenti compassione avendo, il riconfortò alquanto con parole che nel futuro vita migliore gli promettevano. E da quell’ora inanzi multiplicando l’onore, non come pellegrino, né come uomo accettato in quella festa, ma come maggiore e principale di quella, a tutti il fece onorare, e la donna massimamente comandò che cosí fosse, poi che da Galeone la sua condizione intese, in sé molto caro avendo tale accidente.
- Era giá Apollo col carro della luce salito al meridiano cerchio e quasi con diritto occhio riguardava la rivestita terra, quando le donne e i giovani in quel loco adunati, lasciato il festeggiare, per diverse parti del giardino cercando, dilettevoli ombre e diversi diletti per diverse schiere prendevano, fuggendo il caldo aere che li dilicati corpi offendeva. Ma la gentil donna, con quattro compagne appresso, prese Filocolo per la mano dicendo: «Giovane, il caldo ne costrigne di cercare i freschi luoghi, però in questo prato, il quale qui davanti vedi, andiamo, e quivi con varii parlamenti la calda parte di questo giorno passiamo». Andò adunque Filocolo, lodando il consiglio della donna, dietro a’ passi di lei, e con lui i suoi compagni, e Galeone e due altri giovani con loro: e vennero nel mostrato prato, bellissimo molto d’erbe e di fiori, e pieno di dolce soavitá di odori, dintorno al quale belli e giovani arbuscelli erano assai con fronde verdi e folte, delle quali il luogo era difeso da’ raggi del gran pianeta. E nel mezzo del praticello una picciola fontana chiara e bella era, dintorno alla quale tutti si posero a sedere; e quivi di diverse cose, chi mirando l’acqua e chi cogliendo fiori, incominciarono a parlare. Ma però che tal volta disavvedutamente l’uno le novelle dell’altro trarompeva, la bella donna disse cosí: «Acciò che i nostri ragionamenti possano con piú ordine procedere e infino alle piú fresche ore continuarsi, le quali noi per festeggiare aspettiamo, ordiniamo uno di noi qui in luogo di nostro re, al quale ciascuno una quistione d’amore proponga, e da esso, di quella, debita risposta prenda. E certo, secondo il mio avviso, noi non avremo le nostre quistioni poste a fine, che il caldo sará, senza che noi il sentiamo, passato, e il tempo utilmente e con diletto sará adoperato». Piacque a tutti, e tra loro dissero: «Facciasi re». E con unica voce tutti Ascalione, però che piú che alcuno attempato era, in re eleggevano. A’ quali Ascalione rispose sé a tanto uficio essere insofficiente, però che piú ne’ servigi di Marte che in quelli di Venere aveva i suoi anni spesi; ma, se a tutti piacesse di rimettere in lui la elezione di tal re, egli si credeva bene tanto conoscere avanti della qualitá di tutti, che egli il costituerebbe tale che vere risposte a tali dimande renderebbe. Consentirono allora tutti che in Ascalione fosse liberamente la elezione rimessa, poi che assumere in lui tale dignitá non voleva.
- Levassi allora Ascalione, e colti alcuni rami di un verde alloro, il quale quasi sopra la fontana gittava la sua ombra, di quelli una bella coronetta fece, e quella recata in presenza di tutti costoro, cosí disse: «Da poi che io ne’ miei piú giovani anni cominciai ad avere conoscimento, giuro per quelli iddii che io adoro, che non mi torna nella memoria di avere veduta o udita nominare donna di tanto valore, quanto questa Fiammetta, nella cui presenza Amore di sé tutti infiammati ci tiene, e da cui noi questo giorno siamo stati onorati in maniera di mai non doverlo dimenticare. E però che ella, sí come io senza fallo conosco, è d’ogni grazia piena e di bellezza, e di costumi ornatissima e di leggiadra eloquenza dotata, io nostra reina la eleggo: e molto meglio, per la sua magnificenza, la imperiale corona le si converrebbe! A costei di reale stirpe ancora discesa, e a cui l’occulte vie d’amore sono tutte aperte, sará lieve cosa nelle nostre quistioni contentarci». E appresso a questo, davanti alla valorosa donna umilmente si inginocchiò, dicendo: «Gentile donna, ornate la vostra testa di questa corona, la quale non meno che d’oro è da tener cara da coloro che degni sono, per le loro opere, di tale coprirsi la testa. Alquanto il candido viso della bella donna si dipinse di nuova rossezza, dicendo: «Certo non debitamente avete di reina provveduto all’amoroso popolo, che di sofficientissimo re aveva bisogno, però che di tutti voi, che qui dimorate, la piú semplice e di meno virtú sono, né alcuno di voi è a cui meglio che a me investita non fosse simile corona. Ma poi che a voi piace, né alla vostra elezione posso opporre, acciò che io alla fatta promessa non sia contraria, la prenderò, e spero che dagl’iddii e da essa l’ardire dovuto a tanto uficio prenderò: e con l’aiuto di colui a cui queste fronde furono giá care, a tutti risponderò secondo il mio poco sapere. Nondimeno io divotamente il priego che egli nel mio petto entri, e muova la mia voce con quel suono, col quale egli giá l’ardito uomo vinto fece meritare d’uscire della guaina de’ suoi membri. Io, per via di festa, lievi risposte vi donerò, senza cercare la profonditá delle proposte questioni, la quale andare cercando piú tosto affanno che diletto recherebbe alle nostre menti». E questo detto, con le dilicate mani prese l’offerta ghirlanda, e la sua testa ne coronò, e comandò che, sotto pena d’essere dall’amorosa festa privato, ciascuno s’apparecchiasse di proporre alcuna quistione, la quale fosse bella e convenevole a quello di che ragionare intendevano, e tale, che piú tosto della loro gioia fosse accrescitrice, che per troppa sottigliezza o per altro guastatrice di quella.
- Quistione I.
- Dalla destra mano di lei sedeva Filocolo, a cui ella disse: «Giovane, cominciate a proporre la vostra questione, acciò che gli altri ordinatamente, sí come noi qui seggiamo, piú sicuramente dopo voi propongano». A cui Filocolo rispose: «Nobilissima donna, senza alcuno indugio il vostro comandamento ubbidirò»; e cosí disse: «Io mi ricordo che in quella cittá dov’io nacqui si faceva un giorno una grandissima festa, alla quale cavalieri e donne erano molti ad onorarla. Io che similmente v’era, andando dattorno mirando quelli che nel luogo stavano, vidi due giovani assai graziosi nel loro aspetto, i quali amenduni una bellissima giovane rimiravano, né si saria per alcuno potuto conoscere chi piú fosse stato di loro acceso della bellezza di costei. E quando elli lungamente costei ebbero riguardata, non faccendo ella miglior sembiante all’uno che all’altro, essi incominciarono tra loro a ragionare di lei: e fra l’altre parole ch’io del loro ragionamento intesi, fu, che ciascuno diceva sé essere piú amato da lei, e in ciò ciascuno diversi atti dalla giovane per adietro fatti allegava in aiuto di sé. Ed essendo per lungo spazio in tale quistione dimorati, e giá quasi per molte parole venuti a volersi oltraggiare, riconobbero che male facevano, però che in tale atto danno e vergogna di loro e dispiacere della giovane adoperavano; ma mossi con eguale concordia, amenduni davanti alla madre della giovane se n’andarono, la quale similmente a quella festa stava, e cosí in presenza di lei proposero che, con ciò fosse cosa che sopra tutte l’altre giovani del mondo a ciascuno di loro la figliuola di lei piaceva ed essi fossero a questione quale d’essi due piacesse piú a lei, che le piacesse di concedere loro questa grazia, acciò che maggiore scandolo tra loro non nascesse, che alla figliuola comandasse che con parole o con atti loro dimostrasse qual di loro da lei fosse piú amato. La pregata donna ridendo rispose che volentieri; e, chiamata la figliuola a sé, le disse: «Bella figliuola, ciascuno di questi duo piú che sé t’ama, e in quistione sono quale da te sia piú amato, e cercano, di grazia, che tu o con segni o con parole ne li faccia certi; e però, acciò che d’amore, da cui pace e bene sempre deve nascere, non nasca il contrario, falli di ciò contenti, e con sembiante cortese mostra verso quale piú lo tuo animo si piega». Disse la giovane: «Ciò mi piace». E rimiratili e guardati amendue alquanto, vide che l’uno aveva in testa una bella ghirlanda di fresche erbette e di fiori, e l’altro senza alcuna ghirlanda dimorava. Allora la giovane, che similmente in capo una ghirlanda di verdi fronde aveva, primieramente levò quella di capo a sé, e a colui che senza ghirlanda le stava davanti, la mise in capo; e, appresso, quella che l’altro giovane in capo aveva ella prese e a sé la pose, e, loro lasciati stare, si tornò alla festa, dicendo che il comandamento della madre e il piacere di loro aveva fatto. I giovani rimasi cosí, nel primo quistionare ritornarono, ciascuno dicendo che piú da lei era amato; e quegli la cui ghirlanda la giovane prese e posesela sopra la sua testa, diceva: «Fermamente ella ama piú me, però che a niuno altro fine ha la mia ghirlanda presa, se non perché le mie cose le piacciono, e per avere cagione d’essermi tenuta; ma a te ha la sua donata quasi in luogo d’ultimo congedo, non volendo, come villana, che l’amore, che tu l’hai portato, sia senza alcun merito: ma quella ghirlanda donandoti, ultimamente t’ha meritato». L’altro dicendo il contrario, cosí rispondeva: «Veramente la giovane le tue cose ama piú che te, e ciò si può vedere che ella ne prese; ma ella ama piú me che le mie cose, in quanto ella delle sue mi donò: e non è segno d’ultimo merito il donare, sí come tu dí, ma è principio d’amistá e d’amore. E fa il dono colui che il riceve soggetto al donatore: però costei, forse di me incerta, acciò che piú certa di me avere per suggetto fosse, con dono mi volle alla sua signoria legare, se io legato forse non vi fossi. Ma tu come puoi comprendere che se ella dal principio ti leva, ch’ella mai ti debba donare? E cosí quistionando dimorarono per grande spazio, e senza alcuna diffínizione si partirono. Ora dico io, o grandissima reina, se a voi fosse l’ultima sentenza in tale quistione dimandata, che giudichereste voi?»
- Con occhi d’amorosa luce sfavillanti, alquanto sorridendo la bella donna si rivolse a Filocolo, e dopo un lieve sospiro cosí rispose: «Nobilissimo giovane, bella è la vostra quistione, e certo saviamente si portò la donna, e ciascuno de’ giovani assai bene la sua parte difese; ma però che ne richiedete quello che ultimamente di ciò giudicheremo, cosí vi rispondiamo. A noi pare, e cosí dee parere a ciascuno che sottilmente riguarda, che la giovane ami l’uno, e l’altro non abbia in odio; ma, per piú il suo intendimento tener coperto, fece due atti contrarii, come appare, e ciò non senza cagione fece, acciò che l’amore di colui cui ella amava piú fermo acquistasse e quello dell’altro non perdesse: e ciò fu saviamente fatto. E però venendo alla nostra quistione, la qual è a quale de’ due sia piú amore stato mostrato, diciamo che colui a cui ella donò la sua ghirlanda è piú da lei amato, e questa ne pare la ragione: qualunque uomo o donna ama alcuna persona, per la forza di questo amore portato è ciascuno sí forte obbligato alla cosa amata, che sopra tutte le cose a quella disidera di piacere, né piú a legarla bisognano o doni o servigi; e questo è manifesto. Ma veggiamo che chi ama, la cosa amata, in qualunque maniera puote, di farlasi benigna e soggetta s’ingegna in diversi modi, acciò che quella possa a’ suoi piaceri recare, o con piú ardita fronte il suo disio dimandare. E che questo sia come noi parliamo, assai la infiammata Dido con le sue opere cel palesa, la quale, giá dell’amore d’Enea ardendo, infino a tanto che ad essa con onori e con doni non parve averlo preso, non ebbe ardire di tentare la dubbiosa via del dimandare. Dunque la giovane colui cui essa amava di piú, quello di piú obbligarsi cercò: e cosí diremo che quegli che il dono della ghirlanda ricevette, colui sia piú dalla giovane amato.»
- Rispose Filocolo come la reina tacque: «Discreta donna, assai è da lodare la vostra risposta, ma non per tanto molto d’ammirazione mi porge, però che di ciò che diffinito avete della proposta quistione, io terrei che il contrario fosse da giudicare, con ciò sia cosa che generalmente tra gli amanti soglia essere questa consuetudine, cioè disiderare dí portare sopra sé alcuna delle gioie della cosa amata, però che di quella le piú volte piú che di tutto il rimanente si sogliano gloriare, e, quella sentendo sopra sé, nell’animo si rallegrano. Come voi potete avere udito, Paris rare volte o nulla entrava nell’aspre battaglie contra i Greci senza soprasegnale donatogli dalla sua Elena, credendosi con quello molto meglio, che senza quello, valere: e certo, secondo il mio parere, il suo pensiero non era vano. Per la qual cosa io cosí direi che, sí come voi diceste, saviamente fece la giovane, non diffinendo però come voi faceste, ma in questa maniera: conoscendo la giovane che da’ due giovani era molto amata, e che ella piú che uno amare non potesse, però che amore indivisibile cosa si trova, ella l’uno dell’amore che le portava volle guiderdonare, acciò che tale benivolenza non rimanesse da lei inguiderdonata, e donagli la sua ghirlanda in merito di ciò. Al l’altro, cui ella amava, volle porgere ardire e ferma speranza del suo amore, levandogli la sua ghirlanda e ponendola a sé: nel quale levare gli mostrò sé essere a lui obbligata per la presa ghirlanda; e però, a mio giudicio, piú costui a cui tolse, che quello a cui donò amava».
- Al quale la gentil donna rispose: «Assai il tuo argomentare ci piacerebbe, se tu stesso nel tuo parlare nol dannassi. Guarda: come perfetto amore insieme col rubare può concorrere? Come potrai tu mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo piú che quella a cui io dono, con ciò sia cosa che tra i piú manifesti segni d’amore d’alcuna persona è il donare? E secondo la quistione proposta, ella all’uno donò la ghirlanda, e all’altro la tolse, né le fu dall’altro donata: e quello che noi tutto giorno per esempio veggiamo può qui bastare, che si dice volgarmente coloro essere piú da’ signori amati i quali le grazie e’ doni ricevono, che quelli che di quelli privati sono. E però noi ultimamente tegnamo, conchiudendo, che quegli sia piú amato a cui è donato, che a cui è tolto. Ben conosciamo che alla presente quistione molto contro alla nostra diffinizione si potrebbe opporre: e alle opposte ragioni rispondere; ma ultimamente tale determinazione rimarrá vera. Ma però che il tempo non è da porre in una cosa sola, senza piú sopra questa parlare, gli altri ascolteremo, se vi piace». A cui Filocolo disse che assai gli piacea, e che bene bastava tale soluzione alla sua domanda; e qui si tacque.
- Quistione II.
- Sedeva appresso Filocolo un giovane cortese e grazioso nello aspetto, il cui nome era Longano, il quale, sí tosto come Filocolo tacque, cosí cominciò a dire: «Eccellentissima reina, tanto è stata bella la prima quistione, che appena la mia piacerá, ma non per tanto, per non essere fuori di sí nobile compagnia cacciato, io dirò la mia». E cosí parlando seguí: «E’ non sono molti giorni passati, ch’io soletto in una camera dimorando, involto negli affannosi pensieri pòrti dagli amorosi disiri, i quali con aspra battaglia il core assalito m’aveano, sentii un pietoso pianto, al quale, perché vicino a me la stimativa il giudicava, porsi intentivamente gli orecchi e conobbi che donne erano. Laond’io, per vedere chi fossero e dove, subito mi levai, e, rimirando per una finestra, vidi a fronte alla mia camera in un’altra dimorare due donne senza piú, le quali erano carnali sorelle, di bellezza inestimabile ornate, le quali vidi che questo pianto solette facevano. Ond’io in segreta parte dimorando, senza essere da loro veduto, lungamente le guardai; né però potei comprendere tutte le parole che per dolore con le lagrime fuori mandavano, se non che l’effetto di tal pianto, secondo quello che compresi, per amore mi parve. Per che io sí per la pietá di loro e sí per la pietá di sí dolce cagione, a piangere incominciai cosí nascoso. Ma dopo lungo spazio, perseverando queste pure nel loro dolore, con ciò fosse cosa che io fossi assai dimestico e parente di loro, proposi di volere piú certa la cagione del loro pianto sapere, e ad esse andai. Le quali non prima mi videro, che vergognandosi ristrinsero le lagrime ingegnandosi d’onorarmi. A cui io dissi: «Giovani donne, per niente v’affannate di ristringere dentro il vostro dolore per la mia venuta, con ciò sia cosa che tutte le vostre lagrime mi sieno state giá è gran pezza manifeste. Non vi bisogna di guardarvi da me, né di celarmi per vergogna la cagione del vostro pianto, la quale io sono venuto qui per sapere, però che da me mal merito in niuno atto non riceverete, ma aiuto e conforto quant’io potrò». Molto si scusarono le donne dicendo sé di niuna cosa dolersi; ma poi che pure scongiurandole mi videro disideroso di sapere quello, la maggiore di tempo cosí cominciò a parlare: «Piacere è degl’iddii che a te li nostri segreti si manifestino, e però sappi che noi, piú che altre donne mai, fummo crude e aspre, resistenti agli acuti dardi di Cupido, il quale, lunga stagione saettandoci, mai ne’ nostri cuori alcuno ne poté ficcare. Ma egli ultimamente piú infiammato, avendo proposto di vincere la sua puerile gara, aperse il giovane braccio, e con la sua saetta, nel macerato cuore pe’ molti colpi avanti ricevuti, ci ferí con sí gran forza, che i ferri passarono dentro, e maggiore piaga fecero, che, se agli altri colpi non avessimo fatta resistenza, non avrebbero fatta: e per lo piacere di due nobilissimi giovani alla sua signoria divenimmo suggette, seguendo i suoi piaceri con piú intera fede e con piú fervente volere che mai altre donne facessero. Ora ci ha la fortuna e amore di quelli, sí come io ti dirò, sconsolate. Io, prima che costei, amai, e con ingegno maestrevolmente, credendo il mio disio terminare, feci sí che io ebbi al mio piacere l’amato giovane, il quale trovai altretanto di me quanto io di lui essere innamorato. Ma certo giá per tale effetto l’amorosa fiamma non mancò né menomò il disio, ma ciascuno crebbe, e piú che mai arsi e ardo: il quale fuoco, tenendo lui nelle braccia e tal volta vedendolo, come io poteva meglio mitigava tenendolo dentro nascose. Avvenne, non si rivide poi la luna tonda, che costui commise disavedutamente cosa, per la quale eterno esilio dalla presente cittá gli fu donato: ond’egli, dubitando la morte, di qui s’è partito, senza speranza di ritornare. E io, sopra ogni altra femina dolorosa, ardendo piú che mai, senza lui sono rimasa disperata, ond’io mi doglio. E quella cosa che piú la mia doglia aumenta è ch’io da tutte parti mi veggo chiusa la via di poterlo seguire: pensa oramai se io ho da dolermi cagione». Dissi io allora: «E quest’altra perché si dole?». E quella rispose: «Questa similmente com’io innamorata d’un altro, e da lui similmente senza fine amata, acciò che i suoi disii non passassero senza parte d’alcun diletto, per gli amorosi sentieri piú volte s’è ingegnata di volergli recare ad effetto, a’ cui intendimenti gelosia ha sempre rotte le vie e occupate: per che mai a quelli non poté pervenire, né vede di potere, ond’ella si consuma stretta da ferventissimo amore, sí come tu puoi pensare se mai amasti. Trovandoci noi, adunque, qui solette, de’ nostri infortunii cominciammo a ragionare, e, conoscendoli piú d’alcun’altra donna maggiori, non potemmo ritenere le lagrime, ma piangendo ci dolevamo, sí come tu potesti vedere». Assai mi dolse di loro udendo questo, e con quelle parole che al loro conforto mi parvero utili le sovvenni, e da loro mi partii. Ora mi s’è piú volte per la mente rivolto il loro dolore, e alcuna volta ho fra me pensato qual doveva essere maggiore, e l’una volta consento quello dell’una, e l’altra quello dell’altra: e le molte ragioni per le quali ciascuna mi pare che abbia da dolersi non mi lasciano fermare ad alcuna, onde io ne dimoro in dubbio. Piacciavi, adunque, che per voi io di questa erranza esca, dicendomi quale maggiore doglia vi pare che sostenga».
- «Grave dolore era quello di ciascuna» disse la reina, «ma considerando che a colui è grandissima l’avversitá che nelle prosperitá è usato, noi terremo che quella che ’l suo amante ha perduto senta maggior dolore, e sia piú dalla fortuna offesa. Fabrizio mai li casi della fortuna non pianse, ma Pompeo è manifesta cosa che sí. Se dolci cose mai non si fossero gustate, ancora sarebbero a conoscere l’amàre. Medea non seppe mai, secondo il suo dire, che prosperitá si fosse mentre ella amò, ma, abbandonata da Iasone, si dolse dell’avversitá. Chi piangerá quello ch’egli non ebbe mai? Non alcuno, ma piú tosto il disidererá. Seguasi, adunque, che l’una per dolore, l’altra per disio piangeva delle due donne.»
- «Molto m’è duro a pensare, graziosa donna, ciò che voi dite» disse il giovane, «con ciò sia cosa che chi ’l suo disio ha d’una cosa disiderata avuto, molto si debba piú nell’animo contentare, che chi disidera e non puote il suo disio adempiere. Appresso, niuna cosa è piú leggiera a perdere che quella la quale speranza avanti piú non promette di rendere. Ivi dee essere smisurato dolore, ove eguale volere non potere quello recare ad effetto impedisce. Quivi hanno luogo i ramaricamenti, quivi i pensieri e gli affanni, però che se le volontá non fossero eguali, per forza mancherebbero i disii: ma quando gli amanti si veggono davanti, le disiderate cose, e a quelle pervenire non possono, allora s’accendono e dolgonsi piú che se da loro i loro voleri stessero lontani. E chi tormenta Tantalo in inferno se non le pome e l’acque, che quanto piú alla bocca gli si avvicinano tanto piú fuggendosi poi moltiplicano la sua fame? Veramente io credo che piú dolore sente chi spera cosa possibile ad avere, né a quella per avversarii impedimenti resistenti pervenire puote, che chi piange cosa perduta e irrecuperabile.»
- Disse allora la reina: «Assai seguita bene la vostra risposta, lá ove di lungo dolore fosse vostra dimanda stata; ben che a cotesto ancora si potrebbe dire, cosí esser possibile per dimenticanza il dolore abbreviarsi nelle cose disiderate, ove continuo impedimento si vede da non poterle adempiere, come nelle perdute, ove speranza non mostra di doverle mai riavere. Ma noi ragionammo quale piú si doleva, quando dolendo le vedeste: però, seguendo il proposto caso, giudicheremo che maggior dolore sentiva quella che il suo amante aveva perduto senza speranza di riaverlo, ché, posto che agevole sia perdere cosa impossibile da riavere, nondimeno e’ si suoi dire: ‛Chi bene ama mai non oblia’, che l’altra, la quale se bene riguardiamo, poteva sperare d’adempiere per inanzi quello che adietro non aveva potuto fornire: e gran mancamento di duoli è la speranza! Ella ebbe forza di tener casta e meno trista lungamente in vita Penelope».
- Quistione III.
- Alla destra mano di Longano sedeva una bellissima donna piacevole assai, la quale, come quella quistione sentí per la loro reina essere terminata, cosí con dolce favella cominciò a parlare: «Inclita reina, diano le vostre orecchie alquanto udienza alle mie parole, e poi per quelli iddii che voi adorate, e per la potenza del nostro giuoco, vi priego che utile consiglio diate a’ miei dimandi. Io di nobili parenti discesa, sí come voi sapete, nacqui in questa cittá, e fui di nome piena di grazia nominata, avegna che il mio soprannome Cara mi rappresenti agli uditori. E sí come nel mio viso si vede, ricevetti dagl’iddii e dalla natura di bellezza singulare dono, la quale, il mio nome seguendo piú che il mio soprannome, ho adornata d’infinita piacevolezza, benigna mostrandomi a chi quella s’è dilettato di rimirare: per la qual cosa molti si sono ingegnati d’occupare gli occhi miei del loro piacere, a’ quali tutti ho con forte resistenza riparato, tenendo il core fermo a tutti li loro assalti. Ma però che ingiusta cosa mi pare che io sola la legge, da tutte l’altre servata, trapassassi, cioè di non amare, essendo da molti amata, ho proposto d’innamorarmi. E posponendo dall’una delle parti molti cercatori di tale amore, de’ quali alcuno di ricchezza avanza Mida, altri di bellezza Assalon trapassa, e tali di gentilezza, secondo il corrotto volgare, piú ch’altri sono splendenti, ho io scelti tre, che egualmente ciascuno per sé mi piace: de’ quali tre, l’uno di corporale fortezza credo che avanzerebbe il buon Ettore, tanto è ad ogni prova vigoroso e forte; la cortesia e la liberalitá del secondo è tanta, che la sua fama per ciascun polo credo che suoni; il terzo è di sapienza pieno tanto, che gli altri savi avanza oltra misura. Ma però che, sí come avete udito, le loro qualitá sono diverse, io dubito di pigliare, trovando nell’antica etá ciascuna di queste cose avere diversamente i coraggi delle donne e degli uomini piegati, sí come Deianira d’Ercole, Citennestra d’Egisto, e di Lucrezia Sesto. Consigliatemi, adunque, a quale io piú tosto, per meno biasimo e per piú sicurtá, mi deggia di costoro donare».
- La piacevole reina avendo di costei la proposta udita, cosí rispose: «Nullo de’ tre è che degnamente non meriti di bella e graziosa donna l’amore; ma però che in questo caso non sono a combattere castella, o a donare i regni del grande Alessandro, overo i tesori di Tolomeo, ma solamente con discrezione è da servare lungamente l’amore e l’onore, li quali né forza né cortesia servano, ma solo il sapere, diciamo che da voi e da ciascuna altra donna è piú tosto da donare il suo amore al savio che ad alcuno degli altri.
- «Oh, quanto è il mio parere dal vostro diverso!», rispose appresso la proponente donna. «A me pareva che qualunque l’uno degli altri fosse piú tosto da prendere che il savio: e la ragione mi par questa. Amore, sí come noi veggiamo, ha sí fatta natura, che, multiplicando in un core la sua forza, ogni altra cosa ne caccia fuori, quello per suo loco ritenendo, movendolo poi secondo i suoi piaceri: né niuno avvenimento puote a quelli resistere, che pur non si convengano quelli seguitare da chi è, com’io ho detto, signoreggiato. E chi dubita che Biblis conosceva essere male ad amare il fratello? Chi disdirá che a Leandro non fosse manifesto il potere annegare in Ellesponto ne’ fortunosi tempi, se vi si metteva? E niuno negherá che Pasife non conoscesse piú bello essere l’uomo che ’l toro: e pure costoro, vinti d’amoroso piacere, ogni conoscimento abbandonato, seguirono quello. Adunque, se egli ha potenza di levare il conoscimento a’ conoscenti, levando al savio il senno, niuna cosa gli rimarrá: ma se al forte o al cortese il loro poco senno leverá, egli li aumentera nelle loro virtú, e cosí costoro varranno piú che il savio innamorato. Appresso, amore ha questa proprietá, che egli è cosa che non si può lungamente celare, e nel suo palesarsi suole spesso recare gravosi pericoli: a’ quali che rimedio dará il savio che avrá giá il senno perduto? Niuno ne dará! Ma il forte con la sua forza sé e altrui potrá in un pericolo atare; il cortese per sua cortesia avrá l’animo di molti preso con cara benevolenza, per la quale aiutato e riguardato potrá essere, egli e altri per amore di lui. Vedete omai come il vostro giudizio è da servare.»
- Fu a costei cosí dalla reina risposto: «Se cotesto che tu dí fosse, chi sarebbe savio? Niuno! Ma giá colui che tu proponi savio, e innamorato di te sarebbe pazzo, è da non prendere: gl’iddii cessino che ciò che tu parli avvenisse. Ma noi non negheremo che i savi non conoscano il male, e pure lo fanno; ma diremo che essi per quello non perdono il senno, con ciò sia cosa che, qualora essi vorranno, con la ragione che elli hanno, la volontá raffrenare, elli nell’usato senno si ridurranno, guidando i loro movimenti con debito e diritto stile. E in questa maniera o sempre o lungamente fieno li loro amori celati, e cosí senza alcuna dubbiosa sollecitudine quello che d’uno poco savio, non tanto sia forte o cortese, non avverrá: e se forse avviene che pure tale amore si palesi, con cento avvedimenti o riturerá il savio gli occhi e gl’intendimenti de’ parlanti, o provederá al salvamento dell’onore della donna amata e al suo. E se mestieri fia alla salute, l’aiuto del savio non può fallire. Quello del forte vien meno con l’aiutante, e gli amici per liberalitá acquistati sogliono nelle avversitá divenire nulla. E chi sará quella di cosí poca discrezione che a tal partito si rechi, che sí manifesto aiuto le bisogni? O che se ’l suo amore si scopre, dimandi fama d’avere amato un uomo forte overo liberale? Niuna credo ne fosse. Ammisi adunque piú tosto il savio, sperando lui dovere essere in ciascun caso piú utile che alcuno degli altri». Quistione IIII.
- Era nella vista contenta la gentil donna, quando Menedon, che appresso di lei sedeva, disse: «Altissima reina, ora viene a me la volta del proporre nel vostro cospetto, ond’io con la vostra licenza dirò. E da ora, s’io nel mio parlare troppo mi distendessi, a voi e appresso agli altri circustanti dimando perdono, però che quello ch’io intendo di proporre interamente dare non si potrebbe a intendere, se a quello una novella, che non fia forse brieve, non precedesse». E dopo queste parole cosí incominciò a parlare: «Nella terra lá dove io nacqui, mi ricorda essere un ricchissimo e nobile cavaliere, il quale di perfettissimo amore amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna, essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s’innamorò e di tanto amore l’amava, che oltre a lei non vedeva niuna cosa, né piú disiava, e in molte maniere, forse con sovente passare davanti alle sue case, o giostrando, o armeggiando, o con altri atti, s’ingegnava d’avere l’amore di lei: e spesso mandandole messaggieri, forse promettendole grandissimi doni, per sapere il suo intendimento. Le quali cose la donna tutte celatamente sostenea, senza dare segno o risposta buona al cavaliere, fra sé dicendo: «Poi che questi s’avvedrá che da me né buona risposta né buono atto puote avere, forse elli si rimarrá d’amarmi e di darmi questi stimoli». Ma giá per tutto questo Tarolfo di ciò non si rimaneva, seguendo d’Ovidio gli ammaestramenti, il quale dice: ‛L’uomo non dee lasciare per durezza della donna di non perserverare, però che per contínuanza la molle acqua fora la dura pietra’. Ma la donna, dubitando non queste cose venissero a orecchie del marito, ed egli pensasse poi che con volontá di lei questo avvenisse, propose di dirgliele; ma poi mossa da miglior consiglio disse: «Io potrei, s’io il dicessi, commettere tra loro cosa che io mai non viverei lieta: per altro modo si vuole levar via»; e imaginò una sottile malizia. Ella mandò cosí dicendo a Tarolfo: che se egli tanto l’amava quanto mostrava, ella voleva da lui un dono, il quale come l’avesse ricevuto, giurava per i suoi iddii, e per quella leanza che in gentile donna dee essere, che ella farebbe ogni suo piacere; e se quello ch’ella dimandava, donare non le volesse, ponessesi in core di non stimolarla piú avanti, per quanto egli non volesse che essa questo manifestasse al marito. E il dono ch’ella dimandò fu questo. Ella disse che volea del mese di gennaio, in quella terra, un bel giardino e grande, d’erbe e di fiori e d’alberi e di frutti copioso, come se del mese di maggio fosse, tra sé dicendo: ‛Questa è cosa impossibile, e io mi leverò costui da dosso in questa maniera’. Tarolfo, udendo questo, ancora che impossibile gli paresse e che egli conoscesse bene perché la donna questo gli dimandava, rispose che giá mai non riposerebbe né in presenza di lei tornerebbe, infino a tanto che l’addimandato dono le donerebbe. E partitosi della terra con quella compagnia che a lui piacque di prendere, tutto il ponente cercò per avere consiglio di potere pervenire al suo disio; ma non trovandolo, cercò le piú calde regioni, e pervenne in Tesaglia, dove per sí fatta bisogna fu mandato da discreto uomo. E quivi dimorato piú giorni, non avendo ancora trovato quello che cercando andava, avvenne che essendosi egli quasi del suo avviso disperato, levatosi una mattina avanti che il sole s’apparecchiasse d’entrare nell’aurora, incominciò tutto soletto ad andare per lo misero piano che giá fu tutto del romano sangue bagnato. Ed essendo per grande spazio andato, egli si vide davanti a’ piè d’un monte un uomo, non giovane né di troppa lunga etá, barbuto, e i suoi vestimenti giudicavano lui dovere essere povero, picciolo di persona e sparuto molto, il quale andava cogliendo erbe e cavando con un picciolo coltello diverse radici, delle quali un lembo della sua gonnella aveva pieno. Il quale quando Tarolfo vide, si maravigliò e dubitò molto non altro fosse; ma poi che la stimativa certamente gli rendé lui essere uomo, egli s’appressò a lui e salutollo, dimandandolo appresso chi fosse e donde, e quel che per quel luogo a cosí fatta ora andava faccendo. A cui il vecchierello rispose: «Io sono di Tebe, e Tebano è il mio nome, e per questo piano vo cogliendo queste erbe, acciò che de’ liquori d’esse faccendo alcune cose necessarie e utili a diverse infermitá, io abbia donde vivere, e a questa ora necessitá e non diletto mi ci costrigne di venire; ma tu chi se’, che nell’aspetto mi sembri nobile, e quinci sí soletto vai?». A cui Tarolfo rispose: «Io sono dell’ultimo ponente, assai ricco cavaliere, e da’ pensieri d’una mia impresa vinto e stimolato, non potendola fornire, di qua, per meglio potermi senza impedimento dolermi, mi vo cosí soletto andando». A cui Tebano disse: «Non sai tu la qualitá del luogo come ella è? E perché inanzi d’altra parte non pigliavi la via? Tu potresti di leggieri qui dai furiosi spiriti essere vituperato?». Rispose Tarolfo: «In ogni parte puote Iddio ugualmente, cosí qui come altrove; egli ha la mia vita e ’l mio onore in mano; faccia di me secondo che a lui piace: veramente a me sarebbe la morte un ricchissimo tesoro» . Disse allora Tebano: «Qual è la tua impresa, per la quale, non potendola fornire, sí dolente dimori?». A cui Tarolfo rispose: «È tale che impossibile mi pare omai a fornire, poi che qui non ho trovato consiglio». Disse Tebano: «Osasi dire?». Rispose Tarolfo: «Sí, ma che utile? forse niuno!». Disse Tebano: «Ma che danno?». Allora Tarolfo disse: «Io cerco di potere avere consiglio come del piú freddo mese si potesse avere un giardino pieno di fiori e di frutti e d’erbe, sí bello come del mese di maggio fosse, né trovo chi a ciò aiuto o consiglio mi doni che vero sia». Tebano stette un pezzo tutto sospeso senza rispondere, e poi disse: «Tu e molti altri il sapere e le virtú degli uomini giudicate secondo i vestimenti. Se la mia roba fosse stata qual è la tua, tu non avresti tanto penato a dirmi la tua bisogna, o se forse appresso de’ ricchi prencipi m’avessi trovato, come tu hai a cogliere erbe; ma molte volte sotto vilissimi drappi grandissimo tesoro di scienza si nasconde: e però a chi proffera consiglio o aiuto niuno celi la sua bisogna, se manifesta non gli può pregiudicare. Ma che doneresti a chi quello che tu vai cercando ti recasse ad effetto?». Tarolfo rimirava costui nel viso dicendo queste parole, e in sé dubitava non questi si facesse beffe di lui, parendogli incredibile che, se costui non fosse stato Dio, egli avesse potuto avere virtú. Non per tanto egli rispose cosí: «Io signoreggio ne’ miei paesi piú castella, e con esse molti tesori, i quali tutti per mezzo partirei con chi tal piacere mi facesse». «Certo» disse Tebano, «se questo facessi, a me non bisognerebbe d’andare piú cogliendo l’erbe.» «Fermamente» disse Tarolfo: «se tu se’ quelli che in ciò mi prometti di dar vero effetto, e dallomi, mai non ti bisognerá piú affannare per divenire ricco; ma come e quando mi potrai tu questo fornire?» Disse Tebano: «Il quando fia a tua posta, del come non ti travagliare. Io me ne verrò teco fidandomi nella tua parola della promessa che mi fai, e quando lá dove ti piacerá saremo, comanderai quello che vorrai, e io fornirò tutto senza fallo». Fu di questo accidente tanto contento in se medesimo Tarolfo, che poco piú letizia avrebbe avuta se nelle sue braccia la sua donna allora tenuta avesse, e disse: «Amico, a me si fa tardi che quel che m’imprometti si fornisca, però senza indugio partiamo, e andiamo lá dove questo si dee fornire». Tebano, gittate via l’erbe, e presi i suoi libri e altre cose al suo mestiere necessarie, con Tarolfo si mise al cammino, e in brieve tempo pervennero alla disiderata cittá, assai vicini al mese del quale era stato dimandato il giardino. Quivi tacitamente e occulti infine al termine disiderato si riposarono; ma entrato giá il mese, Tarolfo comandò che ’l giardino s’apprestasse, acciò che donare lo potesse alla sua donna. Come Tebano ebbe il comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati in compiuta ritonditá, e videla sopra l’usate terre tutta risplendere. Allora egli uscí della cittá, lasciati i vestimenti, scalzo, e co’ capelli sparti sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli uccelli, le fiere e gli uomini riposavano senza alcuno mormorio, e sopra li arbori le non cadute fronde stavano senza alcuno movimento, e l’umido aere in pace si riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, piú volte circuita la terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d’eleggere per lo giardino, allato ad un fiume. Quivi stese verso le stelle tre volte le braccia, rivoltandosi ad esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, dimandando altretante volte con altissima voce il loro aiuto; e poi poste le ginocchia sopra la dura terra, cominciò cosí a dire: «O notte, fidatissima segreta dell’alte cose, e voi o stelle, le quali al risplendente giorno con la luna insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell’ampia faccia della terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu qualunque terra producente virtuose piante, e voi aure, venti, monti, fiumi e laghi, e ciascuno iddio de’ boschi e della segreta notte, per li cui aiuti io giá rivolsi li correnti fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e giá feci le correnti cose star ferme, e le ferme divenire correnti, e che giá deste ai miei versi potenza di asciugare i mari e di cercare senza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il nuvoloso tempo, e il chiaro cielo riempere a mia posta d’oscuri nuvoli, faccendo i venti cessare e venire come mi piaceva, e con quelli rompendo le dure mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e tremare gli eccelsi monti, e ne’ morti corpi tornare dalle paludi stigie le loro ombre e vivi uscire da’ sepolcri, e tal volta trar te, o luna, alla tua ritonditá, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare a venire, faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti, e ’l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestieri di sughi d’erbe, per li quali l’arida terra, prima dall’autunno, e poi dal freddissimo verno, de’ suoi fiori, frutti ed erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando, avanti il dovuto termine, primavera. E questo detto, molte altre cose tacitamente aggiunse a’ suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non diedero luce invano, ma piú veloce che volo di ciascuno uccello un carro da due dragoni tirato gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redini de’ posti freni a’ due dragoni in mano, suso in aere si tirò. E, pigliando per l’alte regioni il cammino, lasciò Spagna, l’Africa tutta, e cercò l’Isola di Creti: di quindi Pelio, Otris e Ossa, il monte Nereo, Pachino, Peloro e Appennino in brieve corso cercò tutti, da tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici ed erbe che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte aveva quando da Tarolfo fu trovato in Tesaglia. Egli prese pietre sul monte Caucaso e dell’arena di Gange, e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive del Rodano, di Senna di Parigi, del gran Po, d’Arno, dello imperial Tevere, di Tanai e del Danubio, di sopra quelle ancora pigliando quelle erbe che a lui parevano necessarie, e queste aggiunse all’altre colte nelle sommitá de’ salvatichi monti. Egli cercò l’isola di Lesbos, e quella di Colco, e Patmos, e qualunque altra nella quale sentito avesse cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s’era: e i dragoni, che solamente gli odori delle prese erbe avevano sentito, gittando lo scoglio vecchio per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d’erbosa terra due altari compose, dalla destra mano quello d’Ecate, dalla sinistra quello della rinnovellante dea. I quali fatti, e sopra essi accesi divoti fuochi, co’ crini sparti sopra le vecchie spalle, con quieto mormorio cominciò a circuire quelli: e col raccolto sangue piú volte intinse le ardenti legna. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel terreno il quale egli aveva per lo giardino disposto, dopo questo, quello medesimo tre volte di fuoco, d’acqua e di zolfo rinaffiò. E poi posto un grandissimo vaso sopra l’ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d’acqua, quello fece per lungo spazio bollire, aggiungendovi l’erbe e le radici colte negli strani luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe, e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate notti, insieme con carni e ale d’infamate streghe, e de’ testicoli del lupo l’ultima parte, con squama di cinifo e con pelle di chilindro, e ultimamente un fegato con tutto il polmone d’un vecchissimo cervo: e, con queste, mille altre cose, e senza nomi e si strane che la memoria nol mi ridice. Poi prese un ramo d’un secco ulivo, e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde, e in brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti liquori, e sopra l’eletto terreno, nel quale di tanti legni aveva fatto bastoni quanti arbori e di quante maniere voleva quivi, quelli cominciò a spandere e ad inaffiare per tutto: la quale cosa la terra non sentí prima, che ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano rientrò nella terra tornando a Tarolfo. Il quale, quasi pauroso d’essere stato da lui beffato per la lunga dimoranza, trovò tutto pensoso, a cui egli disse: «Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, ed è al piacere tuo». Assai questo piacque a Tarolfo, e dovendo essere il seguente giorno nella cittá una grandissima solennitá, egli se n’andò davanti alla sua donna, la quale giá era gran tempo che veduta non l’aveva, e cosí le disse: «Madonna, dopo lunga fatica io ho fornito quello che voi comandaste: quando vi piacerá di vederlo o di prenderlo, egli è al vostro piacere».
- La donna, vedendo costui, si maravigliò molto, e piú udendo ciò che egli diceva; e non credendolo, gli rispose: «Assai mi piace; faretelomi vedere domani». Venuto il seguente giorno, Tarolfo andò alla donna, e disse: «Madonna, piacciavi di passare nel giardino, il quale voi mi dimandaste nel freddo mese». Mossesi adunque la donna da molti accompagnata, e, pervenuti al giardino, v’entrarono dentro per una bella porta, e in quello non freddo sí come di fuori, ma un aere temperato e dolce si sentiva. Andò la donna per tutto rimirando e cogliendo erbe e fiori, de’ quali molto il vide copioso: e tanto piú ancora avea operato la virtú degli sparti liquori, che i frutti, i quali l’agosto suole producere, quivi nel salvatico tempo tutti i loro alberi facevano belli: de’ quali piú persone, andate con la donna, mangiarono. Questo parve alla donna bellissima cosa e mirabile, né mai un sí bello ne le pareva avere veduto. E poi che essa in molte maniere conobbe quello essere vero giardino, e ’l cavaliere avere adempiuto ciò ch’ella aveva dimandato, ella si voltò a Tarolfo e disse: «Senza fallo, cavaliere, guadagnato avete l’amore mio, e io sono presta d’attenervi ciò ch’io vi promisi; ma veramente vorrei una grazia da voi, che vi piacesse tanto indugiare a richiedermi del vostro disio, che ’l signore mio andasse a caccia, o in altra parte fuori della cittá, acciò che piú saviamente e senza dubitanza alcuna possiate prendere vostro diletto.» Piacque a Tarolfo, e, lasciandole il giardino, quasi contento da lei si partí. Questo giardino fu a tutti i paesani manifesto, avvegna che niuno sapesse, se non dopo molto tempo, come venuto si fosse. Ma la gentil donna, che ricevuto l’avea, dolente di quello si partí, tornando alla sua camera piena di noiosa malinconia. E pensando in qual maniera tornare potesse adietro ciò che promesso avea, e non trovando lecita scusa, piú in dolore cresceva. La qual cosa vedendo, il marito si cominciò molto a maravigliare e a dimandarla che cosa ella avesse: la donna diceva che niente aveva, vergognandosi di scoprire al marito la fatta promissione per lo addímandato dono, dubitando non il marito malvagia la tenesse. Ultimamente non potendosi ella a’ continui stimoli del marito, che pur la cagione della sua malinconia disiderava di sapere, tenersi, dal principio insino alla fine gli narrò perché dolente dimorava. La qual cosa udendo il cavaliere lungamente pensò, e conoscendo nel pensiero la puritá della donna, cosí le disse: «Va, e copertamente osserva il tuo giuramento, e a Tarolfo ciò che tu promettesti liberamente attieni: egli l’ha ragionevolmente e con grande affanno guadagnato». Cominciò la donna a piangere e a dire: «Facciano gl’iddii da me lontano cotal fallo; in niuna maniera farò questo: avanti m’ucciderei ch’io facessi cosa che disonore o dispiacere vi fosse». A cui il cavaliere disse: «Donna, giá per questo non voglio che tu te n’uccida, né ancora che una sola malinconia tu te ne dia: niuno dispiacere m’è, va e fa quello che impromettesti, ch’io non t’avrò meno cara; ma questo fornito, un’altra volta ti guarda da si fatte impromesse, non tanto ti paia il dimandato dono impossibile ad avere». Vedendo la donna la volonta del marito, ornatasi e fattasi bella, e presa compagnia, andò all’ostiere di Tarolfo, e di vergogna dipinta gli si presentò dinanzi. Tarolfo come la vide, levatosi da lato a Tebano con cui sedeva, pieno di maraviglia e di letizia le si fece incontro, e lei onorevolmente ricevette, dimandando la cagione della sua venuta. A cui la donna rispose: «Per essere a tutti i tuoi voleri sono venuta; fa di me quel che ti piace». Allora disse Tarolfo: «Senza fine mi fate maravigliare, pensando all’ora e alla compagnia con cui venuta siete: senza novitá stata tra voi e vostro marito non puote essere, ditelomi, io ve ne priego». Narrò allora la donna interamente a Tarolfo come la cosa era tutta per ordine. La qual cosa udendo, Tarolfo piú che prima si cominciò a maravigliare e a pensar forte, e a conoscere cominciò la gran líberalita del marito di lei che mandata l’avea a lui, e tra sé cominciò a dire che degno di grandissima ripresione sarebbe chi a cosí liberale uomo pensasse villania; e parlando alla donna cosí disse: «Gentil donna, lealmente come valorosa donna avete il vostro dovere servato, per la qual cosa i’ ho per ricevuto ciò che di voi disiderava; e però quando piacerá a voi ve ne potrete tornare al vostro marito, e di tanta grazia da mia parte ringraziarlo, e iscusarglimi della follia che per adietro ho usata, accertandolo che per inanzi piú per me mai tali cose non fiano trattate». Ringraziato la donna molto Tarolfo di tanta cortesia, lieta si partí tornando al suo marito, a cui tutto per ordine narrò quello che avvenuto l’era. Ma Tebano ritornato a Tarolfo dimandò come avvenuto egli fosse; Tarolfo glielo contò; a cui Tebano disse: «Dunque per questo avrò io perduto ciò che da te mi fu promesso?». Rispose Tarolfo: «No, anzi, qualora ti piace, va e le mie castella e i miei tesori prendi per metá, come io ti promisi, però che da te interamente servito mi tengo». Al quale Tebano rispose: «Unque agl’iddii non piaccia che lá dove il cavaliere ti fu della sua donna liberale, e tu a lui non fosti villano, io sia meno cortese. Oltre a tutte le cose del mondo mi piace l’averti servito, e voglio che ciò che in guiderdone del servigio prendere doveva, tuo si rimanga sí come mai fu»; né di quello di Tarolfo volle alcuna cosa prendere. Dubitasi ora quale di costoro fosse maggiore liberalitá, o quella del cavaliere che concedette alla donna l’andare a Tarolfo, o quella di Tarolfo, il quale quella donna cui egli avea sempre disiata, e per cui egli avea tanto fatto per venire a quel punto a che venuto era, quando la donna venne a lui, rimandò la sopradetta libera al suo marito; o quella di Tebano, il quale, abbandonate le sue contrade, oramai vecchio, e venuto quivi per guadagnare i promessi doni, e affannatosi per recare a fine ciò che promesso avea, avendoli guadagnati, ogni cosa rimise, rimanendosi povero come prima».
- «Bellissima è la novella e la dimanda» disse la reina; «e in veritá ciascuno fu assai liberale, e, ben considerando, il primo del suo onore, il secondo del libidinoso volere, e ’l terzo dell’acquistato avere fu cortese: e però volendo conoscere chi maggiore liberalitá o cortesia facesse, conviene considerare quale di queste tre cose sia piú cara. La qual cosa veduta, manifestamente conosceremo il piú liberale, perciò che chi piú dona piú liberale è da tenere. Delle quali tre cose l’una è cara, cioè l’onore, il quale Paolo, vinto Persio, piú tosto volle che i guadagnati tesori. Il secondo è da fuggire, cioè il libidinoso congiugnimento, secondo la sentenza di Sofocle e di Senocrate, dicenti che è la lussuria da fuggire come furiosa signoria. La terza non è da disiderare, ciò sono le ricchezze, con ciò sia cosa che esse siano le piú volte a virtuosa vita noiose, e possasi con moderata povertá vivere virtuosamente, sí come Marco Curzio, Attilio Regolo e Valerio Publicola nelle loro opere manifestarono. Adunque, se solo l’onore è in queste tre cose caro, e l’altre no, dunque quegli maggiore liberalitá fece che la donna donava, avvegna che meno che saviamente facesse. Egli fu ancora nella liberalitá principale, per la cui l’altre seguirono: però, secondo il nostro parere, chi diè la donna, in cui il suo onore consisteva, piú che gli altri fu liberale».
- «Io» disse Menedon, «consento che sia come voi dite, in quanto da voi è detto, ma a me pare ciascuno degli altri fosse piú liberale, e udite come. Egli è ben vero che ’l primo concedette la donna, ma in ciò egli non fece tanta liberalitá quanto voi dite; però che se egli l’avesse voluta negare, giustamente egli non poteva, per lo giuramento fatto dalla donna, che osservare si convenia: e chi dona ciò che non può negare ben fa, in quanto se ne fa liberale, ma poco dona. E però, sí com’io dissi, ciascuno degli altri piú fu cortese: e però che, sí come io giá dissi, Tarolfo aveva giá lungo tempo la donna disiderata e amata sopra tutte le cose, ma per questa avere avea lungamente tribolato, mettendosi per sodisfazione della dimanda di lei a cercare cose quasi impossibili ad avere, le quali pure avute, meritò d’ottenere lei per la promessa fede: la quale, sí come noi dicemmo, tenendo, non è dubbio che nelle sue mani l’onore del marito, e il rimetterle ciò che promesso gli avea, stava. La qual cosa egli fece: dunque dell’onore del marito, del sacramento di lei, e del suo lungo disio fu liberale. Gran cosa è l’avere lunga sete sostenuta, e poi pervenire alla fontana e non bere per lasciare bere altrui. Il terzo fu ancora molto liberale, però che, pensando che la povertá sia una delle moleste cose del mondo a sostenere, con ciò sia cosa ch’ella sia cacciatrice d’allegrezza e di riposo, fugatrice d’onori, occupatrice di virtú, adducitrice d’amare sollecitudini, ciascuno naturalmente quella s’ingegna di fuggire con ardente disio. Il qual disio in molti per vivere splendidamente in riposo s’accende tanto, che essi a disonesti guadagni e a sconce imprese si mettono, forse non sappiendo o non potendo in altra maniera il loro disio adempiere: per la qual cosa tal volta meritano morire, o avere delle loro terre eterno esilio. Dunque, quanto deono elle piacere ed essere care a chi in modo debito le guadagna e possiede? E chi dubiterá che Tebano fosse poverissimo, se si riguarda ch’egli, abbandonati i notturni riposi, per sostentare la sua vita, ne’ dubbiosi luoghi andava cogliendo l’erbe escavando le radici? E che questa povertá occupasse la sua virtú ancora si può credere, vedendo che Tarolfo si credeva essere gabbato da lui, quando di vili vestimenti il riguardava vestito; e che egli fosse vago di quella miseria uscire e divenire ricco, sappiendo ch’egli di Tesaglia infino in Ispagna venne, mettendosi pe’ dubiosi cammini e incerti dell’aere alle pericolose cose per fornire la promessa fatta da lui, e per ricevere quella d’altrui, in sè si può vedere: chi a tante e tali cose si mette per povertá fuggire, senza dubbio si dee credere che egli quella piena d’ogni dolore e d’ogni affanno essere conosce. E quanto di maggiore povertá è uscito ed entrato in ricca vita, tanto questa gli è piú graziosa. Adunque, chi di povertá in ricchezza è venuto, e con quella il vivere gli diletta, quanta e quale liberalitá è quella di chi quella dona, e nello stato, ch’egli ha con tanti affanni fuggito, consente di ritornare? Assai grandissime e liberali cose si fanno, ma questa maggiore di tutte mi pare: considerando ancora l’eta del donatore che era vecchio, con ciò sia cosa che ne’ vecchi soglia continuamente avarizia molto piú che ne’ giovani avere potere. Però terrò che ciascuno de’ due seguenti abbia maggiore liberalitá adoperata che ’l primo tanto da voi commendato, e ’l terzo maggiore che niuno.»
- «Quanto meglio per alcuno si potesse la vostra ragione difendere, tanto la difendete bene voi» disse la reina; «ma noi brevemente intendiamo dimostrarvi come il nostro parere dobbiate piú tosto che il vostro tenere. Voi volete dire che colui niuna liberalitá facesse concedendo la moglie, però che di ragione fare gliele convenia per lo sacramento fatto dalla donna, la qual cosa saria cosí, se il sacramento tenesse; ma la donna, con ciò sia cosa ch’ella sia membro del marito, o piú tosto un corpo con lui, non poteva fare quel sacramento senza volontá del marito, e se ’l fece, fu nullo, però che al primo sacramento lecitamente fatto niuno susseguente puote di ragione derogare, e massimamente quelli che per non dovuta cagione non debitamente si fanno: e ne’ matrimoniali congiugnimenti è usanza di giurare d’essere sempre contento l’uomo della donna, e la donna dell’uomo, né di mai l’uno l’altro per altra cambiare; dunque la donna non poté giurare, e se giurò, come giá detto averno, per non dovuta cosa giurò, e contraria al primo giuramento, e non deve valere, e non valendo, oltre al suo piacere non si dovea commettere a Tarolfo, e se vi si commise, fu egli del suo onore liberale, e non Tarolfo, come voi tenete. Né del sacramento poté liberale essere rimettendolo, con ciò sia cosa che il sacramento niente fosse: adunque solamente rimase liberale Tarolfo del suo libidinoso disio. La qual cosa di proprio dovere si conviene a ciascuno fare, però che tutti per ogni ragione siamo tenuti d’abbandonare i vizi e di seguire le virtú. E chi fa quello a che egli è di ragione tenuto, sí come voi diceste, in niuna cosa è liberale, ma quello che oltre a ciò si fa di bene, quello è da chiamare liberalitá dirittamente. Ma però che voi forse nella vostra mente tacito ragionate che onore può essere quello della casta donna al marito che tanto debba esser caro, noi prolungheremo alquanto il nostro parlare, mostrandolvi, acciò che piú chiaramente veggiate che Tarolfo e Tebano, di cui appresso intendiamo di parlare, niuna liberalitá facessero a rispetto del cavaliere. Da sapere è che castitá insieme con l’altre virtú niun altro premio rendono a’ posseditori d’esse se non onore, il quale onore, tra gli uomini virtuosi, li meno virtuosi fa piú eccellenti. Questo onore, se con umiltá gli uomini il sostengono, gli fa amici di Dio, e per conseguente felicemente vivere e morire, e poi possedere gli eterni beni. Il quale se la donna al suo marito serva, egli vive lieto e certo della sua prole, e con aperto viso usa infra la gente, contento di vedere lei per tale virtú dalle piú alte donne onorata, e nell’animo gli è manifesto segnale costei essere buona, e temere Iddio, e amare lui, ché non poco gli dee piacere, sentendo che per eterna compagnia indivisibile, fuor che da morte, gli è donata. Egli per questa grazia ne’ mondani beni e ne’ spirituali si vede continuo multiplicare. E cosí, per contrario, colui la cui donna di tale virtu ha difetto, niuna ora può con vera consolazione passare, niuna cosa gli è a grado, l’uno la morte dell’altro disidera. Egli si sente per lo sconcio vizio nelle bocche de’ piú miseri esser portato, né gli pare che sí fatta cosa non si debba credere da chiunque è udita. E se tutte l’altre virtú fossero in lui, questo vizio par ch’abbia forza di contaminarle e guastarle. Dunque grandissimo onore è quello che la castitá della buona donna rende all’uomo, e molto da tener caro. Beato si può chiamare colui a cui per grazia cotal dono è conceduto, avvegna che noi crediamo che pochi siano coloro a’ quali di tal bene sia portato invidia. Ma ritornando al nostro proposito, vedete quanto il cavaliere dava: egli non ci è della mente uscito, quando diceste Tebano essere stato piú che gli altri liberale, il quale con affanno arricchito, non dubitò di tornare nella miseria della povertá, per donare ciò che acquistato aveva. Apertamente si pare che da voi è male conosciuta la povertá, la quale ogni ricchezza trapassa se lieta viene. A Tebano giá forse per le acquistate ricchezze pareva esser pieno d’amare e di varie sollecitudini. Egli giá imaginava che a Tarolfo paresse aver mal fatto, e trattasse di ucciderlo per ravere le sue castella. Egli dimorava in paura non forse da’ suoi sudditi fosse tradito. Egli era entrato in sollecitudine del governamento delle sue terre. Egli giá conosceva tutti gl’inganni apparecchiati da’ suoi parzionali di fargli. Egli si vedeva da molti invidiato per le sue ricchezze, egli dubitava non ladroni occultamente quelle gli levassero. Egli era ripieno di tanti e tali e vari pensieri e sollecitudini, che ogni riposo era da lui fuggito. Per la qual cosa ricordandosi della preterita vita, e come senza tante sollecitudini la menava lieta, tra sé disse: ‛Io disideravo d’arricchire per riposo, ma io veggo ch’è accrescimento di tribulazioni e di pensieri, e fuggimento di quiete’. E tornando disideroso d’essere nella sua prima vita, quelle rendé a chi gliele avea donate. La povertá è rifiutata ricchezza, bene non conosciuto, fugatrice degli stimoli, la quale fu da Diogene interamente conosciuta. Tanto basta alla povertá quanto natura richiede. Sicuro da ogni insidia vive chi con quella pazientemente s.’accosta; né gli è tolto il potere a grandi onori pervenire, se virtuosamente vive sí come giá dicemmo: e però se Tebano si levò questo stimolo da dosso, non fu liberale, ma savio. In tanto fu grazioso a Tarolfo, in quanto piti tosto a lui che ad un altro gli piacque donarlo, potendolo a molti altri donare. Fu adunque piti liberale il cavaliere, che il suo onore concedeva, che ciascuno degli altri. E pensate una cosa: che l’onore che colui donava è irrecuperabile, la qual cosa non avviene di molte altre, sí come di battaglie, di prove e d’altre cose, le quali se una volta si perdono, un’altra si riacquistano, ed è possibile. Questo basti sopra la vostra dimanda aver detto.
- Quistione V.
- Poi che la reina tacque, e Mendedon fu rimaso contento, un valoroso giovane chiamato Clonico, il quale appresso Menedon sedeva, cosí incominciò a parlare: «Bellissima reina, tanto è stata bella e lunga la novella di questo nobile giovane, che io, acciò che gli altri nel brieve tempo ad agio possano dire, quanto potrò, lo mio intendimento brievemente vi narrerò: e dico che, con ciò fosse cosa che io ancora molto giovane conoscessi la vita de’ soggetti del nostro signore Amore piena di molte sollecitudini e d’angosciosi stimoli con poco diletto, lungamente a mio potere la fuggii, schernendo piú tosto coloro che la seguivano, che commendandoli, e, ben che io molte volte giá fossi tentato, con forte animo resistetti, cessando i tesi lacciuoli! Ma però che io a quella forza, alla quale Febo non poté resistere, non ero forte a contrastare, avendosi Cupido pur posto in core di recarmi nel numero de’ suoi sudditi, fui preso, né quasi m’accorsí come, però che, un giorno, giá per lo rinnovellato tempo lieto andando io su per li salati liti, conche marine con diletto prendendo, avvenne che voltando gli occhi verso le nitide onde, per quelle vidi subito venire una barchetta, nella quale quattro giovani con un solo marinaro venivano, tanto belle, che mirabile cosa il vederle sí belle mi parve. Essendosi esse giá verso di me appropinquate assai, né io però avendo i miei occhi da’ loro visi levati, vidi in mezzo di loro un lustrore grandissimo, nel quale, secondo che l’estimativa mi porse, vedere mi parve una figura d’un angelo giovanissino, e tanto bello, quanto alcuna cosa mai da me veduta. Il quale rimirando io, mi parve ch’egli dicesse cosí verso me con voce assai dalla nostra diversa: «O giovane, stolto perseguitatore della nostra potenza, ora se’ giunto! Io sono qui venuto con quattro belle giovinette: piglia per donna quella che piú piace agli occhi tuoi». Io, questa voce udendo, tutto rimasi stupefatto, e con gli occhi e col cuore cercava di fuggire quello che io giá molte volte fuggito aveva; ma ciò era niente, però che alle mie gambe era tolta la possa, ed egli aveva arco e ale da giugnermi assai tosto. Ond’io tra quelle mirando, vidi una di loro tanto bella e graziosa nell’aspetto e ne’ sernbianti pietosa, ch’io imaginai di volere lei per singulare donna, tra me dicendo: «Costei agli occhi miei sí umile si presenta, che fermamente ella non sará ai miei disiri nemica, sí come molte altre sono a coloro i quali io, vedendogli pieni di affanni, ho giá scherniti, ma sará delle mie noie cacciatrice». E questo pensato, subito risposi: «La graziosa bellezza di quella giovane che alla vostra destra siede, o signor mio, mi fa disiderare d’essere a voi e a lei ancora fedelissimo servidore: però io sono qui a’ vostri voleri presto, fate di me quello che a voi piace». Io non aveva ancora compiuto di parlare, ch’io mi sentii il sinistro lato piagare d’una lucente saetta venuta dall’arco che egli portava, la quale io stimai che d’oro fosse. E certo io non vidi quand’egli, volto a lei, essa ferí d’una di piombo: e in questa maniera preso rimasi ne’ lacci da me lungamente fuggiti. Questa giovane piacque e piace tanto agli occhi miei, che ogni altro piacere fora per comparazione a questo scarso. Della qual cosa ella avvedendosene, lungamente se ne mostrò contenta; ma poi ch’ella conobbe me sí preso del suo piacere, che impossibile mi sarebbe non amarla, incontanente ella il suo inganno con non dovuto sdegno verso me scoperse, mostrandosi ne’ sembianti a me crudelissima nemica, sempre gli occhi torcendo in parte a quella contraria dove me veduto avesse, e con non dovute parole continuo dispregiandomi. Per la qual cosa, avendo io in molte maniere con prieghi e con umiltá ingegnatomi di raumiliare la sua acerbitá, e non potendo mai, io sovente piango, e dolgomi di tanto infortunio, né in maniera alcuna posso d’amarla tirarmi indietro: anzi quanto piú crudele contra me la sento, tanto piú pare che la fiamma del suo piacere m’accenda il tristo cuore. Delle quali cose dolendomi io un giorno tutto saletto in un giardino con infiniti sospiri accompagnati da molte lagrime, sopravvenne un mio singulare amico, al quale parte de’ miei danni era palese, e quivi con pietose parole mi cominciò a volere confortare, i cui conforti non ascoltando io punto, ma rispondendogli che la mia miseria ogni altra passava, egli cosí mi disse: «Tanto è l’uomo misero quanto egli medesimo si fa o si reputa; ma certo io ho molto maggiore cagione di dolermi che tu non hai». Io allora quasi turbato mi rivolsi a lui, dicendo: «E come? Chi la può maggiore di me avere? Non ricevo io mal guiderdone per ben servire? Non sono io odiato per lealmente amare? Cosí come me può alcuno essere dolente, ma piú no». «Certo» disse l’amico, «io ho maggiore cagione di dolermi che tu non hai, e odi come. A te non è occulto ch’io lungo tempo abbia una gentil donna amata e amo sí come tu sai, né mai alcuna cosa fu ch’io credessi che a lei piacesse, che con tutto il mio ingegno e potere non mi sia messo a farla. E certo essa di questo conoscente, di ciò ch’io piú disiderava mi fé grazioso dono, il quale avendo io ricevuto, e ricevendo qualora mi piaceva, per lunga stagione non mi pareva alla mia vita avere in allegrezza pari. Solo uno stimolo avea, che non le poteva far credere quanto io perfettamente l’amava: pure di questo, sentendomi amarla come io diceva, leggermente mi passava. Ma gl’iddii, che niuno bene mondano vogliono senza alcuna amaritudine concedere, acciò che i celestiali siano piú conosciuti, e per conseguente piú disiderati, a questo m’aggiunsero un altro a me senza comparazione noioso, ch’egli avvenne che dimorando io un giorno saletto con lei in segreta parte, veggendo chi davanti a noi passava senza essere veduti, un giovane grazioso e di piacevole aspetto passò per quella parte, il quale io vidi ch’ella riguardò e poi un pietoso sospiro gittò. La qual cosa vedendo, dissi: ‛Oimè, sono io sí tosto rincresciuto, che voi per la bellezza d’altro giovane sospiriate?’. Ella divenuta nel viso di nuova rossezza dipinta, con molte scuse, giurando per la potenza de’ sommi iddii, si cominciò ad ingegnarsi di farmi scredere ciò che io per lo sospirare avea pensato: ma ciò fu niente, però che nel core mi si accese un’ira si ferocissima, che quasi con lei mi fece allora crucciare, ma pure mi ritenni. E certamente mai dell’animo partire non mi si puote che costei colui o altri non amasse piú di me: e tutti questi pensieri, i quali altra volta in mio aiuto recava, cioè ch’ella piú ch’altro me amasse, ora tutti in contrario stimo, imaginando che fittiziamente abbia detto e fatto ciò che per adietro ha operato, di che dolore intollerabile sostengo. Né a ciò alcuno conforto vale; ma però che vergogna sovente raffrena il volere ch’io ho di dolermi piú che di rallegrarmi, non continuo l’acerbo mio dolore sí che io ne faccia alcuno avvedere, ma, brievemente, io mai senza sollecitudine e pensieri non sono, i quali molto piú noia mi danno ch’io non vorrei. Adunque appara a sostenere le minori cose, poi che a me le maggiori vedi con forte animo portare nascose». Al quale io risposi che non mi pareva in niuno modo il suo dolore, ben che fosse grande, al mio si potesse agguagliare. Ed egli mi rispondeva il contrario: e cosí in lunga quistione dimorammo, partendoci poi senza alcuna diffinizione. Priegovi che ne diciate quello che di questo ne giudicate».
- «Giovane» disse la reina, «gran pena è la vostra, e torto ha la donna di non amarvi; ma tutta fiata il vostro dolore può essere da speranza aiutato: quello che del vostro compagno non avviene, però che, poi ch’egli è una volta entrato in sospetto, niuna cosa nel può cacciare. Dunque continuamente senza conforto si dorrá mentre l’amore durera: e però, secondo il nostro giudicio, ne pare maggiore doglia quella del geloso che quella di chi ama e non è amato.»
- Disse Clonico allora: «O nobile reina, per ciò che voi dite, aperto pare che sempre siete stata amata da chi amato avete, per la qual cosa la mia pena mal conoscete. Come si potrebbe mostrare che gelosia porgesse maggiore pena che quella ch’io sento, con ciò sia cosa che colui la disiderata cosa possiede, e puote, quella tenendo, prendere in un’ora piú diletto di lei che in un lungo tempo sentirne pena, e nondimeno da sé per esperienzia può cacciare tal gelosia, se avviene che trovi falso il suo parere? Ma io, di focoso disio acceso, quanto piú mi trovo lontano ad adempierlo, tanto piú ardo, e assalito da mille stimoli mi consumo; né a ciò mi può aiutare alcuna speranza, però che per le molte volte ch’io ho riprovata costei, e trovatala ognora piú acerba, io vivo disperato. Per che la vostra risposta mi pare che alla veritá sia contraria: però che io non dubito che sia molto meglio dubitando temere, che piangendo disiare».
- «Quella amorosa fiamma che negli occhi ne luce e che il nostro viso ognora adorna piú di bellezza, mai non consentí che invano amassimo, sí come voi dite, ma non per tanto non ci si occulta quanta e quale sia la pena dell’uno, e quale dell’altro», rispose la reina, seguendo: «e però, sí come la nostra risposta sia con la veritá una cosa, vi mostreremo. Egli è manifesto che quelle cose che piú la quiete dell’animo impediscono, sono le sollecitudini, delle quali alcune a lieto fine vanno, alcune a dolente fuggire intendono. Delle quali quanto piú ne ha l’animo, tanto piú ha affanno, e massimamente quando noiose sono: e che il geloso piú di voi n’abbia è manifesto, però che voi a niuna cosa intendete se non solamente ad acquistare l’amore di quella donna cui voi amate, il quale non potendolo avere v’è gravissima noia. Ma certo e’ potrebbe di leggieri avvenire, con ciò sia cosa che i cuori delle femine sieno mobili, che voi subitamente, non pensandoci, vi trovereste averlo acquistato: e forse ch’ella v’ama, ma, per provare se voi lei amate, dimostra il contrario, e mostrerá forse infino a quel tempo ch’ella fia bene del vostro amore accertata. Con questi pensieri può molto speranza mitigare la vostra doglia: ma il geloso ha l’animo pieno d’infinite sollecitudini, alle quali né speranza né altro diletto può porgere conforto o alleviare la sua pena. Egli sta intento di dare legge a’ vaghi occhi, a’ quali il suo posseditore non la può donare. Egli vuole e s’ingegna di porre legge a’ piedi, e alle mani, e a ogni altro atto della sua donna. Egli vuole essere provvido conoscitore e de’ pensieri della donna e della allegrezza, ogni cosa interpetrando in male di lui, e credendo che ciascuno disideri e ami quello che egli ama. Similmente s’imagina che ogni parola sia doppia e piena d’inganno; e s’egli mai alcuna detrazione commise, questo gli è mortal pensiero, imaginando che per simile modo esso debba essere ingannato. Egli vuoi chiudere con avvisi le vie dell’aere e della terra, e, brievemente, ne’ suoi pensieri gli nocciono il cielo e la terra, gli uccelli e gli animali, e qualunque altra creatura: e di questo levarlo non ha luogo esperienza, però che se la fa, e se egli trova che lealmente la donna si porti, egli pensa che avveduta si sia di ciò ch’egli ha fatto, e però guardata se n’è. S’egli trova quello che cerca, e che trovare non vorria, chi è piú doloroso di lui? Se forse stimate che ’l tenerla in braccio gli sia tanto diletto che queste cose debba mitigare, il parere vostro è falso, però che quello tenere gli porge noia, pensando che altri cosí l’abbia tenuta come egli. E se la donna forse amorevolmente l’accoglie, credesi che per torlo da tal pensiero il faccia, e non per buono amore ch’ella gli porti. Se a malinconica la trova, pensa che altri ami e di lui non si contenti: e infiniti altri stimoli potremmo de’ gelosi narrare. Dunque che diremo della costui vita, se non ch’ella sia la piú dolente che alcun vivente possa avere? Egli vive credendo e non credendo, e la donna stimolando: e le piú volte suole avvenire che di quella malattia di che i gelosi vivono paurosi, elli ne muoiono, e non senza ragione, però che con le loro riprensioni molte fiate mostrano a’ loro danni la via. Considerando adunque le predette cose, piú ha il vostro amico, che è geloso, cagione di dolersi che voi non avete, però che voi potete sperare d’acquistare, e colui con paura vive di perdere quella cosa ch’egli a pena tiene in sua. E però s’egli ha piú materia da dolersi di voi, e confortasi il meglio che puote, molto maggiormente voi vi dovete confortare e lasciare stare il pianto, ch’è atto di pusillanima feminella, e sperare del buono amore, che voi alla vostra donna portate, non dovere perdere merito: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, perciò che amore mai non perdonò l’amare a nullo amato, e a’ robusti venti si rompono piú tosto le dure quercie che le consenzienti canne.»
- Quistione VI.
- Vestita di bruni vestimenti sotto onesto velo sedeva appresso costui una bella donna, la quale, come sentí la reina alle parole aver posto fine, cosí cominciò a dire: «Graziosa reina, e’ mi ricorda che, essendo io ancora picciola fanciulla, un giorno dimorava con un mio fratello, bellissimo giovane e di compiuta etá, in un giardino, e senza alcuna altra compagnia. Dove dimorando, avvenne che due giovani donzelle, di sangue nobili e di ricchezza copiose, e della nostra cittá natie, amando questo mio fratello e sentendolo essere in quel giardino, amendue lá se ne vennero, e lui, che di queste cose niente sapeva, di lontano cominciarono a riguardare. Dopo alquanto spazio, vedendolo solo, fuori che di me, di cui elle poco curavano però che io era picciola, cosí tra loro incominciarono a dire: «Noi amiamo questo giovane sopra tutte le cose, né sappiamo s’egli ama noi, né convenevole è che amendue ci ami; ma qui n’è al presente lecito di prendere di lui parte del nostro disio, e di conoscere se di noi egli ama alcuna, o quale egli ama piú; e quella ch’egli piú ama, poi sua si rimanga senza esserle dall’altra impedito: e però ora ch’egli dimora solo, e che noi abbiamo tempo, corriamo, e ciascuna l’abbracci e baci, ed egli quale poi piú gli piacerá prenderá». Determinatesi a questo, le due giovani cominciarono a correre sovra la verde erba verso il mio fratello: di che egli si maravigliò vedendole, e veggendo come elle veniano. Ma l’una di loro ancora assai lontano vergognosa quasi piangendo ristette, l’altra infino a lui corse e abbracciollo e baciollo e poseglisi a sedere allato raccomandandoglisi. E poi che l’ammirazione che costui ebbe dell’ardire di costei fu alquanto cessata, egli la pregò, per quell’amore ch’ella gli portava, che gli dovesse di questa cosa dire intera la veritá. Essa niente gli celò: la qual cosa questi udendo, e dentro nella mente esaminando ciò che l’una e l'altra avea fatto, tra sé conoscere non sapeva quale piú l’amasse, né quale piú egli dovesse amare. Ma venuto accidente che da queste gli convenne partire, di questo a piú amici dimandò consiglio, né mai alcuno sodisfece al suo piacere di tal dimanda: per la qual cosa io priego voi, da cui veramente credo la vera diffinizione avere, che mi diciate quale di queste due deve essere piú dal giovane amata».
- A questa donna cosí la reina rispose: «Certo delle due giovani quella ne pare che piú il vostro fratello ami, e piú da lui deggia essere amata, che dubitando vergognosa rimase senza abbracciarlo: e per che questo ne paia, questa è la ragione. Amore, sí come noi sappiamo, sempre fa timidi coloro in cui dimora, e dove è maggior parte d’esso, similmente v’è maggiore temenza. E questo avviene però che lo intendimento della cosa amata non si può intero sapere, ché, se ’l si potesse sapere, molte cose, temendo dispiacere, non si fanno che si farebbero, però che ciascuno sa che spiacendo si toglie cagione d’essere amato: e con questa temenza e con amore sempre dimora vergogna, e non senza ragione. Adunque, tornando alla nostra quistione, diciamo che atto di vera innamorata fu quello di quella che timida si mostrò e vergognosa. Quello dell’altra, piú tosto di scelerata e di libidinosa che d’innamorata fu sembiante: e però essendo egli da colei piú amato, piú deve lei, secondo il nostro giudizio, amare».
- Rispose allora la donna: «Gentil reina, vera cosa è che amore, ov’egli moderatamente dimora, temenza e vergogna conviene del tutto che usi; ma la ove egli in tanta quantitá abbonda, che agli occhi dei piú savi leva la vista, come giá per adietro si disse, dico che temenza non ha luogo, ma i movimenti di chi ciò sente sono secondo che egli sospigne: e però quella giovane, vedendosi dinanzi il suo disio, tanto s’accese, che, abbandonata ogni vergogna, corse a quello di che era sí forte stimolata, che inanzi sostenere non potea. L’altra, non tanto infiammata, servò piú gli amorosi termini, vergognandosi, e rimanendo come voi dite. Adunque ama piú quella, e piú dovria essere amata».
- «Savia donna» disse la reina, «veramente a’ piú savi leva amore soperchio la veduta e ogni altro debito sentimento, e questo è alle cose che sono fuori di sua natura; ma quelle che a sé appartengono, come egli cresce cosí crescono. Adunque, quanta maggior quantitá d’esso in alcuno si trova, e cosí del timore, come in prima dicemmo, si dee trovare. E che questo sia vero, lo scelerato ardore di Biblis lo ci manifesta, la quale quanto amasse si dimostrò nella sua fine, vedendosi abbandonata e rifiutata: né giá per questo ebbe ella ardire di scoprirsi con le proprie parole, ma scrivendo il suo sconvenevole disio palesò. Similmente Fedra piú volte tentò di volere ad Ipolito, a cui, come a dimestico figliuolo, poteva arditamente parlare, dire quant’ella l’amava, né era prima la sua volontá pervenuta alla bocca per proferirla, che, temendo, in su la punta della lingua le moriva. O quanto è timoroso chi ama! Chi fu piú possente che Alcide, al quale non bastò la vittoria delle umane cose, ma ancora a sostenere il cielo si mise! E ultimamente non di donna, ma d’una guadagnata giovane s’innamorò tanto, che come umile suggetto, e temendo li comandamenti di lei, faceva le minime cose! E ancora Paris, quello che né con gli occhi né con la lingua ardiva di tentare, col dito avanti alla sua donna del caduto vino scrivendo primieramente il nome di lei, appresso scriveva: ‛io t’amo’! Quanto ancora sovra tutti questi ci porge debito esempio di temenza Pasife, la quale ad una bestia senza razionale intendimento e senza intelletto non ardiva d’esprimere il suo volere, ma con le proprie mani cogliendo le tenere erbe s’ingegnava di farlo a sé benigno, adornando se medesima sovente allo specchio per piacergli e per accenderlo in tal disio quale era ella, acciò ch’egli si movesse a cercare ciò che ella non ardiva dimandare a lui! Non è atto di donna innamorata, né d’alcun’altra, l’essere pronta, con ciò sia che sola la molta vergogna, la quale in noi deve essere, è rimasa del nostro onore guardatrice. Noi abbiamo voce tra gli uomini, ed è cosí la veritá, di sapere meglio l’amorose fiamme nascondere che gli uomini: e questo non genera altro che la molta temenza, la quale le nostre forze, non tante quanto quelle degli uomini, piú tosto occupa. Quante ne sono giá state, e forse noi d’alcune abbiamo saputo, le quali s’hanno molte volte fatte invitare di pervenire agli amorosi affetti, che volontieri n’avrebbero lo invitatore invitato prima che egli loro, se debita vergogna o temenza ritenute non le avesse! E non per tanto, ogni ora che il no è della loro bocca uscito, hanno avuto nell’animo mille pentute, dicendo col core cento volte sí. Rimanga, adunque, simile scelerato ardire nelle pari di Semiramis e di Cleopatra, le quali non amano, ma cercano acchetare il loro libidinoso volere, il quale acchetato, non piú avanti d’uno che d’un altro si ricordano. I savi mercatanti mal volontieri arrischiano tutti i loro tesori ad un’ora a’ fortunosi casi: e non per tanto una picciola parte non si curano di concedere loro, non sentendo di quella nell’animo alcuno dolore, s’avviene che la perdano. Amava dunque la giovane, che abbracciò il vostro fratello, poco, e quel poco alla fortuna concedette, dicendo: ‛Se costui per questo io acquisto, bene sta, se mi rifiuta, non ci sará piú che prendersene un altro’. L’altra, che vergognando si rimase, con ciò sia cosa che ella lui amasse sopra tutte le cose, dubitò di mettere tanto amore in avventura, imaginandosi: ‛Se questo forse gli spiacesse e rifiutassemi, il mio dolore sarebbe tanto e tale ch’io ne morrei’. Sia adunque piú la seconda che la prima amata.»
- Quistione VII.
- Feriva del sole un chiaro raggio passando fra le verdi fronde sopra il detto fonte, il quale la sua luce rifletteva nel bel viso dell’adorna reina, la quale di quel colore era vestita che ’l cielo ne mostra, quando, amendue i figliuoli di Latona a noi nascosi, sol con le sue stelle ne porge luce. E oltre allo splendore del viso, quello tanto lucente faceva, che mirabile lustro a’ dimoranti in quel luogo porgeva fra le fresche ombre: e tal volta il riflesso raggio si distendea infino al luogo dove la laurea corona d’una parte con la candida testa, dall’altra con gli aurei capelli terminava, tra quelli mescolata con non maestrevole avvolgimento: e quando quivi perveniva, nel primo sguardo si saria detto che tra le verdi fronde uscisse una chiara fiammetta d’ardente fuoco, e tanto si dilatasse, quanto i biondi capelli si dimostravano a’ circustanti. Questa mirabile cosa, forse piú tosto o meglio avvedutosene che alcuno degli altri, mirava Galeone intentivamente quasí come d’altro non gli calesse, il quale per opposito a fronte alla reina sedeva in cerchio, dividendoli l’acqua sola: e non movea bocca alla quistione che a lui veniva, perché taciuto avesse la reina giá per alquanto spazio, avendo contentata la savia donna. A cui la reina cosí disse: «O solo disio forse della cosa che tu miri, dinne qual è la cagione che cosí sospeso ti tiene, che, seguendo gli ordini degli altri, non parli, solamente, come noi crediamo, mirando la nostra testa, come se da te mai veduta non fosse stata? Dilloci in prima, e poi, sí come gli altri hanno proposto, tu proponi». A questa voce, Galeone, levato l’animo da’ dolci pensieri, in sé ritornò alquanto riscotendosi, come tal volta colui, che per paura rompe il dolce sonno, suole fare, e cosí disse: «Alta reina, il cui valore impossibile saria a narrare, graziosi pensieri in se stessi teneano la mia mente involta, quando io sí fiso mirava la vostra fronte, che mi parve, allora che il chiaro raggio giunse nella bella acqua, riflettendo nel vostro viso, che dell’acqua uscisse uno spiritello tanto gentile e grazioso a vedere, ch’egli si tirò dietro l’anima mia a riguardare ciò che facesse, sentendo forse i miei occhi insofficienti a tanta gioia mirare, e salì per lo chiaro lume negli occhi vostri, e quivi per lungo spazio fece mirabile festa adornandoli di nuova chiarezza. Poi salendo più su questa luce, lasciando nei begli occhi i suoi vestigi, lo vidi salire sopra la vostra corona, sopra la quale, come egli vi fu, insieme co’ raggi parve che nuova fiamma vi s’accendesse, forse qual fu giá quella che fu da Tanaquilla veduta a Tullo piccolo garzone, dormendo: e dintorno a questa saltando di fronda in fronda, come uccelletto che amoroso cantando visita molte foglie, s’andava, e i vostri capelli con diversi atti movendo, e tornando a quelle, tal volta in essi nascondendosi e poi piú lieto ogni volta uscendo fuori; e parevami ch’egli fosse tanto allegro in se medesimo, quanto alcuna cosa mai esser potesse, e gisse cantando, overo con dolci voci queste parole dicendo:
- Io son del terzo ciel cosa gentile,
- sì vago de’ begli occhi di costei,
- che s’io fossi mortal me ne morrei.
- E vo di fronda in fronda a mio diletto,
- intorniando gli aurei crini,
- me di me accendendo:
- e ’n questa mia fiammetta con effetto
- mostro la forza de’ dardi divini,
- andando ogn’uom ferendo
- che lei negli occhi mira, ov’io discendo
- ciaschedun’ora ch’è piacer di lei,
- vera reina delli regni miei.
- E, con queste, molte altre ne diceva, andando com’io v’ho detto, quando mi chiamaste; ma non prima la voce moveste, ch’egli subito si tornò ne’ nostri occhi, i quali come matutine stelle scintillano di nuova luce, questo loco lustrando: udito avete da che gioia con nuovo pensiero m’avete alquanto separato». Di questo si maravigliò assai Filocolo e gli altri, e, rivolti gli occhi verso la loro rema, videro quello che a udire pareva loro impossibile. Ed ella, vestita d’umiltá, ascoltando le vere parole di lei dette, stette con fermo viso senza alcuna risposta. E però Galeone cosí parlando seguí: «Graziosa reina, io disidero di sapere se ciascuno uomo, a bene di se medesimo, si deve innamorare o no. E a questo dimandare mi muovono diverse cose vedute e udite e tenute dalle varie opinioni degli uomini».
- Lungamente riguardò la reina Galeone nel viso, e poi dopo alcun sospiro cosí rispose: «Parlare ci conviene contro a quello che noi con disiderio seguiamo. E certo a te dovria bene essere manifesto ciò che tu dimandando proponi in dubbio. Serverassi, rispondendo a te, lo incominciato ordine, e colui a cui soggetta siamo, le parole, le quali, costretta dalla forza del giudizio, diciamo contro alla sua deita, piú tosto che volontaria, ci perdoni: né però la sua indegnazione caggia sopra di noi. E voi, che similmente come noi soggetti gli siete, con forte animo l’ascoltate, non mutandovi per quelle del vostro proponimento. E acciò che meglio e con piú aperto intendimento le nostre parole si prendano, alquanto fuori della materia ci distenderemo, a quella quanto piú brievemente potremo tornando, e cosí diciamo: amore è di tre maniere, per le quali tre, tutte le cose sono amate; alcuna per la virtú dell’una, e alcuna per la potenza dell’altra, secondo che la cosa amata è, e similmente l’amante. La prima delle quali tre si chiama amore onesto: questo è il buono, il diritto e il leale amore, il quale da tutti abitualmente deve esser preso. Questo il sommo e il primo creatore tiene alle sue creature congiunto, e loro a lui congiunge. Per questo i cieli, il mondo, i reami, le provincie e le cittá permangono in istato. Per questo meritiamo noi di divenire eterni posseditori de’ celestiali regni. Senza questo è perduto ciò che noi abbiamo in potenza di ben fare. Il secondo è chiamato amore per diletto, e questo è quello al quale noi siamo soggetti. Questo è il nostro iddio: costui adoriamo, costui preghiamo, in costui speriamo che sia il nostro contentamento, e ch’egli interamente possa i nostri disii fornire. Di costui è posta la quistione se bene è a sottometterglisi: a che debitamente risponderemo. Il terzo è amore per utilitá: di questo il mondo piú che d’altro è ripieno. Questo insieme con la fortuna è congiunto. Mentre ella dimora, ed egli similemente dimora; quando si parte, ed egli è guastatore di molti beni: e piú tosto, ragionevolmente parlando, si dovria chiamare odio che amore. Ma però che alla quistione proposta né del primo né dell’ultimo è bisogno di parlare, del secondo diremo, cioè amore per diletto: al quale, veramente, niuno, che virtuosa vita disideri di seguire, si dovria sommettere, però che egli è d’onore privatore, adducitore d’affanni, destatore di vizii, copioso donatore di vane sollecitudini, e indegno occupatore dell’altrui libertá, piú ch’altra cosa da tenere cara. Chi, adunque, per bene di sé, se sará savio, non fuggirá cotale signoria? Viva chi può libero, seguendo quelle cose che in ogni atto aumentano libertá, e lascinsi i viziosi signori a’ viziosi vassalli seguire».
- «Io non pensava» disse allora Galeone, «con le mie parole dar materia di mancamento alla nostra festa, né alla potenza del nostro signore Amore, né le menti d’alcuno perturbare; anzi imaginava che, diffinendola voi, secondo l’intenzione mia e di molti altri, dovesse quelli che gli sono soggetti, con forte animo a ciò confermarli, e quelli che no con disideroso appetito chiamargli. Ma veggio che la vostra intenzione alla mia è tutta contraria, però che voi tre maniere d’amare nelle vostre parole essere mostrate. Delle quali tre, la prima e l’ultima come voi dite consento che siano, ma la seconda, la quale rispondendo alla mia dimanda dite che è tanto da fuggire, tengo che da seguire sia da chi glorioso fine disidera, come aumentatrice di virtú, sí com’io credo appresso mostrare. Questo amore di cui noi ragioniamo, sí come a tutti può essere manifesto, però che il proviamo, adopera questo ne’ cuori umani, poi ch’egli ha l’anima alla piaciuta cosa disposta: egli d’ogni superbia spoglia il cuore e d’ogni ferocitá, faccendolo umile in ciascun atto, sí come manifestamente n’appare in Marte, il quale troviamo che, amando Venere, di fiero ed aspro duca di battaglie, tornò umile e piacevole amante. Egli fa i cupidi e gli avari, liberali e cortesi. Medea, carissima guardatrice delle sue arti, poi che le costui fiamme senti, liberamente sé e il suo onore e le sue arti concedette a Giasone. Chi fa piú solleciti gli uomini all’alte cose, di lui? Quanto egli li faccia, riguardisi a Paris e a Menelao. Chi spegne piú gl’iracondi fuochi, che fa costui? Quante volte fu l’ira d’Achille quetata da’ dolci prieghi di Polissena cel mostra. Questi, piú che altri, fa gli uomini audaci e forti, né so quale maggiore esempio ci si potesse dare di quello di Perseo, il quale per Andromeda fece mirabile prova di virtuosa fortezza. Questi adorna di bei costumi, d’ornato parlare, di magnificenza, di graziosa piacevolezza tutti coloro che di lui si vestono. Questi di leggiadria e di gentilezza a tutti i suoi soggetti fa dono. Oh, quanti sono i beni che da costui precedono! Chi mosse Vergilio? Chi Ovidio? Chi gli altri poeti a lasciare di loro eterna fama ne’ santi versi, li. quali mai a’ nostri orecchi pervenuti non sarieno se costui non fosse? Che diremo noi della costui virtú? Se non ch’egli ebbe forza di mettere tanta dolcezza nella cetera d’Orfeo, che, poi ch’egli a quel suono ebbe chiamate tutte le circustanti selve, e fatti riposare i correnti fiumi, e venire in sua presenza i fieri leoni insieme co’ timidi cervi con mansueta pace, e tutti gli altri animali similmente, egli fece quetare le infernali furie, e diede riposo e dolcezza alle tribolate anime: e dopo tutto questo, fu di tanta virtú il suono, ch’egli meritò di riavere la perduta mogliera. Dunque costui non è cacciatore d’onore, sí come voi dite, né donatore di sconvenevoli affanni, né suscitatore di vizi, né largitore di vane sollecitudini, né indegno occupatore dell’altrui libertá: però con ogni ingegno e con ogni sollecitudine dovrebbe ciascuno, che di lui non è conto e servidore, procacciare e affannare d’avere la grazia di tanto signore e d’essergli soggetto, poi che per lui si diviene virtuoso. Quello che piacque agl’iddii e a’ piú robusti uomini, similmente a noi deve piacere: seguasi, amisi, servisi, e viva sempre nelle nostre menti un cotal signore!»
- «Molto t’inganna il parer tuo» rispose la reina; «e di ciò non è maraviglia, però che tu se’, secondo il nostro conoscimento, piú ch’altro innamorato, e senza dubbio il giudizio degli innamorati è falso, però che il lume degli occhi della mente hanno perduto, e da loro la ragione come nemica hanno cacciata. Adunque, a noi converrá alquanto, oltre al nostro volere, d’amore parlare: di che ci duole, sentendoci a lui soggetta, ma per trarti d’errore, il lecito tacere in vere parole rivolgeremo. Noi vogliamo che tu sappi che quest’amore niun’altra cosa è che una irrazionabile volontá, nata da una passione venuta nel core per libidinoso piacere che agli occhi è apparito, nutricato per ozio da memoria e da pensieri nelle folli menti: e molte volte in tanta quantitá multiplica, che egli leva la intenzione di colui in cui dimora dalle necessarie cose, e disponla alle non utili. Ma però che tu esemplificando ti ingegni di mostrare da costui ogni bene e ogni virtú procedere, a riprovare i tuoi esempli procederemo. Non è atto d’umilta l’altrui cose ingiustamente a sé arrecare, ma è arroganza e sconvenevole presunzione: e certo queste cose usò Marte, come tu sai, per amore divenuto umile, a levare a Vulcano Venere sua legittima sposa. E senza dubbio quell’umiltá, che nel viso appare agli amanti, non procede da benigno cuore, ma da inganno prende principio. Né fa quest’amore i cupidi liberali, ma quando in tanta copia, quanta poni che in Medea fu, abbonda ne’ cuori, quelli del mentale vedere priva, e delle cose, per adietro debitamente avute care, stoltamente diventa prodigo, e, quelle non con misura donando, ma disutilmente gittando, crede piacere, e dispiace a’ savi. Medea, non savia, della sua prodigalitá assai in brieve tempo senza suo utile si penté, e conobbe che se moderatamente i suoi cari doni avesse usati, non sarebbe a sí vile fine venuta. E quella sollecitudine, la quale in danno de’ sollecitanti s’acquista o s’adopera, non ci pare per alcuno da dovere essere cercata: molto vale meglio ozioso stare che male adoperare, ancora che né l’uno né l’altro sia da lodare. Paris fu sollecito alla sua distruzione, se ’l fine di tale sollecitudine si riguarda. Menelao non per amore, ma per acquistare il perduto onore, con ragione divenne sollecito, come ciascuna persona discreta dee fare. Né ancora questo amore è cagione di mitigare l’ira, ma benignitá d’animo, passato l’empito che induce quello, la fa tornare nulla, e rimettesi l’offesa contro a chi s’adira: ben che gli amanti, e ancora i discreti uomini sogliono usare di rimettere l’offese a preghiera di cosa amata o d’alcuno amico, per mostrarsi di ciò che niente loro costa, cortesi, e obbligarsi i pregatori: e per questa maniera Achille piú volte giá mostrò di cacciare da sé la concreata ira. Similmente pare che costui faccia gli uomini arditi e valorosi; ma di ciò il contrario si può mostrare. Chi fu piú valoroso uomo d’Ercole, il quale innamorato mise le sue forze in oblio, e divenuto vile, filò l’accia con le femine di Iole? Veramente, alle cose ove dubbio non corre, gente arditissima sono gli innamorati; e se dove dubbio corre si mostrano arditi, e mettonvisi, non amore, ma poco senno li tira, per avere poi vanagloria nel cospetto delle loro donne, avvegna che questo rare volte avvenga, perché dubitano tanto di perdere il diletto della cosa amata, che essi consentono avanti d’essere tenuti vili. E ancora non dubitiamo che questi mise ogni dolcezza nella cetara di Orfeo: questo consentiamo che sia come tu porgi, ché veramente, al generale, amore empie le lingue de’ suoi suggetti di tanta dolcezza e di tante lusinghe, che esse molte volte farieno con le loro lusinghe volgere le pietre, non che i cuori mobili e incostanti; ma di vile uomo è atto il lusingare! Come adunque diremo che tal signore si deggia seguire per bene proprio del seguitatore? Certo questi, da coloro in cui dimora, fa dispregiare i savi e utili consigli: e male per li troiani non furono da Paris uditi quelli di Cassandra. Fa costui similmente a’ suoi sudditi dimenticare e dispregiare la loro fama buona, la quale dee da tutti, come eterna erede della nostra memoria, rimanere in terra dopo le nostre morti. Quanto la contaminasse Egisto basti per esempio, avvegna che Scilla non meno male operasse che Pasife. Non è costui cagione di rompere i santi patti alla pura fede promessa? Certo sí. Che aveva fatto Arianna a Teseo, per la quale, rompendo i matrimoniali patti, e dando sé a’ venti con la donata fede, misera la dovesse ne’ diserti scogli abbandonare? Un poco di piacere, veduto negli occhi di Fedra dallo scellerato, fu cagione di tanto male, e di cotal merito del ricevuto onore. In costui ancora niuna legge si trova: e che ciò sia vero, mirisi all’opere di Tereo, il quale, ricevuta Filomena dal pietoso padre, a lui carnale cognata, non dubitò di contaminare le sagratissime leggi tra lui e Progne, di Filomena sorella, matrimonialmente contratte. Questi ancora, chiamandosi e faccendosi chiamare iddio, le regioni degl’iddii occupa. Chi potrebbe mai le iniquitá di costui con parole contare appieno! Egli, brievemente, ad ogni male mena chi lo segue: e se forse alcune virtuose opere fanno i suoi seguaci, che avviene rado, con vizioso principio le incominciano, disiderando per quelle piú tosto venire al disiderato fine del laido lor volere. Le quali non virtú ma vizi piú tosto si possono dire, con ciò sia cosa che non sia da riguardare ciò che l’uomo fa, ma con che animo, e quello o vizio o virtú reputare, secondo la volonta dell’operante: però che giá mai cattiva radice non fece buono arbore, né cattivo arbore buon frutto. Adunque è reo questo amore, e se egli è reo, è da fuggire: e chi le malvage cose fugge, per conseguente segue le buone, e cosí è buono e virtuoso. Il principio di costui niuna altra cosa è che paura, il suo mezzo è peccato, e il suo fine è dolore e noia: deesi adunque fuggire e riprovarlo e temere d’averlo in sé, però che egli è impetuosa cosa, né in alcuno suo atto sa aver modo, ed è senza ragione. Egli è senza dubbio guastatore degli animi, e vergogna e angoscia e passione e dolore e pianto di quelli, e mai senza amaritudine non consente che stia il cuore di chi lo tiene. Dunque chi loderá che questi sia da seguire, se non gli stolti? Certo, se lecito ne fosse, volontieri senza lui viveremmo, ma di tal danno tardi ci accorgiamo, e convienci, poi che nelle sue reti siamo incappati, seguire la sua volontá, infino a tanto che quella luce, la quale trasse Enea da’ tenebrosi passi, fuggendo i pericolosi incendii, apparisca a noi, e tirici a’ suoi piaceri.» Quistione VIII.
- Alla destra mano di Galeone una bella donna sedea, il cui nome era Pola, piacevole sotto onesto velo, la quale cosí cominciò a parlare, poi che la reina tacque: «O nobile reina, voi avete al presente determinato che alcuna persona questo nostro amore seguire non dee, e io lo consento; ma impossibile mi pare che la giovane etá degli uomini e delle donne, senza questo amore sentire, trapassare possa. Però al presente lasciando con vostro piacere la vostra sentenza, terrò che lecito sia l’innamorarsi, prendendo il mal fare per debito adoperare. E questo seguendo, voglio da voi sapere quale di due donne deggia piú tosto da un giovane essere amata, piacendo egualmente a lui amendue, o quella di loro che è di nobile sangue, e di parenti possente, e copiosa d’avere molto piú che il giovane, o l’altra la quale non è nobile né ricca, né di parenti abbondevole quanto il giovane».
- Cosí rispose la reina a costei: «Bella donna, ponendo che l’uomo e la donna debba amore seguire, come avanti diceste, noi giudicheremmo che quantunque la donna sia ricca e grande e nobile piú che il giovane, in qualunque grado o dignitá si sia, ch’ella debba piú tosto dal giovane essere amata che quella che alcuna cosa ha meno di lui: però che l’animo dell’uomo a seguire l’alte cose fu creato, dunque avanzarsi e non avvilirsi deve. Appresso ne dice un volgare proverbio: ‛Egli è meglio bene desiare che mal tenere ’. Però ammisi la piú nobile donna, e la meno nobile con giusta ragione si rifiuti per nostro giudicio».
- Disse allora la piacevate Pola: «Reina, altro giudicio sarebbe per me di tal quistione donato come udirete. Noi naturalmente tutti i piú brievi che i lunghi affanni disideriamo: e che minore e piú brieve affanno sia ad acquistare l’amore della meno nobile che quello della piú, è manifesto: dunque la minore si deve seguire, con ciò sia cosa che giá si possa della minore dire avere acquistato quello che dalla maggiore è da acquistare. Appresso, amando un uomo una donna di maggiore condizione che egli non è, molti pericoli ne gli possono seguire, né però ultimamente n’ha maggiore diletto che d’una minore. Noi veggiamo ad una gran donna avere molti parenti, molta famiglia, e tutti riguardare ad essa sí come solleciti riguardatori del suo onore, de’ quali se alcuno di questo amore s’avvedesse, com’io giá dissi, all’amante grave pericolo ne può seguire: quello che della meno nobile non potrebbe cosí di leggieri avvenire. I quali pericoli ciascuno a suo potere dee fuggire, con ciò sia cosa che chi il riceve si ha il danno, e chi il fa se ne ride, dicendo: ‛Ben gli sta; dove si metteva egli ad amare?’Né ancora si muore piú che una volta, per che ciascuno dee ben guardare come quella una viene a morire, e dove, e per che cagione. E ancora è credibile cosa che la gentil donna poco il prezzerá, però che essa medesima disiderera d’amare sí alto uomo o maggiore come è la donna, e non minore di sé: e cosí costui tardi o non mai al suo disio perverrá. E della minore gli avverra il contrario, però ch’ella si glori era d’essere amata da tanto amante, e ingegnerassi di piacergli per nutricare l’amore. E dove questo non fosse, la potenza dell’amante potrá senza paura fare il suo disio adempiere: però io terrei, che amare si dovesse la minore piuttosto che l’altra».
- «E’ v’inganna il parere» disse la reina alla bella donna, «però che amore ha questa natura, che quanto piú si ama, piú si disidera d’amare: e questo per quelli che per lui maggiore doglia sentono si può comprendere, i quali, avvegna che quella molto gli molesti, ognora piú amano, né alcuno col core tosto la sua fine disidera, ben che il mostri con le parole. Dunque, ben che i piccoli affanni si cerchino da’ pigri, da’ savi sono le cose, che con piú affanno s’acquistano, piú graziose e piú dilettevoli tenute: però la minore donna amare e acquistarla saria, come voi dite, poco affanno, e però poco cara e brieve d’amore, e seguirebbesi che amando si disiderasse di meno amare, ch’è contro alla natura d’amore, come di sopra dicemmo. Ma della grande, che con affanno s’acquista, avviene il contrario, però che, sí come cara cosa e con fatica acquistata, ogni sollecitudine si pone a ben guardare il guadagnato amore, e cosí ognora piú si ama, e piú il diletto e il piacere dura. Ma se volete dire che il dubbio de’ parenti ci sia, noi nol neghiamo, e questa è una delle cagioni perch’egli è affanno ad avere l’amore d’una grande donna: ma i discreti con occulta via procedono in tali bisogne, ché non è dubbio che delle grandi e delle piccole donne, ciascuna secondo il suo potere, è amato e guardato l’onore de’ parenti, e cosí paria il folle nella mala ventura incappare amando in basso come in alto loco. Ma chi sará colui che Pisistrato di crudeltá trapassi, offendendo chi le cose sue ama, senza pensare avanti quello che poi fará a chi l’avrá in odio? Dite ancora mai costui di maggior donna di sé potere venire a fine del suo disio amandola, dicendo che la donna maggiore di sé disiderera d’amare e lui niente pregerá, mostra che ignoto vi sia che il piú picciolo uomo, quanto alla naturale virtú, sia di maggiore condizione e di migliore che la maggiore donna del mondo. Dunque, qualunque uomo ella disidera, di maggiore condizione di sé lo disidera. Fa bene però il virtuoso vivere e il vizioso i piccioli grandi, e’ grandi piccioli molte volte: non per tanto qualunque donna sará da qualunque uomo con debito stile sollecitata, senza dubbio a disiderato fine se ne perviene, ben che con piú affanno d’una grande che d’una piccola. E noi veggiamo che per continua caduta la molle acqua rompe e fora le dure pietre: però nullo d’amare alcuna si disperi. Tanto di bene seguirá a chi maggiore donna di sé amerá, che egli s’ingegnerá, per piacerle, belli costumi avere, di nobili uomini compagnia, ornato e dolce parlare, ardito alle imprese e splendido di vestire. E se l’acquisterá, piú gloria nell’animo ne avrá e piú diletto: e similmente nel parlare della gente sará esaltato e magnanimo reputato. Seguasi adunque la piú nobile, come avanti dicemmo.»
- Quistione IX.
- Feramonte, duca di Montorio, appresso la piacevole Pola sedeva, e cosí, poi che la loro reina ebbe parlato, a lei cominciò a dire: «Consentendo a questa donna che amare si convenga, risposto le avete alla sua quistione che piú tosto nobile donna, piú di sé che meno, si deve amare. La qual cosa assai bene si può consentire per quelle ragioni che mostrate n’avete. Ma con ciò sia cosa che ancora delle gentili donne siano alcune di diverse maniere, cioè in diversi abiti dimoranti, le quali, per quello che si crede, diversamente amano, qual piú qual meno, quale piú fervente quale piú tiepidamente, disidero di sapere da voi, di cui piú tosto un giovane, per piú felicemente il suo disio ad effetto conducere, si dee innamorare di queste tre, o di pulcella, o di maritata o di vedova».
- Al quale la reina rispose cosi: «Delle tre l’una, cioè la maritata, in niun modo è da disiderare, però ch’ella non è sua, né sta in sua libertá il potersi donare o concedersi ad alcuno: e il volerla o prenderla è commettere contro alle divine leggi, ed eziandio contro alle naturali e alle positive, alle quali offendere è un commuovere sopra di sé la divina ira, e per conseguente grave giudizio: avvegna che sovente a chi tanto adentro non mira con la coscienza fa migliore amarla che alcuna dell’altre due, cioè o pulcella o vedova, quanto è per dovere avere de’ suoi disii l’effetto, avegna che alcuna volta tale amore con molto pericolo sia. E il perché tale amore a’ suoi disii sovente rechi l’amante piú tosto che gli altri, è questa la cagione. Manifesto è che quanto piú nel foco si soffia piú s’accende, e senza soffiarvi s’ammorta; e quasi tutte l’altre cose usandole mancano: la libidine quanto piú s’usa piú cresce. La vedova per essere lungo tempo stata senza tale effetto, quasí come se non fosse il sente, e piú con la memoria che con la concupiscenza si riscalda. La zitella che ciò si sia ancora non conosce, se non per imaginazione, e però tiepidamente disia. E però la maritata, sovente in tali cose raccesa piú ch’altra, tali effetti disidera: e tal volta le maritate sogliano da’ mariti oltraggiose parole e fatti ricevere, delle quali volontieri prenderebbero vendetta se potessono, e niuna via piú presta è loro rimasa che donare il suo amore a chi le stimola di volerlo, in dispetto del marito. E avvegna che in tale maniera la vendetta sia e convegna essere molto occulta per non crescere l’onta, nondimeno elle ne sono nell’animo contente. Poi il sempre usare un cibo è tedioso, e sovente abbiamo veduto i dilicati per li grossi cibi lasciare, tornando poi a quelli quando l’appetito degli altri è contento. Ma però, come dicemmo, lecito non è l’altrui cose con ingiusta cagione disiderare, le maritate lasceremo a’ loro mariti, e prenderemo dell’altre, delle quali copiosa quantitá ci para davanti agli occhi la nostra cittá, e piú tosto le vedove seguiremo amando che le pulcelle, però che le pulcelle, rozze e grosse a tale mestiere, non senza molto affanno si recano abili a’ disiderii dell’uomo: quello che nelle vedove non bisogna. Appresso, se le pulcelle amano, esse non sanno che si disiderare, e però con intero animo non seguono i vestigi dell’amante come le vedove, in cui giá l’antico foco riprende forza, e falle disiderare quello che per lungo abuso aveano obliato, ed è loro tardi di venire a tale effetto, piangendo il perduto tempo, e le solinghe e lunghe notti che hanno trapassate ne’ vedovi letti: però queste siano amate piú tosto, secondo il nostro parere, da coloro in cui libertá in sottomettersi dimora».
- Rispose allora Feramonte: «Eccelsa reina, ciò che della maritata diceste, aveva io nell’animo deliberato che cosí dovesse essere, e piú ora da voi udendolo ne sono certo; ma delle pulcelle e delle vedove tengo contraria opinione, lasciando le maritate andare per le ragioni da voi poste: però che mi pare che piú tosto le pulcelle che le vedove si dovriano seguire, con ciò sia cosa che l’amore della pulcella piú che quello della vedova paia fermo. La vedova senza dubbio ha giá altre volte amato, e ha veduto e sentito molte cose d’amore, e i suoi dubbi, e quanta vergogna e onore seguiti da quello, e però, queste cose meglio che la pulcella conoscendo, o ama lentamente e dubitando, o, non amando fermo, disidera ora questo ora quello, e non sappiendo a quale per piú diletto e onore di lei s’aggiunga, talora né l’uno né l’altro vuole, e cosí per la mente di lei la deliberazione vacilla, né vi può amorosa passione prendere fermezza. Ma queste cose alla pulcella sono ignote, e però, come a lei è avviso che ella molto piaccia ad uno de’ molti giovani, cosí senza piú esaminazione quello per amante elegge, e a lui solo il suo amore dispone senza saper mostrare alcuno atto contrario al suo piacere per piú fermo l’amante legare: niun’altra deliberazione è da lei al suo innamorare, cercata. Dunque è tutta pura a’ piaceri di colui che le piace semplicemente, e tosto si dispone lui per signore solo servare nel ferito core: quello che, come giá dissi, della vedova non avviene: però è piú da seguire. Appresso, di quelle cose che mai alcuno non ha vedute o udite o provate, con piú efficacia l’aspetta, e le disidera di vedere e udire e provare, che chi molte fiate vedute e udite o provate l’ha: e questo è manifesto. Tra l’altre cagioni per le quali il vivere molto ci diletta, ed è disiato lungo da noi, è per vedere cose nuove, cioè ancora da noi non istate vedute: e ancora, piú che per nuove cose vedere, c’è diletto di correre con sollecito passo a quello che noi piú che altro ci ingegniamo e disideriamo di fuggire, cioè la morte, ultimo fine de’ nostri corpi. La pulcella mai quel dilettoso congiugnimerito per lo quale noi vegniamo nel mondo non conobbe, e naturale cosa è ogni creatura a quello essere dal disio tirata. Appresso, ella molte fiate, da quelle che sanno quello che è, ha udito quanta dolcezza in quello consista, le quali parole hanno aggiunto foca al disio, e però, tiratavi dalla natura e dal disio di provare cosa da lei non provata dalle parole udite, ardentemente e con acceso core questo congiugnimento disidera d’averlo: e con cui è da presumere, se non con colui il quale ella ha giá fatto signore della sua mente? Questo ardore non sará nella vedova, però che provandolo la prima volta, e sentendolo quello ch’era, si spense: dunque la pulcella amerá piú, e piú sollecita sani, per le ragioni dette, a’ piaceri dell’amante che la vedova. Che andremo, dunque, piú inanzi cercando che amare non si debba piú tosto la pulcella che la vedova?».
- «Voi» disse la reina, «argomentate bene al vostro parere difendere; ma noi vi mostreremo con aperta ragione come voi dovete quello, che noi di questa quistione tegniamo, similmente tenere, se alla natura d’amore con diritto occhio si mira, cosí nella pulcella come nella vedova. E cosí nella vedova come nella pulcella il vedremo potere essere fermo e forte e costante: e in ciò Dido e Arianna ci porgono con le loro opere questo essere vero. E dove questo amore e nell’una e nell’altra non sia, niuna delle predette operazioni ne seguirá: dunque conviene che ciascuna ami, se quello che voi e noi giá dicemmo vogliamo che ne segua. E però amando e la pulcella e la vedova, senza andar cercando chi piú distrettamente s’innamora, ché siamo certa della vedova, vi mostreremo che la vedova piú sollecita è a’ piaceri dell’amante che la pulcella. E non è dubbio che tra l’altre cose che la femína ha sopra tutte cara è la sua virginitá: e ciò è ragione, però che in quella tutto l’onore della seguente sua vita vi consiste, e senza dubbio ella non sará mai tanto da amore stimolata che ella volontieri ne sia cortese, se non a cui ella per matrimoniali leggi si crederá per isposo congiugnere. E questo noi non lo andiamo cercando, ché non è dubbio che chi vuole amare per isposa avere, che egli piú tosto pulcella che vedova dee amare: dunque tarda e negligente sará a donarsi a chi per tale effetto non l’amerá, ed ella il sappia. Appresso, le pulcelle al generale sono timide, né sono astute a trovare le vie e’ modi per li quali i furtivi diletti si possano prendere: di queste cose la vedova non dubita, però che ella giá donò onorevolmente quello che çostei aspetta di donare, ed è senza, e però non dubita che, se se medesima dona ad altrui, quel segnale l’accusi. Poi ella, come piú arrischiante, perché, come è detto, la maggiore cagione che porge dubbio non è con lei, conosce meglio l’occulte vie, e cosí le mette in effetto. Vero è che voi dite che la pulcella, come disiderosa di cosa che mai non provò, a questo sia piú sollecita che la vedova, che quello che è conosce: ma egli è, di ciò che voi dite, il contrario. Le pulcelle a tale effetto per diletto non corrono le prime volte, però che egli è loro piú noia che piacere, avvegna che quella cosa che diletta quante piú fiate si vede o ode o sente, piú piace, e piú è sollecito ciascuno a seguirla: questa cosa di che noi ragioniamo non segue l’ordine alla maniera di molte altre, che, vedute una volta o due, piú non si cercano di vedere, anzi quante piú volte in effetto si mette, tante e con piú affezione è cercato di ritornarvi, e piú disidera colui la cosa a cui ella piace, che colui a cui ella dee piacere, né ancora n’ha gustato. Però la vedova, con ciò sia cosa che ella doni meno, e piú le sia il donare agevole, piú sará liberale, e piú tosto che la pulceIla, che donare dee la piú cara cosa ch’ella ha. Ancora sará piú la vedova tirata, sí come mostrato abbiamo, a tale effetto che la pulcella: per le quali cagioni ammisi piú tosto la vedova che la pulcella.»
- Quistione X.
- Convenne, appresso a Feramonte, ad Ascalione proporre, il quale in cerchio dopo lui sedeva, e cosí disse: «Altissima reina, io mi ricordo che fu giá nella nostra cittá una bella e nobil donna rimasa di valoroso marito vedova, la quale per le sue mirabili bellezze era da molti nobili giovani amata, e, oltre a molti, due gentili e valorosi cavalieri, ciascuno quanto poteva l’amava. Ma per accidente avvenne che ingiusta accusa di costei fu posta da’ suoi parenti nel cospetto del nostro signore, e, appresso, per iniqui testimoni provata: per le quali inique prove ella meritò d’essere al foco dannata. Ma però che la coscienza del dannatore era perplessa, però che le inique prove quasi conoscere gli parea, volendo agl’iddii e a’ fortunosi casi la vita di quella commettere, cotale condizione aggiunse alla data sentenza: che poi che la donna fosse al foco menata, se alcuno cavaliere si trovasse il quale per la salute di lei combattere volesse contro al primo che in quello dopo a lui s’opponesse, quello a cui vittoria ne seguisse, ciò ch’egli difendeva se ne facesse. Udita la condizione da’ due amanti e per ventura prima dall’uno che dall’altro saputa, quegli che prima l’udí prese l’armi subitamente, e salito a cavallo venne al campo, contradicendo a chi contravenire gli volesse per sostenere la morte della donna. L’altro che piú tardi sentito avea questo, udendo che giá era al campo colui per la difesa di lei, né altri piú v’avea luogo ad andare per tale impresa, non sappiendo che si fare, si doleva imaginando che l’amore della donna per sua tardanza aveva perduto, e l’altro giustamente l’avea guadagnato. E cosí dolendosi, gli venne pensato che se prima ch’alcun altro al campo andasse armato, dicendo che la donna dovea morire, egli, lasciandosi vincere, la poteva scampare: e cosí il pensiero mise ad effetto, e fu campata e liberata la donna. Adunque, dopo alquanti giorni, il primo cavaliere andò a lei, e sé umilmente le raccomandò, ricordandole come egli, per camparla da morte, a mortale pericolo pochi giorni avanti s’era posto, e, mercé degl’iddii e della sua forza, lei e sé di tale accidente avea campato: onde per questo le piacesse, in luogo di merito, il suo amore, il quale sopra tutte le cose sempre disiderato aveva, donare. E, appresso, con simile preghiera venne il secondo cavaliere, dicendo che a rischio di morte per lei s’era messo: ‛e ultimamente per che voi non moriste, sostenni di lasciarmi vincere, onde eterna infamia me ne seguita, dove avrei vittorioso onore potuto acquistare, volendo incontro alla vostra salute avere le mie forze operate’. La donna ciascuno ringraziò benignamente, promettendo debito guiderdone ad amendue del ricevuto servigio. Rimase adunque la donna, costoro partiti, in dubbio a cui il suo amore donare dovesse, o al primo o al secondo, e di ciò dimanda consiglio: a quale direste voi ch’ella íl dovesse piú tosto donare?».
- «Noi terremmo» disse la reina, «che il primo sia da amare, e il secondo da lasciare, però che il primo adoperò forza, e dimostrò il buon amore con sollecito modo, dando se medesimo a ogni pericolo infino alla morte, il quale per la futura battaglia potesse avvenire, per la quale assai bene gliene poteva seguire; con ciò sia cosa che se sollecito fosse stato a tale battaglia fare contra lui alcuno de’ nemici della donna, come fu l’amante, egli era a pericolo di morire per difendere lei; né manifesto gli fu che contro a lui dovesse uscire uno che vincere si lasciasse, come avvenne. L’ultimo, veramente, andò avvisato di non morire né di lasciar morire la donna: dunque, con ciò sia cosa che egli meno mettesse in avventura, meno merita di guadagnare. Abbia, adunque, il primo l’amore della donna bella come giusto guadagnatore di quello.»
- Disse Ascalione: «O sapientissima reina, ch’è ciò che voi dite? Non basta una volta essere meritato del bene, senza piú meriti dimandare? Certo sí. Il primo è meritato, però che da tutti per la ricevuta vittoria è onorato: e che piú merito gli bisognava se onore è merito della virtú? A maggior cosa ch’egli non fece bastava il ricevuto onore. Ma colui che con senno venne avvisato, dee essere senza guiderdone, e, poi, da tutti vituperato, avendo sí bene come il primo scampato la donna? Non è il senno da anteporre ad ogni corporale forza? Come costui, se col senno alla salute della donna venne, deve per merito essere abbandonato? Cessi che questo sia. Se egli nol seppe sí tosto come l’altro, questa non fu negligenza, ché, se saputo l’avesse, forse prima che l’altro corso sarebbe a quello che l’altro corse. Quello che prese per ultimo rimedio il prese discretamente, di che merito giustamente gli dee seguire, il quale merito dev’essere l’amore della donna, se dirittamente si guarda, e voi dite il contrario».
- «Passi della mente vostra che il vizio, a fin di bene operato» rispose la reina, «meriti il guiderdone che la virtú, a simile fine operata, merita, anzi in quanto vizio merita correzione: alla virtú niuno mondano merito può giustamente sodisfare. Chi ci vieterá ancora che noi non possiamo con aperta ragione credere che l’ultimo cavaliere, non per amore che alla donna portasse, ma, invidioso del bene che all’altro vedeva apparecchiare, per isturbare quello si mosse a tale impresa e misvennegli? Folle è chi sotto colore al nemico s’ingegna di giovare per ricever merito. Infinite sono le vie per le quali possibile c’è con aperta amicizia poter mostrare l’amore che alcuno porta ad alcun altro, senza mostrarsi nemico, e poi con colorate parole voler mostrare d’aver giovato. Basti oramai per risponsione a voi ciò che detto avemo, il quale la lunga etá deve piú che gli altri fare discreto. Crediamo che quando queste poche parole per la mente debitamente avrete digeste, troverete il nostro giudicio non fallace, ma vero e da dovere essere seguito». E qui si tacque.
- Quistione XI.
- Seguiva poi una donna onesta molto nell’aspetto, il cui nome Graziosa è interpetrato: e veramente in lei è il nome consonante all’effetto; la quale con umile e con modesta voce cominciò queste parole: «A me, o bellissima reina, viene il proporre la mia quistione, la quale, acciò che il tempo che oramai alla lasciata festa s’appressa, e fassi dolce a ricominciarla, non si metta solo in sermone, assai brievemente proporrò; e, se lecito mi fosse, volontieri senza proporla mi passerei, ma per non trapassare la vostra ubbidienza, e degli altri l’ordine, proporrò questa: qual sia maggiore diletto all’amante, o vedere presenzialmente la sua donna, o, non vedendola, di lei amorosamente pensare».
- «Bella donna» disse la reina, «noi crediamo che molto piú diletto pensando si prenda che riguardando, però che, pensando alla cosa amata graziosamente, gli spiriti sensitivi tutti allora sentono mirabile festa, e quasi i loro accesi disii in quel pensiero con diletto contentano; ma, nel riguardare, ciò non avviene, però che solo il visuale spirito sente bene, e gli altri s’accendono di tanto disio che sostenere nol possono, e rimangono vinti: ed esso talora tanta parte prende del suo piacere, che a forza gli conviene indietro tirarsi, rimanendo vile e vinto. Dunque piú diletto terremmo il pensare.»
- «Quella cosa ch’è amata» rispose la donna, «quanto piú si vede piú diletta: e però io credo che molto maggior diletto porga il riguardare che non fa il pensare, però che ogni bellezza prima per lo vederla piace, poi per lo continuato vedere nell’animo tale piacere si conferma e generasene amore e quelli disii che da lui nascono. E niuna bellezza è tanto amata per alcuna altra cagione, quanto per piacere agli occhi, e contentare quelli: dunque vedendola si contentano, e pensando di vederla s’accresce loro il disio, e piú diletto sente chi si contenta che chi di contentarsi disidera. Noi possiamo per Laudamia vedere e conoscere quanto piú il presenzialmente vedere che il pensare diletti, però che credere dobbiamo che mai il suo pensiero dal suo Protesilao non si partiva, né giá per questo mai altro che malinconia si vide, rifiutando d’ornarsi e di vestirsi i cari vestimenti: quello che, vedendolo, mai non le avveniva, ma lieta e graziosa e adorna sempre festeggiando nella sua presenza dimorava. Che dunque piú manifesto testimonio vogliamo che questo, che sia piú allegrezza nel vedere che nel pensare, con ciò sia cosa che per gli atti esteriori si possa quello che nel core si asconde comprendere?»
- La reina allora cosí rispose: «Quelle cose, e dilettevoli e noiose, che piú all’anima s’appressano, piú noia e piú gioia porgono che le lontane. E chi dubita che il pensiero non dimori nell’anima medesima e l’occhio a quella si trovi assai lontano, ben che elli per particolare virtú di lei abbia la vista, e convengagli per molti mezzi le sue percezioni all’intelletto animale rendere? Dunque, avendo nell’anima un dolce pensiero della cosa amata, in quell’atto che il pensiero gli porge, in quello con la cosa amata essere gli pare. Egli allora la vede con quelli occhi a cui niuna cosa per lunga distanza si può celare. Egli allora parla con lei, e forse narra con pietoso stile le passate noie per l’amore di lei ricevute. Allora gli è lecito senza alcuna paura di abbracciarla. Allora mirabilmente, secondo il suo disio, festeggia con essa. Allora ad ogni suo piacere la tiene: quello che del mirare non avviene, però che quello solo aspetto primo ne ha senza piú. E come noi davanti dicemmo, amore è paurosa e timida cosa, tanto che il core gli trema riguardando, ché né pensiero né spirito lascia in suo loco. Molti giá, le loro donne guardando, perderono le naturali forze e rimasero vinti, e molti non potendo muoversi si fissero, e alcuni incespicando e avvolgendo le gambe caddero; altri ne perderono la parola, e per la vista molte cose simili ne sappiamo essere avvenute: e queste cose assai saria suto caro, a coloro a cui abbiamo detto, che avvenute non fossero. Cosí, dunque, come porge diletto quella cosa che volontieri si fuggiria? Noi confessiamo bene che se possibile fosse senza tema riguardare, che di gran diletto saria, ben che nulla senza il pensiero varria: ma il pensiero senza la corporale veduta piace assai. E che del pensiero possa avvenire ciò che dicemmo, è manifesto che sí, e molto piú ancora: che noi troviamo giá uomini col pensiero avere trapassato i cieli e gustata dell’eterna pace. Dunque, piú il pensare che il vedere diletta. Se di Laudamia dite che malinconica si vedeva pensando, non lo neghiamo, ma amoroso pensiero non la turbava, anzi doloroso. Ella quasi indovina a’ suoi danni, sempre della morte di Protesilao dubitava, e a questa pensava: questo non è de’ pensieri de’ quali ragioniamo, li quali in lei entrare non poteano per quella dubitazione, anzi dolendosi con ragione mostrava il viso turbato».
- Quistione XII.
- Parmenione sedeva appresso a questa donna, e senza altro attendere, come la reina tacque, cosí incominciò a dire: «Gentile reina, io fui lungamente compagno d’un giovane, al quale ciò ch’io intendo di narrarvi avvenne. Egli tanto quanto mai alcun giovane amasse donna, amava una giovane della nostra cittá bellissima e graziosa e gentile e ricca di avere e di parenti molto, ed essa molto amava lui, per quello che io conoscessi, a cui questo amore solamente era scoperto. Amando adunque costui questa con segretissimo stile, temendo non si palesasse, in niuna maniera a costei poteva parlare, acciò che ’l suo intendimento le discoprisse e di quel di lei s’accertasse, né a persona se ne fidava che di questo di parlar tentasse. Ma pure stringendolo il disio propose, poi che a lei dire nol poteva, di farle per altrui sentire ciò che per amore di lei sosteneva. E riguardato piú giorni per cui piú cautamente tale bisogna significare le potesse, vide un dí una vecchia povera, vizza, rancia e dispettosa tanto, quanto alcuna trovare se ne potesse, la quale, entrata nella casa della giovane, e dimandata limosina, con essa se ne uscí, e piú volte poi in simile atto e per simile cagione ritornare la vide. In costei si pose costui in core di fidarsi, imaginando che mai sospetta non saria tenuta e che compiutamente poria lo suo intendimento fornire: e chiamatala a sé, grandissimi doni le promise, se aiutare il volesse in quello ch’egli dimanderebbe. Ella giurò di fare tutto suo potere: a cui questi allora disse il suo volere. Partissi la vecchia dopo picciolo spazio di tempo, e accertata la giovane dell’amore che il mio compagno le portava, e lui similemente come ella sopra tutte le cose del mondo lui amava, occultamente ordinò questo giovane essere una sera con la disiata donna. E messolosi inanzi, sí come ordinato avea, alla casa di costei il menò. Dove egli non fu prima venuto, che, per suo infortunio, la giovane e la vecchia ed esso furono da’ fratelli della giovane insieme tutti e tre trovati: e presi, e costretti di dire la veritá che quivi facessero, confessarono quello che era. Erano costoro amici del giovane, e çonoscendo che a niuna loro vergogna costui era ancora pervenuto, non lo vollero offendere, che potevano, ma ridendo, gli posero questo partito, dicendo cosi: ‛Tu se’ nelle nostre mani, e hai cercato di vituperarci, e di ciò noi ti possiamo punire se noi vogliamo; ma di queste due cose l’una ti conviene prendere, o vuoi che noi t’uccidiamo, o vuoi con questa vecchia e con la nostra sorella con ciascuna dormire un anno, giurando lealmente che, se tu piglierai di dormire con costoro due anni e il primo con la giovane, che tante volte quante tu la bacerai, o ciò che tu le farai, altretante il secondo anno bacerai e farai alla vecchia; e se la vecchia il primo anno prenderai, quante volte la bacierai o toccherai, tante simigliantemente né piú né meno alla giovane nel secondo anno farai’. Il giovane ascoltato il partito, vago di vivere, disse di volere con le due i due anni dormire. Fugli consentito: rimase in dubbio da quale dovesse inanzi cominciare, o dalla giovane o dalla vecchia. Quale il consigliereste voi per piú sua consolazione che egli dovesse avanti pigliare?»
- Alquanto sorrise la reina di questa novella, e similmente i circustanti, e poi cosí rispose: «Secondo il nostro parere il giovane dovria piú tosto la bella giovane che la vecchia pigliare, però che niuno bene presente si dee per lo futuro lasciare, né pigliare male per lo futuro bene è senno, però che delle cose future incerti siamo; e, di questo faccendo il contrario, molti giá si dolsero; e se alcuno se ne lodò, non dovere, ma la fortuna in ciò gli aiutò. Prendasi adunque la bella inanzi».
- «Molto mi fate maravigliare» disse Parmenione, dicendo che presente per futuro bene lasciare non si dee: a che fine, dunque, con forte animo ci conviene seguire e sostenere li mondani affanni, dove fuggire li possiamo, se non per gli eterni regni futuri promessi a noi dalla speranza? Mirabile cosa è che tanta gente, quanta nel mondo dimora, tutti affannando a fine di riposo, sentire alcuna volta come in tale errore fossono tanto dimorando, potendosi riposare avanti, se l’affanno, dopo il riposo, fosse migliore che davanti. Giusta cosa mi pare dopo l’affanno riposo cercare; ma senza affanno voler posare, secondo il mio giudicio, non dee né puote essere diletto. Chi dunque consiglierá alcuno che in prima sia da dormire un anno con una bella donna, la quale sia solo riposo e gioia di colui che con lei si deve giacere, mostrandogli appresso dovergli seguire tanta noiosa e spiacevole vita, quanta con una laida vecchia dovere altretanto in tutti atti usare in che con la giovane è dimorato? Niuna cosa è tanto noiosa al dilettoso vivere quanto il ricordarsi che al termine della morte segnato ci conviene venire. Questa, tornandoci nella memoria come nemica e contraria del nostro essere, ogni bene ci turba: e mentre che questa si ricorda, si può sentire giá mai gioia nelle mondane cose? Similemente niuno diletto con la giovane si potrá avere che turbato e guasto non sia, pensando e ricordandosi che altretanto far si convenga con una vilissima vecchia, la quale sempre dinanzi agli occhi della mente gli dimorera. Il tempo, che vola con infallibili penne, gli parra che trasvoli, scemando a ciascun giorno delle dovute ore grandissima quantitá; e cosí la letizia, essendo dove futura tristizia infallibile s’aspetta, non si sente: però io terrei che ’l contrario fosse migliore consiglio, ché ogni affanno, di cui grazioso riposo s’aspetta, è piú dilettevole che ’l diletto per cui noia è sperata. Le fredde acque parevano calde, e il tenebroso e pauroso tempo della notte pareva chiaro e sicuro giorno, e l’affanno riposo a Leandro andando ad Ero, con la forza delle sue braccia notando per le salate onde tra Sesto e Abido, per lo diletto che da lei aspettante attendeva di avere. Cessi, adunque, che l’uomo voglia prima il riposo che la fatica, o prima il guiderdone che fare il servigio, o il diletto che la tribulazione, con ciò sia cosa che, sí come giá è detto, se quel modo si prendesse, la futura noia impedirebbe tanto la presente gioia, che non gioia, ma presso che noia dir si potrebbe. Che diletto potevano dare i dilicati cibi e gli strumenti sonati da maestre mani e l’altre mirabili feste fatte davanti al tiranno Dionisio, poi ch’egli sopra il capo si vide con sottile filo pendere un aguto coltello? Fuggansi adunque in prima le dolenti cagioni, e poi si seguano con piacevolezza e senza sospetto li graziosi diletti.»
- Rispose a costui la reina: «Voi ne rispondete in parte come se degli eterni beni ragionassimo, per li quali acquistare, non è dubbio che ogni affanno se ne debba prendere, e ogni mondano bene e diletto lasciare: e noi al presente non parliamo di quelli, ma de’ mondani diletti e delle mondane noie quistioniamo, sí come prima dicemmo, che ogni mondano diletto si debba piú tosto prendere che mondana noia ne segua, anzi che mondana noia per mondano diletto aspettare: però che chi tempo ha e tempo aspetta, tempo perde. Concede la fortuna con varii mutamenti i suoi beni, li quali piú tosto sono da pigliare quando li dá, che volere affannare per dopo l’affanno averli. Se la sua ruota stesse ferma, insino che l’uomo avesse affannato, per non dovere piú affannare, diremmo che si potrebbe consentire di pigliare in prima l’affanno: ma chi è certo che dopo il male non possa seguire peggio, come il bene che s’aspetta? I tempi insieme con le mondane cose sono transitorii. Prendendo la vecchia, prima che l’anno compia, il quale non parrá che mai venga meno, potrá la giovane morire, e i fratelli di lei pentersi, o essere donata altrui, o forse rapita, e cosí dopo il male il peggio seguirá al prenditore; ma se la giovane fia presa, avranne il prenditore primieramente il suo disio tanto tempo da lui disiderato, e appresso non gli seguirá quella noia che voi dite che nel pensiero gli deve seguire: però che il dovere morire è infallibile, ma il giacere con una vecchia è accidente da potere con molti rimedii dall’uomo savio cessare. E le mondane cose sono da essere prese da’ discreti con questa legge, che ciascuno mentre le tiene le goda, disponendosi con liberale animo a renderle, overo a lasciarle, quando richieste saranno. Chi affanna per riposare, manifesto esempio ne porge che riposo senza quello avere non puote, e poi che egli prende l’affanno per avere il riposo, quanto piú è da presumere che se il riposo gli fosse presto come l’affanno, ch’egli piú tosto quello che questo prenderebbe? E non è da credere che se Leandro avesse potuto avere Ero senza passare il tempestoso braccio del mare dov’egli poi perí, ch’egli non l’avesse piú tosto presa che notato? Convengonsi le cose della fortuna pigliare quando sono donate. Niuno sí picciolo dono è che migliore non sia che una grande promessa: prendansi alle future cose rimedii, e le presenti secondo le loro qualitá si governino. Naturale cosa è dovere piú tosto il bene che il male pigliare, quando egualmente concorrono: e chi fa il contrario, non naturale ragione ma follia segue. Ben confessiamo però che dopo l’affanno è piú grazioso il riposo che prima, e meglio conosciuto, ma non però che sia piú tosto da pigliare. Possibile è agli uomini folli e a’ savi usare i consigli e de’ folli e de’ savi, secondo il loro parere, ma però la infallibile veritá non si muta, la quale ci lascia vedere che piú tosto la bella e giovane donna, che la laida e la vecchia, sia da prendere da colui a cui tale partito fatto fosse.
- Quistione XIII.
- Massalino, il quale tra la destra mano della reina e Parmenione sedeva compiendo il cerchio, disse cosí: «Ultimamente a me conviene proporre, e, acciò ch’io le belle novelle dette e le quistioni proposte avanti faccia piú belle, una novelletta assai graziosa a udire, nella quale una quistione assai leggiera a terminare cade, dirò. Io udii giá dire che nella nostra cittá un gentile uomo ricco molto aveva per sua sposa una bellissima e giovane donna, la quale egli sopra tutte le cose del mondo amava. Era questa donna da un cavaliere della detta cittá per amore intimamente amata, ma ella né lui amava, né di suo amore si curava: per la qual cosa il cavaliere mai da lei né parola né buon sembiante aveva potuto avere. E cosí sconsolato di tale amore vivendo, avvenne che al reggimento d’una cittá, assai alla nostra vicina, fu chiamato, ove egli andò, e quivi onorevolmente avendo retto gran parte del tempo che dimorare vi doveva, per accidente gli venne un messaggero, il quale dopo altre novelle cosí gli disse: ‛Signor mio, siavi manifesto che quella donna la qual voi sopra tutte le altre amavate nella nostra cittá, questa mattina, volendo partorire, per grave doglia non partorendo morí, e onorevolmente in mia presenza da’ suoi parenti fu sepellita’. Con gran doglia ascoltò i1 cavaliere la novella e con forte animo la sostenne, non mostrando nel viso per quella alcun mutamento; e cosí tra se medesimo disse: ‛Ahi villana morte, maladetta sia la tua potenza! Tu m’hai privato di colei che io piú ch’altra cosa amava, e cui io piú disiderava di servire, ben che verso di me la conoscessi crudele. Ma poi che cosí è avvenuto, quello che amore nella vita di lei non mi volle concedere, ora ch’ella è morta non mi potrá negare: che certo, s’io dovessi morire, la faccia, che io tanto viva amai, ora morta converrá che io baci’. Aspettò adunque il cavaliere la notte, e, preso uno de’ piú fidati famigliari che egli avea, con lui per l’oscure tenebre si mise a gire alla cittá, nella quale pervenuto, sopra la sepoltura dove sepellita era la donna se n’andò, e quella aperse, e, confortato il compagno che ’l dovesse senza alcuna paura attendere, entrò in quella e con pietoso pianto dolendosi cominciò a baciare la donna, e a recarlasi in braccio. E dopo alquanto, non potendosi di baciare costei saziare, la cominciò a toccare, e mettere le mani nel gelato seno fra le fredde menne, e poi le secrete parti del corpo con quelle, divenuto ardito oltre al dovere, cominciò a cercare sotto i ricchi vestimenti, le quali andando tutte con timida mano tentando sopra lo stomaco le distese, e quivi con debile movimento sentí li debili polsi muoversi alquanto. Divenne allora questi non poco pauroso, ma amore il facea ardito: e ricercando con piú fidato sentimento, costei conobbe che morta non era; e di quel luogo primieramente la trasse con soave mutamento; e appresso involtala in un gran mantello, lasciando la sepoltura aperta, egli e il compagno a casa della madre di lui tacitamente la ne portarono, scongiurando il cavaliere la madre per la potenza degl’iddii, che né questo né altro a niuna persona manifestare dovesse. E quivi fatti accendere grandissimi fuochi, i freddi membri venne riconfortando, i quali però non debitamente tornavano alle perdute forze, per la qual cosa egli, forse in ciò discreto, fece un solenne bagno apparecchiare, nel quale primieramente molte virtuose erbe fece mettere, e appresso lei vi mise, faccendola in quella maniera che si conveniva teneramente governare. Nel qual bagno poi che la donna fu alquanto spazio rata, il sangue, dintorno al cuore coagulato, per lo ricevuto caldo per le fredde vene si cominciò a spandere, e gli spiriti tramortiti cominciarono a ritornare a’ loro luoghi: onde la donna risentendosi cominciò a chiamare la madre di lei, dimandando ove ella fosse. A cui il cavaliere in luogo della madre rispose che in buon luogo dimorava e ch’ella si confortasse. In questa maniera stando, come fu piacere degl’iddii, invocato l’aiuto di Lucina, la donna, faccendo un bellissimo figliuolo maschio, da tale affanno e pericolo si liberò, rimanendo scarica e fuori d’ogni alterazione, e lieta del nato figliuolo: a cui prestamente balie alla guardia di lei e del garzone trovate furono. Ritornata adunque la donna dopo il grave affanno alla vera conoscenza, ed essendo giá nato nel mondo il nuovo sole, dinanzi si vide il cavaliere che l’amava e la madre di lui a’ suoi servigi ciascuno di loro presti: e de’ suoi parenti, miratasi assai dattorno, niuno ne vide. Per che venuta in cogitabile ammirazione, quasi tutta stupefatta disse: ‛Ove sono io? Qual maraviglia è questa? Chi m’ha qui, dove io mai non fui, recata?’. A cui il cavaliere rispose: ‛Donna, non ti maravigliare, confortati, ché quel che tu vedi, piacere degl’iddii è stato, e io ti dirò come’. E cominciando dal principio, insino alla fine com’era avvenuto le dichiarò, conchiudendo ch’ella e il figliuolo erano vivi per lui: per la qual cosa sempre a’ suoi piaceri eran tenuti. Questo sentendo la donna, e conoscendo veramente che per altro modo alle mani del cavaliere non poteva essere pervenuta, se non per quello che egli le narrava, prima gl’iddii con divote voci ringraziò, e appresso il cavaliere sempre a’ suoi servigi e piaceri offerendosi. Disse adunque il cavaliere: ‛Donna, poi che a’ miei voleri conoscete essere tenuta, io voglio che in guiderdone di ciò ch’io ho adoperato vi confortiate, infino alla tornata mia dallo oficio al quale fui eletto giá è tanto tempo, che presso alla fine sono, e mi promettiate di mai né al vostro marito né ad altra persona senza mia licenza non palesarvi’. A cui la donna rispose non potergli né questo né altro negare, e che veramente ella si conforterebbe, e con giuramento gli affermò di mai non si far conoscere senza piacer di lui. Il cavaliere, veduta la donna riconfortata e fuori d’ogni pericolo, dimorato due giorni a’ servigi di lei, raccomandata alla madre lei e il figliuolo, si partí e tornò allo oficio della rettoria sua, il quale dopo picciolo tempo onorevolmente finí, e tornò alla sua terra, e alla sua casa, dove dalla donna fu graziosamente ricevuto. Dimorato adunque alcun giorno dopo la sua tornata, egli fece apparecchiare un grandissimo convito, al quale egli invitò il marito della donna amata da lui, e i fratelli di lei e molti altri. Ed essendo gli invitati per sedere alle tavole, la donna, sí come piacere fu del cavaliere, venne vestita di quelli vestimenti i quali alla sepoltura avea portati, e ornata di quella corona, anella e altri preziosi paramenti, e, per comandamento del cavaliere, senza parlare all’un lato del marito mangiò quella mattina, e il cavaliere all’altro lato. Era questa donna dal marito sovente riguardata, e i drappi e gli ornamenti, e fra sé gli pareva questa conoscere essere sua donna, e quelli essere i vestimenti co’ quali sepellita l’aveva, ma però che morta gliele pareva avere messa nella sepoltura, né credendo ch’ella risuscitata fosse, non ardiva farle motto, dubitando ancora non fosse un’altra alla sua donna simigliante, estimando che piú agevole fosse a trovar persona, drappi e ornamenti simiglianti ad altri, che risuscitare un corpo morto; ma non per tanto sovente rivolto al cavaliere dimandava chi questa donna fosse. A cui il cavaliere rispose: ‛Dimandatene lei chi ell’è, che io nol so dire, da sí spiacevole luogo l’ho menata’. Allora il marito dimandò la donna chi ella fosse. A cui ella rispose: ‛Io sono stata menata da codesto cavaliere, da quella vita graziosa che da tutti è disiata, per non conosciuta via in questo luogo’. Non mancava l’ammirazione del marito per queste parole, ma cresceva: e cosí infino che ebbero mangiato dimorarono. Allora il cavaliere menò il marito della donna nella camera, e la donna e gli altri similemente che con lui avevano mangiato, dove in braccio ad una balia trovarono il figliuolo della donna, bello e grazioso, il quale il cavaliere pose in braccio al padre, dicendo: c Questo è tuo figliuolo’; e dandogli la destra mano della donna, disse: e Questa è la tua mogliera, e madre di costui’, narrando a lui e agli altri come quivi era pervenuta. Fecero costoro dopo la maraviglia gran festa, e massimamente il marito con la sua donna e la donna con lui, rallegrandosi del loro figliuolo. E ringraziando il cavaliere, lieti tornarono alle loro case, faccendo per piú giorni maravigliosa festa. Servò questo cavaliere la donna con quella tenerezza e con quella pura fede che se sorella gli fosse stata. E però che si dubita quale fosse maggiore, o la lealtá del cavaliere o l’allegrezza del marito, che la donna e il figliuolo, i quali perduti reputava sí come morti, si trovò racquistati, priegovi che quello che di ciò voi giudichereste ne diciate’.
- «Grandissima crediamo che fosse la letizia della racquistata donna e del figliuolo, e similmente la lealtá fu notabile e grande del cavaliere; ma però che naturale cosa è delle perdute cose racquistandole rallegrarsi, né potrebbe essere senza perché altri volesse, e massimamente racquistando una cosa molto amata davanti, e un figliuolo, di che non si potrebbe tanta allegrezza fare quanta si converrebbe, non reputiamo che sí gran cosa sia quanta una farne, a che l’uomo sia da propria virtú costretto a farla; e dell’essere leale questo addiviene, però che possibile è essere e non essere leale. Diremo, adunque, che da cui l’essere leale in cosa tanto amata procede, ch’egli faccia grandissima e notabile cosa lealtá servando, e che in molta quantitá avanzi in sé la lealtá, che l’allegrezza in sé: e cosí terremo.»
- «Certo disse Massalino, «altissima reina, sí come dite credo che sia; ma gran cosa mi pare pensare che a tanta letizia, quanta in colui che la donna riebbe fu, si potesse porre comparazione di grandezza in un’altra cosa, con ciò sia cosa che maggior dolore non si sostenga che quello quando per morte amata cosa si perde. Appresso, se ’l cavaliere fu leale, sí come qui giá si disse, egli fece suo dovere, però che tutti siamo tenuti a virtú operare: e chi fa quello a che è tenuto ben fa, ma non è da reputare gran cosa, però imagino che giudicare maggiore allegrezza che lealtá si potrebbe consentire.»
- «Voi a voi medesimo contradite nelle vostre parole» disse la reina, «però che cosí si dee l’uomo rallegrare per dovere del bene che Iddio gli fa, come per operare virtú; ma se essere si potesse nell’uno caso sí dolente, come nell’altro si poria disleale, poriasi al vostro parere consentire: le naturali leggi seguire, che non si possono fuggire, non è gran cosa, ma le positive ubbidire è virtú d’animo; e le virtú dell’animo e per grandezza e per ogni altra cosa sono da preporre alle corporali opere. E se l’opere virtuose, faccendo degna compensazione, avanzano in grandezza ogni altra operazione, ancora si può dire che l’essere stato leale dura in essere sempre: la letizia si può in subita tristizia voltare, o divenire nulla o modica dopo brieve spazio di tempo, perdendo la cosa per che lieto si diventa. E però dicasi il cavaliere essere stato piú leale che colui lieto, da chi diritto vuole giudicare.»
- Non seguitava appresso Massalino alcuno piú che a proporre avesse, perciò che tutti avevano proposto, e il sole giá bassando, lasciava piú temperato aere ne’ luoghi. Per la qual cosa Fiammetta, reverendissima reina dell’amoroso popolo, si dirizzò in piedi e cosí disse: «Signori e donne, compiute sono le nostre quistioni, alle quali, mercé degl’iddii, noi secondo la nostra modica conoscenza abbiamo risposto, seguendo piú tosto festeggevole ragionare che atto di quistionare, e similmente conosciamo di molte cose piú potersi intorno a quelle rispondere e migliori che noi non abbiamo dette: ma quelle che dette sono assai bastano alla nostra festa, l’altre rimangano a’ filosofanti in Atene. Noi veggiamo giá Febo guardarci con non diritto aspetto, e sentiamo l’aere rinfrescato, e da’ nostri compagni avere ricominciata la festa, che qui vegnendo per troppo caldo lasciammo, e però ci pare di noi tornare similmente a quella». E questo detto, presa con le dilicate mani la laura corona dalla sua testa, nel loco dove seduta era la pose, dicendo: «Io lascio qui la corona del mio e del vostro onore, infino a tanto che noi qui a simile ragionamento torneremo». E preso Filocolo per la mano, che giá s’era con gli altri levato, tornarono a festeggiare.
- Sonarono i lieti strumenti e l’aere pieno d’amorosi canti da tutte parti si sentiva, e niuna parte del giardino era senza festa: nella quale quel.iorno infino alla sua fine tutti lietamente dimorarono. Ma sopravenuta la notte, mostrando giá a loro luce le stelle, alla donna e a tutti parve di partire e di tornare alla cittá. Nella quale pervenuti, Filocolo, dipartendosi da lei, cosí le disse: «Nobile Fiammetta, se gl’iddii mai mi concedessero ch’io fossi mio si com’io sono d’altrui, senza dubbio vostro incontanente sarei; ma però che mio non sono, ad altrui donare non mi posso: non per tanto quanto il misero core pote ricevere foco strano, di tanto per lo vostro valore si sente acceso, e sentirá sempre, e ognora con piú affetto, disiderando di mai non mettere in oblio il vostro valore». Assai fu Filocolo da lei ringraziato nel suo partire, aggiungendo che gl’iddii tosto in graziosa pace ponessero i suoi disii.
- Tornato cosí Filocolo al suo ostiere, quella notte con molti pensieri passò, tra sé l’udite quistioni ripetendo, delle quali assai a’ suoi dolori facevano, e tutto per la bellezza della piacevole Fiammetta racceso, con piú pena sosteneva l’essere a Biancofiore lontano. Egli poi ricordandosi delle passate feste avute con lei in quelli tempi, e in molti altri, fra sé molte volte annoverava i giorni e i mesi e gli anni, dicendo: ‛Tanto tempo è passato che io con lei non fui e non la vidi’; e con gravissimi sospiri notava quelle ore nelle quali piú graziosamente con lei si ricordava essere stato. Ma perché il tempo che si perdeva, e che piú che mai gli gravava, passasse con meno malinconia, egli andando pe’ vicini paesi di Partenope si dilettava di vedere l’antichitá di Baia, e il Mirteo mare, e il monte Miseno, e massimamente quel luogo donde Enea, menato dalla Sibilla, andò a vedere le infernali ombre. Egli cercò Pescina mirabile, e lo imperial bagno di Tritoli, e quanti altri le vicine parti ne tengono. Egli volle ancora vedere parte dell’inesercitabile monte Barbaro, e le ripe di Pozzuolo, e il tempio d’Apollo, e l’oratorio della Sibilla, cercando intorno il lago Averno, e similmente i monti pieni di solfo vicini a questi luoghi: e in questa maniera andando piú giorni, con minore malinconia trapassò che fatto non avria dimorando.
- Ritornato in Partenope, e con noiosa pena aspettando tempo, avvenne che con grave malinconia un giorno in un suo giardino si racchiuse solo, e quivi con varii pensieri si cominciò seco medesimo a dolere, e dolendosi in nove cose di pensiero in pensiero il portò la fantasia, portandogli davanti agli occhi, che a loro potere gli avevano nella mente raccolte, nuove e inusitate cose. E’ gli pareva vedere davanti da sé il mare essere tranquillo e bello quanto mai l’avesse veduto, e in quello una navicella di bella grandezza, sopra la quale vide sette donne di maravigliosa bellezza piene, in diversi abiti adornate, delle quali sette, le quattro alquanto verso la proda della bella nave vide spaziarsi: e giá d’averle altre volte vedute e loro contezza avuta si ricordava. Ma l’altre tre, che molto piú belle gli parevano, dal mezzo del legno quasi infino di tutta la poppa d’esso gli pareva che possedessero, né quelle per mirarle in niuno modo conoscere poteva; ma tra loro gli parea vedere un albero che infino al cielo si stendesse, né per alcun movimento che la nave avesse pareva che si mutasse. E queste cose con ammirazione riguardando, si sentí chiamare, per che a lui pareva prestamente sopra la navicella montare, ed essere intra le quattro donne raccolto. E porgendo gli occhi inver la proda della nave, gli parve fuori di quella vedere una femina d’iniquissimo aspetto con gli occhi velati e di maravigliosa forza nel suo operare: e con le mani appiccate al legno, quello con tanta forza moveva, che pareva che sotto l’acqua il doveva sommergere, e per conseguente pareva che dintorno ad esso tutto il mare movesse e tempestasse, di che egli dubitando gli parve udire: «Non dubitare». Pareva, adunque, a Filocolo, rassicurato da quella voce, guardare le quattro donne che dintorno gli stavano, delle quali l’una vedeva vestita di drappi simiglianti a finissimo oro, nel viso bellissima e onestissima, col capo coperto di nero velo, e nella destra mano portava uno specchio nel quale sovente si riguardava, e nella sinistra un libro. Assai questa piacque a Filocolo, e, volti gli occhi alla seconda, d’ardente colore la vide vestita, e umile nell’aspetto, sotto candido velo, tenendo nella destra mano un’aguta spada, nella sinistra una rotta lancia, sopra la quale pareva che s’appoggiasse. Della terza Filocolo non sapeva divisare di che colore il vestimento si fosse, ma a diamante il simigliava, e questa sotto il sinistro piè voltava un ritondo pomo grossissimo, nel quale la terra, il mare e i regni sotto diversi climati erano disegnati, ogni cosa riguardando con egual viso, tenendo nella destra mano uno scettro reale: molto riguardò Filocolo costei. Poi rivolto alla quarta, la vide, sotto onesto velo di violato vestita, tacita dimorare tenendosi al petto distesa la destra mano, e alla bocca l’indicativo della sinistra, e tutte, secondo il piacere della donna del caro vestimento, pareva che si guidassero. Dilettava a Filocolo in sí grazioso luogo dimorare: e mentre che egli con piú diletto vi dimorava, volti gli occhi ancora verso la proda, vide in quella un giovane di piacevole aspetto a riguardare, vestita di nobilissimi vestimenti, del quale nelle braccia vedeva una giovane ignuda e bellissima tanto quanto mai alcuna veduta n’avesse, la quale stimolava e angosciava tanto, che ogni riposo le pareva nimico, e con le sue lagrime quasi tutti i vestimenti del giovane aveva bagnati. Questa piaceva a Filocolo molto a riguardare; e dopo lungo mirare gli pareva che fosse la sua Biancofiore, e parevagli che quel giovane per lo proprio nome il chiamasse e gli dicesse: «Vedi come tu fai senza riposo stare la tua Biancofiore?». Da questa voce pareva che tanto disio gli crescesse nel core di correre ad abbracciare quella, che quasi non gli pareva potere stare. Per che egli rivolto a quelle donne gli pareva dire: «Per che cosa mi faceste voi qui chiamare? Ditelomi, perciò che mi voglio partire». A cui risposto fu: «Noi tel diremo». E con lui cominciarono le quattro donne a parlare e a dire molte cose, delle quali niuna gli pareva intendere, tanto aveva l’intelletto rivolto pure a Biancofiore: e non potendo piú il ragionamento di quelle ascoltare, lasciandole parlando, corse ove era il giovane che ignuda teneva Biancofiore, e quivi gli pareva con quella festeggevolmente essere ricevuto. Ma dimorando quivi, gli pareva che il mare mutasse legge, che, stato alquanto quieto, in tanta tempesta si rivolgeva, che non che la nave, ma ancora, tutto l’universo gli pareva che dovesse sommergere: e rimirando quella femina che la proda della nave moveva, vide dalla sua bocca una voce come un tuono grandissimo procedere, e con quella un vento impetuosissimo, il quale lui e Biancofiore e quel giovane pareva che d’in su la nave levasse, e gittasseli in un luogo di voracitá pieno, che davanti a lui parve oscurissimo e tenebroso. Quivi gli pareva d’essere pieno di mortale paura, e piangere, e il simigliante facevano il giovane e Biancofiore: ma quindi per non pensato modo tutti e tre senza offesa si partivano, ritornando in su la nave onde partiti s’erano, e dove la turbata femina vide divenuta lieta, e con riposo tenere la nave e il mare. E di sua volontá gli pareva con Biancofiore entrare in mezzo delle quattro donne, le quali prima non aveva ascoltate, ove vide aggiunto un uomo di grandissima eccellenza e autoritá nel sembiante con corona d’oro sopra la testa. Questi pareva che molte parole gli dicesse, e col suo dire molto l’essere delle tre donne, le quali egli non conosceva, gli scoprisse: per che tanto gli pareva essere col core acceso d’avere di loro notizia intera, che appena il poteva sostenere. E in questa volontá dimorando, e rimirando verso il cielo, gli pareva quello vedere aprire e uscirne una luce mirabile, risplendente e grande, la quale pareva che tutto il mondo dovesse accendere, e quella parte del mondo, che tal luce sentiva, piú bella che alcuna altra gli pareva che fosse. Questa luce veniva sopra di lui, nella quale egli rimirando, vide una donna bella e graziosa nell’aspetto di quella medesima luce vestita, che nelle mani portava un’ampolla d’oro, d’una preziosissima acqua piena, della quale acqua tutto il viso e per conseguente tutta la persona pareva che gli lavasse, e poi subito sparisse: e come questo era fatto, cosí gli pareva aver multiplicata la vista, e meglio conoscere e le mondane cose e le divine che in prima, e quelle amare ciascuna secondo il suo dovere. E cosí ammirandosi di ciò, si trovò tra le donne, le quali da prima non conosceva, e con loro la sua Biancofiore pareva che fosse, e che prendesse maravigliosa contezza: delle quali tre vedeva l’una tanto vermiglia e nel viso e ne’ vestimenti quanto se tutta ardesse, e l’altra tanto verde ch’avanzato avrebbe ogni smeraldo, e la terza bianchissima passava la neve nella sua bianchezza. E dimorando questi con loro per certo spazio, avendo ben di loro nel core ogni certezza, seguendo i loro vestigi, subitamente si vide da loro con tutta la navicella su per l’albero levarsi al cielo, quelle tre essendo li duci, e le quattro di sotto a lui rimanere sopra le salate onde, e ad alto sospignerlo. E cosí sagliendo, gli pareva passare infino nelle sante regioni degl’iddii, e in quelle conoscere i virtuosi corpi e i loro moti, la loro grandezza e ogni loro potenza: quivi con ammirazione inestimabile gloria gli parea vedere dalla faccia di Giove procedere a’ riguardanti, della quale egli senza fine sentiva. E volendo dire: «Oh, felice colui che a tanta gloria è eletto!», avvenne che Ascalione e Parmenione vennero cola ov’egli era. E ignorando il bene che a sé lo teneva sospeso, piú volte il chiamarono, né egli a loro rispose. Per che poi, presolo per lo braccio e tirandolo, dalla celestiale gloria alle mondane cose il trassero. E imaginando che profonda malinconia l’avesse occupato, cominciarono a dire: «Filocolo, che pensiero è il tuo? Rallégrati, ché i marinari ne chiamano che andiamo al legno per andare al nostro cammino, e dicono che poi che qui fummo piú non videro prosperevole tempo alla nostra via se non ora: leva su, andiamo». Levossi dunque Filocolo dicendo: «Oimè, da che bene tolto m’avete!». E narrato loro ciò che veduto aveva, con loro insieme, pieni d’ammirazione per lo suo detto, n’andarono alla nave. E rendute in prima degne grazie agl’iddii del buon tempo, e poi pregatigli divotamente che in meglio il dovessero prosperare, in su quella montarono. E su dimorativi le due parti della notte, sentendo il vento rinfrescato parve loro di dare le vele. Le quali date, gli antichi porti di Partenope abbandonarono, disiderosi di pervenire dove dagl’iddii fu loro promesso di trovare di Biancofiore vere novelle.
- Lenti e scarsi venti pinsero la violata nave in piú giorni quasi all’esteriore parte della dimandata isola, e, quivi mancati, discesero in terra, dubitando non gl’iddii quivi per lungo spazio gli ritenessero come in Partenope fatto avevano. Ma ignorando Filocolo in qual parte dell’isola dovesse di Biancofiore novelle avere secondo il risponso degl’iddii, la fortuna, che giá con lieto viso gli si cominciava a rivolgere, gli apparecchiò albergo vicino a Sisife. Dove egli piú giorni dimorando, e cercando di sapere novelle di Biancofiore, né trovandone alcuna, non sapeva che farsi, e giá il tempo vedeva acconciare presto al suo proponimento: per che egli quasi disperato, dispregiando il detto degl’iddii, non sapeva che si fare, ma dimorando malinconico fra sé diceva: ‛Come io qui di Biancofiore non trovo novelle, cosí, in tutto, il mio viaggio sará perduto, e io, ingannato dagl’iddii, per soperchio dolore dolente renderò l’anima alle dolorose sedie di Dite’. Poi fra sé ripensava le parole degl’iddii non potere essere false, ma diceva: ‛Forse non in questo luogo dell’isola debbo io di Biancofiore trovar novelle, ma in alcuno altro’; per che si imaginava di tutta l’isola voler cercare.
- In questi pensieri dimorando Filocolo e sedendosi sopra un antico marmo posto a fronte alle grandi case di Sisife, avvenne che stando Sisife ad una finestra, e verso il mare riguardando, il vide, e molto il rimirò, volendosi pure alla memoria riducere d’averlo altra volta veduto. E dopo molto riguardarlo, si ricordò di Biancofiore, a cui, secondo il suo giudicio, Filocolo molto risomigliava. Per che ella vedendolo cosí malinconoso dimorare, fra sé cominciò a pensare che costui per Biancofiore malinconico dimorasse, e volendosi della vera imaginazione accertare, discesa del luogo dove dimorava, a sé fece chiamare lo innamorato giovane, e cosí gli disse: «Giovane, se gl’iddii ad effetto producano ogni tuo disio, non ti siano gravi le mie parole, né noioso il contentarmi di ciò ch’io ti dimanderò, se lecito t’è il dirlomi. Dimmi qual cagione è in te che si occupato tiene il tuo viso, il quale ha potenza di porgere p i eta nel core a chi ti mira». Riguardando Filocolo costei nel viso, e vedendola gentilesca e bella e di costumi ornata e pietosa di sé, dopo un sospiro cosí le rispose: «Gentil donna, appena ch’io speri mai che gl’iddii alcuna cosa che mi contenti mi concedano, per che io per questo giá poco mi curerei la cagione della mia malinconia narrarvi; ma il gentilesco aspetto di voi ad ogni vostro piacere adempiere mi costringe, per che io la vi dirò, ben che mai non trovai a cui p ieta di me venisse se non a voi. Il pensiero che si malinconioso il mio aspetto vi rappresenta è che dagl’iddii e dagli uomini del mondo abbandonato mi trovo in questo modo. Io povero giovane e pellegrino, statomi dato dal mio padre eterno esilio dalla sua casa, vo cercando una giovane a me per sottile ingegno levata, la quale se io ritrovo, lecito mi fia alla paternale casa ritornare. Ma di ciò male mi pare essere nel cammino, però che d’alcuno iddio dopo i divoti sacrificii ebbi risponso di dovere qui di lei vere novelle udire; ma ciò trovo falso, perciò ch’io sono piú giorni qui dimorato, né alcuno ci ha che novelle di lei mi sappia contare: per che trovandomi dagl’iddii ingannato, quasí come disperato vivo di ritrovarla».
- Riguardollo allora piú fiso la donna, e dimandollo come la giovane la quale egli cercava si chiamasse, e chi egli fosse, e come avesse nome, e donde veniva, e quanto tempo era che perduta aveva quella che andava cercando. A cui Filocolo rispose: «Biancofiore è il nome della giovane, e io, suo misero fratello, mi chiamo Filocolo, dalle terre che l’Adige riga partitomi: ben sette mesi o piú l’ho cercata, e tanto ha che ella mi fu levata». Pensossi Sisife tra se medesima: «Veramente questi cerca quella Biancofiore che qui fu da’ parenti miei menata dagli occidentali regni». Per che cosí gli cominciò a parlare: «Giovane, delle impromesse degl’iddii non si deve alcuno sconfortare giá mai, però che infallibili sono. Adunque confortati, e prendi ferma speranza di futuro bene, perciò che vere novelle di Biancofiore ti dirò, come quella con cui piú giorni in questa casa ella dimorò». Disse allora Filocolo: «O nobilissima donna, se alcuna pietá nel core il mio aspetto vi porge, per quella vi priego che ciò che di lei sapete interamente mi narriate. Pensate quanto merito nel cospetto degl’iddii acquisterete, se per lo vostro consiglio racquistando la mia sorella, lei e me insieme renderò al mio padre». Sisife disse allora: «Per me niuno tuo piacere fia senza effetto. E in quanto della giovane che tu vai cercando, io ti dico: e’ sono omai sei mesi passati che qui due miei parenti vennero con una bella e grande nave, i quali, secondo il loro parlare, da quelle parti, donde tu di che vieni, si partirono, e con loro avevano questa Biancofiore che tu cerchi, bella e graziosa assai. E certo io non ti vidi prima, che io nell’aspetto di lei ti conobbi suo fratello o parente, e però di lei ricordandomi, di te mi venne pietá. Ella dimorò qui con meco piú giorni: e io, secondo il mio potere, in tutte cose la onorai come figliuola, e veramente mai rallegrare non la potei, anzi continuamente pensosa e piangendo la vedeva. E dimandandola io alcuna volta quale fosse la cagione del suo pianto, ella mi rispondeva che mai niuna femina di piangere ebbe tanta cagione quanta ella aveva, però ch’ella aveva lasciato il piú grazioso amadore che mai da donna amato fosse, il quale ella nel suo pianto chiamava Florio: a costui si doleva quasí come se davanti lo si vedesse, a costui si raccomandava, costui chiamava, e mai nella sua bocca altro nome non era. E certo, per quello ch’ella mi dicesse, ella aveva doppia ragione d’amarlo sopra tutti gli altri uomini del mondo, però che egli amava lei piú che altra donna, e appresso, secondo il suo dire, egli era il piú bel giovane che mai fosse veduto: chi costui si fosse non so se tu tel sai». A cui Filocolo disse: «Assai ben lo conosco, e gran cagione la moveva ad amarlo, e a dolersi d’essere da lui allontanata, però che quelle due cose che vi disse, amendue v’erano: ch’io so manifestamente ch’egli da picciolo garzone l’amò, ed ella lui, e ancora sopra tutte le cose l’ama, e novellamente sposare la doveva, se tanto la fortuna non l’avesse offesi. E tanto di lui vi so dire, che egli pieno di dolore, sí come io, in simile affanno va pellegrinando per trovarla. Onde vi priego che se voi sapete in che parte i mercatanti la portarono, che voi lo mi diciate. Io porto meco molti tesori, de’ quali io renderei doppiamente a’ mercatanti quel che loro costò, se rendere la mi volessero». Disse allora Sisife: «Gran pietá ebbi di lei, e maggiore la mi fai venire, e se gl’iddii m’aiutino, se io fossi uomo sí come femina sono, teco la verria cercando; ma poi che aiuto donar non ti posso, prendi il mio consiglio. I mercatanti, che seco la portarono, mi dissero di dovere andare a Rodi, e di quindi ad Alessandria, e cosí credo che abbiano fatto: e però tu similemente questi luoghi cercherai, e se gli trovi, da mia parte della tua bisogna gli priega, e credo assai ti varrá, e se gl’iddii ti fanno tanta grazia che tu la ritrovi, piacciati che teco insieme io la rivegga». Piacque a Filocolo il consiglio e l’ascoltata novella, e benignamente le promise di rivederla, se conceduta gli fosse la grazia. E dopo molte parole, da lei molto onorato, donatile graziosi doni come a tanta donna si conveniva, con sua licenza da lei si partí. E venuto il tempo al loro cammino utile, co’ suoi compagni salito sopra la nave si partirono cercando Rodi.
- Naviga adunque Filocolo: e ciascun giorno piú i venti rinfrescano e pigliano forza in aiuto di Filocolo, sí che in brieve, lasciandosi indietro Gozo e Moata, pigliando l’alto mare fuggiva la terra. Ma per mancamento di venti e per venire a Rodi, torse il cammino d’Alessandria, e passando Venedigo, Sechilo e Pondico, trovò l’antica terra di Minos, dalla quale Saturno fu dal figliuolo cacciato. E alcun giorno qui dimorò in Candia, e quindi partito, Caposermone, Cassio e Scarpanto trapassò e in brieve venne a Trachilo, e di quindi a Lendego. Quivi entrato con la sua nave nel golfo diede l’ancora a’ profondi scogli, e scese in terra e cercò la cittá: per la quale andando Ascalione e’ suoi compagni con lui, avvenne per accidente che Ascalione fu riconosciuto da un grandissimo e nobilissimo uomo della cittá, col quale in Roma erano giá insieme militanti dimorati, e chiamavasi Bellisano, il quale con grandissima festa corse ad abbracciare Ascalione dicendo: «O gloria della militare virtú, qual grazia in questi paesi mi ti mostra? Gl’iddii in lunga prosperitá ti conservino». Ascalione ben conobbe costui, e affettuosamente abbracciatolo, con lieto viso gli rendé quella risposta che a tali parole si conveniva, pregandolo che Filocolo, cui egli aveva per maggiore e in cui servigio egli era, onorasse. Bellisano allora fatta a Filocolo debita riverenza, lo pregò che gli piacesse al suo ostiere esso e i suoi compagni venire: dove Filocolo, piacendo ad Ascalione, andò, e quivi mirabilmente onorati furono da Bellisano, il quale, amando di perfetto amore Ascalione, in ogni atto s’ingegnava di piacergli. Essendosi riposati alcun giorno, Bellisano dimandò Ascalione se lecito era ch’egli sapesse la cagione della loro venuta, ché a lui molto saria di saperlo a grado. A cui Ascalione, con piacere di Filocolo, interamente narrò la veritá della loro venuta. Le quali cose udendo, Bellisano tutto nell’aspetto divenne stupefatto, dicendo: «Senza fallo e’ non sono passati sei mesi che Biancofiore fu con gli ausonici mercatanti in questa casa, avvegna che poco ci dimorasse. Ed essi ne la portarono in Alessandria, per intendimento di venderla all’amiraglio, il quale di giorno in giorno vi si attendeva, secondo che essi mi dissero: che essi se ne facessero, niuna novella ne seppi poi. Ma se gl’iddii di lei ogni vostro piacere certamente adempiano, ditemi chi fu la giovane e come avvenne che per danari divenisse de’ mercatanti». Disse allora Ascalione come, ucciso Lelio, Giulia pregna era stata presa, e come Biancofiore e Florio in un giorno nati erano, e come innamorati, e separati, per paura di quello che ad effetto si doveva recare, erano dal padre stati, e li pericoli corsi a Biancofiore, e ciò che per adietro era avvenuto. Maravigliossi assai Bellisano, e dimandò quale Lelio fosse stato il padre di Biancofiore. A cui Ascalione disse: «Egli fu il nobile Lelio Africano, il quale a noi e agli altri stranieri soleva essere tanto grazioso mentre in Roma dimoravamo».
- Questo udendo, Bellisano appena le lagrime ritenne, dicendo: «Oimè, or fu in casa mia la figliuola di colui a cui io fui piú tenuto che ad altro uomo, e non la sovvenni d’aiuto? Ahi, maladetta sia la mia ignoranza, ch’io vi giuro, per l’anima del mio padre, che, se ciò che voi mi dite avessi saputo, avrei loro tutti i miei tesori donati, e ogni mia forza adoperata per poterla in libertá riducere, portandola poi, per merito de’ beneficii ricevuti dal padre, in qualunque parte le fosse piaciuto. Ciò non mi reputino gl’iddii in peccato, ché per altro che per ignoranza non mancò: ed ella misera tutti i suoi infortunii mi disse, de’ quali piansi con lei sí come gl’iddii sanno, né di cui figliuola stata fosse mai mi disse». Allora Ascalione disse: «Certi siamo di ciò che ne conti, e siamotene tenuti; ma piacciati consigliarne, per quel singulare grado che tra te e me è giá stato ed è di vera amistá, che via noi dobbiamo tenere a ritrovare e a ravere ciò che noi andiamo cercando». Bellisano rispose: «Il consiglio e l’aiuto che per me si potrá, voi l’avrete. Io con esso voi verrò ad Alessandria, dove ho alcuni amici, li quali per amore di me vero aiuto e consiglio ci porgeranno, ché di qui, senza vedere altro, male vi saprei consigliare». A queste parole rispose Filocolo dicendo: «Bellisano, assai ci basta se ad alcuno de’ tuoi amici per consiglio ci mandi senza affannarti. Tu oramai pieno d’anni, il riposo piú che l’affanno disiderare devi, e ti ringrazio del tuo buon volere». Disse allora Bellisano: «Fermamente da voi non fia senza me tale cammino fatto, ché, ancora ch’io sia anziano, sono io a gravissime fatiche possente piú che tali giovani. Io sono tenuto di mettermi alla morte per amore della giovane cui voi cercate, se io penso a’ ricevuti servigi dal piú nobile padre che mai figliuola avesse. Ond’io vi priego che la mia compagnia, la quale assai vi potrá essere utile, non vi sia grave». Vedendo Filocolo Bellisano in questo volere, disse: «A tuo piacere sia, e però quando ti parrá ci partiremo».
- Bellisano vide il tempo disposto al loro cammino, per che a lui parve il partire convenevole. E montati tutti sopra la nave, renderono le vele a’ prosperevoli venti, li quali in brieve tempo infino al porto di Alessandria salvamente li portarono. Quivi discesi in terra, date l’ancore a’ fondi, a casa d’un gentiluomo d’Alessandria, a Bellisano amico intimissimo, chiamato Dario, se n’andarono. Egli con lieto viso principalmente Bellisano e appresso Filocolo e gli altri graziosamente ricevette, quanto il suo potere si stendeva onorandogli, offerendosi a Filocolo e ad Ascalione e a tutti, per amore di Bellisano, ad ogni loro piacere e servigio apparecchiato: di che da tutti con debite parole fu ringraziato.
- Dimorati costoro alquanti giorni con Dario, e veduta la nobile cittá, e presi diversi diletti, Filocolo, il cui core da amorose sollecitudini era stimolato, ogni ora un anno gli si faceva di sapere quello per che quivi venuto era. E però a sé Bellisano e Ascalione chiamò e disse loro: «Che facciamo noi? Che perdimento di tempo è il nostro? Venimmo noi qui per vedere le mura d’Alessandria? Quando vi piacesse, a me molto saria caro d’intendere a quello per che qui siamo venuti. La nemica fortuna ci ha assai tolto di tempo: ora che contro alla forza di lei qui siamo pervenuti, non ce ne togliamo noi medesimi, però che il perderlo a chi piú sa piú spiace». A cui Bellisano rispose: «Ciò che dite assai mi piace, e però facciasi». Chiamato adunque Dario, in una camera tutti e quattro tacitamente si misero, e postisi sopra un ricco letto a sedere, Bellisano cominciò a Dario cosí a parlare: «Amico, perciò che io credo che ignoto ti sia chi tu abbia onorato e onori, e similemente la venuta di costoro da te ricevuti, io lo ti dirò; ma il loro essere e la cagione del loro pellegrinare tu a niuno palesando, quel consiglio e aiuto che per te si può ne sia porto». E mostrandogli Filocolo, disse: «Costui è figliuolo dell’alto re di Spagna, nipote dell’antico Atlante sostenitore de’ cieli; e quelli che tu in sua compagnia vedi, sono giovani nobilissimi e di grandissima condizione, e qui sono venuti, e io con loro, acciò che novella abbiamo di Biancofiore bellissima giovane, la quale fu qui da Antonio ausonico mercatante e da un suo compagno recata, sí come essi in Rodi, albergati nel mio ostiere, mi dissero. Ella fu da loro comprata da non so quale re nelle parti d’Occidente, e a costui furtivamente furata. Egli sopra tutte le cose del mondo l’ama: e che ciò sia vero a te veggendolo qui può esser manifesto, lá dove egli per niuna altra cagione sia venuto se non per lei racquistare; e ha proposto di mai alla paternale casa ritornare, né egli, né i suoi compagni, né io, se lei primamente non riabbiamo. Vedi oramai quanto servire ne puoi, dicendoci se alcuna cosa di lei sai, mettendoci dopo questo in via di ciò che adoperare dobbiamo, secondo il tuo giudicio, per acquistarla».
- Con ammirazione ascoltò Dario le parole di Bellisano, udendo che di sí alto re Filocolo fosse figliuolo, e per tale cagione pellegrino divenuto. E alzato il viso verso il cielo, fra sé cominciò a dire: «O piú che altro pianeta potente, per la cui luce il terzo cielo si mostra bello, quanta è la tua forza negli umani cuori efficace! Quando saria per me mai stato pensato che sí nobile uomo una venduta schiava per amore dall’un canto della terra all’altro seguisse? Certo non mai: ma veduto l’ho! Tempra i fuochi tuoi nelle umane menti, acciò che per soverchio del tuo valore non si mettano alle strabocchevoli cose». E poi che cosí ebbe detto, bassò la testa e cosí rispose: «Amico, a me quanto me medesimo caro, nuove cose mi fai udire, cioè che io sia oste di tanto uomo quanto Filocolo ne dí ch’egli è: la qual cosa molto m’è cara, e piú sarebbe se esso secondo la sua nobile qualita onorato avessi; ma quello che per ignoranza è mancato, con debita operazione adempierò. Ma molto piú d’ammirazione mi porge la cagione della sua venuta, che altra cosa che tu mi potessi aver detta. Né mi fia omai impossibile a credere ciò che di Medea, di Dido, di Deianira, di Fillis, di Leandro e d’altri molti ho giá udito, veggendo quello che io ora di Filocolo apertamente veggo: ma però che amore è passione che tanto cresce quanti piú argumenti a minuirla s’adoperano, senza alcuna debita riprensione farne, che grande a questo si converria, procederò a rispondere a ciò che dimandato m’hai. Molto mi saria caro il poterti di Biancofiore migliori novelle dire che non posso; ma come colui che interamente di lei ciò che è sa, come ella sia, e donde e come qui venisse vi conterò: poi quel consiglio e aiuto che per me a tal bisogna dare si potrá, com’io per me l’adoperassi, cosí il vi proffererò e donerò. Qui venne, giá sono passati sei mesi, Antonio ausonico mercatante, e il compagno suo, e a me, come a loro caro amico, richiedendo aiuto e consiglio, davanti presentarono la bella giovane la quale voi cercando andate, e dissermi: ‛Dario, noi veniamo dagli occidentali paesi, quivi per avventura chiamati da Felice re di Spagna. Di suo patto e nostro per questa giovane tutti i nostri tesori gli donammo, e quivi menata l’ahbiamo acciò che al signore la vendiamo, e di lei oltre a’ nostri tesori gran quantitá guadagnare intendiamo: però ponici in via come noi possiamo questo ad effetto recare’. Le quali cose udendo, io incontanente all’amiraglio nostro signore li menai, e, narratagli la bisogna di costoro, e fattagli venire Biancofiore davanti, tanto gli piacque, che senza alcun patteggiare comandò che i tesori che costata era a’ mercatanti fossero loro raddoppiati, e la giovane rimanesse a lui, e cosí fu fatto. I mercatanti si partirono, e Biancofiore rimasa dall’amiraglio fu fatta mettere in una torre grandissima e bella, qui assai vicina, con altre molte donzelle in simile maniera comprate, e quivi, a fine ch’io vi dirò, essa e l’altre sotto grandissima guardia sono guardate. Sí come io credo che tu sappia, l’amiraglio di cui davanti parlammo, è soggetto del potentissimo correggitore di Babillonia, e a lui ogni dieci anni una volta per tributo conviene che gli mandi infinita quantitá di tesori, e cento pulcelle bellissime. Ed egli, acciò che nella grazia del signore interamente permanga, quanto piú può s’ingegna d’averle belle e nobili, né alcuna n’ha nel mondo che bella sia, la quale per tesoro avere si potesse, ch’egli a quantitá guardasse, ma, che volesse costasse, e’ converrebbe che sua fosse: e ciò puote egli ben fare, perciò che il suo tesoro è infinito. E si com’io t’ho detto, a fine di donarle al signore il fa; e come egli l’ha, in quella torre le guarda solennemente, dove alcuna che pulcella non sia, non puote aver luogo. E prima che io a porgere alcun consiglio proceda, voglio divisare come queste pulcelle in questa torre dimorano, e sotto che guardia: le quali cose udite, forse cosí com’io saprete consigliare. La torre dove le donzelle dimorano, come voi nel nostro porto entrando poteste vedere, è altissima tanto, che quasi pare che i nuvoli tocchi, e si è molto ampia per ogni parte, e credo che il sole, che tutto vede, mai sí bella torre non vide, però ch’ella è di fuori di bianchissimi marmi e rossi e neri e d’altri diversi colori tutta infino alla sommitá maestrevolmente lavorata e murata, e appresso ha dentro a sé per molte finestre luce, le quali finestre divise da colonnelli, non di marmo, ma d’oro tutti, si possono vedere, le porte delle quali non sono legno, anzi pulito e lucente cristallo. Tutto questo di fuori a’ riguardanti si può palesare, ma dentro ha piú mirabili cose, le quali, chi non le vede, impossibile gli parrebbe a credere udendole narrare. E’ vi sono cento camere bellissime, e chiare tutte di graziosa luce, e molte sale; ma tra l’altre sale una ve ne dimora, credo la piú nobile cosa che mai fosse veduta. Ella tiene della larghezza della torre grandissima parte, volta sopra ventiquattro colonne di porfido di diversi colori, delle quali alcuna ve n’ha si chiara, che, rimirandovi dentro, vedi ciò che per la gran sala si fa: e fermansi le lamie di questa sala sopra capitelli d’oro posti sopra le ricche colonne, le quali sopra basole d’oro similemente sopra il pavimento si posano. Queste lamie sono gravanti per molto oro, nelle quali riguardando niuna cosa vi puoi vedere altro, salvo se pietre nobilissime non vedessi. In questa sala nelle pareti dintorno, quante antiche storie possono alle presenti memorie ricordare, tutte con sottilissimi intagli adorne d’oro e di pietre vi vedresti: e sopra tutte scritto è di sopra quello che le figure di sotto vogliono significare. Quivi ancora si veggono tutti i nostri iddii onorevolissimamente sopra ogni altra figura posti, co’ quali gli avoli e gli antichi padri del nostro amiraglio tutti vedere potresti. In questa sala non si mangia se non sopra tavole d’oro, né niuno vasellamento se non d’oro v’osa entrare. Io non vi potrei narrare interamente di questa quanto n’è. Che vi poss’io piú di questa cosa dire se non che infino al pavimento, e il pavimento medesimo è d’oro e di preziose pietre? In questa mangia sovente il nostro amiraglio con Biancofiore e con l’altre donzelle. Ancora è in questa torre, tra le cento camere, una che di bellezza tutte l’altre avanza: e certo appena che quella dove Giove con Giunone ne’ celestiali regni dimora, si possa agguagliare. Essa è di convenevole grandezza, e ha questa proprietá, che alcuno non vi può dentro passare sí malinconico, che mirando il cielo della camera, dove maestrevoli compassi d’oro, di zaffiri, di smeraldi, di rubini e d’altre pietre si veggono senza numero, egli non ritorni gioioso e allegro. E a fronte alla porta di questa, sopra una colonna, la quale ogni uomo che la vedesse la giudicherebbe di fuoco nel primo aspetto, tanto è vermiglia e lucente, dimora il figliuolo di Venere ignudo con due grandissime ale d’oro, graziosissimo molto a riguardare; e tiene nella sinistra mano un arco e nella destra saette, e pare a chiunque in quella passa che egli il voglia saettare; ma egli non ha gli occhi fasciati come molti il figurano, anzi gli ha quivi belli e piacevoli, e per pupilla di ciascuno è un carbuncolo, che in quella camera tenebre essere non lasciano per alcun tempo, ma luminosa e chiara sí come se il sole vi ferisse la tengono. Dintorno ad esso ne’ cari muri tutte le cose che mai per lui si fecero sono dipinte. Nei quattro canti di questa camera sono quattro grandissimi arbori d’oro, i cui frutti sono smeraldi, perle e altre pietre, e si artificialmente sono composti, che come l’uomo con una verghetta percuote il gambo d’alcuno di quelli, niuno uccello è che dolcemente canti, che quivi cantare non sia udito, e ripercotendo tacciono. In mezzo di questa camera sopra quattro leoni d’oro, una lettiera d’osso d’indiani leofanti dimora, guernita con letto chente a sí fatta lettiera si richiede, chiusa intorno da cortine, le quali io non crederei mai poter divisare quanto siano belle e ricche. Né è alcuno piacevole odore, o confortativo, che in quella entrando l’uomo non senta soavemente odorando. In questa camera e in questo cosí nobile ’letto dorme sola Biancofiore: e questa grazia singulare piú che l’altre riceve, perché di bellezza e di costumi avanza ciascun’altra, ben che l’altre onorevolmente dimorano ciascuna nella sua camera. Ma nella sommitá di questa torre è un dilettevole giardino molto bello, nel quale ogni albero o erba che sopra la terra si trova, quivi credo che si troverebbe: e in mezzo del giardino è una fontana chiarissima e bella, la quale per parecchi rivi tutto il giardino bagna. Sopra questa fontana è un albero il cui simile ancora non è alcuno che mai vedesse, per quello che dicono coloro che quello veduto hanno. Questo non perde mai né fiori né fronde, ed è di molti opinione che Diana e Cerere, a petizione di Giove, antico avolo del nostro amiraglio, pregato da lui, ve lo piantassero. E di quest’albero e di questa fontana vi dirò mirabile cosa, che qualora l’amiraglio vuole far prova della virginitá d’alcuna giovane, egli nell’ora che le guance cominciano all’aurora a divenir vermiglie, prende la giovane, la quale vuoi vedere se è pulcella o no, e menata sotto questo albero. E quivi per picciolo spazio dimorando, se questa è pulcella le cade un fiore sopra la testa, e l’acqua piú chiara e piú bella esce da’ suoi canali; ma se questa forse congiugnimento d’uomo ha conosciuto, l’acqua si turba e ’l fiore non cade. E in questo modo n’ha giá molte conosciute, le quali con vituperio da sé ha cacciate. In questo giardino si prendono diversi diletti le donzelle: in questa maniera che detto vi ho dimorano libere di poter cercare tutta la torre infino al primo solaio; da indi in giú scendere non possono né uscire mai senza piacere dell’amiraglio. Potete avere udito come dimorano: ora sotto a quale guardia vi narrerò.
- Nella piú infima parte della torre, copiosa di graziosi luoghi ad abitare, non può alcuna persona ch’è disopra discendere, né alcuna che disotto sia salir disopra senza il piacere dell’amiraglio, sí com’io dissi. Quivi abita un arabo, da cui la torre è chiamata la Torre dell’Arabo, castellano di quella, ed appellato per proprio nome Sadoc. Egli ha a pensare di tutte quelle cose che alle pulcelle siano necessarie, e quelle dare a loro. Appresso ha molti sergenti, co’ quali il giorno questa torre d’ogni parte guarda: né alcuno uomo, non che a quella, ma ancora in un grandissimo prato ch’è davanti ad essa, sostiene che s’appropinqui, e quale presumesse d’appressarsi senza sua parola o piacer di lui, o morte o grandissimo danno e pericolo gliene seguiria: ma come il giorno si chiude, tutto quel prato pieno d’uomini con archi e con saette potreste vedere guardando la torre dintorno. E il castellano, e’ suoi sergenti, e qualunque altro v’ha alcuno uficio, tutti eunuchi sono: e questo ha l’amiraglio voluto, acciò che alcuno non pensasse di far quello ch’egli sta per guardare ch’altri non faccia; e questa guardia né giorno né notte fálla giá mai. Vedete omai che consiglio o che aiuto qui porgere si può! Ma non per tanto veggiamo le vie che ci sono o potrebbero essere, e per quella che meno rea ci pare, se alcuna ve n’ha, procediamo».
- Taciti e pieni di maraviglia per le udite cose si stavano costoro, e niuno rispondeva alcuna parola, quando Dario ricominciò: «Signori, io non discerno qui se non tre vie, delle quali l’una ci conviene pigliare, e mancandoci queste, niuna altra ce ne so pensare. Le quali tre queste sono esse: o per prieghi riaverla dall' amiraglio, o per forza rapida dalla torre, o con ingegno acquistare l’amicizia del castellano, a quale avendo, non dubito che a fine si verria del nostro intendimento. Ciascuna di queste mi pare fortissima a poter venire a fine, perciò che se noi ne vogliamo l’amiraglio pregare, questo mi pare che sia un gittare le parole al vento: e la cagione è questa, ch’egli sopra tutti i suoi tesori la tiene cara, e io gli udii dire che a niuna persona del mondo, fuor i che al Soldano, la darebbe, per doverne ricevere un altro regno simile a quello che possiede. Per che io dubito che i nostri prieghi ne’ quali il nostro intendimento gli si scoprisse, nol movessero piú tosto ad averci sospetti, e a donarci esilio eterno da’ suoi regni, che a farci grazia: e però questa via mi pare al presente da lasciare, con ciò sia cosa che ad essa possiamo ultimamente ricorrere. Il volere la torre assalire, e per forza trarne quella, per ogni cagione saria follia, però ch’essa primieramente è da sé forte, e appresso è ben guardata, e avanti che combattuta o presa fosse, tutto il suo regno ci potrebbe essere corso, e, non che noi, ma innumerevole quantita di cavalieri pigliare e mettere in rotta potrebbero, e cosí con danno rimarremmo disperati e forse morti. Ma di queste dette mi pare migliore con ingegno l’amicizia del castellano pigliare, per ciò che a prendere quella non ci pote esser pericolo, e forse presa potra giovare, se saviamente con lui si procedeni. La quale in questo modo si potra acquistare: egli è vecchio, superbissimo e avarissimo, e sopra tutte le cose del mondo si diletta di giocare a scacchi e di vincere: però prendere con lui parole, e umilmente i suoi piaceri concedergli, e appresso donandogli alcuna volta di belle gioie, e giocando con lui, gli potrebbe l’uomo divenire amico: la quale amistá quando fosse presa, nuovo consiglio si converria avere per lui recare al nostro piacere. Questo modo mi piacerebbe, e questo mi pare da tenere, e per questo spero che il nostro intendimento verrá ad effetto, ma tuttavia vi ricordo che copertamente procediate a questo, però che se egli, o altri che a lui il ridicesse, s’avvedesse che a questo fine la sua amicizia si cercasse, nulla saria d’averla, ma poi quando amico sará, fia piú sicuro lo scoprirsi a lui solamente. Io mi credo, di ciò ch’io v’ho parlato, avere ben detto e chiaro il mio parere. Voi siete savi, e se bene avete notate le parole mie, voi potete bene aver compreso ciò che qui bisogna fare, cosí com’io vi consiglio: e però se migliore via ci conoscete, sia per non detto quello che io v’ho consigliato, e seguitiamo quella». Tacquesi allora Dario, e Ascalione e Bellisano vi dissero molte parole, ma alla fine a tutti parve e a Filocolo il migliore di seguire ciò che Dario aveva consigliato: e fra loro deliberarono che Filocolo fosse colui che l’amista di Sadoc dovesse pigliare, il quale si vantò di farlo bene e compiutamente.
- Partito il lungo consiglio, chi si diede ad una cosa, e chi ad un’altra di costoro. Filocolo solamente si diede a pensare sopra l’udite cose, e prima fra sé le commenda e poi le disidera e ultimamente gravissimi reputa li pericoli a’ quali si mette, incerto d’acquistare la cosa pe~ la quale a quelli si dispone, e di questo pensiero salta in un altro, e di quell’altro in molti. Egli si ricorda di tutti i pericoli ch’egli ha corsi, e imagina quelli che correre dee: e nella savia mente stima i corsi essere stati grandi, ma molto maggiori gli paiono quelli che a venire sono. E nel pensiero gli prende dei preteriti paura non che dei futuri. E pargli, quando bene le parole di Dario pensa, quasi al suo disio mai non dover pervenire per qualunque pericolo al quale egli si metta, o, se ne dee pervenire ad effetto, pensa che tardi sia. Ma piú tosto consente, se ad alcuna cosa fare si mette, morte o, vergogna acquistarne che il suo volere adempiere, né ancora alcuna volta ha ne’ suoi pensieri conosciuto i suoi folli disii come ora conosce. Per che egli tra sé e sé cominciò a dire: «O poco savio, quale stimolo a tante pericolose cose infino a qui t’ha mosso, e vuole a maggiori da quinci inanzi muovere? Niuna cosa è se non una femina, amata da te oltre al dovere. Ora è egli lecito l’amare altrui piú che sé? Certo no, però che ogni ordinato amore comincia e procede dall’amare se medesimo: dunque ama piú tosto te che questa femina. — E cosí fo io. — Non sai che se tu piú te amassi, tu non cercheresti i pericolosi casi per la sua salute, dove la tua agevolmente si può perdere. — La mia non si perderá. — E chi te ne fa certo? — La speranza ch’io porto agl’iddii che m’aiuteranno. — Gl’iddii aiutano coloro che per debita ragione si mettono a non strabocchevoli pericoli e lasciano perire chi n’ha voglia, come pare che tu abbia. — Adunque come debbo fare? — Lasciala stare. — Io non posso. — Sí potrai, se tu vorrai. — E che vita sará la mia senza amore? — Quale è stata quella di coloro che sono stati avanti a te. — Io non potrei senza amore vivere.— Amane un’altra, e quella che al tuo padre piacerá, e torna a lui co’ tuoi tesori, e contentalo come tu devi, ché sai ch’egli ama te sopra tutte le cose, e non seguire piú questo amore: meno male è corta follia che lunga. —L’uomo non può amare e disamare a sua posta. E come lascerei questa impresa, acciò che poi si dica Filocolo per viltá fu nel loco dove Biancofiore era, cui egli amava tanto secondo che diceva, e in niuno modo tentò di riaverla?— oh, quanti perirono giá per non volere le loro folli imprese lasciare, temendo di codesti detti, i quali in breve tempo si dimenticano. — Dunque la pur lascerò, tornando donde io mi partii? — Mai sí che tu la lascerai, se tu disideri di vivere. — Di vivere disidero. — Adunque lasciala. — E che varrá la mia vita? — Quel che vale quella degli uomimi che si pongono in core di non amare una cosa che a pericolo li conduca. — Certo, poi che infino a qui sono venuto, io voglio pure tentare di riaverla. — E non te ne avverrá forse bene. — E qual male me ne potra avvenire? — L’essere con vergogna morto. — Chi mi uccidera, faccendomi io conoscere? — Quegli che subitamente, senza dimandare chi se’, ti ferirá. — E’ non s’uccidono coloro che amistá cercano: ucciderammi il castellano perché io voglio essere suo amico? — Mai no; ma quando tu gli scoprirai quello per che tu gli se’ divenuto amico, egli non te ne servirá, per paura non forse il risappia il signore, e privilo d’avere e di vita: anzi a lui ti paleserá per levartisi da dosso. Non sai tu che negli arabi niuna fede si trova? E per questo il signore ti fará uccidere, o ti scacéerra dal suo reame con vergogna. — E’ non avverra cosí, ch’io vincerò la sua nequizia con molti doni. — Or ecco che tu pure la racquisti: che avrai tu racquistato? — Avrò racquistato colei ch’io amo e che me ama sopra tutte le cose. —Tu t’inganni, se pensi che colei ora di te si ricordi, essendo senza vederti tanto tempo dimorata. Nulla femina è che sí lungamente in amare perseveri, se l’occhio o il tatto spesso in lei non raccende amore. — E come mi potrebbe ella mai dimenticare, essendoci noi tanto per adietro amati? — Per un altro amatore! Credi tu che i mercatanti senza alcun bacio o forse senza pigliarsi la sua virginitá, che n’ebbero tanto spazio, la lasciassero da loro partire? E se questi forse non savi da loro la partirono, credi tu che l’amiraglio infino a qui vergine l’abbia lasciata? Certo non è da credere. Egli non l’ha tanto cara, quanto Dario ti dice, se non perché con lei si giace. Dunque non Biancofiore, ma una meretrice tu cerchi di racquistare. — Non è cosi, ché se i mercatanti tolta le avessero la sua virginitá, l’amiraglio l’avrebbe conosciuta sotto il fatale arbore, e cacciatala da sé; e se egli con lei si giacesse, non con l’altre damigelle, ma seco la terrebbe. — E ben ch’ella sia pur vergine, non è mettersi per lei alla morte? — Certo sí è, ché per questo ultimo pericolo fuggire, non è da volere che perduti sieno quanti ne ho giá corsi per adietro per averla. Io ne ho giá molti passati, non con isperanza d’averla di presente per quelli; per questo, se bene me ne avviene, senza alcun mezzo l’avrò. — Fòlle se’ stato cercandoli, e sarai piú se a questo ti metti. — Fòlle no, ma innamorato sí: e cosí agl’innamorati conviene vivere. Guardisi chi in cotali pericoli non vuole incorrere, d’incappare nelle reti d’amore. Ella sará per me con ogni ingegno e con ogni forza ricercata. Aiutinmi gl’iddii nelle cui mani io mi rimetto,. E cosí detto, alzando il viso. gliela parve dinanzi a sé vedere, e con pietoso aspetto, nelle braccia di Venere, aver tutte le sue parole ascoltate. Per la qual cosa dolendosi se di lei ne’ pensieri o nelle sue parole aveva meno che onorevolmente parlato, e quasi vergognandosene, piú fervente nel suo proponimento divenne, giurando per quella dea, la quale egli molte fiate veduta aveva, di mai non riposare infino a tanto che racquistata non l’avesse, ancora che per quello gli fosse dinanzi agli occhi la morte: e con questa deliberazione si parti da’ suoi pensieri.
- Rallegravasi Apollo nella sua casa, quando primamente l’innamorato giovane pervenne al tanto tempo cercato paese, dove l’avuto consiglio di Dario tutto in sé propose di adempiere. Ma ciò si tosto, com’egli imaginava, non poté venire ad effetto, perciò che in diversi atti e modi la fortuna, ancora non contenta de’ suoi beni, gli ruppe le vie, per che assai tempo ozioso gli convenne stare. Egli in questa disposizione dimorando, vietò a’ suoi compagni che in alcuno atto tra loro piú che uno degli altri onorato fosse, né che alcuno, se non da lui chiamato, mai l’accompagnasse. E, ultimamente, tutti gli pregò che quello per che quivi dimoravano ad alcuno per alcuna cagione non palesassero. Mossesi adunque molte fiate solo per andare al castellano, in se medesimo pensando diverse scuse alla sua andata, né mai al proposito pervenire potea, quando da uno e quando da un altro impedimento impedito, onde dolente indietro si ritornava. Egli mai fuori di casa non usciva, se non per andare a Sadoc, né mai mentre in Alessandria dimorò, da alcuno paesano si fece conoscere, né con alcuno prese notizia, da Dario in fuori. Non potendo adunque costui al disiato fine pervenire, né mai, per quante volte andato fosse alla torre, Biancofiore avere sola una volta veduta, dolente viveva, e per sua consolazione saliva sopra la piú alta parte dell’ostiere di Dario, e, quindi rimirando l’alta torre, alcuno diletto sentiva, fra sé dicendo: «O Biancofiore, poi che tolto m’è il poterti vedere, il luogo dove tu se’ non mi può esser tolto ch’io non vegga». In questa vita stette infino a tanto che Febo in quell’animale, che la figliuola d’Agenore trasportò da’ suoi regni, se ne venne a dimorare, e quivi quasi nella fine congiunto con Citerea, rinnovellato il tempo, cominciò gli amorosi animi a riscaldare, e a raccendere i fuochi di venuti tiepidi nel freddo e ispiacevole tempo del verno: e massimamente quello di Filocolo, il quale sí nel suo disio divenne fervente, che appena raffrenare si poteva di piú non mettersi a volere il suo proponimento adempiere senza guardare luogo o tempo. Ma ciò non sostennero gl’iddii, anzi con forte animo lo fecero sostenere aspettando. Venuto adunque giá Titan ad abitare con Castore, un giorno, essendo il tempo chiaro e bello, Filocolo si mosse per andare verso la torre: alla quale essendo ancora assai lontano, verso quella rimirando, vide ad una finestra una giovane, alla quale nel viso i raggi del sole riflessi dal percosso cristallo davano mirabile luce, per che egli imaginò che la sua Biancofiore fosse, dicendo fra sé impossibile cosa essere che il viso d’alcun’altra giovane sí splendente fosse o essere potesse. Di che tanto il disio gli crebbe di vederla piú da presso e d’adempiere ciò che proposto aveva, che, abbandonate insieme le redini del cavallo con quelle della sua volontá, disse: «Certo, se io dovessi morire, poi ch’io non posso te avere, o Biancofiore, conviene che il luogo dove tu dimori abbracci per tuo amore». E in questo proponimento col cavallo correndo infino a’ piè della torre se n’andò: dove disteso con le braccia aperte s’ingegnò d’abbracciare le mura, quelle baciando infinite fiate, quasi nell’animo di ciò che faceva sentendo diletto.
- Assai di lontano vide il castellano Filocolo verso la torre correre, per che egli, e molti appresso di lui, correndo, con una mazza ferrata in mano gli sopravvenne crucciato molto, e tutto pieno d’ira e quasi furioso il corse a ferire, dicendo: «Ahi, villano giovane, e oltre al dovere ardito, vago piú di vituperevole morte che di laudevole vita, quale arroganza t’ha tanto sospinto avanti, che in mia presenza alla torre ti sia appropinquato? Io non so quale iddio dalle mie mani la tua vita ha campata: tirati indietro, villano!».
- Filocolo, udendo queste parole, e vedendosi intorniato da molti, e ciascuno presto per ferirlo, quasi tutto smarrito, dubitando di morire, volontieri avrebbe voluto allora essere stato in altra parte. Ma ricordandosi di Biancofiore rinvigorí, e, riprese le spaventate forze, umilmente cosí rispose: «O signore mio, perdonami, che non per mio difetto questo è avvenuto, né per malizia ho la tua signoria offeso; ma la dura bocca del mio cavallo di questo ha colpa, il quale assai lontano di qui correndo si mosse, né per mia forza tener lo potei infino a questo luogo: al quale venuto, maravigliandomi de’ sottili lavori, non potei fare che io non mi appressassi ad essi per vederli, non credendo a te dispiacere. Tutta fiata s’io ho fallito, nelle tue mani mi rimetto: fa di me secondo il tuo parere».
- Sadoc, rimirando fiso Filocolo, e umiliato ascoltando le sue parole, e le sue bellezze simili a quelle di Biancofiore stimando, e avendolo udito cosí benignamente parlare, gli disse: «Giovane, monta a cavallo». Filocolo presto salito in sul suo palafreno, dietro a Sadoc reverente andava. A cui Sadoc disse: «Dimmi, giovane, se tu se’ cavaliere o scudiero, e di che parte, e quello che quinci andavi faccendo quando il tuo cavallo qui contro tua voglia ti trasportò?». A cui Filocolo rispose: «Signor mio, io sono un povero valletto d’oltre mare, il quale prendo diletto in andare il mondo veggendo; e udendo le gran bellezze di questa torre nominare, ed essendo. da Rodi mosso per andare a Babillonia, qui per vederla ne venni. E ora, quando inanzi il mio cavallo qui mi trasportò, tornava con un mio falcone pellegrino da mio diporto, il quale, avendolo ad una starna lasciato, ed egli non potendola pigliare al primo volo, sdegnato in su questa torre se ne volò, e richiamandolo io, il palafreno, temendo il romore, a correre si mise, qui recandomi come voi vedeste».
- Mentre costoro cosí parlando andavano, pervennero alla porta della gran torre, ed entrati in essa dismontarono. E avendo il castellano le belle maniere di Filocolo vedute, imaginò lui dovere essere nobile giovane. Per la qual cosa quivi assai l’onorò, e dopo molte parole gli disse: «Giovane, la simiglianza che tu hai d’una donzella che in questa torre dimora, chiamata Biancofiore, t’ha oggi la vita campata: di che siano gl’iddii laudati, che la mia ira mitigarono come io ti vidi, la qual cosa rado o mai piú non avvenne». Di questo assai lo ringraziò Filocolo, sempre a lui offerendosi servidore, e similmente a quella giovane la cui simiglianza campato l’aveva: e se egli conoscere la potesse, volontieri la ringrazierebbe. E dopo questo entrati in molti e in diversi ragionamenti, a Filocolo andò l’occhio ad un canto del loco dove dimoravano, dove egli vide appiccato uno scacchiere nobilissimo e ricco, il quale veduto, disse: «Sire, dilettatevi di giocare a scacchi, che io veggio sí bello scacchiere?». Rispose Sadoc: «Sí, molto, e tu sai giocare?». A cui Filocolo rispose: «Alquanto ne so«. Disse allora Sadoc: «Ora giochiamo insieme, infino a tanto che questo caldo passi e che tu possa alla cittá tornare’ . «Ciò mi piace molto, signor mio, rispose Filocolo.
- Fece adunque Sadoc in una fresca loggia distendere tappeti, e venire lo scacchiere, e l’uno dall’una parte e l’altro dall’altra s’assettarono. Ordinansi da costoro gli scacchi, e cominciasi il gioco, il quale acciò che puerile non paia, da ciascuna parte gran quantitá di bisanti si pongono, presti per merito del vincitore. Giocando adunque costoro, l’uno per guadagnare i posti bisanti, l’altro per perdere quelli e acquistare amistá, Filocolo giocando conosce sé piú sapere del giuoco che il castellano. Ristringe adunque Filocolo il re del castellano nella sua sedia con l’uno de’ suoi rocchi e col cavaliere, avendo il re alla sinistra sua l’uno degli alfieri; il castellano assedia quello di Filocolo con molti scacchi, e solamente un punto per sua salute gli rimane nel salto del suo rocco. Ma Filocolo a cui giocare conveniva dove muovere doveva il cavaliere suo secondo per dare scacco matto al re, e conoscendolo bene, mosse il suo rocco, e nel punto rimaso per salute al suo re il pose. Il castellano lieto cominciò a ridere, veggendo ch’egli matterá Filocolo dove Filocolo avria lui potuto mattare, e dandogli con una pedona pingente scacco quivi il mattò, a sé tirando poi i bisanti, e ridendo disse: «Giovane, tu non sai del giuoco», avvegna che bene s’era avveduto di ciò che Filocolo aveva fatto, ma per cupidigia de’ bisanti l’avea sofferto, infignendosi di non avvedersene. A cui Filocolo rispose: «Signor mio, cosí apparano i folli». Racconciasi il secondo giuoco, e la quantita de’ bisanti si raddoppia da ciascuna parte. Il castellano giuoca sagacemente e Filocolo non meno. Il castellano niuno buon colpo muove ch’egli non dicesse: «Giovane, meglio t’era il tuo falcone lasciare andare che qui seguitarlo». Filocolo tace, mostrando che molto gli dolgano i bisanti: e avendo quasi a fine recato il giuoco, ed essendo per mattare il castellano, mostrando con alcun atto di ciò avvedersi, tavolò il giuoco. Conosce in se medesimo il castellano la cortesia di Filocolo, il quale piú tosto perdere che vincere disidera, e fra sé dice: «Nobilissimo e cortesissimo giovane è costui piú che alcuno ch’io mai vedessi». Racconciansi gli scacchi al terzo giuoco, accrescendo ancora de’ bisanti la quantitá, nel principio del quale il castellano disse a Filocolo: «Giovane, io ti priego e scongiuro per la potenza di tutti gl’iddii, che tu giuochi come tu sai il meglio, né, sí come hai infino a qui fatto, risparmiarmi». Filocolo rispose: «Signor mio, male può il discepolo col maestro giocare senza essere vinto; ma poi che vi piace, io giocherò sí come saprò». Incominciasi il terzo giuoco, e giocato per lungo spazio, Filocolo n’ha il meglio: e il castellano, ciò conoscendo, incominciasi a crucciare, e a tignersi nel viso, e assottigliarsi se potesse il giuoco per maestria recuperare. Ma quanto piú giuoca, tanto piú ne ha il peggio. Filocolo gli leva con un alfiere il cavaliere, e dagli scacco. Il castellano. per questo tratto crucciato oltre misura, piú della perdita de’ bisanti che del giuoco, diè delle mani negli scacchi, e quelli e lo scacchiere gittò per terra. Questo vedendo Filocolo disse: «Signor mio, però che usanza è de’ piú savi il crucciarsi a questo giuoco, io voi meno savio non reputo, perché contro gli scacchi crucciato siete. Ma se voi aveste bene riguardato il giuoco, prima che guastatolo, voi avreste conosciuto che io era in due tratti matto da voi. Credo che ’l vedeste, ma per essermi cortese, mostrandovi crucciato, voleste avere il giuoco perduto, ma ciò non fia cosi: questi bisanti sono tutti vostri». E mostrando di volere i suoi adeguare alla quantitá di quelli del castellano, bene tre cotanti ve ne mise de’ suoi, i quali il castellano, mostrandosi d’intendere ad altre parole, gli prese dicendo: «Giovane, io ti giuro, per l’anima di mio padre, che io ne’ miei giorni con molti ho giocato, e mai non trovai chi a questo giuoco mi mattasse se non tu; e similmente piú cortese giovane di te non trovai ne’ giorni miei». Filocolo rispose: «Sire, di cortesia posso io molto piú voi lodare che voi me, con ciò sia cosa che io oggi per la vostra cortesia la vita n’abbia guadagnata».
- Le parole in diversi ragionamenti tra costoro moltiplicarono, e il giorno se ne andò, per che a Filocolo, veggendo il sole che cercava l’occaso, parve di partirsi, per che egli disse: «Signor mio, e’ si fa tardi, e d’essere nella cittá mi contenterei, perciò, quando vi piaccia, con licenza vostra mi partirò». Il castellano, che della piacevolezza di Filocolo era preso, disse: «Cortese giovane, se non fosse che l’andare per questa parte di notte è per molte cagioni dubbioso, tu ceneresti meco questa sera; ma ti priego per amore di quella cosa che tu piú ami, che dimani tu torni a mangiare meco». A cui Filocolo rispose: «Signor mio, per amor di voi, e per quello di colei da cui parte scongiurato m’avete, io non posso niuna cosa che in piacere vi sia, disdire; il comandamento vostro sará fornito: rimanete adunque colla grazia degl’iddii». «Ed essi ad ogni tuo disio sempre siano favorevoli», rispose Sadoc. Filocolo, salito a cavallo e da Sadoc partitosi, alla cittá in parte contento se ne tornò.
- Come egli fu alla cittá pervenuto, e smontato all’ostiere di Dario, l’ora essendo giá tarda, trovò Dario e Ascalione e gli altri tutti ad attenderlo, i quali, come il videro, lieti gli si fecero incontro, dicendo: «Molto ci hai oggi fatto avere di te pensiero; dove se’ tu tanto dimorato?». «Nelle mani della fortuna», rispose Filocolo: la quale non cosí nemica mi è com’io reputava, anzi forse de’ miei danni pietosa, comincia a mostrare lieto viso ne’ nostri avvisi, e sí fatto principio in quello che divisammo ho avuto, che appena che io ne possa altro sperare che grazioso fine». E chiamati Dario e Bellisano e Ascalione in una camera, ciò che avvenuto gli era loro narrò. Lodarono costoro gl’iddii, e a Dario piacque tal cominciamento e consigliò l’andare a mangiare con lui, e l’essergli cortese, dicendogli che d’oro e d’avere non dubitasse, che, poi che ’l suo donato avesse, quanto egli n’aveva in suo servigio porrebbe sicuramente, ricordandogli che con discrezione procedesse, ad ogni uomo celando il suo segreto, fuori che al castellano, quando luogo e tempo gli paresse. Ringraziollo Filocolo, e poi prendono il cibo e vannosi a riposare. Ma gli altri dormendo, Filocolo ferma nella mente con molti ragionamenti ciò che al castellano deve dire, e quello che con lui vuoi fare, e che movimento deggia il suo essere a dovergli narrare il suo segreto. Molte vie trova, e ciascuna prova in se medesimo, e le migliori riserba nella memoria. Poco abbandonano la notte le sollecitudini lo innamorato petto, e la notte, che giá maggiore gli cominciava a parere che l’altre, si consumava: e il chiaro giorno rallegra il mondo. Levasi Filocolo, e tacitamente e con discrezione ordina ciò che, davanti al sonno, la notte aveva pensato, e venuta l’ora ch’egli stimò convenevole, soletto se ne cavalcò alla torre. Quivi dal castellano con mirabile onore è ricevuto, e le tavole preste niuna cosa aspettano se non loro.
- Dopo alcuni ragionamenti s’assettarono costoro alle tavole, come piacque al castellano, e con gran festa mangiarono splendidamente serviti. E giá presso alla fine del mangiare, Filocolo cominciò a dubitare non certo venisse il suo diviso ad effetto, però che giá tempo gli pareva, con ciò fosse cosa che altro non restasse al levare delle tavole se non le frutta. Ma mentre in tale pensiero alquanto alterato dimorava, Parmenione giunse quivi, il quale contentò assai Filocolo nella sua venuta, e, salito in su la sala, nelle sue mani recò la bellissima coppa e grande d’oro, la quale con gli altri tesori re Felice ricevette per premio della giovane Biancofiore dagli ausonici mercatanti, e quella piena di bisanti d’oro, tanto grave che appena la avria potuta piú Parmenione portare, coperta con un sottilissimo velo, davanti a Sadoc presentò, dicendo: «O bel signore, quel giovane al quale voi ieri per la vostra benignita la vita servaste, avendo egli per sua prosunzione la morte guadagnata, questa coppa con questi frutti che dentro ci sono, i quali nel suo paese nascono, vi presenta, e, appresso, sé e le sue cose offerisce al vostro piacere apparecchiato». Vedendo questo, Sadoc, e ascoltando le parole da Parmenione dette, tutto rimase allenito, e con cupido occhio rimirò quella, nel core lieto di tal presente. Nondimeno, della magnanimitá e cortesia di Filocolo maravigliandosi molto, e rivolto dove Filocolo sedeva, con benigno aspetto il riguardò, e poi disse: «Grande e nobile è il presente, e prezioso il terreno che sí fatti frutti produce: e se non ch’egli mi si disdice l’essere villano verso di chi a me è stato cortese, non oserei cotal presente prendere, però che a Giove saria grandissimo e accettevole simile dono». E fatta prendere di mano la coppa a Parmenione, gli disse: «Voi potrete di colui che vi manda pensare quello che del piú nobile uomo del mondo si possa dire, e però ch’io mi sento insofficiente a rendere grazie convenevoli di tanto dono, a quelle non procedo, se non che per questo: egli ha me, e le mie cose, e ciò che per me si potesse, sí a sé obbligato, quant’io potessi essere il piú». Parmenione, fatta convenevole riverenza, si partí. Rimasi costoro insieme, e levate le tavole, per li pensieri del castellano niuna cosa andava, se non la gran nobiltá che gli parea quella di Filocolo, e con affetto in sé diceva: «Che potre’ io per degno merito di tanta larghezza fare a costui, acciò che io interamente gli potessi mostrare quanto per lui farei, e quanto io sia di tal dono conoscente?». E poi a se medesimo rispondeva: «Tu se’ sí suo, che tu mai pienamente mostrare non glielo potresti, salvo se gran bisogno non gli avvenisse, ove tu la persona e l’avere per lui disponessi». Ma dopo questo, volendo a Filocolo parte del suo buon volere dimostrare, seco in una camera solo il chiamò, e, quivi amendue postisi a sedere, cosí cominciò con lui a ragionare: «Giovane, per quella fede che tu devi agl’iddii, e per l’amore che tu porti a me, aprimi sí la tua nobilta, acciò ch’io, di quella pigliando esempio, possa nobile divenire. Io vidi giá ne’ miei di molti nobili uomini, chi per antico sangue, chi per infiniti tesori, chi per be’ costumi, e chi per una maniera e chi per un’altra: ma e’ non mi sovviene che io mai cosí nobile cosa, come tu se’, vedessi. Che operai io mai, o che potrei per te operare, che un tale e tanto dono mi si convenisse? Io porto per opinione che tu trapassi di piacevolezza e di cortesia tutti i giovani del mondo». A costui rispose cosí Filocolo: «Signor mio, non vogliate me rozzo ancora ne’ costumi con queste parole schernire. Io non seguo nobiltá di core in queste operazioni, perciò che non ci è, ché io sono di picciola radice pianta, ma ricordomi d’avere giá cosí veduto fare a mio padre, i cui esempi ho seguito: e mente conosco che non potrei mai fare tanto che alla vostra nobilitá aggiugnere potessi, o che d’onore a quella piú non si convenisse. Ma voi mi porgete ammirazione col dire che mai per me non operaste, perché questo io operare dovessi. Or crediate che se la mia vita piú tempo lontanasse che quella di Dodamia, di Zenone o d’Epimenide non fece, mai dalla memoria mia non si partirá l’essere per la vostra benignitá vivo, sí come giá oggi udiste che io riconosco. E quando questo non fosse stato, sarebbe illecita cosa a fare, lá dove amichevole amore di due cuori fa uno. Niuna cosa a fin di servigio ricevuta è, o che ricevere per inanzi si deggia: avvegna che questo a me non posso appropriare, però che, come giá dissi, da voi la vita tengo, e conosco voi tanto e tale, che io non dubito che voi piú che altro uomo del mondo per me possiate operare, e perciò non pur coloro da’ quali l’uomo ha servigi ricevuti sono da essere onorati, ma quelli ancora che possono per inanzi servire». Il castellano ferventissimo a’ piaceri di Filocolo, udendo dire lui poterlo piú ch’altri mai servire, con molti scongiuri lo strinse ch’egli non gli celasse di che poteva essere cosí da lui servito, che come se medesimo piú volte servirebbe. Piú volte a questa dimanda tacque Filocolo, e Sadoc piú volte, ognora piú acceso di sapere in che a Filocolo servire potesse, lo strinse. La qual cosa vedendo Filocolo, piúi fiate volle il suo disio palesare, e infino al profferire recò le parole, e poi dubitando le tirava indietro, in altre novelle volgendole. Ma il castellano, avendo proposto pure di volere sapere in che servire lo potesse, non restava di incalzarlo, ogni novella rompendogli, e che ciò gli dicesse pregandolo, non pensando che dovesse riuscire a quello che fece. Filocolo, cosí incalzato, e piú ognora dubitando, per avventura si ricordò d’un verso giá da lui letto in Ovidio, ove i paurosi dispregia dicendo: ‛La fortuna aiuta gli audaci, e i timidi caccia via’; e vedendo manifestamente che tra lui e la fine del suo disio era questo, che parlare gli conveniva s’egli servigio voleva ricevere, allargò le forze al disiderante core, e propose di dare via alle parole, e cominciò cosí:
- «Signor mio, però che io non dubito che quello di che vi pregherò, e a che voi mi stringete ch’io vi prieghi, voi il potreste fare, e potreste molto maggiori cose, io vi paleserò ciò che il dubbioso cuore infino a qui ha celato a tutta gente. E però ch’io nel parlare e nello adoperare non sono il primo errante, vi priego che se forse alcuna cosa dicessi oltre al dovere detta, che voi mi perdoniate, e come padre mi riprendiate; e se quel ch’io dimando per voi si può adempiere, vi priego, per quello affettuoso amore che le vostre parole mostrano che mi portate, che voi senza alcuna disdetta e senza indugio di ciò mi serviate. Io ho nelle vostre mani e della fortuna la mia vita rimessa: e acciò che ben vi sia chiaro il mio intendimento, vi dico cosi, che mia credenza è che, poi che Febo ebbe di Dafne Pennea il cuore per amore passato, io non credo che mai alcuno fosse tanto innamorato quanto io sono. E certo le mie operazioni il dimostrano, ché io sono venuto di Spagna infino a questo luogo con molte tribulazioni e noie, cercando prima il ponente tutto, e poi ciascuna isola che tra qui e Partenope dimora, disiderando di ritrovare Biancofiore, a me furtivamente levata, e venduta a’ mercatanti. Hammi qui la fortuna balestrato, ov’io di lei per risponso d’alcuno iddio ho trovato novelle, e voi ieri la ricordaste. E per quello ch’io abbia per ragionamenti di molti uomini nella mente raccolto, ella in questa torre sotto la vostra guardia dimora, di che io assai mi contento piú che se in altra parte fosse: e avendomi gl’iddii a questo partito recato, ch’io sia vostro com’io mi tengo, ora, sí come vi dissi dinanzi, amore per lei oltre ogni sua legge mi stimola. E certo s’io volessi particolarmente narrarvi quanti pericoli ho giá per amor di lei corsi, e quanto io l’amo, prima il dí sarebbe dalla notte chiuso, e quella, esso ritornando, cacciata; ma perciò che, come credo, giá in parte tale vita provaste, e per quella la mia del tutto potere comprendere, non mi stendo in piú parole, se non che quello che io da voi disidero è questo, e l’una delle due cose: o che io dalle vostre mani sia ucciso, o che voi a Biancofiore parlar mi facciate. Priegovi che quella vita ch’io per voi porto, per voi non pèra». E non potendo avanti parlare, stretto da’ singhiozzi del pianto, si tacque.
- Il castellano ascoltò questo con intero intendimento; e raccolto tutto in sé, cosí fra sé cominciò a dire: «Ben m’ha costui con sottile ingegno recato a quello che io non credetti mai che alcuno mi recasse, ma avvegna che vole, io terminerò i suoi affanni a mio potere. Di ciò mi può la fortuna far poca noia, se contra me per questo si volesse voltare. Io sono omai vecchio, né mai notabil cosa per alcuno feci: ora nella fine de’ miei anni, in servigio di sí nobile giovane come costui è, voglio il rimanente della mia vita mettere in avventura. Se io il servo e campo, gran merito appo gl’iddii acquisterò, e se io per servirlo muoio, la fama di tanto servigio toccherá l’uno e l’altro polo con eterna fama». Cosí adunque deliberato di fare in se medesimo, riguardò Filocolo nel viso: e veggendo le sue lagrime e gli ardenti sospiri, non si poté per pietá tenere, ma con lui pianse. E dopo alquanto cosí gli cominciò a parlare:
- «Filocolo, con sottile arte hai rotto i miei proponimenti, e certo la tua nobiltá e la pietá delle tue lacrime hanno piegato la mia durezza: e però confortati. Io disidero di servirti, e di ciò che pregato m’hai senza fallo ti servirò. Aiutinci gl’iddii a tanta impresa, e la fortuna, nelle cui mani ci mettiamo, non ti sia avversa. Non lagrimare piú, ma alza il viso, e ascolta quale via sia piú da noi da esser tenuta». Piacquero a Filocolo queste parole, e alzò il viso. A cui Sadoc disse: «Giovane, io in brieve spazio di tempo per la mia mente molte vie ho cercate per recare cosí alto disio, com’è il tuo, ad effetto, né alcuna ne trovo che buona sia a tal cosa recare a fine se. non una sola, la quale è di non picciolo pericolo, ma di grande. Tu hai grande cosa addimandata, alla quale per picciolo affanno pervenire non si può, e però ascolta. Se a te da il cuore di metterti a tanta aventura, io mi sono ricordato che di qui a pochi giorni in queste parti si celebra una festa grandissima, la quale noi chiamiamo de’ cavalieri. In quel giorno i templi di Marte e di Venere sono visitati con fiori e con frondi e con maravigliosa allegrezza: nel quale giorno io fo pe’ vicini paesi le rose e’ fiori tutti cogliere, e in tante ceste porre quante damigelle nella torre dimorano, guardandole in questo prato davanti la torre, dove l’amiraglio coronato e vestito di reali drappi con grandissima compagnia viene, e di ciascuna cesta prende rose con mano a suo piacere, e secondo ché egli comanda cosí poi si collano sopra la torre, faccendo chiamare quella a cui dice che data sia. E però che la tua Biancofiore è la piú bella -di tutte e sempre prima ch’alcun’altra è presentata, io ti porrò, se tu vuoi, in quella cesta che a Biancofiore presentare si deve, e coprirotti di rose e di fiori quanto meglio si potrá. Ma s’egli avvenisse che la fortuna, nemica de’ nostri avvisi, ti scoprisse e facesseti al signore vedere, niuna redenzione sarebbe alla nostra vita. Tu vedi omai il pericolo, pensa quello che da fare ti pare. Se egli non se n’avvedrá, tu potrai essere con lei alquanti giorni: e poi s’avviene che esso alcuna volta, sí come egli suole spesso a mangiare salirvi, vi salga, in forma d’uno de’ miei sergenti te ne trarrò: null’altra via c’è. Egli tiene di tutte le porte le chiavi, se non di questa la quale tu vedi aperta, e questa io ho in guardia». Filocolo, pieno d’ardente disio, a niuno pericolo, a niuna strabocchevole cosa che avvenire possa, pensa, ma subito risponde che egli a questo pericolo e anche maggiore che avvenire potesse è presto, affermando che per grandissimi pericoli e affanni si convenga pervenire a tali cose.
- Finisce adunque con questo proponimento il loro consiglio, e con fede e con giuramento insieme si legano, l’uno d’osservare la impromessa, e l’altro di tacere. E cosí Sadoc, dato il giorno a Filocolo che egli a lui ritorni, confortandolo da sé l’accomiata. E Filocolo ritorna alla cittá contento, e tanto lieto che appena il può nascondere, disiderando che tosto il termine posto venga: e ogni ora gli parea piú lungo spazio di tempo che non era stato quello che tribolato aveva, Biancofiore cercando.
- O avarizia insaziabile fiera, divoratrice di tutte le cose, quanta è la tua forza! Tu sottilissima entratrice con disusate cure ne’ mondani petti rompi le caste leggi. Tu con grosso velo copri il viso alla ragione. Tu rivolgi la ruota contro il taglio della giusta spada. Tu spezzi con disusata forza i freni di temperanza, e levi a fortezza le sue potenze. Tu, o insaziabile appetito, rechi necessitá ne’ luoghi d’abbondanza pieni. Tu, iniqua, non sai che fede si sia. Tu puoi i pietosi cuori rivolgere in crudeli. Che piú dirò di te, se non che la fama per la infamia fai lasciare, e gli eterni regni pe’ terreni abbandonare? Chi avria mai potuto, o guastatrice d’ogni virtú, credere che pascendoti ampiamente nel petto di Sadoc, la sua fieritá in vilissima lenonia si mutasse per te? Forti cose paiono a pensare le tue operazioni!
- Viene il nominato giorno, Filocolo sollecito torna a Sadoc. Niuno suo amico sa la sua andata: e dovendo la vegnente mattina Filocolo nascondersi ne’ fiori, quella notte si dorme con Sadoc, della quale la maggior parte consuma in divoti prieghi. Niuno iddio rimane in cielo, a cui le sue voci non si muovano. A tutti promette graziosi incensi se a quel punto l’aiutano, e Marte e Venere piú che tutti gli altri sono pregati: e ultimamente gl’iddii degli ombrosi regni di Dite da lui sono tentati divotamente d’umiliare, acciò che a’ suoi disii non si oppongano. Ma poi ch’ella, al suo parere lunghissima, trapassa e appressasi il giorno, essi due soli si levano, e trovata la cesta, Filocolo vi si mette dentro, raccolto in quella guisa che egli meglio poté, e quivi entro Sadoc maestrevolmente il copre di fiori e di rose, ammaestrandolo che cheto si tenga. E posti de’ fiori sopra lui grandissima quantitá, cosí acconcio con l’altre ceste davanti al signore giá venuto nel prato, dove similmente quasi tutto il popolo della cittá era raccolto per tale festa vedere, la presenta, alla guardia di quella continuo dimorando.
- O amore, nemico de’ paurosi, quanta è maravigliosa la tua potenza, e quanto furono le tue fiamme ferventi nel petto di Filocolo. Quale strabocchevole via fu mai usata per te quale fu quella nella quale Filocolo ebbe ardire d’entrare? A Leandro non era il mare contrario, e a Paris era di lungi il nemico; a Perseo la sua forza era mediante, e Dedalo per la sua salute, essendogli chiuso il mare e la terra, con maestrevoli ale fuggi per l’aere. Grandi cose fa fare il fuggire la morte; gran fidanza rende l’uomo a se medesimo combattente, e le follie de’ mariti sono spesso cagione d’adulterii alle mogli, e le larghezze delle vie fanno volonterosi gli uomini molte volte ad andare per quelle. Ma costui non larga via si vedeva, non assenza di nemico, non disposto a potere per sua forza campare, né fuggire morte, ma piú tosto seguirla a quello mettendosi. Egli pose la sua vita sotto la fede d’uno che mai fede non aveva conosciuta, e sotto sottili fronde di rose, le quali dalle piú picciole aure sariano potute muovere, e scoprirlo nel cospetto del nemico. Egli diede il vivo corpo all’essere immobile come morto. Tu porgi piú forza e piú ardire che la natura medesima. Quello che Filocolo non aveva avuto ardire di dimandare al padre, solamente ora in pericolo da non potere pensare, davanti al nemico lo cerca. Oh, quale amante! Oh, quanto è da essere amato! Oh, quanto Biancofiore piú ch’altra misera si potria reputare, se di ciò le disavvenisse che Filocolo ha impreso! Oh, quanta saria la sua paura, se ella consapevole fosse di queste cose! Certo io non so vedere quale ella si fosse, o piú dolorosa perdendolo, o piú contenta tenendolo.
- Il signore comanda che la piú bella cesta di fiori gli sia presentata davanti. Sadoc tosto quella dove Filocolo timido, come la gru sotto il falcone o la colomba sotto il rapace sparviero, dimorava, gli porta davanti. O iddii, o santa Venere, siate presenti, difendete da tanti occhi il nascoso giovane. Mise allora l’amiraglio la mano in quella, e pensando a Biancofiore, a cui mandare la doveva, tanto affettuosamente di quella prese, che de’ biondi capelli seco tirò, ma non gli vide. Quale allora la paura di Filocolo fosse io nol crederei sapere né potere dire, però chi ha punto d’ingegno il si pensi: egli fu quasi che passato agl’immortali secoli, e appena vita gli rimase, e quasi di tremore tutto si mosse, ma la santa dea di presente il ricoperse con non veduta mano; e levata quella da Sadoc e da molti altri dal cospetto dell’amiraglio, il quale aveva comandato che per amore di lui a Biancofiore si presentasse, fu portata a’ piè della torre. E quivi fatta chiamare Glorizia, la quale a servigio di Biancofiore dimorava, a lei fece la cesta collare suso ad una finestra. Ma Filocolo, quasi stordito ancora dalla paura, non intese chi chiamata fosse, ma fermamente si credette da Biancofiore dovere essere ricevuto. Per che egli giá a Glorizia vicino, disideroso di vedere Biancofiore, si scoperse il viso. La qual cosa quando Glorizia vide, non riconoscendolo, subito gittò un grandissimo strido, e ritornatole alla memoria chi costui era, ricopertogli il viso, che giá dalle sante mani era stato ricoperto, tacitamente il riconfortò dicendo: «Non dubitare, io ti conosco». Erano giá tutte le compagne di Biancofiore lá corse dicendo: «Glorizia, che avesti tu che sì forte gridasti, né t’è nel viso colore alcuno rimase?». Alle quali ella rispose: «Io non ebbi, care compagne, giá mai tale paura, però che volendo io prendere la cesta de’ fiori e in essa sicuramente mirando, subitamente un uccello usci da quella e nel viso mi ferì volando, per ch’io, temendo d’altro, cosí gridai». E poi ella sola presa la cesta con l’aiuto dell’invisibile dea, nella gran camera e bella di Biancofiore la portò, e serratasi dentro, lo innamorato giovane con le rose insieme dalla cesta trasse, e con ismisurata allegrezza abbracciandolo gli fece lunga festa, e appena in sé credea che essere potesse vero ciò che ella vedeva. Di molte cose il dimandò, e molte a lui ne disse, avanti che interamente fosse certa ch’egli, cui ella vedeva, fosse Florio.
- Dimorato Filocolo per alquanto spazio nella bella camera solo con Glorizía, le bellezze di quella con ammirazione riguardando, e vedendo che bene era vero ciò che Dario detto gli aveva, e più, dimandò a Glorizia che di Biancofiore fosse. A cui Glorizia quello che n’era, e che ne fu poi che venduta era stata, interamente gli disse, tanto che di pietá a lagrimare il mosse. E poi cosí le disse: «Glorizia, cara sorella, di grazia ti priego che tosto vedere la mi faccia, perché io ardo del disio, e appena credo tanto vivere ch’io la vegga». A cui Glorizia disse: «Caro signore, ciò che tu mi di io credo, e di lei essere il simigliante ti posso dire: ella non crede mai te poter vedere. Ma acciò che la fortuna, infino a qui stata in ogni cosa a te contraria, non possa per poco avvedimento piú nuocerti, se ti piace, alquanto m’ascolterai, e s’io di ciò dirò bene, seguirai il mio consiglio.
- Egli è usanza qua entro, che quando tutte le giovani donzelle avranno ciascuna le sue rose ricevute, di venirsene qui in questa camera, e di qui andare nell’altre camere, faccendo festa insieme, né a ciò alcuna può prendere scusa, e questo potrai tu vedere: onde io dubito che se io dicessi a Biancofiore che tu qui fossi e mostrassileti, non avvenissero due cose, o l’una delle due, le quali sono queste. La prima è che mi pare manifestamente vedere che se ella ti vedesse, impossibile sarebbe da te partirla mai, e dimorando teco, ed ella non fosse con le donzelle a far festa, di leggieri esse ne potrebbero meno che bene pensare, e potrebbe agevolmente male seguire; appresso, che peggio che questo c’ho detto saria, ch’io so che, vedendoti ella, saria tanta la sua letizia, che di leggieri quello che il dolore non ha potuto vincere, cioè il tribolato cuore, l’allegrezza il vincerebbe. E giá sappiamo che avvenne, e tu il puoi avere udito, di Iuvenzio Talva, di Sofocle e di Filemone i quali ne’ duri affanni vivuti, per allegrezza morirono. Ma, acciò che né l’una né l’altra di queste cose avvenga, si potra cosí fare, acciò che tu contenti il tuo disio, e il suo festeggiare con l’altre non manchi: io in una camera a questa contigua ti metterò, dalla quale tu potrai ciò che in questa si fará vedere. Quivi dimorando tu tacitamente, io, senza dire a Biancofiore alcuna cosa che tu sia qui, qua entro con le sue compagne la farò venire, dove tu la potrai, quanto ti piaceri, vedere. E questo, per rimedio del primo male che avvenire ne potrebbe, e per contentamento di te, tutto questo giorno infino alla notte ti basti. E acciò che l’altro non avvenga, per mio consiglio terrai questa via: io ti trarrò di quindi, e dietro alle cortine del suo letto, le quali abbasserò, che ora stanno levate sí come tu vedi, ti nasconderò. Quivi tacitamente dimorerai tanto che coricata e dormire la vedrai, e poi che addormentata sará, siati lecito di fare il tuo disio. Sono certa ch’ella, destandosi nelle tue braccia, diverrá piena di paura avanti che ti conosca, ma poi veggendoti e conoscendoti, la paura a poco a poco partendosi, dará luogo moderatamente all’allegrezza, e cosí l’uno e l’altro dubbioso pericolo fuggiremo. Se altro forse avvenisse, io vi sarò assai vicina, e lei caccerò col mio parlare d’ogni errore». Piacque a Filocolo questo consiglio, ancora che grave gli paresse il dovere tanto aspettare. Per che Glorizia in quella camera il menò, e sotto grave giuramento promettere si fece che egli piú avanti non faria che quello che ella gli aveva consigliato. E partitasi da lui e serratolo dentro, dove era Biancofiore se ne venne.
- Trovò Glorizia Biancofiore sopra un letto d’una sua compagna bocconi giacere piena di malinconia e di pensieri, e quasi tutta nell’aspetto turbata, a cui ella cominciò cosí a dire: «O bella giovane, che pensieri sono questi? Qual malinconia t’occupa? Leva su, non sai tu che oggi è giorno di festeggiare e non di pensare? Giá tutte le tue compagne hanno i fiori e le rose ricevute e fanno festa, e te solamente aspettano; leva su, vienne; non sono tutti i giorni dell’anno ugualmente da dolersi». A cui Biancofiore rispose: «Madre e compagna mia, a me sarieno da dolere tutti i giorni dell’anno s’egli n’avesse molti piú che non n’ha, e massimamente questo nel quale noi siamo, ché se della memoria non t’è uscito, in tal giorno nacqui, io, e colui similmente per cui mi doglio. Non ti torna egli a mente che questo giorno l’empio re suo padre ci soleva insieme di bellissimi panni e drappi vestire, e solevano della nostra nativitá fare maravigliosa festa? E ora in prigione da lui lontana, non sappiendo che di lui si sia, né m’essendo possibile vederlo, né di lui alcuna novella udire, non credi tu che mi vadano per la mente i dolorosi accidenti, che avvenire possono e avvengono tutto giorno a’ viventi? Ora che so io se il mio Florio vive? E similmente che so io se egli m’ha messa in oblio per amore d’una altra giovane? Che so io se mai lo debbo rivedere? Come, pensando io queste cose, pensi tu che io possa lieta dimorare, o fare come l’altre fanno festa? Con ciò sia cosa che, qualunque di queste avvenisse, io non vorrei piú vivere e pure conosco tutto esser possibile ad avvenire: ma certo s’io sapessi pure a che fine gl’iddii mi debbono recare, io avrei alcuna cagione di conforto, se buona la sentissi. Elli m’hanno lungo tempo con la speranza c’ho avuta nelle loro parole con meno dolore nutricata, ma ora veggendo che ad effetto non vegnono, tutto il dolore, che per adietro a poco a poco dovea sentire, raccolto insieme tutto mi tormenta: per che parendomi che gl’iddii come gli uomini abbiano apparato a mentire, piú di piangere che di far festa m’è caro». Queste parole udite, Glorizia cominciò a parlare: «Bella figliuola, assai delle tue parole e di te mi fai maravigliare. Come hai tu opinione che Dio possa mentire giá mai, con ciò sia cosa ch’egli sia sola veritá? Non escano piú da te queste parole, ma credi fermamente ciò che t’è da lui promesso, doverti essere osservato: ma alla persona che molto disia, ogni brieve termine par lungo. Credi tu, perché tu sia qui poco piú d’un anno dimorata, essergli però uscita di mente, e ch’egli non ti possa bene le sue promesse attenere? Anzi sia certa che quanto piú dimori senza riceverle, tanto piú t’appressi a doverle prendere. E non voglia Iddio che sia ciò che tu di Florio pensi, che morte, o altro amore che il tuo, l’abbia occupato o l’occupi mai. Di questo ti rendi certa: che egli vive, e amati e cercati, e di qua entro ti trarrá sua, se non m’inganna l’opinione che ho presa d’una nuova visione, che nel sonno di lui e di te questa notte m’apparve. A queste parole si dirizzò Biancofiore dicendo: «O cara madre, dimmi che vedesti?». «Certo» rispose Glorizia, «e’ mi pareva vedere nella tua camera il tuo Florio esser venuto, non so per che via né per che modo, e parevami che egli avesse indosso una gonnella quasi di colore di vermiglie rose, e sopra essa un drappo, il cui colore quasi simigliante mi pareva a’ tuoi capegli, e parevami tanto lieto, quanto io mai lo vedessi, e solamente rimirava te, che nel tuo letto soavemente dormivi. A cui e’ mi parea dire: ‛O Florio, come e perché venisti tu qui?’. Ed egli mi rispondeva: ‛Del come non ti caglia, ma il perché ti dirò: io, non potendo senza cuore dimorare, per esso venuto sono qui, però che costei che dorme il tiene, né mai di qui senza essa mi partirò. Quegl’iddii che all’aspra battaglia m’aiutarono, quando la sua vita dalle fiamme campai, m’hanno promesso di renderlami, e a loro fidanza per essa venni’. Tu allora mi parea che ti svegliassi e piena di meraviglia riguardandolo, appena potevi credere ch’egli desso fosse, ma poi riconosciutolo, grandissima festa faciavate. La quale mentre ch’io riguardava, tanta era l’allegrezza che nel cuore mi cresceva, che non potendola il debile sonno sostenere, si ruppe: per che io spero che la tua speranza non sia vana. Parmi fermamente credere ch’egli cercandoti sia in questo paese, e che tu forse ancora, anzi che lungo tempo sia, quella allegrezza, che tu con lui solevi in questo giorno fare, farai: però confortati, e fortifica la tua buona speranza.» Udendo queste parole, Biancofiore si gittò al collo di Glorizia, e abbracciatala cento volte o piú la baciò, dicendo: «Cara compagna, gl’iddii rechino ad effetto quello che tu pensi, ma io non so vedere come fare si potesse, posto ch’egli pure fosse a’ piè di questa torre, ch’egli mi parlasse o mi riavesse, se bene consideriamo sotto che guardia dimoriamo». Disse Glorizia: «Non sta a te il dover pensare che via Iddio gli si voglia mostrare a riaverti, né è da pensare che quegli, che altra volta l’aiutò, ora l’abbandoni».
- Levossi adunque pe’ conforti di Glorizia Biancofiore, e con l’altre cominciò a far festa, secondo che usata era per l’adietro. Elle avevano giá tutte le rose prese, perché di quelle portando grandissima quantitá alla camera di Biancofiore, con quelle in quella n’andarono, e con dolci voci cantando, e tali sonando con usata mano dolci strumenti, e altre prese per mano danzando, e altre faccendo diversi atti di festa, e gittando l’una all’altra rose insieme motteggiandosi, e Biancofiore similmente, non sappiendo che da Filocolo veduta fosse, con quelle si festeggiava, gittando spesso grandissimi sospiri: e in questa maniera nella sua camera e in quelle dell’altre tutto quel giorno dimorarono. Filocolo, che per picciolo pertugio vide nella bella camera entrare Biancofiore, di pietá tale nel viso divenne, quale colui che morto a’ fuochi è portato; e per la debolezza dello innamorato cuore cacciò fuori di lui un sudore che tutto il bagnò, e con tramortita voce gittò un gran sospiro, e disse pianamente: ‛Oimè, ch’io sento i segnali dell’antica fiamma!’. E poi in sé ritornato e renduta al cuore intera sicurtá e forza, con diletto cominciò a rimirare quella che solo suo bene, solo suo diletto, solo suo disio reputava, e fra sé, piú bella che mai reputandola, diceva: ‛O sommi iddii immortali, come può egli essere che io qui sia, e vegga la mia Biancofiore? Esaltata sia la vostra potenza!’. E rimirando Biancofiore, si ricordava di tutti i passati pericoli, i quali nulla essere stati stimava vedendo lei, tenendo che per cosí bella cosa a molto maggiori ogni uomo si dovria mettere. Poi fra sé diceva: ‛Deh, Biancofiore, sai tu ch’io sia qui? Se tu il sai, come ti puoi tenere di venirmi ad abbracciare? E se tu nol sai, perché t’è tanto bene celato e tanta gioia quanta io credo che tu avresti vedendomi? Come poss’io sí presso dimorare che tu non mi senta? Mirabile cosa mi fai vedere, con ciò sia cosa che a me non prima giugnendo in queste parti e vedendo questa bella torre, che il cuore cominciò a battere forte, sentendo la tua potenza: e questo fu alla mia ignoranza infallibile testimonio che tu qui eri. Oh, se il mio iniquo padre e la mia crudele madre sapessero che io per te a tale pericolo mi fossi messo, a quale io sono, e che ora cosí vicino ti stessi com’io sto, appena ch’io creda che la paura e il dolore non gli uccidesse! Deh, quanto mi è tardi che io manifestare mi ti possa! Io non posso rimirandoti sentire perfetta gioia, sappiendo che tu nol sappi’. In questa maniera servito da Glorizia celatamente dimorò Filocolo tutto il giorno, il quale egli stimava che mai meno non venisse, tanto gli pareva piú che gli altri passati maggiore, e ben che lungo gli paresse, non però di mirare Biancofiore in quello si potea saziare. Ma poi che il giorno alla sopravvegnente notte diede luogo, Glorizia, acconciato il letto di Biancofiore e abbassate le cortine, trasse Filocolo del luogo dove stava, e lui di dietro alle cortine, sí come detto gli aveva, ripose, pregandolo che si attendesse, e in quella maniera facesse che a lei la mattina promesso aveva.
- Mancati i giuochi e le feste delle pulcelle per la sopravvenuta notte, Biancofiore e Glorizia se ne vennero alla gran camera per dormirsi. E, sí come per adietro erano usate, cominciarono di Florio nuove cose a ragionare e molte: e Biancofiore, che una cintoletta di Florio aveva, la quale lungo tempo aveva guardata, quella tenendo in mano, altro che baciarla non faceva. E in questa maniera dimorando, Glorizia disse: «Biancofiore, se Iddio ciò che tu disideri ti conceda, vorresti che Florio fosse qui teco ora indritto?». Gittò allora Biancofiore un gran sospiro, e poi disse: «Oimè, di chi mi domandi tu ora? E’ non è niuna cosa nel mondo che io piú tosto volessi, che ora qui Florio fosse, ben che male sia a disiderar quello che non si pote avere: avvegna che, se io che sono femina fossi fuori di questa torre, come io imprigionata ci sono dentro, e la mia libertá possedessi, com’io credo ch’egli la sua possegga, non dubiterei d’andarlo per tutto il mondo cercando, infino che io il troverei; e se avvenisse che, cosí com’io dimoro rinchiusa, libera fossi, e egli rinchiuso dimorasse, niuna via sarebbe che io non cercassi per essere con lui; e quando ogni via da potere esser con lui mi fosse tolta, certo io m’ingegnerei di commettermi agli spaventevoli spiriti, che a lui mi portassero. Non so se questo per me egli facesse». «Come» disse Glorizia, vorresti tu metter Florio a tanto pericolo, quanto gli potrebbe seguire, se egli venisse qui? Non pensi tu che, se l’amiraglio in alcun modo se ne avvedesse, tu ed egli morreste senza alcuna redenzione?» «Certo» disse Biancofiore, «credere dèi che niuno suo pericolo vorrei, prima il mio disidererei; ma se io avessi lui testeso alquanto, della mia morte non mi curerei, se avvenisse che per ciò morire mi convenisse, anzi contenta n’andrei agl’immortali secoli: ma se a lui altro che bene avvenisse, oltre misura mi dorrebbe. E certo io m’ucciderei avanti che io vedere lo volessi». «Or ecco» disse Glorizia, «tu nol puoi avere, ed egli non c’è, né ci può venire: è alcun altro che tu disiderassi o, poi che tu non vedesti lui, ti sia piaciuto? Con turbato viso rispose Biancofiore: «O Glorizia per quell’amore che tu mi porti, piú simili parole non mi dire. Egli non è nel mondo uomo, cui io disideri né che mi piaccia se non egli: e poi ch’io lui non vidi, e’ non mi parve uomo vedere, non che alcuno me ne piacesse, avvegna che egli a torto ebbe giá opinione ch’io amassi Fileno, il quale me molto amò, ma da me mai non fu amato. Cessino gl’iddii da me che alcuno mai me ne piaccia se non Florio, e che io d’altrui che sua sia giá mai, mentre queste membra in vita staranno col tristo corpo: e poi che l’anima ancora da questo si partini, ove ch’ella vada sará sua, e lui a mio potere seguirò. E voglioti dire nuova cosa, che poi che tu stamani mi dicesti la veduta visione, ed entrando io in questa camera, il core mi cominciò si forte a battere, che mai non mi ricordo che si forte mi battesse, e giuroti, per gli eterni iddii, che ovunque io sono andata o stata, e’ m’è paruto avere allato Florio: per che io porto ferma speranza ch’egli per lo mondo mi cerchi, sí come tu mi dicesti che credevi, e forse in questo paese dimora». «Siane certa», le disse Glorizia.
- Andavasene la notte con queste parole, e Filocolo di dietro alla cortina ascoltava il ragionare di queste due, e tal volta da nascosa parte Biancofiore rimirava, e con ferventissimo disio voleva dire: ‛Io son qui, il tuo Florio, il quale tu tanto disideri!’. Ma per la promessa fede, e per la paura del mostrato pericolo egli si riteneva, e gli pareva ogni ora un anno che Glorizia tacesse, e che Biancofiore andasse a dormire; ma del suo disio il contrario avveniva, che mai Biancofiore tanto vegghiato non avea, quanto quella sera, invescata. alle parole di Glorizia, vegghiava. Ma poi che Glorizia, vinta dal sonno, lasciò Biancofiore, e nella vicina camera andò a dormire, Biancofiore si coricò nel ricco letto, e per quello stendendo le braccia, e piú volte cercandolo tutto, non potendo dormire, cosí quasi piangendo incominciò a dire:
- «O Florio, sola speranza mia, gl’iddii ti concedino migliore notte che io non ho; gl’iddii ti conservino in quella prosperitá e in quel bene che tu disideri, e a te e a me concedano ciò che lecito non ci fu potere avere, e mettanti in core di ricercarmi, avvegna che assai lontana ti dimori. Ben saper puoi che per amore di te sostengo le non meritate tribulazioni: e però quello amore che me non lasciò vincere alla paura, che del tuo padre avere doveva, che io non ti amassi, vincati a far sí che io da te sia ricercata. Non ti ritengano le minaccie del tuo padre, né le lusinghe della tua madre. Spera, ché io non ho altro bene al mondo che te, né d’altrui aspetto soccorso se non da te. O dolce Florio, possibile mi fosse ora nelle mie braccia ritrovarti! Oh, quanto bene avrei! Certo io non crederei che la fortuna o gl’iddii mi potessero poi far male. Io ti bacerei centomila volte, e appena credo che queste mi bastassero. Oh, quante volte sarieno da me baciati quegli occhi, che con la loro piacevolezza prima mi fecero amor sentire! Io strignerei con le consolate braccia il dilicato collo tanto, quanto il mio disio avanti si distendesse. Deh, ora ci fossi tu: che è a pensare che una timida giovine dorma sí sola in cosí gran letto come fo io? Tu mi saresti graziosa compagnia e sicura. O santa Venere, quando sará che la promessa a me fatta da voi s’adempia? Viverò io tanto? Appena che io lo creda. Io ardo. Io non posso sostenere le vostre percosse, e impossibile conosco che il mio disio ora s’adempia, tanto gli sono lontana; ma in luogo di ciò, o Citerea, manda nel petto mio soave sonno, e quello che io veramente aver non posso, fallomi nel sonno sentire. Contenta con questo il mio disire, acciò che alquanto si mitighi la mia pena. Or ecco io m’acconcio a dormire, e attendo nelle mie braccia il disiato bene, o santa dea. Io gli lascio il suo luogo: venga con grazioso diletto a me, io te ne priego». Queste parole dicendo, ogni volta che ella ricordava Florio, gittava un grandissimo sospiro, e, con le braccia distese verso quella parte dove Filocolo nascoso stava, con fatica, dopo molti sospiri, s’addormentò.
- Filocolo udiva tutte queste parole, e piú volte fu tentato di gittarlesi in braccio, e di dire: ‛Eccomi, il tuo disio è compiuto!’. Ma poi dubitando si riteneva, e con disiderio attendeva ch’ella s’addormentasse; ma poi che la vide dormire, pianamente spogliandosi fra le distese braccia si mise, lei nelle sue dolcemente recando. Giá per questo ella non si destò, né Filocolo destare la voleva prima ch’ella per sé si destasse; anzi, tenendola in braccio, diceva: «Amor mio dolce, o piú che altra cosa da me amata, è egli possibile a credere che tu sia nelle mie braccia? Certo io ti tengo, e stringoti, e appena il credo». Luceva la camera, come chiaro giorno fosse, per la virtú de’ due carbonchi; per che egli riguardandola diceva: «Certo, tu se’ pur la mia Biancofíore, e non m’inganna il pensiero né il sonno, sí come giá molte volte m’hanno ingannato, ché ora pur vegghiando ti tegno. Ma tu che poco avanti cotanto nelle tue braccia mi disideravi, secondo il tuo parlare, come puoi ora dormire avendomi? Non mi sente il tuo cuore, il quale so che continuamente vegghia ricordandosi di me? O bella donna déstati, acciò che tu conosca chi tu hai nelle tue braccia. Veramente tu hai ciò che tu in sogno alla santa dea dimandavi: déstati, o vita mia, acciò che tu piú allegra ch’altra femina col piú lieto uomo del mondo ti trovi, e prenda la promessa della santa dea. Déstati, o sola speranza mia, acciò che tu vegga quello che agl’iddii è piaciuto. Tu tieni nelle tue braccia quello che tu disideri. E non sai ora, s’io ti fossi tosto tolto, come ti sarebbe in odio l’aver dormito? Déstati, e prendi il disiderato bene, poi che gl’iddii ti sono graziosi’. Egli dice queste e molte altre parole, e ad ogni parola cento volte e piú la bacia. Egli, tirate indietro le cortine, con piú aperto lume la riguarda e sovente l’anima alienata richiama. Egli la scopre e con amoroso occhio le rimira il dilicato petto, e con disiderosa mano tocca le ritonde menne, baciandole molte fiate. Egli stende le mani per le segrete parti, le quali mai amore ne’ semplici anni gli aveva fatte conoscere, e toccando perviene infino a quel luogo ove ogni dolcezza si rinchiude: e cosí toccando le dilicate parti, tanto diletto prende, che gli pare trapassare di letizia le regioni degl’iddii; e oltre modo disidera che Biancofiore piú non dorma, e a destarla non ardisce, anzi con sommessa voce la chiama e tal volta strignendolasi piú al petto s’ingegna di fare che ella si desti. Ma l’anima, che nel sonno le pareva nelle braccia di colui stare, nelle cui il corpo veramente dimorava, non la lasciava dal sonno sviluppare, parendole in non minore allegrezza essere che paresse a Filocolo, che lei teneva. Alla fine pur costretta di destarsi, tutta stupefatta stringendo le braccia si destò, dicendo: «Oimè, anima mia, chi mi ti toglie?». A cui Filocolo rispose: «Dolce donna, confortati, che gl’iddii mi t’hanno dato, niuna persona mi ti potrá torre». Ella udita la voce umana, stordita del sonno e della paura, si volle fuori del letto gittare, e gridare e chiamare Glorizia, ma Filocolo la tenne forte, e subitamente le disse: «O graziosa donna, non gridare e non fuggire colui che t’ama piú che sé: io sono il tuo Florio, confortati e caccia da te ogni paura». Tacque costei maravigliandosi, e, parendole la sua voce, disse: «Come può essere che tu qui sia ora ch’io ti credeva in Marmorina?» . «Cosí ci sono come gl’iddii hanno voluto» rispose Filocolo, «e però rallégrati e rassicurati». Parevano im possibili queste parole ad essere vere a Biancofiore, e riguardandolo le pareva desso, e rallegravasi, e non credendolo, tutta di paura tremava.
- In questa maniera Filocolo confortandola, e da lei la paura cacciando con vere parole, dimorarono alquanto. Ed ella in piú modi accertandosi che desso era, cioè Florio, colui che ella teneva in braccio, sospirando lo incominciò ad abbracciare e a baciare, tanto amorosamente e tanto lieta in se medesima, che appena le bastava a tanta letizia la vita; e cosí gli disse: «O dolce anima mia, cosa impossibile a credere mi fai vedere; dimmi per quegl’iddii che tu adori, come venisti qui?». A cui Florio rispose: «Donna mia, cosí ci venni come fu piacere degl’iddii. Non è bene, mentre ciascuno di noi si maraviglia, narrare il modo, ma rallégrati che sano e salvo, e piú lieto ch’io fossi mai, nelle tue braccia dimoro». «Di ciò io mi rallegro molto, ma non posso fare ch’io non sia nella mia allegrezza impedita» disse Biancofiore, «pensando a qual pericolo tu per venire qui ti se’ messo.» Rispose Filocolo: «Poi che prosperevolmente gl’iddii hanno il mio intendimento recato al disiderato fine, di che tu ti dèi rallegrare, non pensiamo piú a’ passati pericoli, spendiamo il tempo piú dilettevolmente, perciò che incerti siamo quanto conceduto ce ne sia, mentre che nell’altrui mani dimoriamo».
- Cominciaronsi adunque i due amanti l’uno all’altro a far festa, e ciascuno i disiderati baci senza numero s’ingegnava di porgere e di ricevere, donde forte sarebbe a potere esprimere la gioia e l’allegrezza di loro due: ma chi tal bene giá pe’ suoi affanni gustò, qual fosse il può considerare. E mentre in questa festa dimorano, Biancofiore dimanda che sia del suo anello, il quale Filocolo nel suo dito glielo mostra. «Omai» disse Biancofiore, «non dubito che l’augurio che presi delle parole del tuo padre, quando davanti gli presentai il pavone, non vengano ad effetto, che disse di darmi, avanti che l’anno compiesse, per marito il maggior barone del suo regno: e certo di te intesi, di cui non sono ora meno contenta, avvegna che passato sia l’anno, che se avanti avuto ti avessi, pure ch’io t’aggia.» A cui Filocolo disse: «Bella donna, veramente verrá ad effetto ciò che di quelle parole pensasti; né credere che io sí lungamente aggia affannato per acquistare amica, ma per acquistare inseparabile sposa, la quale tu mi sarai. E fermamente, avanti che altro fra noi sia, col tuo medesimo anello ti sposerò, alla qual cosa Imeneo, la santa Giunone e Venere, nostra dea, siano presenti». Disse allora Biancofiore: «Mai di ciò che ora mi parli dubitai, e con ferma speranza vivuta sono sempre di dover tua sposa morire; e però levianci di qui, e davanti alla santa figura del nostro iddio questo facciamo, e lí il nostro Imeneo e la santa Giunone e Venere ci siano».
- Levatasi adunque Biancofiore e copertasi d’un ricco drappo, e similmente Filocolo, davanti alla bella imagine di Cupido se n’andarono, e a quella, di fresche fronde e di fiori coronata, accesero risplendenti lumi, e amendue s’inginocchiarono. E Filocolo primieramente cosí cominciò a dire: «O santo iddio, signore delle nostre menti, a cui noi dalla nostra puerizia in qua abbiamo con intera fede servito, riguarda con pietoso occhio alla presente opera. Io con fatica inestimabile qui pervenuto, cerco quello che tu ne’ cuori de’ tuoi suggetti fai disiderare, e a questa giovane con indissolubile matrimonio cerco di congiungermi, al quale congiungimento ti priego che niuna cosa possa nuocere, niuno vivente dividerlo né romperlo, e niuno accidente contaminarlo, ma per la tua pietá in unita il conserva: e come con le tue forze sempre i nostri cuori hai tenuti congiunti, cosí ora i cuori e’ corpi serva in un volere, in un disio, in una vita e in una essenzia. Tu sia nostro Imeneo. Tu in luogo della santa Giunone guarda le nostre facelline e sia testimonio del nostro maritaggio». A questa ultima voce, la figura, dando con gli occhi maggiore luce che l’usato, mostrò con atti i divoti prieghi avere intesi, e movendosi alquanto, e verso loro inchinando, si fece ne’ sembianti piú lieta, per che Biancofiore, che simile orazione aveva fatta, disteso il dito, ricevette il matrimoniale anello; e, levatasi suso, come sposa, vergognosamente dinanzi alla santa imagine baciò Filocolo, ed egli lei. E dopo questo, correndo n’andò al letto di Glorizia, dicendo: «O Glorizia, leva su, vedi ciò che gl’iddii per grazia hanno voluto di quello che noi questa sera e ieri tanto ragionammo.
- Levossi Glorizia, mostrandosi nuova di ciò che Biancofiore le diceva, e venuta in presenza di Filocolo gli fece mirabilissima festa; e veduto ciò che fatto avevano, contenta oltre misura disse: «E come, cosí tacitamente da voi tanta festa sará celebrata senza suono né canto? Se non ci sono gl’idraulici organi e le dolci voci della e etera d’Orfeo e di qualunque altro citarista, io con nuove note supplirò al difetto». E preso un bastonetto, tutti e quattro i cari alberi percosse, e quindi dolcissima melodia in diversi versi si sentí: la quale tanto, quanto di loro fu piacere, durò. Ma dopo molti ragionamenti, giá gran parte della notte passata, ciascuno, fatti tacere i canti, al letto si ritornò.
- O allegrezza inestimabile, o diletto non mai sentito, o amore incomparabile, con quanto affetto congiugneste voi li novelli sposi! Pensinlo le dure menti, nelle quali amore non pote entrare, pensinlo i crudi animi: e, se questo pensando, non divengono molli, credasi che graziosa virtú abitare in loro non possa! Ne’ disiderati congiugnimenti si poterono per la camera vedere fiaccole non accese da umana mano, né da quella portate. Vi si poté vedere Imeneo in figura vera coronato d’ulivo, e Citerea far mirabile festa intorno al suo figliuolo. E non ch’altro iddio, ma Diana vi si vide rallegrarsi di tanto congiugnimento, laudandosi, cantando santi versi, che si lungamente l’uno e l’altro aveva sotto le sue leggi guardati casti. Dilettaronsi i due amanti convenevole spazio negli amorosi congiugnimenti, e ultimamente il tempo quasi insino presso al giorno dierono a diversi ragionamenti: poi vinti dal sonno, abbracciati soavemente dormendo stettero tanto, che il sole illuminò ciascun clima del nostro emisperio con chiara luce. Destati quasi ad un’ora amendue gli amanti si levarono lieti, e Biancofiore vide vestito Filocolo in quella forma che Glorizia le aveva detto d’averlo veduto nella sua visione, e maravigliandosene gliela raccontò, di che Filocolo, pensando al modo del parlare di Glorizia, alcuna ammirazione non prese, ma disse: «Gran cose mostrano gl’iddii future a coloro cui essi amano». E da Glorizia serviti, quel giorno insieme, narrando l’uno gli accidenti suoi all’altro, con piacevole ragionamento dimorarono. Ma a Filocolo, gli occhi del quale pure a quelli d’Amore correvano, venne disio di sapere che quella figura quivi adoperasse, e dimandonne Biancofiore, la quale cosí gli disse: «Io non so per che qui posta si fosse, né mai ne dimandai, se non che io stimo che per bellezza e ornamento della camera ci fosse posta; ma ciò che io nel cospetto di questa figura sovente faceva, mi piace di raccontarti.
- Riguardando io questa imagine, e considerando le bellezze d’essa, sovente di te mi ricordava, perché, avvegna che promesso mi fosse da Venere questo effetto a che pervenuti siamo, parendomi impossibile, temendo d’averti perduto, di questa te, qual Sirofane Egiziaco fece del perduto figliuolo, feci: e sí come quegli di fiori e di frondi ornava la memoria del figliuolo davanti a lui, della sua dissoluzione dolendosi, cosí io di questa faceva. Io l’ornava di fiori e di frondi spesso, e per suo proprio nome la chiamavo Florio; e quando disiderava di vederti, a questa vedere correva, alla quale contemplare fui piú volte dalle mie compagne trovata. Con questa, come se meco fossi stato, de’ miei dolori e infortunii mi doleva, con costei piangeva, con costei i miei disii narrava, costei in forma di te pregava che m’aiutasse, costei onorava; a costei gli amorosi baci, che a te ora affettuosamente porgo, porgeva, costei pregava che di me le calesse, costei in ogni atto sí come se tu ci fossi stato, trattava. E certo, la mercé di colui per cui posta c’è, ella alcun conforto, avvegna che picciolo, mi porgeva, per che io sovente con costei dolermi e ad abbracciarla, sí com’io t’ho detto, tornava».
- Niuno infortunio, niuno accidente all’uno e all’altro era intervenuto, poi che divisi furono, che quel giorno non si raccontasse, avendo l’uno dell’altro non poca ammirazione e diletto. Ma venuta la notte si coricarono, continuando gran parte di quella vegghiando con piacevoli ragionamenti e con amorevoli abbracciamenti; per che poi, vinti dal sonno, oltre al termine della notte dormirono per lungo spazio; perché la fortuna, ancora alla prosperitá loro non ferma, con inopinato accidente s’ingegnò d’offenderli con piú grave paura che ancora offesi li avesse, in questo modo. L’amiraglio pieno di malinconia, forse per disusato pensiero, cercava, per fuggire quella, la bellezza di Biancofiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di gioia rendere, fare dimora. E partitosi da Alessandria la terza mattina vegnente poi che le rose presentate aveva, ed essendo ancora molto nuovo il sole, se ne venne alla bella torre, sopra la quale, come tal volta suo costume era, subitamente salí senza alcun compagno. E giunto nella gran sala, alla camera di Biancofiore pervenne, donde Glorizia poco avanti era uscita e serratala di fuori. Questa aperta, passò dentro, e nella sua entrata, corsogli l’occhio al letto di Biancofiore, vide lei con Filocolo dormire abbracciati insieme: di che rimase tanto stordito, che quasi di dolore morio. Ma pur sofferendogli a vista di riguardare costoro, lungamente li rimirò e fra sé dicea: «O Biancofiore, vilissima puttana, tolgano gl’iddii via che tu dalle mie mani la vita porti: tu morrai uccidendoti io. Tu, da me piú che la vita mia per adietro amata, hai con isconvenevole peccato meritato odio; e tu, la quale io, con sollecitudine infino a qui ingegnatomi, dal congiugnimento di qualunque uomo, e ancora dal mio medesimo, che d’avere i tuoi abbracciamenti tutto ardea, ho guardata, ora che per tua malvagitá ti se’ congiunta non so con cui, la morte debitamente hai guadagnata: io la ti darò. Tu sarai miserabile esempio a tutte l’altre, che per inanzi avessero ardire di cotal fallo commettere. Una ora amendue vi perderá, e la tua vituperata bellezza perirá sotto la mia spada: niuna bellezza mi fará pietoso». E queste parole dicendo, trasse fuori la tagliente spada, e alzò il braccio per ferirgli; ma Venere, nascosa nella sua luce, stando presente, non sofferse tanto male, e messasi in mezzo ricevette sopra lo impassibile corpo l’acerbo colpo, il quale sopra i dormenti amanti discendeva, per che essi niente furono offesi. E il pensiero subito si mutò all’amiraglio, parendogli vil cosa due che dormissero uccidere, e la sua spada sozzare di sí vile sangue: per che egli tiratala indietro, la ripose, e senza destarli si partí dalla camera, infiammato contra loro, e in tutto deliberato nell’acceso animo di tal fallo farli punire. E sceso dall’alta torre, senza essere da persona scontrato o veduto, trovati i sergenti suoi lui aspettanti, loro comandò che senza indugio alla camera di Biancofiore salissero, e lei e colui che con lei troveranno, cosí ignudi strettamente legassero, e giuso della finestra, onde i fiori erano stati collati, gli mandassero nel prato, senza avere misericordia alcuna, e senza alcun priego ascoltare.
- Mossesi senza ordine la scellerata masnada, e allegri del male operare salirono le disusate scale, e pervennero alla camera, la quale ancora sí come l’amiraglio lasciata l’aveva trovarono, e passarono dentro, e videro i due amanti abbracciati dormire, maravigliandosi delle bellezze di ciascuno. Ma giá per questo niuna pietá rammorbidisce li duri cuori. Le scellerate mani legano i giovani colpevoli per soverchio amore. Niuno da tanta crudeltá si tira indietro, ma ciascuno piú volentieri li stringe, e, prendendo diletto di toccare la dilicata giovane, per merito di quello aggiungono piú legami. Toccano le ruvide mani le dilicate carni, e gli aspri legami e duri le stringono, e li disordinati romori percuotono l’odorifero aere: per che i due amanti stupefatti si svegliano, e, veggendosi intorno il disonesto popolo, si vogliono levare per fuggire, ma i non ancora sentiti legami gl’impediscono; e non vedendosi alcun altro aiuto o rimedio, con dolorosa voce dimandano che questo sia. E con vergognose parole è loro risposto: «Voi siete per le vostre opere morti». La miseria, alla quale la non istante fortuna gli aveva recati, niuna risposta lascia porgere convenevole a’ dolenti prieghi. Biancofiore, in reale eccellenzia sempre vivuta infino a qui, è ora come vilissima serva trattata, e dispregiata da’ disonesti parlamenti della sconvenevole gente. E Filocolo, al quale i maggiori baroni solevano porgere dilicati servigi, percosso è con le mani, e con villane parole dai piú vili schernito. Biancofiore piange né sa che dire, e stordita non può pensare come avvenuto sia il doloroso accidente. E il romore multiplica per la torre: corre Glorizia, e corrono l’altre damigelle; ciascuna prima si maraviglia, e poi per pietá piange, e la bella sala, che mai dolenti voci sentite non avea, ora di quelle piena risonando mostra il dolore maggiore. Niuna può a Biancofiore soccorso donare, ma disiderose della sua salute, lagrime e prieghi per quella porgono agl’iddii. Niuna si fa schiva di rimirare l’ignudo giovane, ma notando le sue bellezze, col pensiero menomano la colpa di Biancofiore. I contrari fati sospingono i sergenti ad affrettarsi d’adempiere il comandamento del signore, per che i due amanti legati sono collati con lunga fune giu dalla torre: e acciò che ad alcuno non sia occulto il commesso peccato, vicini al prato rimangono sospesi. La rapportatrice fama con piú veloce corso rapportando il male, in un momento riempie i vicini popoli dell’avvenuto male: per che con abbandonato freno ciascuno corre al disonesto strazio, vaghi di vedere ciò che pietá fa loro poi debitamente spiacere. I sergenti votano la torre di loro, e armati con molti compagni guardano che alcuno non s’avvicini a’ pendenti giovani. I quali tanto legati pendono, quanto nel duro petto dell’amiraglio pende qual pena a tale offesa voglia dare; ma poi che con deliberato animo elesse che la loro vita per fuoco finisse, comandò che nel prato fossero posati, e quivi negli accesi fuochi fossero senza pietá messi, acciò che di loro facessero sacrificio a quella dea, le cui forze agli sconvenevoli congiugnimenti gli condussero. Udito il comandamento, i fuochi s’accesero, e i due amanti furono messi a terra, e ignudi con sospinti passi tirati all’ardenti fiamme. Piangendo Biancofiore cosí col suo amante sospesa, Filocolo con forte animo serrò nel cuore il dolore, e col viso non mutato né bagnato da alcuna sua lagrima sostenne il disonesto assalto della fortuna, la quale, perché l’angoscia dell’animo non menomasse, niuna sua felicita gli levò dalla memoria. Egli, vedendosi solo e senza speranza d’alcuno aiuto, le forze de’ suoi regni fra sé ripete, e quelle, per adietro poco amate, ora avria avuto molto care. Egli si duole degli abbandonati compagni, nesci di tale infortunio, da’ quali soccorso spererebbe, se credesse che ’l sapessono. Egli, pensando alla vile morte che davanti si vede apparecchiata, appena può le lagrime ritenere. Ma sforzando col senno la pietosa natura, quelle dentro ritenne, e dopo alquanto pensiero, con gli occhi a se medesimo vòlti, cosí fra sé cominciò a dire: «O inopinato caso! O nemica fortuna! Ora l’ultimo fine delle tue ire sopra me sazierai. Ora i lunghi tuoi affanni finirai. Tu per molti strabocchevoli pericoli m’hai recato a sí vile fine, non sostenendo piú volte, quando il morire m’era a grado, che vita mi fallisse. Oh, quante volte sarei io potuto morire con minor doglia che ora non morrò, e piú laudevolmente, se tu, o iniquissima dea, avessi sostenuto che io, la prima volta che da costei mi partii, fossi nelle sue braccia morto, sí com’io cercava, sentendo io per la mia partita intollerabile dolore: gl’iddii infernali avriano presa lieta la mia anima! O almeno m’avesse la giusta lancia del siniscalco passato il cuore, quando con lui, mai piú non usato all’arme, combattei! O mi fosse stato lecito l’uccidermi, quando costei tanto piansi, credendola morta! Almeno qualunque di queste morti presa avessi, nel cospetto della mia madre sarei morto, ed ella col mio padre insieme il pietoso uficio avrebbero operato, guardando poi le mie ceneri con pietoso onore, le quali mai non rivedranno, se Eolo con le sue forze non le vi porta mescolate con ravvolti nuvoli e con la non conosciuta arena. Ora, se tu forse questa misera grazia agl’indegni parenti non volevi concedere, perché nelle marine onde, dove la spaventevole notte, della quale io ho poi sempre avuto paura, tanto mi spaventasti, non mi facevi ricevere dai marini iddii? E ben che assai mi fosse stata dura la morte, perché piú presso era a’ miei disiri, l’avrei piú tosto voluta, quando nelle tue mani mi rimisi, nascondendomi sotto le frondi mobili sí come tu. Perché allora cosí la persona mia, come i capelli, non palesasti agli occhi del nemico? Tu, crudelissima, da questi e da molti altri pericoli m’hai campato, non per grazia ch’io aggia nel tuo cospetto avuta, ma per conducermi a piú dispregevole fine, sí come ora hai fatto. Certo tutto questo mi saria assai meno grave a sostenere: se a sí fatta vergogna mi vedessi solo. Oimè, quanto m’è grave a pensare che colei cui amo sopra tutte le cose del mondo, colei per cui i passati pericoli mi sono paruti leggieri a sostenere, colei che me piú che sé ama, mi sia compagna a sí vile morte! O Filocolo, piú ch’altro uomo misero, hai tu tanto affanno durato per conducere la innocente giovane a sí vile fine? Ella muore per te, e per te un’altra volta a simil morte fu condannata, per te venduta, e ora per te vituperata. La fortuna forse verso lei pacificata, apparecchiava degna felicitá alla sua bellezza, se tu non fossi stato, e però tu giustamente muori. Ma ella perché, con ciò sia cosa ch’ella non sia colpevole? Oimè, solo l’angoscia di lei mi duole, ché la mia io passerei con minore gravezza! O crudel padre, o dispietata madre, oggi di me rimarrete privi: voi non mi voleste pacificamente avere, e voi oggi di me vedovi rimarrete. Non vi concederá la fortuna di chiudere i miei occhi nella mia morte, né riporre le mie ceneri ne’ cari vasi. Oggi della vostra nimica Biancofiore, da voi con tante insidie perseguitata, sarete deliberati, ma non senza vostra tristizia, né potrete per me spandere lagrime, che per lei similmente non le spandiate. Un giorno, una ora e una morte vi ci torrá: e non ingiustamente, ché convenevole cosa è che chi non vuole il bene quietamente possedere, che tribolando senza esso viva. Rimanete adunque in eterno dolore, e di tal peccato siano gl’iddii giusti vendicatori. O gloriosi iddii, non si parta dal vostro cospetto inulta l’iniquitá del mio padre. O sommi governatori de’ cieli, i quali in tanti affanni avete le mie fiamme udite, aiutate l’innocente giovane. Venga sopra me, il quale ho commesso l’offesa, a vostra indignazione. O Imeneo, o Giunone, o Venere, i quali io l’altra notte, se non errai, vidi per la lieta camera portanti i santi fuochi del novello matrimonio, riserbatevi Biancofiore al buon augurio di quelli, e se alcuna infernale furia fu tra voi con quelli mescolata, o se alcun gufo sopra di noi cantò, caggiano sopra me li tristi augurii. Io non curo della mia morte, per ciò ch’io l’ho con ingegno cercata: sia solamente costei, che per me senza colpa muore, aiutata da voi».
- Biancofiore, piena di paura e di vergogna e di dolore incomparabile, piangeva, e i suoi occhi né piú né meno facevano che fare suole il pregno aere, quando Febo nella fine del suo Leone dimora, che, porgendo acqua da piú bassa parte, con piú ampia gocciola bagna la terra: l’una lagrima non aspettava l’altra. Ella aveva il suo viso e il dilicato petto tutto bagnato, e simile quello di Filocolo, sopra il quale gli occhi, che non ardivano di riguardare in parte dove riguardati fossero, teneva. E se tal volta, sentendo pe’ legami aspra doglia, alzava gli occhi, rimirando nel viso Filocolo, per vedere se a lui, sí come a lei, doleva, disiderando d’avere piú di lui che di sé compassione, e vedendolo solamente senza lagrime turbato, si maravigliava, e non meno le piaceva vedendolo, ben che in mortale pericolo si vedesse, che piaciuto le fosse qualora piú lieti mai si videro. Ma pensando che brieve tale diletto conveniva essere per la sopravvegnente morte, mossa da compassione debita, cosí cominciò fra sé a dire:
- «O nemica fortuna, qual peccato a sí vile fine mi conduce, avendomi in vita tenuta con piú miserie ch’altra femina? Qual sia non conosco. Io misera, composta da Clotos, fatale dea, nel ventre della mia madre, fui cagione del crudel tagliamento fatto del mio padre, e per conseguente, nella mia venuta nel tristo mondo, cacciai di vita la dolente madre, sí che impossibile mi fu di conoscere i miei genitori: e nata serva, mai la mia libertá non fu ridomandata. E ora gl’iniqui fati, di nuocermi apparecchiati, mi recano a peggio. Io, formata bella dalla natura, fui a me per la mia bellezza cagione d’eterni danni, dove all’altre ne sogliono graziosi meriti seguitare. Se io fossi di turpissima forma stata, lo indivisibile amore, tra me e Florio generato per uguale bellezza, ancora saria ad entrare ne’ nostri petti: e cosí io non sarei stata dal suo padre odiata e condannata alle prime fiamme, né sarei stata comperata prima da’ mercatanti e poi dall’amiraglio; ma ancora mi sarei nelle reali case, e cosí fuori di pericolo io e altri sarebbe. O bellezza, fiore caduco, maladetta sia tu in tutte quelle persone a cui nociva t’apparecchi d’essere! Tu principale cagione fosti dello ardente amore che costui mi porta; tu gli levasti la luce dell’intelletto, e la ragione, per la quale conoscere doveva me, femina vile, non essere da essere amata da lui; tu di migliaia di sospiri l’hai fatto albergatore; tu degli occhi suoi hai fatto fontane di dolenti lagrime; tu gl’infiniti pericoli gli hai fatti parer leggieri, per venirti a possedere: e ora posseduta, a questo vilissimo fine l’hai condotto. Ahi, dolorosa me, perché insieme con la mia madre non morii quando io nacqui? Quanti mali sariano per un solo spenti! Il siniscalco saria vivo, e Fileno valoroso cavaliere perduto non saria in isconvenevole esilio; e Florio ora a tal pericolo non saria; ma lieto de’ suoi regni aspetterebbe la promessa corona, e i miseri padre e madre, che di lui debbono udire la vituperosa morte, viverieno lieti del loro figliuolo, del quale ancora piú dolenti morranno. Oimè misera, a che morte sono io apparecchiata! Al fuoco! Il fuoco caccera da’ fermi petti l’amoroso fuoco. Quel fuoco, che il mare, la terra, la paura, la vergogna, e ancora gl’iddii non hanno potuto spegnere, il fuoco spegnerá. Oggi di perfetti amanti, diventeremo nulla. Oggi sará biasimata e tenuta vile la nostra grande costanza e fermezza d’animi. Oggi congiunte cercheranno le nostre anime gli sconosciuti regni. Oggi scalpiteranno i piedi e moveranno i venti le nostre ceneri giá credute serbarsi agli splendidi vasi. Oggi la forza di Citerea fia annullata. O dolente giorno, di tanti mali riguardatore, perché nel mondo venisti? E tu, o Apollo, a cui niuna cosa si nasconde, perché venisti mostrandoti chiaro insieme e crudele, che giá per minori danni nascondesti i raggi tuoi a’ mondani? Oimè, Florio, a che vile partito mi ti veggio avanti! Oimè, come può l’anima sostenermi tanto in vita, pensando che noi siamo cagione di commovimento a tutta Alessandria? pensando che tante migliaia d’occhi solamente noi riguardino, solamente di noi ragionino, solamente di noi pensino? pensando ancora con quanto vituperoso parlare sia da’ riguardanti ciascuna parte di noi, che ignudi a’ loro occhi dimoriamo, riguardata? Caro ne saria il campare, ma non il vivere in questo luogo. O sommi iddii, i cui pietosi occhi il mio nuovo peccato ha rivolti altrove, che ha meritato Florio, che sia da voi sofferto che questa morte sostenga? Egli ha amato, e amando ha fatto quello che voi giá faceste. Costretto è ciascuno di seguire le leggi del suo signore. Egli fece quello che amore gli comandò; ma io, malvagia femina, non servai il dovere all’amiraglio, sotto la cui signoria mi strignevano i fati. Io sola peccai, dunque io sola merito di morire; muoia dunque io, e Florio, che niente ha meritato, viva. O iddii, se in voi alcuna pietá è rimasa, purghisi l’ira vostra e quella dell’amiraglio sopra me. Se Florio campa, io contenta piglierò la morte. Cessi che per me, vile femina, muoia un figliolo d’un sí alto re. Oimè, ora che dimando io? Giá è manifesto che i miseri indarno cercano grazia. Oimè, come tosto è in tristizia voltata la breve allegrezza! O quanto è picciolo stato lo spazio del nostro matrimonio, il quale noi pregavamo gl’iddii che il dovessero eternare! Certo per cosí picciolo spazio senza prieghi potevamo passare, adoperando il tempo ne’ baci che si dovevano finire per ischernevole morte. Oimè, ch’io mi rallegrava, parendomi l’augurio delle parole dell’iniquo re poter prendere con effetto buono! Ma i fati, che dolente principio mi hanno sempre in ogni mia cosa dato, non consentono ch’io senta lieto fine. O vecchio re Felice, all’effetto il tuo nome contrario, con che core ascolterai il misero accidente? Ora saratti possibile a vivere tanto, che il triste apportatore di tale novella abbia compiuto di dire che il dilicato corpo di Florio sia stato dalle fiamme consumato? Questo non so, ma forte mi pare a pensare ch’essere possa. Io sono certa, se tu viverai, che, mentre ti basterá la lingua alle parole, mai in altro, che in maledizioni della mia anima, non moverai quella: e se morrai, fra le nere ombre sempre come nemica mi seguirai, e non senza ragione. O iddii, consentite, se i miei prieghi alcun merito acquistano nella vostra presenza, che Florio campi, se possibile è, e io, degna di morire, muoia. La sua vita, ancora molto utile al mondo, non si prolungheni senza vostro grande onore: la mia, che a niuna cosa può valere, perisca, e sostenga il peso del vostro cruccio. Siami conceduta questa grazia, in guiderdone della quale il mio corpo da ora vi offero per sacrificio».
- Ircuscomos e Flaganeo, venuti da’ libiani popoli, nel viso bruni, e feroci, e coi capelli irsuti e con gli occhi ardenti, grandi di persona, erano dall’amiraglio fatti capitani de’ suoi militi, e giá la notturna guardia della torre sotto la loro discrezione aveva commessa. Questi dopo il comandamento dell’amiraglio, armati sopra forti destrieri, con molti compagni vennero nel prato, intorniati da pedoni infiniti con archi e con saette. Essi fecero accendere due fuochi assai vicini alla torre, e fecero posare in terra Filocolo e Biancofiore, e tirargli appresso all’accese fiamme con villane parole. Quivi venuti, Fi1ocolo vide i due luoghi per la morte di loro due apparecchiati; ond’egli, senza mutare aspetto, alzò ’l viso verso Ircuscomos e disse: «Poi che agl’iddii e alla nimica fortuna e a voi piace che noi moriamo, siane conceduta in questa ultima ora una sola grazia, la quale, faccendotaci, niuna cosa del vostro intendimento menomeni. Noi miseri, dalla nostra puerizia in qua, sempre ci siamo amati, e ben che nostro infortunio sia stato il non potere mai coi corpi insieme dimorare, mai le nostre anime non furono divise: un volere, un amore ci ha sempre tenuti legati e congiunti, e un medesimo giorno ci diede al mondo: piacciavi che, poi che un’ora ci toglie, che similmente una medesima fiamma ci consumi. Siano mescolate le nostre ceneri dopo la nostra morte, e le nostre anime insieme se ne vadano». Ircuscomos, che mai non aveva apparato d’essere pietoso, faccendo sembianti di non averlo udito, comandò che com’era incominciato cosí i sergenti seguissero; ma Flaganeo, non meno crudele spirito, disse: «E che ci nuoce di fargli del suo medesimo danno grazia? Con quella forza ardono le fiamme i due, che l’uno: fiagli conceduto di morire con lei, con cui la colp commise».
- Fu adunque Filocolo insieme con Biancofiore legato ad un palo, e intorniato di legne. Le quali cose mentre si facevano, Biancofiore piangendo rimirava Filocolo, e diceva con rotta voce e con vergogna: «O signore mio dolce, ove se’ tu con affanni e con pericoli venuto ad essere messo vivo nelle ardenti fiamme? Oimè, quanto è piú il dolore ch’io di te sento, che quello che di me mi fa dolere! Oimè, quanto m’è grave il pensare che tu per me sí vilmente sia dato a morire! I dolenti occhi non possono mostrare con le loro lagrime ciò che il cuore sente, qualora io ti guardo ignudo meco insieme tra tanto popolo disposto a morire. O anima mia, che hai tu commesso, che gl’iddii, che essere ti solevano benevoli, siano cosí contro te turbati e in tanta avversitá t’abbandonino? Perché ti nuoce il mio peccato? Maladetta sia l’ora ch’io nacqui, e che amore mise negli occhi miei quel piacere, del quale tu, oltre al dovere, sempre se’ stato innamorato, poi che a questo fine dovevi venire. Oimè, ch’io mi dolgo che tu per adietro m’abbi campata all’altro fuoco, per ciò che, campando me, a te acquistasti morte. Io misera, degna di morire, volentieri muoio, né mi saria grave il sostenere prima ogni pena, e poi questa, sol che tu campassi. Ahi, quanto volentieri tal grazia a Dio e al mondo di manderei, se io credessi che conceduta mi fosse! Ma essi hanno avuto del nostro poco bene invidia, e però piú disposti a’ nostri danni, che a’ piaceri, non si moveriano ad alcun priego. O me misera, che quel giorno che ci diede al mondo, quel giorno la cagione di questa morte ne porse. Impossibile è ora alla tua madre credere che tu sia a questo partito; e i tuoi miseri compagni forse estimano che tu ora lietamente dimori, per ciò che, non essendo essi conosciuti, alcuno non dice loro questo accidente. Essi venuti líeti teco, ricercheranno dolenti, senza te, le ragguagliate acque, e lá dove me teco credevano presentare al tuo padre, la crudele morte di noi due racconteranno: per che il tuo regno, rimanendo vedovo, con dolore in eterno ti piangerá».
- Queste parole mossero il forte animo di Filocolo, e le lagrime, lungamente costrette, con maggiore abbondanza uscirono da’ dolenti occhi, e cosí piangendo le cominciò a rispondere: «Quella pietá che io di me dovevo avere, non m’ha potuto vincere, che io con forte animo non abbia mostrato di sostenere pazientemente il piacere degl’iddii, ma, pensando a te, ha rotto il proponimento del debile animo. Tu meco insieme misera, per la mia vita prolungare, disideri piú pene che li fati non porgono, cara tenendo la morte, se io campassi, e fatti colpevole, dove manifestamente in me la colpa conosci. Ora in che hai tu offeso? Io ho fatto ogni male. Tu soavemente dormendo nel tuo letto fosti con ingegno da me usato assalita, per che io debitamente morire dovrei. Io sotto giusto giudice dovria per te ogni pena portare: la qual cosa se fosse, e tu campassi, grazioso mi saria molto; ma la fortuna, che sempre ci ha ugualmente in avversitá tenuti, ora al giusto per lo ingiusto non vuole perdonar morte. Io ho meco questo anello, il quale la mia misera madre mi donò nella mia partita, promettendomi ch’egli aveva virtú di cessare le fiamme e le acque in giovamento della vita di chi sopra l’avesse: la virtú di costui credo che il mio periclitante legno, la notte che io in mare passai tanta tempesta con ismisurata paura, aiutasse. Però tiello sopra di te: io non credo che la fortuna abbia avuta potenza di levargli la virtú, la quale se levata non gliel’ha, di leggieri potrai campare. La tua bellezza merita aiutatore, il quale non dubito che tu troverai, e rimanendo tu in vita, molto nel morire mi conforterai». «Sia lontano da me ciò che tu parli» disse Biancofiore, «ma tu, la cui vita è ad altrui e a me piú che la mia cara, sopra te il tieni, acciò che se gl’iddii altro aiuto ti negano, per la virtú di questo campi: la cui virtu giá mi conforta, e piú consolata al morire mi dispone, pensando ch’ella sia possibile ad aiutarti.» Cosí costoro con sommessa voce parlando, il fuoco fu acceso, e l’ardore s’appressava, quando, rifiutando ciascuno l’uno all’altro l’anello, di piana concordia piangendo s’abbracciarono, e con dolenti voci la morte attendendo, l’uno e l’altro dall’anello era tocco, e dalle fiamme difeso: ma essi, per debita paura del sopravvegnente fuoco, con alte voci l’aiuto degl’iddii invocavano piangendo.
- Mossero le voci di costoro i non crucciati iddii a degna pietá, e furono esauditi, ben che assai gli aiutasse l’anello. Venere, intenta a’ suoi soggetti, commosse il cielo, e per loro porse pietosi prieghi a Giove, con consentimento del quale e di ciascun altro iddio, necessario aiuto si dispose a porgere. E involta in una bianchissima nuvola, coronata delle frondi di Pennea, con un ramo di quelle di Pallade in una mano, lasciò li cieli e discese sopra costoro, e con l’altra mano, cessando i fummi dintorno a’ due amanti, a’ circustanti li volse, e quelli in oscurissima nuvola mantenendo bassi, con noioso cocimento impediva i circustanti di poter vedere dove Filocolo e Biancofiore fossero, dando a loro chiaro e puro aere, nel quale tutta si mostrò loro e disse: «Cari suggetti, le vostre voci hanno commosso i cieli e impetrato aiuto; rassicuratevi: io sono la vostra Citerea, madre del vostro signore. Questa sará l’ultima ingiuria a voi, e la fine delle vostre avversitá, dopo la quale voi pacificamente, avendo vinta la contraria fortuna, vivrete. Io vi ho recato segnale d’eterna pace: guardatelo infino che di qui uscirete. Marte, per lo vostro aiuto, stimola i tuoi compagni con sollecitudine, o Fitocolo, né prima di qui mi partirò, che tu li sentirai cercare la salute di voi due con armata mano». E questo detto, lasciando l’ulivo nelle loro mani si partí, volendo essi giá ringraziarla. La santa voce con intera speranza riconfortò gli sconsolati amanti, li quali con perfetto animo renderono agl’iddii degna lode di tale aiuto; ma ben che ’l fummo rivolto alla circustante gente impedisse il costoro poter vedere, nondimeno il furioso popolo, e gli armati cavalieri, dalla incominciata iniquitá non ristavano, anzi crucciati, piú pronti s’ingegnavano di far male. Ircuscomos con una mazza ferrata in mano costringe i sergenti di ritrovare e d’ardere i giovani; Flaganeo dall’altra parte gli conforta al male operare; ma invano adoperano: niuno li può rivedere, né alcuno è possente di passare piú oltre che il fummo si distenda. L’ira s’accende negli animi, e cercano di passare con le lance e con le saette la oscuritá del fummo, imaginando che delle molte alcuna gli uccidirá. Niuna cosa nuoce loro, niuna saetta vi passa: il romore era grande e tale, che per poco spaventava i confortati amanti. Che piú? Ogni ingegno di nuocere si prova; ma invano s’affatica chi nuocere vuole a colui cui Dio vuole aiutare. Elli non possono loro nuocere, né rivederli in alcun modo.
- Ascalione e il duca, con Dario, con Bellisano e con gli altri, ignoranti dell’andata di Filocolo, dubitando l’aspettano quella notte e ’l giorno appresso. E ritornando un’altra volta le stelle, e dopo quelle Febo, con piú malinconia di lui pensavano; e venuta la terza notte, imaginando essi che la fosse andato dov’era, pieni di pensieri vani per la lunga dimoranza, s’andarono a dormire. Ma Ascalione, quasi piú sollecito della salute di Filocolo, entrato di tale istanzia in varie imaginazioni, si rivolse per la mente le future cose, e dubitando forte non avvenissero, il tacito sonno con quieto passo gli entrò nel petto; e levandolo da quelle, in sé tutto quanto il legò, e nuove e disusate cose gli dimostrò, mentre seco il tenne. E’ gli pareva essere in un luogo da lui mai non veduto, e pieno di pungenti ortiche e di spruneggioli, del qual luogo volendo uscire, e donde non trovando, s’andava avvolgendo e tutto pungendosi. E di questo in sé sostenendo gravissima doglia, non so da che parte gli parea veder venire Filocolo tutto ignudo, palido e in diverse parti del corpo piagato, e tutto livido, e dietro a lui in simile forma Biancofiore, con le bionde treccie sparte sopra i candidi omeri, e correndo verso lui fra le folte spine, tutti si pugnevano e dalle punture pareva che sangue uscisse, che tutti gli macchiasse: e giunti nel suo cospetto si fermavano, e senza parlare alcuna cosa, il riguardavano né piú né meno come se dire volessero: ‛Non ti muove pietá di noi a vederci cosí maculati?’. I quali riguardahdo cosí conci, Ascalione senza dire alcuna cosa piangeva, parendogli che piú li loro mali che li suoi propri gli dolessero. Ma cosí stati alquanto, gli parve che Filocolo piú gli s’appressasse, e piangendo gli dicesse con voce tanto fioca che appena gli la pareva udire: ‛O caro maestro, che fai, che non ci aiuti? Non vedi tu come la nemica fortuna, voltatasi sopra me e sopra la innocente Biancofiore, premendoci sotto la piú infima parte della sua ruota ci ha conci? Come puoi vedere, niuna parte di noi ha lasciata sana, e minacciaci di peggio, se il tuo aiuto o quello degl’iddii non ci soccorre’. A cui Ascalione parea che rispondesse: ‛O cari a me piú che figliuoli, la maraviglia che di voi e delle vostre piaghe ho avuta assai, senza parlarvi m’ha tenuto; ma piú d’ammirazione mi porge il vedervi insieme dolenti, non sappiendo pensare come esser possa, essendo tu con la disiata giovane Biancofiore ed ella teco, la fortuna ci possa porre alcuna noia, che dolenti vi faccia: dimmi come questo è avvenuto; il mio aiuto sai che per lo tuo bene è disposto ad ogni cosa infino alla morte. Mostrami pur da cui aiutar ti deggia’. A cui Filocolo rispose: ‛Come tu vedi, cosí è: bastiti il veder questo, senza piú volerne udire. Vedi qui dintorno a me Ircuscomos e Flaganeo con infinito popolo, per comandamento dell’amiraglio, per volerei in fiamme consumare’. Questo udito, ad Ascalione parve vedere dintorno a Filocolo ciò che le parole significavano: per che crescendogli il dolore e la pietá di ciò che vedeva, ad un’ora Filocolo e Biancofiore e ’l sonno se n’andarono, ed egli stupefatto per le vedute cose, alzato il capo, vide giá il chiaro giorno per tutto essere venuto. Per che egli senza indugio si levò e vestissi, e quasi tutto smarrito venne a’ compagni, a’ quali narrò ciò che veduto aveva. Per che egli teme non Filocolo abbia alcuna novitá. Gli altri, udendo questo, tutti dubitano, né sanno che consiglio prendere. Ultimamente con Dario e Bellisano deliberarono d’andare alla torre, per sapere da Sadoc quello che di Filocolo fosse, e se con lui dopo la sua partita fosse dimorato.
- Stando costoro in questo ragionamento, la rapportatrice fama vide dal suo alto luogo queste cose, e di fuori dalle sue finestre cacciò voci, che in picciolo spazio ciò che a Filocolo avvenuto era per Alessandria si sparse. Ma niuno sa il nome di Filocolo, e tutti quello di Biancofiore; ciascuno corre al prato, e tutti si maravigliano, e in picciolo spazio di tempo riempiono quello. Odono Ascalione e gli altri compagni, sí come gli altri, queste voci, e dubitando dimandano chi costoro siano, a cui la fortuna è tanto contraria, disiderando d’accertarsi di ciò che non vorrebbero sapere. Niuno sa loro dire piú avanti, se non Biancofiore con un giovane essere condannati. Dubitano costoro, e hanno ragione, per la visione veduta, e pensano che Filocolo sia, e dimandano de’ segnali del giovane, i quali udendo, la loro credenza cresce. Non si sanno fra loro accordare che fare si deggiano: i piú savi, storditi dell’avvenimento, hanno perduto il saper consigliare. Ma tra costoro cosí pavefatti un giovane di maravigliosa grandezza e robusto e fiero nell’aspetto, armato sopra un alto cavallo apparve fra loro, e con disusata voce incominciò loro a dire: O cavalieri, quale indugio è questo? Seguitemi con l’armi indosso, acciò che il nostro Filocolo piú tosto della paura del sopravvenuto pericolo esca». Costoro d’una parte e d’altra di ammirazione ripieni, udendo ricordare il nome di Filocolo, cosí come i furiosi tori, ricevuto il colpo del pesante maglio, qua e la senza ordine saltellano, cosí costoro senza memoria dolenti corrono alle loro armi: Bellona presta a tutti maraviglioso aiuto. Dario, contento de’ pericoli per amore di Bellisano, senza pensare a’ ragunati beni o a sé, né a quello che avvenir possa, apparecchia a sé e a tutti cavalli di gran valore, e armato con loro insieme monta a cavallo, e senza modo or qua or la scorrendo fra la folta gente, che a veder correva, dietro all’armato campione si mettono con le lancie in mano: e venuti sopra il pieno prato veggono il fummo grande e il circustante popolo. Crede Ascalione che veramente in quello Filocolo e Biancofiore senza vita dimorino, ignaro del soccorso della santa dea, e, cruccioso perché tardi gli pareva esser venuto a tal soccorso dare, disidera di morire. Egli si volta a’ compagni e dice: «Signori, io credo che gl’iddii abbiano alle loro regioni chiamata l’anima di colui, per cui debitamente il vivere ci era caro, e come voi potete vedere, in disonesto e sconvenevole modo è stato di morire costretto. Io non so qual si sia il vostro intendimento, ma il mio è di morire combattendo, acciò che parte della vendetta della morte del mio signore io adoperi. In niuna maniera intendo di rapportare al vecchio re sí sconcia novella, però se alcuno di voi disidera piú di rivedere Marmorina che questo intendimento seguire, torni indietro, mentre lecito gli è senza danno: e chi in un volere è meco, ferisca con ardito cuore la nemica turba». A queste parole niun’altra cosa fu risposto se non: «Noi siamo tutti teco in un volere»; e piú avrebbero detto, ma il grieve dolore ristrinse la voce con amaro singhiozzo nel suo passare: per che con focoso disio feriti degli sproni i cavalli, e disposti a morire, prima con le loro forze l’altrui morte e la loro vendicando, appresso Ascalione se n’andarono verso il tenebroso fummo, dove il fiero giovane era giá fermato e confortavagli al loro intendimento. E quivi trovarono Ircuscomos e Flaganeo costrignenti il maledetto popolo alla morte de’ due amanti.
- Pingesi avanti Ascalione, e ficca gli occhi per l’oscuritá del fummo, disiderando, se in alcun modo esser potesse, di veder Filocolo, ma per niente s’affatica: per che dirizzatosi sopra le strieve, vede i compagni pure a lui guardare. Ond’egli recatasi la forte lancia in mano, e chiusa la visiera dell’elmo, e imbracciato il forte scudo, ardendo tutto di rabbiosa ira, fra sé disse: ‛O graziosa anima, dovunque tu dimori, avendo in queste fiamme di Filocolo lasciato il corpo, rallégrati, però che a vedere gl’infernali fiumi grande compagnia d’anime de’ tuoi nemici ti seguirá, e poi quelle de’ tuoi compagni, de’ quali niuno al tuo padre intende rapportare novelle di tua morte. Veramente, o anima graziosa, chiunque gliele dirá, con la tua morte la vendetta fatta d’essa e le morti di noi tutto racconterá. Préstinci gl’iddii sí lunga vita, che, prima che i nostri occhi si chiudano, noi veggiamo le nostre spade tinte di ciascun sangue di qualunque t’ha nociuto, e poi ci facciano cadere con loro insieme senza vita nel sanguinoso prato: dove se chi ci uccida non troveremo, noi con le nostre mani, per seguirti, la morte ci porgeremo’. E questo detto, dirizzatosi verso Ircuscomos, il quale davanti a sé vedeva, gridando disse: «Ahi, crude! barbaro, oggi la tua crudeltá avrá fine, la tua morte sará merito della mia lancia».
- E corsogli sopra, dirizzata verso lui la crudele punta, lo ferí nello scudo, sopra il quale quella si ruppe senza offenderlo punto. Il barbaro, questo vedendo, con altissime voci richiamò la sparta masnada sopra i sette compagni, non avendo ancora veduto l’ottavo: e sí come il porco, poi che sente l’agute sanne de’ caccianti cani, schiumoso con furia si rivolge tra essi, magagnando con la sanna quale prima giunge, cosí Ircuscomos rabbioso, con ispiacevole mormorio, con una mazza ferrata in mano, sopra il cavallo con tutta sua forza si dirizzò per ferire Ascalione sopra la testa. Ma Ascalione savio lo schifò, e, mentre che ’l peso del corpo tirava Ircuscomos abbasso, Ascalione, tratta la spada, il ferí sopra il sinistro omero cosí forte, che di poco il braccio con tutto lo scudo gli mandò a terra. Ircuscomos, sentendo la doglia, e ricoverato il corpo, ferí sí forte Ascalione sopra l’elmo, che, fatto di quello molti pezzi, lui tutto stordito fé abbassare sopra il collo del suo cavallo; ma poco stato, tornato in sé, si levò piú fiero. E come tal volta il leone, poi che ’l suo sangue in terra vede, diviene piú fiero, cosí Ascalione, divenuto piú sopra il barbaro animoso, con la spada in mano tornò verso lui, e dandogli piú colpi, uno con tutta sua forza gli diede dove ferito l’aveva sopra l’omero l’altra volta, e mandò a terra il braccio con tutto lo scudo. Il libiano, doloroso di tale accidente, non però lascia di ferire Ascalione; ma egli spaventato del gran colpo, gli altri sopra lo scudo riceve. Ma Ircuscomos giá debile per lo perduto sangue, vedendosi senza scudo, volta le redini del destriere, e lasciando il campo, verso Alessandria se ne fugge. Il romore per gli incominciati colpi si multiplica, per che gli altri compagni d’Ascalione, poi che vedono lui cominciare, ciascuno, bassata la lancia, corre verso i nemici, e, per esempio del vecchio cavaliere, ciascuno vigorosamente combatte, e senza alcuna paura di morire. Ma Parmenione che con Flaganeo s’era scontrato, datisi due gran colpi nello scontrare, combatteva maravigliosamente, e punto non ispaventato per la fierezza del nemico, né della moltitudine circustante, con maestrevoli e forti colpi il recò a fine, e morto il lasciò quivi, davanti al fummo, correndo agli altri. Bellisano, ormai anziano cavaliere, d’armi gran maestro e di guerra, faceva mirabili cose. Egli, andando dietro ad Ascalione, quanti inanzi del misero popolazzo gli venivano, tanti n’uccideva o fediva, né alcuno a’ suoi colpi poteva riparare. Il duca dall’altra parte, scontratosi con un turco chiamato Belial, ferocissimo e di gran forza, combatteva mirabilmente, ma resistere non gli avrebbe potuto, se non che venendo Menedon di traverso con una scure in mano levata ad un cavaliere, che morto avea, quella alzando, si forte diede sopra la testa al turco, che feritolo a morte e stordito, tutto sopra il collo del cavallo caduto stette grande ora, difeso da molti; ma poi risentendosi, e recatosi il freno in mano, e cominciando a fuggire tenne la via verso il mare con molti altri, e seguiti dal duca e da Menedon, per tema de’ mortali colpi con tutti i cavalli fuggirono in mare, de’ quali assai, credendo morte fuggire, morirono. Massalino e Dario erano piú che gli altri vicini al fummo venuti, correndo dietro a’ due cavalieri; e incappati tra grande moltitudine d’armati pedoni, quivi combattendo, furono loro uccisi i buoni cavalli: per che rimanendo a piede, forte combattendo con la scellerata turba, di quelli intorno a sé ciascuno aveva fatto gran monte d’uccisi, sopra a’ quali saette e lance, in grandissima quantitá, quasi in forma di nuvoli si sariano vedute continuamente cadere. E ben che ciascuno dei sette mirabili cose facesse, di niuna fu tanta maraviglia, quanta il campare senza morte di questi due. Andavano adunque combattendo i sette compagni valorosamente, piú per vendicare la morte di Filocolo e per morire, che per vaghezza d’acquistar vittoria. E giá presso che al loro intendimento venuti, avendone essi molti uccisi, e ciascuno debile e stanco e in molte parti ferito, ognora piú multiplicando il popolo e la quantitá degli armati cavalieri, si disponevano a rendere l’anime. Il feroce iddio, che ciò conosceva, mossosi dietro se li ricolse, e con veloce corso intorniando il prato tutti e otto, col suo aspetto a qualunque era nel campo tanta paura porse, che come a Noto, robustissimo vento, fugge davanti alla faccia la sottile arena senza resistenza, cosí a lui generalmente ogni uomo fuggiva, trepidando la morte, non altrimenti che la timida cerva veduto il fiero leone.
- Vòtasi con grandissimo romore l’ampia prateria: niuna gente vi rimane, se non i vincitori, e quelli i quali o morti o feriti non hanno potenza di fúgire; né alcuno ha ardire di piú ritornare nel prato. Le lagrime delle vaghe giovani, che pietose riguardavano dall’alta torre, crescono per l’uccisione, e con quelle la loro speranza della salute di Biancofiore: e molte, non potendo sostenere di vedere l’uccisione, se ne levano. Altre porgono pietose orazioni agl’iddii per lo salvamento della picciola schiera: altra va e torna, altra alcuna volta non si parte, disiderando di veder la fine. I vittoriosi cavalieri s’accostano al fummo dolenti della loro vittoria senza morte, e, quella disiderando, niuno le sue piaghe ristringe, ma riguardando per lo campo si maravigliano di ciò che essi pochi hanno fatto, vedendo grande la moltitudine de’ morti e de’ feriti. Ciascuno ringrazia il gran cavaliere, non conoscendolo per iddio, e di molte cose il dimandano, ma egli a nulla né a niuno risponde. Ciascuno vorria vedere, se possibile fosse, i busti de’ corpi che essi morti estimavano. Alcuni di loro dicevano essere convenevole omai gittarsi vivi sopra il loro fuoco, acciò che una medesima fiamma le ceneri di tutti raccogliesse in uno. Altri lodavano prima a loro porgere sepoltura, e poi sé ardere, dicendo che degna cosa non era le loro ceneri con altre, che si non si amassero, contaminare. Mentre che queste cose, disiderosi della loro morte, ragionavano, e tentavano di vedere e di passare il fummo, il quale punto loro non si apriva, Filocolo, il quale piú volte per lo infinito romore aveva della sua salute dubitato, udendo costoro dintorno a sé ragionare, non però conoscendogli né intendendo ciò che diceano, né potendogli vedere, sentendo il prato quieto e senza alcun romore, fuori che d’un picciolo pianto che facevano i feriti, con quella voce piú alta, che paura nel timido petto aveva lasciato, cosí cominciò a dire: «O qualunque cavalieri che intorno a’ miseri dimorate, di noi forse pietosamente ragionando, quella pietá che di noi hanno avuta gl’iddii, entri negli animi vostri: non siate tardi a mettere ad esecuzione quello che gl’iddii hanno incominciato. Essi vogliono la nostra vita forse ancora aver cara al mondo. Noi vivi nell’oscuro nuvolo senza alcuna offesa dimoriamo, tenendo in mano ramo significante pace, lasciato a noi da divina mano: passate qui, adunque, dove noi siamo, e sciogliete i nostri legami, acciò che salvi, dove voi siete, possiamo venire».
- Giungendo questa voce agli orecchi d’Ascalione e degli altri, i quali veramente la conobbero, di tristizia subitamente gli animi spogliarono, di quella letizia rivestendogli, di che Isifile nel dolore di Licurgo si rivestí, riconosciuti i figliuoli.
- E Ascalione, prima che alcuno, rispose: «O fortunato giovane, il quale morto stimavano, e per cui noi tutti tuoi compagni morte disideravamo, multiplica con la veritá la nostra letizia, e dinne per la potenza de’ tuoi iddii se tu se’ vivo come ne parli, o se alcuno spirito, volendoci dal fermo volere levare, parla per te nelle accese fiamme: acciò che, se tu vivi, solleciti la tua salute cerchiamo, e se no, la proposta morte prendiamo senza piú stare».
- Conobbe Biancofiore la voce del suo maestro e cosí rispose: «Caro maestro, rallégrati, e credi fermamente ciò ch’io ti parlo: il tuo Florio e io viviamo nelle cocenti fiamme da niuna cosa offesi. Ond’io ti priego per quello amore che giá mi portasti, la nostra liberazione affretta, acciò che da noi la paura si parta, e possiamo con voi di tale pericolo campati rallegrarci. Io ardo piú di vederti che non fanno le accese legne preste pe’ nostri danni. Gl’iddii benevoli a noi ci hanno graziosa fortuna promessa per lo inanzi, e senza fallo salute: però il vivere vi sia caro».
- Odono Ascalione e i suoi compagni la voce della graziosa giovane, e riconfortati con immenso vigore aspettano francamente qualunque novitá, ragionando diverse cose co’ chiusi amanti, infino a che altra cosa appaia, piú nella pietá degl’iddii ornai sperando, che nelle loro forze. Mentre i cavalieri rallegrati ragionando si stanno accosto alla buia nuvola, la quale in niuno modo cede a chi oltre vuole passare se non come un muro, levandosi da dosso ciascuno le molte saette, di che piú che dell’armi erano caricati, e avendo cura e di loro e delle loro piaghe, le quali non di medicare, ma di ristrignerle per meno sangue perdere s’ingegnavano, Ircuscomos col braccio tagliato, e con molti altri feriti e non feriti pervennero all’amiraglio, a cui Ircuscomos disse: «Signore, vedi come i sopravvenuti nemici m’hanno concio!». A cui l’amiraglio disse: «O chi sono costoro, e quanti, e che dimandano?». Ircuscomos rispose: «Signore, io non ne vidi se non forse sei o otto contra tutta la nostra moltitudine combattenti, faccendo d’arme cose incredibili a narrare: chi e’ si siano io non so, né per che venuti, ma stimo che per la salute del giovane, il quale credo che morto sia, venuti siano». «Come, credi che morto sia?», disse l’amiraglio: «non l’hai tu veduto? Egli è cosí grande spazio, che voi il menaste al fuoco per mio comandamento!» «Certo» rispose Ircuscomos, «mirabil cosa de’ condannati è visibilmente avvenuta, che non fu piú tosto il fuoco acceso, che il fummo si rivolse tutto a noi, e senza salire ad alto, sí come è sua natura, sí forte quivi dintorno ad essi si fermò, e, come fortissimo muro, ad uomini, a saette e a lance privò il passare dentro a’ due, e similmente il potere essere essi veduti: dintorno al quale dimorando noi, ingegnandoci di nuocere a coloro che dentro v’erano, sopravvennero quelli che cosí n’hanno concio, come parlato v’abbiamo. Egli è con loro un uomo di smisurata grandezza, il quale con la sua vista spaventa sí chi ’l vede, che ciascuno piglia la fuga senza volervi piú tornare. E, brevemente, io non credo che nella gran prateria sia alcuno rimaso se non morto, de’ quali gran quantitá credo che v’abbia; e de’ condannati quello che se ne sia, dire non vi so piú inanzi». L’amiraglio ascolta queste cose, e infiammasi, udendole, d’ardentissima ira. E poi che Ircuscomos tacque biasimando il vile popolo e i molti cavalieri, turbato si leva dal loro cospetto, e andando senza riposo per la sua camera torcendosi le mani e strignendo i denti, giura per gli immortali iddii di far morire gli assalitori de’ suoi cavalieri. E uscito fuori, con fiera voce, comanda ogni uomo essere ad arme, e senza indugio seguirlo. Egli s’arma e monta sopra un forte cavallo; e Alessandria tutta commossa, e ciascuno sotto l’armi, chi lieto e chi dolente, chi a piè e chi a cavallo, ciascuno il seguita, e furiosi ne vanno verso il prato, faccendo con diversi romori di trombette e di corni e d’altri suoni significanti battaglia e con voci tutto l’aere risonare. E pervenuti vicino al prato, giá quasi essendo per entrarvi dentro, niuno cavallo era che a forza del cavaliere non voltasse la testa, e quasi, senza potere essere ritenuti, infino alla cittá tornavano correndo. A ciascuno uomo s’arricciavano i capelli in capo, come suole fare al ricco mercatante nelle dubbiose selve, poi che egli i ladroni con l’occhio ha scoperti. Niuno aveva l’ardire di passare dentro a quello: tutti hanno paura, e niuno sa di che. Ciascuno, stato infino a quel luogo fiero e ardito al venire, pauroso disidera di tornarsi indietro. L’amiraglio freme tutto, e con minaccie e con percosse s’ingegna di pingere i suoi inanzi, dicendo: «O gente villana, qual paura è questa? Chi vi caccia? Temete voi sei cavalieri?». Le sue parole sono udite, ma non messe ad effetto. Le percosse ciascuno fugge, e le minaccie meno: che la non conosciuta paura temono. Maravigliandosi l’amiraglio di tanta viltá, dimanda la cagione di tanta paura: niuno gliela sa dire, ma tutti temendo rinculano. Traesi inanzi l’amiraglio, e comanda d’esser seguito. Viene in su l’entrata del prato, e piú ch’alcuno degli altri pavido volta le lenti redini del corrente destriero, né egli medesimo conosce perché. Molte volte riprova sé, e fa riprovare i suoi; ma nullo è che piú inanzi passare possa che i termini del prato, segnati ne’ confini della via entrante in quello. Con maraviglia comincia l’amiraglio a esaminare nella mente quello che da fare sia, o perché ciò avvenire possa. Niuno avviso trova, perché il suo avviso si possa fornire: e subitamente muta pensiero, e fra sé dice: «Io operai male dannando i due giovani a morte villana, senza intera notizia di loro avere. Che so io chi essi siano? E’ potrebbero essere tali che gl’iddii fanno per loro queste cose: né altrimenti potrebbe essere, che senza volontá di loro tanto popolo e tanti cavalieri, da sei o da otto fossero messi in fuga, e tanti quanti noi siamo, li temessimo. Veramente credo che spiaccia agl’iddii ciò che di loro feci, e che essi sieno pronti alla loro vendetta».
- Propone adunque l’amiraglio d’andare con segno di pace a’ vittoriosi cavalieri, se egli potrá, e dimandare la loro condizione e la loro pace, se concedergliela vorranno; e se i due amanti non saranno morti, di trarli di quel pericolo, ed in ammenda della vergogna, onorarli sopra li maggiori del suo regno: e com’egli divisa, cosí mette ad effetto. Egli si fa disarmare, e vestito di bianchi vestimenti e sottili, si fa arrecare un ramo d’ulivo, e salito a cavallo, con quello in mano, tenta di passare nel prato tutto solo. Il passare gli è largito, ma non senza alcuna paura; e pervenuto davanti a’ cavalieri che a cavallo incontro gli venivano, maravigliandosi vede con loro lo spaventevole giovane: e certo Filocolo non ebbe maggior paura di morire veggendo intorno a sé le fiamme accese, che ebbe l’amiraglio, vedendosi colui appresso. Egli con umile e con tremante voce cominciò loro cosí a dire:
- «O chi che voi siate, vittoriosi cavalieri, vendicatori per la vostra pietá della villana morte de’ due giovani, contro a’ quali io senza ragione fui crudele, gl’iddii, i quali senza dubbio favorevoli a voi conosco, in meglio avanzino i vostri disii. Io con segno di pace in mano vengo per quella a voi, a’ quali guerra non saria stata, se conosciuti vi avessi per adietro, sí come ora conosco: piacciavi di concederlami. Voi avete tanti de’ miei cavalieri morti, che degnamente è vendicata la morte degli arsi giovani, se vostra cosa erano; e se per vendicar quelli, qui veniste, sí com’io credo, e ciò si vede, ché ’l prato, pure stamane tutto verde, ora vermiglio e pieno di morti e di feriti discerno, e ’l mare ancora per paura di voi tiene parte della mia gente annegata. E con tutto questo, se di costoro la morte per li morti non fosse ammendata, vaglia la mia umiltá in mancamento della vendetta. Gl’iddii perdonano agli uomini, e voi per esempio di loro mi perdonate».
- Rispose Ascalione all’amiraglio: «Veramente l’ira degl’iddii merita chi pace rifiuta per avere guerra, dove meritevolmente può pace cadere. Noi, vaghi della salute de’ due giovani messi nelle fiamme, qui venimmo, e trovandogli in modo che morti gli credevamo, per morire e per vendicargli combattemmo. Ma gl’iddii a loro e a noi graziosi, loro e noi di morte con vittoria ci hanno campati e salvati in vita: essi nelle fiamme vivono senza alcuna offesa. E se noi tanta gente abbiamo morta e loro riabbiamo vivi, di ciò niuna mala volontá ci dee da te essere portata, anzi ne puoi molto essere contento, pensando che l’ira degl’iddii, la quale giustamente doveva sopra te cadere per la tua ingiustizia, sopra parte del tuo popolo cadura sia. Adunque, ciò che fatto avemo, prendi in luogo di punizione per il tuo fallo, ch’avesti ardire li amici degl’iddii tentare d’uccidere col fuoco. Ora quello ch’è fatto, adietro non può tornare. Tu cerchi la nostra pace, e la tua ci profferi: noi la riceviamo, e tu prendi la nostra, e sicuro vivi, e di tanto ti facciamo certo, che, se morti fossero i due giovani, tu morresti, e la tua cittá, assalita da noi con fuoco, sarebbe consumata, e da noi uccisi tutti coloro che giunti fossero da noi, mentre la vita e la potenza ne durasse. Va adunque, e coloro cui tu facesti legare fa sciogliere, e dalla infamia, in che per la tua ingiusta opera sono corsi, in vera fama li fa ritornare, e pensa di chiara e intera pace servare. se l’ira degl’iddii e la nostra non vuogli guadagnare».
- Di ciò che Ascalione dice, si maraviglia l’amiraglio, e dubita forte, udendo le sue parole, che pace non gli sia rotta, e promette loro con ferma intenzione, per gli suoi iddii, servarla loro. E poi che con amichevoli parole fra l’una parte e l’altra hanno pace fermata, l’amiraglio, che senza modo del miracolo degl’iddii si maravigliava, vedendo il fummo e udendo parlare coloro cui morti credeva, chiamò a sé molti de’ suoi, a’ quali disarmati fu lecito di potere a lui venire, a’ quali egli comandò che ogni ingegno adoperassero che il fummo rompessero e passassero in quello, e i giovani sciogliessero. A’ quali, lieti tutti della vita di Biancofiore, apparecchiandosi di obbedire il comandamento, niuno loro ingegno o forza fu necessaria, ché Venere solvé la durezza del fummo, e, quello spandendosi, se ne salì nell’aria, lasciando i giovani intorniati dagli accesi tizzoni, tutti al popolo scoperti: e tirate le braccia indietro, con diligenza furono disciolti, e tratti quindi così freschi come rugiadosa rosa colta nell’aurora. Niuna cosa li aveva offesi, fuori che alquanto i legami, de’ quali ancora li segnali nelle dilicate carni apparivano. E furono loro di presente porti preziosi vestimenti, e Ascalione, il Duca, e Parmenione e gli altri smontati da’ debili cavalli, infinite volte abbracciandoli, e pensando al gran pericolo, appena a loro gli pareva avergli salvi, pur dimandando se alcuna cosa loro nociuto avesse. A costoro solamente Biancofiore, che di buon amore li amava, rispose, e con loro parlando e per pietá lagrimando, non avendogli di gran tempo veduti, fece festa, faccendosi maraviglia della loro virtú, vedendo il prato pieno di morti e di feriti. Furono loro apprestati i cavalli, e montati sopra essi, l’amiraglio disse: «Se vi piace, partianci da questi pianti e nella cittá andiamo a far festa, rallegrandoci di tanta grazia, quanta dagl’iddii possiamo riconoscere d’avere questo di ricevuta».
- Seguesi il consiglio dell’amiraglio, e cavalcano tutti insieme, e quelli strumenti che con guerreggevole voce uscirono dalla cittá, mutati in segno di letizia precedendo gli accompagnano. Biancofiore cavalca con Ascalione e con gli altri compagni, e con loro de’ suoi infortunii va ragionando, ora parlando con l’uno, ora parlando çon l’altro: ed essi contano a lei de’ loro insieme avuti con Filocolo. L’amiraglio appresso costoro cavalca con Filocolo, e riguardandolo nel viso e notando gli atti suoi, nel cuore nobilissimo e d’alta progenie lo stimava; e maravigliandosi di tante cose quante vedute aveva quel giorno, e vedendo per cui, ardeva di disiderio di sapere chi egli fosse, per che a Filocolo cominciò cosí a dire: «O giovane, il quale piú ch’altro puoi vivere contento, considerando la benevolenzia degl’iddii, la quale intera possiedi, secondo il mio parere, io ti priego per quel merito che tu dèi loro di tanto dono, quanto oggi t’hanno conceduto, che obliando la crudeltá che contra te, non conosciuto da me, ho oggi usata, ti piaccia dirmi chi tu se’, e onde, e come a questa giovane salisti nell’alta torre. E di ciò contentarmi non ti può nuocere, né cagione alcuna spaventarti, però che vedendo la benevolenzia degl’iddii tanta verso di te, ogni ingiuria a me fatta è perdonata, e buona pace, tra te e’ tuoi compagni e me, è fermata. Adempi adunque per la tua nobiltá il mio disio». Filocolo, udite le parole dell’amiraglio, pensò un poco, e prima che rispondesse, esaminò quello che convenevole fosse da dire, e che da tacere, e conobbe omai convenevole l’essere conosciuto, poi che acquistata ha colei, per cui il suo nome celava, e cosí gli rispose: «Signore, niuna paura mi fará tacere la veritá a voi disiderante di sapere chi io sia, e però, acciò che vi sia piú caro che io viva che se io fossi morto, piú volentieri vel dirò. Siavi adunque manifesto che io mi chiamo Florio, e per tema della fama del mio nome, divenuto pellegrino d’amore, in Filocolo il trasmutai, e cosí ora m’appellano i compagni miei, e sono nipote d’Atlante sostenitore de’ cieli, al quale Felice re di Spagna mio padre fu figliuolo. E dalla mia puerizia innamorato di Biancifiore, discesa dell’alto sangue dell’Africano Scipione, nata nelle nostre case, sì come il fortunoso caso volle, essendo ella falsamente, e di nascosto a me, venduta e qui recata, infino in questo luogo mediante molti avversi casi l’ho seguita. E sappiendo che nell'alta torre dimorava, né potendo a lei in alcun modo parlare né vederla, avendo le condizioni della torre interamente spiate, ammaestrato dalli ingegni della mia madre, a mio padre di questi paesi venuta, a cui gl’iddii ciò che seppe Medea hanno dato a sapere, in quella forma che Giove con Leda ebbe piacevoli congiugnimenti, mi mutai, e in quella torre volai, e lei dormendo, tornato io in vera forma, nelle braccia mi recai, la quale svegliata lungamente a rassicurare penai, tanto la vostra signoria dottava, non ancora cosí subito riconoscendomi. La quale, poi che conosciuto m’ebbe, davanti la bella imagine del mio signore, che sopra l’ignea colonna nella gran camera dimora, di lui faccendo Imineo, per mia sposa con letizia sposai, e con lei, dalla notte passata avanti a questa, infino a quell’ora dimorai che questa mattina lo sconcio popolo sopra mi vidi legarmi con lei, quando io mi destai».
- Quando l’amiraglio udí ricordare il re Felice e dire: ‛la mia madre venne al mio padre di questi paesi’, rimirò Filocolo nel viso e disse: «Ahi, giovane, non m’ingannare, scuopramisi la veritá intera, come promettesti, e se tu se’ figliuolo di colui cui conti, accertamene con giuramento». A cui Filocolo disse: «Signore, per dovere de’ vostri regni la corona ricevere, io non vi narrerei se non la veritá, e giurovi per la potenza degl’iddii, che oggi delle vostre mani sanza morte m’hanno tratto, ch’io sono di colui figliuolo, di cui io vi parlo». L’amiraglio non aspettando piú parole, lieto sanza comparazione, cosí a cavallo com’era, abbracciò Filocolo, e, baciatolo molte volte, disse: «O caro nipote! O gloria de’ parenti miei! O aspettabile giovane, tu sia ben venuto. Io fratello alla tua madre, non conoscendoti, oggi t’ho tanto offeso! Oh, che maladetta possa essere la mia subitezza! Oimè, perché avanti il subito comandamento non ti conobbi io? Tu saresti stato da me onorato, sí come degno. Io ho fatta, per ignoranza della tua grandezza, cosa da non dovere mai essere dimenticata né a me perdonata. Io non sarò mai lieto qualora di questo accidente mi ricorderò. Io avrei potuto dire che io piú ch’altro uomo dagl’iddii ero amato, se io avanti all’offesa t’avessi conosciuto, ben che assai di grazia m’abbiano conceduta, avendo per la loro pietá tornata indietro tanta mia iniquitá, campandoti. Tu mi sei piú che la propria vita caro. Ma certo del mio fallo parte a te si dee apporre, però che, se tu quando qui venisti, mi ti fossi appalesato come dovevi, tu, fuggendo la ricevuta avversitá, avresti il tuo disio avuto sanza fatica e sanza alcun pericolo. Tu saresti da me stato onorato sí come meritavi. L’occultare del tuo nome, e di te a me, e la subita iniquitá, mi hanno fatto contro a te villana crudeltá usare. Alla quale ammendare, considerando chi tu se’, non conosco la via: solo la tua benignitá priego che tanta cosa metta in oblio, sopra di me sodisfaccendo ogni male commesso. E da quinci inanzi, di me e del mio regno, secondo il tuo piacere, disponi, e dell’acquistata giovane co’ pericoli e con gli affanni, sí come il disio ti giudica, ne sia. La quale, avvegna che io per adietro assai ho onorata, molto piú, pensando a’ suoi magnanimi antichi, se conosciuta l’avessi, onorata avrei, ben che nimici grandissimi fossero a’ nostri per lo loro comune».
- Non fu meno caro a Filocolo dall’amiraglio essere per parente riconosciuto, che all’ammiraglio fosse, e faccendogli quella festa che a tanto uomo si convenia, gli cominciò a dire: «Signore, di ciò che oggi è avvenuto non voi siete da incolpare, ma io solamente, il quale presuntuoso oltre al dovere, non conoscendovi, tentai le vostre case contaminare. La fortuna nell’ultima parte delle sue guerre m’ha con debita paura sotto la vostra potenza voluto spaventare, e gl’iddii nel principio de’ miei beni con sommo dono m’hanno voluto dare speranza a maggiori cose. A me non è meno caro con tanti e tali pericoli avere Biancofiore racquistata, poi che sani e salvi siamo, ella e io e i miei compagni, che se con piú agevole via racquistata l’avessi. Le cose con affanno avute sogliano piú che l’altre piacere: e però tutto queste cose considerando, senza piú delle passate ricordarci, facciamo ragione che state non sieno, e delle nostre prosperitá facciamo allegrezza e festa». Consentí l’amiraglio che cosí fosse, e dimandò dello stato del vecchio re, e della sua sorella, di Filocolo madre. Filocolo gli rispose lungo tempo esser passato che di loro niuna cosa aveva udita; ma, come dolorosi della sua partita gli aveva lasciati, gli raccontò. Appressarsi a questa festa i compagni di Filocolo, e l’amiraglio conoscendo per ziano di Filocolo, come signore l’onorarono, ed egli loro come fratelli ricevette, e a Biancofiore con riverente atto delle passate cose cercò perdono, profferendolesi in luogo di fratello in ciò che fare potesse che le piacesse. Ella per vergogna il candido viso, nel quale ancora vivo colore tornato non era per la passata paura, dipinse di piacevole rossezza, ringraziandolo molto, dicendo che, appresso Filocolo, per signore il teneva. E con questi ragionamenti e con altri lieti pervennero alla cittá.
- Entrano costoro con letizia in Alessandria, e pervenuti alla real corte, scavalcano, e salgono nella gran sala, e quivi trovano Sadoc e Glorizia legati e fare grandissimo pianto. Costoro aveva l’amiraglio fatti prendere, per sapere da loro come Filocolo a Biancofiore salito fosse, per farli poi, se colpevoli fossero stati, vituperosamente morire: e giá fatto l’avria, se ’l subito furore preso per le parole d’Ircuscomos, non fosse sopravvenuto. I quali vedendo, Filocolo, mosso a debita pietá de’ loro pianti, per loro priega, e grazia dimanda che siano disciolti: e se in alcuna cosa avessero offeso, sia loro perdonato, sembianti faccendo di non conoscerli. All’amiraglio piace, e senza alcuna disdetta fattigli disciogliere, comanda che con loro insieme si rallegrino, vivendo senza alcuna pena. Cominciasi la festa grande. I due amanti di reali vestimenti sono incontanente rivestiti. E cercando giá Febo di nascondersi, declinando dal meridiano cerchio, ed essi ancora digiuni, con gli altri compagni, i quali tutti con preziosi unguenti aveano le loro piaghe curate, pigliano i cibi, e con graziosi ragionamenti infino aila notte trapassano. E quella sopravvenuta, apparecchiata a Filocolo e a Biancofiore una ricca camera, vanno a dormire, e il simigliante fa ciascuno degli altri, e l’amiraglio.
- Le notturne tenebre, dopo i loro spazii, trapassano, e Titano, venuto nell’aurora, arreca il nuovo giorno. Levansi gli amanti, e l’amiraglio e Ascalione e i suoi compagni: e venuti alla presenza di Filocolo, egli domanda di poter sacrificare, però che avanti a tutte le cose vuole i voti e le promessioni fatte per solvere. Piace all’amiraglio, e le necessarie cose s’apprestano. Visita adunque Filocolo per Alessandria tutti i templi, e quelli di mortine incorona. Egli a Giunone il toro, a Minerva la vacca, a Mercurio il vitello, a Pallade le sue ulive, a Cerere frutta e piene biade, a Bacco poderosi vini, a Marte egli e’ suoi compagni offerano le penetrate armi, e a Venere e al suo figliuolo, e a qualunque altro dio o dea celestiale o marino o terreno o infernale, offera degni doni, sopra gli altari di tutti accendendo fuochi: e ’l simigliante fa Biancofiore, e Ascalione e i suoi compagni, e con loro l’amiraglio e molti cittadini, solvendo infinite promessioni fatte a diversi iddii per la salute di Biancofiore. E adempiute le promessioni fatte da Filocolo e da Biancofiore la notte del loro lieto congiugnimento, contenti tornarono alla real casa da molti accompagnati, dove riposati con festa s’assettarono alle tavole poste, e presero gli apparecchiati mangiari, con l’amiraglio insieme.
- Fatti i sacrificii e presi i cibi, l’amiraglio chiama in una camera Filocolo e i suoi compagni, e quivi con molte parole esprime l’affettuoso amore che a Filocolo, come a caro parente, porta. Ultimamente il dimanda se suo intendimento è per vera sposa Biancofiore tenere. A cui Filocolo rispose sé mai altro non avere disiderato che Biancofiore per isposa tenere: la quale poi che gl’iddii conceduta gli hanno, mentre l’anima col corpo sará congiunta, altra che lei avere non intende. L’amiraglio, che piú per contentarlo che per riprenderlo dimorava, loda il suo piacere, e dice: «E’ non è convenevol cosa che sì alta congiunzione furtivamente sia stata fatta: e però, quando di voi piacere sia, narrando prima a’ nostri soggetti la tua grandezza, i quali forse si maravigliano dell’onore ch’io ti fo, in cospetto di loro la sposerai, e con quella festa che a tali sponsalizie si conviene, lietamente le nozze celebreremo».
- A Filocolo e a’ compagni piace tale diviso, e di ciò fare nell’arbitrio dell’amiraglio rimette, il quale volenteroso d’onorare Filocolo, comanda che i morti corpi siano levati dalla gran prateria, e data loro sepoltura, e ciascuno, lasciando ogni dolore, s’apparecchi a fare gran festa: e da il giorno a’ suoi popoli, nel quale tutti nella gran prateria vegnano, acciò che la cagione della comandata festa a tutti sia manifesta. Vanno adunque i parenti de’ morti nel sanguinoso prato, e a’ tristi busti con tacito pianto danno occulti fuochi la vegnente notte, e poi debita sepoltura. I feriti da scaltriti medici sono atati, mettendo per comandamento del signore le ricevute offese in non calere.
- Il giorno dato viene, e il vermiglio prato ritornato verde riceve la moltitudine de’ nobili e del popolo sopravvegnente in quello. L’amiraglio, che con discreto stile aveva ordinata l’alta festa, vestito di reali vestimenti e coronato d’oro, e con lui in simile forma Filocolo e Biancofiore, discende nella gran corte: è saliti sopra i gran cavalli tutti e tre, accompagnati da’ piú nobili, con canti e graziosi suoni se ne vengono al prato pieno di gente. E quivi smontati da cavallo e saliti tutti e tre in parte che da tutti poteano essere veduti, Filocolo alla destra mano e Biancofiore alla sinistra dell’amiraglio, l’amiraglio dirizzato in piè, diede segno di voler parlare, e con la mano comandò il tacere.
- Tacque ogni uomo, e con riposato silenzio si diede ad ascoltare l’amiraglio, il quale cosí cominciò a dire: «Signori, la non istabile fortuna diede co’ suoi inopinati movimenti che Biancofiore, nobilissima giovane, dell’alto sangue di Scipione Africano discesa, da noi da poco tempo in qua conosciuta, nascesse nelle reali case del gran re Felice, degli spagnuoli regni castigatore, in uno medesimo giorno con Florio qui di lui figliuolo e a me caro nipote, della quale egli ancora ne’ puerili anni, come agl’iddii delle cose che avvengono consenzienti piacque, ferventemente s’innamorò. Al cui amore, avendo avuto da’ contrarii fati invidia, fu con gran sollecitudine cercato di porre fine, e dubitando di non poter pervenire a quello che i movimenti celestiali, secondo alcuni, avvegna che non savi, incessabili, gli hanno ultimamente condotti, egli, per fuggire questo, dando fede al sottile inganno fatto per alcuno, che oltre al dovere l’odiava, consentí che al fuoco dannata fosse; dove ella pervenuta, e di sua salute incerta, fu dagl’iddii, e da costui, con mirabile aiuto soccorsa e levata da tale pericolo. La qual cosa vedendo il re, acciò che quello che pure doveva seguire non gli seguisse, lei, moltitudine di tesori venduta a’ mercatanti, diede ad intendere essere morta, la quale Florio uccidendosi aveva proposto di seguitare: ma la veritá narratagli dalla madre, a me carnale sorella, fece che rimase in vita. Ella fu qui da’ mercatanti recata, e da me, per donare al Soldano, tesori senza numero comperata, e qui da lui, molti pericoli medianti, seguita, con sottile ingegno s’argomentò di congiungere quello che il padre con tanti avvisi aveva voluto dividere. E andando per artificio mai non udito a lei nell’alta torre, con lei il trovai dormendo; e mosso a subita ira, poco mancò che con la mia spada non gli uccidessi, ma gl’iddii, a cui niuna cosa s’occulta, conoscendo che ancora da loro gran frutto doveva uscire, li difesero dal mio colpo. Ma non però mancata la mia ira, con furore li giudicai sí come voi vedeste, e quanto gl’iddii gli aiutassero, ancora vi è manifesto. Venuti adunque per tante avversità e per sì ratti pericoli com’io v’ho narrato, e aiutati in tutto dagl’iddii, disiderano sotto la nostra potenza di congiugnere quell’amore che insieme si portano per matrimoniale legame. La qual cosa conoscendo noi che degl’iddii è veramente piacere, abbiamo voluto che voi siate presenti, e rallegrandovi di ciò di che gl’iddii si rallegrano, ciascuno secondo il suo grado faccende festa li onori, considerando che l’uno figliuolo è di re, e la sua testa è a corona promessa, e l’altra d’imperiale sangue è discesa». Tacque l’amiraglio, e le trombe e molti altri strumenti sonarono, e le voci del popolo grandissime nelle lode dell’amiraglio e de’ novelli sposi toccarono le stelle.
- Mancati i romori e riavuto il silenzio, vennero i sacerdoti con vestimenti atti a’ sacrificii, e recate le imagini dei santi iddii nella presenza e dell’amiraglio e de’ novelli sposi e di tutto il popolo, coronati di liete frondi, invocando prima con pietose voci Imeneo e poi la santa Giunone, e qualunque altro iddio, che grazioso principio e mezzo e fine dovessero concedere al futuro matrimonio, e con eterna pace e unita tenerli congiunti, la seconda volta l’anello fecero dare a Biancofiore: e sonati varii strumenti, e molti canti, di festevole romore riempirono l’aere.
- Cominciasi la festa grande, e lo sconfortato popolo si comincia a rallegrare, contento che tanto uomo sia per l’aiuto degl’iddii da si turpe morte campato. Niun tempio è senza fuoco. Niuna ruga è scoperta, ma tutte, di bellissimi drappi coperte, e d’erbe e di fiori giuncate, danno piacevole ombra. Niuna parte della cittá è senza festa, e infino al prato niuno potrebbe un passo muovere senza avere di gran quantitá di festanti graziosa compagnia. Ordinansi giuochi, e molte compagnie sotto diversi segnali fanno diverse e belle feste. I mangiari copiosamente dati danno materia di piú festa. L’amiraglio per amore di Biancofiore comanda che alle vaghe donzelle, alle quali mai non fu lecito uscire dalla torre, sia aperto, ed esse liete vengano con la loro compagnia a festeggiare. Discendono tutte, e date le destre a Biancofiore, con lei si rallegrano, dandosi lieti baci in segnale di vero amore. La festa multiplica nel prato, e gli amorosi canti e li diversi suoni occupano l’aere, sí che alcun’altra cosa non vi si può udire. Quel luogo, adunque, che alla loro morte poco avanti fu statuito, è ora ad esaltamento della loro vita determinato. Quel luogo, ove ardente fuoco per consumarli era acceso, ora d’odoriferi liquori tutto inaffiato porge diletto a’ festeggianti. Quel luogo, ove pochi giorni inanzi gli uomini armati la morte ora di questi ora di quelli cercavano, ora pieno di pace, di concordia e d’allegrezza vi si festeggia. Quel luogo che poco inanzi era pieno di sangue e d’uomini morti e di pianti, ora di canti e di lieti suoni e di festanti uomini e donne si sente risonare. Rivolta ogni cosa in contrario la mutata fortuna, le molte damigelle, che davanti per la morte di Biancofiore facevano gran pianto, ora cantando della sua vita si rallegrano. Che piú brievemente si può dire, se non che: ‛chi ha il male se ’l piange ’? E gli altri, come se stato non fosse niente, con intero animo festeggiano, dilettandosi di piacere a’ novelli sposi e d’onorarli.
- Questo giorno servirono alla mensa de’ novelli sposi nobili baroni e assai: nel quale Feramonte, duca di Montorio, ricordandosi d’aversi vantato al pavone di dovere Biancofiore, il giorno della festa delle sue nozze, della coppa servire, all’amiraglio di grazia cotal dono dimandò e fugli conceduto, per che quel giorno, e quanto la festa durò, graziosamente di tale uficio con riverenzia la servi. A quella mensa furono molti grandi e alti presenti da parte dell’amiraglio, di Dario e d’altri grandi uomini del paese portati, e da parte di Sadoc la gran coppa con quegli bisanti e con molti altri gioielli fu recata: di che Filocolo lui e gli altri ringraziò debitamente, e a tutti li donatori secondo la loro grandezza convenevolmente donò.
- Giá il sole minacciava l’occaso, quando all’amiraglio e a Filocolo parve di tornare alla cittá, ma Parmenione che d’addestrare Biancofiore a casa del novello sposo s’era al pavone vantato, non essendogli uscito di mente, vestito con Alcibiade figliuolo dell’amiraglio, e con alcuni altri giovani nobili della cittá, di drappi rilucentissimi e gravi per molto oro, al freno di Biancofiore vennero, e quella infino al real palagio addestrandola accompagnarono, dove ella, con festa tale ch’ogni comparazione vi saria scarsa, fu ricevuta.
- Menedon che la sua promessa non aveva similmente messa in oblio, dimandato all’amiraglio compagni, e da lui molti nobili giovani della cittá ricevuti, con vari i vestimenti di seta, sopra correnti cavalli, di simile vesta coperti, piú volte mentre la festa durò, quando con bagordi e quando con bandiere, e co’ cavalli, tutti risonanti di tintinnanti sonagli, armeggiando, onorevolmente la festa esaltò. Ascalione volonterosamente il suo voto avrebbe fornito, ma, non guarito ancora delle ferite ricevute alla passata battaglia, alle gran prove, di che vantato s’era, non avrebbe potuto resistere: però, comandandolo Biancofiore, se ne rimase. Massalino similmente, lontano a’ suoi regni, non poté li suoi voti allora adempiere, ma riserbogli a fornire nella loro tornata in Marmorina.
- Contenti adunque Filocolo e Biancofiore della mutata fortuna, nella gran festa piú giorni lieti dimorarono, ringraziando con pietose lode gl’iddii che da gran pericolo a salutevole porto gli avevano recati e posto avevano alle loro fatiche fine, disiderando omai di tornare lieti al vecchio padre.
- LIBRO QUINTO
- Aspro guiderdone porgevano i cieli sopra i parenti di Filocolo per le loro operazioni. Essi, per la partita di lui rimasi con dolore inestimabile, spendevano li loro giorni in lagrime e in prieghi: la superflua malinconia di loro medesimi faceva loro perdere ogni sollecitudine. I reali visi, con miserabile aspetto, mostravano avere la dignitá perduta. I pianti avevano inasprite le guancie, e il dolore aveva congiunta la dolente pelle con l’ossa. E i capelli e la barba piú bianchi che non solevano, davano de’ pensieri e degli affanni convenevoli testimonianze; e i vestimenti oscuri, portati piú lunga stagione che la loro grandezza non dava, non lasciavano loro né altri rallegrare. Essi, ben che co’ corpi ne’ loro palagi dimorassero, seguivano con la mente il caro figliuolo, faccendo del suo cammino diverse imaginazioni, sempre temendo. Non udivano alcuna novella da alcuna parte, che essi di lui non dubitassero: e gl’infiniti pericoli ne’ quali i pellegrinanti possono incappare, tutti per lo petto loro si rivolgevano, con paura non forse in alcuno incappasse il loro figliuolo. Similemente dubitando del luogo dove la sua Biancofiore ritrovasse, non forse fosse tale che grave danno ne gl’incontrasse, o che, non potendola riavere, di dolore morisse, o disperato a loro mai non reddisse: e quasi di lui senza alcuna speranza di bene viveano, vedendo o con imaginazione o per visione quasi ciò che nel suo cammino gli avvenne. questo consentivano gl’iddii, perché piú multiplicando il loro dolore, piú fossero degnamente della loro nequizia puniti. E a questa miseria e doglia avevano per compagnia tutto il loro reame, il quale, in desolazione dimorando, dubitava della morte del vecchio re, non sappiendo che consiglio pigliarsi, dopo quello, per la vedova corona, poi che a loro perduto pareva avere Florio.
- Era giá il decimo mese passato, poi che Filocolo ricevuto aveva per sua la disiata Biancofiore, e il dolce tempo ritornato cominciava a rivestire i prati e gli arbori delle perdute fronde, avendo Febo toccato il principio del Montone, quando a Filocolo tornò nella memoria l’abbandonato padre e la misera madre, e fu di loro da degna pietá costretto. Egli vedendo il tempo grazioso a navicare, propose di tornare a rivedere li suoi parenti con la cara sposa, e rendere loro con la sua tornata la perduta allegrezza. Nel qual proponimento dimorando, un giorno chiamò a sé l’amiraglio e Ascalione e gli altri suoi compagni e amici, e il suo proponimento a tutti fece palese. I compagni il lodarono, ma l’amiraglio, che di buon amore l’amava, e gli pareva grave tale ragionamento, pensando che acconsentendolo, la partita di Filocolo ne seguiva, rispose cosí: «Ogni tuo piacere m’è a grado, ma dove esser potesse, assai mi saria il tuo rimanere piú grazioso, avvegna che a tanto uomo io non sia possente di dare tale onorevole grado quale si converria, ma quello che io potessi, senza infingermi, volentieri doneria. A cui Filocolo rispose: «Io non dubito che piú ch’io sia degno non sia da voi onorato, ma il conosco, e sentomene obbligato sempre a voi; e dove e’ non fosse il debito amore che mi strigne a rivedere i vecchi parenti, e con la mia tornata rendere a loro la perduta consolazione, e similmente visitare i miei regni, li quali senza conforto stanno, credendomi aver perduto, io in niuna parte sí volentieri dimorerei come in questa, e massimamente con voi, da cui, appresso agl’iddii, la vita e l’onore e il bene e la mia Biancofiore, la quale io sopra tutte le cose disiderai e amo, riconosco». «Adunque» disse l’amiraglio, «il vostro piacere farete, e non che a questo io vi storni, ma confortare vi deggio, e cosí farò: ché giusta cosa è che delle sue cose ogni uomo si rallegri piú che gli strani.» Disse adunque Filocolo: «Comandate che la nostra nave sia racconcia, acciò che, quando i venti al nostro viaggio saranno, possiamo con la grazia degl’iddii intendere al navicare».
- Poi che l’amiraglio vide la volontá di Filocolo, egli comandò che la sua nave fosse acconcia e tutta di nuovi corredi guernita, e in compagnia di quella molte altre ne fece apprestare. Venne il proposto giorno della partenza: il mare imbiancava per li ripercossi remi, e mostrava poche delle sue acque, in quella parte occupato da molti legni; e il romore de’ naviganti, che cercavano di partirsi, e delle acque e de’ suoni, riempieva l’aere. Filocolo, che con violate vele e vestimenti era li co’ suoi compagni venuto, comandò che, levati quelli via, s’adornassero di bianchi, e fece inghirlandare i templi e dare sacrificii agl’iddii, mescolati con prieghi, che benevoli loro facessero i venti e le marine onde, e lui e’ suoi con perfetta salute perducessero a’ disiderati luoghi. E giá l’occidentale orizonte aveva ricoperto il carro della luce, e le stelle si vedevano, quando il vento piú fresco venne, per che a’ marinari parve di partirsi. E saliti sopra l’acconcia nave, chiamarono Filocolo, il quale con grandissima compagnia e d’uomini e di donne a’ marini liti pervenne, e quivi con pietoso viso e animo pervenuto, dall’amiraglio prese congedo, prima de’ ricevuti beneficii rendendogli debite grazie, e appresso da Alcibiade, da Dario e da Sadoc, a lui carissimi amici, s’accomiatò, e salito sopra la bianca nave, da questi tutti con lagrime si partí. Biancofiore e Glorizia salirono appresso a Filocolo, le quali Bellisano, Ascalione, il duca e gli altri compagni di Filocolo, tutti avendo a coloro che rimanevano porte le destre mani e detto addio, seguirono. E cosí tutti ricolti, l’una parte pigliò il mare, e l’altra la terra, e gli animi che per lunga consuetudine e per eguali costumi erano divenuti uno, tennero luogo in mezzo la distanza, riscontrandosi quasi partiti da’ corpi che si divisero.
- La fortuna pacificata a’ due amanti, e i fati recati ad effetto i piaceri degl’iddii, concedettero graziosi venti alle volanti navi. Alle quali, poi che i remi perdonarono al mare, furono date le bianche vele, né prima si calarono che i porti di Rodi l’ebbero in sé raccolte, dove, ad istanzia de’ prieghi di Bellisano, Filocolo e Biancofiore e i compagni discesero a terra, e quivi da lui, piú volenteroso che potente, magnificamente furono onorati: e non solamente da lui, ma da tutti i paesani per amor di lui ricevettero volenteroso onore. Piacque a Filocolo il partirsi, lodando che i beni della fortuna fossero da tòrre quando gli concede. Bellisano s’apparecchiò di seguirlo, ma Filocolo, conoscendolo attempato e di riposo bisognoso piú che d’affanno, ringraziandolo, con prieghi il fé rimanere non senza molte lagrime. Filocolo, disiderando d’adempiere la promessa fatta a Sisife, comandò che l’estrema punta di Trinacria fosse con la prora de’ suoi legni cercata: le vele si tendono, e i timoni fanno alle navi segare le salate acque con diritto solco verso quella parte, aiutandole il secondo vento. E in pochi giorni, lasciatisi indietro gli orientali paesi, pervennero al dimandato luogo: e date le poppe in terra, con brievi scale scesero sopra le secche arene. E venuti al grande ostiere di Sisife, da lei onorevolmente e con viso pieno di festa ricevuti furono. Ella niuna parte di potere si riserbò ad onorargli, anzi ancora sforzandosi le pareva far poco. E dimorata con loro in graziosa festa piú giorni, e sentendo che per matrimoniale legge erano i due giovani congiunti, cioè la cercata e il cercatore, cui essa, secondo le parole di Filocolo, fratello e sorella stimava, si maravigliò, e con umile preghiera dimandò che in luogo di singulare grazia, come ciò fosse, le fosse scoperto. A’ cui prieghi Filocolo con riso rispose: e prima chi essi erano, e il loro amore insieme con gli infortunii brevemente narrò, nella quale narrazione il suo pellegrinare, e la cagione della nascosa veritá, e ciò che avvenuto gli era, poi che da lei si parti, si contenne. Le quali cose sentendo Sisife, ripiena non meno di pietá che di maraviglia, lieta ringraziò gl’iddii che dopo tanti affanni in salutevole porto gli aveva condotti. Adunque dimorati quivi quanto fu il piacere di Filocolo, e a lei cari doni da Biancofiore donati, e con profferte grandissime, dall’una all’altra fatte, si partirono. E Biancofiore dietro a Filocolo, sopra l’usata nave, che giá aveva i ferri tolti agli scogli, risalí, né prima vi fu suso che Filocolo comandò che verso l’antica Partenope si pigliasse il cammino. Il quale preso da’ marinari, avanti che il terzo sole nel mondo nascesse, nella cittá pervennero, e in quella, scesi a terra, entrarono: e con egual piacere di tutti determinarono di finire il rimanente del cammino senza navigare. Per che fatti porre in terra i ricchi arnesi e i grandi tesori, e quegli uomini che a Filocolo piacque di ritenere, comandò che alla bella cittá di Marmorina ne andassero, e di lui e de’ compagni e della loro tornata vere novelle portassero al vecchio re e ad ogni altro loro amico e parente.
- Rimasero Filocolo e i suoi compagni, partite le navi, sopra il grazioso lito, nella ricca cittá molti giorni prendendo diletto, e da’ cittadini onorati, e pieni di grazia nel cospetto di ciascuno. Ma perciò che nelle virtuose menti ozioso perdimento di tempo non può con consolazione d’animo passare, Filocolo con la sua Biancofiore cercarono di vedere i tiepidi bagni di Baia, e i vicini luoghi, e l’antica sepultura di Miseno, donde ad Enea fu largito l’andare a vedere le regioni de’ neri spiriti e del suo padre; e cercarono i guasti luoghi di Cuma, e ’l mare, le cui rive, abbondevoli di verdi mortelle, Mirteo il fanno chiamare, e l’antico Pozzuolo, con le circustanti anticaglie, e ancora quante cose mirabili in quelle parti le reverende antichitá per gli loro autori rappresentano: e in quel paese traendo lunga dimoranza, niuno giorno li tenne a quel diletto, che l’altro davanti li avea tenuti. E tal volta guardando l’antiche maraviglie, venne loro negli animi come gli autori di quelle diventarono magni. Tal volta nei soavi liquori gli affannati corpi rinfrescavano, e alcuna fiata con piccola navicella solcavano le salate acque, e con maestrevole rete pigliavano i paurosi pesci; e spesse volte agli uccelli dell’aere non paurosi, con piú potenti di loro davano incalzamenti dilettevoli a’ riguardanti. E alcun giorno li ritenne ne’ ramosi boschi, con leggieri cani e con armi seguitando le timide bestie, poi alli loro ostieri tornando, dove in canti con dolci suoni di diversi strumenti spendevano il tempo, che al sonno e al prendere de’ cibi avanzava loro. In questa maniera molti giorni dimorando, uno di quelli avvenne che essendo Filocolo co’ suoi compagni entrato in un dilettevole boschetto, seguito da Biancofiore e da molti altri giovani, con lento passo, davanti a loro, picciolissimo spazio, senza esser cacciato, si levò un cervo: il quale come Filocolo il vide, preso delle mani d’uno dei suoi compagni un dardo, correndo cominciò a seguitare, e giá parendogli essere al cervo vicino, s’aperse nelle braccia, e vibrando il dardo, col forte braccio quello lanciò, credendo al cervo dare; ma tra il cervo e Filocolo era quasi per diametro posto un altissimo pino, nella stremita del cui duro pedale il dardo percosse, e con la sua forza un pezzo della dura corteccia scrostò dall’antico pedale, egli ed ella assai a quello vicini cadendo: alla quale sangue con dolorosa voce venne appresso, non altrimenti che quando il pio Enea del non conosciuto Polidoro, sopra l’arenoso lito, levò un ramo, e disse: «O miserabili fati, io non meritai la pena ch’io porto, e voi non contenti ancora mi stimolate con punture mortali! Oh, felici coloro, a cui è lecito il morire, quando quello addomandano!«. E qui si tacque. Questa voce il veloce corso di Filocolo e de’ suoi compagni, quasi tutti pieni di paura e di maravíglia, ritenne, e quasi storditi stavano riguardando, non sappiendo che fare; ma dopo alquanto Filocolo con pietosa voce cosí cominciò a dire: «O santissimo arbore, da noi non conosciuto, se in te alcuna deitá si nasconde, come crediamo, perdona alle non volonterose mani de’ tuoi danni: caso, non deliberata volontá ci fece offendere. Purghi la tua pietá il nostro difetto, i quali presti ad ogni sodisfazione, temendo la tua ira, siamo disposti». Soffiò per la vermiglia piaga alquanto il tronco, e poi il suo soffiare convertendo in parole, cosí rispose: «Giovani, nulla deitá in me si richiude, la quale se si richiudesse, i vostri pietosi prieghi avriano forza di piegarla a perdonarvi: dunque, maggiormente me, il quale senza forza di vendicarmi dimoro, disideroso della grazia non tanto degli uomini, quanto ancora delle fiere, con ciò sia cosa che ciascuno nuocere mi possa, e noccia tal volta, né io possa piú nuocere, però bastimi per sodisfazione il vostro pentère, né vi sia questo dagl’iddii imputato in colpa». Seguí a questa voce Filocolo: «Dunque, o giovane, se gl’iddii e gli uomini e le fiere ti siano graziosi e i tuoi rami con pietosa sollecitudine conservino interi, non ti sia noia dirci chi tu se’, e per che qui relegato dimori». Cosí rispose il pedale: «L’amaritudine, che la dolente anima sente, non può tòrre che a’ vostri prieghi non sia sodisfatto, perché tanto è dalla dolcezza di quelli legata, che posponendo l’angoscia, disiderosa di piacervi, vuole che io vi risponda, e però cosí brievemente vi dirò. La genetrice di me misero, mi diè per padre un pastore chiamato Eucomos, i cui vestigi quasi tutta la mia puerile etá seguitai; ma poi che la nobiltá dello ingegno, del quale natura mi dotò, venne crescendo, torsi i piedi dal basso colle, e sforzandomi per piú aspre vie di salire all’alte cose, avvenne che, per quelle incautamente andando, nelle reti tese da Cupido incappai, delle quali mai sviluppare non mi potei: di che con ragione dolendomi, per miserazione degl’iddii, in quella forma che voi mi vedete, per fuggire peggio, mi trasmutarono». E qui si tacque.
- Poi che Filocolo sentí la dolente voce aver posto silenzio, e giá Biancofiore con sua compagnia essere sopravvenuta, egli ricominciò cosi: «Se quella terra, che noi calchiamo, lungamente alle tue radici presti giazioso umore, per lo quale esse diligentemente nutrite le tue fronde nutrichino e a’ tuo! rami aggiungano copiosa quantita de’ tuoi pomi, e se il tuo pedale sia lungamente dalla tagliente scure difeso, non ti sia duro ancora parlarne e farne noto donde fosti, e il tuo nome, e come qui venisti, e per che modo nelle reti d’amore incappasti, e qual fu la cagione, e perché di lui dolendoti, poi in questo albero, piú che in un altro, ti trasformasti, e per cui, acciò che se il tuo corpo e la cara anima nascosi nella dura scorza non possono la tua fama far palese, noi sappiendo la verità da te, di te possiamo quella debitamente raccontare agl’ignoranti, i quali forse, udendo le nostre parole, mossi con noi a debita pietà, per te pietosi prieghi porgeranno agli iddii, e cosi la tua pena si mitighi, e la tua fama s’allunghi e si dilati». Come, quando Zefiro soavemente spira, si sogliono le tenere sommità degli arbori muovere per li campi, l’una fronda nell’altra ferendo, e di tutte dolce tintinnio rendendo, in tale maniera tutto l’arbore tremando si mosse a queste parole, e poi con voce alquanto più che la precedente pietosa ricominciò: «Io non ispero che mai pietà possa per sua forza mollificare ciò che crudeltà ingiustamente ha indurato; ma però che quello che io per fare troppa fede sostegno, non sia creduto che per mio peccato m’avvegna, e per la dolcezza de’ vostri prieghi, che maggior guiderdone meritano che quello che dimandano, parlerò e ciò che disiderate di sapere vi chiarirò. Ma però che senza molte parole ciò che domandato avete, dire non vi posso, vi priego che, se gl’iddii da simile avvenimento vi guardino, duro non vi sia alquanto il mio lungo dire ascoltare.
- Nella fruttifera Italia siede una picciola parte di quella la quale gli antichi, e non immerito, chiamarono Tuscia, nel mezzo della quale, quasi fra bellissimi piani, si leva un picciol colle, il quale l’acque, vendicatrici della giusta ira di Giove, quando i peccati di Licaone meritarono di fare allagare il mondo, vi lasciò, secondo l’opinione di molti, la quale reputo vera, per ciò che ad evidenzia di tale verità si mostra il picciolo poggio pieno di marine conchiglie, né ancora si possono sì poco né molto le interiora di quello ricercare, che di quelle biancheggianti tutte non si trovino, e similemente i fiumi a quello circustanti, più veloci di corso che copiosi d’acque, le loro arene di queste medesime conchiglie dipingono. Sopra questo pasceva Eucomos la semplice mandra delle sue pecore, quando chiamato assai vicino fu a quell’onde, le quali i cavalli di Febo, passato il meridiano cerchio, con fretta disiderano per alleviare la loro ardente sete e per riposo: ov’egli andò, e quivi la mansueta greggia di Franconarcos, re del bianco paese, gli fu raccomandata, la quale egli con somma sollecitudine guardò. Aveva il detto re di figliuole copioso novero, di bellezze ornate e di costumi splendide, le quali insieme un giorno, con grandissima caterva di compagne mandate dal loro padre, andarono a porgere odoriferi incensi a un santo tempio dedicato a Minerva, posto in un antico bosco, avvegna che bello d’arbori e d’erbe e di fiori fosse. Esse, poi che il comandamento del padre ebbero ad esecuzione messo, essendo loro del giorno avanzato gran parte, a fare insieme festa per lo dilettevole bosco si dierono. A questo bosco era vicino Eucomos, sopra tutti i pastori ingegnosissimo, con l’accomandata greggia, il quale nuovamente colle proprie mani avendo una sampogna fatta che piú ch’altra dilettevole suono rendeva agli uditori, ignorante della venuta delle figliuole del suo signore, essendo allora il sole piú caldo che in alcun’altra ora del giorno, aveva le sue pecore sotto l’ombra d’un altissimo faggio raccolte, e, diritto appoggiato ad un mirteo bastone, questa sua nuova sampogna con gran piacere di sé sonava, e non di meno alla dolcezza di quella le pecore facevano mirabili giuochi. Questo suono udito dalle vaghe giovani, senza alcuna dimoranza corsero quivi, e poi che per alquanto spazio ebbero ricevuto diletto, e del suono e della veduta delle semplici pecore, una di loro chiamata Gannai, fra l’altre speziosissima, chiamò Eucomos, pregandolo che a loro col suo suono facesse festa, di ciò merito promettendogli. Egli il fece. Piacque a loro, e tornarono piú volte a udirlo. Eucomos assottiglia il suo ingegno a piú nobili suoni, e sforzasi di piacere a Gannai, la quale, piú vaga del suono che alcuna dell’altre, l’incalza a sonare. Corre agli occhi di Eucomos la bellezza di lei con grazioso piacere: a questa si aggiungono li dolci pensieri. Egli in se medesimo loda molto la bellezza di colei, e stima beato colui cui gl’iddii faranno degno di possederla, e disidererebbe, se possibile essere potesse, d’essere egli. Con questi pensieri, Cupido, sollecitatore delle vagabonde menti, disceso da Parnaso, gli sopravvenne, e per le rustiche midolle tacitamente mescolò i suoi veleni, aggiungendo al disiderio subita speranza. Eucomos si sforzava di piacere, e per lo nuovo amore la sua arte gli dispiaceva, ma pure discerneva non convenevole essere a lasciarla. Senza sapere come, i suoi suoni pieni di piú dolcezza ciascun giorno diventavano, sí come aumentati di sottigliezza da migliore maestro: l’ardenti fiamme d’amore lo stimolavano; per che egli, nuova malizia pensata, propose di metterla in effetto, come Gannai venisse piú ad ascoltarlo. Non passò il terzo giorno, che la fortuna, acconciatrice de’ mondani accidenti, conscia del futuro, sostenne che Gannai, sola delle sorelle, con picciola compagnia, né da lei temuta, semplicemente venne al luogo ove Eucomos era usata d’udire, e supplicollo, con prieghi di maggiore grazia degni, che egli sonasse: e fu obbedita. Ma il pastore malizioso con la bocca suonava e con gli occhi disiderava, e col cuore cercava di mettere il suo disio ad effetto: per che, poi ch’egli vide Gannai intentissima al suo suono, allora con lento passo mosse la sua greggia, ed egli dietro ad essa, e con lenti passi pervenne in un’ombrosa valle, ove Gannai il seguí: e quasi prima dall’ombra della valle si vide coperta che essa conoscesse avere i suoi passi mossi, tanto la dolcezza del suono le aveva l’anima presa! Quivi vedendola Eucomos, gli parve tempo di scoprirle il lungo disio, e, mutato il sonare in parole vere e dolci, il suo amore le scoperse, a quelle aggiungendo lusinghe e impromesse, e cominciolle a mostrare che questo molto saria nel cospetto degl’iddii grazioso, se ella il mettesse ad effetto, però che egli saria a lei, sí come suo padre alla sua madre era stato: e nondimeno le promise che mai il suo suono ad altrui orecchie che alle sue pervenire non faria, se non quanto ad essa piacesse: molte altre cose aggiungendo alle sue promesse. Gannai prima si maravigliò, e poi temette, dubitando forte non costui forza usasse, dove le dolci parole e i prieghi non le fossero valute: e udendo le ingannatrici lusinghe, semplice le credette, e sol per suo pegno prese la fede dal villano, che come alla sua madre il suo padre era stato, cosí a lei sarebbe, e a’ suoi piaceri nella profonda valle consentí, dove due figliuoli di lei generò, de’ quali io fui l’uno, e chiamommi Idalagos. Ma non lungo tempo quivi, ricevuti noi, dimorò, che, abbandonata la semplice giovane e l’armento, tornò ai suoi campi, e quivi appresso noi si tirò, e non guari lontano al suo natal sito, la promessa fede a Gannai, ad un’altra, Garamirta chiamata, ripromise e servò, di cui nuova prole dopo picciolo spazio di tempo ricevette. Io semplice e lascivo, sí come giá dissi, le pedate dello ingannator padre seguendo, e volendo un giorno nella paternale casa entrare, due orsi ferocissimi e terribili mi vidi avanti con gli occhi ardenti, disiderosi della mia morte, de’ quali io dubitando volsi i passi miei, e da quella ora inanzi sempre l’entrare in quella dubitai. Ma acciò che io piú vero dica, tanta fu la paura, che, abbandonati i paternali campi, in questi boschi venni l’apparato uficio ad operare: e qui dimorando, con Calmeta, pastore solennissimo, a cui quasi la maggior parte delle cose era manifesta, pervenni a piú alto disio. Egli un giorno, riposandoci noi col nostro peculio, con una sampogna sonando, cominciò a dire i nuovi mutamenti e gl’inopinabili corsi dell’inargentata luna, e qual fosse la cagione del perdere e dall’acquistar chiarezza, e perché tal volta nel suo epiciclo tarda e tal veloce si dimostrasse; e con che ragione il centro del cerchio il suo corpo portante, all’ora due volte circuisce il deferente, il suo centro movente intorno al piccolo cerchio, ch’ell’è, quant’è una; e da che natura potenziata la virtú dell’uno pianeta all’altro portasse, e similmente i suoi dieci vizi, seguendo di Mercurio e di Venere con debito ordine i movimenti. E appresso con dolce nota la dorata casa del sole disegnò tutta, non tacendo de’ suoi eclissi e di quelli della luna le cagioni, mostrando come da lui ogni altra stella piglia luce, e cosí essere necessario, a volere i luoghi di quelle sapere, prima il suo conoscere; mostrando del rosseggiante Marte, del temperato Giove e del pigro Saturno una essere la regola a cercare i luoghi loro. E mostrato con sottile canto interamente le loro regioni, e quali in quelle a loro fossero piú degne dimoranze e più care, passò cantando al nido di Leda, e in quello, da vero principio cominciando, prima del Montone Frisso disse, e delle sue stelle, e quali gradi in quello, quali masculini, quali feminini, quali lucidi, quali tenebrosi, quali plutei, quali azemeni, e quali aumentanti la fortuna fossero, dimostrò: e similmente di qual pianeta fosse casa, e quale in esso s’esaltasse la triplicità, e li termini di ciascuno in quello, e le tre facce. Questo ancora mostrando del sacrificato Tauro da Alcide per la morte di Caco, e de’ due fratelli di Clitennestra, nella fine de’ quali l’estivale solstizio comincia, e con quel medesimo ordine del retrogrado Cancro cantò. E del feroce Leone, e della Vergine onesta, nella fine della quale il coluro di Libra, equinozio facente, disse incominciare: e di lei cantò come degli altri avea cantato; mostrando nella sua fine la combustione avvenuta per lo malvagio reggimento del carro della luce usato da Fetonte, spaventato dall’animale uscito dalla terra a ferire Orione: la cui prima faccia, come di Libra l’ultima, fu combusta, di lui seguendo, come di quella aveva detto, e di Chirone Aschiro seguitando, nella fine di cui pose lo iemale solstizio. Poi cantando della nutrice di Giove, e del suo Pincerna, e de’ Pesci, da Venere nel luogo ove dimorano situati, dicendo nella fine di quelli il coluro d’Ariete cominciarsi insieme con lo equinozio del detto segno; mostrando appresso cosí de’ pianeti, come de’ segni le complessioni e i sessi e e potenze determinate negli umani membri, e come alla loro signoria prima in sette, e poi in dodici parti sia tutto il mondo diviso, cosí quello che sotto i sette climati s’abita, come l’altro. Con questo dicendo la variazione delle loro elevazioni pe’ diversi orizonti, e che legge da loro sia servata nel ritondo anno, mutando i tempi. E con non meno maestrevole verso l’udii, dopo questo, cantare e dimostrare nel suo canto come Calisto e Cinosura presso al polo artico dimorassero, faccendo cenit alle maggiori notti, e assegnare la cagione per che le loro stelle in mare non possono né siano lasciate da oceano come l’altre bagnare. E seguitò dove Boote, e la corona di Adriana, e Alcide vincitore dell’alte prove fossero locati; e senza mutar nota cantò del Corvo, per la recante acqua mandato da Febo, il quale, per lo soperchio tempo mosso ad aspettare i non maturi fichi, meritò per la bella bugia, egli con l’apportato Serpente e con la Cratera d’oro, essere in cielo dal mandatore locati, e ornati di piú belle stelle. E insieme con questo, raccontò il luogo ove è colei che la palma delibuta porta, e dove il Portatore del Serpente e Eridano e la paurosa Lepre co’ due Cani dimorassero. Cantando poi del nibbio, il quale le interiora del toro fatato, ucciso da Briareo, portò al cielo, ove egli fu da Giove locate e adornato di nove stelle, seguendo appresso di Eridano, di Sagitta, e d’Auriga i luoghi, e dell’australe corona; movendo con piú soave suono, come Arione, cantante sopra il portante Delfino, fuggi il mortal pericolo, e poi pe’ meriti dell’uno e dell’altro meritassero il cielo, e qual parte di esso; e dove il Cavallo non intero, e la Nave che prima solcò il non usato mare dimorassero, dimostrò; e ’l segno, e la gloria di Perseo, e ’l suo luogo, e con la testa del Gorgone, e dell’Idra, crescente per li suoi danni, e il luogo del vaso. E rimembromi che disse ancora del Centauro, e del celestial Lupo, di dietro a’ quali del Pesce i luoghi dimostrò con quelli di Cefeo, e del Triangolo, e del Ceto, e d’Andromeda, e del Pegaseo Cavallo; passando dietro a questi dentro alle regioni degl’iddii con piú sottil canto del suo suono. Queste cose ascoltai io con somma diligenza, e tanto dilettarono la rozza mente, ch’io mi diedi a voler conoscere quelle, e non come arabo, ma seguendo con istudio il dimostrante: per la qual cosa il divenire esperto meritai. E giá abbandonata la pastorale via, del tutto a seguitar Pallade mi disposi, le cui sottili vie ad imaginare, questo bosco mi prestò agevoli introducimenti, per la sua solitudine. Nel quale dimorando, m’avvidi lui essere alcuna stagione dell’anno, e massimamente quando Ariete in sé il Delfico riceve, visitato da donne, le quali piú volte, lente andando, io con lento passo le seguitai, di ciò agli occhi porgendo grazioso diletto continuamente i dardi di Cupido fuggendo, temendo non forse ferito per quelli in detrimento di me aumentassi i giorni miei: e disposto a fuggire quelli, prima alla cetara d’Orfeo, e poi ad essere arciere mi diedi, e prima con la paura del mio arco, del numero delle belle donne, le quali giá per lunga usanza tutte conoscea, una bianca colomba levai, e poi fra’ giovani arboscelli la seguii con le mie saette piú tempo, vago delle sue piume. Né per non poterla avere né per malinconia si tolse il core, che piú del suo valore che d’altro si dilettava, dallo studio di costei seguire. Dal luogo medesimo levatasi mi tolse una nera merla, la quale movendo col becco rosso modi piacevoli di cantare, oltre modo disiderare mi si fece, non però in me voltandola le mie saette, e piú volte fu ch’io credetti quella ritogliere negli apparecchiati seni. E di questo intendimento un pappagallo mi tolse, dalle mani uscito d’una donna della piacevole schiera. A seguitar costui si dispose alquanto piú l’animo, ch’alcuno degli altri uccelli, il quale andando le sue verdi piume ventilando, fra le frondi del suo colore agli occhi mi si tolse, né vidi come. Ma il discreto arciere Amore, che per sottili sentieri sottentrava nel guardingo animo, essendo rinnovato il dolce tempo, nel quale i prati e i campi e gli alberi partoriscono, andando le donne all’usato diletto, fece dal piacevole coro di quelle una fagiana levare, la quale, io per le cime de’ piú alti alberi con gli occhi andando dietro alla vaghezza delle variate penne, prese tanto l’animo a piú utili cose disposto, che, dimenticando quelle, a seguitare questa tutto si dispose, non risparmiando arte, né saetta, né ingegno per lei avere. Sentendo il puro core giá tutto degli amorosi veleni lungamente fuggiti contaminato, allora conoscendomi preso in quel laccio dal quale molto con discrezione m’era guardato, mi rivoltai, e vidi il numero delle belle donne essere d’una scemato, la quale io avanti avendola tra esse veduta, piú che alcuna dell’altre aveva bella stimata. Allora conobbi l’inganno da Amore usato, il quale, non avendomi potuto come gli altri pigliare, con sollecitudine d’altra forma mi prese, prima con diversi disii disponendo il cuore per farlo abile a quello. E rivolgendomi sospirando alla fagiana, la donna, che al numero delle altre fallava, di quella forma in essa mutandosi, agli occhi m’apparve, e cosí disse: «Che ti disponi a fuggire? Nulla persona piú di me t’ama». Quelle parole piú paura d’inganno che speranza di futuro frutto mi porsero, e dubitai, però ch’ella era di bellezza oltre modo dell’altre splendidissima, e d’alta progenie avea origine tratta, e delle grazie di Giunone era copiosa: per le quali cose io diceva essere impossibile che mi volesse altro che schernire, e se potuto avessi, volentieri mi sarei dallo incominciato ritratto. Ma la nobiltá del mio cuore, tratta non dal pastore mio padre, ma dalla reale madre, mi porse ardire, e dissi: ‛Seguirolla, e proverò se vera sará nell’effetto sí come nel parlare si mostra volonterosa’. Entrato in questo proponimento e uscito dall’usato cammino, abbandonate le imprese cose, cominciai a disiderare, sotto la nuova signoria, di sapere quanto l’ornate parole avessero forza di muovere i cuori umani: e, seguendo la silvestre fagiana, con pietoso stile quelle lungamente usai, con molte altre cose utili e necessarie a terminare tali disii. E certo non senza molto affanno lunga stagione la seguii, né alla fine campò, che nelle reti della mia sollecitudine non incappasse. Ond’io avendola presa, a’ focosi disii, piacendole, sodisfeci, e in lei ogni speranza fermai, per sommo tesoro ponendola nel mio core: ed ella, abbandonata la boschereccia salvatichezza, con diletto nel mio seno sovente si riposava. E se io ben comprendeva le note del suo canto, ella niuna cosa amava, secondo quelle, se non me, di che io vissi per alcuno spazio di tempo contento. Ma la non stante fede de’ cuori feminili, parandosi davanti agli occhi di costei nuovo piacere, e dimenticato com’io giá le piacqui, e preso l’altro, e fuggita dal mio misero grembo, nell’altrui si rinchiuse. Quanto fia ’l dolore di perdere subitamente una molto amata cosa, e massimamente quando col proprio occhio in altra parte trasmutata si vede, il dirlo a voi sarebbe un perder parole, però che so che il sapete; ma non per tanto, con quello, ad ogni animo intollerabile, la speranza di riacquistarla mi rimase, né per ciò risparmiai lacrime, né prieghi, né affanni. Ma la concreata nequiza a niuna delle dette cose porse udienza, né concedette occhio, per che io con affanno in tribulazione disperato rimasi, morte per mia consolazione cercando, la quale mai avere non potei, non essendo ancora il termine di dover finire venuto. Il quale volendo io, sí come Dido fece o Biblide, in me recare, e giá levato in piè da questo prato, ov’io piangendo sedeva, mi sentii non potermi avanti mutare, anzi soprastare a me Venere, di me pietosa, vidi, e disiderante di dare alle mie pene sosta. I piedi, giá stati presti, in radici, e ’l corpo in pedale, e le braccia in rami, e i capelli in fronde di questo arbore trasmutò, con dura corteccia cignendomi tutto quanto. Né variò la condizione di esso dalla mia natura, se ben si riguarda: egli verso le stelle piú che altro vicino albero la sua cima distende, sí come io giá tutto all’alte cose inteso mi distendeva. Egli i suoi frutti di fuori fa durissimi, e dentro piacevoli e dolcissimi a gustare. Oimè, che in questo la mia lunga durezza al contrastare agli amorosi dardi si dimostra, la quale v’elessero gl’iddii ch’io ancora avessi, ma l’agute saette, passata la dura e rozza forma di me povero pastore, trovarono il core abile alle loro punte. Questo mio albero ancora in sé mostra le fronde verdi, e mostrerá mentre le tristi radici riceveranno umore dalla terra circustante, in che la mia speranza, molte volte ingannata, non ancora esser secca, né credo che mai si secchi, si può comprendere. E se voi ben riguardate, egli ancora mostra del mio dolore gran parte: che esso, lagrimando, caccia fuori quello che dentro non può capere; e come questo legno meglio arde che alcun altro, cosí io, prima stato ad amare duro, poi piú che alcun amante arsi, e per ogni piccolo fuoco si mi raccendo come mai acceso fossi. Né il dilettevole odore ch’io porgo poté mai fare tanti di quello disiderosi, ch’io altro che a quella, per cui questa pena porto, mi dilettassi di piacere. Potete, adunque, per le mie parole e per me comprendere quanta poca fede le mondane cose servano agli aspettanti, e massimamente le femine, nelle quali niuno bene, niuna fermezza, niuna ragione si trova. Esse, schiera senza freno, secondo che la corrotta volontá le invita, cosí si muovono: per la qual cosa, se lecito mi fosse, con voce piena d’ira verso gl’iddii crucciati mi volgerei, biasimandogli perché l’uomo, sopra tutte le altre creature nobile, accompagnarono con sí contraria cosa alla sua virtú». Le parole del misero appena erano finite, che Biancofiore levata da sedere dal loco dove stava, per piú appressare le parole sue al rotto pedale, cosí cominciò a dire: «O Idalagos, che colpa hanno le buone, e di diritta fede servatrici, se a te una malvagia, per tua semplicitá, nocque non osservando la promessa?». A cui Idalagos: «Se io solo da’ vostri inganni mi sentissi schernito, tanta vergogna m’occuperebbe la coscienza, che mai ai prieghi di alcuno, quantunque fossero da esaudire, non direi i miei danni, sí come a voi ho fatto; ma però che tutto il mondo infino dal suo principio fu ed è delle vostre prodizioni pieno, sentendomi nel numero de’ piú caduto, lascio piú largo il freno al mio vero parlare. Ma se gl’iddii dalle malvage ti separino, non mi celare chi tu se’, che si pronta alla difesa delle buone sorgesti, come se di quelle fossi». «Io sursi» disse Biancofiore, «a quello che ciascuna prima operare e poi difendere dovria, sentendomi di quel peccato pura del quale in generale tu te ne biasimi: e acciò che io non aggiunga noia alle tue pene, sodisfarotti del mio nome. Sappi ch’io sono quella Biancofiore la quale la fortuna con tribulazioni infinite ha dal suo nascimento seguita, ma ora meco pacificata quelle a sé ritrae, e, concedutomi il mio disio, in pace vivo.» «Or se’ tu» disse Idalagos, «quella Biancofiore per la quale il mondo conosce quanto si possa amare, o essere con fede leale amato? Se’ tu colei la quale, secondo che tutto il mondo parla, se’ tanto stata amata da Florio figliuolo dell’alto re di Spagna, e, che per intera fede servargli, se’ nimica della fortuna stata, dove amica l’avresti potuta avere rompendo la pura fede? Se quella se’, con ragione delle mie parole ti duoli.» «Io sono quella», rispose Biancofiore. «Adunque» disse Idalagos, «singulare laude meriti: tu sola se’ buona, tu sola d’onore degna, niun’altra credo che tua pari ne viva. E certo se io nella memoria avuta t’avessi, quando in generalita male di voi parlai, te avrei dell’infinito numero delle ingannatrici tratta; ma in verita e’ mi pare, ciò che di te ho udito, maggiore maraviglia che il sentire me in questa forma ove mi vedi. Ma se la fortuna lungamente pacifica teco viva, dimmi che è di quel Florio, che tu tanto ami e che te piú che sé ama, sí come la fama rapportatrice ne conta.» Rispose Biancofiore: «Il mio Florio ha infino a qui teco parlato, ed è qui meco: e come mi potrei io dire senza lui felice, e con la fortuna pacificata?». «O felicissima la vita tua» disse il tronco, «molto m’è a grado, e assai me ne contento, che voi, che giá tanto foste infortunati, ora contenti siate, pensando ch’io possa prendere speranza di pervenire a simile partito de’ miei affanni.» Giá i corpi percossi dal tiepido sole porgevano lunghe ombre, e Febea si mostrava in mezzo il cielo, andante alla sua rotonditá, quando, Biancofiore non piú parlante, Filocolo disse: «O Idalagos, dinne, per quella fede che tu giá ad amore portasti, come ai tuoi orecchi pervenne la nostra fama, con ciò fosse cosa che appena ne’ nostri regni credevamo che saputi fossero i nostri amori». A cui Idalagos cosí rispose: «Come in queste parti i vostri fatti si sapessero m’è occulto, ma come io li sappia vi narrerò. Come voi vedete, io porgo con le mie frondi graziose ombre dintorno al mio pedale, e il suolo di fiori e d’erbe ogni anno s’adorna piú bello che alcuno altro prato vicino: per la qual cosa i miei compagni, sí per conforto di me, che d’udirgli mi dilettava, e sí per riposo e diletto di loro medesimi, qui sovente solevano venire, e ne’ loro ragionamenti dire quelle cose, le quali mancamento delle mie doglie credevano che fossero, e tal volta credendomi piacere, con fresche onde le mie radici riconfortavano. E quando costoro questo luogo non avessero occupato, molti gentili uomini e donne vegnenti a’ santi bagni, dove voi forse ora dimorate, qui a ragionare di diverse materie, qui a far festa, se ne sogliono venire. E quando di questi tutti solo io rimanessi, da’ pastori non sono abbandonato: a’ quali, perciò che mi ricorda ch’io giá di loro fui, piú fresca ombra porgo che ad altri. E come dagli altri qui venienti odo varii ragionamenti, cosí li loro e le loro contenzioni e le battaglie de’ loro animali spesso sento, e di me hanno fatto prigioniere del perditore: tra’ quali ragionamenti, molti, e non so di che gente, un giorno qui se ne vennero, a’ quali quasi interi i vostri casi udii narrare, forse non credendo essi essere uditi, i quali non minori che i miei riputai; e fummi caro ascoltargli, sentendo che solo negli amorosi affanni non dimorava». Queste cose udite, parve a Filocolo di partirsi, e disse: «Idalagos, gl’iddii quella perfetta consolazione che tu disideri ti donino, sí come tu hai a noi delle dimandate cose donata. Noi, costretti dalla sopravvenente notte, piú teco non possiamo stare, e però ti preghiamo che se per noi alcuna cosa fare si può che in piacere ti sia, la ne dica, con ferma speranza che fornita sia giusto il potere nostro». «Assai potreste fare» rispose Idalagos, «e però che nella vostra gran nobiltá confido, vi farò un priego: com’io poco avanti vi dissi, io amai una donna, dalla grazia della quale abbandonato, disiderando in essa ritornare, porsi prieghi e lacrime infinite, le quali la durezza del core di lei niente mutarono, per che io sono in questa forma. Poco tempo appresso la mia mutazione, avvenne che giovani a me carissimi, e consapevoli de’ miei mali, qui si raunarono, e quasi, come se a me parole porgessero, credendomi della vendetta degl’iddii rallegrare, dissero la bella donna in bianco marmo essere mutata, allato a una piccola fontana di acqua chiara, dimorante nelle grotte del duro monte Barbaro a mano sinistra, passata la grotta oscura. Della qual cosa io non lieto, anzi dolente fui, pensando che se avanti dura era a’ miei prieghi stata, omai pieghevole non saria; ma di ciò sono incerto, e però la speranza del piegare non ho lasciata, perché io vi priego che, quando verso la cittá andrete, non vi sia noia il visitare la fresca fontana, e quelle parole di me porgete alla bionda pietra che pietá vi consentirá. Né vi partite prima di qui, che il pezzo della dura scorza tolta a me dal vostro dardo sia al luogo renduta: poi con la grazia degl’iddii lecito vi sia l’andare». Udito questo, Filocolo giurando promise di fare quello che dimandato gli era, e la scorza rendé al dimandante, la quale cosí dall’albero fu ripresa come da calamita il ferro: e dettogli addio, co’ suoi si partí del luogo pieno di maraviglia, del nuovo caso ragionando co’ suoi. E parlando pervennero al loro ostiere, ove preso il cibo dieroro il corpo a’ notturni riposi. Salito il sole nell’aurora, Filocolo e i suoi compagni si levarono, e il cammino verso Partenope ripresero, e giá le tenebrose oscuritá della forata montagna passate, vicini al luogo dall’albero disegnato, pervennero. Quivi vaghi di vedere cose nuove, non sappiendo il luogo, né trovando cui dimandarne, andavano con gli occhi investigando, e ciascuna grotta pensavano essere la dimandata fonte: ma quella nascosa da frondi, quanto piú cercano piú s’occulta. Ciascuno guardava se vedesse alcuno che, dimandandolo, ne li certificasse. Niuno vedevano; ma Parmenione ascoltando udí di lontano risonare l’aere di tumultuose voci, per che chiamati gli sparti compagni, disse loro: «Se noi in quella parte andiamo dove io sento romore di gente, leggieri ci sará quello che cerchiamo di trovare». Piacque a tutti l’andarvi, e seguirono il suono, il quale, essendo da loro, quanto piú andavano, piú chiaro udito, gli faceva certi non deviare per pervenire a quello: al quale, dopo non grande quantitá di passi, lieti pervennro, e videro alquanti pastori, raccolti sotto fresche ombre, fare i loro montoni urtare insieme, e in merito del vincitore corone d’alloro essere poste da una parte; i quali, quando ad urtare venivano, ciascuno i suoi con voce altissima aiutava, e questo a vedere dimoravano piú altre persone, per accidente quivi, sí come costoro, venute. Filocolo fu co’ suoi a vedere con festa ricevuto; ove dimorato alquanto, fè uno de’ pastori dimandare della nascosa fontana. Questi disegnò loro il luogo, profferendosi di mostrarla, se a guardare non avesse la vincitrice mandria. Queste parole udirono due speziosissime giovani quivi venute con la loro compagnia a vedere, le quali, reputando non picciola cortesia agli strani giovani piacere, dissero: «Signori, ell’è a noi notissima, né greggia, né altro impedimento ci occupa, che mostrare non la vi possiamo, se i nostri passi seguire non isdegnate». Alle quali Filocolo: «Di niuna altra cosa dubitavamo, se non di non essere degni di seguire sí care pedate, quando altrui che voi, di ciò che cerchiamo, dimandammo; ma poi che a voi piace verso di noi per virtú essere cortesi, procedete, certo che contentissimi siamo di seguirvi».
- Mossonsi le graziose giovani, il nome dell’una Alcimenal e dell’altra Idamaria era, e con voci soavi e radi ragionamenti, passo inanzi passo, i disideranti menarono alla fontana, alla quale essi piú volte erano stati vicini e veduta non l’aveano. Ma ciò non era da maravigliare, però che la natura, maestra di tutte le cose, co’ suoi ingegni nelle interiora del monte aveva volto un rozzo arco, sopra il quale fortissima lamia si posava, coperchio delle chiare onde, e quel luogo, il quale essa scoperto vi lasciò per porger luce, alberi di fronde pieni l’avevano occupato. Ad essa venuti, Alcimenal disse: «Signori, qui è la fresca fontana che cercate, e quinci s’entra in essa», mostrando loro un piccolo pertugio, entro al quale a scendere all’acque per alcun grado si convenia.
- Entrò in quella Filocolo, e quasi opposito all’entrata vide il bianco marmo soprastante a parte dell’acque, e sceso in essa, fresca e dilettevole molto la vide: e ben che, di fuori dimorando, la fontana fosse da alberi nascosta agli occhi de’ viandanti, nondimeno dentro tra fronda e fronda graziosa luce vi trapassava. Ell’era da una parte e dall’altra di spine, per adietro state cariche di fresche rose, e per mezzo, a fronte al marmo, un bellissimo melogranato, le cui radici infino al fondo si distendevano, e le cui foglie e frutti gran parte de’ solari raggi cacciavano dalla fontana. Filocolo si rinfrescò le mani e il viso con la chiara acqua, e poi postosi a sedere allato al bianco marmo, cosí da tutti udito cominciò a dire: «O pietá, santissima passione de’ giusti cuori, tu negli umili e miserabili luoghi dal misericordioso seno di Giove discendi, e visiti i commossi petti dalle vedute e talora dalle udite cose. Tu fai i sostenitori e i veditori d’una medesima pena partecipare. Tu rechi agli occhi quelle lacrime le quali piú che altre meritano, e hai potenza di muovere i duri cuori da’ loro proponimenti nefandi, e di scacciare l’ardente ira dal turbato fiele. Tu nemica delle miserie, se’ dell’offese graziosa perdonatrice. Per te la tagliente spada della giustizia sovente in misericordiosa opera volge il suo operare. E chi agl’iddii ci congiungerebbe, da’ quali le nostre operazioni inique ci allontanano, se tu nol facessi? Tu se’ degli assaliti dalla tortura cagione di graziosa speranza, e di consolazione apportatrice. Che piú dirò di te? Tu piena di tanta umanita se’, che aperto si può dire che il cuore, ove tu non regni, piú tosto ferino è che umano. Tu e ’l figliuolo di Citerea sedete ad uno scanno. Egli senza di te faria le sue opere vane. Niuna ingiuria potrebbero gl’iddii porgere sí grave, che molto maggiore a chi dal suo petto ti scaccia non si convenisse. Tu me, che dell’ultimo ponente sono, facesti dell’angosce d’Idalagos partecipe, il quale dipinto e dentro afflitto di molte miserie, non poté questa pietra muovere con la tua forza dal duro proposito, amandola sopra tutte le cose e avendola amata: per che ora degnamente di sé puoi porgere manifesto esempio a’ riguardanti. O amore, per la grazia del quale io li meritati doni posseggo, viva in eterno il tuo valore: il quale, s’io merito nel tuo cospetto alcuna grazia piú che quella ch’io ricevuta posseggo, ti priego che da cosí fatti cuori t’allontani, però che tu, benevolo co’ malevoli, degno luogo avere non puoi. Sia l’acerbita consumatrice de’ cuori che la nutricano, degna di perdere la tua grazia e quella degli uomini».
- Sí tosto come Filocolo, dette queste parole, tacque, Idamaria, che interamente l’aveva notate, disse: «O giovane, se gl’iddii te al nominato paese riportino con prospera via, dinne onde t’è manifesto ciò che qui parli in degno dispregio della pietra che tu tocchi? Tu ne fai maravigliare, essendo tu d’occidente e noi paesane, non essendoci quello che a te è manifesto». Alla quale Filocolo parlandò sodisfece, e dimandò se ’l modo della trasformazione di quella fosse a loro noto che glielo dicessero. A cui Alcimenal: «Per udita tutte il sappiamo; e poi che col tuo dire n’hai appagate, noi col nostro senza dimoranza t’appagheremo, e fiati caro». E cominciò cosí:
- «I nostri antichi, che con solenne memoria le cose della loro etá notarono, ne dicevano sé ricordarsi in questa parte né la pietra né il bello melogranato né queste spine, le quali, pochi di sono passati, fiorite vedemmo, sí come ora sono bocciolose, non esserci, ma solo l’acqua e la grotta di questo luogo si contentavano. E similemente ne dicevano che questo luogo, il quale ora piú da’ pastori che da altra gente veggiamo visitato, rideva tutto d’arbori e d’erbe, essendo con ordine tutto il suo suolo coltivato da maestra mano: per la qual cosa i gentili uomini e le donne, vaghi di riposo e di diletto, qui per prendere quello soleano venire. Per che avvenne che in questa sí piacevole stagione, un giorno, donne di Partenope qui vennero a sollazzarsi, e schiusa da’ loro cuori ogni malinconia, tutte liete si dierono a’ cibi: delle quali quattro bellissime, abbandonato ogni vergognoso freno, forse oltre al dovere presero de’ doni di Bacco, dal quale stimolate, lasciate la loro compagnia, con ragionamenti e atti dissoluti si diedero ad andare tra’ fruttiferi alberi correndo, l’una tal volta cacciando l’altra, e l’altra tal volta dall’una essendo cacciata. Per che, dall’affanno riscaldate e da Lieo e da’ solari raggi, per cacciare quel caldo, le fresche ombre di questo luogo cercarono. Nel quale entrate, l’una chiamata Alleiram dove codesto marmo dimora, non essendovi esso, essa si pose a sedere; la seconda, Airam chiamata, qui a fronte, dove le vecchie radici del melogranato vedete, s’assise; la terza, il cui nome era Asenga, dal sinistro, Annavoi la quarta dal destro d’Alleiram si posero, le contrarie mani d’Airam tenendo ciascuna. E quivi riposando i corpi, a’ lascivi ragionamenti non diedero riposo, ma cominciando i sommi iddii a dispregiare, sé e le loro lascivie lodando, l’una dicendo e l’altre ascoltando, cosí cominciarono a ragionare, e prima all’altre Alleiram, parlando in questa forma:
- «Giá ne’ semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da riverire, dicendo alcuni, d’una semplicitá meco compresi, che qui Diana, dopo i boscherecci affanni, col suo coro veniva a ricreare, bagnandosi, l’affaticate forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteone qua dentro guardando, essendoci ella, meritò divenire cervo. Qui ancora le ninfe di questo paese testavano riposarsi, qui le naiadi e le driadi nascondersi; ma la mia stoltizia ora m’è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono gl’ingannati occhi de’ mondani, li quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi templi, quelle adorano, dicendole piene di deitá. O rustico errore piú tosto che veritá! Elli hanno appo loro gl’iddii e le dee e’ celestiali regni, e vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirinsi i nostri visi, adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza di muovere gli uomini a grandissime cose. Quali iddii dunque o quali dee, qual Venere, qual Cupido, qual Diana piú di noi è da esser riverita? Folle è chi crede altra deitá che la nostra. Noi commoveremmo i pacifici regni a battaglie, e ne’ combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl’iddii non poterono fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come.
- Quanto io sia di sangue nobilissima non bisogna dire, ch’è manifesto, né alcuno di quelli che iddii si chiamano, con giusta ragione potrebbe mostrare piú la sua origine che la mia antica. Io similemente in dirvi quanto in ricchezze abbondi non mi faticherò, però che è aperto Giunone a quelle non potere dare crescimento discernevole con tutte le sue. La copia de’ parenti è a me grandissima: e oltre a tutte le cose che nel mondo si possono disiderare, sono io bellissima come appare, e nel piú notabile luogo della mia cittá situata è la lieta casa che mi riceve. Davanti la quale niuno cittadino è che sovente non passi; e quelli forestieri, i quali per terra l’oriente e il freddo Arturo ne manda, e l’austro e ’l ponente per mare, tutti, se la cittá disiderano di vedere, conviene che davanti a me passino, gli occhi de’ quali tutti la mia bellezza ha forza di tirare a vedermi. E ben che io a tutti piaccia, però tutti a me non piacciono; ma nullo è ch’io mostri di rifiutare, anzi con giochevole sguardo a tutti egualmente dono vana speranza, con la quale nelle reti del mio piacere tutti li allaccio, non dubitando di dare, né di prendere amorose parole. E se le mie parole meritano d’essere credute, vi giuro che Cupido molte volte, per lo piacere di molti, s’è di ferirmi sforzato, ma né lo spesseggiare né il gittare de’ suoi dardi, né lo sforzarsi, mai ignudo poterono il mio petto toccare: anzi, faccendo d’essere fedita sembiante, ho ad alcuni vedute le sue ricchezze disordinatamente spendere credendo piú piacere. Alcuno altro, dubitando non alcuno piú di lui mi piacesse, contra quello ha ordinato insidie; e altri donandomi mi credono avermi piegata. E tali sono stati, che, per me se medesimi dimenticando, con le gambe avvolte sono caduti in cieca fossa: e io di tutti ho riso, prendendo però quelli a mia sodisfazione i quali la mia maestá ha creduti che siano piú atti a’ miei piaceri. Né prima ho il fuoco spento, ch’io ho il vaso dell’acqua appresso rotto, e gittati i pezzi via. Tra la quale turba grandissima de’ miei amanti, un giovane, di vita e di costumi e d’apparenza laudevole sopra tutti gli altri, mi amò, il cui amore conoscendo, il feci del numero degli eletti al mio diletto, e ciò egli non senza molta fatica meritò. Egli, prima che questo gli avvenisse, poetando, in versi le degne lodi della mia bellezza pose tutte. Egli di quelle medesime aspro difenditore divenne contra gl’invidiosi parlatori. Egli, occulto pellegrino d’amore, in modo incredibile cercò quello che io poi gli donai, e ultimamente divenuto d’ardire piú copioso che alcun altro che mai mi amasse, s’ingegnò di prendere e prese quello ch’io con sembianti gli volea negare. Mentre che questi dilettandomi mi teneva, non però mancò l’amore suo verso di me, anzi sempre crebbe: le quali cose tutte io fermissima, resistente a Cupido, non guardai, ma come d’altri molti avea fatto, cosí di lui feci gittandolo dal mio seno. Questa cosa fatta, la costui letizia si rivolse in pianto. E, brievemente, egli in poco tempo di tanta pietá il suo viso dipinse, che egli a compassione di sé moveva i piú ignoti. Egli si mostrava, e con prieghi e con lagrime, tanto umile quanto piú poteva, la mia grazia ricerçando, la quale acciò ch’io gli rendessi, Venere piú volte s’affaticò pregandomi e talora spaventandomi e in sonni e in vigilie. Ma ciò non mi poté mai muovere: per che rimanendo ella perdente, il giovane, che si consumava, trasmutò in pino, e ancora alle sue lagrime non ha posto fine; ma per la bellezza ch’io posseggo, io prima dove l’albero dimora non andrò che in dispetto di Venere farò piú inanzi al dolente albero sentire la mia durezza, ch’io colle taglienti scuri prima il pedale, poi ciascun ramo farò tagliare e mettere nell’ardenti fiamme. Ben potete per le mie parole aver compreso quanta sia la potenza di Venere, la quale non de’ minori iddii, ma nel numero de’ maggiori è scritta, e per conseguente possiamo di ciascun altro pensare: e però se non possono, non debbono essere di cosí fatto nome né di tanti onori riveriti. Noi che possiamo, noi dobbiamo essere onorate: e che io possa giá l’ho mostrato, e ancora, come detto ho, piú aspramente intendo di mostrarlo’.
- Aveva detto costei, quando Asenga, che alla sua sinistra sedeva, cosí cominciò a dire: ‛Veramente ingiuria senza ragione sosteniamo; e ben che ogni potere agl’iddii, sí come voi dite, falsamente s’attribuisca, ancora con questo alle dee e a loro è attribuita ogni bellezza. E prima diciamo della Luna, la quale non si vergognò per adietro d’amare e senza vergogna sostenere d’essere bella chiamata. Or non c’è egli ogni mese mille volte manifesto il suo viso variarsi in mille figure, fra le quali molte una sola ne è bella, e quella è quando essa, apposita al suo fratello, tutta quanta ci si mostra lucente, ancora che allora non so di che nebula ne mostri il suo viso dipinto? Ciascun’altra stagione, da questa infuori, difettuosa e laida ci appare, né ci si mostra, se ben riguardiamo, se non la notte bella, nel quale tempo le piú laide si possono, senza essere conosciute, tra le bellissime mescolare. Ma s’egli avviené, che tra lei e Febo alcuna volta la terra si ponga, noi la veggiamo di sozza rossezza tutta contaminata. Perché, adunque, è bella Giunone similmente ed Apollo, se da un poco d’austro sono turbati, e guaste le loro bellezze per li suoi nuvoli? Diana non dico, perciò che da presumere è che, se stata fosse bella, non avria consentito che Atteone, per averla veduta, fosse diventato cervo, ma che avesse parlato e narrato la sua bellezza agli ignoranti avria consentito. E piú possiamo ancora di lei dire che, perciò che ella conobbe piú la sua rustichezza essere atta alle cacce che ad amare, però quell’oficio si prese. E come di queste diciamo, cosí di Venere possiamo dire, la quale se sí bella come si conta fosse stata, saria sí piaciuta ad Adone, che egli pauroso di perdere per morte sí bella dea, avrebbe i suoi sani consigli seguiti. E similemente possiamo di molte altre dire quello che di noi non avviene. Io, bellissima, continuo bella nella mia forma mi mostro, né cambio viso né figura perch’io cambi stagione; né si patisco eclissí come la luna fa, né mi nocciano i nuvoli d’austro, né li rischiaramenti d’aquilone mi giovano come ad Apollo e a Giunone fanno, anzi, e con quelli e senza questi, continuo bella mi dimoro. Né similemente mai al viso d’alcun riguardante mi nascosi, né mi nasconderei, ma sentendomi com’io mi sento bella, mi diletto da molti essere amata e guardata. Io non comandai, né pregai, né consigliai mai cosa che essa non fosse con sollecitudine messa ad effetto e osservata: dunque, piú tosto io ch’alcuna delle sopradette sono da essere chiamata Dea’. E qui si tacque.
- Dappoi che Asenga tacque, Airam, non meno che la prima superba, lodandosi oltre a modo, cosí cominciò a parlare: ‛Seguitando io voi la impotenza degl’iddii e ’l difetto delle loro bellezze a confermare, cosa da non sostenere in sí alto nome senza effetto, piú della loro mancanza vi narrerò. Essi, come voi sapete, delle future cose veridici provveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a’ dimandanti, aggiugnendo che le presenti senza mezzo conoscono, e che in memoria ritengono le passate; ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: e se, come giá si disse, avessono forza, gli oltraggi, che tutto giorno sentono, senza punizione non passerieno. Similmente se le bellezze loro le nostre avanzassero, contenti ne’ loro termini non quelle per le mondane abbandonerebbero, sí come molte volte hanno fatto e fanno. Se sí provvidi fossero come si tengono giá, non agl’ingegni delle semplici giovani si lascerebbero ingannare, né quelle con ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro Giove mutarsi per ingannare Europa? Se belli, perché in oro per ingannare Danae? Se savi, perché non provvedere all’impromessa fatta all’amata Semele? Niuna di queste cose è in loro, e voi le due avete. mostrate, e io mostrerò la terza. Io non, meno bella d’Alcitoe, amata in prima da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cor non patefeci, ma per non disciogliere da’ miei legami alcuno, quelli, che tal volta piú m’erano in odio, con piú lusinghevole occhio riguardava. Del numero de’ quali Febo, provveditore de’ futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli, per piú lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, cosí affrettandosi essi com’erano usati d’andare alle onde d’Esperia! E spesso, non avendo ancora loro rimessi i freni, in quelli medesimi si crucciò, volenteroso di cercare l’Aurora prima che il convenevole. Oh, quante volte si dolsero con lamentevoli voci le notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo occupava! E mi ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendeva, che egli ebbe presso che smarrito l’usato cammino. E se non fosse stato il romore di Cinosura, che, vedendolo di lontano, temette le sue fiamme e il fece in sé ritornare, egli pure avrebbe la seconda volta arso il cielo, e io di ciò mi avrei riso, se fulminato fosse caduto sí come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se cosí fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singulare signore dell’anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d’ogni parte que’ doni ch’egli credeva che mi dovessero piú piacere, e con quelli s’ingegnava di servare l’amore mio verso di lui, e per quelli tentava sovente di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, piú oltre non la richiese. Ma io, piú provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cor lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché piú m’era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credeva per la sua bellezza piú ch’altro piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l’amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sí come io aveva voluto, di lei fidandomi de’ miei segreti, e insegnogli il luogo degli amorosi furti, il quale egli dalla somma altezza vide: per che quasi di grieve dolore turbato piú giorni luce non porse; ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell’usato oficio il fece tornare: né mai da quell’ora inanzi con diritto occhio non mi guardò, anzi passando avanti a me traverso, quasi sdegnoso ancora mi guarda, di che io poco mi curo. Ora poi che cosí colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si faria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che molto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se noi non sopra loro meritiamo, almeno loro pari reputare, senza alcuna ingiuria di loro, ci possiamo: e se l’avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama che gli chiama iddii, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della nostra grazia vogliamo far degni i disianti di quella’.
- Risero delle parole di costei le stolte compagne; dopo alquanto la quarta di loro, chiamata Annavoi, disse: ‛Perché in tante parole ci distendiamo? Veramente in tutti né potenza né senno, né bellezza dimora: e ancora piú, essi, detti misericordiosi da tutti i viventi, di quella misericordia niente hanno. Pietá niuna in loro si trova: in loro si trovano tirannie; essi usurpatori sono dell’altrui cose. E che feci io in dispetto di Diana, la quale vendicatrice dea è chiamata? Non le tolsi io con la mia bellezza e con la forza della mia lingua, delle quali due cose fui sopra tutte le partenopesi giovani dotata, cinque fedelissimi servidori l’uno dopo l’altro, avvegna che d’eta fossero dispari, perciò che i due giá vicini erano all’arco sopra al quale l’umane forze non s’avanzano ma vengono mancando, e gli altri due ancora quelle guance mostravano che dalla madre recarono, e ’l quinto non piena la barba a maggior quantitá serbava per iscemarla? Certo sí. Costoro e con la bellezza degli sfavillanti occhi miei e con la dolcezza del mio parlare, per lo quale meritai Serena essere chiamata, legai io sí nelle mie reti, che avendo io loro fatti gittare gli archi co’ quali prima per li boschi servivano Diana, prima de’ loro tesori con soave mano li privai, e quelli sotto la mia balia ascosi, cavando loro poi dal sinistro lato i sanguinosi cuori, li lasciai senza vita. Quale vendetta mai di questo si vide? Niuna certo: e perché? Perché la potenza della parte offesa non era tale, e le vendette seguono i meno possenti. Io tal quale sia essa non la curo: e cessi dal mio petto che io mai piú in tale errore viva, che dii o dee creda che sieno, o li coltivi, o loro porga prieghi. Noi siamo dee, e quelli uomini che ci piacciono nostri iddii: e quali celesti regni piú belli che questi nostri si poriano trovare? Noi siamo tra quelle cose di che coloro, i quali l’errore rustico chiama iddii, si tengono signori. Chi dubita che miglior partito non abbia chi nella sua cittá guernito dimora, che di lontano agognando se ne chiama signore? Noi belle, noi savie, noi possenti siamo e saremo quanto il secolo si lontanerá, e degne dí quell’onore che Giove e gli altri ingiustamente s’hanno usurpato’. Tacque costei; e giá la seconda volta nell’usato ordine ricominciavano il maladetto parlare con piú aspre parole, quando gl’iddii né piú né meno che i cittadini della cittá, le cui mura subito sono assalite dal nascoso aguato de’ nemici, corrono or qua or la senza ordine, e con fretta ora entrando ora uscendo dalle case prendono l’arme, e cercano senza troppe parole la loro difesa, correndo a’ dubbiosi luoghi, fecero ne’ celestiali scanni da subita ira commossi, forse non meno infiammati, che quando dal bestiale ardire de’ giganti fu il cielo assalito. Li quali cosí corsi dierono pauroso suono, e chiusero il mondo d’oscuri nuvoli, né a niuno vento fu tenuta la via: e crucciati tutti discesero sopra questo luogo, le cui ire temendo la terra tremò forte. Ma essi lasciato il furore, si dice che prima Venere con Cupido in questo luogo entrarono, né trovarono però il malvagio colloquio cessato, anzi quelle ferme in quello, senza paura alcuna del divino giudicio, dimoravano. Qui Venere non salutò, né fu salutata; ma volta ad Alleiram disse: ’Dunque, iniqua giovane, prendi tu gloria d’aver dispiaciuto a noi, e insuperbisci per la tardata vendetta, e minacci di peggio operare? Or non pensi tu che con riposato andamento noi procediamo delle nostre ire alla vendetta, poi il tardato tempo con accrescimento di pena ristoriamo? Tu rea di gravissimo peccato, ora riceverai guiderdone. Tu rifiutatrice de’ nostri dardi, diverrai fredda e impassibile a quelli ricevere: né piú avanti piacerai, né vedrai chi per te offenda altrui, o muova briga, o sé dimentichi, né piú di cotali riderai, né eleggerai, né romperai vasi. E come giá tu niuna compassione avesti verso chi quella meritava, cosí molti, sappiendo i tuoi casi, forse di te compassione avranno: ma niente ti gioverá, ché come altri a te per pietá giá porse prieghi, cosí a te fia tolto di poterne porgere. E sí come io non ti potei a’ miei voleri recare, cosí me a’ tuoi non conducerá né uomo, né dio. E prima le lagrime di colui che giá fu tuo finiranno, e torneragli la perduta allegrezza per piú dolce oggetto che tu non fosti, che tu solamente in isperanza ritorni di ritornare nella perduta forma. E le laude giá dette della tua bellezza in amorosi versi, altro titolo che della tua prenderanno, né mai ti fia possibile il piú nuocergli che nociuto gli abbi: anzi se la mia deitá merita di conoscere alcuna delle future cose, tu, vaga di riavere la sua grazia, di quella patirai difetto, e sí come mi pare, misera conoscerai quanta sia la mia potenza da te con parole orribili dispregiata. Tu dura e immobile a’ miei voleri, in durissimo marmore ti muterai, e questa grotta neila quale tu siedi ti fia eterna casa ’; e piú non disse. Queste parole udendo Alleiram mutò cuore, e sariasi volentieri voluta pentére, ma non aveva il tempo. Ella volle con alta voce dimandare mercé, ma il sopravvenuto freddo, che giá alla lingua cosí come agli altri membri aveva tolta la possa, nol sofferse: la pigra freddezza con disusato modo nel ventre ritirò le dilicate braccia e le candide gambe, e in picciol spazio niuna cosa della bella giovane si saria potuto vedere se non un bianco tronco, il quale in durissimo marmo mutato, come voi vedete, fu trovato. E se forse alcuna rossezza in quello vedete, dicesi che Lieo gliela diede, di cui piú copiosa che il convenevole dimorava, quando qui piú furiose che savie vennero vagando.
- Mentre che cosí Venere parlava ad Alleiram, Airam dubitò forte, e volle fuggire dal luogo, ma le gambe, davanti snelle, giá fatte pigre barbe di questo albero, la ritennero. E Febo venuto presente con soave voce cosí le cominciò a dire: ‛Adunque, o giovane, d’avermi ingannato, il tuo cuore celandomi e togliendomi i cari doni, ti vanti? Male e poco senno è contra lo stimolo recalcitrare, ma acciò che a te non paia che noi le malfatte cose impunite lasciamo, come avanti contasti, tu prima per lo tuo parlare sarai punita, sí come Perillo da Fallaris per lo suo medesimo artificio fu. E giá in albero parte convertita, tutta in quello, prima ch’io mi parta, ti muterai, e poi perciò che tu avesti ardimento di dire di volere essere nostra pari, tu li tuoi pedali avrai torti, né fia loro lecito il potersi troppo in alto distendere, ma piú tosto fieno sí bassi, che con poco affanno da terra ciascuno piccolo uomo coglierá i tuoi pomi. E come tu de’ miei doni ti dicesti occulta sottratrice, cosí de’ tuoi frutti gran parte gitterai alla terra prima che maturi li vegga: né quelli che rimarranno, senza vederli io, maturerai giá mai. E farò che, come tu del tuo cuore fosti a ciascuno occultatrice, i frutti tuoi, come il dolce tempo. della loro maturazione sentiranno, cosí incontanente aprendosi in piú parti, a me e a chi vedere li vorrá mostreranno le loro interiora. E della tua corteccia, perciò che sovra tutte l’altre bellezze la tua esaltasti, farò che chi alcuna cosa in oscuro colore vorrá del suo mutare non possa senza il sugo di quella’. E mentre che egli queste parole diceva, il miserabile corpo a poco a poco stremandosi, li suoi membri riduceva a questa forma che voi vedete questo granato. Né prima che in questo albero fosse mutata, le fu possibile dire una sola parola, e manco poi.
- Asenga, nel mezzo di queste due, paurosa né fuggiva, né chiedeva mercede. E chi poria davanti dell’ira degl’iddii fuggire? La Luna turbata le sopravvenne, dicendo: ‛O misera, quale cagione a contaminare la nostra bellezza ti mosse? Mai da noi offesa non fosti, fuori solamente se noi a’ tuoi furtivi amori avessimo giá porta luce, fuggendola tu; ma perché di ciò a te dispiacessimo, ad infinita gente ne piacevamo: né però fu che alcun tempo a te, e all’altre di ciò dilettandosi, non lasciassimo luogo atto a’ vostri falli. Tu noi mille forme mutare in un mese confessi, tra le quali una volta bella e non piú appariamo, e a te continua bellezza essere affermi; ma tu in picciolo pruno voltata, partorirai fiori alla tua bellezza simili, i quali di mostrare quella una volta l’anno saranno contenti, e poi che le loro frondi poco durabili cadute saranno, e in quel colore che per eclissi ne dicesti rivolgere, maturandosi le tue bocciole, torneranno: e quelle tanto dal tuo pedale sieno guardate, quando le frondi, di verdi in gialle divenute, fieno dal primo autunno percosse’. E questo detto, il bel corpo in gracile frutto mutossi, a cui le gambe in pilose barbe e le braccia in pungenti rami, e la verde vesta in verdi frondi si mutarono, e ’l candido viso e le belle mani bianche rose sopra quelle rimasero in questo luogo.
- Diana, la cui ira non molto era mancata, stette sopra la timidissima Annavoi, dicendo: ‛Ancora che la vendetta s’indugi, non menoma il dolore del dolente ricevitore di quella. Tu perfida ucciditrice de’ miei soggetti, sempre il commesso male mostrerai. Tu in esiguo corpo e debile a ciascuno offenditore, ti muterai, e nella sommitá di quello partorirai un fiore chiuso, il quale in cinque frondette verdi mostrerei le tre varie etá de’ miei sudditi, e aperto paleserei li mal tolti tesori, dintorno a’ quali i cinque cuori de’ miei soggetti si vedranno’; né disse piu. Questa subitamente in quella forma e in quel modo in che Asenga, si mutò; ma i fiori furono diversi, ché dove Asenga in bianco fiore con molte frondi, Annavoi in vermiglio con cinque sole, e in mezzo gialla, si trasmutò. E questo fatto, gl’iddii tornarono ne’ loro regni, e l’aere cacciò i suoi nuvoli e rimase chiaro».
- Con meraviglia e fuori d’ogni credere ascoltò Filocolo infino a qui la parlante giovane, dicendo poi: «O giusta vendetta, quanto devi essere temuta da ciascuno, che queste cose ascolta! Assai sostenne la divina pietá, ché certo la menoma delle molte parole meritava maggior pena!». E con voce da questa assai diversa seguí queste altre parole: «O superbia, pericolosa pestilenza del tuo oste, maladetta sia tu! Tu, a te iniqua, non sostieni compagno. Tu, non conoscente, se’ de’ meriti guastatrice, invocatrice d’ira e suscitatrice di briga; chi seco ti tiene non sará savio, poi che tu, piú altera che possente, hai vestite le tue armi, e con gli occhi ardenti spaventi il mondo. Tu ti credi con le corna toccare le stelle, e, parlando aspro, col muovere impetuoso, rigidamente operando cacci davanti a te i meno possenti; ma la vendicatrice giustizia di te contenta l’animo de’ sofferenti, cosí dopo pochi passi torna la tua potenza come vela che per troppo vento, l’albero rotto, ravvolta cade. Tu simile a’ robusti cerri, prima ti rompi che tu ti pieghi a’ soffianti venti. Male per loro s’armarono queste misere delle tue armi. Male ancora le tue corna si posero. Giusta vendetta l’ha umiliate come degne». E queste parole dette, si rivolse al carro della luce, e videlo giá il meridiano cerchio aver passato, e declinare cosí il caldo come i raggi, per che a’ compagni tempo di tornare alla cittá disse che gli pareva, ma prima con queste parole parlò dicendo: «O sacro fonte, veramente delle dee luogo e guardatore delle loro vendette, per quella pietá che giusta ira le mosse ti priego, se per te Idalagos può alcun soccorso avere, donaglielo, e provisi alquanto la tua dolcezza ad ammollire l’acerba durezza della bella pietra da lui infino all’estremo dolore amata». Alle cui parole, se possibile fosse stato le interiora del marmo vedere, vedute si sarieno tremare, ma la morbida durezza del bianco aspetto, temendo forse la sua faccia, quello non lasciò palesare. E questo detto, Filocolo colle giovani uscí di quella, e al chiaro giorno rivenne.
- Il debito ringraziare alle giovani da Filocolo fatto, mostrò quanto gli fosse stato caro la dimostrazione della fonte fattagli da loro e similmente il chiarimento delle degne mutazioni: dopo il quale, da loro con piacevoli parole prese congedo, verso la cittá co’ suoi ritornando. Alla quale ancora non pervenuto, di lontano conobbe Galeone, a lui carissimo per lo non dimenticato onore, al quale egli sopravvenne avanti che da lui conosciuto fosse. Ma non prima Galeone lo conobbe che con riverenza il ricevette: e partita la maraviglia, e l’amorose accoglienze finite, Galeone voltò i passi, e con Filocolo alla cittá ritornò, de’ suoi felici casi contento, ben che a’ suoi contrarii alquanto la sforzevole entratrice invidia aggiugnesse dolore.
- Tornati alla cittá, Filocolo dimandò che fosse della bella Fiammetta, per adietro stata loro reina nell’amoroso giardino, alla cui dimanda Galeone subito non rispose, ma abbassò la fronte, e con dolore riguardò la terra. A cui Filocolo disse: «O caro amico, come prendi tu ora turbazione di ciò che giá mi ricorda ti rallegravi? Quale è la cagione? Non vive Fiammetta?. Allora Galeone dopo un sospiro disse: «Vive, ma la fortuna volubile m’ha mutata legge, e tale la mi conviene usare, che assai piú cara mi saria la morte».«E come?», disse Filocolo. A cui Galeone: «Quella stella, al chiaro raggio della quale la mia picciola navicella aveva la sua proda dirizzata per pervenire a salutevole porto, è per nuovo turbo sparita: e io misero nocchiero rimaso in mezzo il mare sono da ogni parte dalle tempestose onde percosso, e li furiosi venti, a’ quali niuna marinaresca arte mi da rimedio, m’hanno le vele, che giá furono liete, levate, e i timoni, e niuno argomento è a mia salute rimaso: anzi mi veggio da una parte il cielo minacciare, e dall’altra le lontane onde mostrare il mare doversi con maggiore tempesta commuovere. I venti sono tanti ch’io non posso né avanti né indietro andare, e se potessi, non saprei qual porto cercare mi dovessi. E ancora che la morte mi fosse cara se mi venisse, nondimeno me pure spaventa ella sovente sopra le torbide onde con le sue minacce, e gli iddii hanno rivolti gli occhi altrove, e a’ miei prieghi turati gli orecchi, e li falsi amici m’hanno lasciato, e il buono aiutare non mi pote: quale io stea omai pensatelovi».
- Filocolo, che giá tali mari avea navicati, a se medesimo pensando, di Galeone divenne pietoso, e disse: «Giovane, a quel maestro, che ha piú volte operando la sua arte esperta, si puote e deesi credere con piú giusta ragione che a quello o che La sperimenta o sperimentare la dee, né questo si può negare. Sono adunque i mutamenti della fortuna varii, e le sue vie non conosciute. Giá fu che io con piú tempesta ne’ mari dove il tuo legno dimora mi trovai che tu non ti trovi, e certo non poteva sperare se non morte, né altro dintorno mi vedea, quando subitamente in porto di salute mi vidi con tranquillo mare. E tu ti devi ricordare, non sono ancora molti anni passati, quanto la tua vita alla mia fosse contraria, quando ti specchiavi nel tuo disio, e io pellegrino con grieve doglia ignorava ove il mio fosse; e ora il mio veggio e tengo, e tu quello che avevi non tieni: per che, a me riguardando, devi sperare bene. La tua doglia è grandissima: e chi dubiterá che dopo altissimi monti non sia una profonda valle? Io, il quale ho corso diversi e dolenti mari, e a cui né scoglio né secca né porto s’occulta, in quelli voglio della tua navicella essere nocchiero, e spero con quell’arte che io a salutevole porto pervenni, te dalle pestilenziose onde trarrò quando ti piaccia». «Adunque disse Galeone, «o signor mio, nelle tue mani sia la vita mia.»
- Finito il ragionamento, e Filocolo dimorato alcun giorno con Galeone, lo stretto vincolo del paterno amore lo cominciò a strignere, e con intera volontá disiderava di rivedere i parenti, e cosí propose e comandò che verso Marmorina si prendesse il cammino, e seco menò Galeone, disideroso della futura sua salute. Elli passarono, o Capis, la tua cittá Capo di Campagna; e le fredde montagne, fra le quali Sulmona, ubertissima di chiare onde, dimora, si lasciarono dietro, e pervennero al luogo ove l’uccello di Dio, mutato in contrario pelo, da rustica mano si doveva ancora portare in insegna. E quindi partiti, passarono l’alpestre montagna, e trovarono l’onde dolci del Tevere; e passando avanti, i gelati monti trovarono ancora tiepidi delle battaglie che i perugini videro. La sera del secondo giorno alle graziose montagne pervennero, che nel futuro da’ vecchi doveano pigliare eterno nome. Quivi venuti, Filocolo si ricordò di Fileno, il quale in fonte lasciato aveva sopra il cerruto poggio, e disideroso di rivederlo, lá egli e’ suoi compagni n’andarono, non avendo ancora il sole di quel giorno l’ottava ora toccata.
- Li grandi arnesi s’acconciarono al riposo de’ caldi giovani, e sopra le verdi erbe fra salvatichi cerri presono il cibo, dopo il quale, in picciolo spazio, con non pensato passo la notte loro sopravvenne, e il cielo pieno di chiare stelle dava piacevole indizio al futuro giorno. Per che Filocolo vicino alla fontana, sopra un praticello pieno di verdi erbette, fece chiamare Biancofiore, alla quale era ignoto il luogo dov’ella fosse, e con parole piacevoli cosí le cominciò a dire: «O lungamente da me disiderata giovane, dira’mi, per quell’amore che tu mi porti, il vero di ciò ch’io ti di manderò?» «Sí farò», disse Biancofiore.
- A cui Filocolo seguí: «Etti uscito della memoria Fileno, a cui tu con le proprie mani donasti per amore il caro velo? O sospirasti mai per lui poi che di Marmorina temendomi si partí?». A queste parole dipinse Biancofiore il suo candido viso per vergogna di bella rossezza, ma le notturne tenebre le furono graziose, e quella celarono, e rispose cosí: «Signor mio, a me sopra tutte le cose caro, e a cui niuno mio segreto deve essere ascoso, assai volte di Fileno mi sono ricordata e mi ricordo. E come potrá egli mai dalla mia mente uscire, con ciò sia cosa che ancora mi spaventi la rimembranza della pistola ch’io da te ricevetti, turbato per la falsa opinione avuta di me per lo ricordato velo, il quale io, costretta dalla tua madre, donai, non per mia voglia? Ma veramente mai amore per lui sospirare non mi fece: anzi giuro che se lecito fosse odiarlo, io chiederei di grazia agl’iddii che la sua memoria levassero di terra». Disse allora Filocolo: «Sariati caro vederlo?». A cui Biancofiore: «Certo sí, nella vostra grazia; e la cagione che a questo mi moveria non saria amore ch’io gli porti, ma sola pietá de’ suoi parenti, la vita de’ quali io reputo che simile a quella de’ vostri sia, con ciò sia cosa che egli a’ suoi unigenito sia, sí come voi ai vostri: voi per me lasciaste i vostri dolenti, ed egli senza alcuna colpa, ma per sospecione di me meritò la vostra ira. Amommi, e però fu tolto al padre. Ora che avria la fortuna fatto a lui nocente, se egli m’avesse odiata? Concedano gl’iddii e a voi e a me che da tutti siamo di buono amore amati, e se essere non può che amati siamo di qualunque amore, e amiamo noi ciascuno come si conviene. «Ottimamente parli» disse Filocolo, e io la mia grazia e la tua presenza gli renderò, certo della tua fede, della quale ben fui per adietro certo; ma noi amanti ogni cosa temiamo, e però odiai. Come Febo ne renderá il nuovo giorno, rendute grazie agl’iddii che prima di te mi diedero speranza buona, ti farò lui vedere, il quale per dolore in su questo poggio in fontana si convertí.»
- Posaronsi la notte nel salvatico luogo sotto le tese tende, difesi da’ sopravvegnenti casi da’ loro sergenti; ma venuto il nuovo giorno, il duca, Ascalione e gli altri compagni insieme con Galeone furono a chiamare Filocolo, il qual levato, fece l’antico tempio mondare sí come l’altra volta, e fatto accendere fuochi sopra gli umidi altari, e fatti uccidere piú tori per salvazione di sé e de’ suoi compagni, con puro core offerse a’ fuochi le debite interiora di quelli, rendendo con queste voci grazie de’ ricevuti beneficii: «O sommo Giove, governatore dell’universo con ragione perpetua, e tu, o santa Giunone, la quale con felice legame congiugni e servi i santi matrimonii, e tu, o Imeneo, degno ed eterno testimonio di quelli, lodati siate voi! Ora per voi sento pace, e ho la lunga sollecitudine abbandonata, perciò che gli occhi miei veggono ciò che per adietro lungamente disiderarono, e le mie braccia stringono la loro salute. E tu, o santissima Venere, madre de’ volanti Amori, insieme col tuo amante Marte, ricevete i nostri sacrificii, li quali sí come a protettori e a guidatori delle nostre menti afferiamo. E voi qualunque iddii del solitario e diserto luogo siete abitatori, e da cui la veridica promessione ricevemmo, prendete olocausto in riconoscenza di tanto dono. E tu, o cielo, adorno di molte stelle, ricevi con tutti i tuoi iddii le nostre voci. E tu terra co’ tuoi, e similmente co’ suoi il verdeggiante mare, e della nostra salvazione visitati con possibili sacrificii vi rallegrate, e per inanzi di bene in meglio ne prosperate, acciò che nelle nostre bocche sempre cresca la vostra loda». Biancofiore, Glorizia, Ascalione, il duca e gli altri compagni e servidori di Filocolo, tutti ginocchioni nel tempio davanti a’ crepitanti fuochi dimoravano, seguendo con tacita voce ciò che Filocolo alto diceva nel cospetto degl’immortali iddii. Ma finite le divote orazioni, e levati da quel luogo, ordinarono, ad onore di quelli, giuochi con solenne ordine, e di quindi se ne vennero sopra la bella fontana, alla quale venuti, sopra la verde erbetta che i margini di quella adornava, Biancofiore prima e poi ciascuno degli altri si posero a sedere, e videro quella per li due luoghi del mezzo, sí come usata era per adietro, bollire. Di che Biancofiore, che ancora veduto non l’aveva, si maravigliò, e pensando allo stato di Fileno nel quale giá per adietro veduto l’avea, e a quello in che ora il vedeva, pietosa senza fine quella riguardando divenne, e parlato avria la sua pietá dimostrando, se non che avanti di lei cominciò verso Filocolo Menedon a dire queste parole: «O grazioso signore, debita pietá mi muove, la quale, dentro al cuore, del misero Fileno mi porge compassione, pensando che gli avversarii fati tanto tempo fuori della sua forma in questa l’abbiano tenuto: e certo se benivoli mi fossero gl’iddii, io gli pregherei per la sua salute, dove a voi dispiacere non credessi, perciò che egli mi fu assai caro, e a voi non dovria giá dispiacere, perciò che se voi avete i vostri disii ricevuti, degli altrui danni non dovete essere vago». «Non m’aiutino essi gl’iddii» disse Filocolo, «se la salute di Fileno non disidero, e se quella non mi fosse cara se la vedessi.»
- Mentre che cosí sopra la chiara onda si ragionava, quella tutta commossa nel mezzo, di sé mandò fuori una pietosa voce, e disse: «O tu il quale da debita pietá de’ miei danni se’ mosso a sí bene di me parlare, e la cui voce riconoscere mi pare, se ’l lungo dolore, o voce a quello ch’io credo simile, non m’inganna, gl’iddii mettano i tuoi piaceri avanti, e te guardino da simile caso, acciò che mai non provi quello di che se’ con ragione pietoso. Io ti priego per quella pietá che di me nel tuo petto dimora, se io mai ti fui caro, che quello che poco inanzi dicevi metti avanti, acciò ch’io cosí ti possa vedere come t’odo parlare, e adempiasi quel che la speranza mi promette». Menedon e gli altri a questa voce tutti attoniti diventarono, ancora che altra volta l’avessero udito parlare, e tacquero alquanto, e poi Menedon ricominciò: «Niuna ammirazione ho se la mia voce conosci, però che si com’io credo, le avversitá non danno a chi le riceve dell’amico oblianza; ma dimmi, se non t’è grave, qual via sia a’ tuoi beni piú utile, acciò che io per quella correndo ti riduca nel pristino stato». A cui Fileno: «Oimè, quanto lontano a quello mi sento! Una sola cosa mi manca, la quale avendo viverei contento, e quella è la grazia del signor mio Florio, figliuolo dell’alto re Felice, a cui io giá ti conobbi compagno: me ne sieno testimonii gl’iddii che fedelmente l’amai e l’amo! E non è lungo tempo passato che i miei dolori moltiplicarono, sentendo io da un giovine, nato vicino a Marmorina, che quinci passò, com’egli aveva la sua bella Biancofiore perduta, e pellegrinando con dolore la ricercava: e se egli quella riavesse, certo io conosco gl’iddii si misericordiosi, che essi mi renderebbero la perduta forma. Quella sola dunque mi procaccia con valevoli prieghi, quella mi racquista se mi vuoi trarre d’affanno. E se tu, o giovane, disideri forse di sapere perché io la perdessi, tel dirò. Certo io non sacrilegio, non tradimento, non omicidio, non ribellione commisi, perché giustamente movessi il mio signore ad ira, ma come giovane amai: e cui? Non sua nemica, ma quella giovane ch’egli sopra tutte le cose del mondo amava: io dico Biancofiore, la cui bellezza quanti la vedevano tanti ne innamorava. E certo io ignorava che egli lei amasse, ché se saputo l’avessi, ben che il cuore dell’amor di lei portassi ferito, con forza mi sarei infinto di non amarla. E quantunque io pur molto l’amassi, guastava però il mio amore la sua fermezza, la quale si dice che mai per alcuno accidente non mutò cuore: certo no! E se io il bel velo ebbi, il quale col mio non tacere mi fu di tanto male, quanto io sento e ho poi sentito, cagione, ella invita, comandandoglielo la reina, mel concedette: adunque per amore puoi vedere ch’io mi dolgo. Oimè, che se l’ira d’uno potesse trarre amore del cuore d’un altro, io direi che lecito gli fosse stato l’adirarsi; ma quella in me misero il multiplicò, né l’ha però scemato il lungo esilio. Ora quali cose sono con maggiore appetito disiderate che quelle che sono molto vietate? Veramente io ti giuro, che mai il mio pensiero non si distese tanto avanti ch’io sconcia cosa da Biancofiore disiassi, né disidererei giá mai, sentendo sí com’io sento che ella sia da lui sopra tutte le cose amata. Né mi pare ingiusta cosa a dire ch’egli piú si debba contentare che io la amassi che se io la odiassi. E se quel c’ho detto non si concede, e dicasi pure ch’io gravemente abbia fallato, o consentasi, e sia a chi si pente largito perdono. Giove perdona e ciascuno altro iddio a’ suoi offenditori, quando, riconosciuto il fallo, pentendosi dimandano perdono. Veramente mi saria grazia, s’io fallai, che il mio signore mi perdonasse, ché s’io non fallai, avendomi in ira, mancherebbe di suo dovere. Tanto è la grazia grande quanto è il perdono. Niuna ragione vuole che grado si senta del non ricevuto beneficio. S’io fossi in Marmorina e servissilo, e avessi la sua grazia intera, di ciò il mio servigio sentirei dovere rendere grazie. Oimè, che a’ signori dovria essere spesso caro il fallare de’ soggetti per poter perdonare, acciò che perdonando la loro grande benivolenza si mostrasse. Sanno bene gl’iddii, conoscitori degli occulti cuori, che io tal guiderdone del mio amore non meritai, ma forse altro peccato a sí fatta pena, sotto questo titolo d’avere Biancofiore amata, non senza ragione, m’ha menato. Bella vittoria e grande è il perdonare. Dunque per onore del mio signore, e per lo mio utile il priega: e se tanto di me ti cale, non ti paia l’affanno, che non fia piccolo, malagevole, acciò che me possa rendere lieto a’ miseri parenti, ignoranti de’ miei angosciosi fati. Per merito del quale bene, se ’l farai, spero che lungamente gl’iddii ti serveranno lieto a’ tuoi, se gli hai».
- «Non fia si lungo come pensi l’affanno», rispose Menedon alla fonte. E volto a Filocolo, a cui niente riferire bisognava, che tutto aveva udito, con umili prieghi gli domandò che la sua grazia gli rendesse, e con Menedon ciascuno degli altri in merito del lungo affanno similemente la dimandarono. A’ quali Filocolo liberamente la concedette, giurando per se medesimo che di perfetto amore l’ameria per inanzi, e le preterite cose sí come fanciullesche metteria in oblio: di che tutti il ringraziarono. E Filocolo a Biancofiore commise che sí lieta novella narrasse all’aspettante, la quale graziosa non aspettò il secondo comandamento, ma voltato sopra la fonte il viso, riguardando in essa, disse: «O giovane, che nelle liquide onde la tua forma nascondi, confortati, la grazia del tuo signore t’è renduta: e però sicuro nella sua presenza ti presenta». La chiara fonte sí tosto come in sé ricevette la bella imagine della sua donna, la conobbe, e lasciato l’usato bollore, con soave movimento intorno a quella mostrava festa, e la voce entro per le dolenti caverne rendeva letizia, per che il misero cosí parlò: «O immortali iddii, a’ quali niuna cosa si occulta, sia la vostra inestimabile potenza lodata. Io per la vostra benignita quella dolcezza ho gustata, che la nemica fortuna mi tolse quando Marmorina abbandonai, e quella donna, per cui l’amara iniquitá sostenni, la riavuta grazia m’ha annunziata. Piacciavi adunque misericordiosamente operare che io nella prima forma tornando lieto a’ cari amici mi presenti». Egli diceva ancora queste parole, quando i circustanti videro le chiare acque coagularsi nel mezzo e dirizzarsi in altra forma abbandonando il loro letto erboso, né seppero vedere come subitamente la testa, le braccia, il corpo, le gambe e l’altre parti d’un uomo, di quelle si formassono, se non che, riguardando con maraviglia, co’ capelli, con la barba e co’ vestimenti bagnati tutti trassero Fileno dal cavato luogo, e davanti a Filocolo il presentarono. Al quale egli, come il vide, s’inginocchiò davanti, e con pietose voci dimandò perdono, e appresso di Filocolo la benivolenza, le quali cose benignamente Filocolo gli concedette. Egli fu di nuovi vestimenti vestito e adorno, e li ravviluppati capelli e la malestante barba furono rimessi in ordine, levandone le superflue parti, e lieto si diede con gli altri cavalieri a far festa, maravigliandosi non poco qual caso quivi gli avesse menati insieme con Biancofiore. Il cui viso poi ch’egli ebbe veduto, stimandolo piú bello che mai gli fosse paruto, contento tacitamente si dispose al vecchio amore, credendo senza quello niuna cosa valere.
- Queste cose cosí faccendosi, s’udi nel luogo un grandissimo romore, come di gente che, combattuuto, avesse la vittoria del campo acquistata. Del quale Filocolo co’ suoi si maravigliò, e dubitando alquanto dimandò Fileno se noto gli fosse e che significasse il romore, e chi il facesse. Al quale Fileno rispose sé molte volte simili romori avere uditi, ma per chi fatti fossero del tutto ignorava. Allora sí come a Filocolo piacque, il duca Feramonte e Massalino, sopra forti cavalli, armati e accompagnati da molti de’ sergenti, andarono per conoscere la cagione di tanto romore, e usciti dal folto bosco videro nel piano, alla riva del picciolo fiume, dall’una parte e dall’altra molta gente rustica nel sembiante, a’ quali non tenda né padiglione era, ma tagliati rami davano loro le disiate ombre; né alcuno v’era che di cappello d’acciaro o d’elmo rilucesse, né che cavallo facesse fremire nel povero campo, né tromba risonare, ma rozze corna movevano la disordinata gente a’ suoi mali; e quasi la maggior parte delle loro arme erano bastoni, e poche spadette tenevano occupati i loro lati, le quali poche non avevano forza di piegare i solari raggi in altra parte, che dove il sole gli mandava. I loro scudi erano ad alcuni le dure scorze del morbido ciriegio, ed altri si capriano di quelle della robusta quercia, e alcuni forse piú nobili gli avevano, ma si affumicati, che in essi niun’altra cosa che nera si vedeva. In luogo di balestra usavano frombole, e i loro quadrelli erano ritondi ciottoli; le loro lance si prendeano da’ fronzuti canneti. Archi erano loro assai, le cui saette in luogo di ferro erano appuntate col coltello, né era loro bandiera alcuna, fuori che una di tela assai vile, la quale mezza bianca e mezza vermiglia si mostrava al vento, credo piú tosto di pecorino sangue tinta che di colore; e simigliantemente l’avversa parte l’aveva di tanto diversa, che all’una era il bianco di sopra e all’altra era di sotto: e di dietro a queste ora qua, ora la, quale poco e quale assai correvano disordinati.
- Come il duca e Massalino videro i rozzi popoli, di loro si risero, e alquanto gli riguardarono, e giá avevano determinato di ritornarsi indietro, quando Massalino disse: «Perché non andiamo noi a loro, e di loro condizione ci facciamo certi, acciò che tornando a Filocolo, il quale di tutto loro essere ci dimanderá, non sappiendogliela ridire, non siamo da lui scherniti?». «Andiamo», rispose il duca; e verso quelli che giá mostravano di loro dubitare, con segno di pace s’appressarono, e con graziosa voce, non mostrando d’avere la loro picciola condizione a schifo, gli salutarono, e quelli, che sopra la riva del fiume dimoravano dal lato del bosco, dimandarono chi fossano e perché quivi stessono, e quale era stata la cagione del loro romore poco avanti. A’ quali uno di loro, il quale forse aveva degli altri il maestrato, cosí rispose: «Noi, li quali voi qui vedete, siamo abitatori d’un picciolo poggio qui vicino, il quale gli antichi nostri chiamarono Calone, e noi da quello Caloni ci chiamiamo, popolo robusto e fiero nelle nostre armi, e niun altro è a cui il lavorio della terra meglio sia noto, né ch’a fatica in ciò a comparazione di noi possa durare: e la cagione per che qui dimoriamo è acciò che passare possiamo questo fiumicello e di sopra a quel terreno cacciare m perdizione la gente che ivi vedete, la quale nuovamente venuta qui, un poggio simile al nostro, che in nostra iurisdizione era, s’ha preso, e abitalo oltre il nostro volere, e chiamansi Cireti. I quali, sí come voi vedete, a contradirci il passo qui a fronte a noi sopra la rivera si sono posti, né in alcuna parte possiamo su per quello andare che essi non ci vengano tuttavia davanti. Il gran romore che fu poco avanti fu per due che nell’acqua si combattevano, a conforto de’ quali ciascuno col gridare aiutava il suo, ma ultimamente il nostro ebbe vittoria, per che di quercia l’incoronammo, come la vedere il potete». Disse allora Massalino: «Secondo ch’io avviso, voi dovreste con pace poter sostenere che coloro abitassero il loro poggio, per che sí gran popolo non mi parete che soperchio terreno senza quello che coloro hanno preso non abbiate, ma ne avete tanto che senza coltura la maggior parte veggiamo». «Certo» disse il villano, «piú contrarieta di sangue che vaghezza di terreno ci muove a queste brighe, per mio avviso.» «Che contrarietá di sangue» disse Massalino, «è tra voi? Non siete voi tutti uomini, e _in una contrada abitanti, e in un luogo?» «No», rispose colui; «noi fummo dell’antica cittá di Fiesole, e allora di quella uscimmo quando Catelina, de’ nostri mali singulare cagione, superato da Antonio e da Afranio ne trasse i nostri antichi, i quali della mortale battaglia appena campati qui fuggirono, e quasi in dubbio della loro salute abitarono quel poggetto che davanti vi dissi, sotto quel nome che avete udito che ci chiamiamo. Ma costoro, non è gran tempo passato, quando Attila guastò la nuova cittá da’ romani fatta a’ piè della nostra, temendo le fiamme e l’ira del tiranno, qui fuggirono, e senza alcuno congedo abitarono il paese prima da noi occupato: per che noi, a giusta ira mossi, ogni anno a quello che ora ne vedete ne siamo e saremo infino a tanto o che noi di questo paese fuggendo gli cacceremo o che essi noi e le nostre case renderanno vinti.»
- Udite queste cose, il duca Feramonte e Massalino si partirono da loro e tornarono a Filocolo, e ciò che udito avevano e veduto gli dissero: di che Filocolo si rise, e volle andare a vedere. E venuto ad essi, tanto con parole gli commosse che essi presero ardire, e si misero a passare il fiume, il quale non sopra la cintura gli bagnava. Ma essi non furono giunti all’altra riva, che i loro avversarii armati vennero loro incontro, e in mezzo al fiume cominciarono senza ordine la loro battaglia forte, co’ duri bastoni lacerando le salvatiche armi e i loro dossi. Arco né frombola non ci avea luogo per la loro vicinitá; e se alcuna spada v’era, o dava in fallo o se feriva si torceva. L’acqua che giá piú rossa che bianca correva, gl’impediva molto, e tal volta i piú codardi faceva valorosi combattitori, nella molle arena ritenendo i loro piedi, i quali per lo duro campo sariano fuggiti. Ma poi che per lungo spazio combattendo ebbero durato, tornandone molti dall’una parte e dall’altra magagnati, avendo Filocolo assai riso co’ suoi compagni de’ modi nuovi di costoro, col suo cavallo entrò nell’acqua, e li pochi rimasi alla battaglia divise, e ciascuno pari fece al suo campo tornare. Ritornati cosí costoro, non dopo molto spazio le risa di Filocolo si voltarono in pietá, vedendo i magagnati dolersi e senza alcuno compenso a’ loro mali. E perciò che a lui pareva di ciò essere stato cagione, si pensò di volergli pacificare, e in ristorazione de’ loro danni fare una terra nella quale sicuri vivessero sotto savio duca: e questo narrando a’ compagni, da tutti fu lodato.
- Allora Filocolo fece a sé chiamare dell’una parte e dell’altra i principali, e la cagione dimandò della loro discordia. De’ quali l’uno perché combatteva, l’altro perché si difendeva narrarono interamente, a’ quali Filocolo disse: «O miseri uomini, poveri e d’avere e di consiglio, perché al piccolo numero di voi, lo quale ha piú tosto d’aumento bisogno che d’altro, combattendo cercare distruzione? A voi dovria bastare seguire di Saturno la dottrina, senza volere di Marte usurpare l’oficio, perciò che in voi né nobiltá di core, né ordine, né senno, né arme non dimora. Voi combattete acciò che soli qui rimagnate in questo piano, ma non vi avvedete che, se questo continuate, in brieve tempo il piano di voi rimarra solo, e le case che avete con affanno fatte e che dovreste in pace abitare, gente strana verrá che senza affanno le si goderá. Ora fu dagl’iddii data alla terra l’ampia superficie, perché un popolo solo la dovesse abitare? Non vi bastava il luogo che possedete? Che vi faceva se costoro alquanto da voi lontano si posero a dimorare, i quali, pensando che vostri antichi fratelli furono, se ben si guarda, dovevate nelle vostre case proprie ricevere? Pensando che similmente voi cosí come essi fuggitivi veniste in questo luogo, e quella ragione ci avevate che essi ora per loro difendono? Io pietoso de’ vostri danni voglio che l’uno all’altro perdoni le ricevute offese, e che sia tra voi vera e perfetta pace: e cosí come voi foste fratelli, cosí ricominciate, e de’ due popoli piccoli e cattivi divegnate uno grande e buono. E io, acciò che l’uno non isdegni andare a casa dell’altro ad abitare, vi darò nuova abitazione, la quale vi cignerò di profondi fossi e d’altissime mura e di forti torri, e in quella vi donerò armi, per le quali, se alcun vicino invidioso del vostro luogo ve lo volesse torre, il potrete difendere. Io vi darò similmente chi vi guiderá con ragionevole ordine, e le vostre quistioni con diritto stile terminerá, e sotto la cui protezione sicuri viverete come uomini: e oltre a questo, vi donerò doni, pe’ quali ornare vi potrete e parer belli quando gli altrui paesi visitare vorrete». Davanti al viso del magnifico uomo niuno seppe che dirsi, ma contenti dell’alte promessioni, strignendo le spalle, dopo alquanto risposero: «Messere, noi faremo ciò che voi vorrete». E tornato ciascuno a’ suoi queste cose riferí. E quali migliori novelle potevano loro essere contate? Essi, poco davanti in tanta discordia, insieme nel cospetto di Filocolo tutti vennero, e quelli che impotenti erano per i ricevuti colpi vi si fecero portare, e gittatiglisi a’ piedi, con una voce tutti la profferta grazia dimandarono, la quale Filocolo disse di fare. E fattigli entrare nel santo tempio, prima per la futura pace offersero sacrifici agl’iddii e quella con orazione divota dimandarono, e poi in presenza degl’iddii e di Filocolo e de’ suoi compagni baciandosi tutti insieme giurarono mai per accidente alcuno tal pace non rompere, ma intera fra essi e’ loro successori servarla, e sempre essere a Filocolo, o a chi per lui vi rimanesse, soggetti.
- Queste cose fatte, Filocolo rimaso in sollecitudine d’osservare le promesse cose, co’ suoi compagni cavalcò per la contrada salvatica, esaminando con gli occhi e con la mente qual luogo piú alle nuove mura fosse atto, appresso il quale insieme andavano Fileno e Galeone simile cosa guardando. E avendo per lungo spazio attorniato il paese, Galeone disse a Fileno: «Perché Filocolo sopra questo poggio, dove questo cerreto dimora, non edifica la nuova terra? Niuno luogo ho veduto ancora in queste parti tanto atto a tal mestiere: questo tutta la contrada signoreggia, questo è forte luogo e bello, questo è d’acque abbondevole, sí come molti piccioli rivi ne mostrano. Questo è quasi in mezzo tra l’una abitazione e l’altra de’ due popoli divenuti uno. Niuno difetto è qui, per lo quale piú tosto sia da cercare altro luogo. Esso è similmente dall’orientale plaga vicino al fiume ove fu la sconcia zuffa di costoro, e ’l mezzogiorno da loro il veloce fiume chiamato Elsa. Io direi che questo fosse il migliore luogo che avere si potesse in questa parte». Questo diviso piacque a Fileno, e parve loro di dirlo a Filocolo. Le quali cose come Filocolo udi, cosí acconsenti al loro consiglio dicendo: «Veramente cosí è come voi dite, e qui per lo vostro consiglio fermeremo a’ villani la nuova terra».
- Chiamaronsi i villani come a Filocolo piacque, e l’antica selva, dove mai scure non aveva suo taglio provato né dente d’alcuna bestia fatto offesa, per paura degl’iddii, credendo i circustanti che qualunque fronde di quelle fosse piena di deitá, comandò che si tagliasse tutta, ma prima con pietosa orazione scusandosi agl’iddii, se in essa forse alcuni n’abitassano, cosí dicendo: «O iddii di questo luogo abitatori, se alcuno ce ne abita, perdonatemi la nuova ingiuria la quale io non arrogante contro alla vostra potenza commetto sí come Erisitone fece, ma disideroso di darvi per abitacolo piú fruttuosa selva che di cerri, fo questo». E dette queste parole, con le proprie mani faccendo quello che molti dubitavano di fare, a tutti porse ardire.
- Tagliato l’antico bosco, Filocolo, pietoso de’ disperati popoli, pensò al loro riposo con sollecitudine, disiderando poi di rivedere il padre. Ma Biancofiore da altra sollecitudine era molestata; e Glorizia, che il dolce aere della vicina Roma sentiva, accesa d’ardente disio di rivedere quella oltre all’usato modo, dimorando sola un giorno con Biancofiore, cosí le cominciò a dire: «O giovane donna lungamente per lo mondo errata, come non ti strigne l’amore della tua patria? Come non disideri tu di vedere la tua Roma la quale tu mai non vedesti? Or non ti saria egli caro vedere gli stretti parenti del tuo padre, e quelli della tua madre, i quali tu non conosci né essi te? Tu ora se’ a quella vicina, né puoi a vederla niun tempo eleggere migliore: e certo quello che fu in disiderio agli strani, posti nell’ultime parti de’ regni, dei quali ancora ti vedrò coronata, ben dee essere a te, di lei figliola, in volontá: preegane il tuo Florio che di quindi ci andiamo, il quale niuna cosa pare che tanto disideri quanto il piacerti. E se egli forse per la nuova impresa vuole pure essere qui, e, questo fornito, non vuole piú tempo mettere in mezzo a rivedere il padre, concedati almeno che in questo mezzo noi possiamo andare a vederla. Noi, accompagnate dal suo e tuo maestro Ascalione, staremo poco a tornare qui, ché certo quinci partendoci non si vedrá il sole sei volte nuovo, prima che tu vedrai i tuoi strettissimi parenti e di Roma grandissimi prencipi. Vedrai le grandissime nobiltá della tua terra, tra le quali il gran palagio ove i romani consigli si facevano, e similmente il Coliseo, e Settensolio, fatto per gli studii delle liberali arti. Vedrai la sepoltura del magnifico Cesare tuo antico avolo, posta sopra l’acuto marmo di Persia; e vedrai la colonna d’Adriano e l’arco adorno delle vittorie d’Ottaviano. O quante cose mirabili ancora, vedute queste, ti resteranno a vedere! Io poi da tutti i tuoi parenti conosciuta, darò con le mie parole ferma fede che tu di Lelio e di Giulia sia stata figliuola, e sarò creduta, però che i miei parenti, ancora che al tuo servigio io sia, non sono ignobili. Ed essendo tu riconosciuta da’ tuoi, sarai ricevuta negli antichi palagi, e intorniata di nobilissime donne, le quali per lo grande amore che ti avranno e per le tue bellezze ti guarderanno per maraviglia, faccendoti ciascuna onore a prova, e sarai da tutte tacitamente ascoltata narrando i tuoi casi, i quali esse ascoltando spanderanno lagrime d’amore baciandoti mille volte, e appena parrá loro che tu con esse sia, tanto fia il disiderio loro d’essere teco. E i fratelli del tuo padre, lieti di sí bella nipote, ordineranno feste, parendo loro avere racquistato il perduto Lelio, e saranno molto piú di te ora contenti che se picciolina t’avessero avuta, e massimamente sentendo la veritá della tua virtuosa vita, laudevole infra le dee del cielo, e ancora veggendoti sposa di Florio, figliuolo di sí alto re, com’è quello di Spagna: e piú si rallegreranno, sentendo che corona d’oro sia alla tua testa apparecchiata quando il vecchio re morisse, ancora che molti de’ tuoi antichi la portassero. Perché mi fatico io di dirti quanto tu dell’andarvi diverrai contenta, con ciò sia cosa che io mai la menoma parte dire non te ne potrei? Però andiamoci, ché, se niuna altra cosa te ne seguisse, se non che tu conoscerai te non essere quella che forse tal volta la coscienza ti dice, per le udite parole sí vi dovresti tu volere andare. E con tutte queste cose ancora farai tu me lieta piú ch’altra femina fosse mai, però che io rivedrò i miei, i quali forse giá è lungo tempo dierono per me pietose lagrime, credendo ch’io fossi morta. Non essere a’ miei prieghi dura, io te ne priego, ma se io mai grazia da te meritai, concedi questo ch’io con tanti prieghi t’addamando».
- Glorizia tacque, e Biancofiore cosí le rispose: «O donna, a me piú cara che madre, e cui io sola per madre riconosco, perché con tanto affetto priego sopra priego aggiugnendo mi prieghi, né piú né meno come se tu avessi in me sí poca fede che incredibile ti fosse che io per te non facessi ciò che per me si potesse operare? Tu disideri d’essere in Roma, e a me t’ingegni, dov’io d’esservi non disiderassi, di farmelo dísiderare con le tue parole, le quali in veritá il gran disio, ch’io aveva di vederla, assai m’hanno acceso: e se io mai disiato non l’avessi, vedendolo a te disiare, sí lo disidererei; ma come posso io mettere ad effetto, se non quanto piace al mio Florio? Non sai tu che per matrimoniale legge gli sono legata? Io non posso, né debbo far piú ch’e’ voglia, però che egli è mio signore per molte ragioni. Non fu’ io in casa sua nutricata? Non sono io da lui per tutto ’l mondo stata ricercata? Non m’ha egli con pericolo della sua propria persona tratta delle mani della canina gente, ov’io era in servaggio venduta? Non sono stata io per lui due volte liberata da morte? Non sono io similmente sua sposa? Dunque seguire i suoi piaceri deggio, non egli i miei. Se tu vuoi ch’io il prieghi, ben so che nulla cosa è che al mio priego e’ non facesse; ma io debbo guardare di che lo priego, però che sovente priegano alcuni di cose che pregando a sé negano il servigio. Come potrei giustamente pregare Florio che a Roma venisse, con ciò sia cosa che egli m’abbia detto, giá è assai, che egli sopra tutte le cose del mondo disidera di rivedere il vecchio padre, della cui morte egli dubita molto, per lo dolore nel quale egli il lasciò, quando da lui per cercar me si parti? Dirogli io: ‛Cerchiamo prima Roma’, sappiendo ch’egli altro disidera? E se, come tu dí, la magnificenza e la bellezza di Roma ha potere di trarre a sé gli uomini di lontani paesi a farsi vedere, dunque quanto maggiormente deve potere, veduta, ritenergli? Ecco che Florio a’ miei prieghi vi venisse, e di quella vago oltre alla sua intenzione vi dimorasse, e in questo tempo alcuna novitá nel suo regno nascesse, la quale egli andandovi trovasse, non direbbe egli: ‛Per te, Biancofiore, m’è questo avvenuto, che mi tirasti a Roma ’? E s’egli il dicesse, qual dolore mi saria maggiore? E forse ancora per quello che il suo padre fece al mio, dubita di venirvi, e non senza ragione: però ch’io ho giá udito che i romani niuna ingiuria lasciano inulta. Ma tu dí: ‛Andiamo noi senza lui’; ora non pensi tu come egli mi ama, e che mai da sé partire non mi lascerebbe, a cui, per l’essere noi divisi, tanta noia quanta tu sai è avvenuta? Certo egli tenendomi in braccio appena mi si crede avere, e continuamente dubita che li contrarii fati non tornino che me gli tolgano; e non una ma molte volte m’ha detto che mai altro che morte non ne dividerá, la quale gl’iddii facciano lungo tempo lontana da noi. E s’egli pure avvenisse che senza sé in alcuna parte mi fidasse, non è alcuna ove egli piú tosto non mi lasciasse andare che a Roma, però che egli s’imaginerebbe che i miei parenti a lui mi togliessono, e ad altrui mi dessono, la qual cosa io mai consentirei: dunque seguitiamo prima i suoi piaceri, però che si conviene lasciargli prima rivedere il vecchio padre e la dolente madre e il suo regno, i quali veduti, con piú audacia gli dimanderò Roma vedere co’ miei parenti. Tanto abbiamo sostenuto, ben possiamo questo piccolo termine sostenere, e io te ne priego che infine quell’ora, per amore di me, con pazienza sostenga il tuo disiderio».
- Non parlò piú avanti Glorizia, se non: «Quanto ti piace t’attenderò»; e tacitamente da lei partendosi, fra sé disse: «Quello Dio il quale io adoro e in cui spero, tosto la mi faccia rivedere». Sopravvenuta la notte, Biancofiore nel dilicato letto si diede al notturno riposo: la quale poi che de’ gradi con che sale ebbe passati cinque, nel sonno furono da Biancofiore mirabili cose vedute. A lei pareva essere in parte da lei non conosciuta, e vedere quivi davanti da sé sospesa in cielo una donna di grazioso aspetto molto, e le bellezze di quella le sue in grandissima quantitá le pareva che avanzassero; a cui ella vedeva sopra la bionda testa una corona di valore inestimabile al suo parere, e i suoi vestimenti vermigli e percossi da una chiara luce fiammeggiavano tutto il circustante aere, de’ quali niuna parte era senza adornamento di nobilissime pietre e d’oro; e nella destra mano le vedeva una palma verde, simile da lei mai non veduta, e la sinistra teneva sopra un pomo d’oro, che sopra il sinistro ginocchio si posava, e sedeva sopra due grifoni, i quali verso il cielo volando, tanto l’avevano verso quello portata, che le pareva che la sua corona con le stelle si congiungesse, e sotto i suoi piedi teneva un altro pomo, nel quale Biancofiore rimirando estimava che tutte le mondane regioni descritte vi fossero e potessonsi vedere. Ella vide similmente dal destro e dal sinistro lato di costei un uomo di grandissima autorita ne’ suoi sembianti; ma quelli che dalla destra della bella donna sedeva, le pareva che fosse antico, e negli atti suoi modesto molto, similmente come la donna incoronato di corona significante incomparabile dignitá, il quale era vestito di vestimenti bianchi, ben che un vermiglio mantello sopra quelli avesse disteso, e sopra uno umile agnello le pareva che si sedesse, nella mano destra tenendo due chiavi, l’una d’oro e l’altra d’argento, e nella sinistra un libro, e i suoi occhi sempre aveva al cielo. Ma certo colui che dalla sinistra della donna sedeva, era d’altro aspetto: egli era giovane e robusto e fiero ne’ sembianti, incoronato d’una corona tanto bella che quasi con la luce che da essa moveva e la donna e ’l vecchio tutti faceva risplendenti, ed era di vermiglio vestito come la donna, e sedea sopra un ferocissimo leone, nella sinistra mano tenendo un’aquila e nella destra una spada, con la quale in quel ritondo pomo che la bella donna sotto i piedi teneva, faceva non so che rughe. Le quali cose Biancofiore con ammirazione riguardando, e massimamente la bellezza della gentil donna, fra sé le pareva cosí dire: «O bella donna, la quale nel viso non sembri mortale, beato colui che tale singulare bellezza possiede quale è la tua. Certo io non vorrei per alcuna cosa che cosí com’io ti veggio il mio Florio ti vedesse, però che mi parrebbe essere certa che di leggieri me per te mettesse in oblio; ma caro mi saria molto conoscerti, acciò che la degna laude che tu meriti, con la mia voce manifestassi agl’ignoranti». Queste parole dette, pareva a Biancofíore che la donna cosí le parlasse: «O cara figliuola, tanto si stenderá la mia vita quanto il mondo si lontanerá, e allora che tutte le cose periranno, e io le mie bellezze, che secondo la tua estimazione hanno giá molti fatti beati e fanno e faranno, solamente che di quelle si trovino disianti, le quali però sí come tu imagini, non hanno potenza di nuocere alle altrui. Tu disiderosa nel tuo parlare di conoscermi, il dí passato rifiutasti di venirmi a vedere e conoscere. Io per te perdei il tuo padre e la tua madre, e tu il difetto di loro non vuogli rintegrare. Se io ti paio cosí bella come tu dí, come a vedere non mi vieni? Ora io voglio che tu sappi ch’io sono la tua Roma. E se gran parte dei peccati del tuo suocero, per costui (volgendosi al vecchio), davanti la maestá del sommo Giove deleta non fosse, il tuo Florio la spada di quest’altro ancora torrebbe: però viemmi a vedere senza alcun indugio, ché il tuo fattore vuole, e non senza gran bene di te e del tuo marito». E questo detto sparí, né piú avanti la vide Biancofiore: per che rimase stupefatta nel sonno di tanta bellezza. Dopo picciolo spazio si svegliò, né piú dormi per quella notte: anzi, sopra ciò che veduto avea, pensosa stette infine che il sole apparve. Allora ella e Florio levati, e venuti a’ verdi boschi, e rimirando i nuovi tagliatori, ciò che Glorizia il passato giorno le aveva parlato e quello che la notte avea veduto detto e udito gli raccontò: e, dopo ciò che detto le aveva, intimamente pregandolo, se essere poteva senza disturbamento del suo avviso, che essi avanti a tutte l’altre cose dovessero visitare Roma, la quale mai veduta non avevano. Molto si maravigliò Filocolo di ciò che da Biancofiore udí raccontare, e udendo il suo disio cosí acceso d’andare a Roma, mutò disio, e rispose: «Biancofiore, cara sposa, tanto m’è caro quanto a te piace: tutta a tuo volere sia la nostra andata, quando ordinato avrò quello che i fati hanno voluto ch’io incominci». A cui Biancofiore disse: «Signor mio, a tua posta e l’andare e ’l dimorare sta; ma se di ciò il mio disio si seguisse, il piú tosto che si potesse saremmo in cammino». «E sí faremo noi, rispose Filocolo. Egli s’era giá al piccolo monte levata tutta la verde chioma, e niuna cosa alta sopra quello si vedeva se non le mura del vecchio tempio, quando Filocolo, fatti prendere i buoi, primieramente con profondo solco segnò i fondamenti delle future mura, e appresso ordinò i luoghi delle torri, e le mura in qual parte aperte, per dar luogo agli entranti, dovessono rimanere. E similmente divisò le diritte rughe, e quali luoghi per eterne abitazioni rimanessero. E fatto questo, chiamò a sé Galeone, a cui egli disse: «Giovane, tu, secondo il tuo parlare, ami crudelissima donna senza essere da lei amato; e se io ho bene le tue parole per adietro notate, come giá ti fu caro l’essere subbietto ad amore, cosí ora carissimo partirti da lui del tutto ti saria: la qual cosa a fare, ottimo oficio t’ho trovato, quando ti piaccia. Io, come tu vedi, la nuova terra ho cominciata, la quale producere a fine, concedendolo gl’iddii, ho proposto, e con ciò sia cosa che sollecitudine mi stringa maggiore, questo affatto intendo di commettere altrui, e, insieme col quale, il dominio del luogo concederò a chi lo prenderá. Se tu lo vuoi prendere, la sollecitudine tua converra essere molta, e in molte cose e diverse, le quali avendo, la vaga anima per forza abbandoneni gli amorosi pensieri, e quegli abbandonando, metteni in dimenticanza, e, dimenticati, potrai dire te essere dalla infermita che sostieni liberato, e fuori delle mani della crudele donna. E non ti sia noia se io edificatore ti faccio di mura, e se gente rozza e grossa ti do a governare piú tosto che terra fatta con gente ordinata, la quale alla tua gran virtú conosco si converria, però che se io ti dessi quelli a reggere, il loro ordine e la loro mansuetudine poco affanno o niuno daria alla tua mente, e cosí in quelli pensieri ove dimori, in quelli perseverando staresti, né mai liberato saresti da amore. Ma costoro inordinati e materiali sovente ti moveranno ad ira, la quale tu paziente sosterrai, e la loro inordinatezza ti sará materia di pensare come a ordine gli potresti recare: da’ quali pensieri, e d’altri molti, quello che giá ti dissi ti seguirá. A diverse infermitá, diversi impiastri adopera il savio medico: prendi questo alla tua per mio consiglio, se disideri di sanare».
- Galeone, udendo il savio consiglio e conoscendo la liberalitá di Filocolo, e similmente il perpetuo onore e l’utile che di ciò che Filocolo gli profferea gli poteva seguire, gli rispose: «Signor mio, a molto piú valoroso di me sí alto oficio converria, il quale ancora, sí come voi dite, ottimo rimedio conosco alla mia infermitá, e però in luogo di grazia singulare da voi il ricevo, apparecchiato ad ogni riconoscenza che voi vorrete di tanto dono, e lá dove io insofficiente fossi, quant’io posso di voto priego gl’iddii che in luogo di me al mio difetto suppliscano, e voi lungo tempo conservino in vita, sempre di bene in meglio aumentandovi». Concessegli adunque Filocolo il luogo, e dei suoi tesori gran parte gli fece donare, acciò che la cominciata opera potesse magnificamente compiere: e fatti convocare tutti e due i pacificati popoli, i quali del nuovo luogo dovevano essere abitatori, a Galeone fece intera fedeltá giurare, e promettere che essi lui e per signore e per difenditore avrebbero sempre, né i suoi comandamenti in niuno atto trapasserebbono: i quali se passassono, secondo il suo giudicio del passamento sosterriano la punizione; e quelle leggi, che egli desse a loro, serverieno, ed essi e i loro discendenti. Cosí similemente Galeone promise di servarli, di governarli e guardarli, come cari fratelli e subbietti, da qualunque persona che ingiustamente offendere li volesse Allora Filocolo disse a Galeone: «Omai edifica, e di bene in meglio la tua terra, la quale tu chiamerai Calocipe, accrescerai». E fatti i suoi arnesi acconciare, e a ciascuno vietato che senza sua licenza chi e’ fosse non manifestasse ad alcuno, essi in abito di pellegrini montarono a cavallo, e accomiatati da Galeone, cavalcarono inverso Roma.
- Rimase Galeone col rozzo popolo chiamato Calocipe, e il primo comandamento fatto da lui alla nuova gente fu che essi dentro al cerchio fatto per le mura future, dovessero le loro cose recare, e in quello abitare co’ loro figliuoli e con le loro famiglie: di che egli fu ubbidito senza niuno indugio, faccendo a distensione de’ solari raggi e del lacrimoso verno case di giunco assai rozze e di terra e di bovino sterco mescolato murate. Questo fatto, egli fece i profondi fondamenti cavare, e di cotti mattoni fece fare bellissime mura, delle quali circuí tutta la nuova terra, faccendo a quella otto porte, e ciascuna di sopra ad essa aveva una fortissima ed alta torre, e dopo questo, ampissimi fossi aggiunse al circuito. Ella pareva giá terra, e di lontano le merlate mura si potevano guardare: per che egli pensando che le mura senza uomini e gli uomini senza arme niuna cosa a resistenza de’ nimici valeano, a ciascuno uomo all’arme possente in prima donò arme, mostrando a loro con poca fatica come vestire e usare le dovessero, e poi riparò il vecchio tempio con gran divozione dedicandolo a Giove; e quivi i sacerdoti ordinò, ammaestrati a sacrificii statuiti per lui al sommo Giove; e similmente i giuochi da Filocolo ordinati rinnovò, e quelli comandò che si facessero ciascun anno, entrante il sole nel suo Leone. Queste cose cosí fatte, gli piacque nella piú alta parte della sua terra edificare a sé reale abituro, il quale magnifico fece, e, sopra esso dimorando, . potea tutto il suo popolo vedere: nella gran corte del quale aveva ordinato di dare leggi al popolo, per le quali esso debitamente vivesse. E giá veggendo a ciascuno avere la rustica casa in bello abituro conversa di pietre e di mattoni cotti a simiglianza del suo, e le rughe essere diritte e piene di popolo contento, volle loro dare modo di vestimenti, e diede, acciò che uomini e non selvagge fiere paressero. Similmente statuí loro ferie, nelle quali cessare le fatiche dovessero e darsi a’ riposi; ed egli similmente a diversi studii delle liberali arti ne dispose alcuni, e altri alle meccaniche. E nel lungo spazio volle che con ordine costoro serrati nel picciolo cerchio, sicuri la notte dormissero contenti di tal reggimento, e conoscenti che divenuti erano uomini per la discrezione e sollecitudine di Galeone: ed egli similmente di tali subbietti si contentava, vedendogli abili e disposti a qualunque cosa che egli voleva. Che piú dirò di lui? Egli in tale ordine e disposizione il luogo recò in pochi anni, che le mura ampliare si convennero, le quali poi invidiate ne’ futuri tempi, miseramente caddero sotto altro duca.
- Il pellegrino Filocolo in pochi giorni pervenne a Roma, e in quella tacitamente entrò; e sí come a lui piacque, in un grande ostiere smontò vicino agli antichi palagi di Nerone, e quivi dimorò alcun giorno, senza essere conosciuto. Avvenne che andando Filocolo con Ascalione e col duca e con Fileno e con gli altri in pellegrina forma, vedendo le mirabili cose di Roma, Menilio Africano, a Lelio stato fratello, si scontrò con loro, e vide Ascalione, la cui riconoscenza non gli tolse l’abito pellegrino, ma ricordandosi lui essere stato congiunto di stretta amistá con Lelio, con alta voce chiamandolo disse: «O santo Ascalione, or privami la tua santitá delle tue parole, perché peccatore io sia? Perché sí largo passi senza parlarmi?». Allora Ascalione, che ben lo riconosceva, si volse e disse: «Dolce amico, tutto il contrario mi faceva dubitare di parlarti». Elli s’abbracciarono quivi molte volte, e insieme gran festa si fecero, ripetendo i tempi preteriti; ma dopo l’amichevoli accoglienze, Menilio domandò chi fossero i compagni, al quale Ascalione rispose: «Questi sono giovani miei amici, i quali udendo la gran fama della vostra cittá, meco, pellegrino, pellegrinando vollero venire a vederla, e giá qui dimorati siamo piú giorni, e omai credo ci partiremo». Disse allora Menilio: «Ora conosco che solo l’amore di Lelio mio fratello alla mia casa ti menava, e non il mio, poi che, lui tolto di mezzo, alla nostra casa disdegni di venire. Oimè, come tu gravemente offeso m’hai, essendo altrove dimorato in Roma, che meco! Io ti priego per quella fede che tu a Lelio portasti, che tu e tuoi compagni ad esser meco vegnate, mentre in Roma a dimorare avrete». A cui Ascalione assai disdisse, pregandolo che di ciò nol gravasse, con ciò fosse cosa che a’ compagni forse non fosse piacere, però che le donne d’alcuni erano con essi loro. A cui Menilio disse: «E le donne di loro con le mie staranno, e voi meco». Ascalione non potendosi da’ prieghi di Menilio difendere, con licenza di Filocolo a quello che Menilio volle consentí, e tutti insieme con Biancofiore e con Glorizia entrarono nel gran palagio per adietro stato di Lelio, nel quale le donne dalle donne e gli uomini dagli uomini onorevolmente ricevuti furono. Onorati cosí costoro da Menilio, tenendo Ascalione stato di maggiore di tutti, come a Filocolo piacque, egli in se medesimo rimembrando le passate cose, si cominciò a dolere, veggendosi per l’antica amicizia di Lelio onorare da’ fratelli, ed egli aveva avuto paura di dare sepoltura al morto amico essendovi presente, avvegna che tardi gli fosse noto: e similmente a Giulia piú benivolo non essersi mostrato, e a Biancofiore nelle sue avversitá: e le cose che giá di lei aveva dette per ritrarre Filocolo da tale amore, ora gli cominciarono a dolere. Egli fece a Filocolo vietare a Glorizia che in nulla maniera a Biancofiore dovesse narrare chi coloro fossero co’ quali albergati erano, sappiendo bene che essa gli conosceva. Ma a Filocolo, dopo alcun giorno, vedute le magnificenze de’ due fratelli, cioè di Menilio e di Quintilio, ed essendogli molto piaciute, e similmente l’onore che ad Ascalione e a loro tutti era fatto, e quello che Cloelia, di Menilio sposa, stata per adietro di Giulia sorella, e Tiberina, moglie di Quintilio, facevano a Biancofiore e a Glorizia e all’altre che con Biancofiore erano, venne volontá di sapere chi costoro fossero, e dimandonne Ascalione. A cui egli rispose: «Non sai tu, caro figliuolo, dove tu se’ e in casa di cui?». «Certo» disse Filocolo, «in Roma so ch’io sono, e in casa di Menilio; ma chi essi si siano non so: e s’io il sapessi, a che fare te ne dimanderei?» Disse allora Ascalione: «Ora sappi che di costoro fu fratello Lelio, il padre di Biancofiore, il quale dal tuo padre fu ucciso, e quella donna chiamata Cloelia, la quale tanto Biancofiore onora, sorella carnale fu di Giulia sua madre. Vedi ove la fortuna ci ha mandati! Io penso che senno sarebbe omai di partirei, però che di leggieri, se conosciuti fossimo da loro, potremmo in questa fine del nostro cammino ricevere impedimento: e io ho veduto, e molte volte udito, nave correre lungo pileggio con vento prospero, e all’entrare del dimandato porto rompere miseramente. La fortuna c’è in molte cose stata contraria: che sappiamo noi se ancora la sua ira verso di noi è passata? Da fuggire è la cagione acciò che l’effetto cessi». Queste parole udendo Filocolo si maravigliò molto, pensando alla grande nobilta de’ zii di Biancofiore, e alla miseria in che la fortuna l’avea recata, ponendola nella sua casa come serva, e cosí da tutti reputata; e molto in se medesimo si contentò che donna di cosí nobile progenie gli fosse dagl’iddii per amante mandata e poi per isposa: e con Ascalione delle iniquitá del padre e della madre verso di lei usate si dolse, e piú che mai le biasimò, e poi con turbato viso gravemente riprese il suo maestro riducendogli a memoria ciò che per adietro sconciamente della giovane aveva parlato, e disse che meritamente gl’iddii dovriano a costoro notificare chi tu se’, acciò che dove tu onore ricevi, fossi, come hai servito, guiderdonato. Poi con piú temperato viso disse: «Veramente io dubito che conosciuti siamo in questo luogo, perciò che costoro hanno sangue romano: essi non rimettono mai l’offese in oblio senza vendetta. Se io forse da loro fossi conosciuto, io credo che non mi riguardassero perch’io loro congiunto sia: ma com’io mi potrò ancora partire senza la loro pace, o almeno senza la loro conoscenza, la quale io in niuna parte posso meglio che qui trattare?». Ascalione, che tutte le sue parole ascoltava, e niente si turbò per riprensione udita, però che giá debita compunzione per se medesimo aveva presa della commessa colpa, cosí gli disse: «Filocolo, tu e i tuoi compagni siete giovani, e per diverse parti del mondo sconosciuti siete pellegrinanti, per la qual cosa alcuna persona non è che vi riconosca per quelli che siete: però se di qui partirti disideri, far lo possiamo, né fia chi saputo abbia chi voi siate. Se la conoscenza e la pace de’ tuoi parenti disideri, non è prima da chiederla che i loro animi si conoscano: e però taciti dimoriamo come infino a qui dimorati siamo, e infino a tanto che mi parlano d’alcuna cosa per la quale io possa a ragionare de’ tuoi fatti debitamente venire, o che io, eleggendo debito tempo, ne parli a loro, o che alcun’altra via ci si prenda migliore, per la quale i loro intendimenti possiamo conoscere, li quali conosciuti, quello che operare deggiamo conosceremo». A questo s’accordò Filocolo, e lasciarono il lungo consiglio.
- Dimorando adunque costoro, per conoscere di loro operare il meglio, Filocolo solo con Menedon dall’ostiere si partirono un giorno, e soletti andavano le bellezze di Roma mirando, le quali saziare non si potevano di guardare, lodando la magnanimitá di coloro che fatte l’aveano fare e de’ facitori il magistero. E cosí andando pervennero al bellissimo tempio, che del bel nome di colui s’adorna che prima del diserto comandò penitenza a’ peccatori, annunziando il celeste regno essere propinquo, e di Laterano nominato dal rabbioso Nerone, e in quello entrato, e rimirando di quello le gran bellezze, in una parte videro effigiata di colui la figura che fu dell’universo salute. Questa si pose Filocolo con ammirazione grandissima a riguardare, e qual fosse la ragione delle forate mani e de’ piedi e del costato pensare non sapeva, per che sopra questo imaginando dimorava sospeso. Nella qual dimoranza stando, un uomo antico, non troppo di bella apparenza, in iscienza spertissimo, il cui nome, second’egli poscia manifestò, era Ilario, disceso da parenti nobilissimi da Atene, quivi con Bellisano, patrizio di Roma, e figliuolo dell’inclito imperatore Giustiniano, venuto, e all’ordine de’ cavalieri di Dio scritto, forse a guardia del bel luogo deputato, gli sopravvenne, e vide Filocolo cosí quell’imagine riguardare. Ma avanti che alcuna cosa gli dicesse, il guardò molto, e parvegli nello aspetto nobile e di grande affare, per che con reverenza, non conoscendolo, cosí gli cominciò a parlare: «O giovane, con molta ammirazione l’effigie del creatore di tutte le cose riguardi, come se mai da te non fosse stata veduta». A cui Filocolo graziosamente rispose: «Senza dubbio, amico, ciò che tu di è vero; e però che io mai piú non la vidi, con ammirazione ora la riguardava». «E come può essere» disse Ilario, «che tu molte volte non l’abbia veduta, se de’ servatori della sua legge se’?» «Certo» disse Filocolo, «né lui come giá dissi piú vidi, né quale sia la sua legge conosco». «Adunque qual legge servi tu, o cui adori?», disse Ilario. A cui Filocolo rispose: «La legge che i miei predecessori servarono e che ancora i popoli del paese ond’io sono servano, io servo: e da noi è adorato Giove, e gli altri immortali iddii posseditori delle celestiali regioni, a’ quali, quante volte di loro abbiamo bisogno, tante volte accendiamo fuochi sopra i loro altari e diamo incensi, e le dimandate cose riceviamo». Dunque tu idolatro se’ della setta de’ Gentili?»»Cosí sono come tu dí», rispose Filocolo. «Ora ignori tu» disse Ilario, «che noi codesta setta abbiamo degnamente in odio, sí come eretici e operatori delle cose spiacenti a Dio? «Non lo ignoro», rispose Filocolo. «Dunque» disse Ilario, «come sicuro qui Gentile vivi tra ’l popolo di Dio? Non sai tu che come voi a noi ponete insidie, cosí a voi potrebbero da noi essere parate? Ma che? Per nulla di questo ti dimando, ché chi alla salute dell’anima non ha cura, come è da presumere che egli di quella del corpo si deggia curare? Poi che tu la nostra legge non servi, non contaminare il nostro tempio sacro, escitene fuori.» A cui Filocolo disse: «Male può trovare persona la cosa che mai non li fu nota; forse se io questa vostra legge udissi, o quello ch’io dovessi credere mi fosse mostrato, poria essere che, dannando la mia, seguirei questa, e con voi insieme del popolo di Dio diventerei». «Giá per udirla, se mai piú non la udisti, non perderai» disse Ilario, «io la ti mostrerò tutta, avvegna che a ben volerlati fare intendere, mi converria distendere in parole molte, le quali dubito che ti sariano tediose ad udire.» A cui Filocolo disse: «A te non sia affanno il dire, che a me mai l’ascoltare non rincrescerá».
- «Adunque» disse Ilario, «sediamo, e colui cui tu hai infino ad ora riguardato, il quale di tutti i beni è donatore, e in cui presenza noi dimoriamo, mi conceda che fruttuose siano le mie parole.»
- Posersi a sedere Filocolo e Menedon, e Ilario in mezzo di loro, nel cospetto della reverenda imagine. A’ quali parlando Ilario con soave voce mostrò chi fosse il creatore di tutte le cose, e come senza principio era stato, cosí niuna fine era da credere a lui dovere essere; e dopo questo loro dichiarò di tanto fattore le prime opere, cioè il cielo e la terra, con ciò che in essi di bene e di bellezze veggiamo o sentiamo, o vedere o sentire si può. Egli loro mostrò appresso la creazione de’ belli spiriti, i quali non conoscenti prima contro al loro fattore alzarono le ciglia, per la qual cosa eterno esilio meritarono de’ beati regni, essendo loro per perpetuo carcere l’infimo centro della terra dato. E dopo questo narrò come a ristorazione de’ voti scanni, il primo padre con la sua sposa furono formati in Eden e messi in paradiso; e come fatto fu loro dalla divina voce il mal servato comandamento, il trapassare del quale a loro e a’ loro successori guadagnò morte e affanno. Piacquegli ancora di dire quanto il principio della prima etá fosse da’ seguenti variato, mostrando come ai loro digiuni le ghiande solevano e gli altri pomi dare salutevole conforto, e come i correnti fiumi davano piacevole beveraggio agli assetati, e l’erbe soavissimi sapori; e come semplici vestimenti contenti gli copriano, e come ciascuno sol la sua contrada conosceva senza cercare l’altrui, e come i terribili suoni delle battaglie tacevano e l’armi non erano e l’arte di quelle non si sapeva, per che la terra il beveraggio dell’umano sangue non conosceva; e come ai seguenti di costoro, a’ quali si semplice vita bastava, non bastarono gli ordini della natura, né la lussuria, né ’l vero loro Dio per adorare, ma passando nell’una e nell’altra cosa i termini meritarono l’ira del sommo fattore, per la quale il mondo allagò, riserbato solamente da Dio un padre con tre figliuoli e con le loro spose, perché erano giusti, nella salutifera arca, con l’altre cose necessarie alla mondana restaurazione. Appresso questo, mostrò loro con aperta ragione l’uscimento dell’arca lontanamente stata a galla, e ’l nascimento dei popoli discesi da Cam, da Sem e da Iafet, e l’edificazioni della gran torre e dell’altre cittá fatte da’. rifiutanti l’ombre degli alberi. E il primo trovamento di Bacco schernitore del suo primo gustatore, e le varie maniere de’ vestimenti e de’ loro colori, e i cercamenti degli altrui paesi, e quali fossero i fedeli servadori de’ piaceri di Dio, e quali da quelli deviassero, e niuna notabile cosa lasciò a narrare che stata fosse infino al tempo del primo Patriarca. Qui posto alla prima e alla seconda etá fine, della terza cominciò a parlare, e le cose state fatte da Abram e dal fratello e dal figliuolo e dal nipote tutte disse, insieme con le vedute e udite da loro. E contando del duodecimo fratello, trenta denari dagli altri venduto, narrò le sue avversita e l’uscimento da quelle e ’l salimento alla sua gloria; e ’l passamento del popolo di Dio in Egitto dietro a lui, e quello che seguí appresso, e quanto i discendenti vi stessero, e sotto quale servitu mostrò aperto, infino alla nativitá di colui che, dall’acque ricolto, da Dio i dieci comandamenti della legge ricevette, da’ quali, quelle che noi oggi serviamo, tutte ebbero origine. E questo detto, seguí quanti e quali fossero i segni fatti nella presenza del crudo prencipe, che oltre al loro volere nella provincia d’Egitto gli teneva racchiusi. Né tacque come sotto la sua guida esso popolo, per dodici schiere passando il rosso mare, uscissero da quello con secco piede, avendo la notte per pedoto una colonna di fuoco e ’l giorno una nuvola, e similemente come seguiti dagli avversarii, nelle acque rosse quelli rimasero. Mostrò ancora quanta e quale fosse la vita loro nel diserto luogo, e come, morto il primo legista, sotto il governo di Iosué rientrarono in terra di promissione, e quivi con quali popoli avessero giá cominciate le battaglie, dicendo loro ancora con quanta reverenza trovata fosse e servata e riportata l’arca santa. E come lo sciolto popolo si reggesse, e sotto quali giudici, e chi fra loro con divina bocca parlasse, e di che, disse, e come e1li disiderassero re e fosse loro dato, narrò infino a David. Qui alla terza etá pose fine e cominciò la quarta, le avversitá di David e le sue opere tutte narrando, dicendo all’altre principali come Micol acquistasse, e quello che per Bersabea operasse, né tacque cl’Assalone come morisse e per che, né della mirabile forza di Sansone, né dell’alta sapienza di Salomone, mostrando com’egli a Dio il gran tempio di Ierusalem avea edificato, e con questa l’altre sue operazioni tutte. E per conseguente de’ suoi discendenti e degli altri prencipi successori disse ciò che stato n’era, e che operato aveano: e de’ profeti stati in loro tempi, infino che a1la trasmigrazione di Babillonia pervenne. Quivi la quinta etá cominciò, della quale a dire niuna cosa lasciò notabile, infino alle gloriose opere de’ Maccabei, le quali furono non poco da commendare. E con tutto che egli tutte queste cose del popolo di Dio narrasse, non mise egli in oblio. però le notabili cose state fatte per gli altri di fuori da quello, ma pe’ suoi tempi ogni cosa narrò. Egli mostrò come di Nembrot fosse disceso Belo primo re degli Assiri, il cui figliuolo Nino era stato primo travalicatore de’ patrimoniali termini, con mano armata soggiogandosi l’oriente. E disse ciò che Semiramis aveva giá fatto, e degli altri ancora successori ciò che vi fu notabile, e come per trecento re, l’uno succedente all’altro, il reame era pervenuto a mano di Sardanapalo, il quale i bagni e gli ornamenti delle camere e il dilicato dormire e i piacevoli cibi trovò, al quale Ciro re di Persia tolse il regno, e similmente a Baldassar, di Nabucodonosor re di Babillonia successore, insieme con Dario re de’ Medi, e a’ Medi saggiogato rimase. Né lasciò a dire che il regno de’ Medi cominciò sotto Arbato, e che Arbato fu il primo re, e dopo il settimo re pervenne ad Alessandro, e similmente quello de’ Persi, del quale Ciro fu il principio e Dario fine, tra l’uno e l’altro avuti undici re, il quale Alessandro discese da’ greci re, de’ quali il primo fu Saturno cacciato da Giove. E mostrò ancora loro da costui, lasciante a Tolomeo quello per ereditá, essere ricominciato il regno degli Egizii, finito poi nel tempo di Cleopatra per la forza de’ romani, che ’l soggiogarono; e narrò come degli argivi il primo re fu Inaco, e de’ Lacedemoni Foroneo, primo donatore di legge a’ suoi popoli. E non di meno mostrò a che tempo l’antica Tebe s’era edificata, e chi fossero i suoi re, e sotto cui distrutta. E similmente della gran Troia, e de’ suoi reali e della sua distruzione disse. Né mise in oblio di narrare Giano essere d’Italia stato il primo re, e Romolo di Roma, contando di quella le notabili edificazioni. E disse d’Agialeo stato primo re de’ Sicioni. E molte altre cose recitò laudevoli intorno a quelle, del giudaico popolo: mostrando ancora i diversi errori di molti erranti e non sapienti, che e come agli idoli sacrificare s’era pervenuto dagli antichi, abbandonata la diritta via. Ma parendogli delle vecchie cose avere assai detto, quelle lasciando disse: «Giovani, ciò che davanti detto avemo poco è a quello, che dire intendiamo, necessario di sapere, ma vuolsi credere, ed è introducimento a ciò che dirvi credo appresso: e però ascoltate e con diligenza notate le mie parole».
- «Quanto sia stato nelle cinque eta passate, io credo con aperta ragione aver mostrato» disse Ilario; «ora alla sesta piena di grazia, nella quale dimoriamo, con piú lento passo ci conviene procedere, e dicovi cosi. Come voi poteste nel principio del mio parlare comprendere, se bene ascoltaste, uno è il creatore di tutte le cose, a cui principio non fu né fine sará mai, il quale, da sé gittate le superbe creature, volle di nobile generazione riempire i voti luoghi, e creò l’uomo, al quale morte annunziò se il suo mandato passasse, com’io vi dissi. Ma quegli, vinta la sua sposa dalle false seduzioni dell’eterno nemico, piacendo a lei il trapassò, per che cacciato con lei insieme del grazioso luogo, agli affannosi coltivamenti della terra venne, e morí, e noi, sí come suoi successori, corporalmente tutti moriamo. Ma però che le nostre anime, fatte da Dio alla sua imagine, tutte andavano a’ dolenti regni de’ malvagi angeli, non tanto giustamente col corpo vivuta, e a niuna era possibile per suo merito il risalire colá donde peccando era caduta, il creatore di quelle per sua propria benignitá verso noi divenne pietoso, e nel principio di questa sesta etá, regnante Ottaviano Augusto e tenente tutto il mondo in pace quieta, il suo unico Figliuolo volle che s’incarnasse in una vergine di reale progenie discesa, il cui nome fu ed è Maria, alla quale in Nazaret, cittá di Giudea, per convenevole messo il fece annunziare. Dal quale essa rassicurata, al volere del suo signore si dispose, dicendo: ‛Ecco l’ancilla del signore, sia a me secondo la sua parola!’. La quale risposta fatta, e operante la virtú del Santo Spirito, l’unico Figliuolo di Dio fu incarnato. Alla quale incarnazione niuna naturale operazione fu mescolata, né opportuna, se bene si guarda. Fu adunque la incarnazione, come detto v’ho, del Figliuolo di Dio, il quale poi benigno e glorioso nacque, acciò che poi e passione e morte sostenendo le nostre colpe lavasse, e facessene possibili a salire a quella gloria donde ne cacciò disubbidendo il primo padre. Non che Dio non avesse con la sua parola sola potutone perdonare e rifarci degni, che bene avria potuto, però che nella sua potenza ogni cosa s’inchiude, ma egli fece questo acciò che piú apertamente la benivolenza, la quale ha continua verso di noi, ne dimostrasse, e acciò che noi piú pronti a’ suoi servigi ci disponessimo, veggendone tanto dono conceduto senza averlo servito, ma piú tosto disservito. Incarnato adunque costui, le leggi della presa carne. seguendo, nove mesi nel ventre della Vergine fè dimora, la quale venendo con Giuseppe suo sposo, uomo di lunghissima eta (il quale abbandonare l’avea voluta per la conosciuta pregnezza, se l’ammonizione dell’angelo non fosse stata), da Bettelem in Ierusalem a pagare una moneta, ché dieci piccioli valeva detto danaro, sí come Ottaviano avea mandato comandan1ento, acciò che il numero de’ suoi sudditi sapesse, menando un bue e un asino seco: il bue per vendere acciò che le spese sostentasse del parto, e l’asino per alleviare l’affanno del cammino. Sentendo la Vergine il tempo del partorire, cosí andando, a una grotta, la quale lungo la via era dove i viandanti soleano tal volta le loro bestie legare per fuggire l’acqua o il caldo, o per riposo, entrarono, però che per i molti andanti ogni casa era presa. Quivi poveramente la notte si riposarono, la quale giá mezza passata, la Vergine, come con diletto carnale non aveva conceputo, cosí senza alcuna doglia pose il suo santo portato: il quale, acciò che dal freddo che era grande il guardasse, povera di panni, nel fieno, che davanti al bue e al l’asino era, involse. E che deono fare gli uomini, poi che quelle bestie, conoscendo il Salvatore del mondo, s’inginocchiarono, quella reverenza faccendogli che ’l poco loro conoscimento amministrava? In quell’ora si udirono gli angeli discendere dal cielo, cantando ‛Gloria in excelsis Deo’ , con quanto di quello inno si legge: poi in quell’ora si videro per lo mondo mirabili cose, e massimamente in questa cittá. Ora non ruinò egli quella notte il gran tempio della Pace, il quale, secondo a’ romani dimandanti fu risposto, doveva tanto durare che la Vergine partorisse? Perché essi, imaginando quella mai non dover partorire, nella sommitá della porta di quello scrissero il tempio della Pace eterno: e sopra le ruinate mura fu poi edificato un altro salutifero tempio, da colei nominato che Vergine partori. Ora, non l’imagine di Romolo re de’ romani cadde, e tutta si disfece? Certo sí. Or non l’imagini fatte a dimostrazione delle lontane provincie a’ romani suddite tutte si ruppero? Certo sí: né restò al mondo alcuno idolo intero. Quella notte oscurissima divenne chiara come un bel giorno, e una fonte d’acqua viva in liquore d’olio in questa cittá si converse, e olio corse tutto quel glorioso giorno infino al Tevere. E apparve a tre re orientali stanti sopra il vittoriale monte, quel giorno medesimo una stella chiarissima, nella quale essi videro un fanciullo piccolo con una croce in testa, e parlò a loro che in Giudea il cercassero. E quel giorno medesimo, avvegna che alcuni dicano che prima, apparvero in oriente tre soli, i quali, poi che veduti furono, in un corpo tutti e tre ritornarono, pe’ quali assai aperto l’essenza della Trinita si manifestò. E certo Ottaviano Augusto volle da’ romani essere adorato per iddio, ma egli discreto i consigli della savia Sibilla dimandò; alla quale, venuta a lui il giorno di questa nativitá gloriosa, egli disse: «Vedi se alcuno deve nascere di me maggiore, o se io per iddio a’ romani mi lascio adorare?». La quale nella sua camera dimorando, in un cerchio d’oro, contro il sole apparito, gli mostrò una vergine con un fanciullo in braccio, la quale egli con maraviglia riguardando, s’udi dire: ‛Haec est Ara coeli’, né vide chi lo dicesse. A cui poi la Sibilla disse: «Quegli è maggiore di te, e lui adora». Le quali parole udite, egli gli offerse incenso, e in tutto a’ romani rinunziò d’essere adorato per iddio, però che mortale e non degno di ciò si sentiva. E in questo medesimo giorno apparve un cerchio, il quale tutta la terra circuí, fatto a modo che iri; e le vigne d’Engaddi, le quali profferano il balsamo, fiorirono quella notte, e dierono frutto e liquore. E pochi di avanti questo, si trovò che arando alcuno con buoi, essi buoi dissero: ‛Gli uomini mancheranno e le biade aumenteranno ’. Similmente i pastori, che in quella notte guardavano le loro bestie, essendo loro dagli angeli annunziato il nascimento del garzone, andando in quella parte, trovarono vero ciò che loro era stato detto, e adoraronlo. In quella notte similmente si trovò che quanti Gomorrei erano, tanti ne furono estinti, avendo Dio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contro natura nella natura umana operarsi, per poco rimase di non incarnarsi. Dunque tante cose e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e il Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sí strema povertá nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli è signore di tutte le cose, e credibile è che, se voluto avesse, poteva ne’ gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie, ma acciò che l’umiltá mostrasse a tutti dovere esser cara, cosí bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con piú disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque cosí costui, fu nell’ottavo giorno della sua nativitá circonciso, secondo la giudaica legge. E i tre re d’oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, perciò che udito aveva il re de’ Giudei dovere nascere, disse: «E’ non è qui, andate e trovatelo, e da me tornerete, acciò ch’io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo». I quali usciti da Ierusalem, e riveduta la stella, in Bettelem lo trovarono, e adoraronlo, e gli offersero oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall’angelo, per altra via alle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch’egli incominciò: ‛Nunc dimittis’. Erode poi, veggendosi da’ tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giuseppe ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggi in Egitto: e gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli giá nei dodici anni, nel tempio di Dio co’ dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente senza peccare infino al trentesimo anno quella notte similmente si trovò che quanti Gomorrei erano, tanti ne furono estinti, avendo Dio quel peccato oltre agli altri, e meritamente, in fastidio: e dicesi che vedendo Iddio quel vizio contro natura nella natura umana operarsi, per poco rimase di non incarnarsi. Dunque tante cose e molte altre che avvennero, le quali a contare troppo saria lungo, mostrarono bene che il Creatore e il Salvatore del mondo era nato: e se forse mirabile vi pare che tanto uomo in sí strema povertá nascesse, la cagione vi tragga di maraviglia. Egli è signore di tutte le cose, e credibile è che, se voluto avesse, poteva ne’ gran palagi, tra molti panni, nelle infinite dilicatezze, nascere, e avere molte balie, ma acciò che l’umiltá mostrasse a tutti dovere esser cara, cosí bassamente cercò di nascere, e per molte altre cagioni, le quali con piú disteso stile ancora vi mostrerò, il fece. Nato adunque cosí costui, fu nell’ottavo giorno della sua nativitá circonciso, secondo la giudaica legge. E i tre re d’oriente con doni, seguendo la veduta stella, il vennero a visitare: e giunti in Ierusalem, Erode, re di quella, dimandarono di lui, il quale, non conoscendolo, e di lui dubitando, perciò che udito aveva il re de’ Giudei dovere nascere, disse: «E’ non è qui, andate e trovatelo, e da me tornerete, acciò ch’io, da voi sappiendo ove egli sia, vada e adorilo». I quali usciti da Ierusalem, e riveduta la stella, in Bettelem lo trovarono, e adoraronlo, e gli offersero oro, incenso e mirra: e ammoniti nel loro sonno dall’angelo, per altra via alle loro regioni tornarono. Il quarantesimo giorno venuto, fu offerto al tempio, e dal vecchio Simeone, la sua venuta aspettante, fu ricevuto, allora ch’egli incominciò: ‛Nunc dimittis’. Erode poi, veggendosi da’ tre re schernito, comandò che tutti i garzonetti di Giudea gli fossero presentati; ma Giuseppe ammonito da divina ammonizione, col fanciullo e con la madre fuggi in Egitto: e gli altri presi da Erode furono uccisi, credendo tra quelli avere il nato fanciullo morto. Ma in processo di tempo, essendo egli giá nei dodici anni, nel tempio di Dio co’ dottori della giudaica legge disputò, leggendo quella. E poi vita umana veramente senza peccare infino al trentesimo anno uno di loro annunziò. Dopo la qual cena, lavati a tutti i piedi, andò in un orto fuori della cittá ad orare con alcuni di quelli; ma colui che il tradimento aveva ordinato, venuto quivi co’ sergenti del prencipe de’ Farisei, tradendolo, con gran romore e furore come un ladrone fu preso. E se egli avesse voluto fuggire, niuno era che il tenesse, quando tramortiti caddero tutti nel suo cospetto; ma egli sollecito alla nostra redenzione, stando fermo, rendute loro le prime forze, si lasciò pigliare: e volete udire piú benignitá di lui? Avendo Simon Pietro, uno de’ suoi discepoli, il quale egli capo degli apostoli e suo vicario l’aveva ordinato, tagliato l’orecchia a uno de’ servi del prencipe, ammonendolo che il coltello riponesse, l’orecchia sanò al magagnato. Fu adunque cosí preso costui e menato nel cospetto di Caifas e d’Anna, i quali a Pilato il mandarono, di lui porgendo false accuse, come quelli che per invidia la sua morte cercavano, pensando che se egli vivesse tutto il loro popolo trarrebbe alla vera fede da lui predicata, ed essi ne rimarriano senza. Pilato, il quale quivi per li romani era preside, infino alla mattina legato il tenne. La mattina udendo ch’era Galileo, il mandò a Erode, disideroso di vederlo, il quale poi a Pilato, vedutolo, il rimandò: e stato lungamente suo nemico, per questo, suo amico divenne. Pilato non trovando in lui alcuna colpa, il voleva lasciare, ma il gridante popolo lo spaventava, ond’egli, fattolo flagellare duramente, credendo che ciò bastasse, il volle a loro rendere, i quali gridando la sua morte, a quella il condussero e in croce in mezzo di due ladroni il crocifissero, schernendolo e dandogli aceto e fiele a bere con una spugna: sopra la quale croce egli morí. Quello che, morendo costui, avvenne, ascoltatelo. Egli tremò la terra fortissimamente; le pietre, senza essere tocche, si spezzarono in molte parti; il velo del tempio di Salomone si divise per mezzo; li monumenti s’aprirono, e molti corpi risuscitarono; il sole oscurò, essendo la luna in quintadecima, e tutta la terra universalmente sostenne tenebre per piú ore: le quali cose Dionisio veggendo, essendo in Atene, e della nostra setta, disse: «O il signore della Natura sostiene ingiuria, o il mondo perirá tutto». E Longino, cieco cavaliere, ferendo con la sua lancia il santo costato di quello, sentí sangue e acqua venire giuso per la lancia, perché agli occhi ponendosene riebbe la vista. Il centurione, stato avanti degli schernitori, vedendo queste cose, confessò lui veramente essere stato Figliuolo di Dio. Dunque dove tali e tante cose si videro, ben si può credere colui Figliuolo di Dio e Redentore di noi essere stato. Venuto il vespero, fu il beato corpo deposto dalla croce da Nicodemo e da Giosef d’Arimatia, e con odorifere cose involto in un mondo lenzuolo, fu posto in una sepoltura nuova, la quale da armate guardie e suggellata fu guardata, acciò che i suoi discepoli, i quali tutti abbandonato l’aveano quando fu preso, non venissero e furasserlo, e poi dicessero: ‛Risuscitato è’. Ma la santa anima sí tosto come ella il corpo abbandonò, cosí discese alle eterne prigioni, e rotte le porte della potenza dell’antico avversario, trasse i santi padri, i quali in lui venturo debitamente credettero, e, aperta la celestiale porta infino a quel tempo stata serrata, nella gloria del suo Padre gli mise. Poi il terzo di ritornando al vuoto corpo, con quello veramente risuscitò, e piú volte apparve e a’ suoi santi discepoli e ad altri. E dopo il quarantesimo giorno, vedendolo tutti i suoi discepoli e la sua madre, al cielo se ne salí, faccendo loro annunziare che ancora a giudicare i vivi e i morti ritornare dovea. E dopo il decimo giorno tutti del Santo Spirito gl’infiammò, per lo quale ogni scienza e ogni locuzione di qualunque gente fu a loro manifesta: e predicando la santa legge, tutti per diverse parti del mondo n’andarono.»
- «Ora» disse Ilario, «avete udito quello che noi crediamo, e chi adoriamo e le cui leggi serviamo. Udito avete la cagione della sua incarnazione, alla quale né per angelo né per altra creatura si poteva supplire se non per questa. Udito avete la gloriosa nativitá come fosse, e la sua concezione. Udito avete la virtuosa, laudevole e miracolosa vita di lui, l’affannosa e vituperosa fine, e la crudele morte ch’egli per noi sostenne, e similmente l’ampia redenzione; la vittoriosa resurrezione, e la mirabile apparizione, e la gloriosa ascensione vi ho mostrato, e ultimamente la donazione graziosa dello Spirito Santo, e annunziato v’ho il futuro giudicio: le quali cose se ben pensate, vero Dio e vero uomo incarnato, nato, vivuto, passo, morto e risuscitato essere il conoscerete. Né vi si occulterá ne’ vostri pensieri quanto la sua infinita pietá sia stata verso di noi, il quale per la nostra salute diè se medesimo. E se è gran cosa o quando un servo per liberazione del signore, o l’uno amico per l’altro, o l’uno per l’altro fratello, o ’l padre pel figliuolo, o il figliuolo per lo padre morte riceve, quanto è maggiore il signore, per lo servo liberare, vituperosa morte prendere? Noi servi del peccato, tanto perfettamente da lui fummo amati, che egli non disdegnò l’altezza de’ suoi regni abbandonare per pigliare carne umana, acciò che possibile si facesse al patire e al pigliare morte per la nostra redenzione. Adunque non vi vinca la terrena cupiditá, alla quale giá le vostre false e abominevoli leggi sono piú atte che la nostra, ma cacciate da voi i giuochi dello ingannevole nimico delle nostre anime, e nuovi davanti a Dio vostro Creatore vi presentate.»
- Ascoltarono con gran maraviglia Filocolo e Menedon le dette cose da Ilario, e quelle notarono, parendo loro, come erano, grandissime: e visitando poi Ilario piú volte, ogni fiata ridir se ne facevano parte, né niuna cosa rimasa decisa fu che essi distesamente ridire non si facessero, e come e quando e dove di tutte si facevano narrare. Le quali udite tutte, Filocolo dimandò Ilario in che la credenza perfetta di chi salvare si vuole si ristringesse. A cui Ilario cominciò cosí a dire: «Noi prima fedelmente crediamo, e poi semplicemente confessiamo un solo Iddio eterno, incommutabile e vero, in cui ogni potenza dimora. Crediamo lui incomprensile e ineffabile Padre, Figliuolo e Spirito Santo, tre persone in una essenzia e in una sustanzia, ovvero natura semplice; e noi crediamo il Padre da niuno creato, il Figliuolo dal Padre solo, e lo Spirito Santo da ciascuno procedere: e che come mai non ebbero principio, cosí sempre saranno senza fine. Crediamo lui di tutte le cose principio, e creatore delle visibili ed invisibili, delle spirituali e corporali. Crediamo lui dal principio aver creato di niente la spirituale e corporale creatura, cioè l’angelica e la mondana, e appresso l’umana, quasi comune di spirito e di corpo. Crediamo che questa santa ed individua Trinitá al profetato tempo desse all’umana generazione salute, e l’unigenito Figliuolo di Dio da tutta la Trinitá comunemente dalla Vergine, cooperante il Santo Spirito, fu fatto vero uomo di razionale anima e di corpo composto, avendo una persona in due nature. Egli veramente ne mostrò la via della veritá, con ciò fosse cosa che, secondo la divinitá, immortale e impassibile fosse, secondo l’umanitá si fece passibile e mortale. Il quale ancora per la salute dell’umana generazione crediamo che sopra il legno della croce sostenesse passione, e fosse morto, e discendesse all’inferno, e risuscitasse da morte e salisse al cielo. Crediamo veramente che egli discendesse in anima, e risuscitasse in carne, e salisse al cielo parimenti con ciascuna. Crediamo che nella fine del secolo egli verrá a giudicare i vivi e i morti, e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, o buone o ree che state sieno, e cosí a’ malvagi come ancora a’ buoni, i quali tutti coi propri loro corpi che ora portano risurgeranno, acciò che sí come avranno meritato ricevano: quelli con Pluto in pena eterna, questi con Giove in gloria sempiterna. Crediamo ancora de’ fedeli una essere l’universale chiesa, fuori della quale niuno crediamo che si salvi, nella quale esso Dio è sacerdote e sacrificio, il cui corpo e sangue nel sacramento dell’altare sotto spezie dí pane e vino veramente si contiene, transustanziati il pane in corpo e il vino in sangue per divina potenza, acciò che a compiere il ministero della vita togliamo del suo quello che egli del nostro tolse; e questo sacramento niuno può fare, se non quel sacerdote che dirittamente è ordinato secondo gli ordini della chiesa, li quali egli agli apostoli concedette e a’ loro successori. Crediamo similmente al sacramento del battesimo, il quale ad invocazione della individua Trinitá, cioè Padre, Figliuolo e Spirito Santo, si consacra nell’acqua, cosí a’ piccoli come a’ grandi: e a chiunque egli è, secondo la forma della chiesa, dato, giova a salute. Dopo il quale ricevuto, s’alcuno cadesse in peccato, crediamo che sempre per vera penitenza possa tornare a Dio: e non solamente le vergini e le continenti, ma ancora i coniugati per diritta fede, piacenti a Dio, crediamo potere ad eterna beatitudine pervenire. E cosí a te, e a qualunque altro che di quella vuole essere partecipe, conviene credere, dannando ogni altra opinione che alcuni altri avessero avuta e avessero delle predette cose, sí come eretici e contrarii alla diritta fede».
- «Grandissime cose e mirabile credenza ne conta il tuo parlare» disse Filocolo a Ilario, «le quali tanto piene d’ordine, di santitá e di virtú veggio, che giá disidero con puro animo essere de’ tuoi; ma senza li miei compagni, co’ quali riferire voglio l’udite cose, niuna cosa farei, ancora che faccendola senza loro conosco che saria ben fatto.» A cui Ilario disse: «Giovane, confortati nelle tue parole, e teco i tuoi compagni conforta, fuggendo le tenebre, nelle quali colui, cui voi orate, vi contiene: venite alla vera luce da cui ogni lume procede, e a chi per nostra e per la vostra salute se medesimo diede a obbrobriosissima morte. Correte al santo fonte del vero lavacro, il quale, lavando l’oscura caligine dalle vostre menti, vi lascera conoscere Dio, il quale le orazioni de’ peccatori esaudisce nel tempo opportuno. Assai è tra i miseri miserabile colui che puote uscire d’angoscia ed entrare in festa, se in quella pure miseramente dimora. Venite, adunque, e lavatevi nel santo fonte, e di quelle tre virtú nobilissime, Fede, Speranza e Caritá vi rivestite, senza le quali, come niuno può piacere a Dio, cosí a chi le veste impossibile è che gli eterni regni siano serrati. Dunque v’è lecito venire il donatore di tutti i beni a servire, e la prigione eterna fuggite mentre potete. Né vi faccia vili Ja poca autoritá, che forse io confortante dimostro, ché le parole da me dette a voi non sono mie, anzi furono de’ quattro scrittori delle Sante opere del nostro fattore, de’ quali ciascuno testimonia quello che parlato vi ho, e con loro insieme molti altri, i quali, avvegna che fossero piú e diversi, uno solo fu il dittatore, cioè ’l Santo Spirito, la cui grazia discenda sopra voi, e vi dimori sempre».
- Partironsi adunque Filocolo e Menedon da Ilario, sopra l’udite cose molto pensosi, e ripetendole fra loro piú volte, quanto piú le ripetevano tanto piú piacevano: per che essi in loro deliberarono del tutto di volere alla santa legge passare, e di narrarlo a’ compagni proposero. E accesi del celestiale amore, tornarono lieti al loro ostiere, dove essi il duca, Parmenione, Fileno e gli altri trovarono aspettargli, maravigliandosi della loro lunga dimora cosí soli. Co’ quali poi che Filocolo fu alquanto dimorato, non potendo piú dentro tenere l’accesa fiamma, chiamatili tutti in una segreta camera, cosí loro cominciò a parlare:
- «Cari compagni e amici, a me piú che la vita cari, nuovi accidenti nuove generazioni di parlari adducono, e però io sono certo che voi vi maraviglierete assai di ciò che al presente ragionare vi credo; ma perciò che da nuova fiamma sono costretto, e secondo il mio giudizio lo debbo fare, non tacerò ciò che il cuore in bene di voi e mio conosce. Noi, come voi sapete, non siamo guari lontani al giorno nel quale il terzo anno compierá che voi per amor di me seguendomi lasciaste, sí come io, le case vostre, e in mia compagnia, non uno solo, ma molti pericoli avete corsi, pe’ quali io ho la vostra costanza e la fedele amicizia conosciuta, e conosco perfetta, e senza fine ve ne sono tenuto. Ma come che l’avversitá sieno state molte, prima da Dio e poi da voi la vita e ’l mio disio riconosco: per le quali cose mi si manifesta che se io a ciascuno di voi donassi un regno, quale è quello ond’io la corona attendo, non debitamente vi avrei guiderdonati; ma il sommo Dio provveditore di tutte le cose, e degli sconsolati consiglio, ha parati davanti agli occhi miei di gran meriti alle vostre virtú, i quali da lui, non da me, se ’l mio consiglro terrete come savi, prenderete, e in eterno sarete felici. E acciò che le parole, le quali io vi dirò, non crediate che io da avarizia costretto muova, infino da ora ogni potenza, ogm onore, ogni ricchezza che io ho e che avere deggio nel futuro tempo nel mio regno, nella vostra potenza rimetto, e quello che piú vostro piacere è liberamente ne facciate come di vostro: e ciò che io in guiderdone de’ ricevuti servigi v’intendo di rendere si è, che io annunziatore dell’eterna gloria vi voglio essere, la quale a voi e a me, se prendere la vogliamo, è apparecchiata, e dirovvi come». E cominciando dal principio sino alla fine, ciò che Ilario in molte volte gli aveva detto avanti si partisse, quivi a costoro disse, come se per molti anni studiato avesse ciò che dire a loro intendeva. E mirabile cosa fu che, secondo egli disse poi, nella lingua gli correano le parole meglio che egli prima nell’animo non divisava di dirle; la qual cosa per infusa grazia da Dio essere conobbe, seguendo dopo queste parole dette: «Non crediate, signori, che io come giovane vago d’abbandonare i nostri errori sia corso a questa fede senza consiglio e subito, ma sopra di questo molto ho vegghiato, e molto in me medesimo ciò che vi parlo ho esaminato, e mai contrario pensiero ho trovato alla santa fede. E poi penso piú inanzi che dove il mio consiglio non bastasse a discernere la veritá, dobbiamo credere che quello di Giustiniano imperatore, il quale, in uno errore con noi insieme, quello lasciando, ricorse alla veritá e in quella dimora, come noi sappiamo, gli fu bastevole. Dunque de’ piú savi seguendo l’esempio, niuno può degnamente essere ripreso, o fare meno che bene. Siate adunque solleciti meco insieme alla nostra salute».
- I giovani baroni, che ad altre cose credevano costui dovere riuscire nel principio del suo parlare, udendo queste cose si maravigliavano molto, e guardando al ben dire di costui, similmente si com’egli conobbero grazia di Dio nella sua lingua essere entrata; e i nobili animi, i quali mai da quello di Filocolo non erano stati discordi, cosí come nelle mondane e caduche cose avevano con lui una volontá avuta, similmente di subito con lui entrarono in un volere della santa fede, e ad una voce risposero: «Alti meriti ne rendi a’ lunghi affanni. Sia laudato quel glorioso Dio, che con la sua luce la via della verita t’ha scoperto. Fuggansi le tenebre, e te, essendo duce, seguiamo alla luce vera. I vani iddii e fallaci periscano, e l’onnipotente, vero e infallibile Creatore di tutte le cose sia amato, onorato e adorato da noi. Venga il nuovo e vivo fonte, che dalle preterite lordure, nelle quali come ciechi dietro a cieco duca siamo caduti, ci lavi, e facciaci Dio essere manifesto».
- Levansi lieti i giovani dal santo parlare, e tra gli altri, piú che alcuno, Ascaione, però che il suo lungo disio, il quale per tiepidezza mai mostrato non avea, vede venire ad effetto. Ed essendo giá tempo piú di dormire che di ragionare, Filocolo entrò nella sua camera, e con Biancofiore cominciò le sante parole a ragionare, la quale da Cloelia sua zia, santissima donna, di tutte era informata; ma udendole a Filocolo dire, contenta molto gli rispose: «Quello che tu ora vuoi che io voglia, ho giá piú giorni disiderato, e dubitava d’aprirti il mio talento: però qualora ti piace, io sono presta, e giá mi si fa tardi, che sopra me senta la santa acqua versare, e che nella salutifera legge divenga esperta». Queste parole udendo Filocolo contento ringraziò Dio, e ne’ pensieri della santa fede il piú della notte dimorò, con disio aspettando il giorno, acciò che in opera mettesse il suo diviso, con la sua sposa e i suoi compagni.
- Rendé la chiara luce di Febo i raggi suoi confortando le tramortite erbette, e Filocolo di quella vago, levato con Menedon tornò lieto ad Ilario, il quale sopra la porta del santo tempio trovarono: e lui salutato, con esso passarono nel tempio, e con chiara veritá ciò che fatto avevano gli narrarono, e come i loro compagni di tal conversione letizia incomparabile avevano avuta e mostrata, per la qual cosa disposti alla predicata credenza erano del tutto. Allora Ilario, lietissimo di tanta grazia, quanta il datore di tutti i beni aveva nelle sue parole messa, ringraziò Dio e disse a Filocolo: «Dunque niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo lavacro». A cui Filocolo rispose: «Cosí farò, ma prima, ove io di voi fidare mi possa, alcun mio segreto vi vorrei rivelare, acciò che, sí come all’anima porto avete salutifero consiglio, cosí similmente provveggiate al corpo». «Ciò mi piace’ disse Ilario, «e con quella fede a me parla ogni cosa che teco medesimo faresti, sicuro che mai per me niuno il sentirá.» Perché Filocolo cosí cominciò a dire:
- «Caro padre, io, il quale voi in abito pellegrino cosí soletto vedete, ancora che a me non stia bene a porgervi queste parole, ma costretto da necessita le dico, sono di Spagna, e figliuolo unico di re Felice signoreggiante quella; e nelle fini de’ nostri regni, come alcuni m’hanno detto, è un tempio ad uno dei dodici discepoli del figliuolo di Dio dedicato, al quale i fedeli della santa legge che voi tenete e ch’io tenere credo, hanno divozione grandissima, e sovente il visitano; e avendo a quello uno di questa cittá nobilissimo singulare fede, il cui nome fu Lelio Africano, con piú giovani a visitarla si mise in cammino, e con lui menò una sua donna, il cui nome era Giulia. Né erano ancora pervenuti a quello, che essendo al mio padre stato dato ad intendere che suoi nemici erano e assalitori del suo regno, passando essi per una profonda valle, da lui e da sua gente furono virilmente assaliti: e per quello che io inteso abbia, egli co’ suoi mirabilissima difesa fece, ma ultimamente tutti, nel mezzo de’ cavalieri del mio padre, che di numero in molti doppii loro avanzavano, rimasero morti, tra’ quali Lelio similmente fu ucciso. Dopo cui in vita Giulia rimasa, e gravida, per singulare dono, per la sua inestimabile bellezza, fu alla mia madre presentata, la quale da lei graziosamente ricevuta e onorata fu: e di ciò mi sia testimonio Dio ch’io dico il vero. Era similmente la mia madre pregna, e amendue in un giorno, la mia madre me, e Giulia una giovane chiamata Biancofiore partorí, e rendé l’anima a Dio, e sepellita fu onorevolmente in un nostro tempio secondo il nostro costume. Noi, nati insieme, con grandissima intelligenza nutricati fummo, e in molte cose ammaestrati, e, sí come ora io credo, volere di Dio fu che l’uno dell’altro s’innamorasse, e tanto ci amammo, che diverse avversitá, anzi infinite, n’avvennero. Ma ultimamente il mio padre, credendo lei di vile nazione essere discesa, acciò che io per isposa non la prendessi, né che mai davanti la mi vedessi, come serva la vendé a’ mercatanti, e fu portata in Alessandria, e a me dato a vedere ch’era morta. Ma io poi la veritá sappiendo, con ingegno, con affanni e con infiniti pericoli seguendola la racquistai, e per mia sposa la mi congiunsi, e lei amo sopra tutte le cose del mondo. E certo io n’ho un piccolo figliuolo, appena che il sesto mese compiuto, e ’l suo nome è Lelio, e però che del padre di Biancofiore valore oltre misura intesi, cosí il chiamai. Ella ed egli sono qui meco. E dicovi piú, che la fortuna n’ha portati ad essere in casa di Quintilio e di Menilio, fratelli carnali, secondo che io ho inteso, di Lelio; ma giá non ne conoscono, né Biancofiore di loro conosce nessuno, né sa chi essi sieno, avvegna che con lei sia una romana, la quale con la madre fu presa, e che sempre con essa è stata, il cui nome è Glorizia, la quale tutti conosce, e a lei, per mio comandamento, li tien celati. Quello adunque perché io queste cose vi ho detto è che, prendendo il santo lavacro, dubito non mi convenga palesare, e, palesandomi, costoro la vendetta della morte del loro fratello sopra me non prendano: e, d’altra parte, ancora che io senza palesarmi, potessi il santo lavacro pigliare, si mi saria la pace di tanti e tali parenti carissima, né senza essa mal volentieri mi partirei, se per alcun modo credessi poterla avere. E avvegna che io nella morte del loro fratello non sia colpevole, e che il mio padre disavvedutamente ciò facesse, mi metterei a ogni sodisfazione che per me si potesse fare molto volentieri. Certo la vita di Lelio mi saria piú che un regno cara: Dio il sa. Voi, adunque, discreto dimostratore della vita di Dio, quella del mondo non dovete ignorare, ché chi sa le grandi cose, le piccole similmente deve sapere. Udito avete in che lo vostro consiglio a me bisogni: dunque, per amore di colui alla cui fede recato mi avete, vi priego che al mio bisogno, utile consiglio porgendo, provvediate».
- Ilario ascoltò con maraviglia le parole di Filocolo, e piú volte reiterare se le fece, né alcuna particolarita fu ch’egli sapere e udire non volesse, e dell’alta condizione di Filocolo, e del basso stato che egli mostrava quivi ebbe ammirazione, e penò assai a crederlo, e poi cosí gli rispose: «La tua nobilta mi fa piú contento d’averti tratto d’errore, che se tu un particolare uomo fossi; e allora che tu sarai uomo di Dio, sí come tu se’ dell’avversaria parte, io t’onorerò come figliuolo di re si dee onorare. E certo se io noto bene le tue parole, lunga è stata la sofferenza di Dio, che di tanti e tali pericoli ti ha liberato, sostenendo la vita tua. Ma nullo altro merito ti ha tanta grazia impetrata, se non la conversione alla quale ora se’ venuto, di che tu, se ’l conosci, molto gli se’ tenuto: e veramente di ciò che tu dubiti è da dubitare, ma confortati, che io spero che lui, che di maggiori pericoli t’ha tratto, similmente di questo ti libererá. E io ci prenderò modo utile e presto, come tu vedrai, però che Quintilio è a me strettissimo amico, né niuna cosa voglio che egli similmente non voglia, per che di leggieri la loro pace avrai. Ma certo tanto ti dico: siati la tua sposa cara, né guardare perché in guisa di serva la sua madre alla tua fosse donata: ella fu del piú nobile sangue di questa cittá creata, sí come de’ Troiani i Giulii, e ’l padre fratello di costoro, in casa di cui tu tacitamente dimori, trasse origine dal magnanimo Scipione Africano, l’opere e la nobiltá del quale risonarono per tutto l’universo. E acciò che tu non creda che io forse meno che il vero ti dica, tu lo vedrai. Egli è in questa cittá patrizio Bellisano, figliuolo di Giustiniano imperatore de’ romani, il quale alla cattolica fede, sí come avanti ti dissi, venne non sono ancora molti anni passati, dirizzando lui Agapito sommo pastore: il quale Bellisano è di lei congiuntissimo parente: io il farò a te benivolo, come colui che come padre m’ubbidisce, e farollo al tuo onore sollecito, insieme con Vigilia qui sommo pontefice e vicario di Dio. Dunque confortati e spera in Dio, che il sole non vedra l’occaso, che tu conciliato sarai co’ fratelli del tuo suocero».
- Niuno indugio pose Ilario alla sua promessione fornire; ma partito Filocolo, mandò per Quintilio e per Menilio, che a lui insieme con le loro donne venire dovessero. I quali questo udito, maravigliandosi che ciò esser volesse, prima essi e appresso le loro donne v’andarono, lasciando sola Biancofiore con Glorizia; e venuti a lui nel gran tempio, in una parte di quello, cosí Ilario disse loro: «Mirabile cosa è a’ miei occhi pervenuta oggi, come udirete. Questa mattina andando io per questo tempio, un giovane di piacevole aspetto assai, con un suo compagno, cosí, come io, andava, al quale io donde egli fosse dimandái; ed egli mi rispose: ‛Di Spagna’. Per che io entrando in ragionamento con lui delle cose di quei paesi, per avventura mi venne ricordato Lelio vostro fratello, il quale la rendé l’anima a Dio, e dimandandolo se di lui mai alcuna cosa sentito aveva: al che e’ mi rispose che, vigorosamente combattendo, dall’avversaria parte non conosciuto fu morto, e che dietro a lui rimase una bellissima donna chiamata Giulia, e gravida, la quale una fanciulla, il cui nome egli non sa, partorendo, di questa vita passò nelle reali case del re di Spagna. E in quel giorno similmente la reina del paese, a cui donata era stata, un figliuolo fece. Il quale, secondo che colui mi narra, crescendo, e con la giovane insieme nutriti, di lei molto s’innamorò e ultimamente, oltre a’ piaceri del padre, per isposa se l’ha copulata: e dopo la morte di lui, come unigenito la sua fronte ornerá della corona del regno, e la reina con lui insieme viverá. Le quali cose udendo, mi furono care, e ve le volli fare sentire, però che quinci possiamo conoscere Dio i suoi mai non abbandonare: ché, s’egli a sé chiamò Lelio, egli vi donò una che ’l numero delle corone della vostra casa aumenterá, di che mi pare che vi deggiate contentare, avendo novellamente una reina per nipote ritrovata, della quale niuna menzione era tra voi. E, secondo che il giovane mi dice, il marito di lei assai vi ama, e ciò manifesta un piccolo figliuolo, il quale poco tempo ha che gli nacque di lei, il quale per amore del vostro fratello chiamò Lelio. Egli senza comparazione la vostra conoscenza disidera, e sariagli sopra tutte le cose cara la vostra pace, e se avere la credesse, volentieri vi verria a vedere; ma sentendo la vostra potenza, con ragione teme non sopra di lui la morte del vostro fratello, alla quale egli, non nato ancora, niente colpò, voleste vengiare: per che a me parrebbe che a lui come innocente si dovesse ogni cosa dimettere, e riceverlo per parente, e dargli la vostra pace, e cosí la vostra cara nipote vedreste reina.
- L’antica morte, per le molte lagrime sparte per adietro, non rintenerí i cuori con tanta pietá, che per l’udite parole agli occhi venissero lagrime, anzi riguardando l’uno l’altro e stando per ammirazione alquanto muti, non seppero tristizia della ricordata morte mostrare, né letizia della viva nipote; ma poi Quintilio disse: «Quanto dura e amara ne fu la morte del nostro fratello, tanto ne saria dolce e cara la sua figliuola vedere, e tenere come nipote; ma come senza vendetta si possa sí fatta offesa mettere in oblio non conosco, avvegna che dire possiamo il giovane innocente, e i piaceri di Dio convenirsi con pazienza portare: il quale è da credere che come egli combattendo consentí ch’ei morisse, cosí vivendo l’avria potuto fare essere vittorioso. Non per tanto ciò che tu ne consiglierai faremo, se dí che altro che nostro onore non sosterresti». A cui Ilario cosí rispose: «Veramente in tutte le cose vorrei l’onore vostro. Io conosco che in questa cosa voi potete molto piacere a Dio, e senza vostra vergogna, la quale, ancora che ella ci fosse, dovreste prendere per piacergli, se voi volete a voi grandissima gloria e consolazione acquistare. A Dio potete piacere, il giovane ricevendo in Roma, il quale, tenendo per difetto d’ammaestramento contraria legge, a quella di Dio di leggieri verrá, e similemente la vostra nipote, e per conseguente tutto il loro grandissimo reame. Che vergogna non vi fia il pacificamente riceverlo è manifesto: voi state in pensiero di vendicare la morte di Lelio, la quale non vendicata vergogna vi reputate. Ora non la vendicò egli avanti che morisse? Egli col suo forte braccio uccise un nipote del nemico re e molti altri, e quando pure vendicata non l’avesse, a Dio si vogliono le vendette lasciare, il quale con diritta stadera rende a ciascuno secondo che ha meritato. Che consolazione e che gloria vi fia vedervi una nipote in casa reina, pensatelo voi! Egli ancora se ne poria aumentare la nostra republica, però ch’egli potrebbe il suo regno al Romano Imperio sottomettere come giá fu: per che a me pare, e cosí vi consiglio, che s’egli la vostra pace vuole, che voi glieta concediate, e qui esso venendo onorevolmente il riceviate». A questo niuno rispondeva; ma Cloelia udendo che viva fosse la sua cara. nipote, di cui mai alcuna cosa piú non aveva udita, accesa di focoso disio di vederla, con assidui prieghi cominciò a pregare Menilio e Quintilio che la loro pace concedessero al giovane, secondo il consiglio d’Ilario, e facessero in Roma la cara sposa venire. Per che Menilio, dopo alquanto, conoscendo la veritá che Ilario loro parlava, e vinto da’ prieghi della sua donna, disse: «E come si poria questa cosa trattare? Con ciò sia cosa che esso a noi non manderebbe, perché dubita, e noi a lui non manderemmo, però che contrarii sono alla nostra fede, e i mandanti offenderiano». A cui Ilario: «Se la vostra pace volete rendere al giovane, e promettermi che venuto egli qui come parente il riceverete e avretelo caro, io credo sí fare con la speranza di Dio, che tosto lui e la vostra nipote e ’l piccolo Lelio vi presenterò». «E noi faremo ciò che tu divisi», rispose Menilio. E andati davanti al santo altare, dinanzi alla imagine di Colui a cui la morte per la nostra vita fu cara, per la sua passione e risurrezione giurarono in mano d’Ilario che qualora egli la loro nipote e il marito e ’l figliuolo di lei loro presentasse davanti, che essí come carissimi parenti gli riceverebbero e onorerebbero, e piú, che ciò che Lelio con Giulia giá possedette loro donerebbono. «Niuna cosa piú vi dimando» disse Ilario; «andate, e quando io vi farò chiamare verrete a me.» Per che costoro da Ilario partiti, verso la loro casa tornarono.
- Biancofiore rimasa con Glorizia sola nel gran palagio del suo padre, essendo giá in Roma dimorata molti giorni co’ suoi zii, senza conoscerne alcuno, non osante di dire alcuna cosa a’ dimandanti, o di dimandare, tutta in sé ardeva di disio di conoscere i suoi, i quali Glorizia per adietro le aveva detto, per che cosí a Glorizia cominciò a dire: «O Glorizia, o donna mia, dove sono i grandi parenti, i quali giá mi dicesti che io qui troverei? Ove i molti abbracciari? Ove la gran festa della mia venuta? Oimè, io non ho ancora niuno veduto, né tu mostrato me ne hai alcuno. Deh, perché alcuno almeno non me ne mostri? Io dubito che tu non m’abbi gabbata, e datomi ad intendere quello che non è vero, per venire a vedere la tua Roma, ov’io a nessuno ancora ti vidi parlare. Certo io mi pento giá d’essere qui venuta per tal conveniente, che io non conosca né sia da alcuno conosciuta, ché in verita giá per vedere alti palagi e intagliati marmi non avrei il mio Florio dal suo intendimento svolto». A cui Glorizia rispose: «Tanto a te e a me convien sostenere, quanto piacere sará di Florio, che taciturnitá n’ha imposta». E fra sé di dire come dalla sorella carnale della sua madre e da’ fratelli del suo padre era onorata, tutta ardea, e similmente di farsi a Cloelia conoscere, a cui piccola giovane era stata congiunta compagna, e ora, piú d’anni piena, da lei non era riconosciuta, e ancora alcuno de’ fratelli le pareva di aver veduto in compagnia di Menilio; né d’avere avuto ardire d’abbracciarlo, tutta si consumava. E stando essa e Biancofiore in questi ragionamenti, sopravvenne Cloelia, da loro lietamente ricevuta, e ruppe i loro parlari, loro narrando ciò che udito aveva. A’ quali ragionamenti Filocolo sopravvenne: e se non fosse che a Biancofiore accennò, che giá costei le pareva riconoscere per zia, quivi erano scoperti. Ma Biancofiore, vedendo Filocolo, chetò alquanto l’ardente disio, sperando che tosto con li loro si rivedrebbono.
- Fece Ilario richiamare a sé Filocolo, e come egli nelle sue mani dei suoi parenti la pace aveva giurata gli narrò: della qual cosa Filocolo contentissimo, che fare dovesse li domandò. A cui Ilario disse: «Giovane, io ho promesso farti qui di Spagna venire, e però acciò che essi, alquanto la tua venuta tardandosi, piú nel disio s’accendano di vederti, va, e co’ tuoi compagni per modo convenevole prendi congedo, e fuori di questa cittá ne va a dimorare in alcun luogo vicino, nel quale tu sí cheto stia, che la fama di te non pervenga a’ loro orecchi: e quivi tanto aspetta, che io per te mandi. E quando il mio messaggiero vedrai, allora come figliuolo d’alto re che tu se’ t’adornerai, acciò che con la tua sposa magnificamente e con la tua famiglia venga, e io, sí come tu vedrai, a’ tuoi parenti sicuro ti presenterò».
- Senza niuno indugio partitosi Filocolo da Ilario, e tornato all’ostiere, narrò a’ suoi compagni che far dovevano, e similmente a Biancofiore e a Glorizia, acciò che malcontente nel piccolo spazio non dimorassono. Per che veduto luogo e tempo, Ascalione disse a Menilio che partire loro conveniva: e preso da lui congedo e da Quintilio, e Filocolo e gli altri compagni similmente rendendo degne grazie del ricevuto onore, e Biancofiore e Glorizia da Cloelia e da Tiberina ancora s’accomiatarono, con pietose lagrime partendosi. E saliti sopra i buoni cavalli, con tutta la famiglia e ’l piccolo figliuolo, che al primo loro ostiere era rimaso, si fece venire co’ grandi arnesi, e cercarono Alba, antica cittá da Enea edificata, alla quale assai tosto pervennero: e quivi stando celati, attesero il messaggio d’Ilario.
- Ilario che alli presi fatti era sollecito, avendo con molti altri ragionamenti gli animi di Menilio e di Quintilio accesi d’ardente disio di veder Filocolo e la loro nipote e ’l piccolo Lelio, e parendogli tempo, per singulare messo a Filocolo annunziò che la futura mattina venisse senza alcuno indugio. E questo fatto, andato a Vigilia sommo sacerdote, e avvisatolo della venuta del giovane prencipe, e della cagione, con umili prieghi ad ovviarlo il commosse con eccellente processione, e dopo di lui il vittorioso Bellisano a simile cosa richiese: il quale, udendo chi ’l giovane fosse, graziosamente il promise. Allora Ilario mandò per Menilio e per Quintilio, e loro la venuta di Filocolo annunziò, confortandogli che onorevolmente gli uscissero incontro e che graziosamente il ricevessero.
- Venuto il grazioso giorno, bello per molte cose e da Biancofiore e da Glorizia sopra tutte le cose disiderato, Filocolo comandò che il grande arnese si caricasse e alla cittá n’andasse avanti: la qual cosa secondo i suoi comandamenti fu fatta. Ed egli, lasciato il pellegrino abito, d’un bellissimo drappo a oro si vestí, e fra’ suoi compagni stette sopra un gran cavallo, bellissimo a riguardare come il sole, nell’aspetto mostrando bene quello che era, da molti sergenti intorniato e da’ suoi compagni onorevolmente seguito: e dopo loro, e davanti, scudieri e altra famiglia assai bene e onorevolmente adorni cavalcavano. Appresso i quali Biancofiore, vestita d’un verde velluto adorno di risplendente oro e di preziosissime pietre, messe con maestrevole mano i biondi capelli in dovuto ordine e sopra essi un sottilissimo velo, e sopra a quello una nobilissima corona, cara e per magistero e per pietre che grandissimo tesoro valeva, veniva, tanto bellissima che ogni comparazione ci saria scarsa. E dall’una parte a piccolo passo cavalcava Ascalione, e dall’altra le veniva il duca: e dopo loro Glorizia magnificamente con molte altre donne, d’Alessandria venute in loro compagnia, e in braccio portava il piccolo garzonetto. Menilio, che in sollecitudine d’ovviare Filocolo dimorava, come vide il giorno, cosí con Quintilio e con molti altri parenti e amici e compagni e con Ilario onoratamente molto, salirono a cavallo, e con istrumenti molti e con gran festa ad ovviare Filocolo uscirono, e appresso di loro Cloelia e Tiberina in guisa di grandissime principesse ornate: e dai nobili uomini di Roma e da molte donne accompagnate, di Roma cavalcando uscirono, non credendo Cloelia poter pervenire a tanto che la sua cara nipote vedesse: la quale ella non conoscendo, né da lei conosciuta, tanti giorni veduta avea. E cavalcando cosí costoro verso Filocolo, e Filocolo verso loro, non molto lontani a Roma, da lungi si videro i cari parenti, per la qual cosa Ilario, a tutti andando inanzi, come vide Filocolo, dismontò da cavallo, e Filocolo, vedendolo dismontare, similmente discese, e Menilio e Quintilio giá discesi s’appressarono ad Ilario. A’ quali Ilario disse: «Nobili giovani, ecco qui il figliuolo di Felice re di Spagna, e sposo della vostra nipote, onoratelo e pacificamente il ricevete come avete promesso, e come dovete». E a Filocolo disse: «Altissimo prencipe, ecco qui li zii della tua sposa, come degni li riconosci, e cosí gli onora». E posta la destra mano diFilocolo nelle destre di Quintilio e di Menilio si tacque, e le trombe e gli altri strumenti infiniti riempierono l’aere di lieto suono. Essi allora s’abbracciarono e baciaronsi in bocca, e fecersi maravigliosa festa, ben che alquanto Menilio e Quintilio stupefatti fossero, ricordandosi che poco avanti loro oste era stato, e non l’avevano conosciuto. E non essendo ancora a cavallo rimontati, Biancofiore sopravvenne, la quale veggendo il suo signore a piè, dismontò di presente, e Ilario, presala per mano, e di braccio a Glorizia recato in braccio a sé il piccolo Lelio, nel cospetto di coloro la menò dove Cloelia e Tiberina con l’altre donne giá giunte e dismontate onoravano Filocolo, e disse: «Signori e donne, ecco qui Biancofiore vostra nipote, e ’l piccolo Lelio suo figliuolo». A questa voce furono rendute mille grazie a Dio, e Menilio e Quintilio con tenero amore abbracciarono la loro nipote, sopra a tutte le cose del mondo maravigliandosi della sua bellezza. E Cloelia, che mai vedere non la credeva, l’abbracciò mille volte e baciandola, di tenerezza lagrimando, tutto il bel viso le bagnò, e simile fece Tiberina, e molte altre donne a lei congiuntissime parenti, dolendosi del tempo che con loro non conosciuta da esse era stata. Poi Cloelia preso in braccio il grazioso garzonetto, con maravigliosa festa mirandola, ringraziava Dio dicendo: «O dolce signore Iddio, ormai consolata viverò ne’ tuoi servigi, poi che Lelio e Giulia renduti m’hai». La festa fu grande: e chi la potria interamente narrare? Chi pellegrinando alcuna volta per lungo tempo andò, tornando alla sua casa, quale essa fu può pensare. La qual cosa faccendosi, essi rimontarono a cavallo, e Filocolo dall’una parte, e il duca dall’altra accompagnando Cloelia cavalcavano; Tiberina in mezzo di Menedon e di Massalino veniva; Menilio e Quintilio, che della bellezza della loro nipote non si potevano ricredere, accompagnavano Biancofiore, e Parmenione e Ascalione Glorizia, che il piccolo Lelio portava, tanto contenta, quanto mai fosse stata, da Cloelia senza fine onorata e riconosciuta: e l’altre nobili donne da nobili uomini accompagnate, delle grandissime bellezze di Biancofiore e della magnificenza di Filocolo ragionando, cavalcarono infino all’entrata della nobile cittá. Quivi Vigilio, sommo pastore, giá venuto trovarono, al freno del cui cavallo videro Bellisano e Tiberio nobilissimi romani: il quale come Filocolo di lontano vide, lasciate le donne, da cavallo dismontò, e, inginocchiandosi, gli fece debita riverenza, e poi umilmente a baciargli i piedi corse. Poi volto a Bellisano, il quale egli ben conosceva, inchinandosi molto, l’abbracciò, e poi dirizzandosi si baciarono e fecersi graziosa festa, e Tiberio fece il simigliante: e Biancofiore similmente a cavallo discesa, e trattasi la ricca corona, di lontano debita riverenza fece al santo padre. Al freno del quale, rinunziandolo Vigilio, Filocolo con Bellisano volle essere, reputando sconvenevole cosa che il figliuolo di tanto imperatore andasse a piè ed egli a cavallo, e, concedendolo Tiberio, vi fu: e cosí infino.al santo tempio, ove la predicazione della santa fede udita avea da Ilario, andarono, al quale tutta Roma era corsa per veder lui e Biancofiore similmente. Quivi pervenuti, ognuno dismontò da cavallo, ed entrò nel santo tempio, ove onorevolmente da Ilario era apprestata la santa fonte con l’acqua per battezzarli, nella quale prima che altro si facesse, Filocolo e il piccolo Lelio e tutti i suoi compagni, nel cospetto di tutti i romani, da Vigilio ricevettero, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, il battesimo, confessando la santa credenza, e rinúnziando la iniqua legge. Nella qual fonte Filocolo il suo appositivo nome, cioè Filocolo lasciò, e Florio, suo nome naturale, riprese. Biancofiore similmente con le sue donne in piú segreta parte simile lavacro con divoto core ricevette, e rivestiti tutti, con la benedizione del santo padre si partirono. E accompagnati da Bellisano, da Tiberio e dagli altri romani prencipi, con grandissimo onore e festa, a’ grandi palagi di Menilio pervennero.
- Quivi pervenuti e saliti alle gran sale, si ricominciarono le mirabili carezze e feste. E Menilio e gli altri, parlando con Ascalione, escono di dubbio udendo la cagione per che l’altra volta a loro si tenessero celati: e rimasti contenti, niuno ad altra cosa che a festeggiare intende. Florio, dell’avvenute cose oltre misura contento, quivi la sua magnanimitá comincia a mostrare, e i gran tesori lungamente guardati dona e spende, pure che prenditori li sieno. Niuno gli va davanti, che senza dono si partisse, e ’l simigliante il duca e gli altri fanno: e quasi niuno è in Roma che per ricevuto dono o molto o poco non sia loro tenuto. Ampliasi la loro fama, e come iddii vi sono riveriti. Niuno v’è che non s’ingegni di piacere a loro e di servirgli: e questo aggrada molto a Menilio e a Quintilio, e lieti vivono di tale parente, e con gli altri faccenda festa, quella lungamente fanno durare.
- Glorizia, onorata molto da Cloelia, dalla quale veramente fu riconosciuta, disiderosa di rivedere il padre e la madre e’ suoi, con licenza di Biancofiore, accompagnata da molti, ricercò i suoi palagi, nei quali due fratelli solamente nati avanti di lei lasciò nel suo partire, e ora pieni di molti gli ritrovò. Ella due sorelle giá grandi, e co’ figliuoli, e tre fratelli piú che gli usati vi vide, e, non conosciuta, non è chi le parli. Il padre vecchissimo giaceva, e appena vedeva alcuna cosa. Sempronio di lei maggior fratello, il quale ella bene riconosceva, ma egli lei no, però che nell’aspetto nobil donna gli parea, e vedea di bellissimi vestimenti ornata e accompagnata da molti valletti, l’onorò e dissele: «Gentil donna, cui addimandate voi?». A cui Glorizia: «O caro mio fratello Sempronio, or non mi conosci tu? Or non vedi tu che io sono la tua Glorizia, la quale sí piccola da voi mi partii seguendo Giulia e Lelio al lontano tempio? Come voi ora non mi riconoscerete? Certo io riconosco bene voi». A cui Sempronio: «Gentil donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice, e non è atto di nobile donna andare gli antichi dolori delle morte persone, per modo di beffa, ritornando a memoria; noi vi siamo, in quanto vi piaccia, e fratelli e servidori, e la nostra casa è ai vostri piaceri apparecchiata, ma cessi Iddio che sotto colore di Glorizia noi qua entro ricevere vi vogliamo, però che giá Apollo è oltre venti volte tornato alla sua casa, poi che Glorizia mutò vita, secondo noi ben sappiamo, che molto la piangemmo come cara sorella, e questo ancora a tutta Roma è manifesto; e sappiamo ancora Domineddio ora non essere in terra sceso a risuscitarla. Voi sete errata: guardate che caso non vi faccia meno che bene parlare». Allora Glorizia, tutta nel viso cambiata per le due sorelle di lei e per li tre fratelli nati dopo la sua partita, i quali ella non conoscea, e per gli altri circustanti, dopo un gran sospiro disse: «Oimè, fratello, or come mi parli tu? Sono io femina a cui in alcun atto la gola leda? Certo per singulare grazia di Dio questo conosco, che tra l’altre io sono una delle piú modeste. Oimè, perché io le mie case ricerco, m’è detto che io meno che bene parlo? E piú m’è detto che io, che mai non morii, giá è gran tempo fui morta pianta e sepellita. Deh, Dio! come può egli essere che Cloelia, a cui niente io per consanguineita attengo, m’abbia riconosciuta, e i miei fratelli non mi conoscono, anzi mi scaccino?». Ma poi, lasciando del dolersi i sembianti, passò piú avanti dicendo: «Io sono Glorizia, e vivo, né mai morii. Onoratemi nella mia casa come degna. Mostratemi Lavinio mio padre, e Vetruria mia madre, e fate venir Curzio mio promesso marito, il quale io giovane qui con voi e con Afranio mio fratello lasciai». Sempronio, udendo questo, piú si cominciò a maravigliare, e piú fiso mirandola, quasi giá la veniva affigurando; ma la memoria del falso corpo, per adietro da lui sepellito, non gli lasciava credere ciò che vera imaginazione gli rapportava. Il vecchio padre udí la questionante figliuola, e la voce, non udíta da gran tempo, riconobbe, e giá quasi gli fu manifesto essere per adietro stato ingannato; e a sè chiamato Sempronio, gli comandò che, dentro, a lui menasse la donna, la quale non prima alla sua poca vista fu palese, che egli, come poté, grave la corse ad abbracciare, dicendo: «Veramente tu se’ Glorizia mia cara figliuola». E narratole come morta pianta l’aveano, senza fine la fecero maravigliare, e poi dolere della trapassata madre, e rallegrare della multiplicata prole, a’ quali faccendola nota con intera chiarezza, con festa a Curzio suo marito, il quale lei credendo morta un’altra n’avea menata, che poco tempo era passato che similmente morta s’era, la rendé, con cui ella felicemente e lungamente visse.
- Ricevuta Glorizia, e riso molto di questo accidente da. Biancofiore e da Cloelia alle quali essa lo narrò, e durante ancora la festa grande di Florio, Ascaione, giá molto pieno d’anni, infermò, e dopo lunga infermitá, in buona disposizione rendè l’anima a Dio. Il cui passare di questa vita senza comparazione a Florio dolse, ma fattolo di nobilissimi vestimenti vestire, e a guisa di nobile cavaliere adornare sopra un ricchissimo letto, vergognandosi di spander lagrime nella presenza de’ circustanti, quindi comandò a ogni persona partire, e solo rimaso, con amarissimo pianto bagnando il morto viso, cosí cominciò a dire: «O singulare amico a me intra molti, a cui sempre le mie avversitá furono tue, dove se’ tu? Quali regioni, o Ascalione, cerca testé la tua santa anima? Certo credo le celestiali, poiché la tua virtu le meritò. O caro amico, quanto amara cosa da me t’ha diviso? Dove a te il ritroverò io simile? Chi, se la fortuna contraria tornasse, di vivere mitissimamente mi daria consiglio, come tu facesti piú volte, essendo amore di morte nel mio misero petto? Chi alle mie gravi avversitá ad aiutarmi a sostenere gli avversarii fati sottentrerebbe, come me tu sostentavi? Oimè, che queste cose sempre mi saranno fitte nell’intime midolle, e prima il mi spirito le sottili auree cercherá, ch’elle passino dalla mia memoria. Alcuni vogliono lodare per amicizia grandissima quella di Pilade e d’Oreste, altri quella di Teseo e Peritoo mirabilmente vantano, e molti quella d’Achille e di Patroclo mostrano maggiore che altra; e Maro, sommo poeta, quella di Niso e d’Eurialo, cantando, sopra l’altre pone, e tali sono che recitano quelle di Damone e di Fizia avere tutte l’altre passate: ma niuno di quelli che questo dicono la nostra ha conosciuto. Certo niuna a quella che tu verso di me hai portata si può appareggiare. Se Pilade Oreste furioso lungamente guardò., egli però te non passò di fermezza. E chi fu alla mia lunga follia continua guardia se non tu? E quale piú dirittamente si può dite folle, o fa maggior follia, che colui che oltre al ragionevole dovere soggiace ad amore sí come io feci? Se Peritoo ardí di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé piú maraviglia che odio mettendo nel doloroso Iddio, gran cose fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patroclo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu piú robustamente operasti, accendo sí con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d’amore verso lui mostrando, e tu similmente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morir meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l’udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fussi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistá, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto piú l’avversitá mi infestava, tanto piú a’ miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta e molte cose al mio petto fidatamente davi a tener coperte, e tu similmente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che tu dolce amico non eri di quelli: che cosí vanno con l’amico, come l’ombra con colui cui il sole fiede, tra’ quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu cosí nell’un tempo come nell’altro, sempre fosti eguale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontá dalla mia non partisti, ove pari a te ritroverò? O discreto maestro, e a me piú che padre, gli ammaestramenti di cui seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so! Chi mi fia fido duca negli ignoti passi? A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterá al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s’egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanta amara mi pare la tua partenza! Or fosse piaciuto a Dio che la morte teco mi avesse tratto! Io vi verrei contento sí come colui che della sua Biancofiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con cosí fatto compagno, partendomi di questa vita, non Peritoo ardí di cercare dietro a Teseo le infernali case, di sé piú maraviglia che odio mettendo nel doloroso Iddio, gran cose fece; ma tu non dietro a me, anzi davanti hai tentate pestilenziose cose, e da non dire, per farmi sicuro il passare. E se Achille animosamente la morte di Patroclo, con cui egli era sempre vivuto amico, vendicò, tu piú robustamente operasti, accendo sí con la tua forza che io non fossi morto. E se Niso, morto Eurialo, volle con lui morire, potendo campare, in ciò singulare segno d’amore verso lui mostrando, e tu similmente potendo te salvare, vedendo me nel mortale pericolo, a morir meco, se io fossi morto, eri disposto, e io l’udiva. E chi dubita che tu ancora, con isperanza che io mai non fussi tornato, non fossi per lo mio capo entrato, come Fizia per Damone entrò, del suo tornare, per la stretta amistá, sicuro? Oimè, che singulare amico ho perduto! Tu quanto piú l’avversitá mi infestava, tanto piú a’ miei beni eri sollecito. Niuna cosa celavi tu tanto che essa a me non fosse aperta e molte cose al mio petto fidatamente davi a tener coperte, e tu similmente eri colui a cui io tutti i miei segreti fidava, però che tu dolce amico non eri di quelli: che cosí vanno con l’amico, come l’ombra con colui cui il sole fiede, tra’ quali se alcuna nube si oppone che privi la luce, con quella insieme fugge. Tu cosí nell’un tempo come nell’altro, sempre fosti eguale. O nobile compagno, il quale mai la tua volontá dalla mia non partisti, ove pari a te ritroverò? O discreto maestro, e a me piú che padre, gli ammaestramenti di cui seguirò io? Sotto cui fidanza viverò io omai sicuro? Certo io non so! Chi mi fia fido duca negli ignoti passi? A cui per consiglio ricorrerò? Non so! Chi mi ripresenterá al mio padre, il quale, sentendo te meco, di rivedermi vive sicuro? Certo s’egli la tua morte sapesse, egli si crederia avermi perduto. Oimè, quanta amara mi pare la tua partenza! Or fosse piaciuto a Dio che la morte teco mi avesse tratto! Io vi verrei contento sí come colui che della sua Biancofiore ha avuto il suo disio ritrovandola, e poi la santa fede prendendo è da ogni sozzura lavato. Appresso con cosí fatto compagno, partendomi di questa vita, non vedute, Florio di grazia impetrò dal sommo pastore che Ilario con lui dovesse andare, acciò che nelle cose da lui ignorate fosse da Ilario chiarificato, e insegnategli, e appresso perché egli quella che a lui aveva predicato, predicasse al vecchio padre e a molti popoli del suo regno, e a quelli che si convertissero desse battesimo. E concedutogli da Vigilio e preso commiato, con la sua benedizione si partí. Nella cui partenza, Bellisano con molti altri romani nobili uomini andarono con lui infino fuori della cittá, e similmente Cloelia e Tiberina con Biancofiore. Ma Florio, ringraziando Bellisano e gli altri nobili e accomiatatosi da loro, si partí, cavalcando con Menilio e con Ilario, i quali seco menava. E Biancofiore appresso, con pietose lagrime promettendo di ritornar tosto, lasciò Quintilio suo zio, e Cloelia e Tiberina, seguendo Florio suo marito.
- Cavalcati adunque costoro verso Marmorina piú giorni, e a quella giá forse per una dieta vicini, piacque a Florio di significare al padre la sua felice tornata per convenevoli ambasciatori, la quale esso attendeva e sopra tutte le cose disiderava, avendo da’ marinari de’ tornati legni interamente saputa la sua fortuna, della qual saria stato contento, se la nobiltá di Biancofiore avesse saputa, ma per quello dolente vivea, ben che con disiderio attendesse il figliuolo: e con tutto che Florio suscetta avesse di lei graziosa prole, gli andavano per lo iniquo cuore pensieri di nuocerle ancora. Andarono adunque i mandati al vecchio re, e lui d’etá pieno trovarono salito sopra un’alta torre del suo real palagio, e sopra quella stando, rimirava i circustanti paesi, acciò che di lontano potesse conoscere la venuta del suo figliuolo. A cui i mandati ambasciatori lietamente di quello la venuta annunziarono, aggiungendo come loro fu imposto, che con ciò fosse cosa ch’egli la verace credenza battezzandosi avesse presa, che similmente a lui dovesse piacere di pigliarla nel suo venire, se non che mai nella sua presenza non tornerebbe. Le quali cose udendo il re, in prima della sua venuta allegrissirilo, come l’altre cose ascoltò, divenne turbatissimo e con gran romore, alzando la grave testa, disse: «O misera la vita mia, perché figliuolo mai d’avere disiderai niuno? Prima ch’io l.avessi, chi era piú di me felice? Ben che io il contrario reputassi, tenendo che alla mia felicitá niuna cosa se non figliuoli mancasse, e che senza quelli nulla fossi, avutolo, che felicitá si fosse mai non conobbi! Oimè, ora non fosse mai nato, che certo ancora col mio nome durerebbe l’effetto. Io, misero, nella sua nativitá mi potei uno «IN» aggiungere al santo nome, acciò che in misero l'avessi mutato, come la fortuna mutò le cose. Io non mi credetti avere bastone alla mia vecchiezza, ed io gravissimo peso v’ho trovato aggiunto. Questi dalla sua puerizia cominciò quella cosa a fare, per la quale io dovea vivere dolente, ed essendo infino a qui tristo, di lui e della sua pellegrinazione sempre temendo, vivuto, credendo per la sua tornata alquanto menomare la mia dogli, l’ho accresciuta, ed egli l’accresce continuo. Sia maladetta l’ora ch’egli nacque, e che io prima d’averlo disiderai! Egli da me s’è lungamente tolto, e ora in eterno a’ nostri iddii s’ha furato, e me similemente vuole loro torre; ma elli non sará cosí, né mai farò cosa che gli piaccia, e cessino gl’iddii che io di farla abbia in pensiero. Dunque ha egli i nostri veraci iddii, da’ quali egli ha tanti beni ricevuti, abbandonati per altra legge, e ha creduto a’ sottrattori cristiani, de’ quali maggiori nemici non ci conosce? Ora ha egli messo in oblio la santa Venere, la quale, secondo che io udii, gli porse celestiali armi a difendere l’amata Biancofiore contra ’l mio volere? Ha egli dimenticato Marte, il quale non isdegnò abbandonare i suoi regni per venirlo ad aiutare nell’aspra battaglia campale, ov’egli, se l’aiuto di quello non fosse stato, saria morto rimaso? Ha egli dimenticati gl’iddii, da cui prima risponso ebbe della perduta Biancofiore? O quelli che lui nello acceso fuoco difesero? Ora sia la loro potenza maladetta, poi che da lui tanto sostengono. A loro avviene e a me similemente come a colui che nel suo grembo con diligenza i serpenti nutrica, che egli ha il primo morso dal velenoso dente. Quando riceverei egli mai dal nuovo Iddio tante grazie, quante da quelli, ch’egli ha abbandonati, ha ricevute? Certo non mai. Io non credo che egli fosse mio figliuolo: e certo non è; ma piú tosto dalle dure quercie e dalle fredde pietre fu generato,, e dalle crudeli tigri bevé il latte. Mai niuna afflizione il fè pietoso, ma sempre quelle cose che egli ha sentito che noiose mi siano, ha operate: e però guardisi mai inanzi a me non apparisca; niuno nemico di me potrá aver maggiore. Egli continua tristizia dell’anima mia fu, la quale divisa dal corpo trista n’andrá agl’infernali iddii: i quali, per nuova credenza abbandonati, mi facciano ancora di vederlo turpissimamente morire essere contento!».
- Tacque il re, e costoro la fiera risposta udita, gli si levarono davanti, né a rispondere poterono tornare a Florio, per la sopravvenuta notte. Ma la reina, la quale non picciola cura stringea di sapere del figliuolo novelle, veggendo costoro partiti dal turbato re, a sé li fece chiamare, e da loro particolarmente dello stato del figliuolo s’informò, e dell’essere di Biancofiore: delle quali cose di tutte saria stata contenta, se la nuova ira del padre non fosse stata per la nuova legge del figliuolo novellamente presa. Ella, udendo che per quella sí aspramente il padre da sé l’accomiata, e lui d’altra parte fermo di non venire davanti a lui, se la presa legge non prende, per doglia vorria morire. Ma dopo lungo pensiero, con dolci parole priega gli ambasciatori che la adirata risponsione del padre non portino al figliuolo; ma mitigandola si gli dicano che egli nella sua presenza venga, però che il re prima nol vedrá che egli si muterá d’animo, e il debito amore che tra loro dee essere senza niuna sconcia parola o altro mezzo gli concederci. «Certo qualora il vecchio re» dicea la reina, «vedrá la chiara giovinezza del figliuolo, egli lieto in se medesimo disidera di piacergli, né niuna cosa sará ch’egli a lui domandi, ch’esso non disideri di adempierla. Dunque venga, che molte cose a’ principali si concedono, le quali l’uomo non si vergogna di disdire a’ medianti.» Con molte altre parole ancora la reina conforta i messaggi che il figliuolo a venire dispongano, disposta, se egli non viene, d’andare a lui vedere ove ch’e’ sia.
- Era giá della notte gran parte passata, quando la reina da loro si partí, ed essi molto onorati, sí come ell’aveva comandato, andarono a dormire. Il vecchio re, a cui il riposo piú ch’altro porgea nutrimento alla debile vita, andato di grande spazio avanti a riposarsi, e rivolgendosi sopra i niquitosi pinsieri, in quelli s’addormentò, e piú fiso dormendo, sentí nella sua camera uno strepito grandissimo, simile a quello che suol fare squarciata nube: per che egli pieno di paura riscotendosi si svegliò, e la camera sua piena di mirabile splendore vide. E non sappiendo che ciò si fosse, prima ruina avendo temuto, e ora temendo fuoco, pavido cominciò a dire: «Or che è questo?». Ma poi che fuoco conobbe non essere, con aguto occhio cominciò a guardare per la luce, nella quale, o perché ella fosse molta, o perché la vista del re fosse poca, niuna cosa dentro vi discernea; ma bene udí alle sue parole rispondere: «Io sono colui che tutto posso, e a cui niuno pari si trova, e in cui il tuo figliuolo, con la sua sposa e co’ suoi compagni novellamente credono, a’ cui piaceri se tu benignamente non acconsenti, io il farò in tua presenza, o voglia tu o no, regnare tanto che deJ suoi giorni il termine fia compiuto, il quale niuno può passare: e te farò viver tanto, che tu la sua morte vedrai. Appresso la quale, la ribellione de’ tuoi baroni ti fia manifesta, i quali davanti agli occhi tuoi, contradicendolo tu, a poco a poco il tuo regno ti leveranno: e quello perduto, in tanta miseria viverai, che ’l morire di grazia mille volte il giorno dimanderai, né ti sará dato, prima che le mani t’abbia tu per rabbia rose; e dopo questo vituperevolmente morrai, e abominevole a tutto il mondo». E questo detto, ad un’ora tacque la voce e sparve lo splendore. Per che il re desto e pauroso, in sé molte volte ripeté l’udite parole dicendo: «Or chi potrebbe esser costui che tutto puote, e che si aspramente mi minaccia? Certo la sua venuta di Dio risembra, e similmente il partire! Dunque è da temere, e da fare tutti i piaceri suoi, anzi che incorrere nella sua ira: ma come gli farò, ch’io nol potei vedere né nol conosco?». E in questi pensieri stando, senza punto piú la notte dormire che dormito infino allora avesse, venne il giorno, ed egli si levò. E sappiendo che gli ambasciatori di Florio non erano partiti, a sé gli fece chiamare, e umilmente li pregò che di ciò che detto avea la passata sera niente al figliuolo narrassero, però che egli, spaventato con minaccie la notte dal novello Dio, avea mutato proposito, e però gli dicessero ch’egli venisse, e troverebbelo a ogni suo piacere disposto.
- Allora si partirono costoro, e in brieve ritornati a Florio, ciò che fu loro imposto renderono: di che Florio contento, come di Marmorina per dolore uscito era vestito di violato, cosí in quella propose di rientrare vestito di bianco in segno di letizia e di puritá, e cosí sé e’ suoi fè vestire. E montati a cavallo tutti verso Marmorina cavalcarono, a’ quali i nobili uomini da Marmorina a cavallo, menando grandissima gioia e con istrumenti infiniti, uscirono incontro; né fu alcuna ruga in Marmorina che di nobili drappi non fosse ornata, per le quali le donne e i garzoni faccendo festa, attesero il loro signore, c1ascuno con la piú bella roba fattasi bella. Con la quale sí grande allegrezza Florio entrò in Marmorina sotto onorevole palio, e Biancofiore similmente dopo lui. E pervenuti al real palagio, ricevuti furono con mirabile allegrezza dal vecchio padre e dalla pietosa madre, e con loro insieme tra gli altri fu molto onorato Menilio: e i compagni di Florio prima dal re e dalla reina lietamente veduti, poi da’ suoi stretti amici e parenti con maggiore letizia furono ricevuti. Né niuna cosa è che non sia lieta in tutto il paese: solamente i grandi parenti del trapassato Ascalione piangono la morte del valoroso uomo, la quale giá in brieve non si mise in oblio.
- Mentre la gran festa durò, e Biancofiore e dal re e dalla reina come figliuola onorata, da loro saputo che d’imperiale stirpe discesa era, dimandatole delle passate offese perdono, alle quali ella eterno silenzio dimandò e pregò che fosse, piú giorni trapassarono in festeggiare. Dopo i quali alquanto riposatosi il festeggiare, Florio dimandò che il re e la reina si disponessero a prendere la santa fede, sí come promesso avevano, e appresso loro tutto il marmorino popolo e l’altro rimanente del regno: a cui piacere il re si dispose in tutto. E fatto in una gran piazza ragunare la molta gente della cittá, tacitamente la predicazione di Ilario ascoltarono, dopo la quale il re prima e poi la reina e poi tutta l’altra gente, uomini e femine, piccoli e grandi, presero da Ilario il santo lavacro. La qual cosa fatta, Florio per tutto il reame mandò legati a seminare la santa sementa, e per tutto mandò comandando che chi la sua grazia disiderasse, prendesse il battesimo e abbattesse i fallaci idoli a reverenza fatti de’ falsi iddii: e de’ templi fatti a loro facessero templi al vero Dio dedicati, e lui adorassero e temessero e amassero. Il cui comandamento, non dopo molto tempo, per tutto fu messo ad esecuzione. Faccendosi la gran festa della nativitá di Florio, Sara, a cui notificato fu, acciò che il suo vanto adempiesse, una corona di grandissima valuta, venendo alla corte del suo signore, recò, e quella presentò a Biancofiore., la quale, di tanto dono ringraziandolo, benignamente la prese. E Massalino, che il suo vanto non aveva messo in oblio, i cari piantoni fece venire, e con lieto viso glieli presentò, a cui ella, ringraziandolo, disse mai ad arbore sí fatte radici non avere vedute: ‛ricca è la terra che le produce’. E in questa maniera la festa grande e notabile ricominciata, per lo preso lavacro, lungamente durò. E i paesani, che vedovi credeano rimanere di signore, ora riconfortati e lieti il rivedeano.
- Quanta l’allegrezza di Florio fosse, dire non si potrebbe. Egli si vede la disiderata Biancofiore sposa, e di nobile stirpe, a lui ignota nel principio dell’innamoramento, discesa, e di lei un bellissimo figliuolo. Egli si vede, dopo molti pericoli, da tutti campato e al suo regno salvo tornato. Egli si vede il vecchio padre e la cara madre, i quali egli appena credeva ritrovare vivi. Egli si vede il molto popolo, e da tutti essere amato: e quello che sopra tutte queste cose gli era a grado era che della setta de’ fedeli a Dio era divenuto e con lui tutti i suoi seguaci. Nella quale letizia di tutte queste cose dimorando, chiamò a sé i cari compagni con lui stati nel lungo pellegrinaggio, de’ quali alcuno ancora alla sua casa non era tornato, e disse loro: «Signori e cari amici, è finito il lungo cammino, il quale noi è piú anni cominciammo: e, lodato sia Iddio, non invano avemo camminato! Ma ben che io la disiderata cosa abbia acquistata, la vostra fatica e la paura e l’affanno de’ corsi pericoli non è stata meno, ne’ quali mai da voi non mi vidi diviso, ma solleciti sempre per levare me da’ mali voi volenterosi conobbi a sostentarmi, le quali cose in me piú volte pensate, con ragione mi vi conosco obbligato. E però io qui giovane, e ancora sotto paterna potestá obbligato, piú lontano ch’io possa profferere non vi posso, ma a quello che per me si puote, tutto sono vostro, disposto a niuno pericolo né affanno rifiutare per voi giá mai. E dopo questo, se mai avviene che la mia fronte sostenga corona, io sia chiamato re e voi governate e possedete il reame, del quale se il nome come l’utilitá si può comunicare in molti, molto piú sono contento che di quello ancora cosí com’io godiate: e dove tutto questo a sodisfazione di tanto servigio non bastasse, che so che non basta, Dio per me vi rimeriti il rimanente. Siavi adunque lecito ormai a vostro piacere rivedere le vostre case, e far lieti i padri e le madri e gli stretti parenti e amici, i quali voi giá e cotanto tempo senza pigliar congedo per accompagnarmi abbandonaste. Né sia però la mia anima dalla vostra lontana, perché lontanandovi partiamo i corpi, ma sí congiunte, come per adietro state sono, le tenete sempre, tornando a rivedermi quando riveduti i vostri avrete: e riposatevi tanto che siano contenti».
- La grande liberalitá di Florio, e il suo dolce parlare, gli animi prese de’ valorosi giovani, e a’ suoi servigi disposti legò con piú forte catena. Elli quasi a tanta profferta non sapeano che rispondere, che a quella loro paresse degno ringraziare, ma dopo alquanto spazio, ciascuno per sé, e tutti insieme dissero: «Florio, assai c’è caro, e di maggior beneficio il terremo, il guiderdone che Dio sí liberale giovane ci ha dato per signore, che della gran profferta, l’attenere della quale crediamo che saria molto, maggiormente ti siamo tenuti: Iddio il tuo regno e i tuoi beni aumenti sempre, e la grandezza della corona, che sará tua, con gloriosa fama prolunghi infino al gran giorno. Sempre saremo tuoi, e se’ l profferere altrui le sue cose non fosse arroganza, ci proffereremmo; ma poi che a te quello che a noi medesimi aggrada, cioè che noi le nostre case riveggiamo, con la giá conceduta licenza ci partiremo». E queste parole dette, pietá entrò ne’ fedeli petti: e abbracciandosi ciascuno, e da Biancofiore e dal re e dalla reina prendendo congedo, lagrimando si partirono, in sei parti dividendo la lunga e unica compagnia, tornando ogni uomo a’ suoi e alle sue case.
- Stette Florio quanto il lagrimoso verno durò col suo padre e con la sua madre. E negli oziosi tempi narra loro i nuovi e perversi accidenti avvenutigli dopo la sua partita. Egli prima all’altre cose disse l’avversitá avuta della sua nave negli ondosi mari, e mostra loro come, quella da piú contrarii venti combattuta, ad alcun porto dirizzare non poté la sua prora; poi come dalle rotte onde del mare, ora dall’una parte ora dall’altra percossa, e talora da quelle coperta, piú volte perduta, e loro con lei insieme si riputavano, e come essendo loro dal vento levata la vela e l’albero tolto, e dal mare i timoni, e minacciando il cielo crudelissime tempeste, spesso aprendosi con grandissimi tuoni, quella per perduta giá vinti i marinari abbandonarono: e giacendo senza potersi aitare si concederono alla fortuna, la quale poi in Partenope con la giá rotta nave li trasportò. «Quivi» disse Florio, «ci ritenne contrario vento, tanto che cinque volte tonda e altretante cornuta si mostrò per tutto il mondo Febea.» Poi per molti mezzi mostrò come in Alessandria venisse, e quello che quivi facesse, e quanto vi stesse: con una verghetta che in mano teneva, disegnava loro l’alta torre da Sadoc guardata, e le sue bellezze contava, come colui che vedute l’avea. Poi con quella verghetta piú spazio pigliando, qual fosse e quanto il verde prato dimostra, e dove l’amiraglio sedesse, quando fra le rose nella cesta gli fu presentato davanti: e dice quanto la sua paura fosse sentendosi tirare i biondi capelli. Poi disegna da che parte della torre fosse su tirato, e come nella camera. di Biancofiore fosse messo, e quello ch’egli facesse, e che dicesse, e come stesse, tutto narra. Poi il principio della stata presura ignorando, com’egli collato giú dall’alta torre fosse con Biancofiore ignudo dice, e mostra con la verga in che parte del prato fosse il fuoco acceso intorno a loro due. E quando a loro l’oscura nuvola discese, e dove la battaglia d’Ascalione e de’ suoi compagni con gli avversarii fosse fatta per lo suo scampo; e conta come poi levato di pericolo, dall’amiraglio conosciuto fu onorato. Dice ancora della sua tornata, e del trovato Fileno, e della posta terra; e similmente come in Roma entrasse, e dove prima arrivasse, e come poi uscitone, e ritornandovi, fu onorato. Le quali cose il padre e la madre udendo, subitamente paurosi divennero, e quasi a’ partiti che disegnava, pareva loro vederlo. Poi lieti tornando de’ ricevuti onori, dimenticarono la paura, e lodarono Iddio che loro, non per loro merito, ma per sua benignitá renduto l’aveva sano e salvo.
- Poi che la dolente stagione fu passata, e la dolcissima primavera recata da Febo avendo giá di nuove e belle erbette e fiori rivestita la terra e gli alberi, a Florio venne in disio di visitare il santo tempio, al quale Lelio non era potuto pervenire con la sua Giulia, e a ciò si dispose, e con Menilio e con Ilario entrò al disiato cammino, e con loro Biancofiore, e il vecchio re, che, lungo tempo in Marmorina dimorato, era volenteroso d’andare a Corduba. Ed egli e la reina insieme con Florio infino a quella andarono, e quivi essi rimasero, con loro ritenendo il piccolo Lelio, e Florio e’ suoi cavalcarono a vanti al loro viaggio.
- Camminando costoro per alcuna giornata, partiti da Corduba lieti, e ragionando delle bene avvenute cose per adietro, essi pervennero a’ piè d’un altissimo monte, in una profonda valle, la quale tutta di ossa bianchissime biancheggiava: di che Florio molto si maravigliò e Menilio; e chiamarono a sé un vecchio scudiero, non sappiendo pensare essi ciò che si fosse, e dimandaronlo se mai udito avesse per che quel luogo d’ossa sí pieno si mostrasse. A’ quali il vecchio scudiero rispose: «Io molte volte ho udito il perché, e certo ancora mi ricorda ch’io il vidi». «E quale è la cagione», disse Fiorio? A cui lo scudiero, perciò che Menilio e Biancofiore vedeva, non rispose, ma stette alquanto, e poi cosí disse: «Signor mio, camminiamo avanti, e alla vostra tornata ve lo dirò». «In veritá noi non ci partiremo» disse Florio, «che tu nel dirai.» «E se col mio dire» disse lo scudiero, «io vi porgo turbazione, di ciò non sará mia colpa.» «No» rispose Florio, «sicuramente qual fosse la cagione interamente ne conta.» «Certo, signor mio» disse egli allora, «in questo luogo tra infinita moltitudine di cavalieri del vostro padre, da questo monte discendenti, e tre piccole schiere di Lelio, padre di Biancofiore, fu asprissima battaglia, e io la vidi: e ben che quelli di Lelio, e Lelio similmente, molti de’ vostri cavalieri uccidessero, vigorosamente difendendosi, ultimamente essi morti tutti qui rimasero, a’ quali non essendo sepoltura data, e de’ romani e degli spagnuoli insieme mescolati, consumate le carni qui l’ossa vedete.»
- Udendo Menilio e Biancofiore queste parole, alquanto da pietá costretti sparsero molte lagrime, ma riconfortati da Florio, parendo loro il migliore di rimanere quivi quella sera, acciò che ricogliere potessero le sparte ossa, e poi metterle in santo luogo, fecero tendere un padiglione sopra un verde prato. E dismontati da cavallo, insieme con la loro famiglia, tutti per li campi andandole ricogliendo si misero; e di quelle ricolte fecero un monte grandissimo, e di portarle via deliberarono; ma Biancofiore disse: «Che portar vogliamo? Il nostro operare niente varrá; non sono qui cosí l’ossa de’ morti cavalli raccolte come quelle dei nobili uomini? Per niente affannare vogliamo: e però se distinguere le une dalle altre sapremo, l’umane portare ne potremo, se no qui tutte le sotterriamo, ché non è lecita cosa che con l’umane membra quelle de’ bruti animali occupino i santi luoghi». Alla qual cosa fare si misero, ma niente operavano, perché non sappiendo che farsi, né qual partito in ciò prendersi, parendo loro male di portare le bestiali ossa a Roma, e male di lasciare le romane quivi, lungamente stettero sospesi, tanto che l’oscura notte loro sopravvenne. Per la qual cosa, lasciate star quelle, tornarono a’ tesi padiglioni dicendo: «Fin domattina c’indugiamo a pigliar partito, e forse in questo mezzo Domeneddio provvederá alla nostra ignoranza».
- Entrati ne’ padiglioni costoro, e dopo alquanto datisi al sonno, a Biancofiore in fulvida luce un giovane di grazioso aspetto con una giovane bellissima accompagnato, di vermiglio vestiti, apparvero, e nel suo cospetto si fermarono, i quali Biancofiore parea che riguardasse, e tanto belli e tanto lucenti li vedesse, e tanto lieti in se medesimi, quanto mai veduto avesse alcuna cosa. E volendo dimandare chi fossero, il giovane cominciò a dire: «O bella e graziosa donna, nella pia opera affaticata questa passata sera col tuo marito ricogliendo gli spartí membri, a’ quali le ruinose acque hanno lungamente perdonato per la tua futura venuta, separa le sante reliquie dalle inique, ché non è giusta cosa che una terra l’une e l’altre occupi». A cui Biancofiore parea che rispondesse: «O glorioso giovane, a ciò non sa la mia poca discrezione pigliar consiglio, perciò che, sí come io ho veduto, piú alle giuste che all’ingiuste niuno segno dimora; ma se a te piace, poi che una pietá meco insieme hai, andiamo, e mostramele, e meco insieme le scegli». A cui il giovane: «Senza me le conoscerai; abbandona i pigri sonni, e col tuo marito leva su, e con Menilio tuo zio, e a ricoglierle andate. Voi le vedrete tutte vermiglie rosseggiare, sí come di foco fossero, e quelle che cosí fatte vedrete, securi vivete che siano de’ romani giovani morti in questo luogo, le quali poi che raccolte avrete, con diligenza le renderete a Roma, di cui vivi furono i corpi. E acciò, o giovane, che tu piú lieta viva, chi io sia io mi ti manifesto e apromiti, e sappi che io fui Lelio tuo padre, e questa che tu meco vedi, della cui bellezza tu tanto ti maravigli, fu ed è Giulia la tua madre, e come cari e fedeli nel mondo fummo a Dio con puro cuore servidori, cosí gloriosi viviamo nella vita alla quale niuna fine sani giá mai. La qual cosa, acciò che tu mi creda, poi c!1e tu tutte le vermiglie ossa avra1 ricolte, alla destra parte del tuo letto farai cavare, e quivi il mio corpo cosí, come Giulia il vi pose, troverai col viso del suo velo ancora coperto, e l’armato corpo d’un verde mantello; il quale tu piglierai, e quello di Giulia togliendo da Marmorina, insieme in Roma gli sepellirai»; e piú non disse. Ma volendo giá dire Biancofiore: «O Giulia, cara madre, fammiti toccare», la luce sparve e le sante persone, e il sonno si ruppe della giovane, la quale tutta stupefatta si levò senza indugio, e chiamò Florio e Menilio, e ciò che veduto e udito aveva per ordine disse loro: di che essi maravigliandosi assai ringraziarono Dio, e levati tutti e tre andarono senza alcun lume a fare il pietoso uficio. Essi non uscirono prima dai padiglioni che, la notte essendo molto oscura e non porgendo alcuna luce, videro la profonda valle per diverse parti tutta rilucere, ove un poco o ove un altro, sí come il cielo nel tranquillo sereno mostra le chiare stelle, e tutte l’accomunate ossa sparte trovarono, e mutate dal luogo dove lasciate l’avevano. Essi nel principio con paura di cuocersi, giravano ricogliendo le rosseggianti reliquie, e tutte quelle per diverse parti della valle sparte ricolsero di votamente, e quelle poste sotto diligente guardia, dove Biancofiore disse, cavarono. Né molto fu loro bisogno andare adentro, che essi trovarono il promesso corpo ancora e del velo e del mantello coperto, fresco come se quel giorno di questa misera vita passato fosse: il cui viso Biancofiore, ancora che morto fosse, al bello e lucente, che veduto aveva, raffigurato, bagnò di molte lagrime, nelle quali Menilio e Florio l.’accompagnarono, tanta pietá li strinse. Poi racconsolati presero quello, e rinvoltolo in un caro e mondo drappo, cosí armato come stava, il misero in una cassa, e l’ossa rosseggianti per la cavata terra, forse d’altri corpi in quello medesimo luogo sepelliti, per Giulia raccolte, aggiunsero all’altre.
- Queste cose faccenda costoro, sopravvenne il chiaro giorno. Per la qual cosa essi, il corpo e l’ossa ricolte sotto sofficiente custodia lasciate, cavalcarono avanti al loro cammino, e poco distanti in brieve al dimandato tempio pervennero, nel quale essi entrarono e offersero grandissimi doni, e porsero pietose orazioni, e voltarono i passi loro. E venuti al luogo ove avevano lasciato il corpo di Lelio e le vermiglie reliquie, e quelle prese, senza ristare in alcuna parte, a Marmorina ne le portarono: e quivi con solennitá tratta dalla bella sepoltura Giulia, e acconciatala in una cassa, con l’altro corpo e con le vermiglie ossa a Roma ne le portarono, e quivi fatte grandissime e bellissime esequie, co’ loro padri le sepellirono. Le quali cose fatte, lasciata la non profittevole malinconia, lietamente veduti e ricevuti, a far festa co’ parenti loro si dierono. Stato Florio in Roma piú giorni in allegrezza e in festa co’ suoi, dalla cara madre un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre grandissima infermita sostenere in Corduba, per la qual cosa egli senza indugio dovesse tornare. Le quali cose udite Florio, egli e Menilio con pochi compagni, lasciando Biancofiore con Cloelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino: al quale essi intorno e con pietoso viso il suo essere dimandarono. Li quali quando il re vide, contento molto disse: «Omai, signor mio Domeneddio, prendi l’anima mia quando ti piace». Poi a Florio rivolto cosí parlò: «Caro figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso piú vivere: la lunga etá e la grave infermitá mi mostrano la vicina morte, la quale certo non debbo mal volentieri prendere, poi che lungamente vivuto sono, e delle sue regioni ho piú tosto prese che ella delle mie. E avanti ch’ell’abbia la mia vita occupata, assai di quello ch’io ho disiderato e che ora fu, io non credetti mai vedere, ho veduto, però qualora viene io lietamente la riceverò. La quale poi che del mondo m’avrá tolto, e renduta l’anima al secolo futuro, tu del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona e il reggimento, per ch’io tra le altre cose principalmente ti priego e comando che tu prima te reggi e governi, sí che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sará che di ben essere retto non isperi. Siati la superbia nemica, e quanto puoi la fuggi, però che ne’ suggetti, seguendola, suole ribellazioni e indegnazioni di animo e inobbedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto quella, però vivi umilmente, e co’ tuoi suggetti sii quanto si conviene familiare. Né l’iracundia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliano dolere. Niuna vendetta sia da te presa adirato, perciò che l’ira ha forza d’occupare l’animo sí che egli non possa discernere il vero: dunque passata quella, con discrezione procedi sopra quello per che t’adirasti. E ben che talora sia tal fallo, che aspra vendetta meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a’ signori gran gloria l’aver perdonato. Non ti muova invidia a dolerti degli altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni piú che i suoi ubertosi, fare senza utilitá dolere altrui de’ beni del prossimo, e per conseguente disiderare la sua rovina: e di quella s’avviene fare lieto altrui. O che iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della fortuna sieno molte e varie, e trasbocchevoli i suoi movimenti! Tal rise giá degli altrui danni, che de’ suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso. Dolersi con giusto animo dell’altrui calamitá non fu mai male. Rallegrati adunque dell’altrui bene, e di quelli che tu possiedi ringrazia Dio. L’avarizia, divoratrice e insaziabile male, del tutto da te fa che lontana sia. Piú che tu abbia non t’è di necessitá disiare. I termini del tuo regno gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d’ampliarli non entrerai in sollecitudine: spesse volte, per aver l’uomo piú che si convenga, quello che convenevolmente aveva, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell’uomo: e, per quelli multiplicare in alto monte, fa fare forze a quelli i quali piú tosto per la loro vita poter governare ne bisognerebbero, che esser loro tolti quelli che hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l’avarizia, però che dal luogo ove essa dimora conviene che giustizia si parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho spesi, né ora morendo mi possono un’ora di vita accrescere, né seguirmi. Sii tu adunque liberale, e col retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e quelli co’ tuoi suggetti, non dimenticando gl’indigenti, godi; e guardati non forse tanto liberale essere disiderassi, che tu in prodigalitá cadessi, la quale a non meno mali altrui conduce che l’avarizia. Guardati similmente che l’animo l’accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci, e per conseguente all’operazioni: ella fa gli uomini molto miseri di cuore, e pigri a’ loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe deve esser lieta nel cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese deve essere magnanimo, esercitandosi sempre nel bene e fuggendo i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu similmente fa. Sia il tuo esercizio continuo studio della virtú e nel ben vivere de’ tuoi suggetti, le cui utilitá e riposi piú che le tue medesime devi pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e in una unitá, però che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti, né le gran cose commesse, perché ne’ morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi per i popoli, sí come a’ pastori per le mansuete pecore, conviene vegghiare: la qual cosa, se saviamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e giá, come tu puoi avere udito, piú uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con disordinato appetito presi superflui, generarono giá molti mali: l’uomo per quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Dio, che è peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare piú che in altrui, è in coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale, quantunque si piglia genera danno, ed è chiamato con ragione vizio. Similemente ti sia la lussuria nemica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa nemica, con la sua corta e fastidiosa dolcezza è singulare laccio dell’antico nemico ad irretire l’anime de’ cattivi. Oh, quanti mali e quali giá costei ha fatti avvenire! E quel rettore che l’userá, dará a’ suoi uomini materia d’enfiare, de’ quali enfiamenti niuna altra cosa resulterá se non tradimento o insidie: però schifala da te. E la tua Biancofiore bellissima e d’alta schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata, e con sollecitudine guadagnata, guarda e siati cara, e sola come si conviene ti basti senza piú avanti cercare. E siati a mente che il guardarsi da’ vizii non basta, senza operare le virtú, a gloriosa vita pervenire: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto puoi l’adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenza, senza la quale niuno regno bene si governa. E similmente senza giustizia niuno regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia, in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la debbono volere osservare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo debito rendi: né ti muova amore, o odio, o amicizia, o parentado, o dono a giudicare con torta bilancia. E similmente ne’ grandi uomini fortezza d’animo si richiede, non forse, negli avversi casi mostrando trístizia, negli animi de’ suggetti pusillanimitá generino. E in tutte le cose fa che temperato sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli onori, e aumenta la vita, e la sanitá serva senza affanno. E vivi caritatevole, ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio nella sua misericordia spera, la quale la morte de’ peccatori non vuole, ma la vita, acciò che essi si pentano. E vivi, acciò che tu per queste possa all’eterna gloria pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sí come io ho giá compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le virtú seguire con intero animo tu possa, sempre davanti agli occhi porta la tua fine, la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa portarne se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero questo, che queste cose, le quali tu possederai, e che io possedei, non ne sono date per nostra singulare virtú, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per divina grazia l’abbiamo a reggere e reggiamo. E però che graziosamente ricevute l’abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi, e altrui non ledere, e a ciascuno quello che è suo dá. E onora la tua madre sopra tutte le cose del mondo, acciò che per la sua benedizione, quando all’infallibile passo mi seguirai, meriti l’eterna gloria. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne’ teneri anni, e ne’ virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti sia consolazione. E priegoti che l’anima mia, di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t’ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata». E queste parole dicendo, allentando a poco a poco la voce, finí le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò: «Io me ne vo»: e seguí poi: «O signor mio, ricevi nelle tue mani l’anima del tuo servo». E cosí dicendo rendé l’anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con pietosa mano, chiuse gli occhi al morente padre, e piangendo i lieti vestimenti abbandonò, e pigliò i lugubri con molti compagni, tra’ quali Menilio similmente li prese.
- Ilario, il quale con somma sollecitudine avea al vecchio re i santi sagramenti della chiesa con divozione donati, poi che della presente vita passato il vide, sí come a Florio piacque, secondo la romana consuetudine mise in ordine le grandi esequie; e con molto onore, sí come a tanto re si conveniva, il fece sepellire nella maggior chiesa della cittá.
- Pianselo Florio molti giorni; ma venuto il tempo che le lugubri vesti lasciare si doveanno e Florio fu riconfortato, i baroni e i grandi uomini del suo reame vennero nella sua presenza, acciò che, egli presa la corona, la debita fedeltá gli giurassero. Alla quale coronazione Florio fece chiamare Biancofiore, a cui la morte del re era per l’amore di Florio assai doluta, e con lei venne la valorosa donna Cloelia, e Tiberina, e Glorizia e altre donne di Roma, le quali Quintilio con Curzio e con Sempronio accompagnarono. E Galeone, a cui era in cura allora di fare edificare la nuova terra, udendo della coronazione di Florio la novella, lasciata stare ogni cosa, vi venne. E Fileno, il padre e la madre e i parenti lasciati, ancora vi venne, e il duca Feramonte ancora, e similemente Sara, Parmenione, Massalino e Menedon e qualunque altro grande del paese, ov’elli furono tutti da Florio lietamente e con onore ricevuti.
- Il dolce tempo era, e il cielo tutto ridente porgeva graziose ore: Citerea tra le corna dello stellato Tauro splendidissima dava luce, e Giove chiaro si stava tra’ guizzanti Pesci; Apollo nelle braccia di Castore e di Polluce piú lieto ogni mattina nelle braccia della sua Aurora si vedea entrare; Febea correa colle sue corna acute lieta alla sua ritonditá. Ogni stella ridea, e il sottile aere confortava i viventi, e la terra niuna parte di sé mostrava ignuda, ma ogni cosa piena o d’erba o di fiori si vedeva, senza i quali niuno arbore si saria trovato, e senza frutto. Gli uccelli, che lungamente aveano taciuto, davano graziosi canti, né alcuna cosa era senza alcuno lieto segno, quando la gran festa della futura coronazione di Florio si cominciò per Corduba: le rughe della quale, da ciascuna parte ornate di drappi simili a quelli d’Aragne, tutte ridevano. Niuna casa, niuno luogo era senza maravigliosi suoni. I giovani e le donne lieti e riscaldati nel festeggiare, con graziose note cantavano gli antichi amori. Altri sopra i correnti cavalli, inghirlandati di novelle frondi, ornati sé e i cavalli di molto oro e di sonanti sonagli, correvano, e i vaghi occhi delle giovani tiravano a riguardarsi. Alcuni apparecchiavano le forti armi per mostrare in pacifiche giostre quanto essi sotto quelle erano poderosi. E altri divisavano altri giuochi, né niuno era senza festa. E le belle e molte brigate de’ festeggianti niuno riposo conoscevano, e ben che Febo co’ suoi cavalli si tuffasse nelle onde d’Esperia, non toglieva egli loro il festeggiare. A quello che il sole ascoso toglieva, supplivano l’accese fiaccole, graziose alle non cosí belle giovani. Ma poi che in cosí grande allegrezza, apparecchiate le necessarie cose, il determinato giorno della coronazione di Florio fu venuto, Florio vestito di reali vestimenti venne in una gran piazza accompagnato da’ nobili del reame, e quivi Ilario e ’l duca Feramonte, eletti da tutti gli altri in generale all’alto mestiere, celebrato il santo uficio, invocato divotamente il nome di Dio a sua laude e reverenza, del reame di Spagna con corona d’oro coronarono Florio, in cospetto di tutto l’infinito popolo, del qual le voci al cielo andarono sí alte, che opinione fu di molti che dentro passassero, dicendo ‛viva il nostro re’. Il quale, poi che la corona ricevuta ebbe, si fece venire avanti Biancofiore, e con le proprie mani di simile regno la coronò reina. Queste cose fatte, si ricominciò la festa grandissima, e le trombe e i molti strumenti sonarono, e l’armeggiare si cominciò grandissimo, e tanto e sí generale per tutto si fece, che niuna altra cosa si vide o sentí.
- Florio, novello re, fattisi venire li raunati tesori dal padre, quelli liberamente dona a’ suoi baroni, e non consente che uomo senza grandissimo dono si parta da tanta festa. E poi con loro insieme per la terra andando, ovunque egli viene fa festa moltiplicare, e festeggia sempre avendo seco i cari compagni del suo pellegrinaggio, e quelli onora e sopra tutti gli altri vede volentieri, e a coloro da grandissimi doni: e a dare a ciascuno il suo regno gli pareva far poco. E durata per molti giorni la festa grandissima senza comparazione, gli amici e servidori del re Florio contenti disiderando di vedere le loro case cercano congedo, il quale il re Florio come può lieto concede. Galeone torna a Calocipe, Fileno a Marmorina, Menilio e Quintilio e gli altri giovani romani con le loro donne, e con grandissimi doni, lieti ricercano Roma, e con loro il reverendo Ilario. Il quale prima in quella non giunse, che con ordinato stile, come colui che era bene informato, in greca lingua scrisse i casi del giovane re: il quale con la sua reina Biancofiore ne’ suoi regni rimaso, piacendo a Dio, poi felice mente consumò li giorni della sua vita.
- O piacevole mio libretto, a me piú anni stato graziosa fatica, il tuo legno sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e giá il vento richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia. Fermati, dunque, ricogliendo quelle, e a’ remi stimolatori delle solcate acque concedi riposo, e agli scogli l’uncinute ancore, e de’ segati mari e della lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosissima donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerá, prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce: ‛Ben sia venuto’; e forse con la dolce bocca ti porgera alcun bacio. La qual cosa s’avviene, chi piú di se si potra dire beato? E certo se altro merito non ti seguisse del lungo affanno, se non che i suoi belli occhi ti vedranno, sí ti fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra’ navicanti. Ella, che io sempre figurata porto nell’amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerá che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa mi fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t’è cura, dimora con lei, ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò sia cosa che tu, da umile giovane sia creato, ricercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Vergilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare, e confermarla ad essere d’un solo amante contenta. E quelli del valoroso Lucano, ne’ quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sulmontino Ovidio seguiti, delle cui opere tu se’ confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sí come piccolo servitore molto devi reverente seguire. Lascia a costoro il debito onore, il qual volere usurpare con vergogna t’acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La cicogna figliante negli alti palazzi e nell’alte torri discende a bere a’ fiumi. A te bisogna di volare basso, però che la bassezza t’è mezzana via. Alcione volando batte le sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua donna, a cui è lecito darti alto e basso luogo secondo che a lei è in piacere: dalla quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel suo grembo? Quali mani piú belle ti potriano toccare, e occhi riguardare, o voce profferire le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli altri occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de’ piú savi sostieni, e secondo il loro diritto giudicio ti disponi all’ammenda. Al cinguettare de’ folli non porgere orecchie, che bassa voglia è. A coloro che con benivola intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell’invidia quanto puoi schifa, ne’ denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se’ di tal donna suggetto che le tue forze non debbono esser piccole. E a’ contradicenti le tue piacevoli cose, da la lunga fatica d’Ilario per veridico testimonio, e, nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che il tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandati, e de’ beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua amorosa donna conserva.
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- NOTA
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- Per la presente edizione mi son servito dei seguenti codici, che costituiscono la maggior parte della tradizione manoscritta del Filocolo. Non ho potuto procedere ad una sistematica classificazione, perché mi è mancato il sussidio degli altri esemplari, ma ho individuato alcuni sicuri elementi discriminativi (varianti, lacune, didascalie), che spero di documentare e valutare quanto prima in altra sede, non appena mi sará possibile estendere la collazione anche al di fuori delle biblioteche di Roma e di Firenze, a cui per ora mi sono limitato.
- 1. Riccardiano 1022, della prima metá del secolo XV, composto di 206 carte. Per la descrizione, si veda S. Morpurgo, I manoscritti della R. Biblioteca Riccardiana, Roma, 1900, p. 16.
- 2. Riccardiano 1062, della meta del secolo XV, di carte 246. Anche per questo esemplare si veda la descrizione di S. Morpurgo, op. cit., pp. 54-551.
- 3. Laurenziano, Pluteo XLII, codice 36, del secolo XV, di 169 carte. Si veda A. M. Bandini, Catalogus cod. itat. Bibl. Med. Laurent., V, Firenze, 1778, col. 197.
- 4. Laurenziano, Pluteo LXXXX sup., codice 100, del sec. XV, di 214 carte. Si veda A. M. Bandini, op. cit., col. 381.
- 5. Laurenziano, Ashburnhamiano 491, del secolo XV, composto di 225 carte, in ottimo stato, con un testo che è tra i piú attendibili.
- 6. Laurenziano, Ashburnhamiano 12132, del secolo XV, composto di 131 carte: ma è acefalo e mutilo di qualche carta3.
- 7. Corsiniano G. 44.5 (Fondo Rossi, n. VI), della Biblioteca della R. Accademia dei Lincei. Risale ai primi anni del secolo XV, se non proprio alla fine del secolo precedente; consta di 135 carte.
- 8. Corsiniano G. 44.15 (Fondo Rossi, n. XV), della Biblioteca della R. Accademia dei Lincei. Appartiene alla metá del secolo XV e consta di 193 carte.
- 9. Vaticano-latino, 8506, del secolo XV, composto di 180 carte.
- 10. Vaticano-Chigiano L. VI, 223, del secolo XV, composto di 176 carte4.
- È la prima volta che a servizio di un’edizione del Filocolo si ricorra direttamente a tanti codici, dai quali, sia per il numero e sia per le ottime condizioni del testo, risulta una lezione corretta e, possiamo dire, critica, anche se non si è completata la collazione e la classificazione di tutti i codici esistenti. Mentre le prime stampe — della fine del Quattrocento e dei primi anni del Cinquecento5 — sono relativamente attendibili perché si rifanno di solito ad un unico codice, che per lo piu non è difficile identificare, con l’edizione del Sansovino6, che è quella più diffusa e alla quale si sono attenuti perfino gli editori moderni, come il Moutier che pure ebbe sotto gli occhi qualche esemplare manoscritto, si venne a costituire un testo apparentemente corretto, ma complessivamente deformato da arbitrari interventi, molti dei quali si sono tramandati con una tenacissima fedeltà che sta a testimoniare quanto sia difficile per un editore che non proceda a una generale esplorazione dei codici, epurare coraggiosamente il testo e scostarsi risolutamente dalla lezione sancita dall’autorità delle stampe. Riporto qualche passo, fra i tanti, in cui il testo appare non soltanto migliorato, ma viene ad acquistare un significato completamente diverso e nuovo. E poiché l’edizione che in questi ultimi anni ha reso più accessibile il Filocolo è quella curata da E. de Ferri7, complessivamente rimasto fedele alle stampe e in particolar modo a quella del Moutier, metto a confronto la sua lezione con il testo critico quale risulta dalla collazione dei manoscritti citati qui sopra: il raffronto dà l’opportunità di discutere e giustificare alcune varianti assai caratteristiche. Faccio precedere la lezione erronea, indicando però la pagina secondo la presente edizione:
- Pag. 3: « ... la quale Giunone la morte della pattuita Didone cartaginese non avea voluto in ultimo dimenticare, né all’altre offese porre debita dimenticanza, ecc.» Il nostro testo legge: « ... la quale ecc. non avendo voluto inulta dimenticare, e all’altre offese porre non debita dimenticanza ecc. » . In tal modo tutto il senso è capovolto e l’intero proemio, faticosamente allegorico e falsamente solenne, ne riceve una diversa luce.
- Pag. 15: «O Tiberio Gracco, fu tanta la pietà che avesti di Cornelia tua cara sposa, quando lasciasti la femina, sempre risparmiando anzi la sua vita che la tua propria, quanta fu quella, ecc,». Invece la lezione manoscritta, critica s’intende, sostituisce serpe a sempre, che va considerato come vero e proprio errore di lettura favorito dall’oscuritá del passo; che fa diretta allusione ad un episodio aneddotico che il Boccaccio derivava da Valerio Massimo. Ecco il passo secondo la nota versione trecentesca: «Tiberio Gracco, essendo prese due serpi nella sua casa, l’uno maschio e l’altra femina, fu certificato dallo aguratore che, il maschio lasciato, alla sua moglie significava tosta morte, e la femina, a lui che ’l morir s’affrettava. Onde elli piú tosto seguitando quella parte dell’agurio, nella quale era la salute della sua moglie, che quella parte dov’era la sua, comandò lo maschio uccidere e la femina lasciare»8.
- Pag. 21: «... mostrandone manifesti segni della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza mostra che si debba con crudele uccisione difendere.», laddove il verbo finale non da senso, che invece si chiarisce con la giusta lezione distendere.
- Pag. 22: «Sia da voi conceduto adunque che io prima percosso da Atropo renda lo spirito agl’iddii infernali, che queste co’ procedenti co’ morti insieme, che io, ecc.», e il passo, dove ho segnato in corsivo, non ha senso, né si regge sintatticamente. Viceversa, il nostro testo rettifica e semplifica: «Sia da voi conceduto adunque che io prima, percosso da Atropos, renda lo spirito agl’iddii infernali co’ precedenti morti insieme, che io, ecc.» .
- Pag. 29: «La seconda [schiera]... fece menare ad un giovane della sua terra Ortazio, sommo poeta, nominato Artifilo...», con un’espressione contorta, senza dire che il Boccaccio non avrebbe mai dato la qualifica di «sommo poeta» a un personaggio immaginario. Nel nostro testo si legge: «La seconda... fece menare ad un giovane della tua terra, o Stazio sommo poeta, nominato Artifilo...».
- Pagg. 58-59, i versi 5-6 dell’epitaffio di Giulia: ... che, in parto abbandonato, in non dovuto | modo giá fu...», non davano senso, che viceversa risulta dal nostro testo: «che, in parto, abbandonati in non dovuto | modo ci ha...».
- Pag. 78: «Siano de’ loro amori ripresi lo scellerato Tereo e Macareo, li quali sconciamente amarono...» , laddove i codici hanno: «Siano de’ loro amori ripresi la trista Mirra e lo scellerato Tereo e la lussuriosa Semiramis, ecc.», con quei richiami, cioè, che in altri punti dello stesso Filocolo ritornano raccostati.
- Pag. 90: «Ma di questo male m’è piú cagione il mio crudel padre... O crudele padre, tu avrai interamente l’effetto delle parole da me dette. Esse questa mattina ti furono dolenti augurii, e oggi ti saranno dolenti portatrici del foco...». Il significato è assai stentato e lo stesso movimento sintattico non risponde all’uso boccaccesco, come invece risulta dal nostro testo: «Ma di questo male m’è piú cagione il mio crudel padre... O crudele padre tu l’avrai interamente! Le parole da me dette questa mattina ti saranno dolente augurio e oggi ti faranno dolente apportatore del foco...».
- Pag. 95: «... dicendo che... mai piú per ozio o per vergogna non perderebbe, che egli non ispendesse il tempo in amorosi baci.» , dove è da leggere rimarrebbe, senza cui il periodo non ha senso.
- Pag. 101: «E se egli avvenisse che io gliela negassi, e che egli occultamente se la prendesse...» , dove la correzione degli editori era suggerita dal senso dell’intera pagina, salvo che in questo modo l’espressione risulta banale. E invece: «E se egli avvenisse che io gliela donassi o che ecc.» , continuando le varie ipotesi che il re rivolge nella sua coscienza di padre.
- Pag. 111. «Ma a me è avvenuto quello che avviene a chi scalda la serpe nel suo seno quando i freddi Aquiloni soffiano, che sí come egli è il primo da lei morso, cosí io per guiderdone dell’onore fattole sono stato da lei presso che morto; e morto m’avrebbe ella se ’l mio avvedimento non fosse stato.» , che la tradizione manoscritta legge con maggiore semplicitá e con piú vigore stilistico: «E di tutto questo a me è avvenuto come avviene a chi riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi Aquiloni soffiano, che egli è il primo da lei morso. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto onore m’ha voluto uccidere: e sí avrebbe ella fatto, se ’l vostro avvedimento non fosse suto».
- Pag. 124: «quello ch’io ti ragionava, non lo ti porgeva che non ben conoscessi ch’io non diceva il vero...», in cui la lezione critica ha sempre lo stesso verbo diceva, che gli editori sostituivano per evitare u_a triplice ripetizione, peraltro nell’uso stilistico del tempo e del Boccaccio in particolar modo.
- Pag. 125: «E posto che io giá vecchio abbia i membri piú gravi e piú ponderosi di te, almeno...», che il nostro testo rettifica: «E posto che io giá vecchio non ho forse guari i membri piú poderosi di te, almeno ecc.» .
- Pag. 129: «Florio molto si rallegrava, perché giá gli pareva avere a ricevere la promessa ricevuta degl’iddii», laddove la lezione manoscritta dice: «Florio ecc., perché giá gli pareva avere incominciato a ricevere l’impromesso aiuto degl’iddii».
- Pag. 141: «S’ella muore giustamente, leverommi io a difendere la ingiustizia?», che il nostro testo rettifica: «S’ella ecc., leverommi io a volere difendere la giustizia?», dove il verbo «difendere» significa «impedire», con un’accezione che è assai frequente nel Boccaccio, ma che, non intesa, induce a non capire e perciò a postulare la variante ingiustizia.
- Pag. 167: «... prese temoroso sonno, e infino alla mattina, forse con battaglie non minori nel suo dormire che nel vegghiare avute aveva», che il nostro testo legge: «prese ecc. ecc. che essendo desto, si riposò», con un verbo che completa il periodo, ma che gli editori avevano soppresso per l’apparente contraddizione fra il sonno agitato e il «riposare», che invece equivale al semplice «dormire» .
- Pag. 169: «... s’ingegnò di trarre indietro quello che agl’iddii saria impossibile frastornare», dove i codici leggono far tornare, con un concetto e un’espressione che sono assai comuni nel Boccaccio.
- Pag. 191: «Vedendo [Fileno] Biancofiore stare con la reina, e con dubbioso viso e piú che l’usato mesta, cosí incominciò a parlare», che il testo critico intende diversamente con maggiore opportunitá: «Vedendo Biancofiore stare con la reina, e con dubbioso viso, davanti alla reina, cosí ecc.».
- Pag. 196: «Niuno ragionamento m’era caro senza esservi ricordata te, di cui ora la speranza cosí spogliato mi lascia, pensando che tu me per Fileno abbia abbandonato: ed è la cagione perché vedere non mi puoi», la cui ultima frase è cosí rettificata dal nostro testo, coerentemente alle ragioni e ai dubbi che Florio immagina di discutere con Biancofiore assente: «e la cagione per che vedere non posso!».
- Pag. 204: «... compagna a me divenisti, che sono unico figliuolo del vecchio re: ne’ quali onori ecc.», che nel testo risulta: «... compagna ai miei onori divenisti ecc. ecc.», in cui la correzione delle stampe è dovuta al bisogno di chiarire l’accordo sintattico del seguente pronome relativo.
- Pag. 206: «... come volentieri con le proprie mani gli avrei il caro velo levato e tutto squarciato, e lui che s’ingegnava da te levarmi, cacciato da me ecc.», che abbiamo potuto rettificare con l’accordo sicuro dei manoscritti: «... come io volentieri gli avrei con le pronte mani levato il caro velo, e lui, che s’ingegnava da te levarmi, tutto squarciato, cacciandolo ecc.», dove la manomissione degli editori s’è generata per il verbo ‛squarciato’, che ritenevano piú adatto per ‛velo’.
- Pag. 207: «... se io fossi molto lontanato da te, in quella lontananza, alcuna scusa vi sarebbe ecc.», dove il nostro testo risulta piú completo e piú efficace: «... se io fossi molto allontanato da te con quella speranza con la quale t’era vicino, alcuna scusa ci avrebbe ecc.».
- Ed ha valore di maggiore e piú espressiva semplicitá la lezione manoscritta a pag. 209: «Certo ella [la lettera] in poche parti fu dal tuo pianto macchiata a rispetto di quelle nelle quali le mie lagrime la macchiarono», rettificata cosí: «E certo ella non fu dal tuo pianto macchiata quasi in alcuna parte, a rispetto che le mie lagrime la macchiarono».
- A pag. 220 risulta ripristinata la struttura d’un intero periodo, che le stampe leggevano: «... ma di pietoso padre e di benigna madre, sí come piú volte m’è stato detto, discesi: e di quella legge che sono gli umani cori dalla natura tratti, sono io similmente. Ma non dalla fortuna appresi mai, né so né di saper desidero d’esser crudele ecc.», cosí ricomposto dalla lezione manoscritta: «ma ecc. ecc. discesi, e per quella legge che sono gli umani corpi della natura tratta, io similmente, ma non della fortuna. Né appresi mai, né so essere, né desidiro di saperlo, crudele ecc.», che sintatticamente rimane sempre contorto, ma da un senso piú congruo.
- Pag. 229: «... sogliono i miseri ne’ tuoi lacci avviluppati prendere parte. Questo ti scusa, che la tua natura è tale ecc.» , con un periodo che non ha senso e che i codici leggono: «... sogliono i miseri, ne’ tuoi lacciuoli avviluppati, prendere per te questa scusa: che la tua natura è tale ecc.».
- Pag. 245: «... io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui mani misera debba pervenire. Niuno è che la sua pena alla mia tristizia possa agguagliare ecc.», dove il secondo periodo è completamente staccato dal precedente. E invece leggiamo: «... io... pervenire. Ma a niuno ne verrò che uguale tristizia non sia la mia ecc.».
- Pag. 260: «Hai tu paura che un’altra giovane non si trovi piú bella di Biancofiore? Se non sará ne’ nostri regni, non è troppo lontano ecc.», che nel nostro testo ha una diversa disposizione e un ritmo piú efficace: «Hai tu paura... Biancofiore? Ci sará! A’ nostri regni non è guari lontano ecc.».
- Ancora piú interessante è la lacuna di un intero inciso, che nelle stampe è soppresso perché rimasto incompreso, a pag. 261: «Voi [o marmi] forse insieme col mio nimico padre invidiosi de’ miei beni, mi celate quello di che piú mi dilettai di vedere», a cui i codici aggiungono: «serbando la natura d’Aglauro, con voi insieme d'una qualitá tornata». La difficoltá stava nell’intendere il nome ‛Aglauro’ che nei manoscritti appare corrotto ‛delli auguri’, ‛degluro’ ecc., e qualcuno perfino sopprime la parola o la tralascia in bianco): soltanto il Corsiniano G. 44, 15 dá la lezione esatta. E il mito d’Aglauro si adatta benissimo, poiché essa fu tramutata in pietra, nella stessa qualitá della soglia dalla quale impediva l’adito (cfr. Ovidio, Metamorfosi, II, vv. 708 e sgg.; e l’episodio ha fornito altri motivi allo stesso Filocolo, che vi ha ripreso la descrizione della casa dell’Invidia).
- Pag. 266: «... e ciò che noi abbiamo fatto, solamente fu perché la tua vita non si consumasse, che omai non fará», laddove il nostro testo legge: «... e ciò che noi abbiamo fatto, solamente perché la tua vita piú gloriosa si consumi, che oramai non fará, l’abbiamo adoperato».
- Pag. 285: «... giá tolto avevano loro l’uno de’ timoni, e dell’altro stavano in grandissimo affanno», che i codici completano: «...in grandissimo affanno di guardare».
- Pag. 285: «... baleni con pestilenzioni tuoni, i quali in alcuna parte ricevuti dalla nave, n’avevano ecc.», alla cui costruzione banale i codici sostituiscono: «... baleni ecc., i quali, in alcune parti colti della nave, n’avevano ecc.» .
- A pag. 303 è tutto un periodo migliorato, che è assai importante per intendere l’intera pagina: «Come potrete mostrarne che amiamo quel che rubiamo piú che quel cui noi doniamo, conciosiacosa che tra i piú manifesti segni d’amare alcuna persona sia il donare?», cosí letto dai codici: «Come potrai tu mai mostrarne che io ami quella persona la quale io rubo piú che quella a cui io dono, con ciò sia cosa che tra i piú manifesti segni d’amore d’alcuna persona è il donare?».
- Pag. 323: «... grandissimo dono è quell’onore che casta e buona la donna rende all’uomo», cosí corretto: «... grandissimo onore è quello che la castitá della buona donna rende all’uomo».
- Pag. 343: «impossibile mi pare che la giovane etá... senza questo amore gentile trapassar possa», rettificato in: «... impossibile mi pare che la giovane etá senza questo amore sentire, trapassare possa».
- Pag. 354: «E chi dubita che il pensiero non dimori nell’animo medesimo e l’occhio a quella non si trovi assai lontano? Benché elli per particolar virtú di lei abbiano la vista, e convenga loro per molti mezzi le loro proporzioni all’intelletto animale rendere?», laddove questo periodo oscuro e contorto trova una completa chiarificazione: «E chi dubita che il pensiero non dimori nell’anima medesima e l’occhio a quella si trovi assai lontano, ben che elli per particolar virtú di lei abbia la vista, e convengagli per molti mezzi le sue percezioni all’intelletto animale rendere?».
- Pag. 400: Tu spezzi...i freni della temperanza, in cui hanno fortezza le sue forze», semplificato in «Tu spezzi... i freni di temperanza, e levi a fortezza le sue potenze».
- E cambia il senso per la lezione che danno i manoscritti a pag. 401: «Biancofiore piú ch’altra misera si poria reputare, se di ciò le disavvenisse che Filocolo si scoprisse», laddove l’ultimo verbo va letto: «Biancofiore ecc. ecc., se di ciò le disavvenisse che Filocolo ha impreso».
- Pag. 416: «... cercava... la bellezza di Biancofiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di gioia prendere e far dimora», che i manoscritti rettificano giustamente: «... cercava... la bellezza di Biancofiore vedere, credendo in quella veramente ogni potenza di gioia rendere, fare dimora».
- Pag. 428: «... chi piú con ogni ingegno di nuocere si provava», corretto in: «Che piú? Ogni ingegno di nuocere si prova».
- Pag. 451: «... dubitando del luogo dove la sua Biancofiore dimorasse», in cui va letto ritrovasse, con un diverso accordo e con un accento sentimentale diverso, meglio consentaneo al contesto.
- Per i nomi che compaiono a p. 473 ho avuto modo di riscontrare le forme anagrammiche giá indicate dal Crescini, ma che lo stesso Ferri non aveva creduto opportuno di accogliere: invece di Aleera occorre leggere Alleiram (anagramma di Mariella), Aerama è Airam (cioè Maria), Aselga è Asenga (Agnesa), Anaoa è Annavoi (Iovanna).
- Pag. 491: «... a’ signori dovria essere caro lo spesso fallire de’ soggetti per poter perdonare», che va corretto così: «a’ signori dovria essere spesso caro il fallare ecc. ecc.».
- Pag. 512: «Male può servare persona la cosa che mai non li fu nota», in cui la lezione trovare al posto di ‛servare’ rende piú esattamente il pensiero di Filocolo.
- Pag. 561: «E priegoti che l’anima di me vecchio tuo padre, il quale aiutato t’ho e sopra tutte le cose amato, non ti esca della mente, ma continuo raccomandata sia» , che i codici leggono: «E priegoti che l’anima mia, di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t’ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata».
- Ma non c’è pagina in cui la lezione manoscritta non venga a migliorare notevolmente il testo; basterà citare qualche caso fra i molti, in cui abbiamo potuto correggere senza esitazione. mediante l’accordo dei codici collazionati o consultati:
- ‛t’ha mosso’ in ‛t’ha messo’ (p. 3); ‛Adamo’ in ‛Prometeo’ (p. 9); ‛fece leggere il saltero e il libro d’Ovidio’ in ‛fece leggere il santo libro d’Ovidio’ (p. 60); ‛cosa’ in ‛casa’ (p. 92); ‛volere’ in ‛inganno’ (p. 107); lucida in laida (p. 109); ‛fare’ in ‛sostenere’ (p. 110); lucenti in buone (p. 126); ‛bellissimo’ in ‛fortissimo’ (p. 126); ‛cagione’ in ‛ingegno’ (p. 127); ‛nell’ampio campo corre’ in ‛col disteso capo corre’ (p. 127); ‛valoroso’ in ‛volonteroso’ (p. 127); ‛parrà da fare’ in ‛parrà di ferire’ (p. 128); ‛vigorosità’ in ‛vittoria’ (p. 128); ‛la santa giurisdizione’ in ‛la santa Iunone’ (p. 130); ‛infiammato’ in ‛enfiato’ (p. 149); ‛pallido affatto’ in ‛palido e afflitto’ (p. 175); ‛il piú che si potesse’ in ‛il piú che trovare si potesse’ (p. 177); ‛tanta bellezza quanta e come n’abbiamo udito in voi due regnare’ in ‛tanta bellezza come voi due ci siate state lodate’ (p. 178); ‛ora sospirasti’ in ‛ora soprastai’ (p. 182); ‛da me’ in ‛dal mio viso’ (p. 184); ‛mala’ in ‛amara’ (p. 185); ‛solenne festa’ in ‛grandissima solennità’ (p. 191); ‛temenza’ in ‛fidanza’ (p. 198); ‛ne nutricasse’ in ‛la vita ne nutricasse’ (p. 204); ‛la finì’ in ‛la finì di leggere’ (p. 209); ‛al suo intendimento’ in ‛al suo intendimento per tale segnale’ (p. 213); ‛fatta’ in ‛cercata’ (p. 217); ‛può passare’ in ‛sottilmente può passare’ (p. 219); ‛io medesimo’ in ‛io misero’ (p. 228); ‛di dolermi di te e di Biancofiore’ in ‛di dolermi di te e di biasimarti’ (p. 229); ‛quanto fu ancora d’Elena’ in ‛quanto fu ancora la lascivia d’Elena’ (p. 231); ‛trasmutato amore’ in ‛tracotato amore’ (p. 232); ‛malvagia’ in ‛puttana’ (p. 239); ‛come a Medea’ in ‛come a Medea valessono’ (p. 239); ‛essi, ... gli donarono’ in ‛essi, contenti di ciò che fatto aveva il re, ... gli donarono’ (p. 242); ‛presenza’ in ‛partenza’ (p. 244); ‛le tese vele’ in ‛le triste vele’ (p. 246); ‛vestimenti di trististia’ in ‛vestimenti significanti tristizia’ (p. 258); ‛lui confortar pareva’ in ‛lui confortare non poteva’ (p. 26o); ‛se mai dello amador di Elena’ in ‛se mai di Elena o della dolente Dido’ (p. 267); ‛graziosa terra’ in ‛guazzosa terra’ (p. 277); gli alti rami in gli spogliati rami (p. 278); solverò il tuo dimando in sovverrò al tuo dimando (p. 282); ‛trovarsi’ in ‛trovarsi in questo tempo’ (p. 283); ‛ricordanza’ in ‛riconoscenza’ (p. 284); ‛fama’ in ‛fortuna’ (p. 286); ‛rappresenterá’in ‛paleserá’(p. 286); ‛Siena’ in ‛Senna’ (p. 292); ‛dolersi’ in ‛quasi la sentiva dolere’ (p. 293); ‛ristette di parlare’ in ‛ristette ad ascoltare’ (p. 294); ‛una donna nobile similmente quivi nata’ in ‛una donna nobile della terra’ (p. 311); ‛la scorza’ in ‛lo scoglio’ (p. 316); ‛vita’ in ‛volontá’(p. 342); ‛poco cara e breve tenuta’ in ‛poco cara e brieve d’amore’ (p. 344); ‛mammelle’ in ‛menne’ (p. 361)9; ‛con debita operazione ammenderò’in ‛con debita operazione adempiremo’ (p. 378); ‛basi’ in ‛basole’ (p. 380); ‛dire’ in ‛significare’ (p. 380); ‛l’acqua esce dal suo luogo’ in ‛l’acqua esce da suoi canali’ (p. 382); ‛insieme nelle tavole’ in ‛insieme, e levate le tavole’ (p. 395); ‛li dravici (sic!) organi’ in ‛gl’idraulici organi’ (p. 414)10; ‛sostenendo’ in ‛sforzando’ (p. 419); ‛pruni’ in ‛spruneggioli’ (p. 429); ‛staffe’ in ‛strieve’ (p. 432); ‛il sole cominciava l’occaso’ in ‛il sole minacciava l’occaso’ (p. 450); ‛segnare’ in ‛segare’ (p. 454); ‛cosí rispose’ in ‛con riso rispose’ (p. 454); ‛s’aperse’ in ‛s’aperse nelle braccia’ (p. 456); ‛ragione’ in ‛regola’ (p. 461); ‛imaginata’ in ‛ingannata’ (p. 466); ‛partire’ in ‛patire’ (p. 523); ‛la bellezza tiene mezzana via’ in ‛la bassezza t’è mezzana via’ (p. 524) ecc ecc11.
- ⁂
- La storia di Florio e Biancofiore che costituisce il nucleo romanzesco del Filocolo, è documentata fin dal secolo XII in due poemetti francesi, dai quali la novella erotico-avventurosa si diffuse in quasi tutte le letterature europee. In Italia fu rifatta da qualche cantare d’intonazione piú popolaresca (e uno della prima meta del Trecento c’è stato conservato), a cui fa diretta allusione lo stesso Boccaccio (p. 7): e anzi il Crescini ha potuto dimostrare con solide e belle argomentazioni che il Filocolo ignora i testi d’oltralpe e si rifá ai cantari italiani, e precisamente a un poemetto intermedio, composto con molta probabilitá in franco-veneto, e comunque dovuto a quell’ambiente culturale dell’Italia settentrionale, piuttosto guillaresco e popolareggiante, che ritraduceva e riassorbiva gran parte della letteratura francese12.
- Il Boccaccio s’è attenuto alla fonte assai fedelmente, se si tien conto dell’intreccio e dei piú minuti particolari, che nel Filocolo ritornano con scrupolosa attenzione; ma ha rielaborato con larga e dotta libertá, ampliando di volta in volta le varie fasi del racconto originario, svolgendo i singoli avvenimenti ciascuno in se stesso, spesso senza riuscire a sentirne o a crearne i rapporti d’interdipendenza. A voler considerare il Filocolo nella sua struttura romanzesca, non se ne vede l’unitá: è dispersivo, troppo episodico, discordante di toni e di proporzioni. Su questi caratteri negativi la critica è stata senipre concorde; ma bisogna subito rilevare che la novella di Florio e Biancofiore anche nei poemetti originali si presenta in forma composita, frutto piuttosto d’un’ispirazione decadente, che intendeva inserire una gentile storia d’amore entro ad un involucro romanzesco e avventuroso, con una arruffata curiositá per motivi di natura pagana e cattolica e con un certo gusto dell’ornamento storico, geografico, esotico. Tutti questi elementi che denotano nella stesura primitiva una cultura letteraria deteriore e un’ispirazione confusa, ritornano nel Boccaccio ampliati e accentuati, cosicché il difetto originario è reso piú patente, e però piú profondo, dalla stessa vigorosa capacitá narrativa dello scrittore italiano. E le discordanze che nella fonte erano attenuate dal tono stilistico rapido e facile, nell’ampia parafrasi del Boccaccio sono messe allo scoperto dalla sostenutezza linguistica, e i difformi motivi classicheggianti, pietistici, romanzeschi ed esotici risultano esagerati dalla torbida e soverchiante dottrina del giovane letterato. E tuttavia anche questi episodi che rimangono giustapposti e non fusi da un identico clima lirico, rispondono ad a1trettante esigenze descrittive e rievocatrici dello stile boccaccesco: e non tutte andranno perdute, anche se in seguito saranno superate da una piú matura e coerente sensibilitá narrativa. Il senso, per esempio, dell’esotico - e l’esotico per il Medioevo è naturalmente il mondo orientale non si spinge ancora ai valori umani e neanche alle consuetudini sociali, ma per il Boccaccio ha la funzione di fare accettare alcune forme di vita ch’egli vagheggia fino al meraviglioso e al miracoloso: e soprattutto rispetto al mondo del fasto, del lusso, del prezioso. È in parte un gusto che confina con il romanzesco e l’avventuroso, ma possiede una sua autonomia lirica, come proiezione di vaghi desideri per una vita fastosa e doviziosa, oziosamente idillica, tutta spesa in una stupita e perenne contemplazione di bellezza e di ricchezza. Le pagine infatti che descrivono la torre dell’Arabo, rispondono a questi interessi, o meglio, a queste ambizioni del borghese che ha imparato a conoscere la vita della corte e gli splendori delle case principesche, e sogna l’ozio dei ricchi e dei potenti. Comunque il Boccaccio è riuscito a tradurre questo gusto in una descrizione stilisticamente calda e opima, dove l’incanto e lo stupore sono disciplinati da un ordine espositivo, da una specie di luciditá visiva: echi di questa sensibilitá si risentiranno anche nel Decameron. E cosí gli stessi mezzi che creano l’avventuroso e l’impensato, che ora nel Filocolo convergono dalla letteratura medievale, costituiranno in seguito la sostanza di parecchie novelle: l’ampia distesa del mare, che avvicina e allontana i paesi e gli uomini, le sue improvvise tempeste che diventano il piú duttile strumento in mano della mobilissima fortuna, il vasto Mediterraneo che accomuna civiltá disparate e popoli diversi e crea contatti imprevisti e situazioni stranissime, sono risorse artistiche che nel Filocolo si presentano largamente, seppure ancora con una coesione stilistica embrionale e maldestra, ma che stabiliranno la struttura lirica di alcune tra le migliori novelle del Decameron, e, prima fra queste avventurose, quella di Alatiel.
- Ma la veritá è che in quest’opera disordinata e incomposta il Boccaccio ha voluto riflettere inconsciamente il mondo esuberante della sua giovinezza letteraria, con i suoi molti e ricchi fermenti e con le immagini della sua prepotente fantasia: sicché, in definitiva, se ne delinea una diversa e insperata unitá lirica che trascende i limiti del contenuto romanzesco e narrativo per assumere i colori e le forme d’una nuova sensibilitá. E però accanto e al disopra della velleitá, esplicitamente dichiarata, di nobilitare un racconto popolareggiante mediante un’arte dotta, si fa luce e prevale l’inconfessata tendenza a sentire l’intreccio novellistico come un pretesto per tradurre in forma piú o meno dispiegata le esperienze della propria cultura e i moti della propria vita sentimentale13. Nella tela romanzesca del Filocolo il Boccaccio ha finito con l’inserire le ambizioni e le velleitá che si affacciavano in quella sua prima vigilia artistica, ancora indiscriminate e tutte affollate e quasi soverchianti: soprattutto quel suo incipiente umanesimo, legato tuttavia a forme medievali, piuttosto enciclopedico che erudito, ma vivacissimo e pieno di lieviti, e soprattutto operoso nella coscienza con un fervore quasi romantico. Gli stessi itinerari attraverso l’Italia - da Certaldo a Napoli, le terre della sua giovinezza — che dovrebbero sviluppare motivi d’avventura, si tramutano in una specie di escursione archeologica, durante la quale le memorie del passato ritornano con la stessa ammirazione con cui lo scrittore dipinge le meraviglie orientali: è il mondo del sapere che si vuol fare arte, sono le letture classiche che ridiventano contemporanee, è tutta una vita letteraria e libresca che intende inserirsi e illuminarsi in un’esperienza attuale. Ed è appunto questa sensibilitá che predomina nel Filocolo, a preferenza di quella avventurosa e romanzesca: è un tono prevalentemente letterario, in cui però la cultura tende a diventare memoria autobiografica, creando un’atmosfera di calda e superiore intelligenza, a cui corrisponde uno stile dignitosamente elegante, a volte troppo sorvegliato e troppo costruito, ma che rappresenta la prima prosa d’arte del Trecento e della letteratura italiana.
- Ed ha il sapore della letteratura anche quell’altro mondo sentimentale che il Boccaccio trae dalla sua diretta umanitá, e che alla sua sensibilitá stilistica non si presenta staccato e difforme dal primo, ma commisto ad esso, quasi un diverso aspetto di una sola grande e organica esperienza di vita: e cosí gli è successo di ritradurre con colori letterari il suo interno sentire e di prestare alle voci della cultura qualche accento di immediata intimitá. Con queste immagini nuove e personali l’intera struttura del romanzo è violentata e deformata: non che esse siano riuscite a superarne e a farne dimenticare i limiti e le dissonanze, ma hanno potuto creare un diverso senso umano e lirico, che è quello che porta il segno boccaccesco e per il quale il Filocolo rimane una delle opere piú preziose e vitali del Trecento, e non soltanto italiano.
- E infatti le inserzioni e le digressioni sono tanto numerose e cosí ampie, che hanno finito col dominare l’interesse lirico dell’artista e hanno comunicato a tutto il romanzo il loro particolare carattere passionale, autobiografico, ansioso di chiarire nella finzione letteraria la vita stessa, e non certo i fatti puramente empirici, ma quelle reazioni sentimentali ch’essa suggeriva e determinava di volta in volta. Cosicché non soltanto l’odissea di Florio, ma anche le altre storie amorose che vi si intrecciano sono tenute in un’atmosfera liricamente astratta, in cui si dissolve lo stesso contenuto romanzesco. Nelle molte vicende che sembrano svilupparsi l’una in margine all’altra, rispecchiando per tanti modi la medesima ansia d’amore, il Boccaccio ha voluto risentire la «passione» della sua giovinezza: e l’amore trepidante dei due protagonisti, l’affannosa ricerca di Florio, l’esilio nostalgico di Fileno, la solitaria confessione dell’ignoto che vuole circondare di mistero la propria persona, l’oasi sognante delle «Questioni d’amore», la vicenda disperata di Idalagos, l’episodio allucinante delle donne crudelmente belle, l’animo mite e deluso di Galeone, sono figure ed esperienze segnate dalla stessa emotivitá. Sorgono improvvisamente dinanzi allo spirito pensoso di Florio, in una condizione di sogno; s’ispirano a una comune vita sentimentale, del tutto interiore e senza legami col mondo sociale, rivelandosi solamente nella piena solitudine dell’animo. Sono tutte prive di storia biografica, provenienti da una vita ignota che si è determinata repentinamente da un momento di passione e continua a nutrirsi del ricordo, quasi atteggiata in eterno. Accompagnano l’ansia raminga di Florio, che è quanto dire dello stesso scrittore, come coscienza della sua condizione morale, e si rivelano soltanto a lui che le può intendere nella comunione della stessa esperienza. E perciò tutti questi episodi che accolgono e ridicono gli echi di una stessa voce, acquistano nel corso del romanzo un carattere di necessitá, come riflesso della sofferenza che accompagna il «pellegrino d’amore»: in definitiva l’errare fortunoso del cavaliere si tramuta in un itinerario sentimentale che conosce soltanto avventure psicologiche e brevi stati d’animo. Il Filocolo può considerarsí come il momento romantico di uno scrittore che col volgere degli anni avrebbe educato la sua grande arte al piú schietto realismo14. Ed è in virtú di questo tono lirico che il mondo della letteratura riacquista una sua palpitante consentaneitá, e, assai spesso, le letture che è facile sorprendere nell’ispirazione di molte pagine, si dimostrano piú congeniali alla condizione morale dello scrittore. Sono quelle opere e quegli autori da cui il BoccacCio non ha soltanto trascelto qualche nome, oppure qualche motivo di facile saccenteria, o anche, in maniera piú larga, qualche pretesto per un’abbondante descrizione, ma ha derivato e come misurato certi toni della sua sensibilitá e certi modi del suo stile: soprattutto Ovidio delle Metamorfosi, ma in particolar modo delle «Epistole amorose» e dell’«Arte d’amare»; Arrighetto da Settimello con i suoi colori elegiaci e tenerissimi; Andrea Capellano, ormai penetrato in tutta la cultura romanza, con i suoi problemi di casistica erotico-sociale, che durante il tardo Medioevo hanno alimentato le varie «questioni» di dialettica amorosa. Proprio quel senso di elegiaco e sospiroso sgomento, che è il colore piú caldo degli amori di Florio, di Biancofiore, di Fileno, di Idalagos, di Galeone, e di tante e tante pagine, sa nutrirsi, oltre che della viva e tormentata esperienza del giovane artista, anche di risonanze letterarie, questa volta piú continue e piú organiche, ma soprattutto piú conformi all’intimo errore amoroso, a cui si abbandona il gusto sentimentale del Boccaccio con una quasi lenta e oziosa compiacenza. Il genio ovidiano vi alita intorno: penetra in ogni pagina, senza che se ne avverta la presenza, talmente è fuso con l’empito passionale che vi si traduce. Sono ovidiani, e anzi ricordano direttamente le Eroidi, i reiterati soliloqui degl’innamorati, che ripensano alle trepidanti immagini del loro amore, e ne rifanno ripetutamente la breve e fragile storia, rivivendone tutte le delicate esitazioni e gl’innumerevoli palpiti, con quelle improvvise e fuggevoli esaltazioni e con quelle sottili e dubbiose ansie che intessono la rada trama d’ogni amorosa passione. E il Boccaccio ha perfino ricorso alla tecnica «epistolare», secondo i modi del poeta latino, serbando anche la struttura del modello ovidiano, specie nella progressione dei ricordi, ma soprattutto nel tono fondamentale, che è quello della lontananza e della stanca attesa, della tensione sentimentale che sta per spezzarsi, della disperazione che è pur sempre speranzosa (si veda, per es., tutto l’episodio della gelosia, pp. 196-214). Ma nello scrittore toscano c’è un minore distacco artistico rispetto al poeta classico: per questo ogni amore è una novella, un mito, un’esemplificazione lirica, in cui la passione si serena in una levitá estetizzante, mentre nel Boccaccio la vita è ancora tumultuosa edisordinata, e soverchi a la elaborazione-artistica, troppo legata ancora alla maniera indisciplinata della confessione sentimentale e autobiografica. È quasi costante una situazione psicologica di molle tenerezza, con quel senso di estremo smarrimento che induce al pianto e a sentire pietá di se stesso: un continuo rammaricarsi e quasi un accarezzare i motivi e le immagini della propria infelicitá, con il sentimento di esser solo e indifeso di fronte a un destino implacabilmente avverso. È appunto la sensibilitá che piú caratterizza l’Elegia di Arrighetto, che nella realtá umana e letteraria non vede se non echi e consensi della propria miseria e del proprio pianto, a cui si abbandona con la sconsolata ingenuitá del bimbo: a questa particolare situazione spirituale corrisponde una concitazione stilistica che procede a scatti, con brevi proposizioni, per lo piú in forma interrogativa e sospensiva, in una specie di polemica con se stesso e la propria esistenza, quasi a tradurre la sgomenta incertezza dell’animo. Il Boccaccio l’ha presente e ne sfrutta molti accenti e soprattutto quei procedimenti sintattici che richiamano la vita a scorci e a improvvise illuminazioni, con una giustapposizione di brevi concetti e di immagini fugacissime. Cosicché il verso di Arrighetto ritorna nei momenti piú critici, quando la passione dispera e il ricordo si fa pianto e desolazione: allora anche lo stile si fa piú concitato e simula il movimento della lingua parlata.
- E quando in un’oasi di obliosa serenitá pare superata e placata l’ansia del «pellegrino d’amore», che in mezzo alla festosa comitiva partenopea è rapito da una specie di idillico incantamento, anche allora la vita passionale è richiamata, non piú con i suoi accenti attuali e commossi, ma come elegante materia di intelligente e oziosa conversazione. È sempre la medesima realtá umana, prevalentemente amorosa e psicologica, a urgere nella coscienza dello scrittore, che però adesso esce dall’esperienza chiusa e tormentosa per investire altre zone piú varie dell’esistenza sentimentale: ciò che altrove è immerso nella vita dell’individuo e si fa singola e viva personalitá, nelle «quistioni» è allo stato di contenuto grezzo, ancora impersonale, direi quasi scientifico. Anche queste molte pagine di discettazione psicologica traducono la sovrabbondante e tenace pienezza dell’esperienza boccaccesca, segnata principalmente da interessi psicologici e umanissimi, e svelano il tentativo di scoprire e analizzare il tessuto sentimentale che costituisce il nostro animo. In parecchi episodi, e soprattutto nel tono generale, il Boccaccio si attiene al Libro d’amore di Andrea Capellano, che rappresenta per il Medioevo l’enciclopedia delle discettazioni amorose: ma egli ha dato una diversa stesura, liberando la fonte medievale dalla sua fisonomia sistematica e trattatistica per risentirla con una commozione contemporanea, a cui partecipano i singoli interlocutori, e, in definitiva, egli stesso con quel suo prepotente e insonne vagliare i diversi e contrastanti movimenti dello spirito umano, che nell’autore latino è assente, o, se mai, mortificato dalla struttura didascalica e moralistica.
- Ma nelle sue forme piú dispiegate il Filocolo è nato sotto il segno di Ovidio: il Boccaccio è il primo poeta che vi consente con gusto umanistico, superando per la prima volta i limiti dell’estetica medievale, che dalle Metamorfosi aveva accolto storie sentimentali e moduli erotici, ma non era riuscita a sentire ed accettare il significato del mito, della vera e propria metamorfosi, nei suoi valori artistici, come proiezione di una passione umana nelle forme della piú elementare natura, come trapasso da una esperienza sentimentale, per se stessa cangiante e illusoria, a un’immagine perenne e immobile. Il Boccaccio, in virtú della sua lunga familiaritá ovidiana, ma soprattutto per il suo gusto estetico che presentiva e si orientava verso la poesia mitico-idillica, ha potuto inserire nel suo romanzo, inizialmente avventuroso e realistico, le metamorfosi di Fileno, di Idalagos e delle quattro donne fatali e blasfeme, che celebrano appunto questo senso astratto e contemplativo della passione erotica. La trasformazione è un mezzo per tradurre in forme idilliche l’interna fissità d’un atteggiamento sentimentale, per fermare negli aspetti taciti e solitari della natura l’immobile solitudine dell’amorosa pensosità: presuppone una coscienza estetica assai matura e scaltrita, giá umanistica.
- Per questa molteplicita di motivi psicologici e di risorse narrative, anche se queste e quelli non sempre riescano a fondersi in una superiore unità estetica, il Filocolo rimane l’opera piú ricca e piú varia della giovinezza boccaccesca: tutte le altre, dal Filostrato alla Fiammetta e dall’Ameto al Ninfale fiesolano, se è vero che hanno una maggiore organicità artistica e una struttura piú lineare e sorvegliata, riflettono tuttavia situazioni e interessi che già si sono tradotti abbondantemente nella doviziosa prosa del primo romanzo: soprattutto la concezione della novella psicologica, nuova rispetto alla tradizione medievale e cosí feconda per l’arte umanistica, sia italiana che europea, si annunzia risolutamente nel Filocolo come scoperta di una piú moderna tecnica narrativa, che non sarei senza importanza per la stessa prosa del Decameron.
- * * *
- ↑ Il Moutier per la sua edizione del Filocolo (Firenze, 1829) ha consultato questi due codici, che, seguiti con piú cura, gli avrebbero permesso di migliorare notevolmente il testo tradizionale. Ma per i metodi editoriali del Moutier, si veda S. Battaglia, Teseida (Firenze, 1938), pp. lxxiv-lxxviii .
- ↑ Un altro codice del fondo Ashburnham, segnato nel catalogo col n. 1643 (n. 1719 a fianco, secondo la nuova numerazione), non è piú reperibile.
- ↑ Ringrazio la dott. Teresa Lodi, che in qualitá di direttrice della R. Biblioteca Laurenziana mi ha reso facile la collazione di questi manoscritti.
- ↑ Ho inoltre consultati i codici magliabechiani della R. Biblioteca Nazionale di Firenze, segnati: II, I, 111; II, II, 18; II, II, 19; II, III, 193, per i quali rimando al Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, VIII, Forlí, 1898, p. 43 e p. 140; e IX, Forlí, 1899, p. 189. Sono esemplari complessivamente di scarso valore, anche se di aiuto per qualche lezione.
- ↑ La fortuna editoriale del Filocolo è stata fertilissima: soltanto negli ultimi decenni del secolo XV apparvero piú di dieci stampe, per lo piú corredate della biografia boccaccesca di Ieronimo Squarzafico (cfr. F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, 4a edizione, Bologna, 1878, p. 144 e sgg.) .
- ↑ La prima edizione curata dal Sansovino è del 1554, ma altre numerose ne seguirono per tutto il secolo XVI e il seguente, fondandosi sempre sullo stesso testo, che via via subiva nuove manomissioni e rammodernamenti.
- ↑ Fa parte della «Collezione di classici italiani» dell’Utet, Torino, 1927, in due volumi; si veda a p. XLX dell’introduzione: «Nella redazione del testo della presente edizione esemplato su la lezione stabilita dal Moutier, si è pure seguita l’edizione Guazzo-Zoppino (Venezia, 1530) e l’edizione Giuntina del 1593, dove più fresca e suasiva rendesi l’espressione trecentesca ».
- ↑ Cito dall’ediz. di R. De Visiani, Valerio Massimo, De’ fatti e detti degni di memoria della cittá di Roma e delle strane genti, Bologna, 1867, vol. I, p. 303 (libro IV, cap. VI: Dell’amore del matrimonio). Del resto Valerio Massimo offre al Boccaccio, specie per il Filocolo, molti aneddoti ed «exempla», come l’enciclopedia narrativa piú autorevole della vita pubblica e morale dell’antichitá. Fra le varie derivazioni, ne ricordo qualche altra, che senza l’aiuto della fonte rimarrebbe oscura. Si veda a p. 22 del Filocolo: (... che non fece Paulo alla voce di Tarsia quando disse: ‛Persa è morto!’, con una troppo sintetica allusione a un passo di Valerio Massimo: «Che è quello, e come fu memorevole cosa, quello che avvenne di Lucio Paulo console? çhe per sorte cadutogli in parte di guerreggiare col re Persa, tornando della corte a casa, una sua piccola figliola che avea nome Tarsia, la quale era molto piccioletta, basciandola la vide stare trista. Domandolla che ira turbava il suo volto. Quella rispose: ‛Persa è morto’. E certo egli era morto un suo bracchetto, che la fanciulla dilicatamente tenuto avea, il cui nome era Persa» (ibidem, p. 61). La stessa fonte è per l’accenno a Lucio Silla (Filocolo, p. 22; Valerio Massimo, p. 67); cosí per le allusioni a Senofonte e Anassagora (Filocolo, p. 68; Valerio Massimo, pp. 401 -402); per i prodigi di Tanaquilla (Filocolo, p. 145; Valerio Massimo, pp. 65-66: e questo stesso ricordo prodigioso è ripetuto, e questa volta senza opportunità, a p. 336 del Filocolo); il richiamo ad Orazio Pulvillo (Filocolo, p. 54) s’intende meglio con il passo di Valerio Massimo: «Con ciò sia cosa che Orazio Pulvillo pontefice edificasse nel Campidoglio una magione a Giove ottimo massimo, e nel raccontamento delle solenni parole tenendo una parte dell’uscio, udisse dire il suo figliuolo era morto, né la mano da l’uscio rimosse, acciò ch’elli non interrompesse il sacramento di sì grande tempio, né il suo volto dalla pubblica religione piegò al privato dolore, acciò ch’elli non paresse operare piú sí come padre che sí come sacerdote» (ibidem, p. 399). Per i nomi di Marco Curzio, Attilio Regolo e Valeria Publicola (Filocolo, p. 320), si veda la stessa enciclopedia di Valerio Massimo (p. 291 e sgg.) . Ma fra le altre derivazioni, cito l’intera pagina dedicata alla irreligiositá di Dionisio, da cui il Boccaccio ha desunto intere espressioni (p. 21): «Costui altresí avendo tratto di dosso alla statua di Iove di monte Olimpo una vesta d’oro di grande peso, della quale l’avea ornato il tiranno cartaginese, e avendoli fatto gittare in dosso uno drappolano, disse cosí: ‛Il drappo d’oro l’istate è caldo, l’inverno è freddo: ma il drappolano è piú convenevole all’uno tempo e all’altro dell’anno’. Dionisio medesimo comandò che alla statua dello iddio Esculapio di monte Epidauro la barba che avea d’oro, rasa fosse, affermando che non si convenia che il suo padre Apollo fosse veduto senza barba ed Esculapio barbuto. Costui medesimo tolse de li templi mense d’oro e d’argento: e quello ch’era in quelle scritto, secondo l’usanza de’ greci ‛Queste mense sono de’ beni delli dii’ ad alta voce disse: ‛Io uso de’ beni delli dii’ . Costui medesimo tollea i veli dell’oro e le coppe e le corone, le quali le statue de li dii sostenevano, con distese mani, e dicea ch’elli le prendea e non le robava... (ibidem, pp. 57-58).
- ↑ È una variante interessante per l’uso linguistico, poiché rivela un sicuro meridionalismo (ed è probativo il completo accordo di tutti i manoscritti), che si ripete anche a p. 411: nelle altre opere boccaccesche il termine non ricompare piú, se non nelle forme toscane (poppe, pomi, ecc.) .
- ↑ È l’organum hydraulicum dell’antichitá, descritto diffusamente da Vitruvio. Il termine «idraulico» compare, secondo i dizionari, compresi la Crusca e il Tommaseo-Bellini, nei secoli XVI-XVII: questa del Boccaccio sarebbe perciò la piú antica attestazione nel nostro volgare.
- ↑ Il nostro testo è in cinque libri, secondo l’accordo di tutti i manoscritti e delle piú antiche stampe, e non in sette libri come è diviso dagli editori piú recenti. Per quanto riguarda le didascalie, che in parecchi codici figurano sistematicamente a ogni capoverso, mi occuperò altrove, poiché è verosimile che risalgano allo stesso Boccaccio, come risulta dal Teseida e dal Filostrato (si veda V. Pernicone, Il Filostrato e il Ninfale Fiesolano, Bari, 1937, pp. 391-397, e Studi di filologia italiana, vol. V, 1938). Per quanto riguarda la grafia, mi sono attenuto ai criteri vagliati attraverso l’edizione del Teseida (Firenze, 1938), pp. cxi-cxlvi. Soltanto ho ammodernato in pochissimi casi (bacio e baciare invece di bascio e basciare, eterno invece di etterno, Apollo invece di Appollo, ecc. ecc.),
- ↑ Vedi Crescini, Il cantare di Florio e Biancifiore, I, Bologna, 1889 (con una esauriente analisi delle varie redazioni europee, oltre che italiane), II, Bologna, 1899 (il testo del cantare italiano). Per una precisa, lucidissima e personale valutazione del Filocolo e dei suoi problemi, cfr. N. Sapegno, Il Trecento, Milano, 1934, pp. 296-304, con una completa bibliografia.
- ↑ Per i problemi che comporta questo tipo di arte autobiografica, cfr. V. Crescini, Contributo agli studi sul Boccaccio, Torino, 1887; F. Torraca, Per la biografia di G. Boccaccio, Napoli-Milano, 1912; S. Battaglia, Elementi autobiografici nell’arte del Boccaccio, in «La Cultura», IX, 1930, pp. 241 sgg.; e si veda N. Sapegno, op. cit., p. 391.
- ↑ Per una piú completa analisi dei motivi lirici del Filocolo e in particolar modo sul valore che riveste l’episodio delle «Questioni d’amore» rispetto all’arte piú generale del Boccaccio e specialmente in rapporto al Decameron, si veda S. Battaglia, Schemi lirici nell’arte del Boccaccio, in «Archivum Romanicum», XIX, gennaio-marzo 1935.
- INDICE DEI NOMI
- Abido, 358.
- Abram, 523.
- Abruzzi, 226.
- Acheronte, 16, 86, 123.
- Achille, 123, 216, 236, 339, 341, 542, 543.
- Aconzio, 171, 199.
- Adige, 272, 372.
- Adoncie (acque), 226.
- Adone, 132, 230, 477.
- Adriana (la corona di), 115, 463.
- Adriano, 499.
- Adriano (mare), 225.
- Afranio, 495.
- Afranio (fratello di Glorizia), 541.
- Africa, 316.
- Agamennone, 96, 216, 231.
- Agapito, 531.
- Agenore, 388.
- Agialeo, 515.
- Aglauro, 261.
- Agliena, 226.
- Aiace, 77.
- Airam (anagramma di Maria), 473, 477, 482.
- Alba, 226, 536.
- Alchimede, 86.
- Alcibiade (d’Alessandria), 450, 453.
- Alcide, 333, 462, 463.
- Alcimenal, 471, 472.
- Alcione, 564.
- Alcitoe, 478.
- Aldebaran, 272.
- Alessandria, 240, 271, 374-77, 388, 416, 423, 430, 433, 437, 444, 445, 530, 537, 552.
- Alessandro (il Grande), 103, 309, 515.
- Aletto, 4.
- Alfea, 276-78, 284.
- Alleiram (anagramma di Mariella), 473, 481, 482.
- Alpi, 226.
- Amaltea, 42.
- Arriore (v. Cupido), 62-64, 197, 210, 415, 464, 489.
- Anassagora, 68.
- Anchise, 154, 251.
- Androgeo, 74.
- Andromeda, 75, 339, 463.
- Anfiarao, 232.
- Anfione, 85.
- Anna, 521.
- Annavoi (anagramma di Iovanna), 473, 479, 483, 484.
- Annibale, 86, 127.
- Antenore, 225, 240.
- Antonio, 495.
- Antonio (mercante), 240, 377, 379.
- Apollo (v. Febo), 15, 21, 76, 77, 84, 135, 225, 256, 292, 297, 366, 387, 423, 477, 540, 562.
- Appennino, 17, 23, 61, 72, 214, 218, 225, 277, 316.
- Aragne, 54, 215, 265, 562.
- Arbato, 515.
- Aretusa, 81.
- Arianna, 79, 342, 349.
- Ariete, 462.
- Arimatia, 522.
- Arione, 463.
- Aristonico, 30.
- Arno, 316.
- Artifilo, 29, 38, 39.
- Arturo, 115, 475.
- Ascalione, 46-49, 51, 60, 65, 95, 104, 107, 111, 113, 114, 117, 118, 120-22, 124-26, 128, 129, 140-42, 144, 145, 153, 159, 161, 162, 175-177, 185, 186, 239, 256, 267-69, 277, 283, 288, 291, 293, 298, 350, 352, 370, 374-77, 384, 393, 428-433, 436, 439-41, 445, 450, 452, 453, 489, 499, 507-09, 528, 536-539, 542, 548, 553.
- Ascanio, 61.
- Asdrubale, 86.
- Asenga (anagramma di Agnesa), 473, 476, 483, 484.
- Asmenio, 240, 241.
- Assalon, 308, 514.
- Astrea, 130, 154.
- Astreo, 4.
- Atalanta, 171.
- Atene, 71, 74, 365, 511, 521.
- Atlante, 17, 107, 196, 377, 442.
- Atreo, 135.
- Atropos, 10, 11, 22, 58, 287.
- Atteone, 474, 477.
- Attila, 225, 495.
- Attilio Regolo, 320.
- Aulide, 127.
- Aurora, 478, 562.
- Aventino, 226.
- Averno, 366.
- Babillonia, 231, 254, 379, 390, 414, 515.
- Bacchiglione, 225.
- Bacco, 179, 445, 473, 513.
- Baia, 366, 455.
- Baldassar, 515.
- Barbaro (monte), 366, 469.
- Barca, 104.
- Belial, 433.
- Bellisano, 253, 375-78, 384, 393, 428, 430, 431, 433, 453, 454, 511, 531, 536, 539, 545.
- Bellona, 431.
- Belo, 232, 515.
- Bersabea, 514.
- Bettelem, 517, 518.
- Biancofiore, 9, 59, 62, 64, 65, 67-70, 73, 75, 78, 79, 82, 84, 85, 87, 89, 90-98, 100-02, 104-14, 116-118, 120-26, 129, 130, 133‐37, 139, 141-59, 162, 163, 165, 166, 169-177, 181, 187-93, 195-203, 207-09, 212-17, 221-24, 227, 228, 237-39, 241-45, 247-51, 253, 255-58, 260-265, 267-69, 271-73, 275, 280, 289, 295, 366, 368-73, 375, 377, 379, 381, 382, 386-90, 394, 397, 399, 401-09, 411-15, 417-19, 421, 425, 427, 428, 430, 431, 434, 436, 440-442, 444-457, 467, 468, 487-493, 499-504, 508, 509, 528, 530, 532, 534-40, 542-48, 550, 552-557, 560, 561.
- Biblis o Biblide, 70, 76, 232, 309, 333. 466.
- Boote, 462.
- Borea (re di Trazia), 104.
- Braa, 117, 129, 139, 150.
- Briareo, 463.
- Briseida, 216.
- Bruto, 55, 60.
- Caco, 226, 462.
- Cadmo, 175.
- Caifas, 521.
- Calisto, 14, 55, 462.
- Calmena, 181, 182, 184, 185.
- Calmeta, 461.
- Calocípe, 506, 563.
- Calone, 494.
- Cam, 513.
- Camillo, 22.
- Campagna, 226, 486.
- Cana, 520.
- Canace, 290.
- Cancro, 462.
- Candia, 374.
- Capaneo, 119.
- Capis, 226, 486.
- Caposermone, 374.
- Cara, 308.
- Caronte, 286.
- Cartagine, 12, 61, 243.
- Cassandra, 341.
- Cassio, 145.
- Casso, 374.
- Castore, 56, 73, 290, 388, 562.
- Catelina, 225, 495.
- Catone, 28, 78.
- Caucaso, 316.
- Cefalo, 144, 167.
- Cefas, 12.
- Cefeo, 463.
- Centauro, 463.
- Cerere, 88, 98, 315, 382, 445.
- Cesar~ 33, 58, 77, 145, 172, 177, 499.
- Chirone Aschiro, 462.
- Chiusi, 225.
- Cicerone, 78.
- Cidippe, 71, 199.
- Cinosura, 462, 478.
- Ciro, 515.
- Citerea (v. Venere), 8, 60, 67, 117, 197, 204, 211, 220, 229, 248, 250, 256, 278, 292, 388, 41O, 415, 423, 428, 472, 562.
- Citereo (monte), 218.
- Cleopatra, 232, 334, 515.
- Climene, 479.
- Clitennestra, 96, 231, 309, 462.
- Cloelia, 509, 528, 534-38, 540-42, 545, 557, 561.
- Clonico, 325, 329.
- Clotos, 257, 422.
- Colcos, 74.
- Coliseo, 499.
- Corduba, 553, 557, 562.
- Cornelia, 15, 49.
- Creti, 74, 96, 266, 316.
- Creusa, 199.
- Cuma, 455.
- Cupido (v. Amore), 62, 83, 215, 305, 414, 457, 459, 463, 474, 475, 481.
- Curzio, 541, 562.
- Dafne (v. Pennea), 397.
- Damone, 542, 543.
- Danae, 478.
- Dante, 564.
- Danubio, 316.
- Dardano, 175, 225.
- Dario (d’Alessandria), 253, 377-379, 383-85, 387, 388, 393, 402, 428, 430, 431, 434, 449, 453.
- Dario (il Macedone), 515.
- David, 514.
- Dedalo, 401.
- Deianira, 309, 378.
- Deidamia, 123.
- Demofonte, 80.
- Deucalione, 231.
- Diana, 7, 61, 64, 163, 214, 216, 237, 243, 249, 250, 256, 281, 382, 415, 474, 477, 479, 480, 483.
- Dido, 3, 83, 267, 302, 349, 378, 466.
- Diogene, 324.
- Dionisio, 521.
- Dionisio (il Tiranno), 21, 103, 358.
- Dite, 9-11, 132, 236, 269, 371, 400.
- Dodamia, 396.
- Ecate, 315, 316.
- Eco, 138.
- Ecuba, 49, 81.
- Edea, 178, 180, 182, 183, 185.
- Eden, 513.
- Egisto, 96, 216, 231, 309, 341.
- Egitto, 513, 514, 519.
- Elena, 67, 75, 96, 231, 267, 292, 303, 474.
- Ellesponto, 309.
- Elsa, 226, 498.
- Enea, 3, 83, 226, 249, 290, 302, 342, 366, 455, 456, 536.
- Engaddi, 518.
- Eolo, 4, 115, 219, 244, 246, 251, 276, 284, 289, 290, 420, 564.
- Epimenide, 396.
- Ercole, 77, 226, 240, 309, 341.
- Eridano, 463.
- Erisitone, 98, 233, 498.
- Ero, 358, 359.
- Erode, S19, 521, 544.
- Esperia, 11, 17, 43, 51 (Esperii regni), 478, 562.
- Eteocle, 135.
- Ettore, 123, 236, 309.
- Eucomos, 457-60.
- Eurialo, 123, 542, 543.
- Europa, 175, 182, 478.
- Fabrizio, 307.
- Fallaris, 228, 482.
- Farisei, 520, 521. Farsaglia, 9, 51, 103.
- Favenzio, 41.
- Febea, 129, 251, 288, 468, 552, 562.
- Febo (v. Apollo), 5, 12, 15, 56, 58, 70, 95, 116, 120, 219, 230, 244, 250, 256, 272, 365, 388, 397, 421, 428, 445, 458, 463, 477, 478, 488, 528, 553, 562.
- Fedra, 79, 232, 333.
- Felice (re di Spagna), 7, 17, 20, 52, 54, 59, 110, 136, 138, 139, 147, 158, 162, 190, 196, 237, 280, 377, 379, 394, 424, 442, 447, 490, 498, 529, 537.
- Feramonte (duca di Montorio), 69, 71, 93, 104, 108, 111, 113, 119, 140, 162, 17O, 178, 185, 188, 239, 256, 274, 346, 347, 350, 433, 434, 441, 449, 453, 488, 489, 493-95, 507, 526, 537, 540, 544, 562, 563.
- Fetonte, 462.
- Fiammetta (la reina delle quistioni), 296, 299, 337, 340, 343, 346, 347, 349-55, 357, 358, 360, 364-366, 485.
- Fiesole, 495.
- Filemone, 403.
- Fileno, 190-98, 203, 204, 206, 207, 211, 212, 216-21, 223-25, 227, 229, 233-37, 246, 277, 280, 282, 283, 409, 423, 487, 489, 490, 493, 507, 526, 553, 562, 563.
- Fillis, 80, 378.
- Filocolo (v. Florio), 275, 278-80, 282-85, 287, 288, 291, 294-98, 300, 302-04, 336, 365-68, 370-78, 384, 386, 388-96, 398-402, 404, 406-09, 411-15, 417-22, 425-32, 434, 435, 439, 441-47, 450-57, 468-72, 484-90, 492-99, 504-12, 523, 525-31, 535-39.
- Filomena, 219, 292, 342.
- Fíneo, 274.
- Fiorino, 225.
- Fizia, 542, 543.
- Flaganeo, 424, 425, 428, 430, 432, 433.
- Florio (v. Filocolo), 7, 9, 59-62, 64, 65, 67-75, 77-79, 81, 82, 87, 89-98, 100, 102-05, 107, 113-22,
- 124-26, 128, 129, 131, 133, 136-38, 140-62, 165-68, 170, 186, 190-97, 200-03, 207-09, 217, 219, 221-24, 227, 228, 239, 241, 242, 244-47, 249, 253, 255, 257-67, 269-75, 281, 283, 373, 375, 404-06, 410, 412, 416, 422-24, 436, 447, 452, 467, 468, 499-501, 504, 535, 539, 542, 544-45, 554, 556, 557, 561-63.
- Foroneo, 515.
- Franconarcos, 459.
- Fuoco (isola del), 279
- Gaeta, 226.
- Galante, 56.
- Galeone, 296-98, 335, 337, 338, 343, 485, 486, 488, 498, 505-07, 562, 563.
- Galizia, 14.
- Gange, 11, 269, 316.
- Ganimede, 68, 117.
- Gannai (anagramma di Gianna), 459, 460, 461.
- Garamirta (anagramma di Margarita), 461.
- Gelosia (la dimora della), 214-16.
- Giano, 515.
- Giasone (Iasone), 74, 85, 199, 307, 339.
- Giocasta, 103.
- Giosef d’Arimatia, 522.
- Giovanni, 520.
- Giove (love), 4, 6-11, 13, 16, 17, 21, 22, z8, 30, 34, 35, 38, 41, 42, 44, 54, 56, 57, 77, 85, 103, 106-108, 110, 115, 130, 138, 154, 166, 182, 192, 202, 227, 258, 261, 266, 275, 287, 370, 381, 395, 427, 442, 458, 461, 462, 471, 474, 478-480, 488, 491, 504, 507, 511, 515, 524, 562.
- Giudea, 516, 518.
- Giulia Topazia, 12, 14-16, 25, 27, 31-34, 43, 44, 46-59, 87, 243, 255, 260, 375, 499, 509, 529, 532, 534, 538, 540, 553, 555-57.
- Giulia (‛avola’), 45.
- Giulii (famiglia de’), 531.
- Giunone (Iunone), 3, 5, 21, 85, 106, 107, 130, 138, 182, 229, 243, 276, 290, 292, 381, 413, 414, 421, 445, 448, 465, 474, 477, 488.
- Giuseppe, 517, 519.
- Giustiniano, 511, 527, 531.
- Glorizia, 54, 56, 57, 87, 92, 94, 243, 244, 247, 248, 251, 254, 255, 402-409, 412, 414, 41S, 417, 418, 444, 453, 489, 499, 500, 502, 504, 508-510, 530, 532, 534-38, 540-42, 544, 561.
- Gorgone, 463.
- Gozo, 374.
- Granata, 104, 260.
- Graziosa, 353.
- Grillo, 68.
- Iafet, 513.
- Iante, 204.
- Iarba (re de’ Getuli), 104, 274.
- Ida, 78, 210.
- Idalagos, 461, 467, 468, 469, 484.
- Idamaria, 471, 472.
- Idra, 463.
- Ierusalem, 514, 517, 519, 520.
- Ifimedia, 290.
- Ifis, 204.
- Ilario, 511, 512, 516, 522, S23, 525-539, 545, 550, 553, 561, 563, 565.
- Ileo, 171.
- Ilion, 277.
- Imeneo, 12, 249, 413-15, 421, 442, 448, 488.
- Inaco, 515.
- Io, 182.
- Iole, 341.
- Iosuè, 514.
- Ipermestra, 232.
- Ippolito, 185, 198, 232, 283, 333.
- Ipsicratea, 15.
- Ircuscomos, 424, 425, 428, 430, 432, 433, 436, 437, 445.
- Issifile, 79.
- Italia, 458.
- Italo, 225.
- Iuvenzio Talva, 403.
- Lachesis, 204, 256.
- Laterano, 511, 544.
- Latona, 23, 129, 205, 287, 335.
- Laudamia, 354, 355.
- Lavinio, 541.
- Lazzaro, 520.
- Leandro, 267, 309, 358, 359, 378, 400.
- Leda, 220, 287, 442, 462.
- Lelio (Quinto Lelio Africano), 12-16, 23, 26-29, 31-38, 40-44, 47, 48, 50, 51, 55, 57, 87, 266, 375, 499, 500, 507-09, 529, 530, 532-534, 538, 540, 553-55, 557.
- Lelio (figlio di Lelio Africano), 530, 532, 534, 536, 538, 539, 553.
- Lendego, 374.
- Lenno, 232.
- Leone (costellazione), 421, 462.
- Lepre (costellazione), 463.
- Lesbos, 316.
- Lete, 85, 169, 219.
- Libia, 11, 269, 316.
- Libra, 462.
- Licaone, 135, 458.
- Licurgo, 436.
- Lieo, 473, 482.
- Longano, 304, 308.
- Longino, 522.
- Lucano, 564.
- Lucina, 56, 73, 362.
- Lucio Marzio, 145.
- Lucrezia, 309.
- Luna, 476, 483.
- Macareo, 290.
- Maccabei, 514.
- Macdalo, 520.
- Macedonia, 145.
- Manto, 225, 277.
- Marco Curzio, 320.
- Marco Marcello, 30.
- Maria (figlia naturale di Roberto d’Angiò): si fa allusione a p. 5.
- Maria Vergine, 516-18.
- Marmorina, 17, 22, 23, 52, 56, 58, 61, 95, 96, 97, 99, 103, 114, 116, 121, 141, 147, 163, 209, 217, 223, 22S, 227, 238, 241, 248, 252, 255-57, 263, 267, 274-76, 280, 281, 292, 431, 450, 455, 486, 487, 490, 491, 492, 545, 548, 553, 556, 557, 563.
- Maro (v. Vergilio), 294, 542.
- Marte, 3, 4, 12, 20, 21, 117, 118, 143, 144, 146, 154-56, 158, 161, 191, 194, 230, 231, 280, 298, 338, 340, 398, 400, 428, 445, 461, 474, 489, 496, 546, 564.
- Massalino (o Messalino), 104, 108, 267, 360, 364, 365, 434, 450, 493-495, 538, 544, 550, 562.
- Massamutino, 99, 104, 111, 149, 152-54, 158.
- Medea, 199, 232, 239, 265, 307, 339, 340, 370, 442.
- Melanione, 171.
- Meleagro, 81, 170.
- Meneab, 38.
- Menedon, 104, 108, 267, 311, 321, 325, 433, 434, 450, 489, 490, 492, 510, 512, 523, 526, 528, 538.
- Menelao, 174, 339, 340.
- Menilio Africano, 507-09. 530, 531, 534-40, 544, 545, 548, 553-56, 561, 563.
- Menone, 240.
- Mercurio 445, 461.
- Micol, 514.
- Mida, 308.
- Minerva, 60, 292, 445, 459.
- Minos, 374.
- Mirra, 78, 232.
- Mirteo (mare), 366, 455.
- Miseno, 366, 455.
- Mitridate, 15, 33.
- Moata, 374.
- Montone (Frisseo), 95, 452, 462.
- Montorio, 69, 71, 73, 74, 76, 78-80, 84, 85, 87, 88, 92-95, 97, 100, 102-04, 113, 114, 118, 140, 144, 152, 159, 161, 162, 165, 193, 198, 214, 222, 237, 255, 260, 267, 274, 280, 449.
- Mugnone, 225.
- Nabucodonosor, 515.
- Narciso, 76.
- Nazaret, 516.
- Nembrot, 515.
- Nereo, 316.
- Nerone, 507, 511.
- Nettunno, 4, 231, 246, 251, 274 276, 284, 286, 289, 290.
- Nicodemo, 521.
- Nino, 515.
- Niso, 123, 542, 543.
- Niso, 292, 293.
- Nola, 22.
- Oenone, 199.
- Orazio Cocle, 30.
- Orazio Pulvillo, 54.
- Orfeo, 339, 341, 414, 464.
- Orione, 115, 462.
- Ossa, 316.
- Otris, 316.
- Ottaviano, 145, 499, 516, 517.
- Ovidio, 60, 226, 311, 339, 396, 564.
- Pachino, 316.
- Palinuro, 287.
- Pallade, 5, 12, 54, 132, 203, 229, 250, 427, 445, 463.
- Paolo, 320.
- Parigi, 316.
- Paris, 67, 75, 78, 96, 174, 199, 231, 303, 333, 339, 340, 341, 400.
- Parmenione, 104, 107,150, 267, 294, 355, 357, 360, 370, 394, 395, 433, 441, 450, 470, 526, 535, 544, 562.
- Parnaso, 460.
- Partenope, 6, 226, 288, 296, 366, 367, 371, 397, 455, 470, 473, 552.
- Partia, 36.
- Pasife, 183, 231, 309, 334.
- Patmos, 316.
- Patroclo, 542, 543
- Paulo, 22.
- Pean, 42.
- Pelio, 316.
- Pelope, 110.
- Pelom, 72, 316.
- Penelope, 77, 172, 308.
- Pennea (v. Dafne), 12, 118, 427.
- Perillo, 228, 482.
- Peritoo, 542, 543.
- Persa, 22.
- Perseo, 75, 339, 401, 463.
- Persia, 210, 499, 515.
- Persio, 320.
- Perugia, 226.
- Pesci (costellazione), 462, 562.
- Pescina, 366.
- Piero, 292.
- Pilade, 542.
- Pilato, 521.
- Piramo, 34.
- Pirra, 231.
- Pisistrato, 137, 227, 345.
- Pittagora, 71.
- Pliadi, 272.
- Plutone (Pluto), 4, 6, 9, 10, 30, 36, 52, 54, 523.
- Po, 225, 239, 316.
- Pola, 343, 346.
- Polidoro, 456.
- Polinice, 135
- Polissena, 339.
- Polluce, 56, 73, 290, 562.
- Pompea, 240.
- Pompeana, 293.
- Pompeo, 45, 172, 307.
- Pondico, 374.
- Porsenna, 225.
- Porzia, 77.
- Pozzuolo, 226, 366, 455.
- Priapo, 4, 114.
- Procris, 144, 167.
- Progne, 135, 232, 265, 342.
- Prometeo, 9.
- Proteo, 240.
- Protesilao, 127, 354, 355.
- Publio Cassio, 30.
- Publio Gneo Scipione, 145.
- Puglia, 127.
- Quintilio, 509, 530, 531, 533, 534, 536-38, 540, 544, 545, 561, 563.
- Quinto Fulvio, 21.
- Quinto Marzio, 54.
- Racheo. 60, 64, 65, 75, 204.
- Ravenna, 225.
- Rodano, s, 292, 316.
- Rodi, 253, 374, 378, 390, 454.
- Roma, 12, 23, 27, 28, 30, 32, 33, 55, 56, 58, 85, 87, 122, 226, 374,
- 499-502, 504, 506-11, 515, 533-35, 537, 539, 540, 544, 553-57, 561, 563.
- Romolo, 515, 518.
- Ruberto, 5.
- Sadoc, 382, 384, 388-91, 393, 394, 396, 398-402, 430, 444, 449, 453, 552.
- Salomone, 71, 514.
- Salpadino, 109, 110.
- Samaritana, 520.
- Sansone, 514, 521.
- Sara (signore di Barca), 104, 108, 150, 550, 562.
- Sardanapalo, 515.
- Sardano, 243.
- Saturno, 5, 266, 374, 461, 496, 515.
- Scarpanto, 374.
- Scilla, 341.
- Scipione Africano, 86, 87, 442, 447, 531.
- Scurmenide, 37, 38.
- Secchia, 277.
- Sechilo, 374.
- Sem, 513.
- Semele, 138, 478.
- Semiramis, 78, 254, 334, 515.
- Sempronio, 540, 541, 562.
- Senna, 292, 316.
- Senocrate, 320.
- Senofonte, 68.
- Serena, 480.
- Sesto, 309.
- Sesto, 358.
- Sesto Fulvio, 29, 36-41.
- Settensolio, 499.
- Sibilla, 77, 226, 366, 518.
- Siculo, 175, 225.
- Silla (Lucio), 22.
- Simeone, 519.
- Simifonte, 226.
- Simon Fariseo, 520.
- Simon Pietro, 521.
- Siria, 165.
- Sirofane Egiziaco, 416.
- Sisife, 251, 252, 253, 371-74, 454.
- Siviglia, 51, 52.
- Sofocle, 320, 403.
- Soldano di Babillonia, 383, 447.
- Sonno (la dimora del), 219-20.
- Sorga, 5.
- Soria, 244.
- Spagna (v. Esperia), 7, 51, 52, 86, 145, 206, 215, 240, 252, 255, 280, 283, 286, 377, 379, 397, 442, 467, 500, 529, 532, 535, 537, 563.
- Spurino 138.
- Stazio, 29, 564.
- Stige, 36, 115, 118, 184.
- Sublicio (ponte), 30.
- Sulmona, 226, 487.
- Sulpizio Gaio, 29, 39, 40, 41.
- Tanai, 269, 316.
- Tanaquilla, 145, 336.
- Tantalo, 110, 307.
- Tarolfo, 311-14, 316-25.
- Tarpelio, 39.
- Tarsia, 22.
- Taumante, 3.
- Tauro (costellazione), 462, 562.
- Tebano, 313, 314, 317, 319-21, 323-325.
- Tebe, 103, 119, 313, 515.
- Tereo, 78, 110, 135, 292, 342.
- Teseo, 79, 342, 542, 543.
- Tessaglia, 172, 312, 316, 322.
- Tevere, 226, 277, 292, 316, 487, 518.
- Tiberina, 509, 536-38, 545, 561.
- Tiberio (nobile romano), 539.
- Tiberio Gracco, 15.
- Tieste, 135.
- Tifeo, 251.
- Tisbe, 34, 262.
- Titano, 290, 388, 445.
- Tolomeo, 309, 515.
- Trachilo, 374.
- Trazia, 40, 104, 292.
- Trinacria, 454.
- Tritoli, 366.
- Troia, 9, 103, 154, 173, 231, 515.
- Tullio (figlio di Tanaquilla), 145, 336.
- Tuscia, 458.
- Ulisse, 173.
- Utica, 28.
- Valerio Publicola, 320.
- Venedigo, 374.
- Venere (v. Citerea), 60, 69, 78, 84, 116, 118, 121, 130, 132, 138, 162, 201, 249, 250, 255, 276, 287, 298, 339, 340, 381, 387, 398, 400, 401, 410, 413, 416, 417, 427, 440, 445, 461, 462, 466, 474, 476, 477, 479, 481, 482, 489, 546.
- Vergilio (v. Maro), 339, 564.
- Vetruria, 541.
- Vigilio, 531, 536, 539, 545.
- Vulcano, 10, 117, 274.
- Zenone, 396.
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