- Decameron
- Giovanni Boccaccio
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- GIOVANNI BOCCACCIO
- IL
- DECAMERON
- a cura
- di
- ALDO FRANCESCO MASSÈRA
- VOLUME PRIMO
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- tipografi-editori-librai
- 1927
- Indice
- Proemio
- Giornata prima
- Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall’autore, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragionare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno.
- Introduzione
- Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall’autore, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno.
- Novella prima
- Ser Cepperello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
- Novella seconda
- Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
- Novella terza
- Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
- Novella quarta
- Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena.
- Novella quinta
- La marchesana di Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette, reprime il folle amore del re di Francia.
- Novella sesta
- Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi.
- Novella settima
- Bergamino, con una novella di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia nuova venuta in messer can della Scala.
- Novella ottava
- Guglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l’avarizia di messer Erminio de’ Grimaldi.
- Novella nona
- Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
- Novella decima
- Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare.
- Conclusione
- Seconda giornata
- nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
- Introduzione
- Novella prima
- Martellino, infignendosi attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno, è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d’esser impiccato per la gola, ultimamente scampa.
- Novella seconda
- Rinaldo d’Asti, rubato, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de’ suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
- Novella terza
- Tre giovani, male il loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate accontatosi tornandosi a casa per dispe lui truova essere la figliuola del re d’lnghilterra, la quale lui per marito prende e de’ suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
- Novella quarta
- Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale e da’ Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.
- Novella quinta
- Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.
- Novella sesta
- Madonna Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l’un de’ figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola di lui giace ed è messo in prigione. Cicilia ribellata al re Carlo, e il figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo fratello ritrova e in grande stato ritornano.
- Novella settima
- Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie.
- Novella ottava
- Il conte d’Anguersa, falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato, va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è nel primo stato ritornato.
- Novella nona
- Bernabò da Genova, da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa. Ella scampa, e in abito d’uomo serve il soldano; ritrova lo ’ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
- Novella decima
- Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di Paganin diviene.
- Conclusione
- Terza giornata
- nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui desiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.
- Introduzione
- Novella prima
- Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
- Novella seconda
- Un pallafrenier giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
- Novella terza
- Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d’un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che ’l piacer di lei avesse intero effetto.
- Novella quarta
- Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
- Novella quinta
- Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l’effetto segue.
- Novella sesta
- Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
- Novella settima
- Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode.
- Novella ottava
- Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.
- Novella nona
- Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d’una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
- Novella decima
- Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
- Conclusione
- Quarta giornata
- nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine.
- Introduzione
- Novella prima
- Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
- Novella seconda
- Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da’ suoi frati preso e incarcerato.
- Novella terza
- Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono.
- Novella quarta
- Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v’erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.
- Novella quinta
- I fratelli dell’Isabetta uccidon l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
- Novella sesta
- L’Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l’opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
- Novella settima
- La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore.
- Novella ottava
- Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
- Novella nona
- Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
- Novella decima
- La moglie d’un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell’arca dagli usurieri imbolata, laond’egli scampa dalle forche e i prestatori d’avere l’arca furata sono condannati in denari.
- Conclusione
- Quinta giornata
- nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse.
- Introduzione
- Novella prima
- Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
- Novella seconda
- Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
- Novella terza
- Pietro Boccamazza si fugge con l’Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de’ ladroni fugge, e dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l’Agnolella era, e sposatala con lei se ne torna a Roma.
- Novella quarta
- Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
- Novella quinta
- Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
- Novella sesta
- Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e divien marito di lei.
- Novella settima
- Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la ’ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
- Novella ottava
- Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene, pregato da’ suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
- Novella nona
- Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco.
- Novella decima
- Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo ’nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
- Conclusione
- Sesta giornata
- nella quale sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno.
- Introduzione
- Novella prima
- Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
- Novella seconda
- Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda.
- Novella terza
- Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
- Novella quarta
- Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
- Novella quinta
- Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.
- Novella sesta
- Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
- Novella settima
- Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
- Novella ottava
- Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l’erano a veder noiosi.
- Novella nona
- Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l’aveano.
- Novella decima
- Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
- Conclusione
- Settima giornata
- nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene avveduti o sì.
- Introduzione
- Novella prima
- Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
- Novella seconda
- Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha ad uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
- Novella terza
- Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
- Novella quarta
- Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
- Novella quinta
- Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
- Novella sesta
- Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
- Novella settima
- Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
- Novella ottava
- Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei. Il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
- Novella nona
- Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
- Novella decima
- Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
- Conclusione
- Ottava giornata
- nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l’uno uomo all’altro si fanno.
- Introduzione
- Novella prima
- Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
- Novella seconda
- Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
- Novella terza
- Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l’elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
- Novella quarta
- Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
- Novella quinta
- Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
- Novella sesta
- Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l’abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
- Novella settima
- Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole.
- Novella ottava
- Due usano insieme; l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace.
- Novella nona
- Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
- Novella decima
- Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d’esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
- Conclusione
- Nona giornata
- nella quale sotto il reggimento d’Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada.
- Introduzione
- Novella prima
- Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l’un per morto in una sepoltura, e l’altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
- Novella seconda
- Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
- Novella terza
- Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
- Novella quarta
- Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia.
- Novella quinta
- Calandrino s’innamora d’una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
- Novella sesta
- Due giovani albergano con uno, de’ quali l’uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro. Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
- Novella settima
- Talano d’Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e ’l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle.
- Novella ottava
- Biondello fa una beffa a Ciacco d’un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui sconciamente battere.
- Novella nona
- Due giovani domandano consiglio a Salamone, l’uno come possa essere amato, l’altro come gastigar debba la moglie ritrosa. All’un risponde che ami, all’altro che vada al Ponte all’oca.
- Novella decima
- Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo ’ncantamento.
- Conclusione
- Decima giornata
- Finisce la nona giornata del Decameron incomincia la decima ed ultima nella quale sotto il reggimento di Pànfilo si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a fatti d’amore o d’altra cosa
- Introduzione
- Novella prima
- Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
- Novella seconda
- Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e mèdicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa, e fallo friere dello Spedale.
- Novella terza
- Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
- Novella quarta
- Messer Gentil de’ Carisendi, venuto da Mòdona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio; e messer Gentile lei ed il figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico marito di lei.
- Novella quinta
- Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messere Ansaldo con l’obligarsi ad uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, ed il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo.
- Novella sesta
- Il re Carlo vecchio vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei ed una sua sorella onorevolmente marita.
- Novella settima
- Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un gentil giovane la marita; e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo cavaliere.
- Novella ottava
- Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a Roma; dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma; Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto, il che colui che fatto l’avea vedendo, sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
- Novella nona
- Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l’onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n’è recato a Pavia, e alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
- Novella decima
- Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d’un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto di uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra, e come marchesana l’onora e fa onorare.
- Conclusione
- Conclusione dell'autore
- Nota
- Indice dei nomi di persona
- Indice dei nomi di luoghi
- Altri progetti
- comincia il libro chiamato decameron, nel quale
- si contengono cento novelle in diece dí dette da
- sette donne e da tre giovani uomini.
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- Umana cosa è l’avere compassione degli afflitti, e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali giá hanno di conforto avuto mestiere ed hannol trovato in alcuni; tra li quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o giá ne ricevette piacere, io sono un di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo stato acceso d’altissimo e nobile amore, forse piú assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo io, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano ed alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto piú reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire: certo non per crudeltá della donna amata, ma per soperchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito, il quale, per ciò che a niun convenevole termine mi lasciava contento stare, piú di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto refrigerio giá mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima oppinione, per quello essere addivenuto che io non sia morto. Ma sí come a Colui piacque il quale, essendo egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre ad ogni altro fervente ed il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguirne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuí in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi piú cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso. Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici giá ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerá mai, sí come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, tra l’altre vertú è sommamente da commendare ed il contrario da biasimare, per non parere ingrato, ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dirmi posso, e se non a coloro che me aiutarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostenimento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi, quello doversi piú tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sí perché piú utilitá vi fará e sí ancora perché piú vi fia caro avuto. E chi negherá, questo, quantunque egli si sia, non molto piú alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto piú di forza abbian che le palesi, coloro il sanno che l’hanno provato e pruovano: ed oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il piú del tempo nel piccolo circúito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli, mossa da focoso disio, alcuna malinconia sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che, elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degl’innamorati uomini non avviene, sí come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare attorno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare o pescare, cavalcare, giucare e mercatare, de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, o in un modo o in uno altro, o consolazion sopravviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che per me in parte s’ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sí come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi piú avara fu di sostegno; in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago, il fuso e l’arcolaio; io intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistilenzioso tempo della passata mortalitá fatta, ed alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle, piacevoli ed aspri casi d’amore ed altri fortunosi avvenimenti si vedranno cosí ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le giá dette donne che quelle leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate ed utile consiglio potranno pigliare, e conoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Iddio che cosí sia, ad Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto di potere attendere a’ loro piaceri.
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- comincia la prima giornata del decameron, nella quale, dopo la dimostrazion fatta dall’autore, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone che appresso si mostrano ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di pampinea, si ragiona di quello che piú aggrada a ciascuno.
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- Introduzione
- Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall’autore, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno.
- Novella prima
- Ser Cepperello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
- Novella seconda
- Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
- Novella terza
- Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
- Novella quarta
- Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena.
- Novella quinta
- La marchesana di Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette, reprime il folle amore del re di Francia.
- Novella sesta
- Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi.
- Novella settima
- Bergamino, con una novella di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia nuova venuta in messer can della Scala.
- Novella ottava
- Guglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l’avarizia di messer Erminio de’ Grimaldi.
- Novella nona
- Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
- Novella decima
- Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare.
- Conclusione
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- Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá grave e noioso principio, sí come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalitá trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che questo di piú avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra’ sospiri e tra le lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed erta, appresso la quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto, il quale tanto piú viene loro piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello scendere la gravezza. E sí come la stremitá dell’allegrezza il dolore occupa, cosí le miserie da sopravvegnente letizia sono terminate. A questa brieve noia; dico brieve in quanto in poche lettere si contiene; seguirá prestamente la dolcezza ed il piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse da cosí fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io disidero che per cosí aspro sentiero come fia questo, io l’avrei volentier fatto: ma per ciò che qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissono, non si poteva senza questa rammemorazion dimostrare, quasi da necessitá costretto a scriverle mi conduco.
- Dico adunque che giá erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantitá di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. Ed in quella non valendo alcun senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la cittá da uficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazione della sanitá, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte ed in processioni ordinate ed in altre guise a Dio fatte dalle divote persone; quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna piú ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli». E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il giá detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere ed a venire: ed appresso questo, si cominciò la qualitá della predetta infermitá a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e cosí erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermitá né consiglio di medico né vertú di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse o che l’ignoranza de’ medicanti, de’ quali, oltre al numero degli scienziati, cosí di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta mai, era il numero divenuto grandissimo, non conoscesse da che si movesse e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopraddetti segni, chi piú tosto e chi meno, ed i piú senza alcuna febbre o altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate. E piú avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’ sani infermitá o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli infermi stata tócca o adoperata pareva seco quella cotale infermitá nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire, il che se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degna persona udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualitá della pestilenza narrata nell’appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto piú, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermitá, tócca da uno altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della ’nfermitá il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte, un dí, cosí fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermitá morto gittati nella via publica ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli, secondo il lor costume, prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, ammenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di leggeri, per ciò che ciascun, quasi non piú viver dovesse, aveva, sí come sè, le sue cose messe in abbandono, di che le piú delle case erano divenute comuni, e cosí l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. Ed in tanta afflizione e miseria della nostra cittá era la reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sí di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via: non istrignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sufficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle ’nfermitá e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di piú crudel sentimento, come che per avventura piú fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio, a punire l’iniquitá degli uomini, con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor cittá si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando, niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi cosí variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, intermandone di ciascuna molti ed in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, esemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, ed avere scarsitá di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito, che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, ed a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessitá della sua infermitá il richiedesse; il che in quelle che ne guerirono fu forse di minore onestá, nel tempo che succedette, cagione. Ed oltre a questo ne seguí la morte di molti che per avventura, se stati fossero aiutati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella cittá la moltitudine di quegli che di dí e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessitá, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che piú gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini ed altri cittadini assai, e secondo la qualitá del morto vi veniva il chericato, ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocitá della pestilenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono ed altre nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietá per salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro i corpi de’ quali fosser piú che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan «becchini», la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara, e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla piú vicina le piú volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume, e talfiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano piú tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno: per ciò che essi, il piú o da speranza o da povertá ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né aiutati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. Ed assai n’erano che nella strada publica o di dí o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il piú da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da caritá la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando averne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ giá passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente; né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie ed il marito, li due o tre fratelli, o il padre ed il figliuolo, o cosí fattamente ne contenieno. Ed infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto, e talfiata piú. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e noncuranti. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che ad ogni chiesa ogni dí e quasi ogni ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per li cimiteri delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvegnenti: ed in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia. Ed acciò che dietro ad ogni particularitá le nostre passate miserie per la cittá avvenute piú ricercando non vada, dico che cosí inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d’alcuna cosa risparmiò il circostante contado; nel quale, lasciando star le castella, che simili erano nella loro piccolezza alla cittá, per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro cólti e per le case, di dí e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi cosí nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano: anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che addivenne che i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli ed i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte, ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano: e molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcun correggimento di pastore si tornavano satolli. Che piú si può dire, lasciando stare il contado ed alla cittá ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltá del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra il marzo ed il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermitá e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura che aveano i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della cittá di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato, tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser vòti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime ereditá, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!
- A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravvolgendo; per che, volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che, stando in questi termini la nostra cittá, d’abitatori quasi vòta, addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedí mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre, quale a sí fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne, tutte l’una all’altra o per amistá o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il ventiottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestá. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa, che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate, nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere, che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano, non che alla loro etá, ma a troppo piú matura larghissime; né ancora dar materia agl’invidiosi, presti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestá delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualitá di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle; delle quali la prima, e quella che di piú etá era, Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, ed appresso Lauretta diremo alla quinta ed alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo. Le quali, non giá da alcuno proponimento tirate, ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo piú sospiri, lasciato stare il dir de’ paternostri, seco della qualitá del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare; e dopo alcuno spazio, tacendo l’altre, cosi Pampinea cominciò a parlare:
- — Donne mie care, voi potete, cosí come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascun che ci nasce, la sua vita, quanto può, aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo, tanto che alcuna volta è giá addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi ed a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo! Ognora che io vengo ben ragguardando alli nostri modi di questa mattina ed ancora a quegli di piú altre passate, e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avveggendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per noi a quello di che ciascuna meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramenti che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’ quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne’ nostri abiti, la qualitá e la quantitá delle nostre miserie. E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l’autoritá delle publiche leggi giá condannò ad esilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli esecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra cittá, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini ed in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non «I cotali son morti» e «Gli altrettali sono per morire»; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo. E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me addiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui ed in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. Ed ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l’appetito le cheggia, e soli ed accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte dell’obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che facciam noi qui? che attendiamo? che sognamo? Perché piú pigre e lente alla nostra salute che tutto il rimanente de’ cittadini siamo? Reputianci noi men care che tutte l’altre? o crediamo, la nostra vita con piú forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e cosí di niuna cosa curar dobbiamo la quale abbia forza d’offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate, ché bestialitá è la nostra se cosí crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento. E per ciò, acciò che noi per ischifiltá o per trascutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrá che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti esempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare, e quivi quella festa, quell’allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, ed i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, ed il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra cittá. Ed òvvi, oltre a questo, l’aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il numero delle noie: per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere, quanto vi sono piú che nella cittá rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con veritá dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose opportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopraggiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice piú a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente.
- L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan giá piú particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: — Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò cosí da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provvedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose, per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo piú tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provvederci avanti che cominciamo. — Disse allora Elissa: — Veramente gli uomini sono delle femine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi lá in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: ed il pregare gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sí fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.
- Mentre tra le donne erano cosí fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto, che meno di venticinque anni fosse l’etá di colui che piú giovane era di loro; ne’ quali né perversitá di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: ed andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: — Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, ed hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno se di prendergli a questo uficio non schiferemo. — Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: — Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente, niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’un di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sufficienti, e similmente avviso, loro buona compagnia ed onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo: ma per ciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo. — Disse allora Filomena: — Questo non monta niente; lá dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Iddio e la veritá l’armi per me prenderanno. Ora, fossero essi pur giá disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire, la fortuna essere alla nostra andata favoreggiarne. — L’altre, udendo costei cosí fattamente parlare, non solamente si tacquero, ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione, e pregassersi che dovesse lor piacere in cosí fatta andata lor tener compagnia. Per che, senza piú parole, Pampinea, levatasi in piè, la quale ad alcun di loro per consanguinitá era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece, e con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta e pregògli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, risposero lietamente, sé essere apparecchiati: e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. Ed ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato lá dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledí, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti ed i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della cittá, si misero in via: né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di vari albuscelli e piante tutte di verdi frondi ripiene piacevole a riguardare; in sul colmo della quale era un palagìo con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture ragguardevole ed ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con vòlte di preziosi vini: cose piú atte a curiosi bevitori che a sobrie ed oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, ed ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere. E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre ad ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: — Donne, il vostro senno piú che il nostro avvedimento ci ha qui guidati; io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della cittá allora che io con voi poco fa me n’uscii fuori, e per ciò o voi a sollazzare ed a ridere ed a cantare con meco insieme vi disponete; tanto, dico, quanto alla vostra dignitá s’appartiene; o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni, e steami nella cittá tribolata. — A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose: — Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatte fuggire. Ma per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa cosí bella compagnia è stata fatta, pensando al continuar della nostra letizia, estimo che di necessitá sia, convenire esser tra noi alcun principale, il quale noi ed onoriamo ed ubidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente vivere disporre. Ed acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza, e per conseguente, da una parte e d’altra tratti, non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che a ciascuno per un giorno s’attribuisca ed il peso e l’onore, e chi il primo di noi esser debba nell’elezion di noi tutti sia; di quegli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerá, quegli o quella che a colui o a colei piacerá che quel giorno avrá avuta la signoria: e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dée bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
- Queste parole sommamente piacquero, e ad una voce lei prima del primo giorno elessero, e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole ed apparente; la quale, méssale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.
- Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo giá fatti i famigliari de’ tre giovani e le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: — Acciò che io prima esemplo dèa a tutti voi per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliare di Dioneo, mio siniscalco, ed a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere, e di Parmeno sèguiti i comandamenti. Tindaro, al servigio di Filostrato e degli altri due, attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno alli loro ufici impediti, attender non vi potessero. Misia, mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno, ed alla nettezza de’ luoghi dove staremo. E ciascun generalmente, per quanto egli avrá cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o veggia, che niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori. — E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè, disse: — Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzandosi vada; e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.
- Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi ed amorosamente cantando. E poi che in quello tanto fûr dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, ed ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fûr presti: e senza piú, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle ed ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono; e levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani, e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero: e per comandamento di lei, Dioneo preso un leuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina con l’altre donne, insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono, e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. Ed in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire; per che, data a tutti la licenza, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e cosí di fiori piene come la sala trovarono: e simigliantemente le donne le loro, per che, spogliatesi, s’andarono a riposare.
- Non era di molto spazio sonata nona, che la reina, levatasi, tutte l’altre fece levare e similmente i giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno: e cosí se n’andarono in un pratello nel quale l’erba era verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole, e quivi, sentendo un soave venticello venire, si come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si posero in cerchio a sedere. A’ quali ella disse così:
- — Come voi vedete, il sole è alto ed il caldo è grande, né altro s’ode che le cicale su per gli ulivi, per che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, ed hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno secondo che all’animo gli è piú di piacere diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando, il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto, questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato ed il caldo mancato, e potremo dove piú a grado vi fia andare prendendo diletto: e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, facciánlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all’ora del vespro quello faccia che piú gli piace. — Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare. — Adunque, — disse la reina — se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che piú gli sará a grado. — E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all’altre desse principio; laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò cosí:
- [I]
- Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
- Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascuna cosa la quale l’uomo fa, dall’ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le déa principio; per che, dovendo io al nostro novellare, sí come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui si come in cosa impermutabile si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato.
- Manifesta cosa è che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niun fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse. La quale a noi ed in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignitá mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sí come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo, ora con lui eterni son divenuti e beati; alli quali noi medesimi, sí come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilitá, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo. Ed ancor piú lui verso noi di pietosa liberalitá pieno discerniamo: ché, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse talvolta che, da falsa oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestá facciamo procuratore che da quella con eterno esilio è scacciato: e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, piú alla puritá del pregator riguardando che alla sua ignoranza o all’esilio del pregato, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto beato esaudisce coloro che il priegano. Il che manifestamente potrá apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando.
- Ragionasi adunque che, essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato ed al venir promosso; sentendo egli li fatti suoi, sí come le piú volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua ed in lá, e non potersi di leggeri né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a piú persone, ed a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase, cui lasciar potesse sufficiente a riscuoter suoi crediti fatti a piú borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali: ed a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere, che opporre alla loro malvagitá si potesse. E sopra questa esaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava, il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che «cappello», cioè «ghirlanda», secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era, come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, lá dove pochi per ser Cepparello il conoscieno. Era questo Ciappelletto di questa vita. Egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando un de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti, di quanti fosse stato richesto, e quegli piú volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto: e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea, a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali ed inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire, tanto piú d’allegrezza prendea. Invitato ad uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volonterosamente v’andava, e piú volte a fedire e ad uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sí come colui che piú che alcuno altro era iracondo. A chiesa non usava giá mai, ed i sagramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e cosí in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri ed usavagli. Delle femine era cosí vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario piú che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia; giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo, forse, che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenza e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto, costui dovere esser tale quale la malvagitá de’ borgognoni il richiedea; e per ciò, fattolsi chiamare, gli disse cosí: — Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, ed avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro piú convenevole di te: e per ciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai, che convenevole sia. — Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo, e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessitá costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna, dove quasi niuno il conoscea: e quivi fuori di sua natura benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo. E cosí faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il servissero ed ogni cosa opportuna alla sua sanitá racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale giá era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui che aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte, ed un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare. — Che farem noi — diceva l’uno all’altro — di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra cosí infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare cosí sollecitamente, ed ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacerci debba, cosí subitamente di casa nostra, ed infermo a morte, vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sí malvagio uomo, che egli non si vorrá confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa, e morendo senza confessione, niuna chiesa vorrá il suo corpo ricevere, anzi sará gittato a’ fossi a guisa d’un cane; e se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e si orribili, che il simigliante n’avverrá, per ciò che frate né prete ci sará che il voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sará gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sí per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sí per la volontá che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverá a romore e griderá: «Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion piú sostenere!», e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore. — Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea lá dove costoro cosí ragionavano, avendo l’udire sottile, sí come le piú volte veggiamo aver gl’infermi, udí ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: — Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno; io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che cosí n’avverrebbe come voi dite, dove cosí andasse la bisogna come avvisate: ma ella andrá altramenti. Io ho vivendo tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né piú né meno ne fará. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate il piú che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri ed i miei in maniera che stará bene e che dovrete esser contenti. — I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcun santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo: e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita, e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea ed allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare ed appresso il domandò, quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: — Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta: senza che, assai sono di quelle che io mi confesso piú; è il vero che, poi che io infermai, che son passati da otto dí, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la ’nfermitá m’ha data. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, bene hai fatto, e cosí si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare. — Disse ser Ciappelletto: — Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal di che io nacqui infino a quello che confessato mi sono: e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntalmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi, e non mi riguardate perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue. — Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: — Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria. — Al quale il santo frate disse: — Di’ sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giá mai. — Disse allora ser Ciappelletto: — Poi che voi di questo mi fate sicuro, ed io il vi dirò: io son cosí vergine come io uscii del corpo della mamma mia. — O benedetto sii tu da Dio! — disse il frate — come bene hai fatto! E faccendolo hai tanto piú meritato, quanto, volendo, avevi piú d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti. — Ed appresso questo, il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sí, e molte volte: per ciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dí fosse uso di digiunare in pane ed in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, ed alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli. Al quale il frate disse: — Figliuol mio, questi peccati sono naturali, e sono assai leggeri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi piú la coscienza tua che bisogni. Ad ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli, dopo lungo digiuno, buono il manicare, e dopo la fatica, il bere. — Oh! — disse ser Ciappelletto — padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca. — Il frate, contentissimo, disse: — Ed io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona coscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando piú che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti? — Al quale ser Ciappelletto disse: — Padre mio, non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi c’era venuto per dovergli ammonire e gastigare e tôrgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse cosí visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie ed in quelle ho disiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metá convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metá dando loro: e di ciò m’ha sí bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei. — Bene hai fatto, — disse il frate — ma come ti se’ tu spesso adirato? — Oh! — disse ser Ciappelletto — cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dí gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dí che io vorrei piú tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanitá ed udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir piú tosto le vie del mondo che quella di Dio. — Disse allora il frate: — Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre. Ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria? — A cui ser Ciappelletto rispose: — Oimè! messere, o voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? O se io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani ed i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: «Va’, che Iddio ti converta». — Allora disse il frate: — Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sii tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono? — Mai messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io ho detto male d’altrui, per ciò che io ebbi giá un mio vicino che al maggior torto del mondo non faceva altro che batter la moglie, sí che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sí gran pietá mi venne di quella cattivella la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Iddio vel dica. — Disse allora il frate: — Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona cosí come fanno i mercatanti? — Gnaffe, — disse ser Ciappelletto — messer sí, ma io non so chi egli si fu: se non che uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto, ed io messigli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai che egli erano quattro piccioli piú che esser non doveano; per che, non riveggendo colui ed avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio. — Disse il frate: — Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti. — Ed oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E volendo egli giá procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: — Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto. — Il frate il domandò quale, ed egli disse: — Io mi ricordo che io feci al fante mio, un sabato dopo nona, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea. — Oh! — disse il frate — figliuol mio, cotesta è leggèr cosa. — No, — disse ser Ciappelletto — non dite leggèr cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in cosí fatto dí risuscitò da morte a vita il nostro Signore. — Disse allora il frate: — O altro hai tu fatto? — Messer sí, — rispose ser Ciappelletto — che io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio. — Il frate cominciò a sorridere, e disse: — Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dí vi sputiamo. — Disse allora ser Ciappelletto: — E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio. — Ed in brieve de’ cosí fatti ne gli disse molti: ed ultimamente cominciò a sospirare ed appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. Disse il santo frate: — Figliuol mio, che hai tu? — Rispose ser Ciappelletto: — Oimè! messere, che un peccato m’è rimaso del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire, ed ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Iddio mai non avrá misericordia di me per questo peccato. — Allora il santo frate disse: — Va’ via, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerá, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignitá e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente: e per ciò dillo sicuramente. — Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: — Oimè! padre mio, il mio è troppo gran peccato, ed appena posso credere, se i vostri prieghi non ci s’adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato. — A cui il frate disse: — Dillo sicuramente, che io ti prometto di pregare Iddio per te. — Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, ed il frate pure il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe una grandissima pezza tenuto il frate cosí sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: — Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, ed io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia. — E cosí detto, rincominciò a piagner forte. Disse il frate: — O figliuol mio, or párti questo cosí gran peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto il giorno Iddio, e si perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato: e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sí ti perdonerebbe egli. — Disse allora ser Ciappelletto: — Oimè! padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dí e la notte, e portommi in collo piú di cento volte! Troppo feci male a bestemmiarla, e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sará perdonato. — Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sí come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir cosí? E poi, dopo tutto questo, gli disse: — Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano: ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sè, piácevi egli che il vostro corpo sia sepellito al nostro luogo? — Al quale ser Ciappelletto rispose: — Messer sí, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Iddio per me: senza che, io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine; e per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me venga quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate, per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo con la vostra licenza di prenderlo, ed appresso la santa ed ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano. — Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e cosí fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, ed ascoltando, leggermente udivano ed intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva: ed aveano alcuna volta sí gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano, e tra sè talora dicevano: — Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermitá né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a piccola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagitá l’hanno potuto rimuovere, né far che egli cosí non voglia morire come egli è vivuto? — Ma pur, veggendo che sí aveva detto, che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò, e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione: e poco passato vespro, quel dí stesso che la buona confessione fatta avea, si morí. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero. Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea: e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenza e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati, creduli, s’accordarono: e la sera, andati tutti lá dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopra esso fecero una grande e solenne vigilia, e la mattina, tutti vestiti co’ cámisci e co’ pieviali, con li libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennitá il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della cittá, uomini e donne; e nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginitá, della sua simplicitá ed innocenza e santitá maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: — E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la corte di paradiso! — Ed oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtá e della sua puritá, ed in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, si il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno cosí fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in un’arca di marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella, ed a mano a mano il dí seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta. Ed intanto crebbe la fama della sua santitá e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversitá fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto, ed affermano, molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui. Cosí adunque visse e morí ser Cepparello da Prato e santo divenne, come avete udito; il quale negar non voglio, esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli potè in su lo stremo aver sí fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico, costui piú tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se cosí è, grandissima si può la benignitá di Dio conoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla puritá della fèri guardando, cosí faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversitá ed in questa compagnia cosí lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci raccomanderemo, sicurissimi d’essere uditi. — E qui si tacque.
- [II]
- Abraam giudeo, da Giannotto di Civigní stimolato, va in corte di Roma, e veduta la malvagitá de’ cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
- La novella di Panfilo fu in parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata ed alla sua fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la reina che, una dicendone, l’ordine dello ’ncominciato sollazzo seguisse. La quale, sí come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezze ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa:
- Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare, la benignitá di Dio non guardare a’ nostri errori quando da cosa che per noi veder non si possa procedano: ed io nel mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima benignitá, sostenendo pazientemente i difetti di coloro li quali d’essa ne deono dare e con l’opere e con le parole vera testimonianza, il contrario operando, di sé argomento d’infallibile veritá ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con piú fermezza d’animo seguitiamo.
- Sí come io, graziose donne, giá udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono uomo il quale fu chiamato Giannotto di Civigní, lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia: ed avea singulare amistá con un ricchissimo uomo giudeo chiamato Abraam, il quale similmente mercatante era, e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtá veggendo Giannotto, gl’incominciò forte ad increscere che l’anima d’un cosí valente e savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione, e per ciò amichevolmente lo ’ncominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornassesi alla veritá cristiana, la quale egli poteva vedere, sí come santa e buona, sempre prosperare ed aumentarsi, dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere. Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato ed in quella intendeva e vivere e morire: né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non istette per questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli cosí grossamente, come il piú i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica; e come che il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito santo sopra la lingua dell’uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto: ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava. Così come egli pertinace dimorava, cosí Giannotto di sollecitarlo non finava giá mai, tanto che il giudeo, da cosí continua istanza vinto, disse: — Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano: ed io sono disposto a farlo, sí veramente che io voglio in prima andare a Roma e quivi vedere colui il quale tu di’ che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi ed i suoi costumi, e similmente de’ suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali, che io possa tra per le tue parole e per quegli comprendere che la vostra fede sia miglior che la mia, come tu ti se’ ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t’ho: ove cosí non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono. — Quando Giannotto intese questo, fu in se stesso oltre modo dolente, tacitamente dicendo: — Perduta ho la fatica la quale ottimamente mi pareva avere impiegata, credendomi costui aver convertito: per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scellerata e lorda de’ cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma se egli fosse cristian fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe. — E ad Abraam rivolto disse: — Deh! amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa come a te sará d’andare di qui a Roma? Senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se’ c’è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti déa? E se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha maggior maestri e piú savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai dichiarire? Per le quali cose, al mio parere, questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono lá i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere, e piú: e tanto ancor migliori, quanto essi son piú vicini al pastor principale. E per ciò questa fatica per mio consiglio ti serberai in altra volta ad alcun perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia. — A cui il giudeo rispose: — Io mi credo, Giannotto, che cosí sia come tu mi favelli; ma recandoti le molte parole in una, io son del tutto, se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai cotanto pregato, disposto ad andarvi, ed altramenti mai non ne farò nulla. — Giannotto, veggendo il voler suo, disse: — E tu va’ con buona ventura! — e seco avvisò, lui mai non doversi far cristiano come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette. Il giudeo montò a cavallo, e come piú tosto potè, se n’andò in corte di Roma, dove pervenuto, da’ suoi giudei fu onorevolmente ricevuto; e quivi dimorando, senza dire ad alcuno perché ito vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del papa e de’ cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani: e tra che egli s’accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale ma ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, intanto che la potenza delle meretrici e de’ garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v’era di piccol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e piú al ventre serventi a guisa d’animali bruti, appresso alla lussuria, che ad altro gli conobbe apertamente; e piú avanti guardando, intanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l’uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, clienti che elle si fossero o a sacrifici o a benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantía faccendone e piú sensali avendone che a Parigi di drappi o d’alcuna altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia «procureria» posto nome ed alla gulositá «sostentazioni», quasi Iddio, lasciamo stare il significato de’ vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi animi non conoscesse, ed a guisa degli uomini a’ nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali, insieme con molte altre che da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sí come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a Parigi; e cosí fece. Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de’ cardinali e degli altri cortigiani gli parea. Al quale il giudeo prestamente rispose: — Parmene male che Iddio déa a quanti sono: e dicoti cosí, che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santitá, niuna divozione, niuna buona opera o esemplo di vita o d’altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve, ma lussuria, avarizia e gulositá, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori, se piggiori esser possono in alcuno, mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho piú tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore e per conseguente tutti gli altri si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, lá dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella. E per ciò che io veggio, non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e piú lucida e piú chiara divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito santo esser d’essa, sí come di vera e di santa piú che alcuna altra, fondamento e sostegno; per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a’ tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa, e quivi secondo il debito costume della vostra santa fede mi fa’ battezzare. — Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui cosí udí dire, fu il piú contento uomo che giá mai fosse: ed a Nostra Dama di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di lá entro che ad Abraam dovessero dare il battesimo. Li quali, udendo che esso l’addomandava, prestamente il fecero; e Giannotto il levò del sacro fonte e nominollo Giovanni, ed appresso a gran valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede, la quale egli prestamente apprese: e fu poi buono e valente uomo e di santa vita.
- [III]
- Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli.
- Poi che, commendata da tutti la novella di Neifile, ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena cosí cominciò a parlare:
- La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria il dubbioso caso giá avvenuto ad un giudeo; e per ciò che giá e di Dio e della veritá della nostra fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti ed agli atti degli uomini non si dovrá disdire, ed a narrarvi quella verrò, la quale udita, forse piú caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero.
- Voi dovete, amorose compagne, sapere che, sí come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima miseria, cosí il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande ed in sicuro riposo. E che vero sia che la sciocchezza di buono stato in miseria alcun conduca, per molti esempli si vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo che tutto il dí mille n’appaiano manifesti: ma che il senno di consolazion sia cagione, come premisi, per una novelletta mostrerò brievemente.
- Il Saladino, il valore del quale fu tanto, che non solamente di piccolo uomo il fe’ di Babilonia soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre ed in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantitá di denari, né veggendo donde cosí prestamente come gli bisognavano avergli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria: e pensossi, costui avere da poterlo servire, quando volesse, ma sì era avaro, che di sua volontá non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivòltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s’avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata, e fattolsi chiamare e famigliarmente ricevutolo, seco il fece sedere ed appresso gli disse: — Valente uomo, io ho da piú persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti: e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana. — Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre piú l’una che l’altre lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione; per che, come colui al qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse; e disse: — Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, ed a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu giá, il quale, intra l’altre gioie piú care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore ed in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sí come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e reverito: e colui al quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine ne’ suoi discendenti, e cosí fece come fatto avea il suo predecessore. Ed in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori, ed ultimamente pervenne alle mani ad uno il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava: ed i giovani, li quali la consuetudine dell’anello sapevano, sí come vaghi ciascuno d’essere il piú onorato tra’ suoi, ciascun per sé come meglio sapeva pregava il padre, il quale era giá vecchio, che quando a morte venisse a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a quale piú tosto lasciarlo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente ad un buon maestro ne fece fare due altri, li quali si furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si fosse il vero; e venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali dopo la morte del padre volendo ciascuno l’ereditá e l’onore occupare, e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello: e trovatisi gli anelli sí simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente, ed ancor pende. E cosí vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua ereditá, la sua vera legge ed i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione. — Il Saladino conobbe, costui ottimamente esser saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse: e cosí fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se cosí discretamente, come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d’ogni quantitá che il Saladino il richiese il serví, ed il Saladino poi interamente il sodisfece, ed oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe ed in grande ed onorevole stato appresso di sé il mantenne.
- IV
- Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa si libera dalla pena.
- Giá si tacea Filomena dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo giá per l’ordine cominciato che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa cominciò a parlare:
- Amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte compresa, noi siamo qui per dovere a noi medesimi novellando piacere, e per ciò, solamente che contro a questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere esser licito, e cosí ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse, quella novella dire che piú crede che possa dilettare; per che, avendo udito, per li buoni consigli di Giannotto di Civigni Abraam aver l’anima salvata e Melchisedech per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza riprensione attender da voi, intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo di gravissima pena liberasse.
- Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, un monistero giá di santitá e di monaci piú copioso che oggi non è, nel quale, tra gli altri, era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza, né i digiuni né le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura, un giorno in sul mezzodí, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo da tórno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovanetta assai bella, forse figliuola d’alcun de’ lavoratori della contrada, la quale andava per li campi certe erbe cogliendo: né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi piú presso, con lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n’accorse. E mentre che egli, da troppa volontá trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentí lo schiamazzío che costoro insieme faceano: e per conoscere meglio le voci s’accostò chetamente all’uscio della cella ad ascoltare, e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina, e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di volere tenere in ciò altra maniera, e tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccío di piedi per lo dormentoro, ad un piccol pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare ad ascoltarlo, e molto ben comprese, l’abate aver potuto conoscere quella giovane esser nella sua cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovarne potesse. Ed occorsagli una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne, e faccendo sembianti che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le disse: — Io voglio andare a trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta, e per ciò statti pianamente infino alla mia tornata. — Ed uscito fuori e serrata la cella con la chiave, dirittamente se n’andò alla camera dell’abate, e presentatagli quella, secondo che ciascun monaco facea quando fuori andava, con un buon volto disse: — Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io aveva fatte fare, e per ciò con vostra licenza io voglio andare al bosco e farnele venire. — L’abate, per potersi piú pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di tale accidente, e volentier prese la chiave e similmente gli die’ licenza. E come il vide andato via, cominciò a pensare qual far volesse piú tosto: o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare contro di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna. E pensando seco stesso che questa potrebbe esser tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito: e chetamente andatosene alla cella, quella aprí ed entrò dentro, e l’uscio richiuse. La giovane veggendo venir l’abate tutta smarrí, e temendo di vergogna cominciò a piagnere. Messer l’abate, postole l’occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse, sentí subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco, e tra se stesso cominciò a dire: — Deh! perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane, ed è qui che niuna persona del mondo il sa; se io la posso recare a fare i piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi il saprá? Egli nol saprá persona mai, e peccato celato è mezzo perdonato. Questo caso non avverrá forse mai piú. Io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene quando Domenedio ne manda altrui. — E cosí dicendo, ed avendo del tutto mutato proposito da quello per che andato v’era, fattosi piú presso alla giovane, pianamente la cominciò a confortare ed a pregarla che non piagnesse: e d’una parola in un’altra procedendo, ad aprirle il suo disidèro pervenne. La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a’ piaceri dell’abate, il quale, abbracciatala e basciatala piú volte, in sul letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignitá ed alla tenera etá della giovane, temendo forse di non offenderla per troppa gravezza, non sopra il petto di lei salí ma lei sopra il suo petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò. Il monaco, che fatto avea sembianti d’andare al bosco, essendo nel dormentoro occultato, come vide l’abate solo nella sua cella entrare, cosí tutto rassicurato estimò il suo avviso dovere avere effetto: e veggendol serrar dentro, l’ebbe per certissimo. Ed uscito di lá dove era, chetamente n’andò ad un pertugio per lo quale ciò che l’abate fece o disse, ed udí e vide. Parendo all’abate essere assai con la giovanetta dimorato, serratala nella cella, alla sua camera se ne tornò, e dopo alquanto, sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la guadagnata preda: e fattolsi chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese, e comandò che fosse in carcere messo. Il monaco prontissimamente rispose: — Messere, io non sono ancora tanto all’ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularitá di quello apparata; e voi ancora non m’avevate mostrato che i monaci si debban far dalle femine priemere come da’ digiuni e dalle vigilie: ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai piú in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare. — L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe, costui non solamente aver piú di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto; per che, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sí come lui, aveva meritato: e perdonatogli ed impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovanetta di fuori, e poi piú volte si dèe credere la vi facesser tornare.
- V
- La marchesana di Monferrato con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di Francia.
- La novella da Dioneo raccontata prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno: e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi astenere, sogghignando ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poi che lui con alquante dolci parolette ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fossero tra donne da raccontare, la reina, verso la Fiammetta che appresso di lui sopra l’erba sedeva rivolta, che essa l’ordine seguitasse le comandò; la quale vezzosamente e con lieto viso incominciò:
- Sí perché mi piace, noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sí ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di piú alto legnaggio che egli non è, cosí nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dell’amore di maggiore uomo che ella non è, m’è caduto nell’animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna sé da questo guardasse ed altrui ne rimovesse.
- Era il marchese di Monferrato, uomo d’alto valore, gonfaloniere della Chiesa oltremare passato in un general passaggio da’ cristiani fatto con armata mano; e del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar di Francia s’apparecchiava, fu per un cavalier detto, non esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna: però che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni vertú il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa. Le quali parole per sì fatta maniera nell’animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare, e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova, acciò che, quivi per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio. E secondo il pensier fatto mandò ad esecuzione: per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino, ed avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l’attendesse a desinare. La donna, savia ed avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. Ed appresso entrò in pensiero, che questo volesse dire, che un cosí fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare: né la ’ngannò in questo l’avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamar di que’ buoni uomini che rimasi v’erano, ad ogni cosa opportuna con lor consiglio fece ordine dare: ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a’ suoi cuochi per lo convito reale. Venne adunque il re il giorno detto, e con gran festa ed onore dalla donna fu ricevuto; il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio piú accendendosi, quanto da piú trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene, venuta l’ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la loro qualitá ad altre mense furono onorati. Quivi, essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, ed oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea. Ma pur, venendo l’un messo appresso l’altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, nonpertanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse, il luogo lá dove era dovere esser tale, che copiosamente di diverse salvaggine aver vi dovesse, e l’avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l’avesse dato di poter far cacciare, nonpertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagion di doverla mettere in parole se non delle sue galline; e con lieto viso rivòltosi verso lei disse: — Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno? — La marchesana, che ottimamente la domanda intese, parendole che secondo il suo disidèro Domenedio l’avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose: — Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti ed in onori alquanto dall’altre variino, tutte per ciò son fatte qui come altrove. — Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la vertú nascosa nelle parole, ed accorsesi che invano con cosí fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v’avea luogo; per che cosí come disavvedutamente acceso s’era di lei, saviamente s’era da spegnere per onor di lui il male concetto fuoco. E senza piú motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò, e finito il desinare, acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò.
- [VI]
- Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi.
- Emilia, la quale appresso la Fiammetta sedea, essendo giá stato da tutte commendato il valore ed il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla sua reina piacque, baldanzosamente a dir cominciò:
- Né io altressí tacerò un morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso con un motto non meno da ridere che da commendare.
- Fu adunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra cittá un frate minore inquisitore dell’eretica pravitá, il quale, come che molto s’ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sí come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per ventura gli venne trovato un buono uomo, assai piú ricco di denar che di senno, al quale, non giá per difetto di fede ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una sua brigata, sé avere un vino sí buono, che ne berrebbe Cristo. Il che essendo allo ’nquisitor rapportato ed egli sentendo che li suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa, cum gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli un processo gravissimo addosso, avvisando, non di ciò alleviamento di miscredenza nello ’nquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere, come fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era stato detto. Il buono uomo rispose del sí, e dissegli il modo. A che lo ’nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Barbadoro disse: — Adunque hai tu fatto Cristo bevitore e vago de’ vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri: ed ora, umilmente parlando, vuogli mostrare questa cosa molto esser leggera? Ella non è come ella ti pare: tu n’hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo come noi dobbiamo verso te operare. — E con queste e con altre parole assai, col viso dell’arme, quasi costui fosse stato epicuro negante l’eternitá dell’anime, gli parlava; ed in brieve tanto lo spaurí, che il buono uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantitá della grascia di san Giovanni Boccadoro ugner le mani, la quale molto giova alle ’nfermitá delle pistilenziose avarizie de’ cherici, e spezialmente de’ frati minori che i denari non osan toccare, acciò che egli dovesse verso lui misericordiosamente operare. La quale unzione, sí come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue medicine, sí e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò in una croce: e quasi al passaggio d’oltremare andar dovesse, per far piú bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. Ed oltre a questo, giá ricevuti i denari, piú giorni appresso di sé il sostenne, per penitenza dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce ed all’ora del mangiare davanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del giorno quello che piú gli piacesse potesse fare. Il che costui diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l’altre che egli udí alla messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: «Voi riceverete per ognun cento, e possederete la vita eterna», le quali esso nella memoria fermamente ritenne; e secondo il comandamento fattogli, ad ora di mangiare davanti allo ’nquisitor venendo, il trovò desinare. Il quale lo ’nquisitor domandò se egli avesse la messa udita quella mattina. Al quale esso prestamente rispose: — Messer sí. — A cui lo ’nquisitor disse: — Udistú, in quella, cosa niuna della quale tu dubiti o vogline domandare? — Certo — rispose il buono uomo — di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere; udinne io bene alcuna che m’ha fatto e fa avere di voi e degli altri vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di lá nell’altra vita dovrete avere. — Disse allora lo ’nquisitore: — E quale fu quella parola che t’ha mosso ad aver questa compassion di noi? — Il buono uomo rispose: — Messere, ella fu quella parola dell’evangelio la qual dice: Voi riceverete per ognun cento». — Lo ’nquisitore disse: — Questo è vero; ma perché t’ha per ciò questa parola commosso? — Messere, — rispose il buono uomo — io vel dirò. Poi che io usai qui, ho io ognidí veduto dar qui di fuori a molta povera gente quando una e quando due grandissime caldaie di broda, la quale a’ frati di questo convento ed a voi si toglie, sí come soperchia, davanti; per che, se per ognuna cento ve ne fieno rendute di lá, voi n’avrete tanta, che voi dentro tutti vi dovrete affogare. — Come che gli altri che alla tavola dello ’nquisitore erano tutti ridessono, lo ’nquisitore sentendo trafiggere la lor brodaiuola ipocresia tutto si turbò, e se non fosse che biasimo portava di quello che fatto avea, uno altro processo gli avrebbe addosso fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni aveva morsi: e per bizzarria gli comandò che quello che piú gli piacesse facesse senza piú davanti venirgli.
- VII
- Bergamino con una novella di Primasso e dell’abate di Cligni onestamente morde un’avarizia nuova venuta in messer Cane della Scala.
- Mosse la piacevolezza d’Emilia e la sua novella la reina e ciascuno altro a ridere ed a commendare il nuovo avviso del crociato; ma poi che le risa rimase furono e racquetato ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a parlare:
- Bella cosa è, valorose donne, il fedire un segno che mai non si muti: ma quella è quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arcere è fedita. La viziosa e lorda vita de’ cherici, in molte cose quasi di cattivitá fermo segno, senza troppa difficultá dá di sé da parlare, da mordere e da riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare: e per ciò, come che ben facesse il valente uomo che lo ’nquisitore dell’ipocrita caritá de’ frati, che quello danno a’ poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via, trafisse, assai estimo piú da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente novella, parlar debbo, il quale messer Cane della Scala, magnifico signore, d’una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire; la quale è questa.
- Sí come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai cose fu favorevole la fortuna, fu un de’ piú notabili e de’ piú magnificili signori che dallo ’mperadore Federigo secondo in qua si sapesse in Italia. Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, ed a quella molte genti e di varie parti fosser venute, e massimamente uomini di corte d’ogni maniera, subito, qual che la cagion fosse, da ciò si ritrasse, ed in parte provvedette coloro che venuti v’erano e licenziolli. Solo uno chiamato Bergamino, oltre al credere di chi non l’udí presto parlatore ed ornato, senza essere d’alcuna cosa provveduto o licenza datagli, si rimase, sperando che non senza sua futura utilitá ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di messer Cane era caduto, ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta che se nel fuoco fosse stata gittata: né di ciò gli dicea o facea dire alcuna cosa. Bergamino dopo alquanti dí, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier pertenesse, ed oltre a ciò, consumarsi nell’albergo co’ suoi cavalli e co’ suoi fanti, incominciò a prender malinconia: ma pure aspettava, non parendogli ben far di partirsi. Ed avendo seco portate tre belle e ricche robe, che donate gli erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa, volendo il suo oste esser pagato, primieramente gli diede l’una, ed appresso, soprastando ancora molto piú, convenne, se piú volle col suo oste tornare, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare, disposto di tanto stare a vedere quanto quella durasse, e poi partirsi. Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso; il quale messer Can veggendo, piú per istraziarlo che per diletto pigliare d’alcun suo detto, disse: — Bergamino, che hai tu? Tu stai cosí malinconoso! Dinne alcuna cosa. — Bergamino allora, senza punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti suoi disse questa novella: — Signor mio, voi dovete sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica, e fu oltre ad ogni altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto ragguardevole e sí famoso, che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi fosse Primasso. Ora, avvenne che, trovandosi egli una volta a Parigi in povero stato, sí come egli il piú del tempo dimorava, per la vertú che poco era gradita da coloro che possono assai, udí ragionare d’uno abate di Cligní, il quale si crede che sia il piú ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal papa in fuori; e di lui udí dire maravigliose e magnifiche cose in tener sempre corte e non esser mai, ad alcuno che andasse lá dove egli fosse, negato né mangiar né bere, solo che, quando l’abate mangiasse, il domandasse. La qual cosa Primasso udendo, sí come uomo che si dilettava di vedere i valenti uomini e signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A che gli fu risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo; al quale Primasso pensò di potervi essere, movendosi la mattina a buona ora, ad ora di mangiare. Fattasi adunque la via insegnare, non trovando alcun che v’andasse, temette non per isciagura gli venisse smarrita, e quinci potere andare in parte dove cosí tosto non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre pani, avvisando che dell’acqua, come che ella gli piacesse poco, troverebbe in ogni parte da bere. E quegli messisi in seno, prese il suo cammino e vennegli sí ben fatto, che avanti ora di mangiare pervenne lá dove l’abate era. Ed entrato dentro, andò riguardando per tutto, e veduta la gran moltitudine delle tavole messe ed il grande apparecchio della cucina e l’altre cose per lo desinare apprestate, tra se medesimo disse: — Veramente è questi cosí magnifico come uom dice. — E stando alquanto intorno a queste cose attento, il siniscalco dell’abate, per ciò che ora era di mangiare, comandò che l’acqua si desse alle mani, e data l’acqua, mise ogni uomo a tavola. E per ventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto di rimpetto all’uscio della camera donde l’abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era in quella corte questa usanza, che in su le tavole vino né pane né altre cose da mangiare o da ber si ponea giá mai, se prima l’abate non veniva a sedere alla tavola. Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire all’abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era presto. L’abate fece aprir la camera per venir nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura il primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l’ebbe, incontanente gli corse nell’animo un pensiero cattivo e mai piú non istatovi, e disse seco: — Vedi a cui io do mangiare il mio! — E tornandosi addietro, comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano, se alcuno conoscesse quel ribaldo che di rimpetto all’uscio della sua camera sedeva alle tavole. Ciascuno rispose del no. Primasso, il quale avea talento di mangiare, come colui che camminato avea ed uso non era di digiunare, avendo alquanto aspettato e veggendo che l’abate non veniva, si trasse di seno l’un de’ tre pani li quali portati aveva, e cominciò a mangiare. L’abate, poi che alquanto fu stato, comandò ad un de’ suoi famigliari che riguardasse se partito si fosse questo Primasso. Il famigliare rispose: — Messer no, anzi mangia pane il quale mostra che egli seco recasse. — Disse allora l’abate: — Or mangi del suo, se egli n’ha, ché del nostro non mangerá egli oggi. — Avrebbe voluto l’abate che Primasso da se stesso si fosse partito, per ciò che accommiatarlo non gli pareva far bene. Primasso, avendo l’un pane mangiato e l’abate non venendo, cominciò a mangiare il secondo, il che similmente all’abate fu detto, che fatto avea guardare se partito si fosse. Ultimamente, non venendo l’abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo, il che ancora fu all’abate detto. Il quale seco stesso cominciò a pensare ed a dire: — Dch! questa che novitá è oggi, che nell’anima m’è venuta? che avarizia? chente sdegno? e per cui? Io ho dato mangiare il mio, giá è molti anni, a chiunque mangiar n’ha voluto, senza guardare se gentile uomo è o villano, o povero o ricco, o mercatante o barattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l’occhio me l’ho veduto straziare, né mai nell’animo m’entrò questo pensiero che per costui mi c’è entrato; fermamente avarizia non mi dèe avere assalito per uomo di piccolo affare: qualche gran fatto dèe esser costui che ribaldo mi pare, poscia che cosí mi s’è rintuzzato l’animo d’onorarlo. — E cosí detto, volle sapere chi fosse: e trovato che era Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenza quello che n’aveva udito, il quale avendo l’abate per fama molto tempo davanti per valente uom conosciuto, si vergognò, e vago di far l’ammenda, in molte maniere s’ingegnò d’onorarlo. Ed appresso mangiare, secondo che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe’ nobilmente vestire, e donatigli denari ed un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l’andare e lo stare; di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a Parigi, donde a piè partito s’era, ritornò a cavallo. — Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse: — Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua vertú e la mia avarizia e quel che da me disideri: e veramente mai piú che ora per te da avarizia assalito non fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato. — E fatto pagare l’oste di Bergamino e lui nobilissimamente d’una sua roba vestito, datigli denari ed un pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l’andare e lo stare.
- VIII
- Guiglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l’avarizia di messere Ermino de’ Grimaldi.
- Sedeva appresso Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la ’ndustria di Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcuno comandamento aspettare, piacevolmente cosí cominciò a parlare:
- La precedente novella, care compagne, m’induce a voler dire come un valente uomo di corte similmente, e non senza frutto, pugnesse d’un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale, perché l’effetto della passata somigli, non vi dovrá per ciò esser men cara, pensando che bene n’addivenisse alla fine.
- Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de’ Grimaldi, il quale, per quello che da tutti era creduto, di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia; e sí come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, cosí d’avarizia e di miseria ogni altro misero ed avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che, non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi, che usi sono di nobilemente vestire, sosteneva egli, per non ispendere, difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era de’ Grimaldi caduto il soprannome, e solamente messere Ermino Avarizia era da tutti chiamato. Avvenne che, in questi tempi che costui non ispendendo il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente uomo di corte e costumato e ben parlante, il qual fu chiamato Guiglielmo Borsiere, non miga simile a quegli li quali sono oggi, li quali, non senza gran vergogna de’ corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, son piú tosto da dire asini nella bruttura di tutta la cattivitá de’ vilissimi uomini allevati che nelle corti. E lá dove a que’ tempi soleva essere il lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci dove guerre o sdegni tra gentili uomini fosser nati o trattar matrimoni, parentadi ed amistá, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti e con agre riprensioni, sí come padri, mordere i difetti de’ cattivi, e questo con premi assai leggeri; oggidí in rapportar male dall’uno all’altro, in seminare zizzania, in dir cattivitá e tristizie, e che è peggio, in farle nella presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere e non vere l’uno all’altro e con false lusinghe gli uomini gentili alle cose vili e scellerate ritrarre s’ingegnano il lor tempo di consumare. E colui è piú caro avuto e piú da’ miseri e scostumati signori onorato e con premi grandissimi esaltato, che piú abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna e biasimevole del mondo presente, ed argomento assai evidente che le vertú, di qua giú dipartitesi, hanno nella feccia de’ vizi i miseri viventi abbandonati. Ma tornando a ciò che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m’ha trasviata piú che io non credetti, dico che il giá detto Guiglielmo da tutti i gentili uomini di Genova fu onorato e volentier veduto; il quale, essendo dimorato alquanti giorni nella cittá ed avendo udite molte cose della miseria e dell’avarizia di messere Ermino, il volle vedere. Messere Ermino aveva giá sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure avendo in sé, quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con parole assai amichevoli e con lieto viso il ricevette e con lui entrò in molti e vari ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con altri genovesi che con lui erano, in una sua casa nuova, la quale fatta aveva fare assai bella; e dopo avergliele tutta mostrata, disse: — Deh! messer Guiglielmo, voi che avete e vedute ed udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai piú non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere nella sala di questa mia casa? — A cui Guiglielmo, udendo il suo mal conveniente parlare, rispose: — Messere, cosa che non fosse mai stata veduta non vi crederei io sapere insegnare, se ciò non fosser giá starnuti o cose a quegli simiglianti: ma se vi piace, io ve ne ’nsegnerò bene una che voi non credo che vedeste giá mai. — Messere Ermino disse: — Deh! io ve ne priego, ditemi quale è dessa — non aspettando, lui quello dover rispondere che rispose. A cui Guiglielmo allora prestamente disse: — Fateci dipignere la cortesia. — Come messere Ermino udí questa parola, cosí subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che infino a quella ora aveva avuto, e disse: — Messer Guiglielmo, io la ci farò dipignere in maniera, che mai né voi né altri con ragione mi potrá piú dire che io non l’abbia veduta e conosciuta. — E da questo di innanzi, di tanta vertú fu la parola da Guiglielmo detta, fu il piú liberale ed il piú grazioso gentile uomo e quello che piú ed i forestieri ed i cittadini onorò che altro che in Genova fosse a’ tempi suoi.
- IX
- Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
- Ad Elissa restava l’ultimo comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole cominciò:
- Giovani donne, spesse volte giá addivenne che quello che varie riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte per accidente, non che ex proposito, detta l’ha operato. Il che assai bene appare nella novella raccontata dalla Lauretta, ed io ancora con un’altra assai brieve ve l’intendo dimostrare, perché, con ciò sia cosa che le buone sempre possan giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che d’esse sia il dicitore.
- Dico adunque che ne’ tempi del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terrasanta da Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da alcuni scellerati uomini villanamente fu oltraggiata; di che ella senza alcuna consolazion dolendosi, pensò d’andarsene a richiamare al re: ma detto le fu per alcuno che la fatica si perderebbe, per ciò che egli era di sí rimessa vita e da sí poco bene, che, non che egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltá a lui fattene sosteneva, intanto che chiunque aveva cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava. La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose di voler mordere la miseria del detto re; ed andatasene piagnendo davanti a lui, disse: — Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ’ngiuria che m’è stata fatta: ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare, la quale, sallo Iddio, se io farlo potessi, volentieri la ti donerei, poi cosí buono portatore ne se’. — Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ’ngiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all’onore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi.
- X
- Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare.
- Restava, tacendo giá Elissa, l’ultima fatica del novellare alla reina, la quale donnescamente cominciando a parlar disse:
- Valorose giovani, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’ verdi prati, cosí de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti piacevoli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio alle donne stanno che agli uomini, in quanto piú alle donne che agli uomini il molto parlare e lungo, quando senza esso si possa far, si disdice, come che oggi poche o niuna donna rimasa ci sia la quale o ne ’ntenda alcun leggiadro o a quello, se pur lo ’ntendesse, sappia rispondere: general vergogna e di noi e di tutte quelle che vivono. Per ciò che quella vertú che giá fu nell’anime delle passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo, e colei la quale si vede indosso li panni piú screziati e piú vergati e con piú fregi si crede dovere essere da molto piú tenuta e piú che l’altre onorata, non pensando che, se fosse chi addosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo piú che alcuna di loro: né per ciò piú da onorar sarebbe che uno asino. Io mi vergogno di dirlo, per ciò che contro all’altre non posso dire che io contro a me non dica: queste cosí fregiate, cosí dipinte, cosí screziate o come statue di marmo mutole ed insensibili stanno o si rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe meglio l’aver taciuto; e fannosi a credere che da puritá d’animo proceda il non saper tra le donne e co’ valenti uomini favellare, ed alla lor milensaggine hanno posto nome onestá, quasi niuna donna onesta sia se non colei che con la fante o con la lavandaia o con la sua fornaia favella, il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare. È il vero che, cosí come nell’altre cose, è in questa da riguardare ed il tempo ed il luogo e con cui si favella, per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna o uomo con alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo ben le sue forze con quelle di quel cotal misurate, quello rossore che in altrui ha creduto gittare sopra sé l’ha sentito tornare. Per che, acciò che voi vi sappiate guardare, ed oltre a questo acciò che per voi non si possa quel proverbio intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni cosa sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di quelle d’oggi, la quale a me tocca di dover dire, voglio ve ne renda ammaestrate, acciò che, come per nobiltá d’animo dall’altre divise siete, cosí ancora per eccellenza di costumi separate dall’altre vi dimostriate.
- Egli non sono ancora molti anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a tutto il mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto; il quale essendo giá vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la nobiltá del suo spirito, che, essendo giá del corpo quasi ogni natural caldo partito, in sé non schifò di ricevere l’amorose fiamme, avendo veduta ad una festa una bellissima donna vedova chiamata, secondo che alcuni dicono, madonna Malgherida de’ Ghisolieri: e piaciutagli sommamente, non altramenti che un giovanetto quelle nel maturo petto ricevette, intanto che a lui non pareva quella notte ben riposare che il dí precedente veduto non avesse il vago e dilicato viso della bella donna. E per questo incominciò a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo che piú in destro gli venia, la via davanti alla casa di questa donna. Per la qual cosa ed ella e molte altre donne s’accorsero della cagione del suo passare e piú volte insieme ne motteggiarono, di vedere uno uomo cosí antico, d’anni e di senno, innamorato, quasi credessero questa passione piacevolissima d’amore solamente nelle sciocche anime de’ giovani e non in altra parte capere e dimorare. Per che, continuando il passar del maestro Alberto, avvenne, un giorno di festa, che, essendo questa donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta ed avendo di lontano veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero di riceverlo e di fargli onore, ed appresso di motteggiarlo di questo suo innamoramento; e cosí fecero. Per ciò che, levatesi tutte e lui invitato, in una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti fecer venire, ed alla fine, con assai belle e leggiadre parole, come questo potesse essere, che egli di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso, lei da molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata. Il maestro, sentendosi assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose: — Madonna, che io ami, questo non dèe esser maraviglia ad alcun savio, e spezialmente voi, per ciò che voi il valete. E come che agli antichi uomini sieno naturalmente tolte le forze le quali agli amorosi esercizi si richeggiono, non è per ciò lor tolto la buona volontá né lo ’ntendere quello che sia da essere amato, ma tanto piú dalla natura conosciuto, quanto essi hanno piú di conoscimento che i giovani. La speranza la qual mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani è questa: io sono stato piú volte giá lá dove io ho vedute merendarsi le donne e mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur men reo e piú piacevole alla bocca è il capo di quello, il quale voi generalmente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano e manicate le frondi, le quali non solamente non sono da cosa alcuna, ma son di malvagio sapore. E che so io, madonna, se nell’elegger degli amanti voi vi faceste il simigliante? E se voi il faceste, io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati via. — La gentil donna, insieme con l’altre alquanto vergognandosi, disse: — Maestro, assai bene e cortesemente gastigate n’avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il vostro amor m’è caro, sí come di savio e valente uomo esser dèe, e per ciò, salva la mia onestá, come a vostra cosa ogni vostro piacere m’imponete sicuramente. — Il maestro, levatosi co’ suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso commiato, si partí. Cosí la donna, non guardando cui motteggiasse, credendo vincer fu vinta; di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete.
- Giá era il sole inchinato al vespro ed in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne e de’ tre giovani si trovarono esser finite; per la qual cosa la loro reina piacevolemente disse: — Omai, care compagne, niuna cosa resta piú a fare al mio reggimento per la presente giornata, se non darvi reina nuova la quale di quella che è avvenire, secondo il suo giudicio, la sua vita e la nostra ad onesto diletto disponga; e quantunque il dí paia di qui alla notte durare, per ciò che chi alquanto non prende di tempo avanti non pare che ben si possa provvedere per l’avvenire, ed acciò che quello che la reina nuova dilibererá esser per domattina opportuno si possa preparare, a questa ora giudico doversi le seguenti giornate incominciare. E per ciò, a reverenza di Colui a cui tutte le cose vivono e consolazione di noi, per questa seconda giornata Filomena, discretissima giovane, reina guiderá il nostro regno. — E così detto, in piè levatasi e trattasi la ghirlanda dell’alloro, a lei reverente la mise, la quale essa prima ed appresso tutte l’altre ed i giovani similemente salutaron come reina, ed alla sua signoria piacevolmente s’offersero. Filomena, alquanto per vergogna arrossata, veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole poco avanti dette da Pampinea, acciò che milensa non paresse, ripreso l’ardire, primieramente gli ufici dati da Pampinea riconfermò, e dispose quello che per la seguente mattina e per la futura cena far si dovesse, quivi dimorando dove erano; ed appresso cosí cominciò a parlare:
- Carissime compagne, quantunque Pampinea, per sua cortesia piú che per mia vertù, m’abbia di voi tutte fatta reina, non sono io per ciò disposta nella forma del nostro vivere a dover solamente il mio giudicio seguire, ma col mio il vostro insieme; ed acciò che quello che a me di far pare conosciate, e per conseguente aggiugnere e menomar possiate a vostro piacere, con poche parole ve l’intendo dimostrare. Se io ho ben riguardato oggi alle maniere da Pampinea tenute, egli le mi pare avere parimente laudevoli e dilettevoli conosciute, e per ciò, infino a tanto che elle o per troppa continuanza o per altra cagione non ci divenisser noiose, quelle non giudico da mutare. Dato adunque ordine a quello che abbiamo giá a fare cominciato, quinci levatici, alquanto n’andrem sollazzando, e come sole sará per andar sotto, ceneremo per lo fresco, e dopo alcune canzonette ed altri sollazzi sará ben fatto l’andarsi a dormire. Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna parte n’andremo sollazzando come a ciascuno sará piú a grado di fare, e come oggi avem fatto, cosí all’ora debita torneremo a mangiare, balleremo, e da dormir levatici, come oggi stati siamo, qui al novellare torneremo, nel quale mi par grandissima parte di piacere e d’utilitá similmente consistere. È il vero che quello che Pampinea non potè fare, per l’esser tardi eletta al reggimento, io il voglio cominciare a fare, cioè a ristrignere dentro ad alcun termine quello di che dobbiamo novellare e davanti mostrarlovi, acciò che ciascuno abbia spazio di poter pensare ad alcuna bella novella sopra la data proposta contare; la quale, quando questo vi piaccia, sia questa, che, con ciò sia cosa che dal principio del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e saranno infino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine. — Le donne e gli uomini parimente tutti questo ordine commendarono, e quello dissero da seguire; Dioneo solamente, tutti gli altri tacendo giá, disse: — Madonna, come tutti questi altri hanno detto, cosí dico io, sommamente esser piacevole e commendabile l’ordine dato da voi: ma di spezial grazia vi cheggio un dono, il quale voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la nostra compagnia durerá; il quale è questo, che io a questa legge non sia costretto di dover dire novella secondo la proposta data, se io non vorrò, ma qual piú di dire mi piacerá. Ed acciò che alcun non creda che io questa grazia voglia sí come uomo che delle novelle non abbia alle mani, infino da ora son contento d’esser sempre l’ultimo che ragioni. — La reina, la quale lui e sollazzevole uomo e festevole conoscea, ed ottimamente s’avvisò, questo lui non chieder se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragionare, rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri lietamente la grazia gli fece; e da seder levatasi, verso un rivo d’acqua chiarissima il quale d’una montagnetta discendeva in una valle ombrosa da molti alberi, tra vive pietre e verdi erbette, con lento passo se n’andarono. Quivi, scalze e con le braccia nude per l’acqua andando, cominciarono a prendere vari diletti tra se medesime. Ed appressandosi l’ora della cena, verso il palagio tornatesi, con diletto cenarono; dopo la qual cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina che una danza fosse presa, e quella menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone, dal leuto di Dioneo aiutata. Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza e quella menò, cantando Emilia la seguente canzone amorosamente:
- Io son sí vaga della mia bellezza,
- che d’altro amor giá mai
- non curerò né credo aver vaghezza.
- Io veggio in quella, ognora ch’io mi specchio,
- quel ben che fa contento lo ’ntelletto:
- né accidente nuovo o pensier vecchio
- mi può privar di sí caro diletto;
- quale altro adunque piacevole oggetto
- potrei veder giá mai
- che mi mettesse in cuor nuova vaghezza?
- Non fugge questo ben, qualor disio
- di rimirarlo in mia consolazione,
- anzi si fa incontro al piacer mio
- tanto soave a sentir, che sermone
- dir no poria né prendere intenzione
- d’alcun mortai giá mai
- che non ardesse di cotal vaghezza.
- Ed io, che ciascuna ora piú m’accendo,
- quanto piú fisi tengo gli occhi in esso,
- tutta mi dono a lui, tutta mi rendo,
- gustando giá di ciò ch’el m’ha promesso;
- e maggior gioia spero piú da presso,
- sí fatta, che giá mai
- simil non si sentí qui da vaghezza.
- Questa ballatetta finita, alla qual tutti lietamente avean risposto, ancor che alcuni molto alle parole di quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette fatte, essendo giá una particella della brieve notte passata, piacque alla reina di dar fine alla prima giornata, e fatti torchi accender, comandò che ciascuno infino alla seguente mattina s’andasse a riposare; per che ciascuno, alla sua camera tornatosi, cosí fece.
- * * *
- * * *
- finisce la prima giornata del decameron; incomincia la seconda, nella quale, sotto il reggimento di filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Martellino, infignendosi attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno, è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d’esser impiccato per la gola, ultimamente scampa.
- Novella seconda
- Rinaldo d’Asti, rubato, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de’ suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
- Novella terza
- Tre giovani, male il loro avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate accontatosi tornandosi a casa per dispe lui truova essere la figliuola del re d’lnghilterra, la quale lui per marito prende e de’ suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
- Novella quarta
- Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale e da’ Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.
- Novella quinta
- Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua.
- Novella sesta
- Madonna Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l’un de’ figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola di lui giace ed è messo in prigione. Cicilia ribellata al re Carlo, e il figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo fratello ritrova e in grande stato ritornano.
- Novella settima
- Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie.
- Novella ottava
- Il conte d’Anguersa, falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato, va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è nel primo stato ritornato.
- Novella nona
- Bernabò da Genova, da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa. Ella scampa, e in abito d’uomo serve il soldano; ritrova lo ’ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
- Novella decima
- Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di Paganin diviene.
- Conclusione
- * * *
- Giá per tutto aveva il sol recato con la sua luce il nuovo giorno, e gli uccelli su per li verdi rami cantando piacevoli versi ne davano agli orecchi testimonianza, quando parimente tutte le donne ed i tre giovani, levatisi, ne’ giardini se n’entrarono, e le rugiadose erbe con lento passo scalpitando, d’una parte in un’altra, belle ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s’andarono. E sí come il trapassato giorno avean fatto, cosí fecero il presente: per lo fresco avendo mangiato, dopo alcun ballo s’andarono a riposare, e da quello appresso la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti, a lei dintorno si posero a sedere. Ella, la quale era formosa e di piacevole aspetto molto, della sua ghirlanda dell’alloro coronata, alquanto stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a Neifile comandò che alle future novelle con una desse principio; la quale, senza alcuna scusa fare, cosí lieta cominciò a parlare:
- [I]
- Martellino, infignendosi attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guerire, e conosciuto il suo inganno, è battuto; e poi preso ed in pericol venuto d’essere impiccato per la gola, ultimamente scampa.
- Spesse volte, carissime donne, avvenne che chi altrui s’è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose che sono da reverire, s’è con le beffe e talvolta col danno di sé solo ritrovato; il perché, acciò che io al comandamento della reina ubidisca e principio dèa con una mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello che prima sventuratamente e poi, fuori di tutto il suo pensiero, assai felicemente ad un nostro cittadino addivenisse.
- Era, non è ancora lungo tempo passato, un tedesco a Trivigi chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo, di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e con questo, uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non vero che si fosse, morendo egli, addivenne, secondo che i trivigiani affermavano, che nell’ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trivigi tutte, senza essere da alcun tirate, cominciarono a sonare. Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il popolo della cittá alla casa nella quale il suo corpo giacea, quello a guisa d’un corpo santo nella chiesa maggior ne portarono, menando quivi zoppi, attratti e ciechi ed altri di qualunque infermitá o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani. In tanto tumulto e discorrimento di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini, de’ quali l’uno era chiamato Stecchi, l’altro Martellino ed il terzo Marchese, uomini li quali, le corti de’ signor visitando, di contraffarsi, e con nuovi atti contraffaccendo qualunque altro uomo, li veditori sollazzavano. Li quali quivi non essendo stati giá mai, veggendo correre ogni uomo si maravigliarono, ed udita la cagione per che ciò era, disiderosi divennero d’andare a vedere; e poste le lor cose ad uno albergo, disse Marchese: — Noi vogliamo andare a veder questo santo, ma io per me non veggio come noi vi ci possiam pervenire, per ciò che io ho inteso che la piazza è piena di tedeschi e d’altra gente armata, la quale il signor di questa terra, acciò che romor non si faccia, vi fa stare; ed oltre a questo la chiesa, per quello che si dica, è sí piena di gente, che quasi niuna persona piú vi può entrare. — Martellino allora, che di veder questa cosa disiderava, disse: — Per questo non rimanga, ché di pervenire infino al corpo santo troverò io ben modo. — Disse Marchese: — Come? — Rispose Martellino: — Dicolti. Io mi contraffarò a guisa d’uno attratto, e tu dall’un lato e Stecchi dall’altro, come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo, faccendo sembianti di volermi lá menare acciò che questo santo mi guerisca: egli non sará alcuno che veggendoci non ci faccia luogo e lascici andare. — A Marchese ed a Stecchi piacque il modo: e senza alcuno indugio, usciti fuor dell’albergo, tutti e tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani, le dita e le braccia e le gambe, ed oltre a questo, la bocca e gli occhi e tutto il viso, che fiera cosa pareva a vedere; né sarebbe stato alcun che veduto l’avesse, che non avesse detto, lui veramente esser tutto della persona perduto e rattratto. E preso, cosí fatto, da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si dirizzarono, in vista tutti pieni di pietá, umilemente e per l’amor di Dio domandando a ciascuno che dinanzi lor si parava che loro luogo facesse, il che agevolmente impetravano; ed in brieve, riguardati da tutti, e quasi per tutto gridandosi: — Fa’ luogo! fa’luogo! — lá pervennero ove il corpo di santo Arrigo era posto, e da certi gentili uomini, che v’erano da torno, fu Martellino prestamente preso e sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio della sanitá acquistasse. Martellino, essendo tutta la gente attenta a veder che di lui avvenisse, stato alquanto, cominciò, come colui che ottimamente fare lo sapeva, a far sembianti di distendere l’un de’ diti, ed appresso la mano, e poi il braccio, e cosí tutto a venirsi distendendo. Il che veggendo la gente, sí gran romore in lode di santo Arrigo facevano, che i tuoni non si sarieno potuti udire. Era per ventura un fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma per l’esser cosí travolto quando vi fu menato non l’avea conosciuto, il quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò a ridere ed a dire: — Domine, fallo tristo! Chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da dovero? — Queste parole udirono alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono: — Come, non era costui attratto? — A’ quali il fiorentin rispose: — Non piaccia a Dio! Egli è stato sempre diritto come qualunque è l’un di noi, ma sa meglio che altro uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contraffarsi in qualunque forma vuole. — Come costoro ebbero udito questo, non bisognò piú avanti; essi si fecero per forza innanzi, e cominciarono a gridare: — Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e de’ santi, il quale, non essendo attratto, per ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d’attratto è venuto! — E cosí dicendo, il pigliarono e giú del luogo dove era il tirarono, e presolo per li capelli e stracciatigli tutti i panni indosso, gl’incominciarono a dare delle pugna e de’ calci; né parea a colui essere uomo che a questo far non correa. Martellin gridava: — Mercé per Dio! — e quanto poteva s’aiutava, ma ciò era niente: la calca gli multiplicava ognora addosso maggiore. La qual cosa veggendo Stecchi e Marchese, cominciarono tra sé a dire che la cosa stava male, e di se medesimi dubitando non ardivano ad aiutarlo, anzi con gli altri insieme gridando ch’el fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle mani del popolo. Il quale fermamente l’avrebbe ucciso, se uno argomento non fosse stato il qual Marchese subitamente prese: che, essendo ivi di fuori la famiglia tutta della signoria, Marchese, come piú tosto potè, n’andò a colui che in luogo del podestá v’era, e disse: — Mercé per Dio! Egli è qua un malvagio uomo che m’ha tagliata la borsa con ben cento fiorin d’oro; io vi priego che voi il pigliate, sí che io riabbia il mio. — Subitamente, udito questo, ben dodici de’ sergenti corsero lá dove il misero Martellino era senza pettine carminato, ed alle maggiori fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro piú giusto titolo a fargli dare la mala ventura, similmente cominciarono a dir ciascuno, da lui essergli stata tagliata la borsa. Le quali cose udendo il giudice del podestá, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte menatolo, sopra ciò lo ’ncominciò ad esaminare. Ma Martellino rispondea motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare con animo di fargli confessare ciò che color dicevano, per farlo poi appiccar per la gola. Ma poi che egli fu in terra posto, domandandolo il giudice se ciò fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dir di no, disse: — Signor mio, io son presto a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun che m’accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello che io avrò fatto e quel che no. — Disse il giudice: — Questo mi piace. — E fattine alquanti chiamare, l’un diceva che gliele avea tagliata otto dí eran passati, l’altro sei, l’altro quattro, ed alcuni dicevano quel dí stesso. Il che udendo Martellino, disse: — Signor mio, essi mentono tutti per la gola: e che io dica il vero, questa pruova ve ne posso fare, che cosí non fossi io mai in questa terra entrato come io mai non ci fui se non da poco fa in qua, e come io giunsi, per mia disavventura andai a veder questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere; e che questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l’uficial del signore il quale sta alle presentagioni, ed il suo libro, ed ancora l’oste mio. Per che, se cosí trovate come io vi dico, non mi vogliate ad istanza di questi malvagi uomini straziare ed uccidere. — Mentre le cose erano in questi termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del podestá fieramente contro a lui procedeva e giá l’aveva collato, temetter forte, seco dicendo: — Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui tratto della padella, e gittatolo nel fuoco. — Per che, con ogni sollecitudine dandosi attorno, e l’oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono; di che esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti, il quale in Trivigi abitava ed appresso al signore aveva grande stato, ed ogni cosa per ordine déttagli, con loro insieme il pregò che de’ fatti di Martellino gli tenesse. Sandro, dopo molte risa andatosene al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato; e cosí fu. Il quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camiscia dinanzi al giudice e tutto smarrito e pauroso forte, per ciò che il giudice niuna cosa in sua scusa voleva udire: anzi, per avventura avendo alcuno odio ne’ fiorentini, del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la gola ed in niuna guisa rendere il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo a suo dispetto.
- Al quale poi che egli fu davanti, ed ogni cosa per ordine déttagli, porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare, per ciò che infino che in Firenze non fosse sempre gli parrebbe il capestro aver nella gola. Il signore fece grandissime risa di cosí fatto accidente, e fatta donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di cosí gran pericolo usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
- II
- Rinaldo d’Asti, rubato, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova; e de’ suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
- Degli accidenti di Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente tra’ giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea, comandò la reina che novellando la seguitasse; il quale senza indugio alcuno incominciò:
- Belle donne, a raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d’amore in parte mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita, e spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi paesi d’amore sono camminanti, ne’ quali chi non ha detto il paternostro di san Giuliano spesse volte, ancora che abbia buon letto, alberga male.
- Era adunque, al tempo del marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d’Asti per sue bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite ed a casa tornandosi, avvenne che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s’abbatté in alcuni li quali mercatanti parevano, ed erano masnadieri ed uomini di malvagia vita e condizione; con li quali ragionando incautamente s’accompagnò. Costoro, veggendol mercatante ed estimando lui dovere portar denari, seco diliberarono, come prima tempo si vedessero, di rubarlo: e per ciò, acciò che egli niuna suspizion prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure d’oneste cose e di lealtá andavano con lui favellando, rendendosi in ciò che potevano e sapevano umili e benigni verso di lui; per che egli l’avergli trovati si reputava in gran ventura, per ciò che solo era con un suo fante a cavallo. E cosí camminando, d’una cosa in altra come ne’ ragionamenti addivien trapassando, caddero in sul ragionare dell’orazioni che gli uomini fanno a Dio, e l’uno de’ masnadieri, che eran tre, disse verso Rinaldo: — E voi, gentile uomo, che orazione usate di dir camminando? — Al quale Rinaldo rispose: — Nel vero io sono uomo di queste cose materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sí come colui che mi vivo all’antica e lascio correr due soldi per ventiquattro denari: ma nondimeno ho sempre avuto in costume, camminando, di dir la mattina, quando esco dell’albergo, un paternostro ed un’avemaria per l’anima del padre e della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la seguente notte mi deano buono albergo. Ed assai volte giá de’ miei di sono stato, camminando, in gran pericoli, de’ quali tutti scampato, pur sono la notte poi stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma credenza che san Giuliano, a cui onore io il dico, m’abbia questa grazia impetrata da Dio: né mi parrebbe il di bene potere andare né dovere la notte vegnente bene arrivare, che io non l’avessi la mattina detto. — A cui colui che domandato l’avea, disse: — Ed istamane dicestel voi? — A cui Rinaldo rispose: — Sí bene. — Allora quegli, che giá sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: — Al bisogno ti fia venuto, ché, se fallito non ci viene, per mio avviso, tu albergherai pur male. — E poi gli disse: — Io similemente ho giá molto camminato e mai nol dissi, quantunque io l’abbia a molti molto udito giá commendare, né giá mai non m’avvenne che io per ciò altro che bene albergassi; e questa sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherá, o voi che detto l’avete o io che non l’ho detto. Bene è il vero che io uso in luogo di quello il Dirupisti o la ’ntemerata o il De profundis, che sono, secondo che una mia avola mi solea dire, di grandissima vertú. — E cosí di varie cose parlando ed al lor cammin procedendo, ed aspettando luogo e tempo al lor malvagio proponimento, avvenne che, essendo giá tardi, di lá da Castel Guiglielmo, al valicar d’un fiume questi tre, veggendo l’ora tarda ed il luogo solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè ed in camiscia lasciato, partendosi dissero: — Va’ e sappi se il tuo san Giuliano questa notte ti dará buono albergo, ché il nostro il dará bene a noi. — E valicato il fiume andaron via. Il fante di Rinaldo, veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma vòlto il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sí fu a Castel Guiglielmo, ed in quello, essendo giá sera, entrato, senza darsi altro impaccio albergò. Rinaldo, rimaso in camiscia e scalzo, essendo il freddo grande e nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo giá sopravvenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò a riguardare se da torno alcun ricetto si vedesse dove la notte potesse stare che non si morisse di freddo: ma niun veggendone, per ciò che poco davanti, essendo stata guerra nella contrada, v’era ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non sappiendo per ciò che il suo fante lá o altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrarvi potesse, qualche soccorso gli manderebbe Iddio. Ma la notte oscura il soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio, per la qual cosa sí tardi vi giunse, che, essendo le porti serrate ed i ponti levati, entrar non vi poté dentro. Laonde, dolente ed isconsolato piagnendo, guardava dintorno dove porre si potesse che almeno addosso non gli nevicasse: e per ventura vide una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale sporto diliberò d’andarsi a stare infino al giorno; e lá andatosene e sotto quello sporto trovato uno uscio, come che serrato fosse, a piè di quello ragunato alquanto di pagliericcio che vicin v’era, tristo e dolente si pose a stare, spesse volte dolendosi a san Giuliano, dicendo, questo non essere della fede che aveva in lui. Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buono albergo. Egli era in questo castello una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad istanza di sé la facea stare: e dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale Rinaldo s’era andato a dimorare. Ed era il dí dinanzi per ventura il marchese quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, ed in casa di lei medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena: ed essendo ogni cosa presta, e niuna altra cosa che la venuta del marchese era da lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al marchese per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la qual cosa, mandato a dire alla donna che non l’attendesse, prestamente andò via. Onde la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, diliberò d’entrare nel bagno fatto per lo marchese e poi cenare ed andarsi a letto; e cosí nel bagno se n’entrò. Era questo bagno vicino all’uscio dove il meschino Rinaldo s’era accostato fuori della terra; per che, stando la donna nel bagno, sentì il pianto ed il triemito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna. Laonde, chiamata la sua fante, le disse: - Va’ su e guarda fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è, e chi egli è e quel ch’el vi fa. — La fante andò, ed aiutandola la chiaritá dell’aere, vide costui in camiscia e scalzo quivi sedersi, come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi el fosse. E Rinaldo, sí forte tremando, che appena poteva le parole formare, chi el fosse e come e perché quivi, quanto piú brieve poté le disse, e poi pietosamente la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo lasciasse di freddo la notte morire. La fante, divenutane pietosa, tornò alla donna ed ogni cosa le disse; la qual similmente pietá avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il quale alcuna volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse: — Va’ e pianamente gli apri; qui è questa cena e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergar c’è assai. — La fante, di questa umanitá avendo molto commendata la donna, andò e sí gli aperse; e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna: — Tosto, buono uomo, entra in quel bagno, il quale ancora è caldo. — Ed egli questo, senza piú inviti aspettare, di voglia fece, e tutto dalla caldezza di quello riconfortato, da morte a vita gli parve esser tornato. La donna gli fece apprestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali come vestiti s’ebbe, a suo dosso fatti parevano: ed aspettando quello che la donna gii comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che di sí malvagia notte, come egli aspettava, l’avevano liberato ed a buono albergo, per quello che gli pareva, condotto. Appresso questo, la donna alquanto riposatasi, avendo fatto fare un grandissimo fuoco in una sua camminata, in quella se ne venne e del buono uomo domandò che ne fosse. A cui la fante rispose: — Madonna, egli s’è rivestito, ed è un bello uomo e pare persona molto da bene e costumato. — Va’ dunque, — disse la donna — e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco si cenerá, ché so che cenato non ha. — Rinaldo nella camminata entrato, e veggendo la donna e da molto parendogli, reverentemente la salutò e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rendè. La donna, vedutolo ed uditolo, e parendole quello che la fante dicea, lietamente il ricevette e seco al fuoco famigliarmente il fe’ sedere e dell’accidente che quivi condotto l’avea il domandò; alla quale Rinaldo per ordine ogni cosa narrò. Aveva la donna, nel venire del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita; per che ella ciò che da lui era detto interamente credette, e sí gli disse ciò che del suo fante sapea e come leggermente la mattina appresso ritrovare il potrebbe. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle, Rinaldo con lei insieme, le mani lavatesi, si pose a cenare. Egli era grande della persona, e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose, e giovane di mezza etá; al quale la donna avendo piú volte posto l’occhio addosso e molto commendatolo, e giá, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto, nella niente ricevuto l’avea: e dopo la cena, da tavola levatasi, con la sua fante si consigliò se ben fatto le paresse che ella, poi che il marchese beffata l’avea, usasse quel bene che innanzi l’aveva la fortuna mandato. La fante, conoscendo il disidèro della sua donna, quanto poté e seppe a seguirlo la confortò; per che la donna, al fuoco tornatasi dove Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse: — Deh! Rinaldo, perché state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d’un cavallo e d’alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente; voi siete in casa vostra, anzi vi voglio dir piú avanti: che, veggendovi cotesti panni indosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso, m’è venuta stasera forse cento volte voglia d’abbracciarvi e di basciarvi, e s’io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo io l’avrei fatto. — Rinaldo, queste parole udendo ed il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che mentecatto non era, fattolesi incontro con le braccia aperte, disse: — Madonna, pensando che io per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde tôrre mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi fosse non m’ingegnassi di fare: e però contentate il piacer vostro d’abbracciarmi e di basciarmi, ché io abbraccerò e bascerò voi vie piú che volentieri. — Oltre a queste non bisognár piú parole: la donna, che tutta d’amoroso disio ardeva, prestamente gli si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente strignendolo, basciato l’ebbe ed altrettante da lui fu basciata, levarsi di quindi, nella camera se n’andarono, e senza niuno indugio coricatisi, pienamente e molte volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono. Ma poi che ad apparir cominciò l’aurora, sí come alla donna piacque, levatisi, acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli alcuni panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro a ritrovare il fante suo, per quello usciuolo onde era entrato il mise fuori. Egli, fatto dí chiaro, mostrando di venire di piú lontano, aperte le porti, entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi de’ panni suoi che nella valigia erano, e volendo montare in sul cavallo del fante, quasi per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera davanti rubato l’aveano, per altro maleficio da lor fatto poco poi appresso presi, furono in quel castel menati, e per confessione da loro medesimi fatta, gli fu restituito il suo cavallo, i panni ed i denari, né ne perdé altro che un paio di cintolini de’ quali non sapevano i masnadieri che fatto se n’avessero. Per la qual cosa Rinaldo, Iddio e san Giulian ringraziando, montò a cavallo, e sano e salvo ritornò a casa sua; ed i tre masnadieri il di seguente andarono a dare de’ calci a rovaio.
- [III]
- Tre giovani, male il loro avere spendendo, impoveriscono; de’ quali un nepote con uno abate accontatosi, tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del re d’Inghilterra, la quale lui per marito prende e de’ suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
- Furono con ammirazione ascoltati i casi di Rinaldo d’Asti dalle donne e da’ giovani, e la sua divozion commendata, ed Iddio e san Giuliano ringraziati che al suo bisogno maggiore gli avevano prestato soccorso; né fu per ciò, quantunque cotal mezzo di nascoso si dicesse, la donna reputata sciocca, che saputo aveva pigliare il bene che Iddio a casa l’aveva mandato. E mentre che della buona notte che colei ebbe sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato a Filostrato vedea, avvisando, sí come avvenne, che a lei la volta dovesse toccare, in se stessa recatasi, quel che dovesse dire cominciò a pensare, e dopo il comandamento della reina, non meno ardita che lieta, cosí cominciò a parlare:
- Valorose donne, quanto piú si parla de’ fatti della fortuna, tanto piú, a chi vuole le sue cose ben riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dèe aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa, d’uno in altro e d’altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate. Il che, quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, ed ancora in alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra reina che sopra ciò si favelli, forse non senza utilitá degli ascoltanti aggiugnerò alle dette una mia novella, la quale avviso dovrá piacere.
- Fu giá nella nostra cittá un cavaliere il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono, fu de’ Lamberti, ed altri affermano lui essere stato degli Agolanti, forse piú dal mestier de’ figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento che da altro. Ma lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu ne’ suoi tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli, de’ quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tedaldo ed il terzo Agolante, giá belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, ed a loro sí come a legittimi suoi eredi ogni suo bene e mobile e stabile lasciò. Li quali, veggendosi rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del loro medesimo piacere, senza alcun freno o ritegno cominciarono a spendere, tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani ed uccelli e continuamente corte, donando ed armeggiando e faccendo ciò non solamente che a gentili uomini s’appartiene, ma ancor quello che nell’appetito loro giovenile cadeva di voler fare. Né lungamente fecero cotal vita, ché il tesoro lasciato loro dal padre venne meno: e non bastando alle cominciate spese solamente le loro rendite, cominciarono ad impegnare ed a vendere le possessioni; ed oggi l’una e doman l’altra vendendo, appena s’avvidero, che quasi niente venuti furono, ed aperse loro gli occhi la povertá, li quali la ricchezza aveva tenuti chiusi. Per la qual cosa Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l’orrevolezza del padre stata e quanta la loro, e quale la loro ricchezza e chente la povertá nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti: e come seppe il meglio, avanti che piú della loro miseria apparisse, gli confortò con lui insieme a vendere quel poco che rimaso era loro ed andarsene via; e cosí fecero. E senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze usciti, non si ritennero sí furono in Inghilterra, e quivi, presa in Londra una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a prestare ad usura: e sí fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantitá di denari avanzarono. Per la qual cosa con quegli, successivamente or l’uno or l’altro a Firenze tornandosi, gran parte delle loro possessioni ricomperarono e molte dell’altre comperar sopra quelle, e presero moglie; e continuamente in Inghilterra prestando, ad attendere a’ fatti loro un giovane lor nepote che avea nome Alessandro mandarono, ed essi tutti e tre a Firenze, avendo dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio spendere altra volta recati, nonostante che in famiglia tutti venuti fossero, piú che mai strabocchevolmente spendeano ed erano sommamente creduti da ogni mercatante e d’ogni gran quantitá di denari. Le quali spese alquanti anni aiutò lor sostenere la moneta da Alessandro lor mandata, il quale messo s’era in prestare a baroni sopra castella ed altre loro entrate, le quali da gran vantaggio bene gli rispondeano. E mentre cosí i tre fratelli largamente spendeano e mancando denari accattavano, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne che, contra l’oppinion d’ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra il re ed un suo figliuolo, per la quale tutta l’isola si divise, e chi tenea con l’uno e chi con l’altro; per la qual cosa furono tutte le castella de’ baroni tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse. E sperandosi che di giorno in giorno tra ’l figliuolo ed il padre dovesse esser pace, e per conseguente ogni cosa restituita ad Alessandro, e merito e capitale, Alessandro dell’isola non si partiva, ed i tre fratelli che in Firenze erano in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano, ogni giorno piú accattando. Ma poi che in piú anni niuno effetto seguir si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente la credenza perderono, ma volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono subitamente presi, e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo rimanente rimasono in prigione, e le lor donne ed i figliuoli piccoletti qual se n’andò in contado e qual qua e qual lá assai poveramente in arnese, piú non sappiendo che aspettarsi dovessono, se non misera vita sempre. Alessandro, il quale in Inghilterra la pace piú anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e parendogli quivi non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, diliberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si mise in cammino. E per ventura, di Bruggia uscendo, vide n’usciva similmente uno abate bianco con molti monaci accompagnato e con molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso venieno due cavalieri antichi e parenti del re, co’ quali, sí come con conoscenti, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri ricevuto. Camminando adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi fossero monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al quale l’un de’ cavalieri rispose: — Questi che avanti cavalca è un giovanetto nostro parente, nuovamente eletto abate d’una delle maggiori badie d’Inghilterra; e per ciò che egli è piú giovane che per le leggi non è conceduto a sì fatta dignitá, andiam noi con essolui a Roma ad impetrare dal santo padre che nel difetto della troppo giovane etá dispensi con lui, ed appresso nella dignitá il confermi: ma ciò non si vuol con altrui ragionare. — Camminando adunque il novello abate ora avanti ed ora appresso alla sua famiglia, sí come noi tutto il giorno veggiamo per cammino avvenir de’ signori, gli venne nel cammino presso di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e di bella maniera; il quale maravigliosamente nella prima vista gli piacque quanto mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta, e chiamatolo a sé, con lui cominciò piacevolmente a ragionare e domandare chi fosse, donde venisse e dove andasse. Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e sodisfece alla sua domanda, e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse. L’abate, udendo il suo ragionare bello ed ordinato, e piú partitamente i suoi costumi considerando, e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato servile, esser gentile uomo, piú del piacere di lui s’accese: e giá pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai famigliarmente il confortò e gli disse che a buona speranza stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora Iddio il riporrebbe lá onde la fortuna l’aveva gittato e piú ad alto; e pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d’essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa che esso lá similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie del conforto, e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto. Camminando adunque l’abate, al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro, avvenne che dopo piú giorni essi pervennero ad una villa la quale non era troppo riccamente fornita d’alberghi; e volendo quivi l’abate albergare, Alessandro in casa d’uno oste il quale assai suo dimestico era il fece smontare, e fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa: e quasi giá divenuto un siniscalco dell’abate, sí come colui che molto era pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua famiglia, chi qua e chi lá, avendo l’abate cenato e giá essendo buona pezza di notte, ed ogni uomo andato a dormire, Alessandro domandò l’oste lá dove esso potesse dormire. Al quale l’oste rispose: — In veritá io non so: tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia dormire su per le panche; tuttavia nella camera dell’abate son certi granai a’ quali io ti posso menare, e porrovvi suso alcun letticello, e quivi, se ti piace, come meglio puoi questa notte ti giaci. — A cui Alessandro disse: — Come andrò io nella camera dell’abate, che sai che è piccola, e per istrettezza non v’è potuto giacere alcun de’ suoi monaci? Se io mi fossi di ciò accorto quando le cortine si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i monaci suoi, ed io mi sarei stato dove i monaci dormono. — Al quale l’oste disse: — L’opera sta pur così, e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo; l’abate dorme, e le cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dòrmiviti. — Alessandro, veggendo che questo si potea fare senza dare alcuna noia all’abate, vi s’accordò, e quanto piú chetamente potè vi s’acconciò. L’abate, il quale non dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che l’oste ed Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s’era a giacer messo; per che seco stesso, forte contento, cominciò a dire: — Iddio ha mandato tempo a’ miei disiri; se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi tornerá. — E diliberatosi del tutto di prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per l’albergo, con sommessa voce chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale, dopo molte disdette spogliatosi, vi si coricò. L’abate, postagli la mano sopra il petto, lo ’ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare le vaghe giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte, e dubitò non forse l’abate, da disonesto amor preso, si movesse a così fattamente toccarlo. La qual dubitazione, o per presunzione o per alcuno atto che Alessandro facesse, subitamente l’abate conobbe, e sorrise: e prestamente di dosso una camiscia, che avea, cacciatasi, prese la mano d’Alessandro e quella sopra il petto si pose, dicendo: — Alessandro, caccia via il tuo sciocco pensiero, e cercando qui, conosci quello che io nascondo. — Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state, le quali egli trovate e conosciuto tantosto, costei esser femina, senza altro invito aspettare, prestamente abbracciatala, la voleva basciare; quando ella gli disse: — Avanti che tu piú mi t’avvicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi maritasse: o tua ventura o mia sciagura che sia, come l’altro dì ti vidi, sí di te m’accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo, e per questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito. Dove tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna. — Alessandro, quantunque non la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado. Essa allora, levatasi a sedere in sul letto, davanti ad una tavoletta dove nostro Signore era effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare, ed appresso insieme abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti quanto di quella notte restava si sollazzarono. E preso tra loro modo ed ordine alli lor fatti, come il giorno venne, Alessandro, levatosi e per quindi della camera uscendo donde era entrato, senza sapere alcuno ove la notte dormito si fosse, lieto oltre misura, con l’abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte giornate pervennero a Roma. E quivi, poi che alcun di dimorati furono, l’abate con li due cavalieri e con Alessandro senza piú entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, cosí cominciò l’abate a favellare: — Santo padre, sí come voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene ed onestamente vuol vivere dèe, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad altramenti fare il potesse conducere; il che acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi compiutamente fare, nell’abito nel qual mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte de’ tesori del re d’Inghilterra mio padre, il quale al re di Scozia, vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva per moglie dare, per qui venire acciò che la vostra santitá mi maritasse, mi misi in via. Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura di non fare, per la fragilitá della mia giovanezza, se a lui maritata fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e contra l’onore del real sangue del padre mio. E cosí disposta venendo, Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno, credo per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito fosse mi pose avanti agli occhi: e quel fu questo giovane — e mostrò Alessandro — il quale voi qui appresso di me vedete, li cui costumi ed il cui valore son degni di qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltá del suo sangue non sia cosí chiara come è la reale. Lui ho adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro n’avrò, che che se ne debba parere al padre mio o ad altrui; per che la principal cagione per la quale mi mossi è tolta via: ma piacquemi di fornire il mio cammino sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de’ quali questa cittá è piena, e la vostra santitá, e sí acciò che per voi il contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella vostra e per conseguente degli altri uomini. Per che umilmente vi priego che quello che a Dio ed a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate, acciò che con quella, sí come con piú certezza del piacere di Colui del quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all’onore di Dio ed al vostro, vivere ed ultimamente morire. — Maravigliossi Alessandro udendo la moglie esser figliuola del re d’Inghilterra, e di mirabile allegrezza occulta fu ripieno: ma piú si maravigliarono li due cavalieri e sì si turbarono, che, se in altra parte che davanti al papa stati fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania. D’altra parte, il papa si maravigliò assai e dell’abito della donna e della sua elezione: ma conoscendo che indietro tornare non si potea, le volle del suo priego sodisfare, e primieramente racconsolati i cavalieri, li quali turbati conoscea, ed in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine a quello che da far fosse. Ed il giorno posto da lui essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimoiti altri gran valenti uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran venuti, fece venire la donna realmente vestita, la quale tanto bella e sì piacevol parea, che meritamente da tutti era commendata, e simigliantemente Alessandro splendidamente vestito, in apparenza ed in costumi non miga giovane che ad usura avesse prestato, ma piú tosto reale, e da’ due cavalieri molto onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, ed appresso, le nozze belle e magnifiche fatte, con la sua benedizione gli licenziò. Piacque ad Alessandro e similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove giá la fama aveva la novella recata: e quivi da’ cittadini con sommo onore ricevuti, fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom pagare, e loro e le lor donne rimise nelle loro possessioni. Per la qual cosa, con buona grazia di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco Agolante, si partí di Firenze, ed a Parigi venuti, onorevolmente dal re ricevuti furono. Quindi andarono i due cavalieri in Inghilterra, e tanto col re adoperarono, che egli le rendè la grazia sua e con grandissima festa lei ed il suo genero ricevette, il quale egli poco appresso con grandissimo onore fe’ cavaliere, e donògli la contea di Cornovaglia. Il quale fu da tanto, e tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguí gran bene all’isola, ed egli n’acquistò l’amore e la grazia di tutti i paesani, ed Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano interamente, e ricco oltre modo si tornò a Firenze, avendol prima il conte Alessandro cavalier fatto. Il conte poi con la sua donna gloriosamente visse, e secondo che alcuni voglion dire, tra col suo senno e valore e l’aiuto del suocero, egli conquistò poi la Scozia e funne re coronato.
- IV
- Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale, e da’ genovesi preso, rompe in mare e sopra una cassetta di gioie carissime piena scampa, ed in Gurfo ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua.
- La Lauretta appresso Pampinea sedea; la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa:
- Graziosissime donne, niuno atto della fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore che vedere uno d’infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n’ha mostrato essere al suo Alessandro addivenuto. E per ciò che a qualunque della proposta materia da quinci innanzi novellerá, converrá che infra questi termini dica, non mi vergognerò io di dire una novella la quale, ancora che miserie maggiori in sé contenga, non per ciò abbia cosí splendida riuscita. Ben so che, pure a quella avendo riguardo, con minor diligenza fia la mia udita: ma altro non potendo, sarò scusata.
- Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la piú dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la Costa d’Amalfi, piena di piccole cittá, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantía sí come alcuni altri. Tra le quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe giá uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella se stesso. Costui adunque, sí come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno e quello tutto, di suoi denari, caricò di varie mercatantíe ed andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualitá medesime di mercatantíe che egli aveva portate, trovò essere piú altri legni venuti; per la qual cagione non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via, laonde egli fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che lá onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantía avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guerní ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi. Al qual servigio gli fu molto piú la fortuna benivola che alla mercatantía stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantía avea perduto, ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo, a se medesimo dimostrò, quello che aveva, senza voler piú, dovergli bastare, e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua: e pauroso della mercatantía, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E giá nell’Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo piccolo legno non avrebbe bene potuto comportare, in un seno di mare il quale una piccola isoletta faceva, da quel vento coperto si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore. Nel quale seno poco stante due gran cocche di genovesi le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e giá per fama conoscendol ricchissimo, sí come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo aver si disposero. E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, se saettato esser non volea, poteva discendere: ed essi, fattisi tirare a’ paliscalmi ed aiutati dal mare, s’accostarono al piccol legno di Landolfo, e quello con piccola fatica in piccolo spazio, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo ed ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo. Il dí seguente, mutatosi il vento, le cocche ver’ Ponente venendo fêr vela, e tutto quel di prosperamente vennero al lor viaggio: ma nel fare della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi divise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca, e non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo giá il mare tutto pieno di mercatantíe che notavano e di casse e di tavole, come in cosí fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse ed il mare grossissimo e gonfiato, notando quegli che notar sapevano, s’incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura lor si paravan davanti. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dí davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla piú tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, veggendola presta n’ebbe paura, e come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’appiccò, se forse Iddio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo: ed a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua ed ora in lá, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, ed una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse: e sempre che presso gli venia, quando potea, con la mano, come che poca forza n’avesse, l’allontanava. Ma come che il fatto s’andasse, addivenne che, solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare, sí grande in questa cassa diede, e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo, lasciatala, andò sotto l’onde e ritornò suso notando, piú da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. Ed in questa maniera, gittato dal mare ora in qua ed ora in lá, senza mangiare, sí come colui che non aveva che, e bevendo piú che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente. Il dí seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che il facesse, costui, divenuto quasi una spugna, tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e per ciò niente le disse: ma pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e piú sottilmente guardando e veggendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia, e quello esser che era s’imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare che giá era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tirò in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra, ed in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore ed alquante delle perdute forze: e quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconfortò, ed alcun giorno come poté il meglio il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe lá dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura; e cosí fece. Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere, che alcun dí non gli facesse le spese; e trovandola molto leggera, assai mancò della sua speranza: nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea. Le quali veggendo e di gran valor conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò: ma sí come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci come meglio potè ravvoltele, disse alla buona femina che piú di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse ed avessesi quella. La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì: e montato sopra una barca, passò a Brandizio e di quindi marina marina si condusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da lor rivestito, avendo esso giá loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; ed oltre a questo, prestatogli cavallo e datagli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l’avea, sciolse il suo sacchetto, e con piú diligenza cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole ed ancor meno, egli era il doppio piú ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciar le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantitá di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, ed il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; ed il rimanente, senza piú voler mercatare, si ritenne, ed onorevolemente visse infino alla fine.
- [V]
- Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprappreso, da tutti scampato, con un rubino si torna a casa sua.
- Le pietre da Landolfo trovate — cominciò la Fiammetta, alla quale del novellare la volta toccava — m’hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse in piú anni e questi nello spazio d’una sola notte addivennero, come udirete.
- Fu, secondo che io giá intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli, il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai piú fuori di casa stato, con altri mercatanti lá se n’andò; dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato, la seguente mattina fu in sul mercato, e molti ne vide ed assai ne gli piacquero e di piú e piú mercato tenne: né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, si come rozzo e poco cauto, piú volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. Ed in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide, e subito seco disse: — Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei? — e passò oltre. Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse ad abbracciarlo; il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò ad attendere. Andreuccio, alla vecchia rivòltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone si partí, ed Andreuccio si tornò a mercatare: ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quegli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde, e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa cosí particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sí come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse. La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, ed a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno, acciò che ad Andreuccio non potesse tornare: e presa una sua fanticella la quale essa assai bene a cosí fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual quivi venuta, per ventura lui medesimo, e solo, trovò in su la porta, e di lui stesso il domandò; alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: — Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri. — Il quale, veggendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò, questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato, e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella rispose: — Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua. — Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: — Or via, mettiti avanti; io ti verrò appresso. — Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Mal pertugio, la quale quanto sia onesta contrada, il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e ad una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella giá la sua donna chiamata e detto: — Ecco Andreuccio! — la vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita ed ornata assai orrevolemente. Alla quale come Andreuccio fu presso, essa incóntrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, ed avvinghiatogli il collo, alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte, e con voce alquanto rotta disse: — O Andreuccio mio, tu sii il benvenuto! — Esso, maravigliandosi di cosí tenere carezze, tutto stupefatto rispose: — Madonna, voi siate la ben trovata! — Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò, e di quella, senza alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva, lá dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di lá, ed altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sí come nuovo, fermamente credette lei dovere essere non men che gran donna: e postisi a sedere insieme sopra una cassa che a piè del suo letto era, cosí gli cominciò a parlare: — Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sí come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m’udisti: ma tu udirai tosto cosa la quale piú ti fará forse maravigliare, sí come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Iddio m’ha fatta tanta grazia, che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai piú non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontá e piacevolezza vi fu ed è ancora da quegli che il conobbero amato assai: ma tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu ed allora era vedova, fu quella che piú l’amò, tanto che, posta giú la paura del padre e de’ fratelli ed il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne nacqui, e sonne qual tu mi vedi. Poi, sopravvenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, piú né di me né di lei si ricordò; di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei, avendo riguardo alla ’ngratitudine di lui verso mia madre mostrata, lasciamo stare all’amore che a me come a sua figliuola non nata d’una fante né di vil femina dovea portare; la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altramenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è? Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo piú agevoli a riprendere che ad emendare; la cosa andò pur cosí. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie ad un da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare in Palermo, e quivi, come colui che è molto guelfo, cominciò ad avere alcuno trattato col nostro re Carlo. Il quale sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia, quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse, donde, prese quelle poche cose che prender potemmo; poche dico, per rispetto alle molte le quali avevamo; lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato, che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avevamo, e possessioni e case ci ha date, e dá continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provvisione, sí come tu potrai ancor vedere: ed in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua, fratel mio dolce, ti veggio. — E cosí detto, da capo il rabbracciò, ed ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte. Andreuccio, udendo questa favola cosí ordinatamente e cosí compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo, e per se medesimo de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva piú che per vero. E poscia che ella tacque, le rispose: — Madonna, egli non vi dèe parer gran cosa se io mi maraviglio, per ciò che nel vero; o che mio padre, per che che egli sei facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giá mai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia; io per me niuna conoscenza aveva di voi se non come se non foste: ed èmmi tanto piú caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono piú solo e meno questo sperava. E nel vero, io non conosco uomo di sì alto affare, al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un piccolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi? — Al quale ella rispose: — Questa mattina mel fe’ sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente ed in Palermo ed in Perugia stette: e se non fosse che piú onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei. — Appresso queste parole, ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente; alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora piú credendo quello che meno di credere gli bisognava. Essendo stati i ragionamenti lunghi ed il caldo grande, ella fece venire greco e confetti, e fe’ dar bere ad Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembianti fatto di forte turbarsi, abbracciandol disse: — Ahi lassa me! ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara. Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai piú da te non veduta, ed in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti: e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con essomeco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene, secondo donna, fare un poco d’onore. — Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: — Io v’ho cara quanto sorella si dèe avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania. — Ed ella allora disse: — Lodato sia Iddio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! Benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potreste tutti andar di brigata. — Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma poi che pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fe’ vista di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di piú vivande serviti, astutamente quella menò per lungo infino alla notte oscura: ed essendo da tavola levati, ed Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere, e che, come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, cosí aveva dell’albergo fatto il simigliante. Egli, questo credendo, e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi, non senza cagione, tenuti; ed essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un’altra camera se n’andò. Era il caldo grande; per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba ed al capo del letto gli si pose: e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’un de’canti della camera gli mostrò uno uscio, e disse: — Andate lá entro. — Andreuccio, dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola la quale, dalla contrapposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era, per la qual cosa capolevando questa tavola, con lui insieme se n’andò quindi giuso; e di tanto l’amò Iddio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto: ma tutto della bruttura della quale il luogo era pieno s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte, ed il luogo da seder posto; delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una. Ritrovandosi adunque lá giti nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo: ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna, la quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano, e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, piú di lui non curandosi, prestamente andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde. Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò piú forte a chiamare, ma ciò era niente; per che egli, giá sospettando e tardi dello ’nganno cominciandosi ad accorgere, salito sopra un muretto che quel chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò, e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: — Oimè lasso! in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini ed una sorella! — E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio ed a gridare; e tanto fece cosi, che molti de’ circostanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono, ed una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnacchiosa, fattasi alla finestra, proverbiosamente disse: — Chi picchia lá giú? — Oh! — disse Andreuccio — o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso. — Al quale ella rispose: — Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va’ dormi e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu di’; va’ in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace. — Come? — disse Andreuccio — non sai che io mi dico? Certo sí sai; ma se pur son cosí fatti i parentadi di Cicilia, che in si piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v’ho, ed io m’andrò volentier con Dio. — Al quale ella, quasi ridendo, disse: — Buono uomo, el mi par che tu sogni. — Ed il dir questo ed il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa; di che Andreuccio, giá certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira, e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppo maggior colpi che prima, fieramente cominciò a percuoter la porta. Per la qual cosa molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che ad un can forestiere tutti quelli della contrada abbaiano addosso, cominciarono a dire: — Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va’ con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace: e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte. — Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una voce grossa, orribile e fiera disse: — Chi è lá giú? — Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse, sbadigliava e stropicciavasi gli occhi. A cui egli, non senza paura, rispose: — Io sono un fratello della donna di lá entro. — Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi, piú rigido assai che prima, disse: — Io non so a che io mi tengo che io non vengo lá giú, e deati tante bastonate quante io ti veggia muovere, asino fastidioso ed ebriaco che tu déi essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona! — E tornatosi dentro, serrò la finestra. Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando ad Andreuccio dissero: — Per Dio, buono uomo, vatti con Dio; non volere stanotte essere ucciso costí; vattene per lo tuo migliore. — Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista, e sospinto da’ conforti di coloro, li quali gli pareva che da caritá mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato, verso quella parte onde il dí aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. Ed a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga catalana si mise: e verso l’alto della cittá andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirgli, in un casolare il qual si vide vicino pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l’uno: — Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire. — E questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel d’Andreuccio, e stupefatti domandár: — Chi è lá? — Andreuccio taceva: ma essi, avvicinatiglisi con lume, il domandarono che quivi cosí brutto facesse; alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero tra sé: — Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo. — Ed a lui rivolti, disse l’uno: — Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Iddio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima addormentato ti fossi, saresti stato ammazzato e co’ denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti cosí riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola. — E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: — Vedi, a noi è presa compassion di te, e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherá il valere di troppo piú che perduto non hai. — Andreuccio, sí come disperato, rispose che era presto. Era quel dí sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, ed era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro; il quale costoro volevano andare a spogliare, e cosí ad Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, piú cupido che consigliato, con loro si mise in via: ed andando verso la chiesa maggiore, ed Andreuccio putendo forte, disse l’uno: — Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, ché egli non putisse cosí fieramente? — Disse l’altro: — Sì, noi siam qui presso ad un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola ed un gran secchione; andianne lá e laverenlo spacciatamente. — Giunti a questo pozzo, trovarono che la fune v’era, ma il secchione n’era stato levato; per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, ed egli lá giú si lavasse, e come lavato fosse, crollasse la fune ed essi il tirerebber suso; e cosí fecero. Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro ad alcuno, avendo sete, a quel pozzo venieno a bere; li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire. Li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti, essendo giá nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro, assetati, posti giú lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare, credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appiccato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino, così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella; la qual cosa costor veggendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto piú poterono a fuggire. Di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto, forse non senza suo gran danno o morte: ma pure uscitone e queste armi trovate le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora piú s’incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar, quindi diliberò di partirsi: ed andava senza saper dove. Così andando, si venne scontrato in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano: e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisí come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che sú l’avean tirato; e senza piú parole fare, essendo giá mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, ed in quella assai leggermente entrarono, e furono all’arca, la quale era di marmo e molto grande: e con lor ferro il coperchio, che era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellarono. E fatto questo, cominciò l’uno a dire: — Chi entrerá dentro? — A cui l’altro rispose: — Non io. — Né io, — disse colui — ma entrivi Andreuccio. — Questo non farò io — disse Andreuccio; verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: — Come non v’entrerai? In fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’un di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto. — Andreuccio temendo v’entrò, ed entrandovi pensò seco: — Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò ad uscir dell’arca, essi se n’andranno pe’ fatti loro ed io rimarrò senza cosa alcuna. — E per ciò s’avvisò di farsi innanzi tratto la parte sua, e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giú disceso, cosí di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé: e poi, dato il pasturale e la mitra ed i guanti, e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa die’ loro, dicendo che piú niente v’avea. Costoro, affermando che esservi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso, rispondendo che noi trovava e sembianti faccendo di cercarne, alquanto gli tenne in aspettare. Costoro che, d’altra parte, eran sí come lui maliziosi, dicendo pur che ben cercasse, preso tempo, tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi, lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, quale egli allor divenisse, ciascun sei può pensare. Egli tentò piú volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava; per che, da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo: e chi allora veduti gli avesse, malagevolmente avrebbe conosciuto chi piú si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni piú ad aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirgli morire, o venendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sí come ladro dovere essere appiccato. Ed in cosí fatti pensieri e doloroso molto stando, sentí per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali, sí come egli avvisava, quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avean giá fatto; di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse: — Che paura avete voi? Credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian gli uomini; io v’entrerò dentro io. — E cosí detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare. Andreuccio, questo veggendo, in piè levatosi, prese il prete per l’una delle gambe e fe’ sembianti di volerlo giú tirare. La qual cosa sentendo il prete, mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramenti a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati. La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se n’uscí della chiesa. E giá avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando alla ventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si rabbattè, dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’ fatti suoi. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente ed a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.
- [VI]
- Madama Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l’un de’ figliuoli col signore di lei si pone e con la figliuola di lui giace, ed è messo in prigione; Cicilia ribellata al re Carlo, ed il figliuolo, riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore ed il suo fratel ritruova, ed in grande stato ritornano.
- Avevan le donne parimente ed i giovani riso molto de’ casi d’Andreuccio dalla Fiammetta narrati, quando Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento della reina cosí cominciò:
- Gravi cose e noiose sono i movimenti vari della fortuna, de’ quali però che quante volte alcuna cosa si parla, tante è un destare delle nostre menti, le quali leggermente s’addormentano nelle sue lusinghe, giudico mai rincrescer non dover l’ascoltare ed a’ felici ed agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati ed i secondi consola. E per ciò, quantunque gran cose dette ne sieno avanti, io intendo di raccontarvene una novella non meno vera che pietosa, la quale ancora che lieto fine avesse, fu tanta e sí lunga l’amaritudine, che appena che io possa credere che mai da letizia seguita si raddolcisse.
- Carissime donne, voi dovete sapere che appresso la morte di Federigo secondo imperadore fu re di Cicilia coronato Manfredi, appo il quale in grandissimo stato fu un gentile uomo di Napoli chiamato Arrighetto Capece, il qual per moglie avea una bella e gentil donna similmente napoletana chiamata madama Beritola Caracciola. Il quale Arrighetto, avendo il governo dell’isola nelle mani, sentendo che il re Carlo primo aveva a Benevento vinto ed ucciso Manfredi, e tutto il regno a lui si rivolgea, avendo poca sicurtá della corta fede de’ ciciliani, non volendo suddito divenire del nemico del suo signore, di fuggire s’apparecchiava. Ma questo da’ ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti altri amici e servidori del re Manfredi furono per prigioni dati al re Carlo, e la possessione dell’isola appresso. Madama Beritola in tanto mutamento di cose, non sappiendo che d’Arrighetto si fosse e sempre di quello che era avvenuto temendo, per tema di vergogna, ogni sua cosa lasciata, con un suo figliuolo d’etá forse d’otto anni chiamato Giuffredi, e gravida e povera, montata sopra una barchetta se ne fuggí a Lipari, e quivi partorí uno altro figliuol maschio il quale nominò lo Scacciato, e presa una balia, con tutti sopra un legnetto montò per tornarsene a Napoli a’ suoi parenti. Ma altramenti avvenne che il suo avviso: per ciò che per forza di vento il legno, che a Napoli andar dovea, fu trasportato all’isola di Ponzo, dove, entrati in un piccol seno di mare, cominciarono ad attender tempo al lor viaggio. Madama Beritola, come gli altri smontata in su l’isola, e sopra quella un luogo solitario e rimoto trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola. E questa maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n’accorgesse, una galea di corsari sopravvenne la quale tutti a man salva gli prese ed andò via. Madama Beritola, finito il suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò, e poi, subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra ’l mar sospinse e vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il legnetto, per la qual cosa ottimamente conobbe, si come il marito, aver perduti i figliuoli; e povera e sola ed abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare, quivi veggendosi, tramortita, il marito ed i figliuoli chiamando, cadde in sul lito. Quivi non era chi con acqua fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse; per che a bello agio poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque: ma poi che nel misero corpo le partite forze insieme con le lagrime e col pianto tornate furono, lungamente chiamò i figliuoli e molto per ogni caverna gli andò cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravvenire, sperando e non sappiendo che, di se medesima alquanto divenne sollecita, e dal lito partitasi, in quella caverna dove di piagnere e di dolersi era usa si ritornò. E poi che la notte con molta paura e con dolore inestimabile fu passata ed il di nuovo venuto, e giá l’ora della terza valicata, essa, che la sera davanti cenato non avea, da fame costretta, a pascer l’erbe si diede, e pasciuta come potè, piagnendo, a vari pensieri della sua futura vita si diede. Ne’ quali mentre ella dimorava, vide venire una cavriuola ed entrare ivi vicino in una caverna, e dopo alquanto uscirne e per lo bosco andarsene; per che ella, levatasi, lá entrò donde uscita era la cavriuola, e videvi due cavriuoli forse il dí medesimo nati, li quali le parevano la piú dolce cosa del mondo e la piú vezzosa: e non essendolesi ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese ed al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, cosi lei poppavano come la madre avrebber fatto, e d’allora innanzi dalla madre a lei niuna distinzion fecero; per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna compagnia trovata, l’erbe pascendo e bevendo l’acqua e tante volte piagnendo quante del marito e de’ figliuoli e della sua preterita vita si ricordava, quivi ed a vivere ed a morire s’era disposta, non meno dimestica della cavriuola divenuta che de’ figliuoli. E cosí dimorando la gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo piú mesi che, per fortuna, similmente quivi arrivò un legnetto di pisani dove ella prima era arrivata, e piú giorni vi dimorò. Era sopra quel legno un gentile uomo chiamato Currado de’ marchesi Malespini con una sua donna valorosa e santa: e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel regno di Puglia sono, ed a casa loro se ne tornavano. Il quale, per passare malinconia, insieme con la sua donna e con alcuni suoi famigliari e con suoi cani un dí ad andare infra l’isola si mise: e non guari lontano al luogo dove era madama Beritola, cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli, li quali giá grandicelli pascendo andavano; li quali cavriuoli, da’ cani cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna dove era madama Beritola. La quale, questo veggendo, levata in piè e preso un bastone, li cani mandò indietro: e quivi Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavan, sopravvenuti, veggendo costei, che bruna e magra e pelosa divenuta era, si maravigliarono, ed ella molto piú di loro. Ma poi che a’ prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che quivi facesse; la quale pienamente ogni sua condizione ed ogni suo accidente ed il suo fiero proponimento loro aperse. Il che udendo Currado, che molto bene Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse e con parole assai s’ingegnò di rimuoverla da proponimento sí fiero, offerendole di rimenarla a casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse tanto che Iddio piú lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali profferte non piegandosi la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi facesse venire, e lei, che tutta era stracciata, d’alcuna delle sue robe rivestisse, e del tutto facesse che seco ne la menasse. La gentil donna con lei rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de’ suoi infortuni, fatti venir vestimenti e vivande, con la maggior fatica del mondo a prendergli ed a mangiar la condusse: ed ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai non volere andare ove conosciuta fosse, la ’ndusse a doversene seco andare in Lunigiana insieme co’ due cavriuoli e con la cavriuola, la quale in quel mezzo tempo era tornata e non senza gran maraviglia della gentil donna l’aveva fatta grandissima festa. E cosí, venuto il buon tempo, madama Beritola con Currado e con la sua donna sopra il lor legno montò, e con loro insieme la cavriuola ed i due cavriuoli, da’ quali, non sappiendosi per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata; e con buon vento tosto infino nella foce della Magra n’andarono, dove smontati, alle loro castella se ne salirono. Quivi, appresso la donna di Currado, madama Beritola in abito vedovile, come una sua damigella, onesta ed umile ed obediente stette, sempre a’ suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli nutricare. I corsari, li quali avevano a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei lasciata sí come da lor non veduta, con tutta l’altra gente a Genova n’andarono: e quivi tra’ padroni della galea divisa la preda, toccò per ventura, tra l’altre cose, in sorte ad un messer Guasparrin d’Oria la balia di madama Beritola ed i due fanciulli con lei; il quale lei co’ fanciulli insieme a casa sua ne mandò, per tenergli a guisa di servi ne’ servigi della casa. La balia, dolente oltre modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé ed i due fanciulli caduti vedea, lungamente pianse: ma poi che vide le lagrime niente giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina fosse, pure era savia ed avveduta; per che, prima come poté il meglio riconfortatasi, ed appresso riguardando dove erano pervenuti, s’avvisò che, se i due fanciulli conosciuti fossono, per avventura potrebbono di leggeri impedimento ricevere, ed oltre a questo, sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la fortuna ed essi potrebbero, se vivi fossero, nel perduto stato tornare, pensò di non palesare ad alcuna persona chi fossero, se tempo da ciò non vedesse: ed a tutti diceva che di ciò domandata l’avessero, che suoi figliuoli erano. Ed il maggiore non Giuffredi, ma Giannotto di Procida nominava; al minore non curò di mutar nome: e con somma diligenza mostrò a Giuffredi perché il nome cambiato gli avea ed a qual pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse, e questo non una volta ma molte e molto spesso gli ricordava; la qual cosa il fanciullo, che intendente era, secondo l’ammaestramento della savia balia ottimamente faceva. Stettero adunque, e mal vestiti e peggio calzati, ad ogni vil servigio adoperati, con la balia insieme pazientemente piú anni i due garzoni in casa messer Guasparrino. Ma Giannotto, giá d’etá di sedici anni, avendo piú animo che a servo non s’apparteneva, sdegnando la viltá della servil condizione, salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di messer Guasparrino si partì ed in piú parti andò, in niente potendosi avanzare. Alla fine, forse dopo tre o quattro anni appresso la partita fatta da messer Guasparrino, essendo bel giovane e grande della persona divenuto, ed avendo sentito, il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere ancor vivo, ma in prigione ed in cattivitá per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato, vagabondo andando, pervenne in Lunigiana, e quivi per ventura con Currado Malaspina si mise per famigliare, lui assai acconciamente ed a grado servendo. E come che rade volte la sua madre, la quale con la donna di Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui: tanto l’etá l’uno e l’altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea trasformati. Essendo adunque Giannotto al servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado il cui nome era Spina, rimasa vedova d’un Niccolò da Grignano, alla casa del padre tornò; la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco piú di sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, ed egli a lei, e ferventissimamente l’un dell’altro s’innamorò. Il quale amore non fu lungamente senza effetto, e piú mesi durò avanti che di ciò niuna persona s’accorgesse; per la qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener maniera men discreta che a cosí fatte cose non si richiedea. Ed andando un giorno per un bosco bello e folto d’alberi la giovane insieme con Giannotto, lasciata tutta l’altra compagnia, entrarono innanzi; e parendo loro molta di via aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d’erba e di fiori, e d’alberi chiuso, ripostisi, a prendere amoroso piacere l’un dell’altro incominciarono. E come che lungo spazio stati giá fossero insieme, avendo il gran diletto fattolo loro parere molto brieve, in ciò dalla madre della giovane prima, ed appresso da Currado soprappresi furono. Il quale, doloroso oltre modo questo veggendo, senza alcuna cosa dire del perché, ammenduni gli fece pigliare a tre suoi servidori e ad un suo castello legati menarnegli: e d’ira e di cruccio fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire. La madre della giovane, quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo d’ogni crudel penitenza, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual fosse l’animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare, avacciandosi sopraggiunse l’adirato marito e cominciollo a pregare che gli dovesse piacere di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della figliuola divenir micidiale ed a bruttarsi le mani del sangue d’un suo fante, e che egli altra maniera trovasse a sodisfare all’ira sua, sí come di fargli imprigionare ed in prigione stentare e piagnere il peccato commesso. E tanto e queste e molte altre parole gli andò dicendo la santa donna, che essa da uccidergli l’animo suo rivolse: e comandò che in diversi luoghi ciascun di loro imprigionato fosse, e quivi guardati bene, e con poco cibo e con molto disagio servati infino a tanto che esso altro diliberasse di loro; e cosí fu fatto. Quale la vita loro in cattivitá ed in continue lagrime ed in piú lunghi digiuni che loro non sarien bisognati si fosse, ciascuno sei può pensare. Stando adunque Giannotto e la Spina in vita cosí dolente, ed essendovi giá uno anno senza ricordarsi Currado di loro dimorati, avvenne che il re Pietro d’Araona per trattato di messer Gian di Procida l’isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo; di che Currado, come ghibellino, fece gran festa. La quale Giannotto sentendo da alcuno di quegli che a guardia l’aveano, gittò un gran sospiro, e disse: — Ahi lasso me! ché passati sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo, niuna altra cosa aspettando che questa, la quale ora che venuta è, acciò che io mai d’aver ben piú non isperi, m’ha trovato in prigione, della qual mai se non morto uscir non ispero! — E come? — disse il prigioniere — Che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? Che avevi tu a fare in Cicilia? — A cui Giannotto disse: — El pare che il cuor mi si schianti, ricordandomi di ciò che giá mio padre v’ebbe a fare; il quale, ancora che piccol fonciul fossi quando me ne fuggii, pur mi ricorda che io nel vidi signore, vivendo il re Manfredi. — Seguì il prigioniere: — E chi fu tuo padre? — Il mio padre — disse Giannotto — posso io omai sicuramente manifestare, poi nel pericolo mi veggio il quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato ed è ancora, se el vive, Arrighetto Capece, ed io non Giannotto, ma Giuffredi ho nome: e non dubito punto, se io di qui fossi fuori, che, tornando in Cicilia, io non v’avessi ancora grandissimo luogo. — Il valente uomo, senza piú avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado. Il che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene, andatosene a madama Beritola, piacevolemente la domandò se alcun figliuolo avesse d’Arrighetto avuto che Giuffredi avesse nome. La donna piagnendo rispose che, se il maggior de’ suoi due che avuti avea fosse vivo, cosí si chiamerebbe, e sarebbe d’etá di ventidue anni. Questo udendo Currado, avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell’animo, se cosí fosse, che egli ad una ora poteva una gran misericordia fare, e la sua vergogna e quella della figliuola tór via dandola per moglie a costui: e per ciò, fattosi segretamente Giannotto venire, partitamente d’ogni sua passata vita l’esaminò. E trovando per assai manifesti indizi lui veramente esser Giuffredi, figliuolo d’Arrighetto Capece, gli disse: — Giannotto, tu sai quanta e quale sia la ’ngiuria la quale tu m’hai fatta nella mia propria figliuola, lá dove, trattandoti io bene ed amichevolemente, secondo che servidor si dée fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare ed operare; e molti sarebbero stati quegli a’ quali se tu quello avessi fatto che a me facesti, che vituperosamente t’avrebber fatto morire, il che la mia pietá non sofferse. Ora, poi che cosí è come tu mi di’, che tu figliuol se’ di gentile uomo e di gentil donna, io voglio alle tue angosce, quando tu medesimo vogli, porre fine e trarti della miseria e della cattivitá nella qual tu dimori, e ad una ora il tuo onore ed il mio nel suo debito luogo riducere. Come tu sai, la Spina, la quale tu con amorosa avvegna che sconvenevole a te ed a lei amistá prendesti, è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i suoi costumi ed il padre e la madre di lei, tu il sai: del tuo presente stato niente dico. Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella disonestamente amica ti fu, che ella onestamente tua moglie divenga e che in guisa di mio figliuolo qui con essomeco e con lei quanto ti piacerá dimori. — Aveva la prigione macerate le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto non aveva ella in cosa alcuna diminuito, né ancora lo ’ntero amore il quale egli alla sua donna portava; e quantunque egli ferventemente disiderasse quello che Currado gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò quello che la grandezza dell’animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose: — Currado, né cupiditá di signoria né disidèro di denari né altra cagione alcuna mi fece mai alla tua vita né alle tue cose insidie come traditor porre. Amai tua figliuola ed amo ed amerò sempre, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io seco fui meno che onestamente secondo l’oppinion de’ meccanici, quel peccato commisi il qual sempre seco tiene la giovanezza congiunto, e che se via si volesse tôrre, converrebbe che via si togliesse la giovanezza, ed il quale, se i vecchi si volessero ricordare d’essere stati giovani e gli altrui difetti con li lor misurare e li lor con gli altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno: e come amico, non come nemico il commisi. Quello che tu offeri di voler fare, sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto mi dovesse esser suto, lungo tempo è che domandato l’avrei: e tanto mi sará ora piú caro, quanto di ciò la speranza è minore. Se tu non hai quello animo che le tue parole dimostrano, non mi pascere di vana speranza: fammi ritornare alla prigione, e quivi quanto ti piace mi fa’ affliggere, ché tanto quanto io amerò la Spina, tanto sempre per amor di lei amerò te, che che tu mi facci, ed avrotti in reverenza. — Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il tenne ed il suo amore fervente reputò, e piú ne l’ebbe caro: e per ciò, levatosi in piè, l’abbracciò e basciò, e senza dar piú indugio alla cosa comandò che quivi chetamente fosse menata la Spina. Ella era nella prigione magra e pallida divenuta e debole, e quasi un’altra femina che esser non soleva, parea, e cosí Giannotto uno altro uomo; i quali nella presenza di Currado di pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza. E poi che piú giorni, senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di tutto ciò che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli tempo di farne le loro madri liete, chiamate la sua donna e la Cavriuola, così verso lor disse: — Che direste voi, madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli marito d’una delle mie figliuole? — A cui la Cavriuola rispose: — Io non vi potrei di ciò altro dire se non che, se io vi potessi piú esser tenuta che io non sono, tanto piú vi sarei quanto voi piú cara cosa che non sono io medesima a me, mi rendereste: e rendendolami in quella guisa che voi dite, alquanto in me la mia perduta speranza rivocareste. — E lagrimando si tacque. Allora disse Currado alla sua donna: — Ed a te che ne parrebbe, donna, se io cosí fatto genero ti donassi? — A cui la donna rispose: — Non che un di loro, che gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe. — Allora disse Currado: — Io spero infra pochi di farvi di ciò liete femine. — E veggendo giá nella prima forma i due giovani ritornati, onorevolemente vestitigli, domandò Giuffredi: — Che ti sarebbe caro, sopra l’allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi? — A cui Giuffredi rispose: — Egli non mi si lascia credere che i dolori de’ suoi sventurati accidenti l’abbian tanto lasciata viva: ma se pur fosse, sommamente mi saria caro, sí come colui che ancora, per lo suo consiglio, mi crederei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia. — Allora Currado l’una e l’altra donna quivi fece venire. Elle fecero ammendune maravigliosa festa alla nuova sposa, non poco maravigliandosi quale spirazione potesse essere stata che Currado avesse a tanta benignitá recato, che Giannotto con lei avesse congiunto; al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a riguardare, e da occulta vertú desta in lei alcuna rammemorazione de’ puerili lineamenti del viso del suo figliuolo, senza aspettare altro dimostramento, con le braccia aperte gli corse al collo: né la soprabbondante pietá ed allegrezza materna le permisero di potere alcuna parola dire, anzi sí ogni vertú sensitiva le chiusero, che quasi morta nelle braccia del figliuolo cadde. Il quale, quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi d’averla molte volte avanti in quel castel medesimo veduta e mai non riconosciutala, pur nondimeno conobbe incontanente l’odor materno, e se medesimo della sua preterita trascutaggine biasimando, lei nelle braccia ricevuta lagrimando, teneramente basciò. Ma poi che madama Beritola, pietosamente dalla donna di Currado e dalla Spina aiutata, e con acqua fredda e con altre loro arti in sé le smarrite forze ebbe rivocate, rabbracciò da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte parole dolci, e piena di materna pietá mille volte o piú il basciò, ed egli lei reverentemente molto la vide e ricevette. Ma poi che l’accoglienze oneste e liete fûro iterate e quattro volte, non senza gran letizia e piacere de’ circostanti, e l’uno all’altro ebbe ogni suo accidente narrato; avendo giá Currado a’ suoi amici significato con gran piacer di tutti il nuovo parentado fatto da lui, ed ordinando una bella e magnifica festa, gli disse Giuffredi: — Currado, voi avete fatto me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre: ora, acciò che niuna parte, in quello che per voi si possa, ci resti a far, vi priego che voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti della presenza di mio fratello, il quale in forma di servo messer Guasparrin d’Oria tiene in casa, il quale, come io vi dissi giá, e lui e me prese in corso; ed appresso, che voi alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale pienamente s’informi delle condizioni e dello stato del paese, e mettasi a sentire quello che è d’Arrighetto mio padre, se egli è o vivo o morto, e se è vivo, in che stato, e d’ogni cosa pienamente informato a noi ritorni. — Piacque a Currado la domanda di Giuffredi, e senza alcuno indugio discretissime persone mandò ed a Genova ed in Cicilia. Colui che a Genova andò, trovato messer Guasparrino, da parte di Currado diligentemente il pregò che lo Scacciato e la sua balia gli dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò che per Currado era stato fatto verso Giuffredi e verso la madre. Messer Guasparrin si maravigliò forte questo udendo, e disse: — Egli è vero che io farei per Currado ogni cosa che io potessi, che gli piacesse; ed ho bene in casa avuti, giá sono quattordici anni, il garzon che tu domandi ed una sua madre, li quali io gli manderò volentieri: ma dira’gli da mia parte che si guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di Giannotto, il qual di’ che oggi si fa chiamar Giuffredi, per ciò che egli è troppo piú malvagio che egli non s’avvisa. — E cosí detto, fatto onorare il valente uomo, si fece in segreto chiamar la balia, e cautamente l’esaminò di questo fatto. La quale, avendo udita la ribellione di Cicilia e sentendo Arrighetto esser vivo, cacciata via la paura che giá avuta avea, ordinatamente ogni cosa gli disse e le ragioni gli mostrò per che quella maniera che fatto aveva tenuta avesse. Messer Guasparrin, veggendo li detti della balia con quegli dell’ambasciador di Currado ottimamente convenirsi, cominciò a dar fede alle parole, e per un modo e per uno altro, sí come uomo che astutissimo era, fatta inquisizion di questa opera e piú ognora trovando cose che piú fede gli davano al fatto, vergognandosi del vil trattamento fatto del garzone, in ammenda di ciò, avendo una sua bella fíglioletta d’etá d’undici anni, conoscendo egli chi Arrighetto era stato e fosse, con una gran dota gli die’ per moglie, e dopo una gran festa di ciò fatta, col garzone e con la figliuola e con l’ambasciador di Currado e con la balia montato sopra una galeotta bene armata, se ne venne a Lerici; dove ricevuto da Currado, con tutta la sua brigata n’andò ad un castel di Currado non molto di quivi lontano, dove la festa grande era apparecchiata. Quale la festa della madre fosse riveggendo il suo figliuolo, qual quella de’ due fratelli, qual quella di tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti fatta a messer Guasparrino ed alla sua figliuola, e di lui a tutti, e di tutti insieme con Currado e con la sua donna e co’ figliuoli e co’ suoi amici, non si potrebbe con parole spiegare: e per ciò a voi, donne, la lascio ad imaginare. Alla quale, acciò che compiuta fosse, volle Domenedio, abbondantissimo donatore quando comincia, sopraggiugnere le liete novelle della vita e del buono stato d’Arrighetto Capece. Per ciò che, essendo la festa grande ed i convitati, le donne e gli uomini, alle tavole ancora alla prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l’altre cose raccontò d’Arrighetto che, essendo egli in cattivitá per lo re Carlo guardato, quando il romore contro al re si levò nella terra, il popolo a furore corse alla prigione, ed uccise le guardie lui n’avean tratto fuori, e sí come capitale nemico del re Carlo l’avevano fatto lor capitano e seguitolo a cacciare e ad uccidere i franceschi; per la qual cosa egli sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i suoi beni ed in ogni suo onore rimesso aveva, laonde egli era in grande ed in buono stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto ed inestimabile festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de’ quali mai dopo la presura sua niente aveva saputo, ed oltre a ciò, mandava per loro una saettia con alquanti gentili uomini, li quali appresso venieno. Costui fu con grande allegrezza e festa ricevuto ed ascoltato: e prestamente Currado con alquanti de’ suoi amici incontro si fecero a’ gentili uomini che per madama Beritola e per Giuffredi venieno, e loro lietamente ricevette ed al suo convito, il quale ancora al mezzo non era, gl’introdusse. Quivi e la donna e Giuffredi ed oltre a questi tutti gli altri con tanta letizia gli videro, che mai simile non fu udita: ed essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte d’Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e piú poterono, Currado e la sua donna dell’onor fatto ed alla donna di lui ed al figliuolo, ed Arrighetto ed ogni cosa che per lui si potesse offersero al lor piacere. Quindi a messer Guasparrin rivolti, il cui beneficio era inoppinato, dissero, sé esser certissimi che, qualora ciò che per lui verso lo Scacciato stato era fatto da Arrighetto si sapesse, che grazie simigliami e maggiori rendute sarebbono. Appresso questo, lietissimamente nella festa delle due nuove spose e con li novelli sposi mangiarono. Né solo quel di fece Currado festa al genero ed agli altri suoi e parenti ed amici, ma molti altri; la quale poi che riposata fu, parendo a madama Beritola ed a Giuffredi ed agli altri di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla sua donna e da messer Guasparrino, sopra la saettia montati, seco la Spina menandone, si partirono, ed avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero, dove con tanta festa da Arrighetto tutti parimente ed i figliuoli e le donne furono in Palermo ricevuti, che dir non si potrebbe giá mai; dove poi molto tempo si crede che essi tutti felicemente vivessero, e come conoscenti del ricevuto beneficio, amici di messer Domenedio.
- [VII]
- Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi accidenti in ispazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie.
- Forse non molto piú si sarebbe la novella d’Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani donne a’ casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare. Ma poi che a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse, la sua raccontando; per la qual cosa egli, che obedientissimo era, incominciò:
- Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ciò che, sí come assai volte s’è potuto vedere, molti estimando, se essi ricchi divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d’acquistarlo cercarono: e come che loro venisse fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia ereditá gli uccise, li quali, avanti che arricchiti fossero, amavan la vita loro. Altri di basso stato per mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de’ fratelli e degli amici loro saliti all’altezza de’ regni, in quegli somma felicitá esser credendo, senza le infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, conobbero non senza la morte loro che nell’oro alle mense reali si beveva il veleno. Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d’aver mal disiderato s’avvidero, che altressí quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. Ed acciò che io partitamente di tutti gli umani disidèri non parli, affermo, niuno poterne essere con pieno avvedimento, sí come sicuro da’ fortunosi casi, che da’ viventi si possa eleggere; per che, se dirittamente operar volessimo, a quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse il quale solo ciò che ci fa bisogno conosce e puolci dare. Ma per ciò che, come che gli uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne, sommamente peccate in una, cioè nel disiderare d’esser belle, intanto che, non bastandovi le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte quelle cercate d’accrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente fosse bella una saracina alla quale in forse quattro anni avvenne per la sua bellezza di fare nuove nozze da nove volte.
- Giá è buon tempo passato che di Babilonia fu un soldano il quale ebbe nome Beminedab, al quale ne’ suoi di assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la qual, per quello che ciascun che la vedeva dicesse, era la piú bella femina che si vedesse in que’ tempi nel mondo; e per ciò che in una grande sconfitta la quale aveva data ad una gran moltitudine d’arabi, che addosso gli eran venuti, l’aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a lui, domandandogliele egli di grazia speziale, l’aveva per moglie data: e lei con onorevole compagnia e d’uomini e di donne e con molti nobili e ricchi arnesi fece sopra una nave bene armata e ben corredata montare, ed a lui mandandola l’accomandò a Dio. I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a’ venti e del porto d’Alessandria si partirono e piú giorni felicemente navigarono: e giá avendo la Sardigna passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo impetuoso, si faticaron la nave dove la donna era ed i marinari, che piú volte per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni arte ed ogni forza operando, essendo da infinito mare combattuti, due dí si sostennero: e surgendo giá dalla tempesta cominciata la terza notte, e quella non cessando ma crescendo tuttafiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per estimazion marineresca comprendere né per vista, per ciò che oscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdruscire. Per la qual cosa, non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun se medesimo e non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello piú tosto di fidarsi disponendo che sopra la sdruscita nave, si gittarono i padroni; a’ quali appresso or l’uno or l’altro di quanti uomini erano nella nave, quantunque quegli che prima nel paliscalmo eran discesi con le coltella in mano il contraddicessero, tutti si gittarono, e credendosi la morte fuggire, in quella incapparono: per ciò che, non potendone per la contrarietá del tempo tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono. E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdruscita fosse e giá presso che piena d’acqua; non essendovi sú rimasa altra persona che la donna e le sue femine, e quelle tutte, per la tempesta del mare e per la paura vinte, su per quella quasi morte giacevano; velocissimamente correndo, in una piaggia dell’isola di Maiolica percosse: e fu tanta e sí grande la foga di quella, che quasi tutta si ficcò nella rena, vicina al lito forse una gittata di pietra, e quivi, dal mar combattuta, la notte senza poter piú dal vento esser mossa si stette. Venuto il giorno chiaro ed alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era, alzò la testa, e cosí debole come era cominciò a chiamare ora uno ed ora uno altro della sua famiglia, ma per niente chiamava: i chiamati erano troppo lontani. Per che, non sentendosi rispondere ad alcuno né alcuno veggendone, si maravigliò molto e cominciò ad avere grandissima paura: e come meglio poté levatasi, le donne che in compagnia di lei erano e l’altre femine tutte vide giacere, ed or l’una ed or l’altra dopo molto chiamare tentando, poche ve ne trovò che avessono sentimento, sí come quelle che, tra per grave angoscia di stomaco e per paura, morte s’erano; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma nondimeno, strignendola necessitá di consiglio, per ciò che quivi tutta sola si vedeva, non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive erano, che sú le fece levare: e trovando quelle non sapere dove gli uomini andati fossero, e veggendo la nave in terra percossa e d’acqua piena, con quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere. E giá era ora di nona avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte vedessero a cui di sé potessero far venire alcuna pietá ad aiutarle. In su la nona, per ventura da un suo luogo tornando, passò di quindi un gentile uomo il cui nome era Pericon da Visalgo, con piú suoi famigli a cavallo, il quale, veggendo la nave, subitamente imaginò ciò che era e comandò ad un de’ famigli che senza indugio procacciasse di sú montarvi e gli raccontasse ciò che vi fosse. Il famigliare, ancora che con difficultá il facesse, pur vi montò sú, e trovò la gentil giovane, con quella poca compagnia che avea, sotto il becco della proda della nave tutta timida star nascosa. Le quali, come costui videro, piagnendo piú volte misericordia addomandarono, ma accorgendosi che intese non erano né esse lui intendevano, con atti s’ingegnarono di dimostrare la loro disavventura. Il famigliare, come poté il meglio ogni cosa ragguardata, raccontò a Pericone ciò che sú v’era, il quale, prestamente fattene giú tôrre le donne e le piú preziose cose che in essa erano e che aver si potessono, con esse n’andò ad un suo castello: e quivi con vivande e con riposo riconfortate le donne, comprese, per gli arnesi ricchi, la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei prestamente conobbe all’onore che vedeva dall’altre fare a lei sola. E quantunque pallida ed assai male in ordine della persona per la fatica del mare allora fosse la donna, pur pareano le sue fattezze bellissime a Pericone; per la qual cosa subitamente seco diliberò, se ella marito non avesse, di volerla per moglie, e se per moglie aver non la potesse, di volere avere la sua amistá. Era Pericone uomo di fiera vista e robusto molto; ed avendo per alcun dí la donna ottimamente fatta servire, e per questo essendo ella riconfortata tutta, veggendola esso oltre ad ogni estimazione bellissima, dolente senza modo che lei intender non poteva né ella lui, e cosí non poter saper chi si fosse, acceso nondimeno della sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli ed amorosi s’ingegnò d’inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò era niente: ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza, ed intanto piú s’accendeva l’ardore di Pericone; il che la donna veggendo, e giá quivi per alcuni giorni dimorata e per li costumi avvisando che tra cristiani era, ed in parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco, avvisandosi che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericon fare, con altezza d’animo seco propose di calcare la miseria della sua fortuna, ed alle sue femine, che piú che tre rimase non ne l’erano, comandò che ad alcuna persona mai manifestassero chi fossero, salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertá conoscessero: oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro castitá, affermando, sé avere seco proposto che mai di lei se non il suo marito goderebbe. Le sue femine di ciò la commendarono, e dissero di servare al lor potere il suo comandamento. Pericone, piú di giorno in giorno accendendosi, e tanto piú quanto piú vicina si vedeva la disiderata cosa e piú negata, e veggendo che le sue lusinghe non gli valevano, dispose lo ’ngegno e l’arti, riserbandosi alla fine le forze. Ed essendosi avveduto alcuna volta che alla donna piaceva il vino, sí come a colei che usata non n’era di bere, per la sua legge che il vietava, con quello, sí come con ministro di Venere, s’avvisò di poterla pigliare: e mostrando di non aver cura di ciò che ella si mostrava schifa, fece una sera per modo di solenne festa una bella cena, nella quale la donna venne; ed in quella, essendo di molte cose la cena lieta, ordinò con colui che a lei servia che di vari vini mescolati le desse bere. Il che colui ottimamente fece: ed ella, che di ciò non si guardava, dalla piacevolezza del beveraggio tirata, piú ne prese che alla sua onestá non si sarebbe richesto; di che ella, ogni avversitá trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine alla guisa di Maiolica ballare, essa alla maniera alessandrina ballò. Il che veggendo Pericone, esser gli parve vicino a quello che egli disiderava, e continuando in piú abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la prolungò. Ultimamente, partitisi i convitati, con la donna solo se n’entrò nella camera; la quale, piú calda di vino che d’onestá temperata, quasi come se Pericone una delle sue femine fosse, senza alcun ritegno di vergogna in presenza di lui spogliatasi, se n’entrò nel letto. Pericone non diede indugio a seguitarla, ma spento ogni lume, prestamente dall’altra parte le si coricò allato, ed in braccio recatalasi senza alcuna contraddizione di lei, con lei incominciò amorosamente a sollazzarsi. Il che poi che ella ebbe sentito, non avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del non avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d’essere a cosí dolci notti invitata, spesse volte se stessa invitava, non con le parole, ché non si sapea fare intendere, ma co’ fatti. A questo gran piacere di Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d’averla di moglie d’un re fatta divenire amica d’un castellano, le si parò davanti piú crudele amistá. Aveva Pericone un fratello d’etá di venticinque anni, bello e fresco come una rosa, il cui nome era Marato; il quale, avendo costei veduta ed essendogli sommamente piaciuta, parendogli, secondo che per gli atti di lei poteva comprendere, essere assai bene della grazia sua, ed estimando che ciò che di lei disiderava niuna cosa gliele toglieva se non la solenne guardia che faceva di lei Pericone, cadde in un crudel pensiero: ed al pensiero seguí senza indugio lo scellerato effetto. Era allora per ventura nel porto della cittá una nave la quale di mercatantía era carica per andare in Chiarenza in Romania, della quale due giovani genovesi eran padroni, e giá aveva collata la vela per doversi, come buon vento fosse, partire; con li quali Marato convenutosi, ordinò come da loro con la donna la seguente notte ricevuto fosse. E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò che far doveva avendo disposto, alla casa di Pericone, il quale di niente da lui si guardava, sconosciutamente se n’andò con alcuni suoi fidatissimi compagni li quali a quello che fare intendeva richesti aveva, e nella casa, secondo l’ordine tra lor posto, si nascose. E poi che parte della notte fu trapassata, aperto a’ suoi compagni, lá dove Pericon con la donna dormiva n’andarono, e quella aperta, Pericone dormente uccisono e la donna mesta e piagnente minacciando di morte se alcun romor facesse, presero: e con gran parte delle piú preziose cose di Pericone, senza essere stati sentiti, prestamente alla marina n’andarono, e quindi senza indugio sopra la nave se ne montarono Marato e la donna, ed i suoi compagni se ne tornarono. I marinari, avendo buon vento e fresco, fecero vela al lor viaggio. La donna amaramente e della sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto: ma Marato col santo Cresci-in-man che Dio ci die’ la cominciò per sí fatta maniera a consolare, che ella, giá con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato aveva; e giá le pareva star bene, quando la fortuna l’apparecchiò nuova tristizia, quasi non contenta delle passate. Per ciò che, essendo ella di forma bellissima, sí come giá piú volte detto avemo, e di maniere laudevoli molto, sì forte di lei i due giovani padroni della nave s’innamorarono, che, ogni altra cosa dimenticatane, a servirle ed a piacerle intendevano, guardandosi sempre non Marato s’accorgesse della cagione. Ed essendosi l’un dell’altro di questo amore avveduto, di ciò ebbero insieme segreto ragionamento, e convennersi di fare l’acquisto di questo amor comune, quasi Amore cosí questo dovesse patire come la mercatantía o i guadagni fanno. E veggendola molto da Marato guardata, e per ciò alla loro intenzione impediti, andando un dí a vela velocissimamente la nave, e Marato standosi sopra la poppa e verso il mare riguardando, di niuna cosa da lor guardandosi, di concordia andarono, e lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare, e prima per ispazio di piú d’un miglio dilungati furono, che alcuno si fosse pure avveduto, Marato esser caduto in mare; il che sentendo la donna e non veggendosi via da poterlo ricoverare, nuovo cordoglio sopra la nave a far cominciò. Al conforto della quale i due amanti incontanente vennero, e con dolci parole e con promesse grandissime, quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il perduto marito quanto la sua sventura piagnea, s’ingegnavan di racchetare. E dopo lunghi sermoni ed una ed altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere racconsolata, a ragionamento venner tra se medesimi, qual prima di loro la dovesse con seco menare a giacere. E volendo ciascuno essere il primo né potendosi in ciò tra loro alcuna concordia trovare, prima, con parole, grave e dura riotta incominciarono, e da quella accesi nell’ira, messo mano alle coltella, furiosamente s’andarono addosso: e piú colpi, non potendo quegli che sopra la nave eran dividergli, si diedono insieme, de’ quali incontanente l’un cadde morto, e l’altro in molte parti della persona gravemente fedito rimase in vita; il che dispiacque molto alla donna, sí come a colei che quivi sola senza aiuto o consiglio d’alcun si vedea, e temeva forte non sopra lei l'ira si volgesse de’ parenti e degli amici de’due padroni: ma i prieghi del fedito ed il prestamente pervenire a Chiarenza dal pericolo della morte la liberarono. Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in uno albergo, subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la cittá, ed agli orecchi del prenze della Morea, il quale allora era in Chiarenza, pervenne: laonde egli vederla volle, e vedutala ed oltre a quello che la fama portava bella parendogli, sí forte di lei subitamente s’innamorò, che ad altro non poteva pensare; ed avendo udito in che guisa quivi pervenuta fosse, s’avvisò di doverla potere avere. E cercando de’ modi ed i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare prestamente gliele mandarono; il che al prenze fu sommamente caro ed alla donna altressí, per ciò che fuori d’un gran pericolo esser le parve. Il prenze, veggendola, oltre alla bellezza, ornata di costumi reali, non potendo altramenti saper chi ella si fosse, nobile donna dovere essere l’estimò, e pertanto il suo amore in lei si raddoppiò: ed onorevolmente molto tenendola, non a guisa d’amica, ma di sua propria moglie la trattava. Il perché, avendo a’ trapassati mali alcun rispetto la donna e parendole assai bene stare, tutta riconfortata e lieta divenuta, intanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna altra cosa pareva che tutta la Romania avesse da favellare. Per la qual cosa al duca d’Atene, giovane e bello e pro’ della persona, amico e parente del prenze, venne disidèro di vederla: e mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta di fare, con bella ed onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove onorevolemente fu ricevuto e con gran festa. Poi, dopo alcun dí, venuti insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna, domandò il duca se cosí era mirabil cosa come si ragionava; a cui il prenze rispose: — Molto piú; ma di ciò non le mie parole, ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede. — A che sollecitando il duca il prenze, insieme n’andarono lá dove ella era; la quale costumatamente molto e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli ricevette. Ed in mezzo di loro fattala sedere, non si poté di ragionar con lei prender piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva; per che ciascun lei sí come maravigliosa cosa guardava, ed il duca massimamente, il quale appena seco poteva credere, lei essere cosa mortale: e non accorgendosi, riguardandola, dell’amoroso veleno che egli con gli occhi bevea, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola, se stesso miseramente impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi. E poi che da lei insieme col prenze partito si fu ed ebbe spazio di poter pensare seco stesso, estimava il prenze sopra ogni altro felice, sí bella cosa avendo al suo piacere; e dopo molti e vari pensieri, pesando piú il suo focoso amore che la sua onestá, diliberò, che che avvenirsene dovesse, di privare di questa felicitá il prenze e sé a suo poter farne felice. Ed avendo l’animo al doversi avacciare, lasciando ogni ragione ed ogni giustizia dall’una delle parti, agl’inganni tutto il suo pensier dispose: ed un giorno, secondo l’ordine malvagio da lui preso, insieme con un segretissimo cameriere del prenze il quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente tutti i suoi cavalli e le sue cose fece mettere in assetto per doversene andare, e la notte vegnente, insieme con un compagno, tutti armati, messo fu dal predetto Ciuriaci nella camera del prenze chetamente. Il quale egli vide che, per lo gran caldo che era, dormendo la donna, esso tutto ignudo si stava ad una finestra vòlta alla marina, a ricevere un venticello che da quella parte veniva; per la qual cosa, avendo il suo compagno davanti informato di quello che avesse a fare, chetamente n’andò per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello fedito il prenze per le reni, infino dall’altra parte il passò, e prestamente presolo, dalla finestra il gittò fuori. Era il palagio sopra il mare ed alto molto, e quella finestra alla quale allora era il prenze guardava sopra certe case dall’impeto del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona; per che avvenne, sí come il duca davanti avea provveduto, che la caduta del corpo del prenze da alcuno né fu né poté esser sentita. Il compagno del duca, ciò veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò portato, faccendo vista di fare carezze a Ciuriaci, gli gittò alla gola e tirò, sí che Ciuriaci niuno romore poté fare: e sopraggiuntovi il duca, lui strangolarono, e dove il prenze gittato avea, il gittarono. E questo fatto, manifestamente conoscendo, sé non essere stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in mano, e quello portò sopra il letto, e chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse: e riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se vestita gli era piaciuta, oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque. Per che, di piú caldo disio accesosi, non ispaventato dal ricente peccato da lui commesso, con le mani ancor sanguinose allato le si coricò e con lei tutta sonnacchiosa, e credente che il prenze fosse, si giacque. Ma poi che alquanto con grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatti alquanti de’ suoi compagni quivi venire, fe’ prender la donna in guisa che romore far non potesse, e per una falsa porta, donde egli entrato era, trattala, ed a caval messala, quanto piú poté tacitamente, con tutti i suoi entrò in cammino e verso Atene se ne tornò. Ma per ciò che moglie aveva, non in Atene ma ad un suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla cittá sopra il mare aveva, la donna piú che altra dolorosa mise, quivi nascosamente tenendola e faccendola onorevolmente, di ciò che bisognava, servire. Aveano la seguente mattina i cortigiani del prenze infino a nona aspettato che il prenze si levasse: ma niente sentendo, sospinti gli usci delle camere che solamente chiusi erano, e niuna persona trovandovi, avvisando che occultamente in alcuna parte andato fosse per istarsi alcun dí a suo diletto con quella sua bella donna, piú non si dierono impaccio. E cosí standosi, avvenne che il dí seguente un matto, entrato intra le ruine dove il corpo del prenze e di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò fuori Ciuriaci, ed andavalsi tirando dietro. Il quale non senza gran maraviglia fu riconosciuto da molti, li quali con lusinghe fattisi menare al matto lá onde tratto l’avea, quivi, con grandissimo dolore di tutta la cittá, quello del prenze trovarono, ed onorevolmente il sepellirono; e de’ commettitori di cosí grande eccesso investigando, e veggendo il duca d’Atene non esservi, ma essersi furtivamente partito, estimarono, cosí come era, lui dovere aver fatto questo e menatasene la donna. Per che prestamente in lor prenze un fratello del morto prenze sostituendo, lui alla vendetta con ogni loro potere incitarono; il quale, per piú altre cose poi accertato cosí essere come immaginato avieno, richiesti ed amici e parenti e servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e poderosa oste, ed a far guerra al duca d’Atene si dirizzò. Il duca, queste cose sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo apparecchiò, ed in aiuto di lui molti signor vennero, tra’ quali, mandati dallo ’mperadore di Costantinopoli, furono Costanzo suo figliuolo e Manovello suo nepote con bella e con gran gente; li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono, e dalla duchessa piú, per ciò che loro sirocchia era. Appressandosi di giorno in giorno piú alla guerra le cose, la duchessa, preso tempo, ammenduni nella camera gli si fece venire, e quivi con lagrime assai e con parole molte tutta l’istoria narrò, le cagioni della guerra narrando; mostrò il dispetto a lei fatto dal duca della femina la quale nascosamente si credeva tenere, e forte di ciò condolendosi, gli pregò che all’onor del duca ed alla consolazion di lei quello compenso mettessero che per loro si potesse il migliore. Sapevano i giovani tutto il fatto come stato era, e per ciò, senza troppo addomandar, la duchessa come seppero il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempierono, e da lei informati dove stesse la donna, si dipartirono. Ed avendo molte volte udita la donna di maravigliosa bellezza commendare, disideraron di vederla ed il duca pregarono che loro la mostrasse; il quale, mal ricordandosi di ciò che al prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo: e fatto in un bellissimo giardino, che nel luogo dove la donna dimorava, era, apparecchiare un magnifico desinare, loro la seguente mattina con pochi altri compagni a mangiar con lei menò. E sedendo Costanzo con lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando mai sì bella cosa non aver veduta, e che per certo per iscusato si doveva avere il duca e qualunque altro che per avere una sì bella cosa facesse tradimento o altra disonesta cosa: ed una volta ed altra mirandola, e piú ciascuna commendandola, non altramenti a lui avvenne che al duca avvenuto era. Per che, da lei innamorato partitosi, tutto il pensier della guerra abbandonato, si diede al pensare come al duca tôrre la potesse, ottimamente a ciascuna persona il suo amor celando. Ma mentre che esso in questo fuoco ardeva, sopravvenne il tempo d’uscire contro al prenze che giá alle terre del duca s’avvicinava; per che il duca e Costanzo e gli altri tutti, secondo l’ordine dato d’Atene usciti, andarono a contrastare a certe frontiere, acciò che piú avanti non potesse il prenze venire. E quivi per piú dí dimorando, avendo sempre Costanzo l’animo ed il pensiero a quella donna, imaginando che, ora che il duca non l’era vicino, assai bene gli potrebbe venir fatto il suo piacere, per aver cagione di tornarsi ad Atene si mostrò forte della persona disagiato; per che, con licenza del duca, commessa ogni sua podestá in Manovello, ad Atene se ne venne alla sorella, e quivi, dopo alcun dí, messala nel ragionare del dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna la qual teneva, le disse che, dove ella volesse, egli assai bene di ciò l’aiuterebbe, faccendola di colá ove era trarre e menarla via. La duchessa, estimando, Costanzo questo per amor di lei e non della donna fare, disse che molto le piacea, sí veramente dove in guisa si facesse, che il duca mai non risapesse che essa a questo avesse consentito. Il che Costanzo pienamente le promise; per che la duchessa consentí che egli come il meglio gli paresse, facesse. Costanzo chetamente fece armare una barca sottile, e quella una sera ne mandò vicina al giardino dove dimorava la donna, informati de’ suoi che sú v’erano quello che a fare avessero, ed appresso con altri n’andò al palagio dove era la donna, dove da quegli che quivi al servigio di lei erano fu lietamente ricevuto, ed ancora dalla donna: e con essolui, da’ suoi servidori accompagnata e da’ compagni di Costanzo, sí come gli piacque, se n’andò nel giardino. E quasi alla donna da parte del duca parlar volesse, con lei verso una porta che sopra il mare usciva solo se n’andò, la quale giá essendo da un de’ suoi compagni aperta, e quivi col segno dato chiamata la barca, fattala prestamente prendere e sopra la barca porre, rivolto alla famiglia di lei, disse: — Niun se ne muova né faccia motto, se egli non vuol morire, per ciò che io intendo non di rubare al duca la femina sua, ma di tôrre via l’onta la quale egli fa alla mia sorella. — A questo niuno ardí di rispondere; per che Costanzo, co’ suoi sopra la barca montato ed alla donna che piagnea accostatosi, comandò che de’ remi dessero in acqua ed andasser via. Li quali, non vogando ma volando, quasi in sul dí del seguente giorno ad Egina pervennero. Quivi in terra discesi e riposandosi, Costanzo con la donna, che la sua sventurata bellezza piagnea, si sollazzò; quindi, rimontati in su la barca, infra pochi giorni pervennero a Chios, e quivi, per tema delle riprensioni del padre e che la donna rubata non gli fosse tolta, piacque a Costanzo come in sicuro luogo di rimanersi; dove piú giorni la bella donna pianse la sua disavventura, ma pur poi, da Costanzo riconfortata, come l’altre volte fatto avea, s’incominciò a prender piacere di ciò che la fortuna avanti l’apparecchiava. Mentre queste cose andavano in questa guisa, Osbech, allora re de’ turchi, il quale in continua guerra stava con lo ’mperadore, in questo tempo venne per caso alle Smirre, e quivi udendo come Costanzo in lasciva vita, con una sua donna la quale rubata avea, senza alcun provvedimento si stava in Chios, con alcuni legnetti armati lá andatone una notte e tacitamente con la sua gente nella terra entrato, molti sopra le letta ne prese prima che s’accorgessero li nemici esser sopravvenuti: ed ultimamente alquanti che, risentiti, erano all’armi corsi n’uccisero, ed arsa tutta la terra, e la preda ed i prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si ritornarono. Quivi pervenuti, trovando Osbech, che giovane uomo era, nel riveder della preda la bella donna, e conoscendo, questa esser quella che con Costanzo era stata sopra il letto dormendo presa, fu sommamente contento veggendola: e senza niuno indugio sua moglie la fece e celebrò le nozze, e con lei si giacque piú mesi lieto. Lo ’mperadore, il quale avanti che queste cose avvenissero aveva tenuto trattato con Basano, re di Capadocia, acciò che sopra Osbech dall’una parte con le sue forze discendesse, ed egli con le sue l’assalirebbe dall’altra, né ancora pienamente l’aveva potuto fornire, per ciò che alcune cose le quali Basano addomandava, sí come meno convenevoli, non aveva volute fare, sentendo ciò che al figliuolo era avvenuto, dolente fuor di misura, senza alcuno indugio ciò che il re di Capadocia domandava fece, e lui quanto piú poté allo scendere sopra Osbech sollecitò, apparecchiandosi egli d’altra parte d’andargli addosso. Osbech, sentendo questo, il suo esercito ragunato, prima che da’ due potentissimi signori fosse stretto in mezzo, andò contro al re di Capadocia, lasciata nelle Smirre a guardia d’un suo fedele famigliare ed amico la sua bella donna: e col re di Capadocia dopo alquanto tempo affrontatosi, combatté, e fu nella battaglia morto ed il suo esercito sconfitto e disperso. Per che Basano vittorioso cominciò liberamente a venirsene verso le Smirre: e venendo, ogni gente a lui sí come a vincitore ubidiva. Il famigliar d’Osbech, il cui nome era Antioco, a cui la bella donna era a guardia rimasa, ancora che attempato fosse, veggendola cosí bella, senza servare al suo amico e signor fede, di lei s’innamorò: e sappiendo la lingua di lei; il che molto a grado l’era, sí come a colei alla quale parecchi anni a guisa quasi di sorda e di mutola era convenuta vivere, per lo non aver persona inteso, né essa essere stata intesa da persona; da amore incitato, cominciò seco tanta famigliaritá a pigliare in pochi dí, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro che in arme ed in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente amichevole, ma amorosa divenire, l’un dell’altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso piacere. Ma sentendo costoro, Osbech esser vinto e morto, e Basano ogni cosa venir pigliando, insieme per partito presero di quivi non aspettarlo: ma presa grandissima parte delle cose che quivi eran d’Osbech, insieme nascosamente se n’andarono a Rodi, e quivi non guari di tempo dimorarono, che Antioco infermò a morte. Col quale tornando per ventura un mercatante cipriano da lui molto amato e sommamente suo amico, sentendosi egli verso la fine venire, pensò di volere e le sue cose e la sua cara donna lasciare a lui, e giá alla morte vicino, ammenduni gli chiamò, cosí dicendo: — Io mi veggio senza alcun fallo venir meno; il che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi giovò come ora faceva. È il vero che d’una cosa contentissimo muoio, per ciò che, pur dovendo morire, mi veggio morir nelle braccia di quelle due persone le quali io piú amo che alcune altre che al mondo ne sieno, cioè nelle tue, carissimo amico, ed in quelle di questa donna la quale io piú che me medesimo ho amata poscia che io la conobbi. È il vero che grave m’è lei sentendo qui forestiera e senza aiuto e senza consiglio, morendomi io, rimanere; e piú sarebbe grave ancora, se io qui non sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei avrai per amor di me che di me medesimo avresti: e per ciò quanto piú posso ti priego che, se egli avviene che io muoia, che le mie cose ed ella ti sieno raccomandate, e quello dell’une e dell’altra facci che credi che sia consolazione dell’anima mia. E te, carissima donna, priego che dopo la mia morte me non dimentichi, acciò che io di lá vantarmi possa che io di qua amato sia dalla piú bella donna che mai formata fosse dalla natura. Se di queste due cose voi mi darete intera speranza, senza niun dubbio n’andrò consolato. — L’amico mercatante e la donna similmente, queste parole udendo, piagnevano: ed avendo egli detto, il confortarono, e promisongli sopra la lor fede di quel fare che egli pregava, se avvenisse che el morisse; il quale non istette guari che trapassò e da loro fu onorevolmente fatto sepellire. Poi, pochi dí appresso, avendo il mercatante cipriano ogni suo fatto in Rodi spacciato ed in Cipri volendosene tornare sopra una cocca di catalani che v’era, domandò la bella donna quello che far volesse, con ciò fosse cosa che a lui convenisse in Cipri tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se n’andrebbe, sperando che per amor d’Antioco da lui come sorella sarebbe trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d’ogni suo piacere era contento: ed acciò che da ogni ingiuria che sopravvenire le potesse avanti che in Cipri fosser, la difendesse, disse che era sua moglie. E sopra la nave montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole contrari, con lei in un lettuccio assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa avvenne quello che né dell’un né dell’altro nel partir da Rodi era stato intendimento, cioè che, incitandogli il buio e l’agio ed il caldo del letto, le cui forze non son piccole, dimenticata l’amistá e l’amor d’Antioco morto, quasi da iguali appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a Baffa giugnessero, lá onde era il cipriano, insieme fecero parentado; ed a Baffa pervenuti, piú tempo insieme col mercatante si stette. Avvenne per ventura che a Baffa venne per alcuna sua bisogna un gentile uomo il cui nome era Antigono, la cui etá era grande ma il senno maggiore, e la ricchezza piccola, per ciò che in assai cose intramettendosi egli ne’ servigi del re di Cipri gli era la fortuna stata contraria. Il quale, passando un giorno davanti alla casa dove la bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatante andato con sua mercatantía in Erminia, gli venne per ventura ad una finestra della casa di lei questa donna veduta; la qual, per ciò che bellissima era, fisa cominciò a riguardare, e cominciò seco stesso a ricordarsi di doverla avere altra volta veduta, ma il dove in niuna maniera ricordarsi poteva. La bella donna, la quale lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il termine nel quale i suoi mali dovevano aver fine, come ella Antigono vide, cosí si ricordò di lui in Alessandria ne’ servigi del padre in non piccolo stato aver veduto; per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora nello stato real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi il mercatante suo, come piú tosto poté, si fece chiamare Antigono. Il quale a lei venuto ella vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta fosse, sí come ella credeva. Antigono rispose del sí, ed oltre a ciò disse: — Madonna, a me pare voi riconoscere, ma per niuna cosa mi posso ricordar dove; per che io vi priego, se grave non v’è, che a memoria mi riduciate chi voi siete. — La donna, udendo che desso era, piagnendo forte gli si gittò con le braccia al collo, e dopo alquanto lui che forte si maravigliava domandò se mai in Alessandria veduta l’avesse. La qual domanda udendo Antigono, incontanente riconobbe costei essere Alatiel figliuola del soldano, la quale morta in mare si credeva che fosse, e vollele fare la debita reverenza: ma ella nol sostenne, e pregollo che seco alquanto si sedesse. La qual cosa da Antigono fatta, egli reverentemente la domandò come e quando e donde quivi venuta fosse, con ciò fosse cosa che per tutta terra d’Egitto s’avesse per certo, lei in mare, giá eran piú anni passati, essere annegata. A cui la donna disse: — Io vorrei bene che cosí fosse stato piú tosto che avere avuta la vita la quale avuta ho, e credo che mio padre vorrebbe il simigliante, se giá mai il saprá. — E cosí detto, rincominciò maravigliosamente a piagnere; per che Antigono le disse: — Madonna, non vi sconfortate prima che vi bisogni; se vi piace, narratemi i vostri accidenti e che vita sia stata la vostra: per avventura l’opera potrá essere andata in modo, che noi ci troveremo, con l’aiuto di Dio, buon compenso. — Antigono, — disse la bella donna — a me parve, come io ti vidi, vedere il padre mio, e da quello amore e da quella tenerezza che io a lui tenuta son di portare mossa, potendomiti celare, mi ti feci palese, e di poche persone sarebbe potuto addivenire, d’aver vedute delle quali io tanto contenta fossi quanto sono d’aver te innanzi ad alcuno altro veduto e riconosciuto: e per ciò quello che nella mia malvagia fortuna ho sempre tenuto nascoso, a te sí come a padre paleserò. Se vedi, poi che udito l’avrai, da potermi in alcun modo nel mio pristino stato tornare, priegoti l’adoperi; se nol vedi, ti priego che mai ad alcuna persona dichi d’avermi veduta o di me avere alcuna cosa sentita. — E questo detto, sempre piagnendo, ciò che avvenuto l’era dal dí che in Maiolica ruppe infino a quel punto gli raccontò; di che Antigono pietosamente a piagnere cominciò, e poi che alquanto ebbe pensato, disse: — Madonna, poi che occulto è stato ne’ vostri infortuni chi voi siate, senza fallo piú cara che mai vi renderò al vostro padre, ed appresso per moglie al re del Garbo. — E domandato da lei del come, ordinatamente ciò che da far fosse le dimostrò; ed acciò che altro per indugio intervenir non potesse, di presente si tornò Antigono in Famagosta e fu al re, al qual disse: — Signor mio, se a voi aggrada, voi potete ad una ora a voi fare grandissimo onore, ed a me, che povero sono per voi, grande utile senza gran vostro costo. — Il re domandò come. Antigono allora disse: — A Baffa è pervenuta la bella giovane figliuola del soldano, di cui è stata cosí lunga fama che annegata era: ed ha, per servare la sua onestá, grandissimo disagio sofferto lungamente, ed al presente è in povero stato e disidera di tornarsi al padre. Se a voi piacesse di mandargliele sotto la mia guardia, questo sarebbe grande onor di voi, e di me gran bene; né credo che mai tal servigio di mente al soldano uscisse. — Il re, da una reale onestá mosso, subitamente rispose che gli piacea: ed onoratamente per lei mandando, a Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con festa inestimabile e con onor magnifico fu ricevuta; la quale poi, dal re e dalla reina de’ suoi casi addomandata, secondo l’ammaestramento datole da Antigono, rispose e contò tutto. E pochi dí appresso, addomandandolo ella, il re, con bella ed onorevole compagnia d’uomini e di donne, sotto il governo d’Antigono la rimandò al soldano; dal quale se con festa fu ricevuta niun ne domandi, ed Antigono similemente con tutta la sua compagnia. La quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata, senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire. La donna, la quale ottimamente gli ammaestramenti d’Antigono aveva tenuti a mente, appresso al padre cosí cominciò a parlare: — Padre mio, forse il ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave, sdruscita, percosse a certe piagge lá in Ponente, vicine d’un luogo chiamato Aguamorta, una notte, e che degli uomini che sopra la nostra nave erano, si fosse, io nol so né seppi giá mai: di tanto mi ricorda che, venuto il giorno ed io quasi di morte a vita risurgendo, essendo giá la straccata nave da’ paesani veduta, ed essi a rubar quella di tutta la contrada corsi, io con due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, ed incontanente da’ giovani prese, chi qua con una e chi lá con un’altra cominciarono a fuggire. Che di loro si fosse, io nol seppi mai: ma avendo me contrastante due giovani presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre forte, avvenne che, passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in un grandissimo bosco, quattro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo, li quali come quegli che mi tiravano videro, cosí lasciatami, prestamente presero a fuggire. Li quattro uomini, li quali nel sembiante assai autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io era e molto mi domandarono, ed io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra un de’ lor cavalli, mi menarono ad un monistero di donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che che essi dicessero, io fui da tutte benignissimamente ricevuta ed onorata sempre, e con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci-in-Valcava, a cui le femine di quel paese voglion molto bene. Ma poi che per alquanto tempo con loro dimorata fui, e giá alquanta avendo della loro lingua apparata, domandandomi esse chi io fossi e donde, ed io conoscendo lá dove io era e temendo, se il vero dicessi, non fossi da lor cacciata sí come nemica della lor legge, risposi che io era figliuola d’un gran gentile uomo di Cipri, il quale mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e rotti. Ed assai volte in assai cose, per tema di peggio, servai i lor costumi; e domandata dalla maggiore di quelle donne, la quale esse appelian «badessa», se in Cipri tornare me ne volessi, risposi che niuna cosa tanto disiderava: ma essa, tenera del mio onore, mai ad alcuna persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di Francia con le loro donne, de’ quali alcun parente v’era della badessa, e sentendo essa che in Ierusalem andavano a visitare il sepolcro dove colui cui tengon per Iddio fu sepellito poi che da’ giudei fu ucciso, a loro mi raccomandò, e pregògli che in Cipri a mio padre mi dovessero presentare. Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi ricevessero insieme con le lor donne, lunga istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo piú giorni pervenimmo a Baffa: e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendomi né sappiendo che dovermi dire a’ gentili uomini che a mio padre mi volean presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna, m’apparecchiò Iddio, al quale forse di me incresceva, sopra il lito Antigono in quella ora che noi a Baffa smontavamo; il quale io prestamente chiamai, ed in nostra lingua, per non essere da’ gentili uomini né dalle donne intesa, gli dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente m’intese, e fattami la festa grande, quegli gentili uomini e quelle donne secondo la sua povera possibilitá onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello onore mi ricevette e qui a voi m’ha rimandata che mai per me raccontare non si potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono, che molte volte da me ha questa mia fortuna udita, il racconti. — Antigono allora, al soldano rivolto, disse: — Signor mio, si come ella m’ha piú volte detto e come quegli gentili uomini con li quali venne mi dissero, v’ha raccontato; solamente una parte v’ha lasciata a dire, la quale io estimo che, per ciò che bene non istá a lei di dirlo, l’abbia fatto: e questo è, quanto quegli gentili uomini e donne con li quali venne dicessero dell’onesta vita la quale con le religiose donne aveva tenuta e della sua vertú e de’ suoi laudevoli costumi, e delle lagrime e del pianto che fecero e le donne e gli uomini quando, a me restituitola, si partiron da lei. Delle quali cose se io volessi appien dire ciò che essi mi dissero, non che il presente giorno, ma la seguente notte non ci basterebbe: tanto solamente averne detto voglio che basti, che, secondo che le loro parole mostravano e quello ancora che io n’ho potuto vedere, voi vi potete vantare d’avere la piú bella figliuola e la piú onesta e la piú valorosa che altro signore che oggi corona porti. — Di queste cose fece il soldano maravigliosissima festa e piú volte pregò Iddio che grazia gli concedesse di potere degni meriti rendere a chiunque avea la figliuola onorata, e massimamente al re di Cipri per cui onoratamente gli era stata rimandata; ed appresso alquanti dí, fatti grandissimi doni apparecchiare ad Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò, al re per lettere e per ispeziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di ciò che fatto aveva alla figliuola. Appresso questo, volendo che quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella moglie fosse del re del Garbo, a lui ogni cosa significò, scrivendogli oltre a ciò che, se gli piacesse d’averla, per lei si mandasse. Di ciò fece il re del Garbo gran festa, e mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette; ed essa, che con otto uomini forse diecemilia volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegliele credere che cosí fosse, e reina con lui lietamente poi piú tempo visse. E per ciò si disse: «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna».
- [VIII]
- Il conte d’Anguersa, falsamente accusato, va in esilio; lascia due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra, ed egli, sconosciuto tornando di Scozia, lor truova in buono stato; va come ragazzo nell’esercito del re di Francia, e riconosciuto innocente, è nel primo stato ritornato.
- Sospirato fu molto dalle donne per li vari casi della bella donna: ma chi sa che cagione moveva que’ sospiri? Forse v’eran di quelle che non meno per vaghezza di cosí spesse nozze che per pietá di colei sospiravano. Ma lasciando questo stare al presente, essendosi da loro riso per l’ultime parole da Panfilo dette, e veggendo la reina in quelle la novella di lui esser finita, ad Elissa rivolta, impose che con una delle sue l’ordine seguitasse; la quale, lietamente faccendolo, incominciò:
- Ampissimo campo è quello per lo quale noi oggi spaziando andiamo, né ce n’è alcuno che, non che uno aringo, ma diece non ci potesse assai leggermente correre, si copioso l’ha fatto la fortuna delle sue nuove e gravi cose; e per ciò, venendo di quelle, che infinite sono, a raccontare alcuna, dico che
- Essendo lo ’mperio di Roma da’ franceschi ne’ tedeschi trasportato, nacque tra l’una nazione e l’altra grandissima nimistá ed acerba e continua guerra, per la quale, sí per difesa del suo Paese e sí per l’offesa dell’altrui, il re di Francia ed un suo figliuolo, con ogni sforzo del lor regno ed appresso d’amici e di parenti che far poterono, un grandissimo esercito per andare sopra i nemici ordinarono: ed avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo, sentendo Gualtieri, conte d’Anguersa, gentile e savio uomo e molto loro fedele amico e servidore, ed ancora che assai ammaestrato fosse nell’arte della guerra, per ciò che loro piú alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in luogo di loro sopra tutto il governo del reame di Francia general vicario lasciarono, ed andarono al lor cammino. Cominciò adunque Gualtieri e con senno e con ordine l’uficio commesso, sempre d’ogni cosa con la reina e con la nuora di lei conferendo: e benché sotto la sua custodia e giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne e maggiori l’onorava. Era il detto Gualtieri del corpo bellissimo e d’etá forse di quaranta anni, e tanto piacevole e costumato, quanto alcuno altro gentile uomo il piú esser potesse, ed oltre a tutto questo, era il piú leggiadro ed il piú dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse, e quegli che piú della persona andava ornato. Ora, avvenne che, essendo il re di Francia ed il figliuolo nella guerra giá detta, essendosi morta la donna di Gualtieri ed a lui un figliuol maschio ed una femina piccoli fanciulli rimasi di lei senza piú; che, costumando egli alla corte delle donne predette e con loro spesso parlando delle bisogne del regno, la donna del figliuolo del re gli pose gli occhi addosso e con grandissima affezione la persona di lui ed i suoi costumi considerando, d’occulto amore ferventemente di lui s’accese: e sé giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si pensò leggermente doverle il suo disidèro venir fatto. E pensando niuna cosa a ciò contrastare se non vergogna, di manifestargliele dispose del tutto e quella cacciar via: ed essendo un giorno sola e parendole tempo, quasi d’altre cose con lui ragionar volesse, per lui mandò. Il conte, il cui pensiero era molto lontano da quel della donna, senza alcuno indugio a lei andò, e postosi, come ella volle, con lei sopra un letto in una camera tutti soli a sedere, avendola il conte giá due volte domandata della cagione per che fatto l’avesse venire, ed ella taciuto, ultimamente, da amor sospinta, tutta di vergogna divenuta vermiglia, quasi piagnendo e tutta tremante, con parole rotte cosí cominciò a dire: — Carissimo e dolce amico e signor mio, voi potete, come savio uomo, agevolmente conoscere quanta sia la fragilitá e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni piú in una che in altra; per che debitamente, dinanzi a giusto giudice, un medesimo peccato in diverse qualitá di persone non dée una medesima pena ricevere. E chi sarebbe colui che dicesse che non dovesse molto piú esser da riprendere un povero uomo o una povera femina a’ quali con la loro fatica convenisse guadagnare quello che per la vita loro lor bisognasse, se da amore stimolati fossero e quello seguissero, che una donna la quale fosse ricca ed oziosa ed a cui niuna cosa che a’ suoi disidèri piacesse, mancasse? Certo io non credo niuno. Per la quale ragione io estimo che grandissima parte di scusa debban fare le dette cose in servigio di colei che le possiede, se ella per ventura si lascia trascorrere ad amare: ed il rimanente debba fare l’avere eletto savio e valoroso amadore, se quella l’ha fatto che ama. Le quali cose, con ciò sia cosa che ammendune, secondo il mio parere, sieno in me, ed oltre a queste, piú altre le quali ad amare mi debbono inducere, sí come è la mia giovanezza e la lontananza del mio marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio focoso amore nel vostro cospetto; le quali se quel vi potranno che nella presenza de’ savi debbono potere, io vi priego che consiglio ed aiuto in quello che io vi domanderò mi porgiate. Egli è il vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli stimoli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini, non che le tenere donne, hanno giá molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozi ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore ed a divenire innamorata mi sono lasciata trascorrere: e come che tal cosa, se saputa fosse, io conosca non essere onesta, nondimeno, essendo e stando nascosa, quasi di niuna cosa essere disonesta la giudichi, pur m’è di tanto Amore stato grazioso, che egli non solamente non m’ha il debito conoscimento tolto nell’elegger l’amante, ma me n’ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da dovere da una donna fatta come sono io essere amato; il quale, se il mio avviso non m’inganna, io reputo il piú bello, il piú piacevole ed il piú leggiadro ed il piú savio cavaliere che nel reame di Francia trovar si possa: e si come io senza marito posso dire che io mi veggia, cosí voi ancora senza mogliere. Per che io vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi porto, che voi non neghiate il vostro verso di me e che della mia giovanezza v’incresca, la qual veramente come il ghiaccio al fuoco si consuma per voi. — — A queste parole sopravvennero in tanta abbondanza le lagrime, che essa, che ancora piú prieghi intendeva di porgere, piú avanti non ebbe poter di parlare, ma bassato il viso e quasi vinta, piagnendo, sopra il seno del conte si lasciò con la testa cadere. Il conte, il quale lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò a mordere cosí folle amore ed a sospignerla indietro, che giá al collo gli si voleva gittare, e con saramenti ad affermare che egli prima sofferrebbe d’essere squartato che tal cosa contro all’onore del suo signore né in sé né in altrui consentisse. Il che la donna udendo, subitamente dimenticato l’amore ed in fiero furore accesa, disse: — — Adunque sarò io, villan cavaliere, in questa guisa da voi del mio disidèro schernita? Unque a Dio non piaccia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire o cacciar del mondo non faccia. — — E così detto, ad una ora messesi le mani ne’ capelli e rabbuffatigli e stracciatigli tutti, ed appresso nel petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte: — — Aiuto aiuto, che il conte d’Anguersa mi vuol far forza! — — Il conte, veggendo questo e dubitando forte piú della ’nvidia cortigiana che della sua coscienza, e temendo, per quella, non fosse piú fede data alla malvagitá della donna che alla sua innocenza, levatosi, come piú tosto potè della camera e del palagio s’uscí e fuggissi a casa sua, dove, senza altro consiglio prendere, pose i suoi figliuoli a cavallo, ed egli montatovi altressí, quanto piú tosto potè n’andò verso Calese. Al romor della donna corsero molti, li quali, vedutala ed udita la cagione del suo gridare, non solamente per quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero, la leggiadria e l’ornata maniera del conte per potere a quel venire essere stata da lui lungamente usata. Corsesi adunque a furore alle case del conte per arrestarlo: ma non trovando lui, prima le rubâr tutte ed appresso infino a’ fondamenti le mandâr giuso. La novella, secondo che sconcia si diceva, pervenne nell’oste al re ed al figliuolo, li quali, turbati molto, a perpetuo esilio lui ed i suoi discendenti dannarono, grandissimi doni promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse. Il conte, dolente che d’innocente, fuggendo, s’era fatto nocente, pervenuto senza farsi conoscere o essere conosciuto, co’ suoi figliuoli, a Calese, prestamente trapassò in Inghilterra ed in povero abito n’andò verso Londra, nella quale prima che entrasse, con molte parole ammaestrò i due piccoli figliuoli, e massimamente in due cose: prima, che essi pazientemente comportassero lo stato povero nel quale senza lor colpa la fortuna con lui insieme gli aveva recati, ed appresso, che con ogni sagacitá si guardassero di mai non manifestare ad alcuno onde si fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita. Era il figliuolo, chiamato Luigi, di forse nove anni, e la figliuola, che nome avea Violante, n’avea forse sette; li quali, secondo che comportava la loro tenera etá, assai bene compresero l’ammaestramento del padre loro, e per opera il mostrarono appresso. Il che acciò che meglio fare si potesse, gli parve da dover loro i nomi mutare; e cosí fece, e nominò il maschio Perotto e Giannetta la femina: e pervenuti poveramente vestiti in Londra, a guisa che far veggiamo a questi paltonier franceschi, si diedero ad andar la limosina addomandando. Ed essendo per ventura in tal servigio una mattina ad una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale era moglie dell’un de’ maliscalchi del re d’Inghilterra, uscendo della chiesa, vide questo conte ed i due suoi figliuoletti che limosina addomandavano; il quale ella domandò donde fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale egli rispose che era di Piccardia e che, per misfatto d’un suo maggior figliuolo, ribaldo con quegli due, che suoi erano, gli era convenuto partire. La dama, che pietosa era, pose gli occhi sopra la fanciulla, e piacquele molto, per ciò che bella e gentilesca ed avvenente era, e disse: — Valente uomo, se tu ti contenti di lasciare appresso di me questa tua figliuoletta, per ciò che buono aspetto ha, io la prenderò volentieri, e se valente femina sará, io la mariterò a quel tempo che convenevole sará in maniera che stará bene. — Al conte piacque molto questa domanda, e prestamente rispose del sí, e con lagrime gliele diede e raccomandò molto. E cosí avendo la figliuola allogata e sappiendo bene a cui, diliberò di piú non dimorar quivi, e limosinando traversò l’isola e con Perotto pervenne in Gales non senza gran fatica, sí come colui che d’andare a piè non era uso. Quivi era uno altro de’ maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia tenea, nella corte del quale il conte alcuna volta, ed egli ed il figliuolo, per aver da mangiare, molto si riparavano. Ed essendo in essa alcun figliuolo del detto maliscalco ed altri fanciulli di gentili uomini, e faccendo cotali pruove fanciullesche, sí come di correre e di saltare, Perotto s’incominciò con loro a mescolare ed a fare cosí destramente, o piú, come alcuno degli altri facesse ciascuna pruova che tra lor si faceva. Il che il maliscalco alcuna volta veggendo, e piacendogli molto la maniera ed i modi del fanciullo, domandò chi egli fosse. Fugli detto che egli era figliuolo d’un povero uomo il quale alcuna volta per limosina lá entro veniva. A cui il maliscalco il fece addomandare, ed il conte, sí come colui che d’altro Iddio non pregava, liberamente gliel concedette, quantunque noioso gli fosse il da lui dipartirsi. Avendo adunque il conte il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di piú non volere dimorare in Inghilterra, ma come il meglio poté se ne passò in Irlanda, e pervenuto a Stanforda, con un cavaliere d’un conte paesano per fante si pose, tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo possono appartenere: e quivi, senza esser mai da alcuno conosciuto, con assai disagio e fatica dimorò lungo tempo. Violante, chiamata Giannetta, con la gentil donna in Londra venne crescendo ed in anni ed in persona ed in bellezza ed in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascuno altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a vedere maravigliosa cosa; né alcuno era che a’ suoi costumi ed alle sue maniere riguardasse, che lei non dicesse dovere esser degna d’ogni grandissimo bene ed onore. Per la qual cosa la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere chi egli si fosse altramenti che da lui udito avesse, s’era proposta di doverla onorevolmente, secondo la condizione della quale estimava che fosse, maritare. Ma Iddio, giusto riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina conoscendo, e senza colpa penitenza portar dell’altrui peccato, altramenti dispose: ed acciò che a mano di vile uomo la gentil giovane non venisse, si dée credere che quello che avvenne egli per sua benignitá permettesse. Aveva la gentil donna con la quale la Giannetta dimorava un solo figliuolo del suo marito, il quale ed essa ed il padre sommamente amavano, sí perché figliuolo era e sí ancora perché per vertú e per meriti il valeva, come colui che piú che altro e costumato e valoroso e pro’ e bello della persona era. Il quale, avendo forse sei anni piú che la Giannetta e lei veggendo bellissima e graziosa, sí forte di lei s’innamorò, che piú avanti di lei non vedea. E per ciò che egli imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non ardiva addomandarla al padre ed alla madre per moglie, ma temendo non fosse ripreso che bassamente si fosse ad amar messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso; per la qual cosa troppo piú che se palesato l’avesse, lo stimolava: laonde avvenne che per soverchio di noia egli infermò, e gravemente. Alla cura del quale essendo piú medici richesti, ed avendo un segno ed altro guardato di lui e non potendo la sua infermitá tanto conoscere, tutti comunemente si disperavano della sua salute; di che il padre e la madre del giovane portavano sí gran dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e piú volte con pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male, a’ quali o sospiri per risposta dava, o che tutto si sentia consumare. Avvenne un giorno che, sedendosi appresso di lui un medico assai giovane, ma in iscienza profondo molto, e lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano il polso, la Giannetta, la quale, per rispetto della madre di lui, lui sollecitamente serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane giacea. La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentí con piú forza nel cuore l’amoroso ardore, per che il polso piú forte cominciò a battergli che l’usato; il che il medico sentí incontanente e maravigliossi, e stette cheto per vedere quanto questo battimento dovesse durare. Come la Giannetta uscì della camera, ed il battimento ristette, per che parte parve al medico avere della cagione della ’nfermitá del giovane: e stato alquanto, quasi d’alcuna cosa volesse la Giannetta addomandare, sempre tenendo per lo braccio lo ’nfermo, la si fe’ chiamare. Al quale ella venne incontanente: né prima nella camera entrò che il battimento del polso ritornò al giovane, e lei partita, cessò. Laonde, parendo al medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti da parte il padre e la madre del giovane, disse loro: — La sanitá del vostro figliuolo non è nell’aiuto de’ medici, ma nelle mani della Giannetta dimora, la quale, sí come io ho manifestamente per certi segni conosciuto, il giovane focosamente ama, come che ella non se n’accorga, per quello che io veggia. Sapete ornai che a fare v’avete, se la sua vita v’è cara. — Il gentile uomo e la sua donna, questo udendo, furon contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al suo scampo, quantunque loro molto gravasse che quello di che dubitavano fosse desso, cioè di dover dare la Giannetta al loro figliuolo per isposa. Essi adunque, partito il medico, se n’andarono allo ’nfermo, e dissegli la donna così: — Figliuol mio, io non avrei mai creduto che da me d’alcun tuo disidèro ti fossi guardato, e spezialmente veggendoti tu, per non aver quello, venir meno, per ciò che tu dovevi esser certo e dèi che niuna cosa è che per contentamento di te far potessi, quantunque meno che onesta fosse, che io come per me medesima non la facessi: ma poi che pur fatto l’hai, è avvenuto che Domenedio è stato misericordioso di te piú che tu medesimo, ed acciò che tu di questa infermitá non muoi, m’ha dimostrata la cagione del tuo male, la quale niuna altra cosa è che soperchio amore il quale tu porti ad alcuna giovane, qual che ella si sia. E nel vero, di manifestar questo non ti dovevi tu vergognare, per ciò che la tua etá il richiede: e se tu innamorato non fossi, io ti reputerei da assai poco. Adunque, figliuol mio, non ti guardare da me, ma sicuramente ogni tuo disidèro mi scuopri, e la malinconia ed il pensiero il quale hai, e dal quale questa infermitá procede, gitta via, e confortati e renditi certo che niuna cosa sará, per sodisfacimento di te, che tu m’imponghi, che io a mio poter non faccia, sí come colei che te piú amo che la mia vita. Caccia via la vergogna e la paura, e dimmi se io posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa: e se tu non truovi che io a ciò sia sollecita e ad effetto tel rechi, abbimi per la piú crudel madre che mai partorisse figliuolo. — Il giovane, udendo le parole della madre, prima si vergognò, poi, seco pensando che niuna persona meglio di lei potrebbe al suo piacer sodisfare, cacciata via la vergogna, cosí le disse: — Madama, niuna altra cosa mi v’ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l’essermi nelle piú delle persone avveduto che, poi che attempati sono, d’essere stati giovani ricordar non si vogliono. Ma poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente quello di che dite vi siete accorta, non negherò esser vero, ma ancora di cui vi farò manifesto: con cotal patto, che effetto seguirá alla vostra promessa a vostro potere, e cosí mi potrete aver sano. — Al quale la donna, troppo fidandosi di ciò che non le doveva venir fatto nella forma nella quale giá seco pensava, liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidèro l’aprisse, ché ella senza alcuno indugio darebbe opera a fare che egli il suo piacere avrebbe. — Madama, — disse allora il giovane — l’alta bellezza e le laudevoli maniere della nostra Giannetta ed il non poterla fare accorgere, non che pietosa, del mio amore ed il non avere ardito mai di manifestarlo ad alcuno m’hanno condotto dove voi mi vedete: e se quello che promesso m’avete o in un modo o in uno altro non segue, state sicura che la mia vita fia brieve. — La donna, a cui piú tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse: — Ahi! figliuol mio, adunque per questo t’hai tu lasciato aver male? Confòrtati e lascia fare a me, poi che guerito sarai. — Il giovane, pieno di buona speranza, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni; di che la donna contenta molto si dispose a voler tentare come quello potesse osservare che promesso avea: e chiamata un dí la Giannetta, per via di motti assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore. La Giannetta, divenuta tutta rossa, rispose: — Madama, a povera damigella e di casa sua cacciata, come io sono, e che all’altrui servigio dimori, come io fo, non si richiede né sta bene l’attendere ad amore. — A cui la donna disse: — E se voi non l’avete, noi ve ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete e piú della vostra biltá vi diletterete, per ciò che non è convenevole che cosí bella damigella, come voi siete, senza amante dimori. — A cui la Giannetta rispose: — Madama, voi dalla povertá di mio padre togliendomi, come figliuola cresciuta m’avete, e per questo ogni vostro piacere far dovrei: ma in questo io non vi piacerò già, credendomi far bene. Se a voi piacerá di donarmi marito, colui intendo io d’amare, ma altro no; per ciò che dell’ereditá de’ miei passati avoli niuna cosa rimasa m’è se non l’onestá, quella intendo io di guardare e di servare quanto la vita mi durerá. — Questa parola parve forte contraria alla donna a quello a che di venire intendea per dovere al figliuolo la promessa servare, quantunque, sí come savia donna, molto seco medesima ne commendasse la damigella; e disse: — Come, Giannetta, se monsignor lo re, il quale è giovane cavaliere, e tu se’ bellissima damigella, volesse del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu? — Alla quale essa subitamente rispose: — Forza mi potrebbe fare il re, ma di mio consentimento mai da me se non quanto onesto fosse aver non potrebbe. — La dama, comprendendo qual fosse l’animo di lei, lasciò star le parole e pensossi di metterla alla pruova: e cosí al figliuolo disse di fare, come guerito fosse, di metterla con lui in una camera e che egli s’ingegnasse d’avere di lei il suo piacere, dicendo che disonesto le pareva che essa, a guisa d’una ruffiana, predicasse per lo figliuolo e pregasse la sua damigella. Alla qual cosa il giovane non fu contento in alcuna guisa, e di subito fieramente peggiorò; il che la donna veggendo, aperse la sua intenzione alla Giannetta, ma piú costante che mai trovandola, raccontato ciò che fatto aveva al marito, ancora che grave loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele per isposa, amando meglio il figliuolo vivo con moglie non convenevole a lui che morto senza alcuna; e cosi, dopo molte novelle, fecero. Di che la Giannetta fu contenta molto e con divoto cuore ringraziò Iddio che lei non avea dimenticata: né, per tutto questo, mai altro che figliuola d’un piccardo si disse. Il giovane guerì e fece le nozze piú lieto che altro uomo, e cominciossi a dar buon tempo con lei. Perotto, il quale in Gales col maliscalco del re d’Inghilterra era rimaso, similmente crescendo venne in grazia del signor suo, e divenne di persona bellissimo e pro’ quanto alcuno altro che nell’isola fosse, intanto che né in tornei né in giostre né in qualunque altro atto d’arme niuno v’era nel paese che quello valesse che egli; per che per tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo, era conosciuto e famoso. E come Iddio la sua sorella dimenticata non avea, cosí similmente d’aver lui a mente dimostrò: per ciò che, venuta in quella contrada una pistilenziosa mortalitá, quasi la metá della gente di quella se ne portò: senza che, grandissima parte del rimaso per paura in altre contrade se ne fuggirono, di che il paese tutto pareva abbandonato. Nella quale mortalitá il maliscalco suo signore e la donna di lui ed un suo figliuolo e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono, né altro che una damigella giá da marito di lui rimase, e con alcuni altri famigliari Perotto. Il quale, cessata alquanto la pestilenza, la damigella, per ciò che prod’uomo e valente era, con piacere e consiglio d’alquanti pochi paesani vivi rimasi, per marito prese, e di tutto ciò che a lei per ereditá scaduto era il fece signore; né guari di tempo passò, che udendo il re d’Inghilterra il maliscalco esser morto, e conoscendo il valor di Perotto il piccardo, in luogo di quello che morto era il sostituí, e fecelo suo maliscalco. E cosí brievemente avvenne de’ due innocenti figliuoli del conte d’Anguersa, da lui per perduti lasciati. Era giá il dieceottesimo anno passato poi che il conte d’Anguersa, fuggendo, di Parigi s’era partito, quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita molte cose patite, giá vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se egli potesse, quello che de’ figliuoli fosse addivenuto. Per che, del tutto della forma della quale esser solea veggendosi trasmutato e sentendosi per lo lungo esercizio piú della persona atante che quando giovane, in ozio dimorando, non era, partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente era stato, se ne venne in Inghilterra e lá se n’andò dove Perotto avea lasciato: e trovò lui essere maliscalco e gran signore, e videlo sano ed atante e bello della persona; il che gli aggradì forte, ma farglisi conoscere non volle infino a tanto che saputo non avesse della Giannetta. Per che, messosi in cammino, prima non ristette che in Londra pervenne: e quivi, cautamente domandato della donna alla quale la figliuola lasciata avea e del suo stato, trovò la Giannetta moglie del figliuolo, il che forte gli piacque, ed ogni sua avversitá preterita reputò piccola poi che vivi aveva ritrovati i figliuoli ed in buono stato. E disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a ripararsi vicino alla casa di lei, dove un giorno veggendol Giachetto Lamiens, che cosí era chiamato il marito della Giannetta, avendo di lui compassione per ciò che povero e vecchio il vide, comandò ad un de’ suoi famigliari che nella sua casa il menasse e gli facesse dare da mangiar per Dio; il che il famigliare volentier fece. Aveva la Giannetta avuti di Giachetto giá piú figliuoli, de’ quali il maggiore non avea oltre ad otto anni, ed erano i piú belli ed i piú vezzosi fanciulli del mondo; li quali, come videro il conte mangiare, cosí tutti quanti gli fur dintorno e cominciarongli a far festa, quasi da occulta vertù mossi avesser sentito costui loro avolo essere. Il quale, suoi nepoti conoscendoli, cominciò loro a mostrare amore ed a far carezze; per la qual cosa i fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui che al governo di loro attendea, gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì d’una camera e quivi venne lá dove era il conte, e minacciògli forte di battergli, se quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli cominciarono a piagnere ed a dire che essi volevano stare appresso a quel prod’uomo, il quale piú che il lor maestro gli amava; di che e la donna ed il conte si rise. Erasi il conte levato, non miga a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sí come a donna, e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell’animo. Ma ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò che oltre modo era trasformato da quello che esser soleva, sí come colui che vecchio e canuto e barbuto era, e magro e bruno divenuto, e piú tosto uno altro uomo pareva che il conte. E veggendo la donna che i fanciulli da lui partire non si voleano, ma volendonegli partir piagnevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse stare. Standosi adunque i fanciulli col prod’uomo, avvenne che il padre di Giachetto tornò, e dal maestro loro sentí questo fatto; per che egli, il quale a schifo avea la Giannetta, disse: — Lasciagli star con la mala ventura che Dio déa loro, ché essi fanno ritratto da quello onde nati sono: essi son per madre discesi di paltoniere, e per ciò non è da maravigliarsi se volentier dimoran co’ paltonieri. — Queste parole udí il conte, e dolfergli forte, ma pure, nelle spalle ristretto, cosí quella ingiuria sofferse come molte altre sostenute n’avea. Giachetto, che sentita aveva la festa che i figliuoli al prod’uomo facevano, quantunque gli dispiacesse, nondimeno tanto gli amava, che, avanti che piagner gli vedesse, comandò che, se il prod’uomo ad alcun servigio lá entro dimorar volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose che vi rimanea volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a’ cavalli, di che tutto il tempo della sua vita era usato. Assegnatogli adunque un cavallo, come quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea. Mentre che la fortuna in questa guisa che divisata è il conte d’Anguersa ed i figliuoli menava, avvenne che il re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morí, ed in suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era moglie per cui il conte era stato cacciato. Costui, essendo l’ultima triegua finita co’ tedeschi, rincominciò asprissima guerra; in aiuto del quale, sí come nuovo parente, il re d’Inghilterra mandò molta gente sotto il governo di Perotto suo maliscalco e di Giachetto Lamiens, figliuolo dell’altro maliscalco, col quale il prod’uomo andò, e senza essere da alcuno riconosciuto, dimorò nell’oste per buono spazio a guisa di ragazzo: e quivi, come valente uomo, e con consigli e con fatti, piú che a lui non si richiedea, assai di bene adoperò. Avvenne durante la guerra che la reina di Francia infermò gravemente, e conoscendo ella se medesima venire alla morte, contrita d’ogni suo peccato, divotamente si confessò dall’arcivescovo di Ruem, il quale da tutti era tenuto un santissimo e buono uomo, e tra gli altri peccati gli narrò ciò che per lei a gran torto il conte d’Anguersa ricevuto avea: né solamente fu a lui contenta di dirlo, ma davanti a molti altri valenti uomini tutto come era stato raccontò, pregandogli che col re operassono che il conte, se vivo fosse, e se non, alcun de’ suoi figliuoli nel loro stato restituiti fossero; né guari poi dimorò, che, di questa vita passata, onorevolmente fu sepellita. La quale confessione al re raccontata, dopo alcun doloroso sospiro delle ’ngiurie fatte al valente uomo a torto, il mosse a fare andare per tutto l’esercito, ed oltre a ciò in molte altre parti, una grida, che chi il conte d’Anguersa o alcuno de’ figliuoli gli rinsegnasse, maravigliosamente da lui per ognuno guiderdonato sarebbe, con ciò fosse cosa che egli lui per innocente di ciò per che in esilio andato era l’avesse, per la confessione fatta dalla reina, e nel primo stato ed in maggiore intendeva di ritornarlo. Le quali cose il conte in forma di ragazzo udendo, e sentendo che cosí era il vero, subitamente fu a Giachetto ed il pregò che con lui insieme fosse con Perotto, per ciò che egli voleva loro mostrare ciò che il re andava cercando. Adunati adunque tutti e tre insieme, disse il conte a Perotto, che giá era in pensiero di palesarsi: — Perotto, Giachetto che è qui, ha tua sorella per mogliere, né mai n’ebbe alcuna dota; e per ciò, acciò che tua sorella senza dota non sia, io intendo che egli e non altri abbia questo beneficio che il re promette così grande per te, e ti rinsegni sí come figliuolo del conte d’Anguersa, e per la Violante, tua sorella e sua mogliere, e per me, che il conte d’Anguersa e vostro padre sono. — Perotto, udendo questo e fiso guardandolo, tantosto il riconobbe, e piagnendo gli si gittò a’ piedi ed abbracciollo dicendo: — Padre mio, voi siate il molto ben venuto! — Giachetto, prima udendo ciò che il conte detto avea e poi veggendo quello che Perotto faceva, fu ad una ora da tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprappreso, che appena sapeva che far si dovesse: ma pur, dando alle parole fede e vergognandosi forte di parole ingiuriose giá da lui verso il conte ragazzo usate, piagnendo gli si lasciò cadere a’ piedi ed umilmente d’ogni oltraggio passato domandò perdonanza, la quale il conte assai benignamente, in piè rilevatolo, gli diede. E poi che i vari casi di ciascuno tutti e tre ragionati ebbero, e molto piantosi e molto rallegratosi insieme, volendo Perotto e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il sofferse, ma volle che, avendo prima Giachetto certezza d’avere il guiderdon promesso, cosí fatto ed in quello abito di ragazzo, per farlo piú vergognare, gliele presentasse. Giachetto adunque col conte e con Perotto appresso venne davanti al re ed offerse di presentargli il conte ed i figliuoli, dove, secondo la grida fatta, guiderdonare il dovesse. Il re prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi di Giachetto, e comandò che via il portasse, dove con veritá il conte ed i figliuoli dimostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi indietro e davanti messisi il conte suo ragazzo e Perotto, disse: — Monsignore, ecco qui il padre ed il figliuolo; la figliuola, che è mia mogliere e non è qui, con l’aiuto di Dio tosto vedrete. — Il re, udendo questo, guardò il conte, e quantunque molto da quello che esser solea trasmutato fosse, pur dopo l’averlo alquanto guardato il riconobbe, e quasi con le lagrime in su gli occhi lui che inginocchione stava levò in piede ed il basciò ed abbracciò, ed amichevolmente ricevette Perotto: e comandò che incontanente il conte di vestimenti, di famiglia e di cavalli e d’arnesi rimesso fosse in assetto, secondo che alla sua nobiltá si richiedea; la qual cosa tantosto fu fatta. Oltre a questo, onorò il re molto Giachetto e volle ogni cosa sapere di tutti i suoi preteriti casi. E quando Giachetto prese gli alti guiderdoni per l’avere insegnati il conte ed i figliuoli, gli disse il conte: — Prendi cotesti dalla magnificenza di monsignor lo re, e ricordera’ti di dire a tuo padre che i tuoi figliuoli, suoi e miei nepoti, non son per madre nati di paltoniere. — Giachetto prese i doni e fece a Parigi venir la moglie e la suocera, e vennevi la moglie di Perotto: e quivi in grandissima festa furono col conte, il quale il re avea in ogni suo ben rimesso, e maggior fattolo che fosse giá mai; poi ciascuno con la sua licenza tornò a casa sua, ed esso infino alla morte visse in Parigi piú gloriosamente che mai.
- [IX]
- Bernabò da Genova, da Ambruogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa; ella scampa, ed in abito d’uomo serve il soldano; ritruova lo ’ngannatore e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ’ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova.
- Avendo Elissa con la sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona, e nel viso piú che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, disse: — Servar si vogliono i patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli ed io a novellare, io dirò prima la mia, ed esso, che di grazia il chiese, l’ultimo fia che dirá. — E questo detto, cosí cominciò:
- Suolsi tra’ volgari spesse volte dire un cotal proverbio, che lo ’ngannatore rimane a piè dello ’ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò, seguendo la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si dice, m’è venuto in talento di dimostrarvi: né vi dovrá esser discaro d’averlo udito, acciò che dagl’ingannatori guardarvi sappiate.
- Erano in Parigi in uno albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual per un’altra, secondo la loro usanza: ed avendo una sera tra l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando, pervennero a dire delle lor donne, le quali alle lor case avevan lasciate; e motteggiando cominciò alcuno a dire: — Io non so come la mia si fa, ma questo so io bene, che, quando qui mi viene alle mani alcuna giovanetta che mi piaccia, io lascio stare dall’un de’ lati l’amore il quale io porto a mia mogliere, e prendo di questa qua quel piacere che io posso. — L’altro rispose: — Ed io fo il simigliante, per ciò che, se io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci, ella il fa, e se io nol credo, sí il fa; e per ciò da fare a far sia: quale asino dá in parete, tal riceve. — Il terzo quasi in questa medesima sentenza parlando pervenne: e brievemente, tutti pareva che a questo s’accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo. Un solamente, il quale avea nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando, sé di spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la piú compiuta di tutte quelle vertú che donna o ancora cavaliere, in gran parte, o donzello dèe avere, che forse in Italia ne fosse un’altra: per ciò che ella era bella del corpo e giovane ancora assai e destra ed atante della persona, né alcuna cosa era che a donna appartenesse, sí come di lavorare lavorii di seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcuna altra. Oltre a questo, niuno scudiere, o famigliare che dir vogliamo, diceva trovarsi il quale meglio né piú accortamente servisse ad una tavola d’un signore, che serviva ella, sí come colei che era costumatissima, savia e discreta molto. Appresso questo, la commendò meglio saper cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione che se un mercatante fosse: e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento, niuna altra piú onesta né piú casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuori di casa dimorasse, che ella mai a cosí fatte novelle non intenderebbe con altro uomo. Era tra questi mercatanti che cosí ragionavano un giovane mercatante chiamato Ambruogiuolo da Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò avea data alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo, e gabbando il domandò se lo ’mperadore gli avea questo privilegio piú che a tutti gli altri uomini conceduto. Bernabò, un poco turbatetto, disse che non lo ’mperadore, ma Iddio, il quale poteva un poco piú che lo ’mperadore, gli avea questa grazia conceduta. Allora disse Ambruogiuolo: — Bernabò, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero, ma per quello che a me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose, per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento di sí grosso ingegno, che tu non avessi in quella conosciute cose che ti farebbono sopra questa materia piú temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o altramenti fatta che tu, ma da un naturale avvedimento mossi cosí abbián detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragionare. Io ho sempre inteso, l’uomo essere il piú nobile animale che tra’ mortali fosse creato da Dio, ed appresso la femina; ma l’uomo, sí come generalmente si crede e vede per opere, è piú perfetto: ed avendo piú di perfezione, senza alcun fallo dée avere piú di fermezza, e cosí ha, per ciò che universalmente le femine sono piú mobili, ed il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare. Se l’uomo adunque è di maggior fermezza, e non si può tenere che non condiscenda, lasciamo stare ad una che il prieghi, ma pure a non disiderare una che gli piaccia, ed oltre al disidèro, di far ciò che può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il mese, ma mille il giorno avvenirgli: che speri tu che una donna, naturalmente mobile, possa fare a’ prieghi, alle lusinghe, a’ doni, a mille altri modi che userá uno uom savio che l’ami? Credi che ella si possa tenere? Certo, quantunque tu te l’affermi, io non credo che tu il creda: e tu medesimo di’ che la moglie tua è femina e che ella è di carne e d’ossa come son l’altre. Per che, se cosí è, quegli medesimi disidèri deono essere i suoi o quelle medesime forze che nell’altre sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque ella sia onestissima, che ella quello che l’altre faccia: e niuna cosa possibile è cosí acerbamente da negare, o da affermare il contrario a quella, come tu fai. — Al quale Bernabò rispose, e disse: — Io son mercatante e non fisofolo, e come mercatante risponderò; e dico che io conosco, ciò che tu di’ potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna: ma quelle che savie sono hanno tanta sollecitudine dell’onor loro, che elle diventan forti piú che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo; e di queste così fatte è la mia. — Disse Ambruogiuolo: — Veramente, se per ogni volta che elle a queste cosí fatte novelle attendono nascesse loro un corno nella fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto avessero, io mi credo che poche sarebber quelle che v’attendessero: ma, non che il corno nasca, egli non se ne pare, a quelle che savie sono, né pedata né orma, e la vergogna ed il guastamento dell’onore non consiste se non nelle cose palesi; per che, quando possono, occultamente il fanno, o per mattezza lasciano. Ed abbi questo per certo: che colei sola è casta la quale o non fu mai da alcuno pregata, o se pregò, non fu esaudita. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni cosí dovere essere, non ne parlerei io cosí appieno, come io fo, se io non ne fossi molte volte e con molte stato alla pruova; e dicoti così, che, se io fossi presso a questa tua cosí santissima donna, io mi crederei in brieve spazio di tempo recarla a quello che io ho giá dell’altre recate. — Bernabò, turbato, rispose: — Il quistionar con parole potrebbe distendersi troppo: tu diresti ed io direi, ed alla fine niente monterebbe. Ma poi che tu di’ che tutte sono cosí pieghevoli e che il tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo dell’onestá della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere: e se tu non puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d’oro. — Ambruogiuolo, giá in su la novella riscaldato, rispose: — Bernabò, io non so quello che io mi facessi del tuo sangue, se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho giá ragionato, metti cinquemilia fiorin d’oro de’ tuoi, che meno ti deono essere cari che la testa, contro a mille de’ miei: e dove tu niuno termine poni, io mi voglio obligare d’andare a Genova ed infra tre mesi dal dí che io mi partirò di qui avere della tua donna fatta mia volontá, ed in segno di ciò recarne meco delle sue cose piú care e sí fatti e tanti indizi, che tu medesimo confesserai esser vero, sí veramente che tu mi prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di questa materia. — Bernabò disse che gli piacea molto; e quantunque gli altri mercatanti che quivi erano s’ingegnassero di sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de’ due mercatanti sí gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle scritte di lor mano s’obligarono l’uno all’altro. E fatta l’obligagione, Bernabò rimase ed Ambruogiuolo quanto piú tosto poté se ne venne a Genova. E dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada e de’ costumi della donna, quello e piú ne ’ntese che da Bernabò udito n’avea; per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi con una povera femina che molto nella casa usava ed a cui la donna voleva gran bene, non potendola ad altro inducere, con denari la corruppe ed a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare non solamente nella casa, ma nella camera della gentil donna: e quivi, come se in alcuna parte andar volesse la buona femina, secondo l’ordine datole da Ambruogiuolo, la raccomandò per alcun dí. Rimasa adunque la cassa nella camera e venuta la notte, allora che Ambruogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì, nella quale un lume acceso avea; per la qual cosa egli il sito della camera, le dipinture ed ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a ragguardare ed a fermare nella sua memoria. Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna ed una piccola fanciulla che con lei era dormivan forte, pianamente scopertala tutta, vide che così era bella ignuda come vestita, ma niun segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno che ella n’avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo dintorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro; e ciò veduto, chetamente la ricoperse, come che, cosí bella veggendola, in disidèro avesse di mettere in avventura la vita sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito lei essere cosí cruda ed alpestra intorno a quelle novelle, non s’arrischiò, e statosi la maggior parte della notte per la camera a suo agio, una borsa ed una guarnacca d’un suo forzier trasse, ed alcuno anello ed alcuna cintura, ed ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressí vi si ritornò, e cosí la serrò come prima stava: ed in questa maniera fece due notti senza che la donna di niente s’accorgesse. Vegnente il terzo di, secondo l’ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua, e colá la riportò onde levata l’avea; della quale Ambruogiuolo uscito, e contentata secondo la promessa la femina, quanto piú tosto potè con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso. Quivi, chiamati que’ mercatanti che presenti erano stati alle parole ed al metter de’ pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto il pegno tra lor messo, per ciò che fornito aveva quello di che vantato s’era: e che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture di quella, ed appresso mostrò le cose che di lei n’aveva seco recate, affermando da lei averle avute. Confessò Bernabò, così essere fatta la camera come diceva, ed oltre a ciò, sé riconoscere quelle cose veramente della sua donna essere state: ma disse, lui aver potuto da alcuno de’ fanti della casa sapere la qualitá della camera, ed in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto. Per che Ambruogiuolo disse: — Nel vero questo doveva bastare; ma poi che tu vuogli che io piú avanti ancora dica, ed io il dirò. Dicoti che madonna Zinevra, tua mogliere, ha sotto la sinistra poppa un neo ben grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro. — Quando Bernabò udí questo, parve che gli fosse dato d’un coltello al cuore, sì fatto dolore senti, e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai manifesto segnale, ciò esser vero che Ambruogiuolo diceva; e dopo alquanto disse: — Signori, ciò che Ambruogiuolo dice è vero, e per ciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e si si paghi. — E cosí fu il di seguente Ambruogiuolo interamente pagato: e Bernabò, da Parigi partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne. Ed appressandosi a quella, non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia lontano ad essa ad una sua possessione; ed un suo famigliare, in cui molto si fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna come tornato era e che con lui a lui venisse: ed al famiglio segretamente impose che, come in parte fosse con la donna che miglior gli paresse, senza niuna misericordia la dovesse uccidere ed a lui tornarsene. Giunto adunque il famigliare a Genova e date le lettere e fatta l’ambasciata, fu dalla donna con gran festa ricevuto; la quale la seguente mattina, montata col famigliare a cavallo, verso la sua possessione prese il cammino: e camminando insieme e di varie cose ragionando, pervennero in un vallone molto profondo e solitario e chiuso d’alte grotte e d’alberi; il quale parendo al famigliare luogo da dovere sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il coltello e presa la donna per lo braccio, disse: — Madonna, raccomandate l’anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar piú avanti, convien morire. — La donna, veggendo il coltello ed udendo le parole, tutta spaventata disse: — Mercé per Dio! anzi che tu m’uccida dimmi di che io t’ho offeso, che tu uccidermi debbi. — Madonna, — disse il famigliare — me non avete offeso d’alcuna cosa: ma di che voi offeso abbiate il vostro marito, io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna misericordia aver di voi, io in questo cammin v’uccidessi; e se io nol facessi, mi minacciò di farmi impiccar per la gola. Voi sapete bene quanto io gli son tenuto, e come io di cosa che egli m’imponga possa dir di no: sallo Iddio che di voi m’incresce, ma io non posso altro. — A cui la donna piagnendo disse: — Ahi! mercé per Dio! non volere divenire micidiale di chi mai non t’offese, per servire altrui. Iddio, che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito debba cosí fatto merito ricevere. Ma lasciamo ora star questo; tu puoi, quando tu vogli, ad una ora piacere a Dio ed al tuo signore ed a me in questa maniera: che tu prenda questi miei panni, e donimi solamente il tuo farsetto ed un cappuccio, e con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m’abbi uccisa; ed io ti giuro per quella salute la quale tu donata m’avrai che io mi dileguerò ed andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrá alcuna novella. — Il famigliare, che mal volentieri l’uccidea, leggermente divenne pietoso; per che, presi i drappi suoi e datole un suo farsettaccio ed un cappuccio, e lasciatile certi denari li quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel vallone a piè ed andonne al signor suo, al quale disse che il suo comandamento non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morta aveva tra parecchi lupi lasciato. Bernabò dopo alcun tempo se ne tornò a Genova, e saputosi il fatto, forte fu biasimato. La donna, rimasa sola e sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il piú che potè n’andò ad una villetta ivi vicina, e quivi, da una vecchia procacciato quello che le bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto, e fattosi della sua camiscia un paio di pannilini ed i capelli tondutisi e trasformatasi tutta in forma d’un marinaro, verso il mare se ne venne, dove per ventura trovò un gentile uom catalano il cui nome era segner En Cararh, il quale d’una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Alba giá disceso era a rinfrescarsi ad una fontana; col quale entrata in parole, con lui s’acconciò per servidore, e salissene sopra la nave, faccendosi chiamare Sicuran da Finale. Quivi, di miglior panni rimesso in arnese dal gentile uomo, lo ’ncominciò a servir sì bene e sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado. Avvenne ivi a non guari di tempo che questo catalano con un suo carico navigò in Alessandria e portò certi falconi pellegrini al soldano, e presentògliele; al quale il soldano avendo alcuna volta dato mangiare e veduti i costumi di Sicurano che sempre a servir l’andava, e piaciutigli, al catalano il domandò, e quegli, ancora che grave gli paresse, gliele lasciò. Sicurano in poco di tempo non meno la grazia e l’amor del soldano acquistò, col suo bene adoperare, che quella del catalano avesse fatto; per che in processo di tempo avvenne che, dovendosi in un certo tempo dell’anno, a guisa d’una fiera, fare una gran ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la signoria del soldano era, ed acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi uficiali. alcuno de’ suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse; nella quale bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare Sicurano, il quale giá ottimamente la lingua sapeva, e cosí fece. Venuto adunque Sicurano in Acri signore e capitano della guardia de’ mercatanti e della mercatantía, e quivi bene e sollecitamente faccendo ciò che al suo uficio appartenea, ed andando da torno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani ed altri italiani veggendovi, con loro volentieri si dimesticava per rimembranza della contrada sua. Ora, avvenne tra l’altre volte che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli vennero vedute tra altre gioie una borsa ed una cintura le quali egli prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi: ma senza altra vista fare, piacevolemente domandò di cui fossero e se vendere si voleano. Era quivi venuto Ambruogiuolo da Piagenza con molta mercatantía in su una nave di viniziani; il quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse avanti e ridendo disse: — Messer, le cose son mie, e non le vendo, ma se elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri. — Sicurano, veggendol ridere, auspicò non costui in alcuno atto l’avesse raffigurato; ma pur, fermo viso faccendo, disse: — Tu ridi forse perché vedi me uom d’arme andar domandando di queste cose feminili. — Disse Ambruogiuolo: — Messere, io non rido di ciò, ma rido del modo nel quale io le guadagnai. — A cui Sicuran disse: — Deh! se Iddio ti déa buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le guadagnasti. — Messere, — disse Ambruogiuolo — queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi. Ora, risi io per ciò che egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il quale fu di tanta follia, che mise cinquemilia fiorin d’oro contro a mille che io la sua donna non recherei a’ miei piaceri; il che io feci, e vinsi il pegno: ed egli, che piú tosto sé della sua bestialitá punir dovea che lei d’aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere. — Sicurano, udendo questo, prestamente comprese qual fosse la cagione dell’ira di Bernabò verso lei e manifestamente conobbe, costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò di non lasciarglielne portare impunitá. Mostrò adunque Sicurano d’aver molto cara questa novella, ed artatamente prese con costui una stretta dimestichezza, tanto che per gli suoi conforti Ambruogiuolo, finita la fiera, con essolui e con ogni sua cosa se n’andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco e misegli in mano de’ suoi denari assai; per che egli, util grande veggendosi, vi dimorava volentieri. Sicurano, sollecito a voler della sua innocenza far chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto che, con opera d’alcuni gran mercatanti genovesi che in Alessandria erano, nuove cagioni trovando, non l’ebbe fatto venire; il quale in assai povero stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente il fece ricevere infino che tempo gli paresse da quel fare che di fare intendea. Aveva giá Sicurano fatta raccontare ad Ambruogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al soldano prender piacere: ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano impetrò che davanti venir si facesse Ambruogiuolo e Bernabò, ed in presenza di Bernabò, se agevolmente fare non si potesse, con severitá da Ambruogiuolo si traesse il vero come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava. Per la qual cosa, Ambruogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenza di molti con rigido viso ad Ambruogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse cinquemilia fiorin d’oro: e quivi era presente Sicurano, in cui Ambruogiuolo piú avea di fidanza, il quale con viso troppo piú turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse. Per che Ambruogiuolo, da una parte e d’altra spaventato, ed ancora alquanto costretto, in presenza di Bernabò e di molti altri, niuna pena piú aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d’oro e delle cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa. Ed avendo Ambruogiuol detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano in quello, rivolto a Bernabò, disse: — E tu che facesti per questa bugia alla tua donna? — A cui Bernabò rispose: — Io, vinto dall’ira della perdita de’ miei denari e dall’onta della vergogna che mi parea avere ricevuta dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere, e secondo che egli mi rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi. — Queste cose cosí nella presenza del soldan dette e da lui tutte udite ed intese, non sappiendo egli ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse riuscire, gli disse Sicurano: — Signor mio, assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriarsi possa d’amante e di marito: ché l’amante ad una ora lei priva d’onor con bugie guastando la fama sua e diserta il marito di lei, ed il marito, piú credulo alle altrui falsitá che alla veritá da lui per lunga esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a’ lupi; ed oltre a questo, è tanto il bene e l’amore che l’amico ed il marito le porta, che, con lei lungamente dimorati, niun la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conoscete quello che ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo ’ngannatore e perdonare allo ’ngannato, io la farò qui in vostra ed in lor presenza venire. — Il soldano, disposto in questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e che facesse la donna venire. Maravigliavasi forte Bernabò, il quale lei per fermo morta credea; ed Ambruogiuolo, giá del suo male indovino, di peggio avea paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che piú temere, perché quivi la donna venisse, ma piú con maraviglia la sua venuta aspettava. Fatta adunque la concession dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo ed inginocchion dinanzi al soldano gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce ed il piú non volere maschio parere si partí, e disse: — Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d’uom per lo mondo, da questo traditor d’Ambruogiuolo falsamente e reamente vituperata, e da questo crudele ed iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante ed a mangiare a’ lupi. — E stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina ed al soldano ed a ciascuno altro fece palese, rivolgendosi poi ad Ambruogiuolo, ingiuriosamente domandandolo quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse. Il quale, giá riconoscendola e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente dicea. Il soldano, il quale sempre per uomo avuta l’avea, questo veggendo ed udendo, venne in tanta maraviglia, che piú volte quello che egli vedeva ed udiva credette piú tosto esser sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia cessò, la veritá conoscendo, con somma laude la vita e la costanza ed i costumi e la vertù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata, commendò. E fattile venire onorevolissimi vestimenti feminili e donne che compagnia le tenessero, secondo la domanda fatta da lei, a Bernabò perdonò la meritata morte; il quale, riconosciutala, a’ piedi di lei si gittò piagnendo e domandò perdonanza, la quale ella, quantunque egli mal degno ne fosse, benignamente gli diede, ed in piede il fece levare, teneramente sí come suo marito abbracciandolo. Il soldano appresso comandò che incontanente Ambruogiuolo in alcuno alto luogo nella cittá fosse al sole legato ad un palo ed unto di mèle, né quindi mai, infino a tanto che per se medesimo non cadesse, levato fosse; e cosí fu fatto. Appresso questo, comandò che ciò che d’Ambruogiuolo stato era, fosse alla donna donato, che non era si poco, che oltre a diecemilia doble non valesse: ed egli, fatta apprestare una bellissima festa, in quella Bernabò come marito di madonna Zinevra, e madonna Zinevra sí come valorosissima donna onorò, e donolle, che in gioie e che in vasellamenti d’oro e d’ariento e che in denari, quello che valse meglio d’altre diecemilia doble. E fatto loro apprestare un legno, poi che fatta fu la festa, gli licenziò di potersi tornare a Genova al lor piacere; dove ricchissimi e con grande allegrezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva che morta fosse: e sempre di gran vertú e da molto, mentre visse, fu reputata. Ambruogiuolo, il di medesimo che legato fu al palo ed unto di mèle, con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da’ tafani, de’ quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino all’ossa divorato; le quali, bianche rimase ed a’ nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagitá fecero a chiunque le vide testimonianza. E cosí rimase lo ’ngannatore a piè dello ’ngannato.
- [X]
- Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Riccardo di Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino; raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede; ella non vuol con lui tornare, e morto messer Riccardo, moglie di Paganin diviene.
- Ciascun dell’onesta brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e massimamente Dioneo, al qual solo per la presente giornata restava il novellare; il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse:
- Belle donne, una parte della novella della reina m’ha fatto mutar consiglio di dirne una che all’animo m’era, a doverne un’altra dire: e questa è la bestialitá di Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si dánno a credere che esso di creder mostrava: cioè che essi, andando per lo mondo e con questa e con quella ora una volta ed ora un’altra sollazzandosi, s’imaginan che le donne a casa rimase si tengan le mani a cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe. La qual dicendo, ad una ora vi mostrerò chente sia la sciocchezza di questi cotali, e quanto ancora sia maggior quella di coloro li quali, sé piú che la natura possenti estimando, si credon quello, con dimostrazioni favolose, potere che essi non possono, e sforzansi d’altrui recare a quello che essi sono, non patendolo la natura di chi è tirato.
- Fu adunque in Pisa un giudice, piú che di corporal forza dotato d’ingegno, il cui nome fu messer Riccardo di Chinzica, il quale, forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco, con non piccola sollecitudine cercò d’avere e bella e giovane donna per moglie, dove e l’uno e l’altro, se cosí avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva fuggire. E quello gli venne fatto, per ciò che messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola il cui nome era Bartolomea, una delle piú belle e delle piú vaghe giovani di Pisa, come che poche ve n’abbiano che lucertole verminare non paiano. La quale il giudice menata con grandissima festa a casa sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella una non fece tavola; il quale poi la mattina, sí come colui che era magro e secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornasse. Or questo messer lo giudice, fatto migliore estimatore delle sue forze che stato non era avanti, incominciò ad insegnare a costei un calendaro buono da fanciulli che stanno a leggere, e forse giá stato fatto a Ravenna: per ciò che, secondo che egli le mostrava, niun di era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava, l’uomo e la donna doversi astenere da cosí fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d’apostoli e di mille altri santi e venerdí e sabati, e la domenica del Signore, e la quaresima tutta, e certi punti della luna ed altre eccezion molte, avvisandosi forse che cosí feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa maniera, non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava il mese, ed appena, lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le ’nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l’aveva insegnate le feste. Avvenne che, essendo il caldo grande, a messer Riccardo venne disidèro d’andarsi a diportare ad un suo luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi, per prendere aere, dimorarsi alcun giorno. E con seco menò la sua bella donna, e quivi standosi, per darle alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su una co’ pescatori ed ella in su un’altra con altre donne, andarono a vedere: e tirandogli il diletto, parecchie miglia quasi senz’accorgersene n’andarono infra mare. E mentre che essi piú attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora molto famoso corsale, sopravvenne, e vedute le barche, si dirizzò a loro; le quali non poteron sí tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran le donne, nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella, veggente messer Riccardo che giá era in terra, sopra la sua galeotta posta, andò via. La qual cosa veggendo messer lo giudice, il quale era sí geloso, che temeva dell’aere stesso, se esso fu dolente non è da domandare. Egli senza prò, ed in Pisa ed altrove, si dolfe della malvagitá de’ corsari, senza sapere chi la moglie tolta gli avesse o dove portatala. A Paganino, veggendola cosí bella, parve star bene: e non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi costei, e lei che forte piagnea cominciò dolcemente a confortarla. E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola ed ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò a confortar co’ fatti, parendogli che poco fossero il dí giovate le parole: e per si fatta maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, ed il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e cominciò a viver piú lietamente del mondo con Paganino; il quale, a Monaco menatala, oltre alle consolazioni che di dí e di notte le dava, onoratamente come sua moglie la tenea. Poi a certo tempo, pervenuto agli orecchi di messer Riccardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidèro, avvisandosi niuno interamente saper far ciò che a ciò bisognava, esso stesso dispose d’andar per lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantitá di denari; e messosi in mare, se n’andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui, la quale poi la sera a Paganino il disse e lui della sua intenzione informò. La seguente mattina messer Riccardo, veggendo Paganino, con lui s’accontò e fece in poca d’ora una gran dimestichezza ed amistá. infignendosi Paganino di conoscerlo ed aspettando a che riuscir volesse. Per che, quando tempo parve a messer Riccardo, come meglio seppe ed il piú piacevolmente la cagione per la quale venuto era gli discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse prendesse e la donna gli rendesse. Al quale Paganino con lieto viso rispose: — Messer, voi siate il ben venuto; e rispondendo in brieve, vi dico cosi: egli è vero che io ho una giovane in casa, la quale non so se vostra moglie o d’altrui si sia, per ciò che voi io non conosco, né lei altressí se non in tanto quanto ella è meco alcun tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come voi dite, io, per ciò che piacevol gentile uom mi parete, vi menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerá bene; se essa dice che cosí sia come voi dite, e vogliasene con voi venire, per amor della vostra piacevolezza, quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei mi darete: ove cosí non fosse, voi fareste villania a volerlami tôrre, per ciò che io son giovane uomo e posso cosí come uno altro tenere una femina, e spezialmente lei che è la piú piacevole che io vidi mai. — Disse allora messer Riccardo: — Per certo ella è mia moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto: ella mi si gitterá incontanente al collo; e per ciò non domando che altramenti sia se non come tu medesimo hai divisato. — Adunque, — disse Paganino — andiamo. — Andatisene adunque nella casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella, vestila ed acconcia, uscì d’una camera e quivi venne dove messer Riccardo con Paganino era, né altramenti fece motto a messer Riccardo che fatto s’avrebbe ad tino altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il che veggendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a dire: — Forse che la malinconia ed il lungo dolore che io ho avuto poscia che io la perdei m’ha si trasfigurato, che ella non mi riconosce. — Per che egli disse: — Donna, caro mi costa il menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si senti mai a quello che io ho poscia portato che io ti perdei, e tu non par che mi riconoscili, si salvaticamente motto mi fai. Non vedi tu che io sono il tuo messer Riccardo, venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo in casa cui noi siamo, per riaverti e per menartene: ed egli, la sua mercé, per ciò che io voglio mi ti rende? — La donna, rivolta a lui, un cotal pocolin sorridendo, disse: — Messere, dite voi a me? Guardate che voi non m’abbiate colta in iscambio, ché, quanto è a me, io non mi ricordo che io vi vedessi giá mai. — Disse messer Riccardo: — Guarda ciò che tu di’: guatami bene; se tu ti vorrai ben ricordare, tu vedrai bene che io sono il tuo Riccardo di Chinzica. — La donna disse: — Messere, voi mi perdonerete; forse non è egli cosí onesta cosa a me, come voi v’imaginate, il molto guardarvi, ma io v’ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai piú non vi vidi. — Imaginossi messer Riccardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza confessar di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a Paganino che in camera solo con essolei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea, sí veramente che egli non la dovesse contra suo piacere basciare, ed alla donna comandò che con lui in camera andasse ed udisse ciò che egli volesse dire, e come le piacesse gli rispondesse. Andatisene adunque in camera la donna e messer Riccardo soli, come a sedere si furori posti, incominciò messer Riccardo a dire: — Deh! cuore del corpo mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Riccardo tuo che t’ama piú che se medesimo? Come può questo essere? Sono io cosí trasfigurato? Deh! occhio mio bello, guatami pure un poco. — La donna incominciò a ridere, e senza lasciarlo dir piú, disse: — Ben sapite che io non sono sì smemorata, che io non conosca che voi siete messer Riccardo di Chinzica mio marito: ma voi, mentre che io fui con voi, mostraste assai male di conoscer me, per ciò che, se voi eravate savio o siete come volete esser tenuto, dovevate bene avere tanto conoscimento, che voi dovevate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle giovani donne, oltre al loro vestire ed al mangiare, benché elle per vergogna nol dicano, si richiede; il che 1/5 come voi il facevate, voi il vi sapete. E se egli v’era piú a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovevate pigliarla: benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi parevate un banditor di sagre e di feste, si ben le sapevate, e le digiune e le vigilie. E dicovi che, se voi aveste tante feste fatte fare a’ lavoratori che le vostre possession lavorano, quante facevate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granel di grano. Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sí come pietoso ragguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella quale non si sa che cosa festa sia; dico di quelle feste che voi, piú divoto a Dio che a’ servigi delle donne, cotante celebravate; né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdí né vigilia né quattro tempora né quaresima, che è cosí lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana: e poi che questa notte sonò matutino, so bene come il fatto andò da una volta insú. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane, e le feste e le perdonanze ed i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia: e voi con la buona ventura si ve n’andate il piú tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace. — Messer Riccardo, udendo queste parole, sosteneva dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide: — Deh! anima mia dolce, che parole son quelle che tu di’? Or non hai tu riguardo all’onore de’ parenti tuoi ed al tuo? Vuoi tu innanzi star qui per bagascia di costui, ed in peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran vitupèro di te medesima ti caccerá via; io t’avrò sempre cara e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna della casa mia. Dèi tu per questo appetito disordinato e disonesto lasciar l’onor tuo e ine, che t’amo piú che la vita mia? Deh! speranza mia cara, non dir piú cosi; voglitene venir con meco: io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidèro, mi sforzerò; e però, ben mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu tolta mi fosti. — A cui la donna rispose: — Del mio onore non intendo io che persona, ora che non si può, sia piú di me tenera: fosserne stati i parenti miei quando mi diedero a voi! Li quali se non furono allora del mio, io non intendo d’essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato mortaio, io starò quando che sia in imbeccato pestello: non ne siate piú tenero di me. E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino, ed a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di geometria si convenieno tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci, Dio vel dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? Di farla in tre pace, e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un pro’ cavaliere poscia che io non vi vidi! Andate, e sforzatevi di vivere: ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. Ed ancor vi dico piú: che, quando costui mi lascerá, che non mi pare a ciò disposto, dove io voglia stare, io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno scodellino di salsa, per ciò che con mio grandissimo danno ed interesse vi stetti una volta; per che in altra parte cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia, laonde io intendo di starmi: e per ciò, come piú tosto potete, v’andate con Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare. — Messer Riccardo, veggendosi a mal partito e pure allor conoscendo la sua follia d’aver moglie giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s’uscí della camera e disse parole assai a Paganino le quali non montavano un frullo; ed ultimamente, senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, ed in tanta mattezza per dolor cadde, che andando per Pisa, a chiunque il salutava o d’alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: — Il mal foro non vuol festa! — E dopo non molto tempo si morì; il che Paganin sentendo, e conoscendo l’amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò, e senza mai guardar festa o vigilia o far quaresima, quanto le gambe ne gli poteron portare lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne mie care, mi pare che ser Bernabò, disputando con Ambruogiuolo, cavalcasse la capra inverso il chino.
- Questa novella die’ tanto che ridere a tutta la compagnia, che niuna ve n’era a cui non dolessero le mascelle: e di pari consentimento tutte le donne dissero che Dioneo diceva vero e che Bernabò era stato una bestia. Ma poi che la novella fu finita e le risa ristate, avendo la reina riguardato che l’ora era omai tarda e che tutti avean novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il cominciato ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di Neifile, con lieto viso dicendo: — Omai, cara compagna, di questo piccol popolo il governo sia tuo — ed a seder si ripose. Neifile del ricevuto onore un poco arrossò, e tal nel viso divenne qual fresca rosa d’aprile o di maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi, vaghi e scintillanti non altramenti che matutina stella, un poco bassi. Ma poi che l’onesto romor de’ circostanti, nel quale il favor loro verso la reina lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l’animo, alquanto piú alta che usata non era sedendo, disse:
- Poi che cosí è che io vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubidendo commendato avete, il parer mio in poche parole vi farò manifesto; il quale se dal vostro consiglio sará commendato, quel seguiremo. Come voi sapete, domane è venerdí ed il seguente di sabato, giorni, per le vivande le quali s’usano in quegli, alquanto tediosi alle piú genti: senza che, il venerdí, avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita morí, sostenne passione, è degno di reverenza; per che giusta cosa e molto onesta reputerei che, ad onor di Dio, piú tosto ad orazioni che a novelle vacassimo. Ed il sabato appresso usanza è delle donne di lavarsi la testa e di tôr via ogni polvere ed ogni sucidume che per la fatica di tutta la passata settimana sopravvenuta fosse: e soglion similmente assai, a reverenza della Vergine madre del Figliuolo di Dio, digiunare, e da indi in avanti, per onor della sopravvegnente domenica, da ciascuna opera riposarsi; per che, non potendo cosí appieno in quel di l’ordine da noi preso nel vivere seguitare, similmente estimo sia ben fatto, quel di delle novelle ci posiamo. Appresso, per ciò che noi qui quattro di dimorate saremo, se noi vogliam tôr via che gente nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di mutarci di qui ed andarne altrove: ed il dove io ho giá pensato e provveduto. Quivi quando noi saremo domenica appresso dormire adunati, voglio, avendo noi oggi avuto assai largo spazio da discorrere ragionando, sì perché piú tempo da pensare avrete e sí perché sará ancora piú bello che un poco si ristringa del novellare la licenza, che sopra un de’ molti fatti della fortuna si dica: ed ho pensato che questo sará di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che ciascun pensi di dire alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole, salvo sempre il privilegio di Dioneo. — Ciascuno commendò il parlare ed il diviso della reina: e cosí statuiron che fosse. La quale, appresso questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la sera le tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo della sua signoria pienamente gli divisò; e cosí fatto, in piè dirizzata con la sua brigata, a far quello che piú piacesse a ciascuno gli licenziò. Presero adunque le donne e gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi poi che alquanto diportati si furono, l’ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono; e da quella levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone da Pampinea, rispondendo l’altre, fu cantata:
- Qual donna canterá, s’io non canto io,
- che son contenta d’ogni mio disio?
- Vien’ dunque, Amor, cagion d’ogni mio bene,
- d’ogni speranza e d’ogni lieto effetto;
- cantiamo insieme un poco,
- non de’ sospir né delle amare pene
- ch’or piú dolce mi fanno il tuo diletto,
- ma sol del chiaro foco
- nel quale ardendo in festa vivo e ’n gioco,
- te adorando come un mio iddio.
- Tu mi ponesti innanzi agli occhi, Amore,
- il primo di ch’io nel tuo foco entrai,
- un giovanetto tale,
- che di biltá, d’ardir né di valore
- non se ne troverebbe un maggior mai,
- né pure a lui equale;
- di lui m’accesi tanto, che aguale
- lieta ne canto teco, signor mio.
- E quel che ’n questo m’è sommo piacere
- è ch’io gli piaccio quanto egli a me piace,
- Amor, la tua merzede;
- per che in questo mondo il mio volere
- posseggo, e spero nell’altro aver pace,
- per quella intera fede
- che io gli porto: Iddio, che questo vede,
- del regno suo ancor ne sará pio.
- Appresso questa, piú altre se ne cantarono, e piú danze si fecero e sonarono diversi suoni: ma estimando la reina tempo essere di doversi andare a posare, co’ torchi avanti ciascuno alla sua camera se n’andò, e li due dí seguenti a quelle cose vacando che prima la reina avea ragionate, con disidèro aspettarono la domenica.
- * * *
- * * *
- finisce la seconda giornata del decameron; incomincia la terza, nella quale si ragiona, sotto il reggimento di neifile, di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
- Novella seconda
- Un pallafrenier giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
- Novella terza
- Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza una donna innamorata d’un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che ’l piacer di lei avesse intero effetto.
- Novella quarta
- Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
- Novella quinta
- Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l’effetto segue.
- Novella sesta
- Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
- Novella settima
- Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode.
- Novella ottava
- Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.
- Novella nona
- Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d’una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
- Novella decima
- Alibech diviene romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
- Conclusione
- * * *
- L’aurora giá di vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando, la domenica, la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, ed avendo giá il siniscalco gran pezza davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava, veggendo giá la reina in cammino, prestamente fatta ogni altra cosa caricare, quasi quindi il campo levato, con la salmeria n’andò e con la famiglia rimasa appresso delle donne e de’ signori. La reina adunque con lento passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del canto di forse venti usignuoli ed altri uccelli, per una vietta non troppo usata, ma piena di verdi erbette e di fiori li quali per lo sopravvegnente sole tutti s’incominciavano ad aprire, prese il cammino verso l’occidente, e cianciando e motteggiando e ridendo con la sua brigata, senza essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse, ad un bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, ed avendo vedute le gran sale, le pulite ed ornate camere compiutamente ripiene di ciò che a camera s’appartiene, sommamente il commendarono, e magnifico reputarono il signor di quello; poi, abbasso discesi, e veduta l’ampissima e lieta corte di quello, le vòlte piene d’ottimi vini e la freddissima acqua ed in gran copia che quivi surgea, piú ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il tempo e di frondi, postesi a sedere, venne il discreto siniscalco, e loro con preziosissimi confetti ed ottimi vini ricevette e riconfortò. Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, in quello, che tutto era da torno murato, se n’entrarono; e parendo loro nella prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, piú attentamente le parti di quello cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime, tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti, le quali facevano gran vista di dovere quello anno assai uve fare: e tutte allora fiorite sí grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere tra tutta la spezieria che mai nacque in Oriente. Le latora delle quali vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era piú alto, sotto odorifera e dilettevole ombra, senza esser tócco da quello, vi si poteva per tutto andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare: ma niuna n’è laudevole la quale il nostro aere patisca, di che quivi non sia abbondevolemente. Nel mezzo del quale; quello che non è meno commendabile che altra cosa che vi fosse, ma molto piú; era un prato di minutissima erba e verde tanto, che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietá di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti ed i nuovi ed i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all’odorato facevan piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli iv’entro, la quale, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura che sopra una colonna nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sí alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La qual poi; quella dico, che soprabbondava al pieno della fonte; per occulta via del pratello usciva, e per canaletti assai belli ed artificiosamente fatti fuor di quello divenuta palese, tutto lo ’ntorniava: e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea l’uscita, e quindi verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel divenisse, con grandissima forza e con non piccola utilitá del signore due mulina volgea. Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante e la fontana co’ ruscelletti procedenti da quella tanto piacque a ciascuna donna ed a’ tre giovani, che tutti cominciarono ad affermare che, se paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d’alberi ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d’uccelli quasi a pruova l’un dell’altro cantare, s’accorsero d’una dilettevol bellezza della quale, dall’altre soprappresi, non s’erano ancora accorti: ché essi videro il giardin pieno forse di cento varietá di belli animali, e l’uno all’altro mostrandolo, d’una parte uscir conigli, d’altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, ed in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, ed oltre a questi, altre piú maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero. Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole, e quivi prima sei canzonette cantate ed alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti piú lieti sú si levarono, ed a’ suoni ed a’ canti ed a’ balli da capo si dierono infino che alla reina, per lo caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s’andasse a dormire. De’ quali chi v’andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle: ma quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede. Ma poi che, passato la nona, levato si fu, ed il viso con la fresca acqua rinfrescato s’ebbero, nel prato, sí come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, ed in quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De’ quali il primo a cui la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa guisa:
- [I]
- Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano d’un manistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.
- Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che si sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca ed indosso messole la nera cocolla, che ella piú non sia femina né piú senta de’ feminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca: e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n’odono, cosí si turbano come se contra natura un grandissimo e scellerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo avere rispetto a se medesimi, li quali la piena licenza di potere far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell’ozio e della sollecitudine. E similmente sono ancora di quegli assai, che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande ed i disagi tolgano del tutto a’ lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d’intelletto e d’avvedimento grossissimi. Ma quanto tutti coloro che cosí credono sieno ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l’ha, non uscendo della proposta fattaci da lei, di farvene piú chiare con una piccola novelletta.
- In queste nostre contrade fu ed è ancora un monistero di donne assai famoso di santitá, il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua; nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora piú che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d’un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio,
- lá onde egli era, se ne tornò. Quivi tra gli altri che lietamente il raccolsono fu un giovane lavoratore forte e robusto, e secondo uomo di villa con bella persona, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto aveva nome, gliele disse; il qual Masetto domandò, di che egli il monistero servisse. A cui Nuto rispose: — Io lavorava un lor giardino bello e grande, ed oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti: ma le donne mi davano sí poco salario, che io non ne poteva appena pur pagare i calzari. Ed oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi che elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quando io lavorava alcuna volta l’orto, l’una diceva: «Pon’ qui questo» e l’altra: «Pon’ qui quello» e l’altra mi toglieva la zappa di mano e dicea: «Questo non istá bene»; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio ed uscivami dell’orto, sì che, tra per l’una cosa e per l’altra, io non vi volli star piú, e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaido loro, quando io me ne venni, che, se io n’avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, ed io gliele promisi: ma tanto il faccia Iddio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno. — A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell’animo un disidèro si grande d’esser con queste monache, che tutto se ne struggeva, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe potere venir fatto di quello che egli disiderava. Ed avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse: — Deh! come ben facesti a venirtene! Che è uno uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse. — Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi essere ricevuto per ciò che troppo era giovane ed appariscente. Per che, molte cose divisate seco, imaginò: — Il luogo è assai lontano di qui e niun mi vi conosce; se io so far vista d’esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto. — Ed in questa imaginazion fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s’andasse, in guisa d’un povero uomo se n’andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte, al quale, faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l’amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. Il castaido gli die’ da mangiar volentieri: ed appresso questo, gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non aveva potuti spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d’ora ebbe tutti spezzati. Il castaido, che bisogno avea d’andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliar delle legne; poscia, messogli l’asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto bene, per che il castaido a far fare certe bisogne che gli eran luogo, piú giorni vel tenne; de’ quali avvenne che uno la badessa il vide, e domandò il castaido chi egli fosse. Il quale le disse: — Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un dì questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, ed hogli fatte fare assai cose che bisogno c’erano. Se egli sapesse lavorare l’orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n’avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l’uom fare ciò che volesse; ed oltre a questo, non vi bisognerebbe d’aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani. — A cui la badessa disse: — In fé di Dio, tu di’ il vero: sappi se egli sa lavorare ed ingégnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette, qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare. — Il castaido disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto diceva: — Se voi mi mettete costá entro, io vi lavorerò sì l’orto, che mai non vi fu cosí lavorato. — Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapeva lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far volea ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl’impose che egli l’orto lavorasse e mostrògli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò. Il quale lavorando l’un dí appresso l’altro, le monache incominciarono a dargli noia ed a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de’ mutoli, e dicevangli le piú scellerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese: e la badessa, che forse estimava che egli cosí senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava. Or pure avvenne che costui un dí avendo lavorato molto e riposandosi, due giovanette monache che per lo giardino andavano s’appressarono lá dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l’una, che alquanto era piú baldanzosa, disse all’altra: — Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto piú volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare. — L’altra rispose: — Di’ sicuramente, ché per certo io noi dirò mai a persona. — Allora la baldanzosa incominciò: — Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo che è vecchio e questo mutolo: ed io ho piú volte a piú donne che a noi son venute udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l’uomo. Per che io m’ho piú volte messo in animo, poi che con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se cosí è: ed egli è il miglior del mondo da ciò costui, ché, perché egli pur volesse, egli noi potrebbe né saprebbe ridire; tu vedi che egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno. Volentieri udirei quello che a te ne pare. — Oimè ! — disse l’altra — che è quel che tu di’? Non sai tu che noi abbiamo promessa la virginitá nostra a Dio? — Oh! — disse colei — quante cose gli si promettono tutto il dí, che non se ne gli attiene niuna! Se noi gliele abbiam promessa, truovisi un’altra o dell’altre che gliele attengano. — A cui la compagna disse: — O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto? — Quella allora disse: — Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrá pensare: egli ci avrá mille modi da fare, sí che mai non si saprá, pur che noi medesime noi diciamo. — Costei, udendo ciò, avendo giá maggior voglia che l’altra di provare che bestia fosse l’uomo, disse: — Or bene, come faremo? — A cui colei rispose: — Tu vedi che egli è in su la nona; io mi credo che le suore sieno tutte a dormire, se non noi; guatiamo per l’orto se persona c’è, e se egli non c’è persona, che abbiam noi a far se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, lá dove egli fugge l’acqua, e quivi l’una si stea dentro con lui e l’altra faccia la guardia? Egli è si sciocco, che egli s’acconcerá comunque noi vorremo. — Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l’esser preso dall’una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in piè; per che costei, con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fece che ella volle. La quale, sí come leale compagna, avuto quel che volea, diede all’altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere; per che, avanti che quindi si dipartissono, da una volta insú ciascuna provar volle come il mutolo sapeva cavalcare, e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era cosí dolce cosa, e piú, come udito aveano: e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s’andavano a trastullare. Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò: e prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa, poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del poder di Masetto; alle quali l’altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi. Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s’accorgea, andando un dí tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto, il quale di poca fatica il dí per lo troppo cavalcar della notte aveva assai, tutto disteso all’ombra d’un mandorlo dormirsi, ed avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto. La qual cosa riguardando la donna e sola veggendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle: e destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l’ortolano non venia a lavorar l’orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la quale essa prima all’altre solea biasimare. Ultimamente, della sua camera alla stanza di lui rimandatonelo, e molto spesso rivolendolo ed oltre a ciò piú che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s’avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se piú stesse, in troppo gran danno resultare; e per ciò una notte, con la badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire: — Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne convien servir nove; al che per cosa del mondo io non potrei durare, anzi sono io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto, che io non posso fare né poco né molto: e per ciò, o voi mi lasciate andar con Dio o voi a questa cosa trovate modo. — La donna, udendo costui parlare il quale ella teneva mutolo, tutta stordí, e disse: — Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo. — Madonna, — disse Masetto — io era ben cosí, ma non per natura, anzi per una infermitá che la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Iddio quanto io posso. — La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò, che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto, il che la badessa udendo, s’accorse che monaca non avea che molto piú savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler con le sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato. Ed essendo di quei dí morto il lor castaido, di pari consentimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto si ordinarono, che le genti circostanti credettero che, per le loro orazioni e per li meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero: e per sí fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le potè comportare. Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sí discretamente procedette la cosa, che niente se ne sentí se non dopo la morte della badessa, essendo giá Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa sua; la qual cosa saputa, di leggeri gli fece venir fatto. Cosí adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricare i figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s’era, se ne tornò, affermando che cosí trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra il cappello.
- [II]
- Un pallafreniere giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s’accorge; truovalo e tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e cosí campa della mala ventura.
- Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne arrossate ed alcuna altra se n’avean riso, piacque alla reina che Pampinea novellando seguisse; la quale con ridente viso incominciando disse:
- Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per loro non fa di sapere, che alcuna volta per questo, riprendendo i disavveduti difetti in altrui, si credono la lor vergogna scemare, lá dove essi l’accrescono in infinito: e che ciò sia vero nel suo contrario, mostrandovi l’astuzia d’un forse di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d’un valoroso re, vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato.
- Agilulf, re de’ longobardi, sí come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia, cittá di Lombardia, fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d’Auttari, re stato similmente de’ longobardi, la quale fu bellissima donna, savia ed onesta molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la vertú e per lo senno di questo re Agilulf le cose de’ longobardi prospere ed in quiete, addivenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo piú che da cosí vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s’innamorò: e per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuori d’ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri, e come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogni altro de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che intervenia che la reina, dovendo cavalcare, piú volentieri il pallafreno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava, e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccarle poteva. Ma come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore, tanto l’amor maggior farsi, cosí in questo povero pallafreniere avvenia, intanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio cosí nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza aiutato; e piú volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di volere questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per l’amore che alla reina aveva portato e portava: e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidèro. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che invano o direbbe o scriverebbe, ma a voler provare se per ingegno con la reina giacer potesse: né altro ingegno né via c’era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare. Per che, acciò che vedesse in che maniera ed in che abito il re, quando a lei andava, andasse, piú volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose: ed intra l’altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello ed aver dall’una mano un torchietto acceso e dall’altra una bacchetta, ed andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l’uscio della camera con quella bacchetta, ed incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto. La qual cosa veduta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di cosí dover fare egli altressí: e trovato modo d’avere un mantello simile a quello che al re veduto avea ed un torchietto ed una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l’odor del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello ’nganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che giá per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disidèro dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto con la pietra e con l’acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso ed avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse con la bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta, ed il lume preso ed occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato, per ciò che costume del re esser sapea che, quando turbato era, niuna cosa voleva udire, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, piú volte carnalmente la reina conobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l’avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello ed il lume, senza alcuna cosa dire se n’andò, e come piú tosto potè si tornò al letto suo. Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte: ed essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: — O signor mio, questa che novitá è stanotte? Voi vi partite pur testé da me, ed oltre l’usato modo di me avete preso piacere: e cosí tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate. — Il re, udendo queste parole, subitamente presunse, la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata, ma come savio subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n’era, né alcuno altro, di non volernela fare accorgere; il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: — Io non ci fui io; chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne? — Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datale materia di disiderare altra volta quello che giá sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando sarebbe vitupèro recato. Risposele adunque il re, piú nella mente che nel viso o che nelle parole turbato: — Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato, ed ancora appresso questa tornarci? — A cui la donna rispose: — Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute. — Allora il re disse: — Ed egli mi piace di seguire il vostro consiglio, e questa volta senza darvi piú impaccio me ne vo’ tornare. — Ed avendo l’animo giá pieno d’ira e di maltalento per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s’uscí della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un piccolissimo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva: ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse potuto ancora il polso ed il battimento del cuore per lo durato affanno riposare, tacitamente, cominciato dall’un de’ capi della casa, a tutti cominciò ad andar toccando il petto, per sapere se gli battesse. Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che con la reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, veggendo venire il re ed avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere, tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un maggiore: ed avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’avvedesse, senza indugio il farebbe morire. E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur veggendo il re senza alcuna arme diliberò di far vista di dormire e d’attender quello che il re far dovesse. Avendone adunque il re molti cerchi né alcun trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: — Questi è desso. — Ma sí come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che, con un paio di forficette le quali portate avea, gli tondé alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavan lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì e tornossi alla camera sua. Costui, che tutto ciò sentito avea, sí come colui che malizioso era, chiaramente s’avvisò perché cosí segnato era stato; laonde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v’erano alcun paio per la stalla per lo servigio de’ cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simile maniera sopra l’orecchie tagliò i capelli, e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire. Il re, levato la mattina, comandò che, avanti che le porti del palagio s’aprissono, tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e cosí fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui: e veggendo la maggior parte di loro co’ capelli ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: — Costui il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno. — Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel che egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e di mostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; ed a tutti rivolto disse: — Chi il fece nol faccia mai piú, ed andatevi con Dio. — Un altro gli avrebbe voluti far collare, martoriare, esaminare e domandare, e ciò faccendo avrebbe scoperto quello che ciascun dèe andar cercando di ricoprire: ed essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n’avesse presa, non iscemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminata l’onestá della donna sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente tra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire, ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse, se non colui solo a cui toccava. Il quale, sí come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né piú la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.
- [III]
- Sotto spezie di confessione e di purissima coscienza una donna innamorata d’un giovane induce un solenne frate, senza avvedersene egli, a dar modo che il piacer di lei avesse intero effetto.
- Taceva giá Pampinea, e l’ardire e la cautela del pallafreniere era da’ piú di loro stata lodata, e similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le ’mpose il seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente cosí incominciò a parlare:
- Io intendo di raccontarvi una beffa che fu da dovero fatta da una bella donna ad un solenne religioso, tanto piú ad ogni secolar da piacere, quanto essi, il piú stoltissimi ed uomini di nuove maniere e costumi, si credono piú che gli altri in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sí come quegli che, per viltá d’animo non avendo argomento, come gli altri uomini, di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar, come il porco. La quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per seguire l’ordine imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi, a’ quali noi, oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e sono alcuna volta, non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente beffati.
- Nella nostra cittá, piú d’inganni piena che d’amore o di fede, non sono ancora molti anni passati, fu una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d’altezza d’animo e di sottili avvedimenti quanto alcuna altra dalla natura dotata, il cui nome né ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivon di quegli che per questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da trapassare. Costei adunque, d’alto legnaggio veggendosi nata, e maritata ad uno artefice lanaiuolo, per ciò che artefice era non potendo lo sdegno dell’animo porre in terra, per lo quale estimava, niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna degno; e veggendo lui ancora, con tutte le sue ricchezze, da niuna altra cosa essere piú avanti che da sapere divisare un mescolato o fare ordire una tela o con una filatrice disputar del filato, propose di non voler de’ suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse, ma di volere a sodisfazione di se medesima trovare alcuno il quale piú di ciò, che il lanaiuolo, le paresse che fosse degno. Ed innamorossi d’uno assai valoroso uomo e di mezza etá, tanto che, qual di noi vedea, non poteva la seguente notte senza noia passare: ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne curava, ed ella, che molto cauta era, né per ambasciata di femina né per lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de’ pericoli possibili ad avvenire. Ed essendosi accorta che costui usava molto con un religioso, il quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei ed il suo amante: ed avendo seco pensato che modo tener dovesse, se n’andò a convenevole ora alla chiesa dove egli dimorava, e fattolsi chiamare, disse, quando gli piacesse, che da lui si volea confessare. Il frate, veggendola ed estimandola gentil donna, l’ascoltò volentieri, ed essa dopo la confession disse: — Padre mio, a me conviene ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete. Io so, come colei che detto ve l’ho, che voi conoscete i miei parenti ed il mio marito, dal quale io sono piú che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero che da lui, sí come da ricchissimo uomo e che il può ben fare, io non l’abbia incontanente; per le quali cose io piú che me stessa l’amo: e lasciamo stare che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al suo onore o piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei io. Ora, uno del quale nel vero io non so il nome, ma persona da bene mi pare, e se io non ne sono ingannata, usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni bruni assai onesti, forse non avvisandosi che io cosí fatta intenzione abbia come io ho, pare che m’abbia posto l’assedio, né posso farmi né ad uscio né a finestra né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi: e maravigliomi io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per ciò che questi cosí fatti modi fanno sovente senza colpa all’oneste donne acquistar biasimo. Hommi posto in cuore di fargliele alcuna volta dire a’ miei fratelli, ma poscia m’ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta l’ambasciate per modo che le risposte seguitan cattive, di che nascon parole, e dalle parole si perviene a’ fatti; per che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son taciuta, e dilibera’mi di dirlo piú tosto a voi che ad altrui, sí perché pare che suo amico siate, sí ancora perché a voi sta bene di cosí fatte cose, non che gli amici, ma gli strani ripigliare. Per che io vi priego per solo Iddio che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che piú questi modi non tenga. Egli ci sono dell’altre donne assai le quali per avventura son disposte a queste cose, e piacerá loro d’esser guatate e vagheggiate da lui, lá dove a me è gravissima noia, sí come a colei che in niuno atto ho l’animo disposto a tal materia. — E detto questo, quasi lagrimar volesse, basso la testa. Il santo frate comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e commendata molto la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo quello esser vero che ella diceva, le promise d’operar sí e per tal modo, che piú da quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le lodò l’opera della caritá e della limosina, il suo bisogno raccontandole. A cui la donna disse: — Io ve ne priego per Dio: e se egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che questo v’abbia detto e siamivene doluta. — E quinci, fatta la confessione e presa la penitenza, ricordandosi de’ conforti datile dal frate dell’opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò che messe dicesse per l’anima de’ morti suoi; e da’ piè di lui levatasi, a casa se ne tornò. Al santo frate non dopo molto, sì come usato era, venne il valente uomo; col quale poi che d’una cosa e d’altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai cortese modo il riprese dello ’ntendere e del guardare che egli credeva che esso facesse a quella donna, sí come ella gli avea dato ad intendere. Il valente uomo si maravigliò, sí come colui che mai guatata non l’avea e radissime volte era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma il frate non lo lasciò dire, ma disse egli: — Or non far vista di maravigliarti né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io non ho queste cose sapute da’ vicini: ella medesima, forte di te dolendosi, me l’ha dette. E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella è dessa: e per ciò, per onor di te e per consolazion di lei, ti priego te ne rimanghi e lascila stare in pace. — Il valente uomo, piú accorto che il santo frate, senza troppo indugio la sagacitá della donna comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di piú non intramettersene per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n’andò della donna, la quale sempre attenta stava ad una piccola finestretta per doverlo vedere, se vi passasse. E veggendol venire, tanto lieta e tanto graziosa gli si mostrò, che egli assai ben potè comprendere, sé avere il vero compreso dalle parole del frate: e da quel di innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne fosse cagione, continuò di passar per quella contrada. Ma la donna dopo alquanto, giá accortasi che ella a costui cosí piacea come egli a lei, disiderosa di volerlo piú accendere e certificare dell’amore che ella gli portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e postaglisi nella chiesa a sedere a’ piedi, a piagnere incominciò. Il frate, questo veggendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse. La donna rispose: — Padre mio, le novelle che io ho non sono altre che di quel maladetto da Dio vostro amico, di cui io mi vi ramaricai l’altrieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né mai ardirò poi di piú pormivi a’ piedi. — Come!—disse il frate — non s’è egli rimaso di darti piú noia? — Certo no, — disse la donna — anzi, poi che io mi ve ne dolsi, quasí come per un dispetto, avendo forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passarvi solea, credo poscia vi sia passato sette. Ed or volesse Iddio che il passarvi ed il guatarmi gli fosse bastato: ma egli è stato sí ardito e sí sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue frasche, e quasí come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò una borsa ed una cintola; il che io ho avuto ed ho sì forte per male, che io credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io avrei fatto il diavolo: ma pure mi son rattemperata, né ho voluto fare né dire cosa alcuna che io non vel faccia prima assapere. Ed oltre a questo, avendo io giá renduto indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata l’avea, ché gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che essa per sé non la tenesse ed a lui dicesse che io l’avessi ricevuta, sí come io intendo che elle fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di mano ed holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate e gli diciate che io non ho bisogno di sue cose, per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio, io ho tante borse e tante cintole, che io ve l’affogherei entro. Ed appresso questo, sí come a padre mi vi scuso che, se egli di questo non si rimane, io il dirò al marito mio ed a’ fratei miei, ed avvengane che può: ché io ho molto piú caro che egli riceva villania, se ricevere ne la dèe, che io abbia biasimo per lui; frate, bene sta! — E detto questo, tuttavia piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale, pienamente credendo ciò che la donna dicea, turbato oltre misura le prese, e disse: — Figliuola, se tu di queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare: ma lodo molto che tu in questo séguiti il mio consiglio. Io il ripresi l’altrieri, ed egli m’ha male attenuto quello che egli mi promise; per che, tra per quello e per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sí fatta maniera riscaldar gli orecchi, che egli piú briga non ti dará: e tu, con la benedizion di Dio, non ti lasciar vincere tanto all’ira, che tu ad alcun de’ tuoi il dicessi, ché ne gli potrebbe troppo di mal seguire. Né dubitar che mai, di questo, biasimo ti segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo testimonio della tua onestá. — La donna fece sembianti di riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l’avarizia sua e degli altri conoscea, disse: — Messere, a queste notti mi sono appariti piú miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime pene e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la qual mi par sì afflitta e cattivella, che è una pietá a vedere: credo che ella porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico di Dio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per l’anime loro le quaranta messe di san Grigoro e delle vostre orazioni, acciò che Iddio gli tragga di quel fuoco pennace. — E cosí detto, gli pose in mano un fiorino. Il santo frate lietamente il prese, e con buone parole e con molti esempli confermò la divozion di costei, e datale la sua benedizione, la lasciò andare. E partita la donna, non accorgendosi che egli era uccellato, mandò per l’amico suo; il quale venuto, e veggendol turbato, incontanente s’avvisò che egli avrebbe novelle della donna, ed aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli le parole altre volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato parlandogli, il riprese molto di ciò che detto gli avea la donna che egli doveva aver fatto. Il valente uomo, che ancor non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé aver mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di ciò, se forse data gliele avesse la donna. Ma il frate, acceso forte, disse: — Come il puoi tu negare, malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l’ha recate: vedi se tu le conosci! — Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse: — Mai si che io le conosco, e confessovi che io feci male; e giurovi che, poi che io cosí la veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete piú parola. — Ora, le parole fur molte: alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura all’amico suo, e dopo molto averlo ammaestrato e pregato che piú a queste cose non attendesse, ed egli avendogliele promesso, il licenziò. Il valente uomo, lietissimo e della certezza che aver gli parea dell’amor della donna e del bel dono, come dal frate partito fu, in parte n’andò dove cautamente fece alla sua donna vedere che egli avea e l’una e l’altra cosa; di che la donna fu molto contenta, e piú ancora per ciò che le parea che il suo avviso andasse di bene in meglio. E niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse in alcuna parte, per dare all’opera compimento, avvenne che per alcuna cagione, non molto dopo a questo, convenne al marito andare infino a Genova. E come egli fu la mattina montato a cavallo ed andato via, cosí la donna n’andò al santo frate, e dopo molte querimonie piagnendo gli disse: — Padre mio, or vi dico io bene che io non posso piú sofferire: ma per ciò che l’altrieri io vi promisi di niuna cosa farne che io prima noi vi dicessi, son venuta ad iscusarmivi; ed acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che il vostro amico, anzi diavolo del ninferno, mi fece stamane poco innanzi matutino. Io non so qual mala ventura gli si facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova: se non che stamane, all’ora che io v’ho detta, egli entrò in un mio giardino e vennesene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è sopra il giardino, e giá aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare, quando io, destatami, subito mi levai, ed aveva cominciato a gridare, ed avrei gridato: se non che egli, che ancora dentro non era, mi chiese mercé per Dio e per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi tacqui, ed ignuda come io nacqui corsi e serra’gli la finestra nel viso, ed egli nella sua malora credo che se n’andasse, per ciò che poi piú nol sentii. Ora, se questa è bella cosa ed è da sofferire, vedetelvi voi: io per me non intendo di piú comportargliene, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe. — Il frate, udendo questo, fu il piú turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi, se non che piú volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse stato altri. A cui la donna rispose: — Lodato sia Iddio, se io non conosco ancor lui da uno altro! Io vi dico che fu egli, e perché egli il negasse, non gliele credete. — Disse allora il frate: — Figliuola, qui non ha altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo mal fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandamelo come facesti. Ma io ti voglio pregare, poscia che Iddio ti guardo di vergogna, che, come due volte seguito hai il mio consiglio, cosí ancora questa volta facci, cioè che senza dolertene ad alcun tuo parente lasci fare a me, a veder se io posso raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo: e se io posso tanto fare, che io il tolga da questa bestialitá, bene sta, e se io non potrò, infino da ora con la mia benedizione ti do la parola che tu ne facci quello che l’animo ti giudica che ben sia fatto. — Ora ecco, — disse la donna — per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire, ma si adoperate che egli si guardi di piú noiarmi, ché io vi prometto di non tornar piú per questa cagione a voi. — E senza piú dire, quasi turbata, dal frate si parti. Né era appena ancor fuor della chiesa la donna, che il valente uom sopravvenne, e fu chiamato dal frate; al quale, da parte tiratolo, esso disse la maggior villania che mai ad uomo fosse detta, disleale e spergiuro e traditore chiamandolo. Costui, che giá due altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate, stando attento e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare, primieramente disse: — Perché questo cruccio, messere? Ho io crocifisso Cristo? — A cui il frate rispose: — Vedi svergognato! odi ciò che dice! Egli parla né piú né meno come se uno anno o due fosser passati e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestá dimenticate. Ètti egli da stamane a matutino in qua uscito di mente l’avere altrui ingiuriato? Ove fostú stamane poco avanti al giorno? — Rispose il valente uomo: — Non so io ove io mi fui; molto tosto ve n’è giunto il messo. — Egli è il vero — disse il frate — che il messo me n’è giunto: io m’avviso che tu ti credesti, per ciò che il marito non c’era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere in braccio! Hi, meccère: ecco onesto uomo! È divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor d’alberi! Credi tu per improntitudine vincere la santitá di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna cosa è al mondo che a lei dispiaccia come fai tu: e tu pur ti vai riprovando. In veritá, lasciamo stare che ella te l’abbia in molte cose mostrato, ma tu ti se’ molto bene ammendato per li miei gastigamenti! Ma cosí ti vo’ dire: ella ha infino a qui non per amore che ella ti porti, ma ad istanza de’ prieghi miei taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerá piú: conceduta l’ho la licenza che, se tu piú in cosa alcuna le spiaci, che ella faccia il parer suo. Che farai tu se ella il dice a’ fratelli? — Il valente uomo, avendo assai compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie promesse racchetò il frate: e da lui partitosi, come il matutino della seguente notte fu, cosí egli, nel giardino entrato e su per l’albero salito e trovata la finestra aperta, se n’entrò nella camera, e come piú tosto potè nelle braccia della sua bella donna si mise. La quale, con grandissimo disidèro avendolo aspettato, lietamente il ricevette dicendo: — Gran mercé a messer lo frate, che cosí bene t’insegnò la via da venirci. — Ed appresso, prendendo l’un dell’altro piacere, ragionando e ridendo molto della simplicitá di frate bestia, biasimando i lucignoli ed i pettini e gli scardassi, insieme con gran diletto si sollazzarono. E dato ordine a’ lor fatti, si fecero, che, senza aver piú a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovarono; alle quali io priego Iddio per la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte l’anime cristiane che voglia n’hanno.
- [IV]
- Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrá beato faccendo una sua penitenza; la quale frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dá buon tempo.
- Poi che Filomena, finita la sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo ’ngegno della donna commendato ed ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la reina ridendo guardò verso Panfilo e disse: — Ora appresso, Panfilo, continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto. — Panfilo prestamente rispose che volentieri, e cominciò:
- Madonna, assai persone sono che, mentre che essi si sforzano d’andarne in paradiso, senza avvedersene vi mandano altrui; il che ad una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo, sí come voi potrete udire, intervenne.
- Secondo che io udii giá dire, vicino di San Brancazio stette un buono uomo e ricco il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di san Francesco e fu chiamato frate Puccio: e seguendo questa sua vita spiritale, per ciò che altra famiglia non avea che una donna ed una fante, né per questo ad alcuna arte attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse; e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori. La moglie, che monna Isabetta aveva nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana, per la santitá del marito e forse per la vecchiezza faceva molto spesso troppo piú lunghe diete che voluto non avrebbe: e quando ella si sarebbe voluta dormire, o forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita di Cristo o le prediche di frate Nastagio o il lamento della Maddalena o cosí fatte cose. Tornò in questi tempi da Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di San Brancazio, il quale era assai giovane e bello della persona e d’aguto ingegno e di profonda scienza; col quale frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per ciò che costui ogni suo dubbio molto ben gli solvea, ed oltre a ciò, avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se l’incominciò frate Puccio a menare talvolta a casa ed a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressí, per amor di fra Puccio, era sua dimestica divenuta e volentier gli faceva onore. Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie cosí fresca e ritondetta, s’avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior difetto, e pensossi, se egli potesse, per tórre fatica a fra Puccio, di volerla supplire. E postole l’occhio addosso ed una volta ed altra bene astutamente, tanto fece, che egli l’accese nella mente quello medesimo disidèro che aveva egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò il suo piacere. Ma quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all’opera compimento, non si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo del mondo si voleva fidare ad esser col monaco se non in casa sua: ed in casa sua non si potea, però che fra Puccio non andava mai fuor della terra. Di che il monaco avea gran malinconia: e dopo molto gli venne pensato un modo da dovere potere essere con la donna in casa sua senza sospetto, nonostante che fra Puccio in casa fosse. Ed essendosi un dí andato a star con lui frate Puccio, gli disse cosí: — Io ho giá assai volte compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidèro è di divenir santo; alla qual cosa mi par che tu vadi per una lunga via, lá dove ce n’è una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi maggior prelati, che la sanno ed usano, non vogliono che ella si mostri, per ciò che l’ordine chericato, che il piú di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sí come quello al quale piú i secolari né con limosine né con altro attenderebbono. Ma per ciò che tu se’ mio amico ed haimi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona del mondo l’appalesassi, e volessila seguire, io la t’insegnerei. — Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò a pregare con grandissima istanza che gliele insegnasse e poi a giurare che mai, se non quanto gli piacesse, ad alcun noi direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguirla potesse, di mettervisi. — Poi che tu cosí mi prometti, — disse il monaco — ed io la ti mostrerò. Tu dèi sapere che i santi Dottori tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare la penitenza che tu udirai; ma intendi sanamente: io non dico che dopo la penitenza tu non sii peccatore come tu ti se’, ma avverrá questo, che i peccati che tu hai infino all’ora della penitenza fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati, e quegli che tu farai poi non saranno scritti a tua dannazione, anzi se n’andranno con l’acqua benedetta, come ora fanno i veniali. Conviensi adunque l’uomo principalmente con gran diligenza confessare de’ suoi peccati quando viene a cominciar la penitenza, ed appresso questo, gli conviene cominciare un digiuno ed un’astinenza grandissima la quale convien che duri quaranta dì, ne’ quali, non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene astenere. Ed oltre a questo, si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo, ed in su l’ora della compieta andare in questo luogo: e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa, che, stando tu in piè, vi possi le reni appoggiare, e tenendo i piedi in terra, distender le braccia a guisa di crocifisso: e se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo, puoil fare; ed in questa maniera, guardando il cielo, star senza muoverti punto infino a matutino. E se tu fossi letterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei: ma perché non se’, ti converrá dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenza della Trinitá, e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria, Iddio essere stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in quella maniera che stette egli in su la croce. Poi, come matutin suona, te ne puoi, se tu vuogli, andare e cosí vestito gittarti sopra il letto tuo e dormire; e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dire cinquanta paternostri con altrettante avemarie, ed appresso questo, con simplicitá fare alcuni tuoi fatti, se a far n’hai alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può fare, e poi in su la compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, sí come io feci giá, spero che anzi che la fine della penitenza venga tu sentirai maravigliosa cosa della beatitudine eterna, se con divozione fatta l’avrai. — Frate Puccio disse allora: — Questa non è troppo grave cosa né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare: e per ciò io voglio al nome di Dio cominciar domenica. — E da lui partitosi ed andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenza per ciò, alla moglie disse ogni cosa. La donna intese troppo bene, per lo star fermo infino a matutino senza muoversi, ciò che il monaco voleva dire; per. che, parendole assai buon modo, disse che di questo e d’ogni altro bene che egli per l’anima sua faceva ella era contenta e che, acciò che Iddio gli facesse la sua penitenza profittevole, ella voleva con essolui digiunare, ma fare altro no. Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenza, e messer lo monaco, convenutosi con la donna, ad ora che veduto non poteva essere, le piú delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all’ora del matutino, al quale levandosi se n’andava: e frate Puccio tornava a letto. Era il luogo il quale frate Puccio aveva alla sua penitenza eletto allato alla camera nella quale giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo con la donna alla scapestrata, ed ella con lui, parve a frate Puccio sentire alcun dimenamento di palco della casa; di che, avendo giá detti cento de’ suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva. La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando allora la bestia di san Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose: — Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso. — Disse allora frate Puccio: — Come ti dimeni? che vuol dir questo dimenare? — La donna ridendo, che e di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose: — Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora, io ve l’ho udito dire mille volte: «Chi la sera non cena, tutta notte si dimena». — Credettesi frate Puccio che il digiunare le fosse cagione di non potere dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse; per che egli di buona fede disse: — Donna, io t’ho ben detto: «Non digiunare»; ma poi che pur l’hai voluto fare, non pensare a ciò; pensa di riposarti: tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che c’è. — Disse allora la donna: — Non ve ne caglia no; io so ben ciò che io mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io se io potrò. — Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano a’ suoi paternostri, e la donna e messer lo monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in quello quanto durava il tempo della penitenza di frate Puccio con grandissima festa si stavano: e ad una ora il monaco se n’andava e la donna al suo letto tornava, e poco stante dalla penitenza a quello se ne venia frate Puccio. Continuando adunque in cosí fatta maniera il frate la penitenza e la donna col monaco il suo diletto, piú volte motteggiando disse con lui: — Tu fai fare la penitenza a frate Puccio, per la quale noi abbiamo guadagnato il paradiso. — E parendo molto bene stare alla donna, si s’avvezzò a’ cibi del monaco, che, essendo dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenza di frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere. Di che, acciò che l’ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio faccendo penitenza si credette mettere in paradiso, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran necessitá vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le fece.
- [V]
- Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenza di lui parla alla sua donna; ed ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l’effetto segue.
- Aveva Panfilo non senza risa delle donne finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la reina ad Elissa impose che seguisse; la quale anzi acerbetta che no, non per malizia ma per antico costume, cosí cominciò a parlare:
- Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si credono uccellare, dopo il fatto, sé da altrui essere stati uccellati conoscono; per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a tentar le forze dell’altrui ingegno. Ma perché forse ogni uom della mia oppinion non sarebbe, quello che ad un cavalier pistoiese n’addivenisse, l’ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.
- Fu in Pistoia nella famiglia de’ Vergellesi un cavaliere nominato messer Francesco, uomo molto ricco e savio ed avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar podestá di Melano, d’ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito s’era, se non d’un pallafreno solamente che bello fosse per lui: né trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero. Era allora un giovane in Pistoia il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima: ed avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima ed onesta molto. Ora, aveva costui un de’ piú belli pallafren di Toscana, ed avevalo molto caro per la sua bellezza; ed essendo ad ogni uom publico, lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addomandasse, che egli l’avrebbe per l’amore il quale il Zima alla sua donna portava. Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono. Il Zima, udendo ciò, gli piacque, e rispose al cavaliere: — Messer, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno: ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse, con questa condizione, che io, prima che voi il prendiate, possa, con la grazia vostra ed in vostra presenza, parlare alquante parole alla donna vostra tanto da ogni uom separato, che io da altrui che da lei udito non sia. — Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piaceva, e quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera alla donna, e quando detto l’ebbé come agevolmente poteva il pallafren guadagnare, le ’mpose che ad udire il Zima venisse, ma ben si guardasse che a niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo, ed appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il Zima volesse dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala assai lontano da ogni uomo con la donna si pose a sedere e cosí cominciò a dire: — Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, giá è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m’abbia condotto la vostra bellezza, la quale senza alcun fallo trapassa ciascuna altra che veder mi paresse giá mai. Lascio stare de’ costumi laudevoli e delle vertù singulari che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo: e per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole, quello essere stato il maggiore ed il piú fervente che mai uomo ad alcuna donna portasse, e cosí sará mentre la mia misera vita sosterrá questi membri, ed ancor piú, ché, se di lá come di qua s’ama, in perpetuo v’amerò; e per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e cosí in ogni atto farne conto come di me, da quantò che io mi sia: ed il simigliante delle mie cose. Ed acciò che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi, che vi piacesse, mi comandaste, che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m’ubidisse. Adunque, se cosí son vostro come udite, che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde: e sí come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell’anima mia, che nell’amoroso fuoco, sperando in voi, si nutrica, che la vostra benignitá sia tanta, e sí ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata che vostro sono, che io, dalla vostra pietá riconfortato, possa dire che, come per la vostra bellezza innamorato sono, cosí per quella aver la vita; la quale, se a’ miei prieghi l’altiero vostro animo non s’inchina, senza alcun fallo verrá meno, e morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la coscienza, ve ne dorrebbe d’averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: — Deh! quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio! — E questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione; per che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenire mi potete, di ciò v’incresca, ed anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il piú lieto ed il piú dolente uomo che viva dimora. Spero tanta essere la vostra cortesia, che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto. — E quinci tacendo, alquante lagrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse. La donna, la quale il lungo vagheggiare, l’armeggiare, le mattinate e l’altre cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima muovere non avean potuto, mossero l’affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a sentire ciò che prima mai non aveva sentito, cioè che amor si fosse. E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto. Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s’incominciò ad accorgere dell’arte usata dal cavaliere: ma pur, lei riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiar d’occhi di lei verso di lui alcuna volta, ed oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato, prese nuovo consiglio: e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a rispondere a se medesimo in cotal guisa: — Zima mio, senza dubbio gran tempo ha che io m’accorsi, il tuo amor verso me esser grandissimo e perfetto, ed ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne contenta, sí come io debbo. Tuttafiata, se dura e crudele paruta ti sono, non voglio che tu creda che io nell’animo stata sia quel che nel viso mi son dimostrata; anzi t’ho sempre amato ed avuto caro innanzi ad ogni altro uomo, ma cosí m’è convenuto fare e per paura d’altrui e per servare la fama della mia onestá. Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare se io t’amo, e renderti guiderdone dell’amore il quale portato m’hai e mi porti: e perciò confortati e sta’ a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per andare infra pochi di a Melano per podestá, sí come tu sai, che per mio amore donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sará, senza alcun fallo ti prometto sopra la mia fé, e per lo buono amore il quale io ti porto, che infra pochi di tu ti troverai meco, ed al nostro amore daremo piacevole ed intero compimento. Ed acciò che io non t’abbia altra volta a far parlar di questa materia, infino da ora quel giorno il quale tu vedrai due asciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte, guardando ben che veduto non sii, fa’ che per l’uscio del giardino a me te ne venghi: tu mi troverai ivi che t’aspetterò, ed insieme avren tutta la notte festa e piacere l’un dell’altro, sí come disideriamo. — Come il Zima in persona della donna ebbe cosí parlato, ed egli incominciò per sé a parlare, e cosí rispose: — Carissima donna, egli è per soperchia letizia della vostra buona risposta sí ogni mia vertú occupata, che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur potessí come io disidero favellare, niun termine è sí lungo, che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene: e per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io, disiderando, fornir con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto m’avete, cosi penserò di far senza fallo, ed allora forse, piú rassicurato di tanto dono quanto conceduto m’avete, m’ingegnerò a mio poter di rendervi grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al presente altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dèa quella allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, ed a Dio v’accomando. — Per tutto questo non disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il cavaliere cominciò a tornare, il quale veggendolo levato gli si fece incontro, e ridendo disse: — Che ti pare? Hott’io bene la promessa servata? — Messer no, — rispose il Zima — ché voi mi prometteste di farmi parlar con la donna vostra, e voi m’avete fatto parlar con una statua di marmo. — Questa parola piacque molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne la prese migliore; e disse: — Omai è ben mio il pallafren che fu tuo. — A cui il Zima rispose: — Messer si, ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto n’ho, senza domandarlavi ve l’avrei donato; ed or volesse Iddio che io fatto l’avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno ed io non l’ho venduto. — Il cavaliere di questo si rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi di entrò in cammino e verso Melano se n’andò in podesteria. La donna, rimara libera nella sua casa, ripensando alle parole del Zima ed all’amore il quale le portava ed al pallafreno per l’amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso passare, disse seco medesima: — Che fo io? perché perdo io la mia giovanezza? Questi se n’è andato a Melano e non tornerá di questi sei mesi; e quando me gli ristorerá egli giá mai? quando io sarò vecchia? Ed oltre a questo, quando troverò io mai un cosí fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d’alcuna persona paura: io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente: questa cosa non saprá mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e pentere che starsi e pentersi. — E cosí seco medesima consigliata, un dí pose due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; il quali il Zima veggendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se n’andò all’uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto: e quindi n’andò ad uno altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che l’aspettava. La qual veggendol venire, levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette, ed egli abbracciandola e basciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d’amore. Né questa volta, come che la prima fosse, fu però l’ultima: per ciò che mentre il cavaliere fu a Melano, ed ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell’altre volte.
- [VI]
- Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo; la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
- Niente restava piú avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacitá del Zima, la reina impose alla Fiammetta che procedesse con una; la qual tutta ridente rispose: — Madonna, volentieri — e cominciò:
- Alquanto è da uscire della nostra cittá, la quale come d’ogni altra cosa è copiosa, cosí è d’esempli ad ogni materia, e come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per l’altro mondo avvenute son raccontare: e per ciò, a Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi, che cosí d’amore schife si mostrano, fosse dallo ’ngegno d’un suo amante prima a sentir d’amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a voi presterá cautela nelle cose che possono avvenire e daravvi diletto dell’avvenute.
- In Napoli, cittá antichissima e forse cosí dilettevole, o piú, come ne sia alcuna altra in Italia, fu giá un giovane per nobiltá di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo, il quale, nonostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s’innamorò d’una la quale, secondo l’oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l’altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d’un giovane similmente gentile uomo chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, piú che altra cosa amava ed avea caro. Amando adunque Ricciardo Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e l’amor d’una donna si dèe potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidèro pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere. Ed in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un dí assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che invano faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia vivea, che ogni uccel che per l’aere volava credeva gliele togliesse. Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a’ suoi piaceri e cominciò a mostrarsi dell’amor di Catella disperato, e per ciò in un’altra gentil donna averlo posto: e per amor di lei cominciò a mostrar d’armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella soleva fare. Né guari di tempo ciò fece, che quasi a tutti i napoletani, ed a Catella altressí, era nell’animo che non piú Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse: e tanto in questo perseverò, che sí per fermo da tutti si teneva, che, non che altri, ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui avea dell’amor che portarle solea, e dimesticamente, come vicino, andando e venendo il salutava come faceva gli altri. Ora, avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l’usanza de’ napoletani, andassero a diportarsi a’ liti del mare ed a desinarvi ed a cenarvi, e Ricciardo sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v’andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, piú loro di ragionare dava materia. A lungo andare, essendo l’una donna andata in qua e l’altra in lá, come si fa in quei luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d’un certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro cominciò ad arder tutta di disidèro di sapere ciò che Ricciardo volesse dire. E poi che alquanto tenuta si fu, non potendo piú tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna la quale egli piú amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò che detto aveva di Filippello. Il quale le disse: — Voi m’avete scongiurato per persona, che io non v’oso negar cosa che voi mi domandiate, e per ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vedrete esser vero quello che io vi conterò, ché, quando vogliate, v’insegnerò come vedere il potrete. — Alla donna piacque questo che gli addomandava, e piú il credette esser vero, e giurògli di mai non dirlo. Tirati adunque da una parte, ché da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò cosí a dire: — Madonna, se io v’amassí come io giá amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno d’aprirvi il vero d’ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giá mai onta dell’amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi amato fossi: ma come che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa ne mostrò mai; ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a me quello che io dubito che egli non tema che io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia: e per quello che io truovo, egli l’ha da non troppo tempo in qua segretissimamente con piú ambasciate sollecitata, le quali io ho tutte da lei risapute, ed ella ha fatte le risposte secondo che io l’ho imposto. Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era; per che io chiamai la donna mia e la domandai quello che colei domandasse. Ella mi disse: — Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu con fargli risposte e dargli speranza m’hai fatto recare addosso; e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente ad un bagno in questa terra, e di questo mi priega e grava: e se non fosse che tu m’hai fatti, non so perché, tener questi mercati, io me l’avrei per maniera levato di dosso, che egli mai non avrebbe guatato lá dove io fossi stata. — Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che piú non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceva la vostra intera fede per la quale io fui giá presso alla morte. Ed acciò che voi non credeste, queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia a colei che l’aspettava questa risposta, che ella era presta d’esser domane in su la nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si partì da lei. Ora, non credo io che voi crediate che io la vi mandassi: ma se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverebbe me in luogo di colei cui trovarvi si crede, e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con cui stato fosse, e quello onore che a lui se ne convenisse ne gli farei; e questo faccendo, credo si fatta vergogna gli fia, che ad una ora la ’ngiuria che a voi ed a me far vuole vendicata sarebbe. — Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a’ suoi inganni, secondo il costume de’ gelosi, subitamente diede fede alle parole, e certe cose state davanti cominciò ad attare a questo fatto: e di subita ira accesa, rispose che questo fará ella certamente, non era egli sí gran fatica a fare, e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sí fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo. Ricciardo, contento di questo e parendogli che il suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con molte altre parole la vi confermò sú e fece la fede maggiore, pregandola nondimeno che dir non dovesse giá mai d’averlo udito da lui; il che ella sopra la sua fé gliel promise. La mattina seguente Ricciardo se n’andò ad una buona femina che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri, e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove il bagno era, una camera oscura molto, sí come quella nella quale niuna finestra, che lume rendesse, rispondea. Questa, secondo l’ammaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina, e fecevi entro un letto, secondo che poté il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise, e cominciò ad aspettar Catella. La donna, udite le parole di Ricciardo ed a quelle data piú fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d’altro pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato di fare. Il che ella veggendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era, seco medesima dicendo: — Veramente costui ha l’animo a quella donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma fermamente questo non avverrá. — E sopra cotal pensiero, ed imaginando come dirgli dovesse quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò. Ma che piú? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramenti consiglio se n’andò a quel bagno il quale Ricciardo l’aveva insegnato: e quivi trovata la buona femina, la domandò se Filippello stato vi fosse quel dí. A cui la buona femina, ammaestrata da Ricciardo, disse: — Siete voi quella donna che gli dovete venire a parlare? — Catella rispose: — Sì sono. — Adunque, — disse la buona femina — andatevene da lui. — Catella, che cercando andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi. Ricciardo, veggendola venire, lieto si levò in piè, ed in braccio ricevutala disse pianamente: — Ben venga l’anima mia! — Catella, per mostrarsi bene d’essere altra che ella non era, abbracciò e basciò lui, e fecegli la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui conosciuta. La camera era oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta: né per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi piú di potere. Ricciardo la condusse in sul letto, e quivi, senza favellare in guisa che scorgersi potesse la voce, per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell’una parte che dell’altra stettero; ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così, di fervente ira accesa, cominciò a parlare: — Ahi! quanto è misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l’amor di molte ne’ mariti! Io, misera me, giá sono otto anni t’ho piú che la mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nell’amore d’una donna strana, reo e malvagio uom che tu se’! Or con cui ti credi tu essere stato? Tu se’ stato con colei la quale con false lusinghe tu hai, giá è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleal che tu se’: ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e panni mille anni che noi siamo al lume, ché io ti possa svergognare come tu se’ degno, sozzo cane vituperato che tu se’. Oimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A questo can disleale che, credendosi in braccio avere una donna strana, m’ha piú di carezze e d’amorevolezze fatte in questo poco tempo che qui stata son con lui, che in tutto l’altro rimanente che stata son sua. Tu se’ bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare cosí debole e vinto e senza possa! Ma lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l’altrui, hai lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi t’appressasti: tu aspettavi di scaricare le some altrove, e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia: ma lodato sia Iddio ed il mio avvedimento, l’acqua è pur corsa alla ’ngiú come ella doveva! Ché non rispondi, reo uomo? ché non di’ qualche cosa? Se’ tu divenuto mutolo udendomi? In fé di Dio, io non so a che io mi tengo che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti! Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento! Per Dio, tanto sa altri quanto altri; non t’è venuto fatto: io t’ho avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi. — Ricciardo in se medesimo godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l’abbracciava e basciava, e piú che mai le facea le carezze grandi. Per che ella seguendo il suo parlar diceva: — Sí, tu mi credi ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se’, e rappaceficare e racconsolare; tu se’ errato: io non sarò mai di questa cosa consolata infino a tanto che io non te ne vitupero in presenza di quanti parenti ed amici e vicini noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, cosí bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? non sono io cosí gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane? Che ha colei piú di me? Fatti in costá, non mi toccare: ché tu hai troppo fatto d’arme per oggi. Io so bene che oggimai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu ciò che tu facessi faresti a forza: ma se Dio mi dèa la grazia sua, io te ne farò ancora patir voglia, e non so a che io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il quale piú che sé m’ha amata e mai non potè vantarsi che io il guatassi pure una volta: e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto avere la moglie qui, ed è come se avuta l’avessi, in quanto per te non è rimaso: adunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare. — Ora, le parole furono assai ed il ramarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se andare ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello ’nganno nel quale era: e recatalasi in braccio e presala bene, sí che partire non si poteva, disse: — Anima mia dolce, non vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno m’ha insegnato avere: e sono il vostro Ricciardo. — Il che Catella udendo, e conoscendolo alla voce, subitamente si volle gittar del letto, ma non potè; onde ella volle gridare, ma Ricciardo le chiuse con l’una delle mani la bocca, e disse: — Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra: e se voi griderete o in alcuna maniera farete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose n’avverranno. L’una fia, di che non poco vi dèe calere, che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno v’abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e per doni che io v’abbia promessi, li quali per ciò che cosí compiutamente dati non v’ho come speravate, vi siete turbata, e queste parole e questo romor ne fate: e voi sapete che la gente è piú acconcia a credere il male che il bene, e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirá tra vostro marito e me mortai nimistá, e potrebbe si andare la cosa, che io ucciderei altressí tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate ad una ora vituperar voi e mettere in pericolo ed in briga il vostro marito e me. Voi non siete la prima né sarete l’ultima la quale è ingannata, né io non v’ho ingannata per tôrvi il vostro, ma per soperchio amore che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo servidore. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno ed al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sieno piú che mai. Ora, voi siete savia nell’altre cose, e cosí son certo che sarete in questa. — Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte: e come che molto turbata fosse e molto si ramaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella conobbe esser possibile ad avvenire ciò che Ricciardo diceva; e per ciò disse: — Ricciardo, io non so come Domenedio mi si concederá che io possa comportare la ’ngiuria e lo ’nganno che fatto m’hai; non voglio gridar qui, dove la mia simplicitá e soperchia gelosia mi condusse, ma di questo vivi sicuro, che io non sarò mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendicata di ciò che fatto m’hai; e per ciò lasciami, non mi tener piú: tu hai avuto ciò che disiderato hai ed ha mi straziata quanto t’è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io te ne priego. — Ricciardo, che conoscea l’animo suo ancora troppo turbato, s’avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò, e di pari volontá di ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme. E conoscendo allora la donna quanto piú saporiti fossero i basci dell’amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l’amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
- [VII]
- Tedaldo, turbato con una sua donna, si parte di Firenze; tórnavi in forma di pellegrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il marito di lei da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il pacefica; e poi saviamente con la sua donna si gode.
- Giá si taceva Fiammetta, lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente ad Emilia commise il ragionare; la quale incominciò:
- A me piace nella nostra cittá ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come un nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
- Fu adunque in Firenze un nobile giovane il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d’una donna, monna Ermellina chiamata e moglie d’uno Aldobrandino Palermini, innamorato oltre misura per li suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo disidèro; al qual piacere la fortuna, nemica de’ felici, s’oppose, per ciò che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli piú compiacere, né a non volere non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare, ma vedere in alcuna maniera. Di che egli entrò in fiera malinconia e spiacevole, ma si era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione: e poi che egli in diverse maniere si fu molto ingegnato di racquistare l’amore che senza sua colpa gli pareva aver perduto, ed ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo, per non far lieta colei che del suo male era cagione, di vederlo consumare, si dispose. E presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far motto ad amico o a parente fuor che ad un suo compagno il quale ogni cosa sapea, andò via e pervenne ad Ancona, Filippo di San Lodeccio faccendosi chiamare; e quivi con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per servidore ed in su una sua nave con lui insieme n’andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere piacquero sí al mercatante, che non solamente buon salario gli assegnò, ma il fece in parte suo compagno, oltre a ciò gran parte de’ suoi fatti mettendogli tra le mani; li quali esso fece sí bene e con tanta sollecitudine, che esso in pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende, ancora che spesso della sua crudel donna si ricordasse e fieramente fosse da amor trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta costanza, che sette anni vinse quella battaglia. Ma avvenne che, udendo egli un dí in Cipri cantare una canzone giá da lui stata fatta, nella quale l’amore che alla sua donna portava ed ella a lui ed il piacere che di lei aveva si raccontava, avvisando questo non dovere potere essere, che ella dimenticato l’avesse, in tanto disidèro di rivederla s’accese, che piú non potendo sofferir si dispose a tornar a Firenze. E messa ogni sua cosa in ordine, se ne venne con un suo fante solamente ad Ancona, dove essendo ogni sua roba giunta, quella ne mandò a Firenze ad alcuno amico dell’ancontano suo compagno, ed egli celatamente, in forma di pellegrino che dal Sepolcro venisse, col fante suo se ne venne appresso: ed in Firenze giunti, se n’andò ad uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse: ma egli vide le finestre e le porti ed ogni cosa serrata; di che egli dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi. Per che, forte pensoso, verso la casa de’ fratelli se n’andò, davanti alla quale vide quattro suoi fratelli tutti di nero vestiti; di che egli si maravigliò molto, e conoscendosi intanto trasfigurato e d’abito e di persona da quello che esser soleva quando si partì, che di leggeri non potrebbe essere stato riconosciuto, sicuramente s’accostò ad un calzolaio e domandollo perché di nero fossero vestiti coloro. Al quale il calzolaio rispose: — Coloro sono di nero vestiti, per ciò che non sono quindici di che un lor fratello che di gran tempo non c’era stato, che avea nome Tedaldo, fu ucciso; e parmi intendere che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l’uccidesse, per ciò che egli voleva bene alla moglie ed eraci tornato sconosciuto per esser con lei. — Maravigliossi forte Tedaldo che alcuno intanto il somigliasse, che fosse creduto lui, e della sciagura d’Aldobrandin gli dolse; ed avendo sentito che la donna era viva e sana, essendo giá notte, pieno di vari pensieri se ne tornò all’albergo, e poi che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel piú alto della casa fu messo a dormire. Quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la malvagitá del letto e forse per la cena che era stata magra, essendo giá la metá della notte andata, non s’era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che, essendo desto, gli parve in su la mezzanotte sentire d’in sul tetto della casa scender nella casa persone, ed appresso per le fessure dell’uscio della camera vide lá su venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener questo lume e verso lei venir tre uomini, che del tetto quivi eran discesi, e dopo alcuna festa insieme fattasi, disse l’uno di loro alla giovane: — Noi possiamo, lodato sia Iddio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la morte di Tedaldo Elisei è stata provata da’ fratelli addosso ad Aldobrandin Palermini, ed egli l’ha confessata e giá è scritta la sentenza: ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino. — E questo detto, con la donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne scesono ed andársi a dormire. Tedaldo, udito questo, cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a’ fratelli, che uno strano avevan pianto e sepellito in luogo di lui, ed appresso l’innocente per falsa suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, ed oltre a ciò la cieca severitá delle leggi e de’ rettori, li quali assai volte, quasi solleciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il falso provare, e sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono dell’iniquitá e del diavolo esecutori. Appresso questo, alla salute d’Aldobrandino il pensier volse, e seco ciò che a fare avesse compose. E come levato fu la mattina, lasciato il suo fante, quando tempo gli parve, solo se n’andò verso la casa della sua donna, e per ventura trovata la porta aperta, entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra in una saletta terrena che ivi era: ed era tutta piena di lagrime e d’amaritudine, e quasi per compassione ne lagrimò; ed avvicinatolesi disse: — Madonna, non vi tribolate: la vostra pace è vicina. — La donna, udendo costui, levò alto il viso e piagnendo disse: — Buono uomo, tu mi pari un pellegrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione? — Rispose allora il pellegrino.: — Madonna, io son di Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertir le vostre lagrime in riso ed a liberare da morte il vostro marito. — Come, — disse la donna — se tu di Costantinopoli se’ e giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io ci siamo? — Il pellegrino, di capo fattosi, tutta l’istoria dell’angoscia d’Aldobrandino raccontò ed a lei disse chi ella era, quanto tempo stata maritata ed altre cose assai le quali egli molto ben sapeva de’ fatti suoi; di che la donna si maravigliò forte, ed avendolo per un profeta gli s’inginocchiò a’ piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d’Aldobrandino era venuto, che egli s’avacciasse, per ciò che il tempo era brieve. Il pellegrino, mostrandosi molto santo uomo, disse: — Madonna, levate su e non piagnete, ed attendete bene a quello che io vi dirò, e guarderetevi bene di mai ad alcun non ridirlo. Per quello che Iddio mi riveli, la tabulazione la qual voi avete v’è per un peccato il quale voi commetteste giá, avvenuta, il quale Domenedio ha voluto in parte purgare con questa noia, e vuol del tutto che per voi s’ammendi: se non, sí ricadereste in troppo maggiore affanno. — Disse allora la donna: — Messere, io ho peccati assai, né so qual Domenedio piú un che uno altro si voglia che io m’ammendi: e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, ed io ne farò ciò che io potrò per ammendarlo. — Madonna, — disse allora il pellegrino — io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio, ma per ciò che voi medesima dicendolo n’abbiate piú rimordimento. Ma vegliamo al fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi mai aveste alcuno amante? — La donna, udendo questo, gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo, che mai alcuna persona saputo l’avesse, quantunque di que’ di che ucciso era stato colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea; e rispose: — Io veggio che Iddio vi dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non celarvi i miei. Egli è il vero che nella mia giovanezza io amai sommamente lo sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito; la qual morte io ho tanto pianta quanto dolente a me, per ciò che, quantunque io rigida e salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua partita né la sua lunga dimora né ancora la sventurata morte mai me l’hanno potuto trarre del cuore. — A cui il pellegrin disse: — Lo sventurato giovane che fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sí. Ma ditemi: qual fu la cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giá mai? — A cui la donna rispose: — Certo no, che egli non m’offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d’un maladetto frate dal quale io una volta mi confessai: per ciò che, quando io gli dissi l’amore il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi fece un romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne rimanessi, io n’andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei messa nel fuoco pennace. Di che sí fatta paura m’entrò, che io del tutto mi disposi a non voler piú la dimestichezza di lui; e per non averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata piú volli ricevere: come che io creda, se piú fosse perseverato, come, per quello che io presuma, egli se n’andò disperato, veggendolo io consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato, per ciò che niun disidèro al mondo maggiore avea. — Disse allora il pellegrino: — Madonna, questo è sol quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza alcuna: quando voi di lui v’innamoraste, di vostra propria volontá il faceste, piacendovi egli, e come voi medesima voleste, a voi venne ed usò la vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta di piacevolezza gli mostraste, che, se egli prima v’amava, in ben mille doppi faceste l’amor raddoppiare. E se cosí fu, che so che fu, qual cagion vi dovea poter muovere a tôrglivi cosí rigidamente? Queste cose si volevan pensare innanzi tratto, e se credevate dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Cosí come egli divenne vostro, cosí diveniste voi sua. Che egli non fosse vostro, potevate voi fare ad ogni vostro piacere, sí come del vostro: ma il voler torre voi a lui che sua eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua volontá stata non fosse. Or voi dovete sapere che io son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo alquanto largo ad utilitá di voi, non mi si disdice come farebbe ad uno altro: ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio gli conosciate che per addietro non pare che abbiate fatto. Furon giá i frati santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano, e cosí vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né quella altressí è di frate, perciò che, dove dagl’inventori de’ frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni e dimostratrici dell’animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in cosí vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadra e pontificale, intanto che paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le lor robe i secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio il pescatore d’occupar ne’ fiumi molti pesci ad un tratto, cosí costoro, con le fimbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femine ed uomini d’avvilupparvi sotto s’ingegnano, ed è loro maggior sollecitudine che d’altro esercizio. E per ciò, acciò che io piú vero parli, non le cappe de’ frati hanno costoro, ma solamente i colori delle cappe. E dove gli antichi la salute disideravan degli uomini, quegli d’oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro studio hanno posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti degli sciocchi ed in mostrare che con limosine i peccati si purghino e con le messe, acciò che a loro che per viltá, non per divozione, son rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l’anima de’ lor passati. E certo egli è il vero che le limosine e l’orazioni purgano i peccati: ma se coloro che le fanno vedessero a cui le fanno o il conoscessero, piú tosto o a sé il guarderieno o dinanzi ad altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che essi conoscono che, quanti meno sono i possessori d’una gran ricchezza, tanto piú stanno ad agio, ognuno con romori e con ispaventamenti s’ingegna di rimuovere altrui da quello a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l’usura ed i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori di quegli, si possan fare le cappe piú larghe, procacciare i vescovadi e l’altre prelature maggiori di ciò che mostrato hanno dovere menare a perdizion chi l’avesse. E quando di queste cose, e di molte altre che sconce fanno, ripresi sono, l’avere risposto: «Fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo» estimano che sia degno scaricamento d’ogni grave peso, quasi piú alle pecore sia possibile l’esser costanti e di ferro che a’ pastori. E quanti sien quegli a’ quali essi fanno cotal risposta, che non la ’ntendono per lo modo che essi la dicono, gran parte di loro il sanno. Vogliono gli odierni frati che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castitá, siate pazienti, perdoniate le ’ngiurie, guardiatevi del mal dire: cose tutte buone, tutte oneste, tutte sante; ma queste perché? Perché essi possan far quello che, se i secolari faranno, essi far non potranno. Chi non sa che senza denari la poltroneria non può durare? Se tu ne’ tuoi diletti spenderai i denari, il frate non potrá poltroneggiar nell’ordine; se tu andrai alle femine da torno, i frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o perdonator d’ingiurie, il frate non ardirá di venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo io dietro ad ogni cosa? Essi s’accusano quante volte nel cospetto degl’intendenti fanno quella scusa. Perché non si stanno eglino innanzi a casa, se astinenti e santi non si credon potere essere? o se pure a questo dar si vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola dell’Evangelio: «Incominciò Cristo a fare e ad insegnare»? Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri. Io n’ho de’ miei di mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori non solamente delle donne secolari ma de’ monisteri, e pur di quegli che maggior romor fanno in sui pergami. A quegli adunque cosí fatti andrem dietro? Chi il fa, fa quel che vuole: ma Iddio sa se egli fa saviamente. Ma posto pur che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò, disse, cioè che gravissima colpa sia rompere la matrimoniai fede, non è molto maggiore il rubare uno uomo? non è molto maggiore l’ucciderlo o il mandarlo in esilio tapinando per lo mondo? Questo concederá ciascuno. L’usare la dimestichezza d’uno uomo una donna è peccato naturale; il rubarlo o l’ucciderlo o il discacciarlo da malvagitá di mente procede. Che voi rubaste Tedaldo, giá di sopra v’ho dimostrato, togliendogli voi che sua di vostra spontanea volontá eravate divenuta. Appresso, dico che, in quanto in voi fu, voi l’uccideste, per ciò che per voi non rimase, mostrandovi ognora piú crudele, che egli non s’uccidesse con le sue mani: e la legge vuol che colui che è cagione del mal che si fa, sia in quella medesima colpa che colui che il fa. E che voi del suo esilio e dell’essere andato tapin per lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si può negare. Sí che molto maggior peccato avete commesso in qualunque s’è l’una di queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettevate. Ma veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece: voi medesima giá confessato l’avete; senza che, io so che egli piú che sé v’ama. Niuna cosa fu mai tanto onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogni altra donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertá tutta nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? non era egli tra gli altri suoi cittadin bello? non era egli valoroso in quelle cose che a’ giovani s’appartengono? non amato, non avuto caro, non volentier veduto da ogni uomo? Né di questo direte di no. Adunque, come, per detto d’un fraticello pazzo, bestiale ed invidioso, poteste voi alcuno proponimento crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s’è quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco, dove esse, pensando a quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltá da Dio oltre ad ogni altro animale data all’uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollecitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giá mai. Il che come voi faceste, mossa dalle parole d’un frate, il qual per certo doveva essere alcun brodaiuolo manicator di torte, voi il vi sapete: e forse che disiderava egli di porre sé in quel luogo onde egli s’ingegnava di cacciare altrui. Questo peccato adunque è quello che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue operazion mena ad effetto, non ha voluto lasciare impunito: e cosí come voi senza ragion v’ingegnaste di tôrre voi medesima a Tedaldo, cosí il vostro marito senza ragione per Tedaldo è stato ed è ancora in pericolo, e voi in tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi convien promettere, e molto maggiormente fare, è questo, che, se mai avviene che Tedaldo del suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la vostra benivolenza e dimestichezza gli rendiate, ed in quello stato il ripognate nel quale era avanti che voi scioccamente credeste al matto frate. — Aveva il pellegrino le sue parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva per ciò che verissime le parevan le sue ragioni, e sé per certo per quel peccato, a lui udendol dire, estimava tribolata, disse: — Amico di Dio, assai conosco vere le cose le quali ragionate, ed in gran parte per la vostra dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino ad ora da me tutti santi tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò che contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri rammenderei nella maniera che detta avete: ma questo come si può fare? Tedaldo non ci potrá mai tornare: egli è morto, e per ciò quello che non si dèe poter fare non so perché bisogni che io il vi prometta. — A cui il pellegrin disse: — Madonna, Tedaldo non è punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano ed in buono stato, se egli la vostra grazia avesse. — Disse allora la donna: — Guardate che voi diciate; io il vidi morto davanti alla mia porta di piú punte di coltello, ed ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le quali forse furon cagione di farne parlare quello cotanto che parlato se n’è disonestamente. — Allora disse il pellegrino: — Madonna, che che voi vi diciate, io v’accerto che Tedaldo è vivo; e dove voi quello prometter vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto. — La donna allora disse: — Questo fo io e farò volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che sarebbe il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo. — Parve allora a Tedaldo tempo di palesarsi e di confortar la donna con piú certa speranza del suo marito, e disse: — Madonna, acciò che io vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate. — Essi erano in parte assai rimota e soli, somma confidenza avendo la donna presa della santitá che nel pellegrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l’ultima notte che con lei era stato, e mostrandogliele, disse: — Madonna, conoscete voi questo? — Come la donna il vide, cosí il riconobbe, e disse: — Messer si, io il donai giá a Tedaldo. — Il pellegrino allora, levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo il cappello, e fiorentin parlando, disse: — E me conoscete voi? — Quando la donna il vide, conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordí, cosí di lui temendo come de’ morti corpi, se poi veduti andar come vivi, si teme: e non come a Tedaldo venuto di Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi tornato fuggir si volle temendo. A cui Tedaldo disse: — Madonna, non dubitate, io sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né morii né fui morto, che che voi ed i miei fratelli si credano. — La donna, rassicurata alquanto, e sentendo la sua voce ed alquanto piú riguardatolo e seco affermando che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo e basciollo, dicendo: — Tedaldo mio dolce, tu sii il ben tornato! — Tedaldo, basciata ed abbracciata lei, disse: — Madonna, egli non è or tempo da fare piú strette accoglienze; io voglio andare a fare che Aldobrandino vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia sera voi udirete novelle che vi piaceranno: sí veramente, se io l’ho buone, come io credo, della sua salute, che io voglio stanotte poter venire da voi e contarlevi per piú agio che al presente non posso. — E rimessasi la schiavina ed il cappello, basciata un’altra volta la donna e con buona speranza riconfortatala, da lei si partí e colá se n’andò dove Aldobrandino in prigione era, piú di paura della soprastante morte pensoso che di speranza di futura salute; e quasi in guisa di confortatore, col piacere de’ prigionieri, a lui se n’entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse: — Aldobrandino, io sono un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua innocenza è di te venuta pietá: e per ciò, se a reverenza di lui un piccol dono che io ti domanderò conceder mi vuogli, senza alcun fallo avanti che doman sia sera, dove tu la sentenza della morte attendi, quella della tua assoluzione udirai. — A cui Aldobrandin rispose: — Valente uomo, poi che tu della mia salute se’ sollecito, come che io non ti conosca né mi ricordi di mai piú averti veduto, amico dèi essere come tu di’. E nel vero il peccato per lo quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giá mai; assai degli altri ho giá fatti, li quali forse a questo condotto m’hanno. Ma cosí ti dico a reverenza di Dio, che, se egli ha al presente misericordia di me, ogni gran cosa, non che una piccola, farei volentieri, non che io promettessi; e però quello che ti piace addomanda, ché senza fallo, ove egli avvenga che io scampi, io lo serverò fermamente. — IL pellegrino allora disse: — Quello che io voglio niuna altra cosa è se non che tu perdoni a’ quattro fratelli di Tedaldo l’averti a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello esser colpevole, ed ábbigli per fratelli e per amici dove essi di questo ti domandin perdono. — A cui Aldobrandin rispose: — Non sa quanto dolce cosa si sia la vendetta né con quanto ardor si disideri se non chi riceve l’offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia salute intenda, volentieri loro perdonerò ed ora loro perdono: e se io quinci esco vivo e scampo, in ciò fare quella maniera terrò che a grado ti fia. — Questo piacque al pellegrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore stesse, ché per certo che avanti che il seguente giorno finisse egli udirebbe novella certissima della sua salute. E da lui partitosi, se n’andò alla signoria, ed in segreto ad un cavaliere che quella tenea, disse cosi: — Signor mio, ciascun dèe volentier faticarsi in fare che la veritá delle cose si conosca, e massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non portino le pene che non hanno il peccato commesso, ed i peccatori sien puniti. La qual cosa acciò che avvenga in onor di voi ed in male di chi meritato l’ha, io sono qui venuto a voi. Come voi sapete, voi avete rigidamente contra Aldobrandin Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero, lui essere stato quello che Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che è certissimamente falso, sí come io credo avanti che mezzanotte sia, dandovi gli ucciditor di quel giovane nelle mani, avervi mostrato. — Il valoroso uomo, al quale d’Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del pellegrino; e molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in sul primo sonno i due fratelli albergatori ed il lor fante a man salva prese: e loro volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, noi soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono, sé essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo. Domandati della cagione, dissero, per ciò che egli alla moglie dell’un di loro, non essendovi essi nell’albergo, aveva molta noia data e volutala sforzare a fare il voler suo. Il pellegrino, questo avendo saputo, con licenza del gentile uomo si partí, ed occultamente alla casa di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogni altro della casa andato a dormire, trovò che l’aspettava, parimente disiderosa d’udire buone novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo: alla qual venuto, con lieto viso disse: — Carissima donna mia, rallégrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo Aldobrandino. — E per darle di ciò piú intera credenza, ciò che fatto aveva pienamente le raccontò. La donna, di due cosí fatti accidenti e cosí subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il quale tra pochi dí si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne fosse mai, affettuosamente abbracciò e basciò il suo Tedaldo; ed andatisene insieme a letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l’un dell’altro prendendo dilettosa gioia. E come il giorno s’appressò, Tedaldo levatosi, avendo giá alla donna mostrato ciò che fare intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito pellegrino s’uscí della casa della donna per dovere, quando ora fosse, attendere a’ fatti d’Aldobrandino. La signoria, venuto il giorno e parendole piena informazione avere dell’opera, prestamente Aldobrandino liberò, e pochi di appresso a’ mafattori dove commesso avevano l’omicidio fece tagliar la testa. Essendo adunque libero Aldobrandino, con gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e conoscendo manifestamente ciò essere per opera del pellegrino avvenuto, lui alla loro casa condussero per tanto quanto nella cittá gli piacesse di stare: e quivi di fargli onore e festa non si potevano veder sazi, e spezialmente la donna, che sapeva a cui farlosi. Ma parendogli, dopo alcun dí, tempo di dovere i fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non solamente per lo suo scampo scornati, ma armati per tema, domandò ad Aldobrandino la promessa. Aldobrandino liberamente rispose, sé essere apparecchiato. A cui il pellegrino fece per lo seguente di apprestare un bel convito, nel quale gli disse che voleva che egli co’ suoi parenti e con le sue donne ricevesse i quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso medesimo andrebbe incontanente ad invitargli alla sua pace ed al suo convito da sua parte. Ed essendo Aldobrandino di quanto al pellegrino piaceva contento, il pellegrino tantosto n’andò a’ quattro fratelli, e con loro assai delle parole che intorno a tal materia si richiedeano usate, alla fine con ragioni irrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono, l’amistá d’Aldobrandino racquistare: e questo fatto, loro e le lor donne a dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl’invitò, ed essi liberamente, della sua fé sicurati, tennero lo ’nvito. La mattina adunque seguente, in su l’ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di Tedaldo, cosí vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l’armi in terra, nelle mani d’Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di ciò che contro a lui avevano adoperato. Aldobrandino lagrimando pietosamente gli ricevette, e tutti basciandogli in bocca, con poche parole spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise. Appresso costoro le sirocchie e le mogli loro tutte di bruno vestite vennero, e da madonna Ermellina e dall’altre donne graziosamente ricevute furono. Ed essendo stati magnificamente serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnitá stata per lo fresco dolore rappresentato ne’ vestimenti oscuri de’ parenti di Tedaldo, per la qual cosa da alquanti il diviso e lo ’nvito del pellegrino era stato biasimato, ed egli se n’era accorto: ma come seco disposto avea, venuto il tempo da tôrla via, si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse: — Niuna cosa è mancata a questo convito, a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che avendolo avuto continuamente con voi non l’avete conosciuto, io il vi voglio mostrare. — E di dosso gittatosi la schiavina ed ogni abito pellegrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non senza grandissima maraviglia da tutti guatato e riconosciuto fu lungamente, avanti che alcun s’arrischiasse a creder che el fosse desso. Il che Tedaldo veggendo, assai de’ lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de’ suoi accidenti raccontò; per che i fratelli e gli altri uomini, tutti di lagrime d’allegrezza pieni, ad abbracciare il corsero, ed il simigliante appresso fecer le donne, cosí le non parenti come le parenti, fuor che monna Ermellina. Il che Aldobrandin veggendo, disse: — Che è questo, Ermellina? Come non fai tu come l’altre donne festa a Tedaldo? — A cui, udendo tutti, la donna rispose: — Niuna ce n’è che piú volentieri gli abbia fatta festa o faccia che farei io, sí come colei che piú gli è tenuta che alcuna altra, considerato che per le sue opere io t’abbia riavuto; ma le disoneste parole dette ne’ di che noi piagnemmo colui che noi credevam Tedaldo, me ne fanno stare. — A cui Aldobrandin disse: — Va’ via, credi tu che io creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene dimostrato ha, quello essere stato falso: senza che, io mai nol credetti; tosto leva su, va’ abbraccialo. — La donna, che altro non disiderava, non fu lenta in questo ad ubidire il marito; per che levatasi, come l’altre avevan fatto, cosí ella abbracciandolo gli fece lieta festa. Questa liberalitá d’Aldobrandino piacque molto a’ fratelli di Tedaldo ed a ciascuno uomo e donna che quivi era, ed ogni rugginuzza, che fosse nata nelle menti d’alcuni dalle parole state, per questo si tolse via. Fatta adunque da ciascun festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri indosso a’ fratelli ed i bruni alle sirocchie ed alle cognate, e volle che quivi altri vestimenti si facessero venire, li quali poi che rivestiti furono, canti e balli con altri sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che tacito principio avuto avea, ebbe sonoro fine. E con grandissima allegrezza, cosí come eran tutti, a casa di Tedaldo n’andarono, e quivi la sera cenarono, e piú giorni appresso, questa maniera tenendo, la festa continuarono. Li fiorentini piú giorni quasí come uno uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo: ed a molti, ed a’ fratelli ancora, n’era un cotal dubbio debole nell’animo se fosse desso o no, e noi credevano ancor fermamente né forse avrebber fatto a pezza, se un caso avvenuto non fosse che lor fe’ chiaro chi fosse stato l’ucciso; il qual fu questo. Passavano un giorno fanti di Lunigiana davanti a casa loro, e veggendo Tedaldo gli si fecero incontro dicendo: — Ben possa star Faziuolo! — A’ quali Tedaldo in presenza de’ fratelli rispose: — Voi m’avete colto in iscambio. — Costoro, udendol parlare, si vergognarono e chiesongli perdono, dicendo: — In veritá che voi risomigliate, piú che uomo che noi vedessimo mai risomigliare uno altro, un nostro compagno il qual si chiama Faziuolo da Pontriemoli, che venne, forse quindici di o poco piú fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse. Bene è vero che noi ci maravigliavamo dell’abito, per ciò che esso era, sí come noi siamo, masnadiere. — Il maggior fratel di Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato vestito quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto cosí essere stato come costoro dicevano; di che, tra per questo e per gli altri segni, riconosciuto fu, colui che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non Tedaldo, laonde il sospetto di lui uscí a’ fratelli ed a ciascuno altro. Tedaldo adunque, tornato ricchissimo, perseverò nel suo amare, e senza piú turbarsi la donna, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
- [VIII]
- Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto, e dall’abate che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuol dell’abate nella moglie di lui generato.
- Venuta era la fine della lunga novella d’Emilia, non per ciò dispiaciuta ad alcuno per la sua lunghezza, ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo rispetto alla quantitá ed alla varietá de’ casi in essa raccontati; per che la reina, alla Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le die’ cagione di cosí cominciare:
- Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una veritá che ha troppo piú, che di quello che ella fu, di menzogna sembianza; e quella nella mente m’ha ritornata l’avere udito un per uno altro essere stato pianto e sepellito. Dirò adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come poi per risuscitato e non per vivo egli stesso e molti altri lui credessero essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come colpevole ne dovea piú tosto essere condannato.
- Fu adunque in Toscana una badia, ed ancora è, posta, sí come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco il quale in ogni cosa era santissimo fuori che nell’opera delle femine: e questo sapeva sí cautamente fare, che quasi niuno, non che il sapesse, ma ne suspicava; per che santissimo e
- giusto era tenuto in ogni cosa. Ora, avvenne che, essendosi molto con l’abate dimesticato un ricchissimo villano il quale avea nome Ferondo, uomo materiale e grosso senza modo; né per altro la sua dimestichezza piaceva all’abate, se non per alcune ricreazioni le quali talvolta pigliava delle sue simplicitá; in questa dimestichezza s’accorse l’abate, Ferondo avere una bellissima donna per moglie, della quale esso sí ferventemente s’innamorò, che ad altro non pensava né dí né notte: ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a tanto Ferondo, che egli insieme con la sua donna a prendere alcun diporto nel giardino della badia venivano alcuna volta: e quivi con loro della beatitudine di vita eterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidèro di confessarsi da lui, e chiesene la licenza da Ferondo ed ebbela. Venuta adunque a confessarsi la donna all’abate con grandissimo piacere di lui ed a’ piè postaglisi a sedere, anzi che a dire altro venisse, incominciò: — Messere, se Iddio m’avesse dato marito o non me l’avesse dato, forse mi sarebbe agevole co’ vostri ammaestramenti d’entrare nel cammino che ragionato n’avete, che mena altrui a vita eterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stoltizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito aver non posso: ed egli, cosí matto come egli è, senza alcuna cagione è sí fuori d’ogni misura geloso di me, che io per questo altro che in tribulazione ed in mala ventura con lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io ad altra confession venga, quanto piú posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la cagione del mio bene potere adoperare, il confessarmi o altro ben fare poco mi gioverá. — Questo ragionamento con gran piacere toccò l’animo dell’abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al suo maggior disidèro aperta la via; e disse: — Figliuola mia, io credo che gran noia sia ad una bella e dilicata donna come voi siete aver per marito un mentecatto, ma molto maggior la credo essere l’avere un geloso; per che, avendo voi e l’uno e l’altro, agevolmente ciò che della vostra tribulazion dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né consiglio né rimedio veggio fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si guerisca. La medicina da guerirlo so io troppo ben fare, pur che a voi dèa il cuore di segreto tenere ciò che io vi ragionerò. — La donna disse: — Padre mio, di ciò non dubitate, per ciò che io mi lascerei innanzi morire che io cosa dicessi ad altrui che voi mi diceste che non dicessi: ma come si potrá far questo? — Rispose l’abate: — Se noi vogliamo che egli guerisca, di necessitá convien che egli vada in purgatoro. — E come — disse la donna — vi potrá egli andar vivendo? — Disse l’abate: — Egli convien che muoia, e cosí v’andrá; e quando tanta pena avrá sofferta, che egli di questa sua gelosia sará gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che in questa vita il ritorni, ed egli il fará. — Adunque, — disse la donna — debbo io rimaner vedova? — Sí, — rispose l’abate — per un certo tempo, nel quale vi converrá molto ben guardare che voi ad alcun non vi lasciaste rimaritare, per ciò che Iddio l’avrebbe per male, e tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe piú geloso che mai. — La donna disse: — Pur che egli di questa mala ventura guerisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io son contenta; fate come vi piace. — Disse allora l’abate: — Ed io il farò: ma che guiderdone debbo io aver da voi di cosí fatto servigio? — Padre mio, — disse la donna — ciò che vi piace, pur che io possa: ma che puote una mia pari, che ad un cosí fatto uomo come voi siete sia convenevole? — A cui l’abate disse: — Madonna, voi potete non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi, per ciò che, sí come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion dée essere, cosí voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia. — Disse allora la donna: — Se cosí è, io sono apparecchiata. — Adunque, — disse l’abate — mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la quale io ardo tutto e mi consumo. — La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose: — Oimè! padre mio, che è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo: or conviensi egli a’ santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di cosí fatte cose? — A cui l’abate disse: — Anima mia bella, non vi maravigliate, ché per questo la santitá non diventa minore, per ciò che ella dimora nell’anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma che che si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che Amore mi costrigne a cosí fare; e dicovi che voi della vostra bellezza piú che altra donna gloriarvi potete, pensando che ella piaccia a’ santi, che sono usi di vedere quelle del cielo: ed oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli altri, e come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E non vi dée questo esser grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo stará in purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella consolazione che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona alcuna s’accorgerá, credendo ciascun di me quello, e piú, che voi poco avanti ne credevate. Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle che quel disiderano che voi potete avere ed avrete, se savia crederete al mio consiglio. Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che d’altra persona sieno che vostri. Fate adunque, dolce speranza mia, per me quello che io fo per voi volentieri. — La donna teneva il viso basso, né sapeva come negarlo, ed il concedergliele non le pareva far bene; per che l’abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendogliele avere giá mezza convertita, con molte altre parole alle prime continuandosi, avanti che egli ristesse, l’ebbe nel capo messo che questo fosse ben fatto; per che essa vergognosamente disse, sé essere apparecchiata ad ogni suo comando, ma prima non poter che Ferondo andato fosse in purgatoro. A cui l’abate contentissimo disse: — E noi faremo che egli v’andrá incontanente; farete pure che domane o l’altro dí egli qua con meco se ne venga a dimorare. — E detto questo, postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna, lieta del dono ed attendendo d’aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare della santitá dell’abate e con loro a casa se ne tornò. Ivi a pochi dí Ferondo se n’andò alla badia, il quale come l’abate vide, cosí s’avvisò di mandarlo in purgatoro: e ritrovata una polvere di maravigliosa vertú la quale nelle parti di Levante avuta avea da un gran prencipe, il quale affermava, quella solersi usare per lo Veglio della montagna quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o trarnelo, e che ella, piú e men data, senza alcuna lesione faceva per sí fatta maniera piú e men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua vertú durava, non avrebbe mai detto alcuno, colui in sé aver vita; e di questa tanta presane, che a far dormir tre giorni sufficiente fosse, ed in un bicchier di vino non ben chiaro ancora, nella sua cella, senza avvedersene Ferondo, gliele die’ bere, e lui appresso menò nel chiostro e con piú altri de’ suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il quale non durò guari, che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s’addormentò, ed addormentato cadde. L’abate, mostrando di turbarsi dell’accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna fumositá di stomaco o d’altro che occupato l’avesse gli volesse la smarrita vita ed il sentimento rivocare; veggendo l’abate ed i monaci che per tutto questo egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli, tutti per costante ebbero che fosse morto; per che, mandatolo a dire alla moglie ed a’ parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, ed avendolo la moglie con le sue parenti alquanto pianto, cosí vestito come era il fece l’abate mettere in uno avello. La donna si tornò a casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva partirsi giá mai; e cosí rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza che stata era di Ferondo cominciò a governare. L’abate con un monaco bolognese di cui egli molto si confidava e che quel dí quivi da Bologna era venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e lui in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de’ monaci che fallissero era stata fatta, nel portarono, e trattigli i suoi vestimenti, a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero, e lasciaronlo stare tanto che egli si risentisse. In questo mezzo il monaco bolognese, dall’abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si risentisse. L’abate il dí seguente con alcun de’ suoi monaci per modo di visitazione se n’andò a casa della donna, la quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo ’mpaccio di Ferondo o d’altrui, avendogli veduto in dito uno altro bello anello, disse che era apparecchiata, e con lui compose che la seguente notte v’andasse. Per che, venuta la notte, l’abate, travestito de’ panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, v’andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si giacque, e poi si ritornò alla badia, quel cammino per cosí fatto servigio faccendo assai sovente: e da alcuni e nell’andare e nel tornare alcuna volta essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per quella contrada penitenza faccendo, e poi molte novelle tra la gente grossa della villa contatone; ed alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, piú volte fu detto. Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza sapere dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran battitura. Ferondo, piagnendo e gridando, non faceva altro che domandare: — Dove sono io? — A cui il monaco rispose: — Tu se’ in purgatoro. — Come? — disse Ferondo — Adunque sono io morto? — Disse il monaco: — Mai sí. — Per che Ferondo se stesso e la sua donna ed il suo figliuolo cominciò a piagnere, le piú nuove cose del mondo dicendo. Al quale il monaco portò alquanto da mangiare e da bere; il che veggendo Ferondo, disse: — O mangiano i morti? — Disse il monaco: — Sí, e questo che io ti reco è ciò che la donna che fu tua mandò stamane alla chiesa a far dir messe per l’anima tua, il che Domenedio vuole che qui rappresentato ti sia. — Disse allora Ferondo: — Domine, dálle il buono anno! Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io la mi teneva tutta notte in braccio e non faceva altro che basciarla, ed anche faceva altro quando voglia me ne veniva. — E poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare ed a bere, e non parendogli il vino troppo buono, disse: — Domine, falla trista! ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro. — Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran battitura. A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse: — Deh! questo perché mi fai tu? — Disse il monaco: — Per ciò che cosí ha comandato Domenedio che ogni dí due volte ti sia fatto. — E per che cagione? — disse Ferondo. Disse il monaco: — Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie. — Oimè! — disse Ferondo — tu di’ vero: e la piú dolce; ella era piú melata che il confetto: ma io non sapeva che Domenedio avesse per male che l’uomo fosse geloso, ché io non sarei stato. — Disse il monaco: — Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di lá, ed ammendartene; e se egli avvien che tu mai vi torni, fa’ che tu abbi sí a mente quello che io ti fo ora, che tu non sii mai piú geloso. — Disse Ferondo: — O ritórnavi mai chi muore? — Disse il monaco: — Sí, chi Dio vuole. — Oh! — disse Ferondo — se io vi torno mai, io sarò il migliore marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane: ed anche non ci ha mandato candela niuna, ed èmmi convenuto mangiare al buio. — Disse il monaco: — Sí fece bene, ma elle arsero alle messe. — Oh! — disse Ferondo — tu dirai vero; e per certo, se io vi torno, io le lascerò fare ciò che ella vorrá. Ma dimmi: chi se’ tu che questo mi fai? — Disse il monaco: — Io sono anche morto, e fui di Sardigna; e perché io lodai giá molto ad un mio signore l’esser geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture infino a tanto che Iddio dilibererá altro di te e di me. — Disse Ferondo: — Non c’è egli piú persona che noi due? — Disse il monaco: — Sí, a migliaia, ma tu non gli puoi né vedere né udire se non come essi te. — Disse allora Ferondo: — O quanto siam noi di lungi dalle nostre contrade? — Hoio!— disse il monaco — se’ vi di lungi delle miglia piú di ben-la-cacheremo. — Gnaffe, cotesto è bene assai! — disse Ferondo — e per quello che mi paia, noi dovremmo esser fuor del mondo, tanto ci ha. — Ora, in cosí fatti ragionamenti ed in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da diece mesi, infra li quali assai sovente l’abate bene avventurosamente visitò la bella donna e con lei si diede il piú bel tempo del mondo. Ma come avvengono le sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse all’abate; per che ad ammenduni parve che senza alcuno indugio Ferondo fosse da dovere essere di purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, ed ella di lui dicesse che gravida fosse. L’abate adunque la seguente notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione e dirgli: — Ferondo, confòrtati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia. — Ferondo, udendo questo, fu forte lieto, e disse: — Ben mi piace: Iddio gli déa il buono anno a messer Domenedio ed all’abate ed a san Benedetto ed alla moglie mia casciata melata dolciata. — L’abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta, che forse quattro ore il facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il tornarono nell’avello nel quale era stato sepellito. La mattina in sul far del giorno Ferondo si risentí e vide per alcun pertugio dell’avello lume, il quale egli veduto non avea ben diece mesi; per che, parendogli esser vivo, cominciò a gridare: — Apritemi apritemi! — ed egli stesso a pontar col capo nel coperchio dell’avello sí forte, che, ismossolo, per ciò che poca ismovitura a fare aveva, lo ’ncominciava a mandar via: quando i monaci, che detto avean matutino, corson colá e conobbero la voce di Ferondo e viderlo giá del monimento uscir fuori; di che spaventati tutti per la novitá del fatto, cominciarono a fuggire ed all’abate n’andarono. Il quale, sembianti faccendo di levarsi d’orazione, disse: — Figliuoli, non abbiate paura; prendete la croce e l’acqua santa ed appresso di me venite, e veggiam ciò che la potenza di Dio ne vuol mostrare — e cosí fece. Era Ferondo, tutto pallido come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuori dell’avello uscito; il quale, come vide l’abate, cosí gli corse a’ piedi, e disse: — Padre mio, le vostre orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia donna m’hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita; di che io priego Iddio che vi déa il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia. — L’abate disse: — Lodata sia la potenza di Dio. Va’ dunque, figliuolo, poscia che Iddio t’ha qui rimandato, e consola la tua donna, la quale sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidor di Dio. — Disse Ferondo: — Messere, egli m’è ben detto cosí; lasciate far pur me, ché, come io la troverò, cosí la bascerò, tanto ben le voglio. — L’abate, rimaso co’ monaci suoi, mostrò d’avere di questa cosa una grande ammirazione e fecene divotamente cantare il Miserere. Ferondo tornò nella sua villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose, ma egli richiamandogli affermava sé essere risuscitato. La moglie similmente aveva di lui paura; ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui, e videro che egli era vivo, domandandolo di molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell’anime de’ parenti loro, e faceva da se medesimo le piú belle favole del mondo de’ fatti del purgatoro ed in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per la qual cosa, in casa con la moglie tornatosi ed in possessione rientrato de’ suoi beni, la ’ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo, secondo l’oppinion degli sciocchi, che credono la femina nove mesi appunto portare i figliuoli, la donna partorí un figliuol maschio, il quale fu chiamato Benedetto Ferondi. La tornata di Ferondo e le sue parole, credendo quasi ogni uom che risuscitato fosse, accrebbero senza fine la fama della santitá dell’abate: e Ferondo, che per la sua gelosia molte battiture ricevute avea, sí come di quella guerito, secondo la promessa dell’abate fatta alla donna, piú geloso non fu per innanzi; di che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sí veramente che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente ne’ suoi maggior bisogni servita l’avea.
- [IX]
- Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d’una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ébbene due figliuoli; per che egli poi, avutala cara, per moglie la tenne.
- Restava, non volendo il suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse cosa che giá finita fosse la novella di Lauretta; per la qual cosa essa, senza aspettar d’esser sollecitata da’ suoi, cosí tutta vaga cominciò a parlare:
- Chi dirá novella omai che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella non fu la primiera, ché poche poi dell’altre ne sarebbon piaciute, e cosí spero che avverrá di quelle che per questa giornata sono a raccontare. Ma pure, chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m’occorre vi conterò.
- Nel reame di Francia fu un gentile uomo il quale chiamato fu Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva un medico chiamato maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo figliuol piccolo senza piú, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e piacevole, e con lui altri fanciulli della sua etá s’allevavano, tra’ quali era una fanciulla del detto medico chiamata Giletta, la quale infinito amore ed oltre al convenevole della tenera etá fervente pose a questo Beltramo. Al quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a Parigi, di che la giovanetta fieramente rimase sconsolata: e non guari appresso essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta avere, volentieri a Parigi per vedere Beltramo sarebbe andata, ma essendo molto guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea. Ed essendo ella giá d’etá da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti a’ quali i suoi parenti l’avevan voluta maritare rifiutati n’avea senza la cagion dimostrare. Ora, avvenne che, ardendo ella dell’amor di Beltramo piú che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva che era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una fistola la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s’era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di ciò l’avesse potuto guerire, ma tutti l’avean peggiorato; per la qual cosa il re disperatosene, piú d’alcun non volea né consiglio né aiuto. Di che la giovane fu oltre modo contenta, e pensossi non solamente per questo aver legittima cagione d’andare a Parigi, ma, se quella infermitá fosse che ella credeva, leggermente poterle venir fatto d’aver Beltramo per marito. Laonde, sí come colei che giá dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella infermitá che avvisava che fosse, montò a cavallo ed a Parigi n’andò. Né prima altro fece che ella s’ingegnò di veder Beltramo, ed appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermitá le mostrasse. Il re, veggendola bella giovane ed avvenente, non gliele seppe disdire, e mostrògliele. Come costei l’ebbe veduta, cosí incontanente si confortò di doverlo guerire, e disse: — Monsignore, quando vi piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d’avervi in otto giorni di questa infermitá renduto sano. — Il re si fece in se medesimo beffe delle parole di costei, dicendo: — Quello che i maggior medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? — Ringraziolla adunque della sua buona volontá e rispose che proposto avea seco di piú consiglio di medico non seguire; a cui la giovane disse: — Monsignore, voi schifate la mia arte perché giovane e femina sono, ma io vi ricordo che io non medico con la mia scienza, anzi con l’aiuto di Dio e con la scienza del maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse. — Il re allora disse seco: — Forse m’è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare, poi dice senza noia di me in piccol tempo guerirmi? — Ed accordatosi di provarlo, disse: — Damigella, e se voi non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne segua? — Monsignore, — rispose la giovane — fatemi guardare, e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi brusciare: ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirá? — A cui il re rispose: — Voi ne parete ancora senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene ed altamente. — Al quale la giovane disse: — Monsignore, veramente mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io il vi domanderò, senza dovervi domandare alcun de’ vostri figliuoli o della casa reale. — Il re tantosto le promise di farlo. La giovane cominciò la sua medicina ed in brieve anzi il termine l’ebbe condotto a sanitá; di che il re, guerito sentendosi, disse: — Damigella, voi avete ben guadagnato il marito. — A cui ella rispose: — Adunque, monsignore, ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io cominciai ad amare ed ho poi sempre sommamente amato. — Gran cosa parve al re dovergliele dare; ma poi che promesso l’avea, non volendo della sua fé mancare, sel fece chiamare e si gli disse: — Beltramo, voi siete omai grande e fornito: noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella la quale noi v’abbiamo per moglier data. — Disse Beltramo: — E chi è la damigella, monsignore? — A cui il re rispose: — Ella è colei la quale n’ha con le sue medicine sanitá renduta. — Beltramo, il quale la conoscea e veduta l’avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei non esser di legnaggio che alla sua nobiltá bene stesse, tutto sdegnoso disse: — Monsignore, adunque mi volete voi dar medica per mogliere? Giá a Dio non piaccia che io sí fatta femina prenda giá mai. — A cui il re disse: — Adunque volete voi che noi vegnamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanitá donammo alla damigella che voi in guiderdon di ciò domandò per marito? — Monsignore, — disse Beltramo — voi mi potete tôrre quanto io tengo, e donarmi, sí come vostro uomo, a chi vi piace: ma di questo vi rendo sicuro, che mai io non sarò di tal maritaggio contento. — Sí sarete, — disse il re — per ciò che la damigella è bella e savia ed ámavi molto; per che speriamo che molto piú lieta vita con lei avrete che con una dama di piú alto legnaggio non avreste. — Beltramo si tacque, ed il re fece fare l’apparecchio grande per la festa delle nozze; e venuto il giorno a ciò diterminato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella presenza del re la damigella sposò che piú che sé l’amava. E questo fatto, come colui che seco giá pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo contado tornarsi volea e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al re: e montato a cavallo, non nel suo contado se n’andò, ma se ne venne in Toscana. E saputo che i fiorentini guerreggiavano co’ sanesi, ad essere in lor favor si dispose; dove lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa quantitá di gente capitano e da loro avendo buona provvisione, al loro servigio si rimase e fu buon tempo. La novella sposa, poco contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu ricevuta. Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v’era, ogni cosa guasta e scapestrata, si come savia donna, con gran diligenza e sollecitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte di ciò che egli di lei non si contentava. Avendo la donna tutto racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed ella per compiacergli si partirebbe; alli quali esso durissimo disse: — Di questo faccia ella il piacer suo: io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo anello avrá in dito, ed in braccio figliuolo di me acquistato. — Egli avea l’anello assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna vertú che stato gli era dato ad intendere che egli avea. I cavalieri intesero la dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose, e veggendo che per loro parole dal suo proponimento noi potevan muovere, si tornarono alla donna e la sua risposta le raccontarono; la quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due cose potessero venir fatte dove che fosse, acciò che per conseguente il marito suo riavesse. Ed avendo quello che far dovesse avvisato, ragunati una parte de’ maggiori e de’ migliori uomini del suo contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che giá fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva, ed ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua dimora quivi il conte stesse in perpetuo esilio, anzi intendeva di consumare il rimanente della sua vita in pellegrinaggi ed in servigi misericordiosi per salute dell’anima sua; e pregògli che la guardia ed il governo del contado prendessero ed al conte significassero, lei avergli vacua ed espedita lasciata la possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare. Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai da’ buoni uomini ed a lei pórti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere: ma niente montarono. Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua cameriera, in abito di pellegrini, ben forniti a denari e care gioie, senza sapere alcuno ove ella s’andasse, entrò in cammino, né mai ristette si fu in Firenze: e quivi per ventura arrivata in uno alberghetto il quale una buona donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera pellegrina si stava, disiderosa di sentir novelle del suo signore. Avvenne adunque che il seguente di ella vide davanti all’albergo passare Beltramo a cavallo con sua compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la buona donna dell’albergo chi egli fosse. A cui l’albergatrice rispose: — Questi è un gentile uom forestiere il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e molto amato in questa cittá; ed è il piú innamorato uom del mondo d’una nostra vicina, la quale è gentil femina, ma è povera. Vero è che onestissima giovane è, e per povertá non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona donna, si sta: e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella giá fatto di quello che a questo conte fosse piaciuto. — La contessa queste parole intendendo raccolse bene; e piú tritamente esaminando venendo ogni particularitá, e bene ogni cosa compresa, formò il suo consiglio: ed apparata la casa ed il nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno tacitamente in abito pellegrino lá se n’andò, e la donna e la sua figliuola trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna che, quando le piacesse, le volea parlare. La gentil donna, levatasi, disse che apparecchiata era d’udirla; ed entratesene sole in una sua camera e postesi a sedere, cominciò la contessa: — Madonna, el mi pare che voi siate delle nemiche della fortuna come sono io, ma dove voi voleste, per avventura voi potreste voi e me consolare. — La donna rispose che niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente. Seguí la contessa: — A me bisogna la vostra fede, nella quale se io mi rimetto e voi m’ingannaste, voi guastereste i vostri fatti ed i miei. — Sicuramente — disse la gentil donna — ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi troverete ingannata. — Allora la contessa, cominciatasi dal suo primo innamoramento, chi ella era e ciò che intervenuto l’era infino a quel giorno le raccontò per sí fatta maniera, che la gentil donna, dando fede alle sue parole, sí come quella che giá in parte udite l’aveva da altrui, cominciò di lei ad aver compassione. E la contessa, i suoi casi raccontati, seguì: — Udite adunque avete tra l’altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convenga se io voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che farlemi possa avere se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che il conte mio marito sommamente ami vostra figliuola. — A cui la gentil donna disse: — Madonna, se il conte ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti: ma che posso io per ciò in questo adoperare che voi disiderate? — Madonna, — rispose la contessa — io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola bella e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il non aver ben da maritarla la vi fa guardare in casa. Io intendo che in merito del servigio che mi farete, di darle prestamente de’ miei denari quella dote che voi medesima a maritarla onorevolemente stimerete che sia convenevole. — Alla donna, sí come bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia avendo l’animo gentil, disse: — Madonna, ditemi quello che io possa per voi operare, e se egli sará onesto a me, io il farò volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerá. — Disse allora la contessa: — A me bisogna che voi, per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser certa che egli cosí l’ami come dimostra, il che ella non crederá mai, se egli non le manda l’anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito che egli ama cotanto; il quale se egli vi manda, voi mi donerete: ed appresso gli manderete a dire, vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra figliuola gli metterete allato. Forse mi fará Iddio grazia d’ingravidare: e cosí appresso, avendo il suo anello in dito ed il figliuolo in braccio da lui generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dèe dimorar con marito, essendone voi stata cagione. — Gran cosa parve questa alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola: ma pur, pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona ed onesta affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra pochi giorni con segreta cautela, secondo l’ordine dato da lei, ed ebbe l’anello, quantunque gravetto paresse al conte, e lei in iscambio della figliuola a giacer col conte maestrevolemente mise. Ne’ quali primi congiugnimeli affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto fece manifesto. Né solamente d’una volta contentò la gentil donna la contessa degli abbracciamenti del marito, ma molte, sí segretamente operando, che mai parola non se ne seppe: credendosi sempre il conte, non con la moglie, ma con colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir si venia la mattina, avea parecchie belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente la contessa guardava. La quale, sentendosi gravida, non volle piú la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse: — Madonna, la Dio mercé e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si faccia quello che v’aggraderá, acciò che io poi me ne vada. — La gentil donna le disse che, se ella aveva cosa che l’aggradisse, che le piaceva, ma che ciò ella non avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare a voler ben fare. A cui la contessa disse: — Madonna, questo mi piace bene; e cosi, d’altra parte, io non intendo di donarvi quello che voi mi domanderete, per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba cosí fare. — La gentil donna allora, da necessitá costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per maritar la figliuola. La contessa, conoscendo la sua vergogna ed udendo la sua cortese domanda, ne le donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che valeano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie piú che contenta, quelle grazie che maggior poté alla contessa rendé, la quale da lei partitasi se ne tornò all’albergo. La gentil donna, per tôrre materia a Beltramo di piú né mandar né venire a casa sua, insieme con la figliuola se n’andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco tempo, da’ suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s’era dileguata, se ne tornò. La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato nel suo contado, fu contenta assai; e tanto in Firenze dimorò, che il tempo del parto venne, e partorí due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e quegli fe’ diligentemente nudrire. E quando tempo le parve, in cammino messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta, a Monpulier se ne venne: e quivi piú giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e sentendo, lui il dì d’ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di donne e di cavalieri, pure in forma di pellegrina come uscita n’era, lá se n’andò. E sentendo le donne ed i cavalieri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare abito, con questi suoi figliuoletti in braccio salita in su la sala, tra uomo ed uomo lá se n’andò dove il conte vide, e gittataglisi a’ piedi, disse piagnendo: — Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando. Io ti richeggio per Dio che le condizion postemi per li due cavalieri che io ti mandai, tu me l’osservi: ed ecco nelle mie braccia non un sol figliuolo di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello. Tempo è adunque che io debba da te sí come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa. — Il conte, udendo questo, tutto misvenne, e riconobbe l’anello ed i figliuoli ancora, sì simili erano a lui; ma pur disse: — Come può questo essere intervenuto? — La contessa, con gran maraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò che stato era, e come, raccontò; per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza ed il suo senno, ed appresso due cosí be’ figlioletti, e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti i suoi uomini ed alle donne, che tutti pregavano che lei come sua legittima sposa dovesse omai raccogliere ed onorare, pose giú la sua ostinata gravezza ed in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e basciò e per sua legittima moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli: e fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n’erano e di tutti gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece non solamente tutto quel dì, ma piú altri grandissima festa, e da quel di innanzi, lei sempre come sua sposa e moglie onorando, l’amò e sommamente ebbe cara.
- [X]
- Alibech divien romita, a cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta, diventa moglie di Neerbale.
- Dioneo, che diligentemente la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui solo restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo cominciò a dire:
- Graziose donne, voi non udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno, e per ciò, senza partirmi guari dall’effetto che voi tutto questo di ragionato avete, il vi vo’ dire: forse ancora ne potrete guadagnar l’anima avendolo apparato, e potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le morbide camere piú volentieri che le povere capanne abiti, non è egli per ciò che alcuna volta esso tra’ folti boschi e tra le rigide alpi e nelle diserte spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender si può, alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.
- Adunque, venendo al fatto, dico che nella cittá di Capsa in Barberia fu giá un ricchissimo uomo il quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca il cui nome fu Alibech, la quale, non essendo cristiana ed udendo a molti cristiani che nella cittá erano molto commendare la cristiana fede ed il servire a Dio, un dí ne domandò alcuno, in che maniera e con meno impedimento a Dio si potesse servire. Il quale le rispose che coloro meglio a Dio servivano che piú dalle cose del mondo fuggivano, come coloro facevano che nelle solitudini de’ diserti di Tebaida andati se n’erano. La giovane, che semplicissima era e d’etá forse di quattordici anni, non mossa da ordinato disidèro ma da un cotal fanciullesco appetito, senza altro farne ad alcuna persona sentire, la seguente mattina ad andare verso il diserto di Tebaida nascosamente tutta sola si mise: e con gran fatica di lei, durando l’appetito, dopo alcun dí a quelle solitudini pervenne, e veduta di lontano una casetta, a quella n’andò, dove un santo uomo trovò sopra l’uscio, il quale, maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella andasse cercando. La quale rispose che, spirata da Dio, andava cercando d’essere al suo servigio, ed ancora chi le ’nsegnasse come servire gli si convenia. Il valente uomo, veggendola giovane ed assai bella, temendo non il dimonio, se egli la ritenesse, lo ’ngannasse, le commendò la sua buona disposizione, e dandole alquanto da mangiare radici d’erbe e pomi salvatichi e datteri, e bere acqua, le disse: — Figliuola mia, non guari lontan di qui è un santo uomo il quale di ciò che tu vai cercando è molto migliore maestro che io non sono: a lui te n’andrai. — E misela nella via: ed ella, pervenuta a lui ed avute da lui queste medesime parole, andata piú avanti, pervenne alla cella d’un romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico, e quella domanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per volere fare della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la mandò via o piú avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma le fece da una parte, e sopra quello le disse si riposasse. Questo fatto, non preser guari d’indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale, trovandosi di gran lunga ingannato, da quelle senza troppi assalti voltò le spalle e rendessi per vinto: e lasciati stare dall’una delle parti i pensier santi e l’orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovanezza e la bellezza di costei incominciò, ed oltre a questo, a pensar che via e che modo egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s’accorgesse, lui come uomo dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato primieramente con certe domande, lei non avere mai uomo conosciuto conobbe, e cosí esser semplice come parea; per che s’avvisò come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a’ suoi piaceri. E primieramente con molte parole le mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domenedio, ed appresso le diede ad intendere che quel servigio che piú si poteva far grato a Dio si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domenedio l’aveva dannato. La giovanetta il domandò come questo si facesse; alla quale Rustico disse: — Tu il saprai tosto, e per ciò farai quello che a me far vedrai. — E cominciossi a spogliare quegli pochi vestimenti che avea, e rimase tutto ignudo, e cosí ancora fece la fanciulla; e posesi inginocchione a guisa che adorar volesse e di rimpetto a sé fece star lei. E cosí stando, essendo Rustico piú che mai nel suo disidèro acceso per lo vederla cosí bella, venne la resurrezion della carne; la quale riguardando Alibech e maravigliatasi, disse: — Rustico, quella che cosa è che io ti veggio, che cosí si pigne in fuori, e non l’ho io? — O figliuola mia, — disse Rustico — questo è il diavolo di che io t’ho parlato; e vedi tu ora: egli mi dá grandissima molestia, tanto che io appena la posso sofferire. — Allora disse la giovane: — O lodato sia Iddio, ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io. — Disse Rustico: —Tu di’ vero, ma tu hai un’altra cosa, che non l’ho io, ed haila in iscambio di questo. — Disse Alibech: — O che? — A cui Rustico disse: — Hai il ninferno, e dicoti che io mi credo che Iddio t’abbia qui mandata per la salute dell’anima mia, per ciò che, se questo diavolo pur mi dará questa noia, ove tu vogli aver di me tanta pietá e sofferire che io in inferno il rimetta, tu mi darai grandissima consolazione ed a Dio farai grandissimo piacere e servigio, se tu per quello fare in queste parti venuta se’, che tu di’. — La giovane di buona fede rispose: — O padre mio, poscia che io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerá. — Disse allora Rustico: — Figliuola mia, benedetta sii tu! Andiamo adunque e rimettianlovi, sí che egli posciá mi lasci stare. — E cosí detto, menata la giovane sopra un de’ lor letticelli, le ’nsegnò come starsi dovesse a dovere incarcerare quel maladetto da Dio. La giovane, che mai piú non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta sentí un poco di noia; per che ella disse a Rustico: — Per certo, padre mio, mala cosa dèe essere questo diavolo, e veramente nemico di Dio, ché ancora al ninferno, non che altrui, duole quando egli v’è dentro rimesso. — Disse Rustico: — Figliuola, egli non avverrá sempre cosí. — E per fare che questo non avvenisse, da sei volte anzi che di sul letticel si movessero vel rimisero, tanto che per quella volta gli trassero sí la superbia del capo, che egli si stette volentieri in pace. Ma ritornatagli poi nel seguente tempo piú volte, e la giovane obediente sempre a trargliele si disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e cominciò a dire a Rustico: — Ben veggio che il vero dicevano que’ valenti uomini in Capsa, che il servire a Dio era cosí dolce cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra io ne facessi che di tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimettere il diavolo in inferno: e per ciò io giudico, ogni altra persona che ad altro che a servire a Dio attende essere una bestia. — Per la qual cosa essa spesse volte andava a Rustico e gli dicea: — Padre mio, io son qui venuta per servire a Dio, e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il diavolo in inferno. — La qual cosa faccendo, diceva ella alcuna volta: — Rustico, io non so perché il diavolo si fugga di ninferno: ché, se egli vi stesse cosí volentieri come il ninferno il riceve e tiene, egli non se n’uscirebbe mai. — Cosí adunque invitando spesso la giovane Rustico ed al servigio di Dio confortandolo, sí la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tale ora sentiva freddo che uno altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: — E noi, per la grazia di Dio, l’abbiamo sí ingannato, che egli priega Iddio di starsi in pace. — E cosí alquanto impose di silenzio alla giovane; la qual, poi che vide che Rustico non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno: — Rustico, se il diavol tuo è gastigato e piú non ti dá noia, me il mio ninferno non lascia stare; per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti ad attutare la rabbia al mio ninferno come io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo. — Rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva male rispondere alle poste: e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse: e cosí alcuna volta le sodisfaceva, ma sí era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone; di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava anzi che no. Ma mentre che tra il diavolo di Rustico ed il ninferno d’Alibech era, per troppo disidèro e per men potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s’apprese in Capsa, il quale nella propria casa arse il padre d’Alibech con quanti figliuoli ed altra famiglia avea; per la qual cosa Alibech d’ogni suo bene rimase erede. Laonde un giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultá spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla, e ritrovatala avanti che la corte i beni stati del padre, sí come d’uomo senza erede morto, occupasse, con gran piacere di Rustico e contro al voler di lei la rimenò in Capsa e per moglie la prese, e con lei insieme del gran patrimonio di lei divenne erede. Ma essendo ella domandata dalle donne di che nel diserto servisse a Dio, non essendo ancora Neerbale giaciuto con lei, rispose che il serviva di rimettere il diavolo in inferno e che Neerbale avea fatto gran peccato d’averla tolta da cosí fatto servigio. Le donne domandarono: — Come si rimette il diavolo in inferno? — La giovane tra con parole e con atti il mostrò loro; di che esse fecero si gran risa, che ancor ridono, e dissono: — Non ti dar malinconia, figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirá bene con essoteco Domenedio. — Poi l’una all’altra per la cittá ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il piú piacevol servigio che a Dio si facesse era rimettere il diavolo in inferno; il qual motto, passato di qua da mare, ancora dura. E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e piacere delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.
- Mille fiate o piú aveva la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sí fatte lor parevan le sue parole; per che, venuto egli al conchiuder di quella, conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la laurea di capo, quella assai piacevolemente pose sopra la testa a Filostrato, e disse: — Tosto ci avvedremo se il lupo saprá meglio guidar le pecore che le pecore abbiano i lupi guidati. — Filostrato, udendo questo, disse ridendo: — Se mi fosse stato creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in inferno non peggio che Rustico facesse ad Alibech; e per ciò non ne chiamate lupi, dove voi state pecore non siete: tuttavia, secondo che conceduto mi fia, io reggerò il regno commesso. — A cui Neifíle rispose: — Odi, Filostrato: voi avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno come apparò Masetto da Lamporecchio dalle monache e riaver la favella a tale ora che l’ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare. — Filostrato, conoscendo che falci si trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il motteggiare, a darsi al governo del regno commesso cominciò: e fattosi il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire, ed oltre a questo, secondo che avvisò che bene stesse e che dovesse sodisfare alla compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò; e quindi, rivolto alle donne, disse:
- Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d’alcuna di voi stato sono ad Amor suggetto, né l’essere umile né l’essere obediente né il seguirlo, in ciò che per me s’è conosciuto, alla seconda in tutti i suoi costumi m’è valuto che io prima per altro abbandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io andrò di qui alla morte: e per ciò non d’altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quello che a’ miei fatti è piú conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l’aspetto infelicissimo, né per altro il nome per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire, mi fu imposto. — E così detto, in piè levatosi, per infino all’ora della cena licenziò ciascuno.
- Era sì bello il giardino e sì dilettevole, che alcuna non vi fu che eleggesse di quello uscire per piú piacere altrove dover sentire: anzi, non faccendo il sol giá tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli ed i conigli e gli altri animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte, per mezzo loro saltando, eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare. Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di messer Guiglielmo e della Dama del vergiú, Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi: e cosí, chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l’ora della cena appena aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole dintorno alla bella fonte, quivi con grandissimo diletto cenaron la sera. Filostrato, per non uscir del cammin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate furon le tavole, cosí comandò che la Lauretta una danza prendesse e dicesse una canzone; la qual disse: — Signor mio, dell’altrui canzoni io non so, né delle mie alcuna n’ho alla mente che sia assai convenevole a cosí lieta brigata; se voi di quelle che io so volete, io ne dirò volentieri. — Alla quale il re disse: — Niuna tua cosa potrebbe essere altro che bella e piacevole, e per ciò, tale quale tu l’hai, cotale la di’. — La Lauretta allora, con voce assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l’altre, cominciò cosí:
- Niuna sconsolata
- da dolersi ha quant’io,
- ch’invan sospiro, lassa! innamorata.
- Colui che move il cielo ed ogni stella
- mi fece a suo diletto
- vaga, leggiadra, graziosa e bella,
- per dar qua giú ad ogni alto intelletto
- alcun segno di quella
- biltá che sempre a lui sta nel cospetto;
- ed il mortal difetto
- come mal conosciuta
- non mi gradisce, anzi m’ha dispregiata.
- Giá fu chi m’ebbe cara, e volentieri
- giovanetta mi prese
- nelle sue braccia e dentro a’ suoi pensieri,
- e de’ miei occhi tututto s’accese,
- e ’l tempo, che leggeri
- sen vola, tutto in vagheggiarmi spese:
- ed io, come cortese,
- di me il feci degno;
- ma or ne son, dolente a me! privata.
- Femmisi innanzi poi presuntuoso
- un giovanetto fiero,
- sé nobil reputando e valoroso,
- e presa tienmi e con falso pensiero
- divenuto è geloso:
- laond’io, lassa! quasi mi dispero,
- conoscendo per vero,
- per ben di molti al mondo
- venuta, da uno essere occupata.
- Io maladico quella mia sventura,
- quando, per mutar vesta,
- sí dissi mai: sí bella nella oscura
- mi vidi giá e lieta, dove in questa
- io meno vita dura,
- vie men che prima reputata onesta;
- o dolorosa festa,
- morta foss’io avanti
- che io t’avessi in tal caso provata!
- O caro amante, del qual prima fui,
- piú che altra contenta,
- che or nel ciel se’ davanti a Colui
- che ne creò, dch! pietoso diventa
- di me, che per altrui
- te obliar non posso; fa’ ch’io senta
- che quella fiamma spenta
- non sia che per me t’arse,
- e costá sú m’impetra la tornata.
- Qui fece fine la Lauretta alla sua canzone, nella quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa: ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa; altri furono di piú sublime e migliore e piú vero intelletto, del quale al presente recitar non accade. Il re, dopo questa, in su l’erba ed in sui fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece piú altre cantare infino che giá ogni stella a cader cominciò che salía; per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si tornasse.
- * * *
- finisce la terza giornata del decameron; incomincia la quarta,nella quale, sotto il reggimento di filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
- Novella seconda
- Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da’ suoi frati preso e incarcerato.
- Novella terza
- Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono.
- Novella quarta
- Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v’erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.
- Novella quinta
- I fratelli dell’Isabetta uccidon l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
- Novella sesta
- L’Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l’opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
- Novella settima
- La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore.
- Novella ottava
- Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
- Novella nona
- Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
- Novella decima
- La moglie d’un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell’arca dagli usurieri imbolata, laond’egli scampa dalle forche e i prestatori d’avere l’arca furata sono condannati in denari.
- Conclusione
- * * *
- Carissime donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette estimava io che lo ’mpetuoso vento ed ardente della ’nvidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani, ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali non solamente in fiorentin volgare ed in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il piú si possono: né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato, e tutto da’ morsi della ’nvidia esser lacerato non ho potuto cessare, per che assai manifestamente posso comprendere, quello esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, ed alcuni han detto peggio: di commendarvi, come io fo. Altri, piú maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia etá non istá bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei piú saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, piú dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri, in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io lo vi porgo, s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque, da cotanti e da cosí fatti soffiamenti, da cosí atroci denti, da cosí aguti strali, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato ed infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto ed intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze: anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggera risposta tôrmegli dagli orecchi, e questo far senza indugio, per ciò che, se giá, non essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre. Ma avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia quale fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle; ed a’ miei assalitori favellando dico che
- Nella nostra cittá, giá è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggera, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea: ed aveva una sua donna la quale egli sommamente amava, ed ella lui, ed insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. Ora, avvenne, sí come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’etá di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase quanto mai alcuno altro, amata cosa perdendo, rimanesse; e veggendosi di quella compagnia la quale egli piú amava rimaso solo, del tutto si dispose di non volere piú essere al mondo, ma di darsi al servigio di Dio, ed il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta sé mise col suo figliuolo, col quale, di limosine in digiuni ed in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, lá dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da cosí fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli: ed in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunitá dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava. Ora, avvenne che, essendo giá il garzone d’etá di diciotto anni, e Filippo vecchio, un dí il domandò ove egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: — Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi conoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerá, e voi rimanervi qui? — Il valente uomo, pensando che giá questo suo figliuolo era grande, ed era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: — Costui dice bene. — Per che, avendovi ad andare, seco il menò. Quivi il giovane, veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la cittá piena si vede, sí come colui che mai piú per ricordanza vedute non n’avea, si cominciò forte a maravigliare, e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva, ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E cosí domandando il figliuolo ed il padre rispondendo, per ventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne ed ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, cosí domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: — Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ché elle son mala cosa. — Disse allora il figliuolo: — O come si chiamano? — Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disidèro men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè «femine», ma disse: — Elle si chiamano papere. — Maravigliosa cosa ad udire! Colui che mai piú alcuna veduta non n’avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: — Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere. — Oimè! figliuol mio, — disse il padre — taci: elle son mala cosa. — A cui il giovane domandando disse: — O son cosí fatte le male cose? — Sí — disse il padre. Ed egli allora disse: — Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è a me, non m’è ancora paruta vedere alcuna cosí bella né cosí piacevole come queste sono. Elle son piú belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete piú volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colá sú, di queste papere, ed io le darò beccare. — Disse il padre: — Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano! — E sentì incontanente piú aver di forza la natura che il suo ingegno, e pentessi d’averlo menato a Firenze. Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, ed a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata.
- Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare all’aver conosciuti gli amorosi basciari ed i piacevoli abbracciari ed i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono, ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria ed oltre a ciò la vostra donnesca onestá: quando colui che, nudrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini d’una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate. Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro se io, il corpo del quale il cielo produsse tutto atto ad amarvi, ed io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la vertú della luce degli occhi vostri, la soavitá delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno: e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovanetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama e da voi non disidera d’essere amato, sí come persona che i piaceri né la vertú della naturale affezione né sente né conosce, cosí mi ripiglia: ed io poco me ne curo. E quegli che contro alla mia etá parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde; a’ quali, lasciando il motteggiar dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri giá vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mostrerei d’antichi uomini e valorosi, ne’ loro piú maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne; il che se essi non sanno, vadano e si l’apparino. Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio: ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne, e benché le donne quel che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, sí che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che, le donne giá mi fûr cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’ mille: e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse ed in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto molti per avventura s’avvisano. Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione, che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne domandassi, m’avviso che direbbono: — Va’ cercane tra le favole. — E giá piú ne trovarono tra le loro favole i poeti, che molti ricchi tra’ loro tesori, ed assai giá, dietro alle loro favole andando, fecero la loro etá fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver piú pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piú? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro: se non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessitá sofferire: e per ciò a niun caglia piú di me che a me. Quegli che queste cose cosí non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’ammendar me stesso m’ingegnerei: ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dell’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiar, per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl’imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piú giú andar non può che il luogo onde levata fu. E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora piú che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrá alcuno con ragione, se non che gli altri ed io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, piú tosto ad altrui le presterei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne’ lor diletti, anzi appetiti corrotti, standosi, me nel mio questa brieve vita che posta n’è lascino stare. Ma da ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, lá onde ci dipartimmo, e l’ordine cominciato seguire.
- Cacciata aveva il sole del cielo giá ogni stella e della terra l’umida ombra della notte, quando Filostrato, levatosi, tutta la sua brigata fece levare, e nel bel giardino andatisene, quivi s’incominciarono a diportare: e l’ora del mangiar venuta, quivi desinarono dove la passata sera cenato aveano. E da dormire, essendo il sole nella sua maggior sommitá, levati, nella maniera usata vicini alla bella fonte si posero a sedere, lá dove Filostrato alla Fiammetta comandò che principio desse alle novelle; la quale, senza piú aspettare che detto le fosse, donnescamente cosí cominciò:
- [I]
- Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee, e cosí muore.
- Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto: ma che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime racconterò.
- Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e piú felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giá mai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’etá del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine, ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova ed al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia piú che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sí come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di piú maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili ed altri, sí come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere ed i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertú e per costumi nobile, piú che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso veggendolo, fieramente s’accese, ognora piú lodando i modi suoi. Ed il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sí fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, ed in quella ciò che avesse a fare il dí seguente per esser con lei gli mostrò; e poi, quella messa in un bucciuolo di canna, sollazzando la diede a Guiscardo e dicendo: — Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco. — Guiscardo il prese, ed avvisando, costei non senza cagione dovergliele aver donato e cosí detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna, e quella veggendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il piú contento uom fu che fosse giá mai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte; il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato: ed in questa grotta per una segreta scala la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sí fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è si segreta, che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla ’nnamorata donna. La quale, acciò che niun di ciò accorgersi potesse, molti dí con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, ed accomandato bene l’un de’ capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò nella grotta ed attese la donna. La quale il seguente dí, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono: e dato discreto ordine alli loro amori, acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscí fuori e tornossi a casa: ed avendo questo cammino appreso, piú volte poi in processo di tempo vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di cosí lungo e di cosí gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi; il quale un giorno dietro mangiare lá giú venutone, essendo la donna, la quale Ghismunda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcun veduto o sentito, entratosene, non volendo lei tôrre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere: ed appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente si fosse nascoso, quivi s’addormentò. E cosí dormendo egli, Ghismunda, che per isventura quel di fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n’entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva ed andatisene in sul letto, sí come usati erano, ed insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò, e sentí e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano: e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere piú cautamente fare e con minor sua vergogna quello che giá gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sí come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s’uscí della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio, la seguente notte in sul primo sonno, Guiscardo, cosí come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: — Guiscardo, la mia benignitá verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sí come io oggi vidi con gli occhi miei. — Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: — Amor può troppo piú che né voi né io possiamo. — Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di lá entro guardato fosse; e cosí fu fatto. Venuto il dí seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novitá pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire: — Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertú e la tua onestá, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. Ed or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestá conducerti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltá decevole fosse stato: ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasí come per Dio da piccol fanciullo infino a questo di allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, ed hollo in prigione, ho io giá meco preso partito che farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre piú portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dèi dire. — E questo detto, basso il viso, piagnendo sí forte come farebbe un fanciul ben battuto. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile senti ed a mostrarlo con romore e con lagrime, come il piú le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltá vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di piú non istare in vita dispose, avvisando giá esser morto il suo Guiscardo; per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come noncurante e valorosa, con asciutto viso ed aperto e da niuna parte turbato cosi al padre disse: — Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia, ed oltre a ciò, in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine ed il tuo amore: ma il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato ed amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sará poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilitá, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la vertú di lui. Esserti dovè, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dèi, quantunque tu ora sii vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi, non che ne’ giovani. Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra, piena di concupiscibile disidèro, al quale maravigliosissime forze hanne dato l’aver giá, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a cosí fatto disidèro dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi, ed innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia vertú, di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disidèri perveniva: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogni altro, e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, piú la volgare oppinione che la veritá seguitando, con piú amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta; in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principi delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali vertú create. La vertú primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano ed adoperavano nobili furon detti, ed il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi: e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto. Ragguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo ragguarda: se tu vorrai senza animositá giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle vertú e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dèe essere commendato? E certo non a torto: ché, se i miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e piú mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai adunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che cosí hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertá non toglie gentilezza ad alcuno, ma sí avere. Molti re, molti gran prencipi furon giá poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore giá ricchissimi furono, e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me farti dovessi, cacciai del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltá, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sí come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va’ con le femine a spander le lagrime, ed incrudelendo, con un medesimo colpo e lui e me, se cosí ti par che meritato abbiamo, uccidi. — Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola, ma non credette per ciò in tutto lei sí fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e trattogli il cuore, a lui il recassero. Li quali, cosí come loro era stato comandato, cosí operarono; laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola ed imposegli che quando gliele desse, dicesse: — Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu piú ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli piú amava. — Ghismunda, non ismossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò ed in acqua ridusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo, quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: — Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a cosí fatto cuore chente questo è; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato. — E cosí detto, appressatolsi alla bocca, il basciò, e poi disse: — In ogni cosa sempre ed infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora piú che giá mai: e per ciò l’ultime grazie, le quali rendergli debbo di cosí gran presento, da mia parte gli renderai. — Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando, disse: — Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltá di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette, ti se’ spacciato; venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Iddio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, ed io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi: e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerá con quella, adoperandol tu, che tu giá tanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potrei io andar piú contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quinc’entro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei, e come colei che ancora son certa che m’ama, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata. — E cosí detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano: e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto piú, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla. La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: — O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né piú altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia. — E questo detto, si fe’ dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dí davanti aveva fatta; la quale mise nella coppa ove il cuore era, da molte delle sue lagrime lavato: e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salí sopra il suo letto, e quanto piú onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello ed al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute ed udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire, il qual, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola. Nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose: e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendone i termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere; al quale la donna disse: — Tancredi, sèrbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che giá mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che il mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare morto, palese stea. — L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, alla sua fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: — Rimanete con Dio, ché io mi parto. — E velati gli occhi ed ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartí. Cosí doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltá, con general dolore di tutti i salernetani onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro gli fe’ sepellire.
- [II]
- Frate Alberto dá a vedere ad una donna che l’agnol Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale piú volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’un povero uomo ricovera, il quale in forma d’uom salvatico il dí seguente nella piazza il mena, dove riconosciuto e da’ suoi frati preso, è incarcerato.
- Aveva la novella dalla Fiammetta raccontata le lagrime piú volte tirate infino in su gli occhi alle sue compagne; ma quella giá essendo compiuta, il re con rigido viso disse: — Poco prezzo mi parrebbe la vita mia a dover dare per la metá diletto di quello che con Guiscardo ebbe Ghismunda, né se ne dèe di voi maravigliare alcuna, con ciò sia cosa che io, vivendo, ognora mille morti sento, né per tutte quelle una sola particella di diletto m’è data. Ma lasciando al presente li miei fatti ne’ lor termini stare, voglio che ne’ fieri ragionamenti, ed a’ miei accidenti in parte simili, Pampinea ragionando seguisca; la quale se, come Fiammetta ha cominciato, andrá appresso, senza dubbio alcuna rugiada cadere sopra il mio fuoco comincerò a sentire.
- Pampinea, a sé sentendo il comandamento venuto, piú per la sua affezione conobbe l’animo delle compagne che quello del re per le sue parole, e per ciò, piú disposta a dovere alquanto ricrear loro che a dovere, fuori che del comandamento solo, il re contentare, a dire una novella, senza uscir del proposto, da ridere si dispose, e cominciò:
- Usano i volgari un cosí fatto proverbio: «Chi è reo, e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto»; il quale ampia materia a ciò che m’è stato proposto mi presta di favellare, ed ancora a dimostrare quanta e quale sia l’ipocresia de’ religiosi, li quali co’ panni larghi e lunghi e co’ visi artificialmente pallidi e con le voci umili e mansuete nel domandar l’altrui, ed altissime e rubeste in mordere negli altri li loro medesimi vizi e nel mostrar, sé per tôrre ed altri per lor donare venire a salvazione, ed oltre a ciò, non come uomini che il paradiso abbiano a procacciare come noi, ma quasi come possessori e signori di quello danti a ciaschedun che muore, secondo la quantitá de’ denari loro lasciata da lui, piú e meno eccellente luogo, con questo prima se medesimi, se cosí credono, e poscia coloro che in ciò alle loro parole dan fede sforzansi d’ingannare. De’ quali se quanto si convenisse fosse licito a me dimostrare, tosto dichiarirei a molti semplici quello che nelle lor cappe larghissime tengon nascoso. Ma ora fosse piacere di Dio che cosí delle loro bugie a tutti intervenisse come ad un frate minore, non miga giovane, ma di quelli che de’ maggior cassesi era tenuto a Vinegia; del quale sommamente mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri pieni di compassione per la morte di Ghismunda forse con risa e con piacer rilevare.
- Fu adunque, valorose donne, in Imola uno uomo di scellerata vita e di corrotta il quale fu chiamato Berto della Massa, le cui vituperose opere molto dagl’imolesi conosciute a tanto il recarono, che, non che la bugia, ma la veritá non era in Imola chi gli credesse; per che, accorgendosi quivi piú le sue gherminelle non aver luogo, come disperato, a Vinegia, d’ogni bruttura ricevitrice, si trasmutò, e quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare che fatto non aveva in altra parte. E quasi da coscienza rimorso delle malvage opere nel preterito fatte da lui, da somma umiltá soprappreso mostrandosi ed oltre ad ogni altro uomo divenuto catolico, andò e sí si fece frate minore, e fecesi chiamare frate Alberto da Imola: ed in tale abito cominciò a far per sembianti un’aspra vita ed a commendar molto la penitenza e l’astinenza, né mai carne mangiava né bevea vino, quando non n’avea che gli piacesse. Né se ne fu appena avveduto alcuno, che di ladrone, di ruffiano, di falsario, d’omicida subitamente fu un gran predicator divenuto, senza aver per ciò i predetti vizi abbandonati, quando nascosamente gli avesse potuti mettere in opera. Ed oltre a ciò, fattosi prete, sempre all’altare, quando celebrava, se da molti veduto era, piagneva la passione del Salvatore, sí come colui al quale poco costavan le lagrime quando le volea. Ed in brieve, tra con le sue prediche e le sue lagrime, egli seppe in sí fatta guisa li viniziani adescare, che egli quasi d’ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario e dipositario, e guardatore di denari di molti, confessore e consigliatore quasi della maggior parte degli uomini e delle donne: e cosí faccendo, di lupo era divenuto pastore, ed era la sua fama di santitá in quelle parti troppo maggiore che mai non fu di san Francesco ad Ascesi. Ora, avvenne che una giovane donna bamba e sciocca che chiamata fu madonna Lisetta da ca’ Quirino, moglie d’un gran mercatante che era andato con le galee in Fiandra, s’andò con altre donne a confessar da questo santo frate; la quale essendogli a’ piedi, sí come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli, avendo parte detta de’ fatti suoi, fu da frate Alberto addomandata se alcuno amadore avesse. Al quale ella con un mal viso rispose: — Deh! messer lo frate, non avete voi occhi in capo? Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di queste altre? Troppi n’avrei degli amadori, se io ne volessi: ma non son le mie bellezze da lasciare amare da tale né da quale. Quante ce ne vedete voi, le cui bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel paradiso? — Ed oltre a ciò, disse tante cose di questa sua bellezza, che fu un fastidio ad udire. Frate Alberto conobbe incontanente che costei sentia dello scemo, e parendogli terreno da’ ferri suoi, di lei subitamente ed oltre modo s’innamorò: ma riserbandosi in piú commodo tempo le lusinghe, pur per mostrarsi santo quella volta cominciò a volerla riprendere ed a dirle che questa era vanagloria, ed altre sue novelle; per che la donna gli disse che egli era una bestia e che egli non conosceva che si fosse piú una bellezza che un’altra, per che frate Alberto, non volendola troppo turbare, fattale la confessione, la lasciò andar via con l’altre. E stato alquanti dí, preso un suo fido compagno, n’andò a casa madonna Lisetta, e trattosi da una parte in una sala con lei e non potendo da altri esser veduto, le si gittò davanti inginocchione, e disse: — Madonna, io vi priego per Dio che voi mi perdoniate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sí fieramente la notte seguente gastigato ne fui, che mai poscia da giacere non mi son potuto levar se non oggi. — Disse allora donna mestola: — E chi ve ne gastigò cosí? — Disse frate Alberto: — Io il vi dirò. Standomi io la notte in orazione, sí come io soglio star sempre, io vidi subitamente nella mia cella un grande splendore, né prima mi potei volger per veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un giovane bellissimo con un grosso bastone in mano, il quale, presomi per la cappa e tiratomisi a’ piè, tante bastonate mi die’, che tutto mi ruppe. Il quale io appresso domandai perché ciò fatto avesse, ed egli rispose: — Per ciò che tu presummesti oggi di riprendere le celestiali bellezze di madonna Lisetta, la quale io amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra cosa. — Ed io allora domandai: — Chi siete voi? — A cui egli rispose che era l’agnol Gabriello. — O signor mio, — dissi io — io vi priego che voi mi perdoniate. — Ed egli allora disse: — Ed io ti perdono per tal convenente, che tu a lei vadi come tu prima potrai, e facciti perdonare: e dove ella non ti perdoni, io ci tornerò e darottene tante, che io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai. — Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l’oso dire, se prima non mi perdonate. — Donna zucca-al-vento, la quale era anzi che no un poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole e verissime tutte le credea, e dopo alquanto disse: — Io vi diceva ben, frate Alberto, che le mie bellezze eran celestiali; ma, se Dio m’aiuti, di voi m’incresce, ed infino da ora, acciò che piú non vi sia fatto male, io vi perdono, sí veramente che voi mi diciate ciò che l’agnolo poi vi disse. — Frate Alberto disse: — Madonna, poi che perdonato m’avete, io il vi dirò volentieri; ma una cosa vi ricordo, che cosa che io vi dica voi vi guardiate di dire ad alcuna persona che sia nel mondo, se voi non volete guastare i fatti vostri, che siete la piú avventurata donna che oggi sia al mondo. Questo agnol Gabriello mi disse che io vi dicessi che voi gli piacete tanto, che piú volte a starsi con voi venuto la notte sarebbe, se non fosse per non ispaventarvi. Ora, vi manda egli dicendo per me che a voi vuol venire una notte e dimorarsi una pezza con voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma d’agnolo voi noi potreste toccare, dice che per diletto di voi vuol venire in forma d’uomo, e per ciò dice che voi gli mandiate a dire quando volete che egli venga ed in forma di cui, ed egli ci verrá; di che voi, piú che altra donna che viva, tenervi potete beata. — Madonna baderla allora disse che molto le piaceva se l’agnolo Gabriello l’amava, per ciò che ella amava ben lui, né era mai che una candela d’un mattapan non gli accendesse davanti dove dipinto il vedea; e che qualora egli volesse a lei venire egli fosse il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella sua camera: ma con questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Vergine Maria, ché l’era detto che egli le voleva molto bene, ed anche si pareva, ché in ogni luogo che ella il vedeva, le stava inginocchione innanzi; ed oltre a questo, che a lui stesse di venire in qual forma volesse, pure che ella non avesse paura. Allora disse frate Alberto: — Madonna, voi parlate saviamente, ed io ordinerò ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete fare una gran grazia, ed a voi non costerá niente: e la grazia è questa, che voi vogliate che egli venga con questo mio corpo. Ed udite in che voi mi farete grazia: che egli mi trarrá l’anima mia di corpo e metteralla in paradiso, ed egli entrerá in me, e quanto egli stará con voi, tanto si stará l’anima mia in paradiso. — Disse allora donna poco-fina: — Ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate questa consolazione. — Allora disse frate Alberto: — Or farete che questa notte egli truovi la porta della vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò che venendo in corpo umano, come egli verrá, non potrebbe entrare se non per l’uscio. — La donna rispose che fatto sarebbe. Frate Alberto si partí, ed ella rimase faccendo sí gran galloria, che non le toccava il cui la camiscia, mille anni parendole che l’agnolo Gabriello a lei venisse. Frate Alberto, pensando che cavaliere, non agnolo, esser gli convenia la notte, con confetti ed altre buone cose s’incominciò a confortare, acciò che di leggeri non fosse da caval gittato; ed avuta la licenza, con un compagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando andava a correr le giumente: e di quindi, quando tempo gli parve, trasformato se n’andò a casa della donna, ed in quella entrato, con sue frasche che portate aveva, in agnolo si trasfigurò, e salitosene suso, se n’entrò nella camera della donna. La quale, come questa cosa cosí bianca vide, gli s’inginocchiò innanzi, e l’agnolo la benedisse e levolla in piè, e fecele segno che a letto s’andasse; il che ella, volonterosa d’ubidire, fece prestamente, e l’agnolo appresso con la sua divota si coricò. Era frate Alberto bello uomo del corpo e robusto, e stavangli troppo bene le gambe in su la persona; per la qual cosa, con donna Lisetta trovandosi che era fresca e morbida, altra giacitura faccendole che il marito, molte volte la notte volò senza ali, di che ella forte si chiamò per contenta: ed oltre a ciò, molte cose le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi il dí, dato ordine al ritornare, co’ suoi arnesi fuor se n’uscí e tornossi al compagno suo, al quale, acciò che paura non avesse dormendo solo, aveva la buona femina della casa fatta amichevole compagnia. La donna, come desinato ebbe, presa sua compagnia, se n’andò a frate Alberto e novelle gli disse dell’agnol Gabriello e ciò che da lui udito avea della gloria di vita eterna e come egli era fatto, aggiugnendo oltre a questo maravigliose favole. A cui frate Alberto disse: — Madonna, io non so come voi vi steste con lui; so io bene che stanotte, venendo egli a me ed io avendogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subitamente l’anima mia tra tanti fiori e tra tante rose, che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi in un de’ piú dilettevoli luoghi che fosse mai infino a stamane a matutino: quello che il mio corpo si divenisse, io non so. — Non vel dico io? — disse la donna — Il vostro corpo stette tutta notte in braccio mio con l’agnol Gabriello; e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa manca, lá dove io diedi un grandissimo bascio all’agnolo, tale che egli vi si parrá il segnale parecchi dí. — Disse allora frate Alberto: — Ben farò oggi una cosa che io non feci giá è gran tempo piú, che io mi spoglierò per vedere se voi dite il vero. — E dopo molto cianciare la donna se ne tornò a casa; alla quale in forma d’agnolo frate Alberto andò poi molte volte senza alcuno impedimento ricevere. Pure avvenne un giorno che, essendo madonna Lisetta con una sua comare ed insieme di bellezze quistionando, per porre la sua innanzi ad ogni altra, sí come colei che poco sale avea in zucca, disse: — Se voi sapeste a cui la mia bellezza piace, in veritá voi tacereste dell’altre. — La comare, vaga d’udire, sí come colei che ben la conoscea, disse: — Madonna, voi potreste dir vero: ma tuttavia, non sappiendo chi questo si sia, altri non si rivolgerebbe cosí di leggeri. — Allora la donna, che piccola levatura avea, disse: — Comare, egli non si vuol dire, ma lo ’ntendimento mio è l’agnolo Gabriello, il quale piú che sé m’ama, sí come la piú bella donna, per quello che egli mi dica, che sia nel mondo o in maremma. — La comare ebbe allora voglia di ridere, ma pur si tenne per farla piú avanti parlare, e disse: — In fé di Dio, madonna, se l’agnolo Gabriello è vostro intendimento e dicevi questo, egli dèe bene esser cosí; ma io non credeva che gli agnoli facesson queste cose. — Disse la donna: — Comare, voi siete errata, per le plaghe di Dio: egli il fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa anche colá sú, ma, per ciò che io gli paio piú bella che niuna che ne sia in cielo, s’è egli innamorato di me e viensene a star con meco bene spesso: mo vedivu? — La comare, partita da madonna Lisetta, le parve mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una gran brigata di donne, loro ordinatamente raccontò la novella. Queste donne il dissero a’ mariti e ad altre donne, e quelle a quelle altre, e cosí in meno di due di ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a’ quali questa cosa venne agli orecchi furono i cognati di lei, li quali, senza alcuna cosa dirle, si posero in cuore di trovar questo agnolo e di sapere se egli sapesse volare: e piú notti stettero in posta. Avvenne che di questo fatto alcuna novelluzza ne venne a frate Alberto agli orecchi; il quale, per riprender la donna una notte andatovi, appena spogliato s’era, che i cognati di lei, che veduto l’avevan venire, furono all’uscio della sua camera per aprirlo. Il che frate Alberto sentendo, ed avvisato ciò che era, levatosi né veggendo altro rifugio, aperse una finestra la qual sopra il maggior canal rispondea, e quindi si gittò nell’acqua. Il fondo v’era grande ed egli sapeva ben notare, sì che male alcun non si fece: e notato dall’altra parte del canale, in una casa che aperta v’era prestamente se n’entrò, pregando un buono uomo che dentro v’era che per l’amor di Dio gli scampasse la vita, sue favole dicendo perché quivi a quella ora ed ignudo fosse. Il buono uomo, mosso a pietá, convenendogli andare a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e dissegli che quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo, andò a fare i fatti suoi. I cognati della donna, entrati nella camera, trovarono che l’agnol Gabriello, quivi avendo lasciate l’ali, se n’era volato; di che quasi scornati grandissima villania dissero alla donna, e lei ultimamente sconsolata lasciarono stare ed a casa loro tornarsi con gli arnesi dell’agnolo. In questo mezzo, fattosi il dì chiaro, essendo il buono uomo in sul Rialto, udí dire come l’agnolo Gabriello era la notte andato a giacere con madonna Lisetta, e da’ cognati trovatovi, s’era per paura gittate nel canale, né si sapeva che divenuto se ne fosse; per che prestamente s’avvisò, colui che in casa avea esser desso: e lá venutosene e riconosciutolo, dopo molte novelle, con lui trovò modo che, se egli non volesse che a’ cognati di lei il desse, gli facesse venire cinquanta ducati; e cosí fu fatto. Ed appresso questo, disiderando frate Alberto d’uscir di quindi, gli disse il buono uomo: — Qui non ha modo alcuno, se giá in un non voleste. Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi mena uno uomo vestito a modo d’orso e chi a guisa d’uom salvatico e chi d’una cosa e chi d’un’altra, ed in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual fornita, è finita la festa: e poi ciascun va, con quel che menato ha, dove gli piace; se voi volete, anzi che spiar si possa che voi siate qui, che io in alcun di questi modi vi meni, io vi potrò menare dove voi vorrete; altramenti non veggio come uscirci possiate che conosciuto non siate: ed i cognati della donna, avvisando che voi in alcun luogo quinc’entro siate, per tutto hanno messe le guardie per avervi.— Come che duro paresse a frate Alberto l’andare in cotal guisa, pur per la paura che aveva de’ parenti della donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva esser menato: e come il menasse, era contento. Costui, avendol giá tutto unto di mèle ed empiuto di sopra di penna matta, e messagli una catena in gola ed una maschera in capo, e datogli dall’una mano un gran bastone e dall’altra due gran cani che dal macello avea menati, mandò uno al Rialto che bandisse che chi volesse veder l’agnol Gabriello andasse in su la piazza di San Marco: e fu lealtá viniziana questa. E questo fatto, dopo alquanto il menò fuori e miselsi innanzi, ed andandol tenendo per la catena di dietro, non senza gran romore di molti che tutti dicean: — Che sè quel? che sè quel? — il condusse in su la piazza, dove, tra quegli che venuti gli eran dietro e quegli ancora che, udito il bando, dal Rialto venuti v’erano, erano gente senza fine. Questi, lá pervenuto, in luogo rilevato ed alto legò il suo uom salvatico ad una colonna, sembianti faccendo d’attender la caccia; al quale le mosche ed i tafani, per ciò che di mèle era unto, davan grandissima noia. Ma poi che costui vide la piazza ben piena, faccendo sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico, a frate Alberto trasse la maschera dicendo: — Signori, poi che il porco non viene alla caccia, e non si fa, acciò che voi non siate venuti invano, io voglio che voi veggiate l’agnolo Gabriello, il quale di cielo in terra discende la notte a consolare le donne viniziane. — Come la maschera fu fuori, cosí fu frate Alberto incontanente da tutti conosciuto; contra il quale si levaron le grida di tutti, dicendogli le piú vituperose parole e la maggior villania che mai ad alcun ghiotton si dicesse, ed oltre a questo per lo viso gittandogli chi una lordura e chi un’altra: e cosí grandissimo spazio il tennero, tanto che, per ventura la novella a’ suoi frati pervenuta, infino a sei di loro mossisi quivi vennero, e gittatagli una cappa indosso e scatenatolo, non senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel menarono, dove incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse. Cosí costui, tenuto buono e male adoperando, non essendo creduto, ardi di farsi l’agnolo Gabriello, e di questo in uom salvatico convertito, a lungo andare, come meritato avea, vituperato senza prò pianse i peccati commessi. Cosí piaccia a Dio che a tutti gli altri possa intervenire.
- [III]
- Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti; la maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge; ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia, e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi ed in povertá quivi muoiono.
- Filostrato, udita la fine del novellar di Pampinea, sopra se stesso alquanto stette e poi disse verso di lei: — Un poco di buono e che mi piacque fu nella fine della vostra novella, ma troppo piú vi fu innanzi a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse. — Poi, alla Lauretta voltato, disse: — Donna, seguite appresso con una migliore, se esser può. — La Lauretta ridendo disse: — Troppo siete contro agli amanti crudele, se pur malvagio fine disiderate di loro: ed io per
- ubidirvi ne racconterò una di tre, li quali igualmente mal capitarono, poco del loro amore essendo goduti. — E cosí detto, incominciò: Giovani donne, sí come voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia tornar di colui che l’usa e molte volte d’altrui; e tra gli altri che con piú abbandonate redine ne’ nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l’ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito ed inconsiderato, da sentita tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende l’anima nostra. E come che questo sovente negli uomini avvenga, e piú in uno che in uno altro, nondimeno giá con maggior danni s’è nelle donne veduto, per ciò che piú leggermente in quelle s’accende, ed árdevi con fiamma piú chiara e con meno rattenimento le sospigne. Né è di ciò maraviglia: per ciò che, se ragguardar vorremo, vedremo che il suo fuoco di sua natura piú tosto nelle leggère e morbide cose s’apprende che nelle dure e piú gravanti; e noi pur siamo, non l’abbiano gli uomini a male, piú dilicate che essi non sono, e molto piú mobili. Laonde, veggendoci naturalmente a ciò inchinevoli, ed appresso ragguardato come la nostra mansuetudine e benignitá sia di gran riposo e di piacere agli uomini co’ quali a costumare abbiamo, e cosí l’ira ed il furore essere di gran noia e di pericolo, acciò che da quella con piú forte petto ci guardiamo, l’amor di tre giovani e d’altrettante donne, come di sopra dissi, per l’ira d’una di loro di felice essere divenuto infelicissimo intendo con la mia novella mostrarvi.
- Marsilia, sí come voi sapete, è in Provenza, sopra la marina posta, antica e nobilissima cittá, e giá fu di ricchi uomini e di gran mercatanti piú copiosa che oggi non si vede; tra’ quali ne fu un chiamato N’Arnald Civada, uomo di nazione infima ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di possessioni e di denari ricco, il quale d’una sua donna avea piú figliuoli, de’ quali tre n’erano femine, ed eran di tempo maggiori che gli altri che maschi erano. Delle quali le due, nate ad un corpo, erano d’etá di quindici anni, la terza avea quattordici; né altro s’attendeva per li loro parenti a maritarle che la tornata di N’Arnald, il qual con sua mercatantia era andato in Ispagna. Erano i nomi delle due prime, dell’una Ninetta e dell’altra Maddalena; la terza era chiamata Bertella. Della Ninetta era un giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato Restagnone, innamorato quanto piú potea, e la giovane di lui; e si avevan saputo adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano del loro amore: e giá buona pezza goduti n’erano, quando avvenne che due giovani compagni, de’ quali l’uno era chiamato Folco e l’altro Ughetto, morti i padri loro ed essendo rimasi ricchissimi, l’un della Maddalena e l’altro della Bertella s’innamorarono. Della qual cosa avvedutosi Restagnone, essendogli stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi ne’ suoi difetti adagiare per lo costoro amore, e con lor presa dimestichezza, or l’uno ed or l’altro e talvolta ammenduni gli accompagnava a vedere le lor donne e la sua. E quando dimestico assai ed amico di costoro esser gli parve, un giorno in casa sua chiamatigli, disse loro: — Carissimi giovani, la nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l’amore che io vi porto, e che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi: e per ciò che io molto v’amo, quello che nell’animo caduto mi sia intendo di dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che vi parrá il migliore. Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello ancora che ne’ vostri atti e di dí e di notte mi pare aver compreso, di grandissimo amore delle due giovani amate da voi ardete, ed io della terza, loro sorella; al quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dá il cuore di trovare assai dolce e piacevole rimedio, il quale è questo. Voi siete ricchissimi giovani, quello che non sono io: dove voi vogliate recare le vostre ricchezze in uno e me fare terzo posseditore con voi insieme di quelle e diliberare in che parte del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita con quelle, senza alcun fallo mi dá il cuor di fare che le tre sorelle, con gran parte di quello del padre loro, con essonoi dove noi andarne vorremo ne verranno, e quivi ciascun con la sua a guisa di tre fratelli viver potremo li piú contenti uomini che altri che al mondo sieno. A voi omai sta il prender partito in volervi di ciò consolare, o lasciarlo. — Li due giovani, che oltre modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a diliberarsi, ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano apparecchiati di cosí fare. Restagnone, avuta questa risposta da’ giovani, ivi a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non senza gran malagevolezza andar poteva: e poi che alquanto con lei fu dimorato, ciò che co’ giovani detto avea le ragionò, e con molte ragion s’ingegnò di farle questa impresa piacere. Ma poco malagevole gli fu, per ciò che essa molto piú di lui disiderava di poter con lui esser senza sospetto: per che, liberamente rispostogli che le piaceva e che le sorelle, e massimamente in questo, quello farebbono che ella volesse, gli disse che ogni cosa opportuna intorno a ciò quanto piú tosto potesse ordinasse. Restagnone a’ due giovani tornato, li quali molto a ciò che ragionato avea loro il sollecitavano, disse loro che dalla parte delle lor donne l’opera era messa in assetto: e tra sé diliberati di doverne in Creti andare, vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di volere co’ denari andar mercatando, e d’ogni altra lor cosa fatti denari, una saettia comperarono e quella segretamente armarono di gran vantaggio: ed aspettarono il termine dato. D’altra parte, la Ninetta, che del disidèro delle sorelle sapeva assai, con dolci parole in tanta volontá di questo fatto l’accese, che esse non credevano tanto vivere che a ciò pervenissero. Per che, venuta la notte che salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran cassone del padre loro, di quello grandissima quantitá di denari e di gioie trassono, e con esse di casa tutte e tre tacitamente uscite, secondo l’ordine dato, li lor tre amanti che l’aspettavan trovarono; con li quali senza alcuno indugio sopra la saettia montate, diêr de’ remi in acqua ed andâr via, e senza punto rattenersi in alcun luogo, la seguente sera giunsero a Genova, dove i novelli amanti gioia e piacere primieramente presero del loro amore. E rinfrescatisi di ciò che avean bisogno, andaron via, e d’un porto in uno altro, anzi che l’ottavo di fosse, senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove grandissime e belle possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia fecero bellissimi abituri e dilettevoli; e quivi con molta famiglia, con cani e con uccelli e con cavalli, in conviti ed in feste ed in gioia con le lor donne i piú contenti uomini del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere. Ed in tal maniera dimorando, avvenne; sí come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che, quantunque le cose molto piacciano, avendone soperchia copia rincrescono; che a Restagnone, il quale molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun sospetto ad ogni suo piacere avere, gl’incominciò a rincrescere, e per conseguente a mancar verso lei l’amore. Ed essendogli ad una festa sommamente piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste; di che la Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non poteva andare un passo che ella noi risapesse, ed appresso con parole e con crucci lui e sé non ne tribolasse. Ma cosí come la copia delle cose genera fastidio, cosí l’esser le disiderate negate multiplica l’appetito: e cosí i crucci della Ninetta le fiamme del nuovo amore di Restagnone accrescevano; e come che in processo di tempo s’avvenisse, o che Restagnone l’amistá della donna amata avesse o no, la Ninetta, chi che gliele rapportasse, l’ebbe per fermo; di che ella in tanta tristizia cadde, e di quella in tanta ira e per conseguente in tanto furor trascorse, che, rivoltato l’amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio, accecata dalla sua ira, s’avvisò con la morte di Restagnone l’onta che ricever l’era paruta vendicare. Ed avuta una vecchia greca gran maestra di compor veleni, con promesse e con doni a fare un’acqua mortifera la condusse, la quale essa, senza altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di ciò non si guardava die’ bere. La potenza di quella fu tale, che avanti che il matutino venisse l’ebbe ucciso; la cui morte sentendo Folco ed Ughetto e le lor donne, senza sapere che di veleno fosse morto, insieme con la Ninetta amaramente piansero ed onorevolemente il fecero sepellire. Ma non dopo molti giorni avvenne che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta l’acqua avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata, confessò questo, pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto ne fosse; di che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una notte fu dintorno al palagio di Folco, e senza romore o contraddizione alcuna, presa ne menò la Ninetta, dalla quale, senza alcun martorio, prestissimamente ciò che udir volle, ebbe della morte di Restagnone. Folco ed Ughetto occultamente dal duca avean sentito, e da lor le lor donne, perché presa la Ninetta fosse; il che forte dispiacque loro, ed ogni studio ponevano in far che dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata sarebbe, sí come colei che molto ben guadagnato l’avea: ma tutto pareva niente, per ciò che il duca pur fermo a volerne far giustizia stava. La Maddalena, la quale bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca, senza mai aver voluta far cosa che gli piacesse, imaginando che, piacendogli, potrebbe la sirocchia dal fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò, sé essere presta ad ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella la sua sorella salva e libera dovesse riavere; l’altra, che questa cosa fosse segreta. Il duca, udita l’ambasciata e piaciutagli, lungamente seco pensò se fare il volesse, ed alla fine vi s’accordò, e rispose che era presto. Fatto adunque di consentimento della donna, quasi da loro informar si volesse del fatto, sostenere una notte Folco ed Ughetto, ad albergare se n’andò segretamente con la Maddalena; e fatto prima sembianti d’avere la Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte stessa fare in mar mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella e per prezzo di quella notte gliele donò, la mattina nel dipartirsi pregandola che quella notte, la quale prima era stata nel loro amore, non fosse l’ultima, ed oltre a questo le ’mpose che via ne mandasse la colpevole donna, acciò che a lui non fosse biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei incrudelire. La mattina seguente Folco ed Ughetto, avendo udito, la Ninetta la notte essere stata mazzerata, e credendolo, furon liberati: ed alla lor casa per consolar le lor donne della morte della sorella tornati, quantunque la Maddalena s’ingegnasse di nasconderla molto, pur s’accorse Folco che ella v’era; di che egli si maravigliò molto e subitamente suspicò, giá avendo sentito che il duca aveva la Maddalena amata, e domandolla come questo esser potesse, che la Ninetta quivi fosse. La Maddalena ordí una lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era, creduta, il quale a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte parole gliele disse. Folco, da dolor vinto ed in furor montato, tirata fuori una spada, lei invano mercé addomandante uccise; e temendo l’ira e la giustizia del duca, lei lasciata nella camera morta, se n’andò colá ove la Ninetta era, e con viso infintamente lieto le disse: — Tosto andianne lá dove diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che piú non venghi alle mani del duca. — La qual cosa la Ninetta credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro commiato chiedere alla sorella, essendo giá notte, si mise in via, e con que’ denari a’ quali Folco potè por mano, che furon pochi: ed alla marina andatisene, sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si fossero. Venuto il dí seguente ed essendosi la Maddalena trovata uccisa, furono alcuni che, per invidia ed odio che ad Ughetto portavano, subitamente al duca l’ebbero fatto sentire; per la qual cosa il duca, che molto la Maddalena amava, focosamente alla casa corso, Ughetto prese e la sua donna, e loro, che di queste cose niente ancor sapeano, cioè della partita di Folco e della Ninetta, costrinse a confessar, sé insieme con Folco esser della morte della Maddalena colpevoli. Per la qual confessione costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli guardavano corruppero, dando loro una certa quantitá di denari li quali nella lor casa nascosi per li casi opportuni guardavano: e con le guardie insieme, senza avere spazio di potere alcuna lor cosa tôrre, sopra una barca montati, di notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertá ed in miseria vissero non gran tempo. Adunque a cosí fatto partito il folle amore di Restagnone e l’ira della Ninetta sé condussero ed altrui.
- [IV]
- Gerbino contra la fede data dal re Guiglielmo suo avolo combatte una nave del re di Tunisi per tôrre una sua figliuola; la quale uccisa da quegli che sú v’erano, loro uccide, ed a lui è poi tagliata la testa.
- La Lauretta, fornita la sua novella, taceva, e tra la brigata chi con un chi con uno altro della sciagura degli amanti si dolea, e chi l’ira della Ninetta biasimava, e chi una cosa e chi altra diceva, quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il viso e ad Elissa fe’ segno che appresso dicesse; la quale umilmente incominciò:
- Piacevoli donne, assai son coloro che credono, Amor solamente dagli occhi acceso le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcun per udita si possa innamorare; li quali essere ingannati assai manifestamente apparirá in una novella la qual dire intendo, nella quale non solamente ciò la fama, senza aversi veduto giá mai, avere operato vedrete, ma ciascuno a misera morte aver condotto vi fia manifesto.
- Guiglielmo secondo, re di Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l’uno maschio e chiamato Ruggeri, l’altro femina, chiamata Gostanza. Il quale Ruggeri, anzi che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino, il quale, dal suo avolo con diligenza allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in prodezza ed in cortesia. Né solamente dentro a’ termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa, ma in varie parti del mondo sonando, in Barberia era chiarissima, la quale in quei tempi al re di Cicilia tributaria era. E tra gli altri alli cui orecchi la magnifica fama delle vertú e della cortesia del Gerbin venne, fu ad una figliuola del re di Tunisi, la qual, secondo che ciascun che veduta l’avea ragionava, era una delle piú belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la piú costumata e con nobile e grande animo. La quale, volentieri de’ valorosi uomini ragionare udendo, con tanta affezione le cose valorosamente operate dal Gerbino da uno e da uno altro raccontate raccolse, e sì le piacevano, che essa, seco stessa imaginando come fatto esser dovesse, ferventemente di lui s’innamorò, e piú volentieri che d’altro di lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava. D’altra parte, era, si come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza parimente e del valor di lei, e non senza gran diletto né invano gli orecchi del Gerbino aveva tocchi: anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei aveva infiammato. Per la qual cosa, infino a tanto che con onesta cagione dall’avolo d’andare a Tunisi la licenza impetrasse, disideroso oltre modo di vederla, ad ogni suo amico che lá andava imponeva che a suo potere il suo segreto e grande amor facesse, per quel modo che miglior gli paresse, sentire, e di lei novelle gli recasse. De’ quali alcuno sagacissimamente il fece, gioie da donne portandole, come i mercatanti fanno, a vedere: ed interamente l’ardore del Gerbino apertole, lui e le sue cose a’ suoi comandamenti offerse apparecchiate. La quale con lieto viso e l’ambasciadore e l’ambasciata ricevette: e rispostogli che ella di pari amore ardeva, una delle sue piú care gioie in testimonianza di ciò gli mandò. La quale il Gerbino con tanta allegrezza ricevette, con quanta qualunque cara cosa ricever si possa, ed a lei per costui medesimo piú volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati tenendo da doversi, se la fortuna conceduto l’avesse, vedere e toccare. Ma andando le cose in questa guisa ed un poco piú lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo d’una parte la giovane e d’altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la maritò al re di Granata; di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando che non solamente per lunga distanza al suo amante s’allontanava, ma che quasi del tutto tolta gli era: e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che questo avvenuto non fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al Gerbino. Similmente il Gerbino, questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente, e seco spesso pensava, se modo veder potesse, di volerla tôrre per forza, se avvenisse che per mare a marito n’andasse. Il re di Tunisi, sentendo alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo valore e della potenza dubitando, venendo il tempo che mandare ne la dovea, al re Guiglielmo mandò significando ciò che fare intendeva, e che sicurato da lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito sarebbe, lo ’ntendeva di fare. Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né dello ’nnamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non imaginandosi che per questo addomandata fosse tal sicurtá, liberamente la concedette ed in segno di ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto. Il quale, poi che la sicurtá ricevuta ebbe, fece una grandissima e bella nave nel porto di Cartagine apprestare, e fornirla di ciò che bisogno aveva a chi su vi doveva andare, ed ornarla ed acconciarla, per sú mandarvi la figliuola in Granata: né altro aspettava che tempo. La giovane donna, che tutto questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo ed imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella infra pochi di era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se cosí fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l’amasse quanto piú volte significato l’avea. Costui, a cui imposta fu, ottimamente fe’ l’ambasciata, ed a Tunisi ritornossi. Gerbino, questo udendo, e sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtá al re di Tunisi, non sapeva che farsi: ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la Sardigna n’andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare. Né fu di lungi l’effetto al suo avviso, per ciò che pochi di quivi fu stato, che la nave con poco vento non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s’era, sopravvenne. La qual veggendo Gerbino, a’ suoi compagni disse: — Signori, se voi cosí valorosi siete come io vi tengo, niuno di voi senza aver sentito o sentire amore credo che sia, senza il quale, sí come io meco medesimo estimo, niun mortal può alcuna vertu o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o siete, leggèr cosa vi lía comprendere il mio disio. Io amo: Amor m’indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io piú disidero, è piena di grandissime ricchezze, le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar possiamo; della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore io muovo l’armi; ogni altra cosa sia vostra liberamente infin da ora. Andiamo adunque, e bene avventurosamente assagliamo la nave; Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma. — Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, giá con l’animo erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole; per che, fatto un grandissimo romore, nella fine del suo parlare, che cosí fosse, le trombe sonarono, e prese l’armi, dierono de’ remi in acqua ed alla nave pervennero. Coloro che sopra la nave erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s’apprestarono alla difesa. Il bel Gerbino, a quella pervenuto, fe’ comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero, se la battaglia non voleano. I saracini, certificati chi erano e che domandassero, dissero, sé esser contro alla fede lor data dal re da loro assaliti, ed in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che sopra la nave fosse lor dare. Gerbino, il quale sopra la poppa della nave veduta aveva la donna troppo piú bella assai che egli seco non estimava, infiammato piú che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al presente, per che guanto v’avesse luogo, e per ciò, ove dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s’apprestassero. La qual senza piú attendere, a saettare ed a gittar pietre l’un verso l’altro fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono. Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di Sardigna menato aveano, ed in quel messo fuoco, con ammendune le galee quello accostò alla nave; il che veggendo i saracini e conoscendo, sé di necessitá o doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliuola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé ed aiuto svenarono, ed in mar gittandola disson: — Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l’ha meritata. — Gerbino, veggendo la crudeltá di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra, alla nave si fece accostare, e quivi su malgrado di quanti ve n’eran montato; non altramenti che un leon famelico nell’armento de’ giovenchi venuto, or questo or quello svenando, prima co’ denti e con l’unghie la sua ira sazia che la fame; con una spada in mano or questo or quel tagliando de’ saracini, crudelmente molti n’uccise Gerbino: e giá crescente il fuoco nell’accesa nave, fattone a’ marinari trarre quello che si potè per appagamento di loro, giú se ne scese con poco lieta vittoria de’ suoi avversari avere acquistata. Quindi, fatto il corpo della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse, ed in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccoletta isola quasi a Trapani di rimpetto, onorevolmente il fe’ sepellire, ed a casa piú doloroso che altro uomo si tornò. Il re di Tunisi, saputa la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dolendosi della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il come. Di che il re Guiglielmo turbato forte, né veggendo via da poter lor giustizia negare che la domandavano, fece prendere il Gerbino, ed egli medesimo, non essendo alcun de’ baron suoi che con prieghi da ciò non si sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa ed in sua presenza gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re senza fede. Adunque cosí miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito, di mala morte morirono come io v’ho detto.
- [V]
- I fratelli dell’Isabetta uccidon l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato; ella occultamente dissotterra la testa e mettela in un testo di basilico, e quivi sú piagnendo ognidí per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolor poco appresso.
- Finita la novella d’Elissa ed alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò:
- La mia novella, graziose donne, non sará di genti di sí alta condizione come costor furono de’ quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sará men pietosa: ed a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l’accidente avvenne.
- Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, ed assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano, ed avevano una loro sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. Ed avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco un giovanetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo piú volte l’Isabetta guatato, avvenne che egli le ’ncominciò stranamente a piacere; di che Lorenzo accortosi ed una volta ed altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramentii di fuori, incominciò a porre l’animo a lei: e si andò la bisogna, che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che piú disiderava ciascuno. Ed in questo continuando ed avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sí segretamente fare, che una notte, andando l’Isabetta lá dove Lorenzo dormiva, che il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se n’accorgesse; il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da piú onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose tra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la passata notte dell’Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che piú andasse innanzi, si potessero tôrre dal viso. Ed in tal disposizion dimorando, cosí cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della cittá a diletto tutti e tre, seco menaron Lorenzo, e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse: ed in Messina tornatisi, dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo, il che leggermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati. Non tornando Lorenzo, e l’Isabetta molto spesso e sollecitamente i fratei domandandone, sí come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto istantemente, che l’un de’ fratelli disse: — Che vuol dir questo? Che hai tu a far di Lorenzo, che tu ne domandi cosí spesso? Se tu ne domanderai piú, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene. — Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza piú domandarne si stava, ed assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, ed alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi, sempre aspettando, si stava. Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e co’ panni tutti stracciati e fracidi, e parvele che egli dicesse: — O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’attristi e me con le tue lagrime fieramente accusi: e per ciò sappi che io non posso piú ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono. — E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse che piú noi chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La giovane, destatasi e dando fede alla visione, amaramente pianse; poi la mattina levata, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto. Ed avuta la licenza d’andare alquanto fuor della terra a diporto in compagnia d’una fante che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto piú tosto potè lá se n’andò, e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra, quivi cavò: né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che piú che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto, volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli piú convenevole sepoltura: ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo ’mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì e tornossene a casa sua. Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente ed amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande ed un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi, messavi sú la terra, sú vi piantò parecchi piedi di bellissimo basilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non innaffiava giá mai; e per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidèro vagheggiare, sí come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopra esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo ed odorifero molto. E servando la giovane questa maniera del continuo, piú volte da’ suoi vicin fu veduta; li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: — Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene la cotal maniera. — Il che udendo i fratelli ed accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecero portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima istanza molte volte richiese, e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella ’nfermitá domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo addomandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse: e versata la terra, videro il drappo ed in quello la testa non ancora si consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse: e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi ed ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli. La giovane non ristando di piagnere e pure il suo testo addomandando, piagnendo si morì, e cosí il suo disavventurato amore ebbe termine; ma poi a certo tempo, divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:
- Qual esso fu lo malo cristiano,
- che mi furò la grasta, etc.
- [VI]
- L’Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto, ed egli a lei uno altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l’opera sta; il podestá la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare, la quale, del tutto rifiutando di star piú al mondo, si fa monaca.
- Quella novella che Filomena aveva detta fu alle donne carissima, per ciò che assai volte avevano quella canzone udita cantare né mai avean potuto, per domandarne, sapere qual si fosse la cagione per che fosse stata fatta. Ma avendo il re la fine di quella udita, a Panfilo impose che all’ordine andasse dietro. Panfilo allora disse:
- Il sogno nella precedente novella raccontato mi dá materia di dovervene raccontare una nella quale di due si fa menzione, li quali di cosa che avvenire era, come quello di cosa intervenuta, furono: ed appena furon finiti di dire da coloro che veduti gli aveano, che l’effetto seguì d’ammenduni. E però, amorose donne, voi dovete sapere che general passione è di ciascun che vive il vedere varie cose nel sonno, le quali quantunque a colui che dorme, dormendo, tutte paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili e parte fuori da ogni veritá giudichi, nondimeno molte esserne avvenute si truovano. Per la qual cosa molti a ciascun sogno tanta fede prestano quanta presterieno a quelle cose le quali vegghiando vedessero, e per li lor sogni stessi s’attristano e s’allegrano secondo che per quegli o temono o sperano: ed in contrario son di quegli che niuno ne credono se non poi che nel premostrato pericolo caduti si veggiono; de’ quali né l’uno né l’altro commendo, per ciò che né sempre son veri né ogni volta falsi. Che essi non sien tutti veri, assai volte può ciascun di noi aver conosciuto; e che essi tutti non sien falsi, giá di sopra nella novella di Filomena s’è dimostrato e nella mia, come davanti dissi, intendo di dimostrarlo. Per che giudico che nel virtuosamente vivere ed operare di niun contrario sogno a ciò si dèe temere, né per quello lasciare i buoni proponimenti; nelle cose perverse e malvage, quantunque i sogni a quelle paiano favorevoli e con seconde dimostrazioni chi gli vede confortino, niuno se ne vuol credere: e cosí, nel contrario, a tutti dar piena fede. Ma vegnamo alla novella.
- Nella cittá di Brescia fu giá un gentile uomo chiamato messer Negro da Pontecarraro, il quale, tra piú altri figliuoli, una figliuola aveva, nominata Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la qual per ventura d’un suo vicino che avea nome Gabriotto s’innamorò, uomo di bassa condizione ma di laudevoli costumi pieno e della persona bello e piacevole; e con l’opera ed aiuto della fante della casa operò tanto la giovane, che Gabriotto non solamente seppe, sé essere dall’Andreuola amato, ma ancora in un bel giardino del padre di lei piú e piú volte a diletto dell’una parte e dell’altra fu menato: ed acciò che niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie segretamente divennero. E cosí furtivamente li lor congiugnimenti continuando, avvenne che alla giovane una notte, dormendo, parve in sogno vedere, sé essere nel suo giardino con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di ciascuno tener nelle sue braccia: e mentre che cosí dimoravan, le pareva vedere del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e malgrado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai piú riveder potesse né l’un né l’altro; di che assai dolore ed inestimabile sentiva, e per quello si destò, e desta, come che lieta fosse veggendo che non cosí era come sognato avea, nondimeno l’entrò del sogno veduto paura. E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto potè s’ingegnò di fare che la sera non vi venisse: ma pure, il suo voler veggendo, acciò che egli d’altro non sospettasse, la seguente notte nel suo giardino il ricevette. Ed avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la stagione era, con lui a piè d’una bellissima fontana e chiara che nel giardino era a starsi se n’andò, e quivi, dopo grande ed assai lunga festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli avea il dì davanti vietata. La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte davanti veduto e la suspizion presa di quello, gliele contò. Gabriotto, udendo questo, se ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne’ sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno, ed esser tutti vani si vedeano ogni giorno; ed appresso disse: — Se io fossi voluto andar dietro a’ sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che io altressí questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva essere in una bella e dilettevole selva ed in quella andar cacciando, ed aver presa una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse giá mai: e pareami che ella fosse piú che la neve bianca ed in brieve spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia. A me pareva averla sì cara, che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d’oro, e quella con una catena d’oro tener con le mani. Ed appresso questo, mi pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno, uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e spaventevole molto nell’apparenza, e verso me se ne venisse, alla quale niuna resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse, che al cuor perveniva, il quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via. Di che io sentiva si fatto dolore, che il mio sonno si ruppe, e desto, con la mano subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v’avessi: ma mal non trovandomivi, mi feci beffe di me stesso che cercato v’avea. Ma che vuol questo per ciò dire? De’ cosí fatti e de’ piú spaventevoli assai n’ho giá veduti, né per ciò cosa del mondo né piú né meno me n’è intervenuto: e per ciò lasciángli andare e pensiamo di darci buon tempo. — La giovane, per lo suo sogno assai spaventata, udendo questo, divenne troppo piú: ma per non esser cagione d’alcuno sconforto a Gabriotto, quanto piú poté la sua paura nascose; e come che con lui abbracciandolo e basciandolo alcuna volta e da lui essendo abbracciata e basciata si sollazzasse, sospettando e non sappiendo che, piú che l’usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d’alcuna parte. Ed in tal maniera dimorando, Gabriotto, gittato un gran sospiro, l’abbracciò e disse: — Oimè! anima mia, aiutami, che io muoio — e cosí detto, ricadde in terra sopra l’erba del pratello. Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembo, quasi piagnendo disse: — O signor mio dolce, o che ti senti tu? — Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari di spazio passò della presente vita. Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane che piú che sé l’amava, ciascuna sel dèe poter pensare. Ella il pianse assai, ed assai volte invano il chiamò: ma poi che pur s’accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del corpo cercato ed in ciascuna trovandolo freddo, non sappiendo che far né che dirsi, cosí lagrimosa come era e piena d’angoscia andò la sua fante a chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria ed il suo dolore le dimostrò. E poi che miseramente insieme alquanto ebber pianto sopra il morto viso di Gabriotto, disse la giovane alla fante: — Poi che Iddio m’ha tolto costui, io non intendo di piú stare in vita; ma prima che io ad uccidermi venga, vorrei io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore ed il segreto amore tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima s’è partita, fosse sepellito. — A cui la fante disse: — Figliuola mia, non dir di volerti uccidere, per ciò che, se tu l’hai qui perduto, uccidendoti, anche nell’altro mondo il perderesti, perciò che tu n’andresti in inferno, lá dove io son certa che la sua anima non è andata, per ciò che buon giovane fu: ma molto meglio è a confortarti e pensare d’aiutare con orazioni o con altro bene l’anima sua, se forse per alcun peccato commesso n’ha bisogno. Del sepellirlo è il modo presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprá giá mai, per ciò che niun sa che egli mai ci venisse; e se cosí non vuogli, mettiánlo qui fuori del giardino e lasciatilo stare: egli sará domattina trovato e portatone a casa sua e fatto sepellire da’ suoi parenti. — La giovane, quantunque piena fosse d’amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli della sua fante, ed alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda dicendo: — Giá Iddio non voglia che cosí caro giovane e cotanto da me amato, e mio marito, io sofferi che a guisa d’un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato. Egli ha avute le mie lagrime, ed in quanto io potrò egli avrá quelle de’ suoi parenti, e giá per l’animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a fare. — E prestamente per una pezza di drappo di seta la quale aveva in un suo forziere la mandò: e venuta quella ed in terra distesala, sú il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e fattagli una ghirlanda di rose e tutto da torno delle rose che colte avevano empiutolo, disse alla fante: — Di qui alla porta della sua casa ha poca via, e per ciò tu ed io, cosí come acconcio l’abbiamo, quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo. Egli non andrá guari di tempo che giorno fía, e sará ricolto; e come che questo a’ suoi niuna consolazion sia, pure a me, nelle cui braccia egli è morto, sará un piacere. — E così detto, da capo con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo spazio pianse; la qual molto dalla fante sollecitata, per ciò che il giorno se ne veniva, dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto era stata sposata del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto dicendo: — Caro mio signore, se la tua anima ora le mie lagrime vede, e niuno conoscimento o sentimento dopo la partita di quella rimane a’ corpi, ricevi benignamente l’ultimo dono di colei la qual tu vivendo cotanto amasti. — E questo detto, tramortita, addosso gli ricadde; e dopo alquanto risentita e levatasi, con la fante insieme preso il drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e verso la casa di lui si dirizzaro. E cosí andando, per caso avvenne che dalla famiglia del podestá, che per caso andava a quella ora per alcuno accidente, furon trovate e prese col morto corpo. L’Andreuola, piú di morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria, francamente disse: — Io conosco chi voi siete e so che il volermi fuggire niente monterebbe; io son presta di venir con voi davanti alla signoria, e che ciò sia di raccontarle: ma niun di voi sia ardito di toccarmi, se io obediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa rimuovere, se da me non vuole essere accusato. — Per che, senza essere da alcun tócca, con tutto il corpo di Gabriotto n’andò in palagio; la qual cosa il podestá sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di ciò che intervenuto era s’informò: e fatto da certi medici riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso, tutti affermarono del no, ma che alcuna posta vicina al cuore gli s’era rotta, che affogato l’avea. Il quale, ciò udendo e sentendo costei in piccola cosa esser nocente, s’ingegnò di mostrar di donarle quello che vender non le potea, e disse, dove ella a’ suoi piaceri acconsentirsi volesse, la libererebbe. Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni convenevolezza volle usar la forza: ma l’Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole ed altiere ributtando indietro. Ma venuto il dí chiaro e queste cose essendo a messer Negro contate, dolente a morte, con molti de’ suoi amici a palagio n’andò, e quivi, d’ogni cosa dal podestá informato, dolendosi domandò che la figliuola gli fosse renduta. Il podestá, volendosi prima accusare egli della forza che fare l’avea voluta, che egli da lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua costanza, per approvar quella venne a dir ciò che fatto avea; per la qual cosa, veggendola di tanta buona fermezza, sommo amore l’avea posto, e dove a grado a lui, che suo padre era, ed a lei fosse, nonostante che marito avesse avuto di bassa condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe. In questo tempo che costoro cosí parlavano, l’Andreuola venne in cospetto del padre e piagnendo gli si gittò innanzi, e disse: — Padre mio, io non credo che bisogni che io l’istoria del mio ardire e della mia sciagura vi racconti, ché son certa che udita l’avete e sapetela; e per ciò quanto piú posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d’avere senza vostra saputa chi piú mi piacque marito preso: e questo perdono non vi domando perché la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non vostra nemica. — E cosí detto, piagnendo gli cadde a’piedi. Messer Negro, che antico era oramai ed uomo di natura benigno ed amorevole, queste parole udendo cominciò a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in piè, e disse: — Figliuola mia, io avrei avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il parer mio si convenia; e se tu l’avevi tal preso quale egli ti piacea, questo doveva anche a me piacere: ma l’averlo occultato, della tua poca fidanza mi fa dolere, e piú ancora, veggendotel prima aver perduto che io l’abbia saputo. Ma pur, poi che cosí è, quello che io per contentarti, vivendo egli, volentieri gli avrei fatto, cioè onore sí come a mio genero, facciaglisi alla morte. — E vòlto a’ figliuoli ed a’ suoi parenti, comandò loro che l’esequie s’apparecchiassero a Gabriotto grandi ed onorevoli. Eranvi in questo mezzo concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e quasi donne ed uomini quanti nella cittá v’erano; per che, posto nel mezzo della corte il corpo sopra il drappo dell’Andreuola e con tutte le sue rose, quivi non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma publicamente quasi da tutte le donne della cittá e da assai uomini, e non a guisa di plebeio ma di signore, tratto della corte publica, sopra gli omeri de’ piú nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla sepoltura. Quindi dopo alquanti dì, seguitando il podestá quello che addomandato avea, ragionandolo messer Negro alla figliuola, niuna cosa ne volle udire: ma volendole in ciò compiacere il padre, in un monistero assai famoso di santitá essa e la sua fante monache si renderono, ed onestamente poi in quello per molto tempo vissero.
- [VII]
- La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia, e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore.
- Panfilo era della sua novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all’Andreuola, riguardando Emilia, sembianti le fe’ che a grado gli fosse che essa a coloro che detto aveano, dicendo, si continuasse; la quale senza alcuna dimora fare incominciò:
- Care compagne, la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla sua simile, se non che, come l’Andreuola nel giardino perdé l’amante, e cosí colei di cui dir debbo: e similmente presa, come l’Andreuola fu, non con forza né con vertú, ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte. E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de’ nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ’mperio di quelle de’ poveri, anzi in quelle si alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da’ piú ricchi si fa temere. Il che, ancora che non in tutto, in gran parte apparirá nella mia novella, con la qual mi piace nella nostra cittá rientrare, della quale questo dí, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci, cotanto allontanati ci siamo.
- Fu adunque, non è ancora gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona: e quantunque le convenisse con le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare, e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sí povero animo, che ella non ardisse a ricevere Amore nella sua mente, il quale con gli atti e con le parole piacevoli d’un giovanetto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare. Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l’amava, il cui nome era Pasquino, forte disiderando e non attentando di far piú avanti, filando, ad ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri piú cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Quegli, dall’altra parte, molto sollecito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, lei piú spesso che l’altre sollecitava. Per che, l’un sollecitando ed all’altra giovando d’esser sollecitata, avvenne che, l’un piú d’ardir prendendo che aver non solea e l’altra molta della paura e della vergogna cacciando che d’avere era usata, insieme a’ piacer comuni si congiunsono; li quali tanto all’una parte ed all’altra aggradirono, che, non che l’un dall’altro aspettasse d’essere invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l’uno all’altro invitando. E cosí questo lor piacer continuando d’un giorno in uno altro e sempre piú nel continuare accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino lá dove egli menarla voleva, acciò che quivi piú ad agio e con men sospetto potessero essere insieme. La Simona disse che le piaceva, e dato a vedere al padre, una domenica dopo mangiare, che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n’andò, dove lui insieme con un suo compagno che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba, trovò: e quivi, fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de’ lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un’altra. Era in quella parte del giardino dove Pasquino e la Simona andati se n’erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatisi insieme, e molto avendo ragionato d’una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s’incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d’ogni cosa che sopra essi rimasa fosse dopo l’aver mangiato. E poi che cosí alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda della qual prima diceva: né guari di spazio persegui ragionando, che egli s’incominciò tutto nel viso a cambiare, ed appresso il cambiamento non istette guari che egli perdé la vista e la parola, ed in brieve egli si morí. Le quali cose la Simona veggendo, cominciò a piagnere ed a gridare ed a chiamar lo Stramba e la Lagina; li quali prestamente lá corsi, e veggendo Pasquino non solamente morto, ma giá tutto enfiato e pieno d’oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba: — Ahi! malvagia femina, tu l’hai avvelenato! — E fatto il romor grande, fu da molti che vicini al giardino abitavan sentito; li quali, corsi al romore e trovando costui morto ed enfiato, ed udendo lo Stramba dolersi ed accusar la Simona che con inganno avvelenato l’avesse, ed ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che cosí fosse come lo Stramba diceva; per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestá ne fu menata. Quivi, prontando lo Stramba e l’Atticciato ed il Malagevole, compagni di Pasquino, che sopravvenuti erano, un giudice senza dare indugio alla cosa si mise ad esaminarla del fatto, e non potendo comprendere costei in questa cosa avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo ed il luogo ed il modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di lei nol comprendeva assai bene. Fattola adunque senza alcun tumulto colá menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva, gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era. Costei, al cesto della salvia accostatasi ed ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente dargli ad intendere il caso sopravvenuto, cosí fece come Pasquino avea fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a’ denti. Le quali cose mentre che per lo Stramba e per l’Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino sí come frivole e vane, in presenza del giudice, erano schernite, e con piú istanza la sua malvagitá accusata, niuna altra cosa per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di cosí fatta malvagitá punitore: la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della domandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l’aversi la salvia fregata a’ denti, in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran maraviglia di quanti eran presenti. O felici anime, alle quali in un medesimo di addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare; e piú felici, se insieme ad un medesimo luogo n’andaste; e felicissime, se nell’altra vita s’ama, e voi v’amate come di qua faceste! Ma molto piú felice l’anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenza non patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e dell’Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o piú vili uomini, piú onesta via trovandole, con pari sorte di morte al suo amante, a svilupparsi dalla loro infamia ed a seguitar l’anima tanto da lei amata del suo Pasquino. Il giudice, quasi tutto stupefatto dell’accidente insieme con quanti ve n’erano, non sappiendo che dirsi, lungamente soprastette, poi, in miglior senno rivenuto, disse: — Mostra che questa salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire. Ma acciò che ella alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e mettasi nel fuoco. — La qual cosa colui che del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de’ due miseri amanti apparve. Era sotto il cesto di quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo alcuno ardire d’appressarsi, fattale dintorno una stipa grandissima, quivi insieme con la salvia l’arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquin cattivello. Il quale insieme con la sua Simona, cosí enfiati come erano, dallo Stramba e dall’Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura erano popolani.
- [VIII]
- Girolamo ama la Salvestra; va costretto, a’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato, e portato in una chiesa, muore la Salvestra allato a lui.
- Aveva la novella d’Emilia il fine suo, quando per comandamento del re Neifile cosí cominciò:
- Alcuni, al mio giudicio, valorose donne, sono li quali piú che l’altre genti si credon sapere, e sanno meno: e per questo non solamente a’ consigli degli uomini, ma ancora contra la natura delle cose presummono d’opporre il senno loro; della quale presunzione giá grandissimi mali sono avvenuti ed alcun bene non se ne vide giá mai. E per ciò che tra l’altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale, che piú tosto per se medesimo consumar si può che per avvedimento alcun tôrre via, m’è venuto nell’animo di narrarvi una novella d’una donna la quale, mentre che ella cercò d’esser piú savia che a lei non s’apparteneva e che non era, ed ancor che non sostenea la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello ’nnamorato cuor trarre amore il qual forse v’avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad una ora amore e l’anima del corpo al figliuolo.
- Fu adunque nella nostra cittá, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco il cui nome fu Leonardo Sighieri, il quale d’una sua donna un figliuolo ebbe chiamato Girolamo, appresso la nativitá del quale, acconci i suoi fatti ordinatamente, passò di questa vita. I tutori del fanciullo insieme con la madre di lui bene e lealmente le sue cose guidarono. Il fanciullo, crescendo co’ fanciulli degli altri suoi vicini, piú che con alcuno altro della contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d’un sarto, si dimesticò; e venendo piú crescendo l’etá, l’usanza si converti in amore tanto e sí fiero, che Girolamo non sentiva ben se non tanto quanto costei vedeva: e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse. La madre del fanciullo, di ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò: ed appresso, co’ tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolse, e come colei che si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un melrancio, disse loro: — Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è si innamorato d’una figliuola d’un sarto nostro vicino, che ha nome la Salvestra, che, se noi dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderá un giorno, senza che alcuno il sappia, per moglie, ed io non sarò mai poscia lieta, o egli si consumerá per lei se ad altrui la vedrá maritare: e per ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne’ servigi del fondaco, per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirá dell’animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie. — I tutori dissero che la donna parlava bene e che essi ciò farebbero a lor potere, e fattosi chiamare il fanciullo nel fondaco, gl’incominciò l’uno a dire assai amorevolmente: — Figliuol mio, tu se’ oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de’ fatti tuoi, per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica: senza che, tu diventerai molto migliore e piú costumato e piú da bene lá che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e quei gentili uomini che vi sono assai e de’ lor costumi apprendendo; poi te ne potrai qui venire. — Il garzone ascoltò diligentemente ed in brieve rispose, niente volerne fare, per ciò che egli credeva cosí bene come uno altro potersi stare a Firenze. I valenti uomini, udendo questo, ancora con piú parole il riprovarono: ma non potendo trarne altra risposta, alla madre il dissero. La quale fieramente di ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento gli disse una gran villania, e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo ’ncominciò a lusingare ed a pregar dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi tutori: e tanto gli seppe dire, che egli acconsentí di dovervi andare a stare uno anno e non piú; e cosí fu fatto. Andato adunque Girolamo a Parigi fieramente innamorato, d’oggi in doman ne verrai, vi fu due anni tenuto; donde piú innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra maritata ad un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre misura dolente. Ma pur, veggendo che altro essere non poteva, s’ingegnò di darsene pace: e spiato lá dove ella stesse a casa, secondo l’usanza de’ giovani innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato se non come egli aveva lei. Ma l’opera stava in altra guisa: ella non si ricordava di lui se non come se mai non l’avesse veduto, e se pure alcuna cosa se ne ricordava, si mostrava il contrario. Di che in assai piccolo spazio di tempo il giovane s’accorse, e non senza suo grandissimo dolore, ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva per rientrarle nell’animo: ma niente parendogli adoperare, si dispose, se morirne dovesse, di parlarle esso stesso. E da alcun vicino informatosí come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare erano ella ed il marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v’entrò, e nella camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v’erano, si nascose; e tanto aspettò, che, tornati costoro ed andatisene a letto, sentí il marito di lei addormentato, e lá se n’andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata s’era; e postale la sua mano sopra il petto, pianamente disse: — O anima mia, dormi tu ancora? — La giovane, che non dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse: — Per Dio, non gridare, ché io sono il tuo Girolamo. — Il che udendo costei, tutta tremante disse: — Deh! per Dio, Girolamo, vattene: egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si disdisse l’essere innamorati; io sono, come tu vedi, maritata, per la qual cosa piú non istá bene a me d’attendere ad altro uomo che al mio marito: per che io ti priego per solo Iddio che tu te ne vada, ché, se mio marito ti sentisse, pognamo che altro male non ne seguisse, sí ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora, amata da lui, in bene ed in tranquillitá con lui mi dimoro. — Il giovane, udendo queste parole, sentí noioso dolore; e ricordatole il passato tempo ed il suo amore mai per distanza non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne; per che, disideroso di morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella sofferisse che egli allato a lei si coricasse tanto che alquanto riscaldarsi potesse, ché era agghiacciato aspettandola, promettendole che né le direbbe alcuna cosa né la toccherebbe, e come un poco riscaldato fosse, se n’andrebbe. La Salvestra, avendo un poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette. Coricossi adunque il giovane allato a lei senza toccarla: e raccolti in un pensiero il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di piú non vivere, e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morí. E dopo alquanto spazio la giovane, maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il marito si svegliasse, cominciò a dire: — Deh! Girolamo, ché non te ne vai tu? — Ma non sentendosi rispondere, pensò lui essere addormentato; per che, stesa oltre la mano, acciò che si svegliasse il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte: e toccatolo con piú forza e sentendo che egli non si movea, dopo piú ritoccarlo conobbe che egli era morto; di che oltre modo dolente, stette gran pezza senza saper che farsi. Alla fine prese consiglio di volere in altrui persone tentar quello che il marito dicesse da farne: e destatolo, quello che presenzialmente a lei avvenuto era, disse essere ad un’altra intervenuto, e poi il domandò, se a lei avvenisse, che consiglio ne prenderebbe. Il buono uomo rispose che a lui parrebbe che colui che morto fosse si dovesse chetamente riportare a casa sua e quivi lasciarlo, senza alcuna mala voglienza alla donna portarne, la quale fallato non gli pareva che avesse. Allora la giovane disse: — E cosí convien fare a noi. — E presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane; di che egli tutto smarrito si levò su, ed acceso un lume, senza entrar con la moglie in altre novelle, il morto corpo de’ suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno indugio, aiutandogli la sua innocenza, levatolsi in su le spalle, alla porta della casa di lui nel portò, e quivi il pose e lasciollo stare. E venuto il giorno e veduto costui davanti all’uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e spezialmente dalla madre: e cerco per tutto e riguardato, e non trovatoglisi né piaga né percossa alcuna, per li medici generalmente fu creduto lui di dolore esser morto, così come era. Fu adunque questo corpo portato in una chiesa; e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui cominciaron dirottamente, secondo l’usanza nostra, a piagnere ed a dolersi. E mentre il corrotto grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla Salvestra: — Deh! pon’ti alcun mantello in capo e va’ a quella chiesa dove Girolamo è stato recato, e mettiti tra le donne: ed ascolterai quello che di questo fatto si ragiona, ed io farò il simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa contro a noi si dicesse. — Alla giovane, che tardi era divenuta pietosa, piacque, sí come a colei che morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d’un sol bascio piacere; ed andovvi. Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze d’Amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la misera l’aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in tanta pietá, come ella il viso morto vide, che sotto il mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta: e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò, che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, cosí a costei tolse. Ma poi che, riconfortandola le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non conoscendola ancora, e poi che ella non si levava, levar volendola ed immobile trovandola, pur sollevandola, ad una ora lei essere la Salvestra e morta conobbero. Di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietá, rincominciarono il pianto assai maggiore. Sparsesi fuor della chiesa tra gli uomini la novella, la quale, pervenuta agli orecchi del marito di lei che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno, per lungo spazio pianse, e poi ad assai di quegli che v’erano raccontata l’istoria stata la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si seppe la cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolse. Presa adunque la morta giovane e lei cosí ornata come s’acconciano i corpi morti, sopra quel medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente pianta, in una medesima sepoltura furono sepelliti ammenduni: e loro, li quali Amor vivi non aveva potuti congiugnere, la morte congiunse con inseparabile compagnia.
- [IX]
- Messer Guiglielmo Rossiglione dá a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui ed amato da lei; il che ella sappiendo poi, si gitta da un’alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita.
- Essendo la novella di Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne, il re, il quale non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi altri a dire, incominciò:
- Èmmisi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual, poi che cosí degl’infortunati casi d’amore vi duole, vi converrá non meno di compassione avere che alla passata, per ciò che da piú furono coloro a’ quali ciò che io dirò avvenne, e con piú fiero accidente che quegli de’ quali è parlato.
- Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon giá due nobili cavalieri, de’ quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé, ed aveva l’un nome messer Guiglielmo Rossiglione e l’altro messer Guiglielmo Guardastagno: e per ciò che l’uno e l’altro era prod’uomo molto nell’armi, s’amavano assai ed in costume avean d’andar sempre ad ogni torneamento o giostra o altro fatto d’arme insieme e vestiti d’un’assisa. E come che ciascun dimorasse in un suo castello, e fosse l’un dall’altro lontano ben diece miglia, pure avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, nonostante l’amistá e la compagnia che era tra loro, s’innamorò di lei e tanto or con uno atto or con uno altro fece, che la donna se n’accorse: e conoscendolo per valorosissimo cavaliere, le piacque, e cominciò a porre amore a lui, intanto che niuna cosa piú che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richesta; il che non guari stette che addivenne, ed insieme furono una volta ed altra, amandosi forte. E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n’accorse e forte ne sdegnò, intanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertí, ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevan saputo tenere il loro amore: e seco diliberò del tutto d’ucciderlo. Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione, sopravvenne che un gran torneamento si bandí in Francia; il che il Rossiglione incontanente significò al Guardastagno, e mandògli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse, ed insieme diliberrebbono se andarvi volessono e come. Il Guardastagno lietissimo rispose che senza fallo il dí seguente andrebbe a cenar con lui. Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser venuto da poterlo uccidere, ed armatosi, il dí seguente, con alcun suo famigliare montò a cavallo, e forse un miglio fuori del suo castello in un bosco si ripose in agguato donde doveva il Guardastagno passare: ed avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due famigliari appresso disarmati, sí come colui che di niente da lui si guardava; e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di maltalento, con una lancia sopra mano gli uscí addosso gridando: — Traditor, tu se’ morto! — Ed il cosí dire ed il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa: il Guardastagno, senza potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia, cadde e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò fatto s’avesse, voltate le teste de’ cavalli, quanto piú poterono si fuggirono verso il castello del lor signore. Il Rossiglione, smontato, con un coltello il petto del Guardastagno apri e con le proprie mani il cuor gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò ad un de’ suoi famigliari che nel portasse; ed avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto ardito, che di questo facesse parola, rimontò a cavallo, ed essendo giá notte al suo castello se ne tornò. La donna, che udito aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena, e con disidèro grandissimo l’aspettava, non veggendol venir si maravigliò forte ed al marito disse: — E come è cosí, messer, che il Guardastagno non è venuto? — A cui il marito disse: — Donna, io ho avuto da lui che egli non ci può essere di qui domane — di che la donna un poco turbatetta rimase. Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse: — Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la piú dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, la mi manda in una scodella d’ariento. — Il cuoco, presolo e postavi tutta l’arte e tutta la sollecitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece un manicaretto troppo buono. Messer Guiglielmo, quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola. La vivanda venne, ma egli, per lo maleficio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò. Il cuoco gli mandò il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando quella sera svogliato, e lodògliele molto. La donna, che svogliata non era, ne cominciò a mangiare, e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto. Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l’ebbe mangiato, disse: — Donna, cliente v’è paruta questa vivanda? — La donna rispose: — Monsignore, in buona fé ella m’è piaciuta molto. — Se m’aiti Iddio, — disse il cavaliere — io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo piú che altra cosa vi piacque. — La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse: — Come? Che cosa è questa che voi m’avete fatta mangiare? — Il cavalier rispose: — Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual voi come disleal femina tanto amavate: e sappiate di certo che egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto. — La donna, udendo questo di colui cui ella piú che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da domandare; e dopo alquanto disse: — Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dèe fare: ché se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a cosí nobil vivanda come è stata quella del cuore d’un cosí valoroso e cosí cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! — E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere. La finestra era molto alta da terra; per che, come la donna cadde, non solamente morí, ma quasi tutta si disfece. Messer Guiglielmo, veggendo questo, stordí forte, e parvegli aver mal fatto: e temendo egli de’ paesani e del conte di Provenza, fatti sellare i cavalli, andò via.
- La mattina seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata; per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello della donna, con grandissimo dolore e pianto, furono i due corpi ricolti e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fûr posti, e sopra essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v’erano, ed il modo e la cagione della lor morte.
- [X]
- La moglie d’un medico per morto mette un suo amante, adoppiato, in un’arca, la quale con tutto lui due usurieri se ne portano in casa; questi si sente; è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria, sé averlo messo nell’arca dagli usurieri imbolata, laonde egli scampa dalle forche ed i prestatori d’avere l’arca furata son condannati in denari.
- Solamente a Dioneo, avendo giá il re fatta fine al suo dire, restava la sua fatica; il quale ciò conoscendo, e giá dal re essendogli imposto, incominciò:
- Le miserie degl’infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno giá contristati gli occhi ed il petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne venisse. Ora, lodato sia Iddio, che finite sono, salvo se io non volessi a questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Iddio mi guardi, senza andar piú dietro a cosí dolorosa materia, da alquanto piú lieta e migliore incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che nella seguente giornata si dèe raccontare.
- Dovete adunque sapere, bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo medico in cirugía il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna, il quale, giá all’ultima vecchiezza venuto, avendo presa per moglie una bella e gentil giovane della sua cittá, di nobili vestimenti e ricchi e d’altre gioie e tutto ciò che ad una donna può piacere meglio che altra della cittá la teneva fornita; vero è che ella il piú del tempo stava infreddata, sí come colei che nel letto era male dal maestro tenuta coperta. Il quale, come messer Riccardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, cosi costui a costei mostrava che il giacere con una donna una volta si penava a ristorar non so quanti dí, e simili ciance; di che ella viveva pessimamente contenta: e sí come savia e di grande animo, per potere quel di casa risparmiare, si dispose di gittarsi alla strada e voler logorar dell’altrui, e piú e piú giovani riguardati, nella fine uno ne le fu all’animo, nel quale ella pose tutta la sua speranza, tutto il suo animo e tutto il ben suo. Di che il giovane accortosi, e piacendogli forte, similmente in lei tutto il suo amor rivolse. Era costui chiamato Ruggeri d’Aieroli, di nazion nobile ma di cattiva vita e di biasimevole stato, intanto che parente né amico lasciato s’avea che ben gli volesse o che il volesse vedere: e per tutto Salerno di ladronecci e d’altre vilissime cattivitá era infamato; di che la donna poco curò, piacendole esso per altro. E con una sua fante tanto ordinò, che insieme furono: e poi che alquanto diletto preso ebbero, la donna gli cominciò a biasimare la sua passata vita ed a pregarlo che, per amor di lei, di quelle cose si rimanesse; ed a dargli materia di farlo, lo ’ncominciò a sovvenire quando d’una quantitá di denari e quando d’un’altra. Ed in questa maniera perseverando insieme assai discretamente, avvenne che al medico fu messo tra le mani uno infermo il quale aveva guasta l’una delle gambe, il cui difetto avendo il maestro veduto, disse a’ suoi parenti che, dove uno osso fracido il quale aveva nella gamba non gli si cavasse, a costui si convenia del tutto o tagliar tutta la gamba o morire: ed a trargli l’osso potrebbe guerire, ma che egli altro che per morto nol prenderebbe; a che accordatisi coloro a’ quali apparteneva, per cosí gliele diedero. Il medico, avvisando che l’infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fe’ la mattina d’una sua certa composizione stillare un’acqua la quale l’avesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a curare: e quella fattasene venire a casa, nella sua camera la pose, senza dire ad alcuno ciò che si fosse. Venuta l’ora del vespro, dovendo il maestro andare a costui, gli venne un messo da certi suoi grandissimi amici d’Amalfi che egli non dovesse lasciar per cosa alcuna che incontanente lá non andasse, per ciò che una gran zuffa stata v’era, di che molti v’erano stati fediti. Il medico, prolungata nella seguente mattina la cura della gamba, salito in su una barchetta, n’andò ad Amalfi; per la qual cosa la donna, sappiendo lui la notte non dovere tornare a casa, come usata era, occultamente si fece venir Ruggeri e nella sua camera il mise, e dentro il vi serrò infino a tanto che certe altre persone della casa s’andassero a dormire. Standosi adunque Ruggeri nella camera ed aspettando la donna, avendo o per fatica il dí durata o per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza una grandissima sete, gli venne nella finestra veduta questa guastadetta d’acqua la quale il medico per lo ’nfermo aveva fatta, e credendola acqua da bere, a bocca postalasi, tutta la bevve: né stette guari, che un gran sonno il prese, e fussi addormentato. La donna come prima potè nella camera se ne venne, e trovato Rugger dormendo lo ’ncominciò a tentare ed a dire con sommessa voce che su si levasse, ma questo era niente: egli non rispondeva né si movea punto; per che la donna, alquanto turbata, con piú forza il sospinse, dicendo: — Leva su, dormiglione, ché, se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua, e non venir qui. — Ruggeri, cosí sospinto, cadde a terra d’una cassa sopra la quale era, né altra vista d’alcun sentimento fece che avrebbe fatto un corpo morto; di che la donna alquanto spaventata, il cominciò a voler rilevare ed a menarlo piú forte ed a prenderlo per lo naso ed a tirarlo per la barba, ma tutto era nulla: egli aveva a buona caviglia legato l’asino. Per che la donna cominciò a temere non fosse morto, ma pure ancora gl’incominciò a strignere agramente le carni ed a cuocerlo con una candela accesa, ma niente era; per che ella, che medica non era come che medico fosse il marito, senza alcun fallo lui credette esser morto, per che, amandolo sopra ogni altra cosa come facea, se fu dolorosa non è da domandare: e non osando far romore, tacitamente sopra lui cominciò a piagnere ed a dolersi di cosí fatta disavventura. Ma dopo alquanto, temendo la donna di non aggiugnere al suo danno vergogna, pensò che senza alcuno indugio da trovare era modo come lui morto si traesse di casa, né a ciò sappiendosi consigliare, tacitamente chiamò la sua fante, e la sua disavventura mostratale, le chiese consiglio. La fante, maravigliandosi forte e tirandolo ancora ella e strignendolo, e senza sentimento veggendolo, quel disse che la donna dicea, cioè veramente lui esser morto, e consigliò che da metterlo fuori di casa era. A cui la donna disse: — E dove il potrem noi porre, che egli non si suspichi, domattina quando veduto sará, che di qua entro sia stato tratto? — A cui la fante rispose: — Madonna, io vidi questa sera al tardi di rimpetto alla bottega di questo legnaiuolo nostro vicino un’arca non troppo grande, la quale se il maestro non ha riposta in casa, verrá troppo in concio a’ fatti nostri, per ciò che dentro vel potrem mettere, e dargli due o tre colpi d’un coltello, e lasciarlo stare. Chi in quella il troverá, non so perché piú di qua entro che d’altronde vi sel creda messo; anzi si crederá, per ciò che malvagio giovane è stato, che, andando a fare alcun male, da alcun suo nemico sia stato ucciso e poi messo nell’arca. — Piacque alla donna il consiglio della fante, fuor che di dargli alcuna fedita, dicendo che non le potrebbe per cosa del mondo sofferir l’animo di ciò fare: e mandolla a vedere se quivi fosse l’arca dove veduta l’avea; la qual tornò e disse di sí. La fante adunque, che giovane e gagliarda era, dalla donna aiutata, sopra le spalle si pose Ruggeri, ed andando la donna innanzi a guardar se persona venisse, venute all’arca, dentro vel misero, e richiusala, il lasciarono stare. Erano di quei di alquanto piú oltre tornati in una casa due giovani li quali prestavano ad usura, e volonterosi di guadagnare assai e di spender poco, avendo bisogno di masserizie, il dí davanti avean quella arca veduta ed insieme posto che, se la notte vi rimanesse, di portamela in casa loro. E venuta la mezzanotte, di casa usciti, trovandola, senza entrare in altro ragguardamento, prestamente, ancora che lor gravetta paresse, ne la portarono in casa loro ed allogaronla allato ad una camera dove lor femine dormivano, senza curarsi d’acconciarla troppo appunto allora; e lasciatala stare, se n’andarono a dormire. Ruggeri, il quale grandissima pezza dormito avea e giá aveva digesto il beveraggio e la vertú di quel consumata, essendo vicino a matutin si destò: e come che rotto fosse il sonno ed i sensi avessero la loro vertú recuperata, pur gli rimase nel cerebro una stupefazione la quale non solamente quella notte, ma poi parecchi dí il tenne stordito; ed aperti gli occhi e non veggendo alcuna cosa e sparte le mani in qua ed in lá, in questa arca trovandosi, cominciò a smemorare ed a dir seco: — Che è questo? Dove sono io? Dormo io o son desto? Io pur mi ricordo che questa sera io venni nella camera della mia donna, ed ora mi pare essere in un’arca. Questo che vuol dire? Sarebbe il medico tornato o altro accidente sopravvenuto, per lo quale la donna, dormendo io, qui m’avesse nascoso? Io il credo, e fermamente cosí sará. — E per questo cominciò a star cheto e ad ascoltare se alcuna cosa sentisse: e cosí gran pezza dimorato, stando anzi a disagio che no nell’arca, che era piccola, e dolendogli il lato in sul quale era, in su l’altro volger volendosi, sí destramente il fece, che, dato delle reni nell’un de’ lati dell’arca, la quale non era stata posta sopra luogo iguali, la fe’ piegare ed appresso cadere: e cadendo fece un gran romore, per lo quale le femine che ivi allato dormivano si destarono ed ebber paura, e per paura tacettono. Ruggeri per lo cader dell’arca dubitò forte, ma sentendola per lo cadere aperta, volle avanti, se altro avvenisse, esserne fuori che starvi dentro. E tra che egli non sapeva dove si fosse, ed una cosa ed un’altra, cominciò ad andar brancolando per la casa, per sapere se scala o porta trovasse donde andarsene potesse. Il qual brancolare sentendo le femine, che deste erano, cominciarono a dire: — Chi è lá? — Ruggeri, non conoscendo la voce, non rispondea; per che le femine cominciarono a chiamare i due giovani, li quali, per ciò che molto vegghiato aveano, dormivan forte né sentivano d’alcuna di queste cose niente. Laonde le femine, piú paurose divenute, levatesi e fattesi a certe finestre, cominciarono a gridare: — Al ladro, al ladro! — Per la qual cosa per diversi luoghi piú de’ vicini, chi su per li tetti e chi per una parte e chi per un’altra, corsono ed entrar nella casa, ed i giovani similmente, desti a questo romor, si levarono. E Ruggeri, il quale quivi veggendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggirsi dovesse o potesse vedea, preso dierono nelle mani della famiglia del rettor della terra, la qual quivi giá era al romor corsa: e davanti al rettore menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio messo al martorio, confessò nella casa de’ prestatori essere per imbolare entrato; per che il rettore pensò di doverlo senza troppo indugio fare impiccar per la gola. La novella fu la mattina per tutto Salerno che Ruggeri era stato preso ad imbolare in casa de’ prestatori; il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di sì nuova fûr piene, che quasi eran vicine di far credere a se medesime che quello che fatto avevan la notte passata non l’avesser fatto, ma avesser sognato di farlo: ed oltre a questo, del pericolo nel quale Ruggeri era la donna sentiva sì fatto dolore, che quasi n’era per impazzare. Non guari appresso la mezza terza il medico, tornato da Amalfi, domandò che la sua acqua gli fosse recata, per ciò che medicare voleva il suo infermo: e trovandosi la guastadetta vota, fece un gran romore che niuna cosa in casa sua durar poteva in istato. La donna, che da altro dolore stimolata era, rispose adirata dicendo: — Che direste voi, maestro, d’una gran cosa, quando d’una guastadetta d’acqua versata fate si gran romore? Non se ne truova egli piú al mondo? — A cui il maestro disse: — Donna, tu avvisi che quella fosse acqua chiara; non è cosi, anzi era un’acqua lavorata da far dormire — e contolle per che cagion fatta l’avea. Come la donna ebbe questo udito, cosí s’avvisò che Ruggeri quella avesse bevuta e per ciò loro fosse paruto morto, e disse: — Maestro, noi noi sapevamo; e per ciò rifatevi dell’altra. — Il maestro, veggendo che altro esser non poteva, fece far della nuova. Poco appresso la fante, che per comandamento della donna era andata a saper quello che di Rugger si dicesse, tornò e dissele: — Madonna, di Rugger dice ogni uom male, né, per quello che io abbia potuto sentire, amico né parente alcuno è che per aiutarlo levato si sia o si voglia levare; e credesi per fermo che domane lo stradicò il fará impiccare. Ed oltre a questo, vi vo’ dire una nuova cosa, che egli mi pare aver compreso come egli in casa de’ prestator pervenisse: ed udite come. Voi sapete bene il legnaiuolo, di rimpetto al quale era l’arca dove noi il mettemmo: egli era testé con uno, di cui mostra che quell’arca fosse, alla maggior quistion del mondo, ché colui domandava i denari dell’arca sua, ed il maestro rispondeva che egli non aveva venduta l’arca, anzi gli era la notte stata imbolata; al quale colui diceva: — Non è cosi, anzi l’hai venduta alli due giovani prestatori, sí come essi stanotte mi dissero quando in casa loro la vidi allora che fu preso Ruggeri. — A cui il legnaiuolo disse: — Essi mentono, per ciò che mai io non la vendei loro, ma essi questa notte passata me l’avranno imbolata; andiamo a loro. — E sí se n’andarono di concordia a casa i prestatori, ed io me ne son qui venuta; e come voi potete vedere, io comprendo che in cotal guisa Ruggeri, lá dove trovato fu, trasportato fosse: ma come quivi si risuscitasse, non so vedere io. — La donna allora, comprendendo ottimamente come il fatto stava, disse alla fante ciò che dal medico udito aveva, e pregolla che allo scampo di Ruggeri dovesse dare aiuto, sí come colei che, volendo, ad una ora poteva Ruggeri scampare e servare l’onor di lei. La fante disse: — Madonna, insegnatemi come, ed io farò volentieri ogni cosa. — La donna, sí come colei alla quale strignevano i cintolini, con subito consiglio avendo avvisato ciò che da fare era, ordinatamente di quello la fante informò. La quale primieramente se n’andò al medico, e piagnendo gl’incominciò a dire: — Messere, a me conviene domandarvi perdono d’un gran fallo il quale verso di voi ho commesso. — Disse il maestro: — E di che? — E la fante, non restando di lagrimar, disse: — Messer, voi sapete che giovane Ruggeri d’Aieroli sia, al quale, piacendogli io, tra per paura e per amor mi convenne uguanno divenire amica: e sappiendo egli iersera che voi non c’eravate, tanto mi lusingò, che io in casa vostra nella mia camera a dormir meco il menai, ed avendo egli sete né io avendo ove piú tosto ricorrere o per acqua o per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in sala era, mi vedesse, ricordandomi che nella vostra camera una guastadetta d’acqua aveva veduta, corsi per quella e sì gliele diedi bere, e la guastada riposi donde levata l’avea; di che io truovo che voi in casa un gran romor n’avete fatto. E certo io confesso che io feci male: ma chi è colui che alcuna volta mal non faccia? Io ne son molto dolente d’averlo fatto; nonpertanto, per questo e per quello che poi ne segui, Ruggeri n’è per perdere la persona, per che io quanto piú posso vi priego che voi mi perdoniate e mi diate licenza che io vada ad aiutare, in quello che per me si potrá, Ruggeri. — Il medico, udendo costei, con tutto che ira avesse, motteggiando rispose: — Tu te n’hai data la perdonanza tu stessa, per ciò che, dove tu credesti questa notte un giovane avere che molto bene il pilliccion ti scotesse, avesti un dormiglione: e per ciò va’ procaccia la salute del tuo amante, e per innanzi ti guarda di piú in casa non menarlo, ché io ti pagherei di questa volta e di quella. — Alla fante per la prima taroccata parendo aver ben procacciato, quanto piú tosto potè se n’andò alla prigione dove Ruggeri era, e tanto il prigionier lusingò, che egli la lasciò a Rugger favellare. La quale, poi che informato l’ebbe di ciò che risponder dovesse allo stradicò se scampar volesse, tanto fece che allo stradicò andò davanti. Il quale, prima che ascoltarla volesse, per ciò che fresca e gagliarda era, volle una volta attaccar l’uncino alla cristianella di Dio, ed ella, per essere meglio udita, non ne fu punto schifa; e dal macinío levatasi, disse: — Messere, voi avete qui Ruggeri d’Aieroli preso per ladro, e non è cosí il vero. — E cominciatasi dal capo, gli contò l’istoria infino alla fine, come ella, sua amica, in casa il medico menato l’avea e come gli avea data bere l’acqua adoppiata, non conoscendola, e come per morto l’avea nell’arca messo; ed appresso questo, ciò che tra il maestro legnaiuolo ed il signor dell’arca aveva udito gli disse, per quello mostrandogli come in casa i prestatori fosse pervenuto Ruggeri. Lo stradicò, veggendo che leggèr cosa era a ritrovare se ciò fosse vero, prima il medico domandò se vero fosse dell’acqua, e trovò che così era stato; ed appresso, fatti richiedere il legnaiuolo e colui di cui stata era l’arca ed i prestatori, dopo molte novelle trovò li prestatori la notte passata aver l’arca imbolata ed in casa messalasi. Ultimamente mandò per Ruggeri, e domandatolo dove la sera dinanzi albergato fosse, rispose che dove albergato si fosse non sapeva, ma ben si ricordava che andato era ad albergare con la fante del maestro Mazzeo, nella camera della quale aveva bevuta acqua per gran sete che avea: ma che poi di lui stato si fosse, se non quando in casa i prestatori destandosi s’era trovato in un’arca, egli non sapea. Lo stradicò, queste cose udendo e gran piacer pigliandone, ed alla fante ed a Ruggeri ed al legnaiuolo ed a’ prestatori piú volte ridirle fece. Alla fine, conoscendo Ruggeri essere innocente, condannati i prestatori che imbolata avevan l’arca in diece once, liberò Ruggeri; il che quanto a lui fosse caro, niun ne domandi: ed alla sua donna fu carissimo oltre misura. La qual poi con lui insieme e con la cara fante, che dare gli aveva voluto delle coltella, piú volte rise ed ebbe festa, il loro amore ed il loro sollazzo sempre continuando di bene in meglio; il che vorrei che cosí a me avvenisse, ma non d’esser messo nell’arca.
- Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avevano contristati, questa ultima di Dioneo le fece ben tanto ridere, e spezialmente quando disse, lo stradicò aver l’uncino attaccato, che essi si poterono della compassione avuta dell’altre ristorare. Ma veggendo il re che il sole cominciava a farsi giallo ed il termine della sua signoria era venuto, con assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè d’aver fatto ragionare di materia cosí fiera come è quella della ’nfelicitá degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la laurea, ed aspettando le donne a cui porre la dovesse, piacevolemente sopra il capo biondissimo della Fiammetta la pose, dicendo: — Io pongo a te questa corona sí come a colei la quale meglio, dell’aspra giornata d’oggi, che alcuna altra con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai. — La Fiammetta, li cui capelli eran crespi, lunghi e d’oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti, ed il viso ritondetto con un color vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parean d’un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina li cui labbri parevan due rubinetti, sorridendo rispose: — Filostrato, ed io la prendo volentieri; ed acciò che meglio t’avveggi di quel che fatto hai, infino da ora voglio e comando che ciascun s’apparecchi di de ver doman ragionare di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. — La qual proposizione a tutti piacque: ed essa, fattosi il siniscalco venire e delle cose opportune con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per infino all’ora della cena lietamente licenziò.
- Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi lá, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all’ora della cena. La qual venuta, tutti raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte, con grandissimo piacere e ben serviti cenarono; e da quella levatisi, sí come usati erano, al danzare ed al cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina: — Filostrato, io non intendo deviare da’ miei passati, ma sí come essi hanno fatto, cosí intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone: e per ciò che io son certa che tali sono le tue canzoni clienti sono le tue novelle, acciò che piú giorni che questo non sien turbati da’ tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual piú ti piace. — Filostrato rispose che volentieri, e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:
- Lagrimando dimostro
- quanto si dolga con ragione il core
- d’esser tradito sotto fede Amore.
- Amore, allora che primieramente
- ponesti in lui colei per cui sospiro
- senza sperar salute,
- sì piena la mostrasti di vertute,
- che lieve reputava ogni martiro
- che per te nella mente,
- ch’è rimasa dolente,
- fosse venuto: ma lo mio errore
- ora conosco, e non senza dolore.
- Fatto m’ha conoscente dello ’nganno
- vedermi abbandonato da colei
- n cui sola sperava:
- ch’allora ch’io piú esser mi pensava
- nella sua grazia e servidore a lei,
- senza mirare al danno
- del mio futuro affanno,
- m’accorsi lei aver l’altrui valore
- dentro raccolto, e me cacciato fore.
- Com’io conobbi me di fuor cacciato,
- nacque nel core un pianto doloroso
- che ancor vi dimora:
- e spesso maladico il giorno e l’ora
- che pria m’apparve il suo viso amoroso
- d’alta biltate ornato
- e piú che mai infiammato;
- la fede mia, la speranza e l’ardore
- va bestemmiando l’anima che more.
- Quanto ’l mio duol senza conforto sia,
- signor, tu ’l puoi sentir, tanto ti chiamo
- con dolorosa voce;
- e dicoti che tanto e si mi cuoce,
- che per minor martir la morte bramo:
- venga adunque, e la mia
- vita crudele e ria
- termini col suo colpo, e ’l mio furore,
- ch’ove ch’io vada il sentirò minore.
- Nulla altra via, niuno altro conforto
- mi resta piú che morte alla mia doglia:
- dállami adunque omai,
- pon’ fine, Amor, con essa alli miei guai,
- e ’l cuor di vita sì misera spoglia;
- deh! fallo, poi ch’a torto
- m’è gioi tolta e diporto;
- fa’ costei lieta morend’io, signore,
- come l’hai fatta di nuovo amadore.
- Ballata mia, se alcun non t’appara
- io non men curo, per ciò che nessuno,
- com’io, ti può cantare;
- una fatica sola ti vo’ dare:
- che tu ritruovi Amore, e a lui solo uno,
- quanto mi sia discara
- la trista vita amara
- dimostri appien, pregandol che ’n migliore
- porto ne ponga per lo suo onore.
- Dimostrarono le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l’animo di Filostrato, e la cagione: e forse piú dichiarato l’avrebbe l’aspetto di tal donna nella danza era, se le tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser nascoso. Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l’ora dell’andare a dormir sopravvenne; per che, comandandolo la reina, ciascuno alla sua camera si raccolse.
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- finisce la quarta giornata del decameron; incomincia la quinta, nella quale, sotto il reggimento di fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse.
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- Introduzione
- Novella prima
- Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
- Novella seconda
- Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
- Novella terza
- Pietro Boccamazza si fugge con l’Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de’ ladroni fugge, e dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l’Agnolella era, e sposatala con lei se ne torna a Roma.
- Novella quarta
- Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
- Novella quinta
- Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
- Novella sesta
- Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e divien marito di lei.
- Novella settima
- Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la ’ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
- Novella ottava
- Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene, pregato da’ suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
- Novella nona
- Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco.
- Novella decima
- Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo ’nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
- Conclusione
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- Era giá l’oriente tutto bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto chiaro, quando Fiammetta, da’ dolci canti degli uccelli li quali la prima ora del giorno su per gii albuscelli tutti lieti cantavano, incitata, sú si levò, e tutte l’altre ed i tre giovani fece chiamare: e con soave passo a’ campi discesa, per l’ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto che alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d’una cosa e d’altra con lor ragionando, diportando s’andò. Ma sentendo che giá i solar raggi si riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi; alla qual pervenuti, con ottimi vini e con confetti il leggero affanno avuto fe’ ristorare, e per lo dilettevole giardino infino all’ora del mangiare si diportarono. La qual venuta, essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che alcuna stampita ed una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che alla reina piacque, si misero a mangiare: e quello ordinatamente e con letizia fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli strumenti e con le canzoni alquante danzette fecero. Appresso alle quali, infino a passata l’ora del dormire la reina licenziò ciascuno; de’ quali alcuni a dormire andarono ed altri al lor sollazzo per lo bel giardino si rimasero. Ma tutti, un poco passata la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo l’usato modo si ragunarono: ed essendosi la reina a seder posta prò tribunali, verso Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle felici novelle; il quale a ciò volentier si dispose, e cosí disse:
- [I]
- Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandrea nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
- Molte novelle, dilettose donne, a dover dar principio a cosí lieta giornata come questa sará, per dovere essere da me raccontate mi si paran davanti; delle quali una piú nell’animo me ne piace, per ciò che per quella potrete comprendere non solamente il felice fine per lo quale a ragionare incominciamo, ma quanto sien sante, quanto poderose e di quanto ben piene le forze d’Amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano a gran torto; il che, se io non erro, per ciò che innamorate credo che siate, molto vi dovrá esser caro.
- Adunque, sí come noi nell’antiche istorie de’ cipriani abbiam giá letto, nell’isola di Cipri fu un nobilissimo uomo il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre ad ogni altro paesano di tutte le temporali cose ricchissimo: e se d’una cosa sola non l’avesse la fortuna fatto dolente, piú che altro si potea contentare. E questo era, che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n’aveva uno il quale di grandezza e di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava, ma quasi matto era e di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso: ma per ciò che mai né per fatica di maestro né per lusinga o battitura del padre o ingegno d’alcuno altro gli s’era potuto metter nel capo né lettera né costume alcuno, anzi con la voce grossa e deforme e con modi piú convenienti a bestia che ad uomo, quasi per ischerno da tutti era chiamato Cimone, il che nella lor lingua sonava quanto nella nostra «bestione». La cui perduta vita il padre con gravissima noia portava; e giá essendosi ogni speranza a lui di lui fuggita, per non aver sempre davanti la cagione del suo dolore, gli comandò che alla villa n’andasse e quivi co’ suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanze degli uomini grossi gli eran piú a grado che le cittadine. Andatosene adunque Cimone alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne che un giorno, passato giá il mezzodí, passando egli da una possessione ad un’altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e per ciò che del mese di maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andando, s’avvenne, sí come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento indosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea: ed era solamente dalla cintura ingiú coperta d’una coltre bianchissima e sottile; ed a’ piè di lei similmente dormivano due femine ed uno uomo, servi di questa giovane. La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai piú forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazion grandissima la ’ncominciò intentissimo a riguardare: e nel rozzo petto, nel quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella materiale e grossa mente gli ragionava, costei essere la piú bella cosa che giá mai per alcun vivente veduta fosse. E quinci cominciò a distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia, e sommamente il petto, poco ancora rilevato: e di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto, seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella, da alto sonno gravati, teneva chiusi: e per vedergli, piú volte ebbe volontá di destarla. Ma parendogli oltre modo piú bella che l’altre femine per addietro da lui vedute, dubitava non fosse alcuna dea: e pur tanto di sentimento avea, che egli giudicava le divine cose essere di piú reverenza degne che le mondane, e per questo si riteneva, aspettando che da se medesima si svegliasse; e come che lo ’ndugio gli paresse troppo, pur, da non usato piacer preso, non si sapeva partire. Avvenne adunque che dopo lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de’ suoi si risentì, e levato il capo ed aperti gli occhi, e veggendosi sopra il suo bastone appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte, e disse: — Cimone, che vai tu a questa ora per questo bosco cercando? — Era Cimone, sì per la sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltá e ricchezza del padre, quasi noto a ciascun del paese. Egli non rispose alle parole d’Efigenia alcuna cosa: ma come gli occhi di lei vide aperti, cosí in quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli che da quegli una soavitá si movesse la quale il riempiesse di piacere mai da lui non provato. Il che la giovane veggendo, cominciò a dubitare non quel suo guardar così fiso movesse la sua rusticitá ad alcuna cosa che vergogna le potesse tornare; per che, chiamate le sue femine, si levò su dicendo: — Cimone, riman’ti con Dio. — A cui allora Cimon rispose: — Io ne verrò teco. — E quantunque la giovane sua compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir noi potè infino a tanto che egli non l’ebbe infino alla casa di lei accompagnata: e di quindi n’andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa piú in villa voler ritornare; il che quantunque grave fosse al padre ed a’ suoi, pure il lasciarono stare, aspettando di vedere qual cagion fosse quella che fatto gli avesse mutar consiglio. Essendo adunque a Cimone nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta d’Amore per la bellezza d’Efigenia, in brevissimo tempo, d’uno in altro pensier pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro che il conoscea. Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di vestimenti e d’ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano, il che il padre contentissimo fece. Quindi, usando co’ giovani valorosi ed udendo i modi li quali a’ gentili uomini si convenieno, e massimamente agl’innamorati, prima, con grandissima ammirazione d’ognuno, in assai brieve spazio di tempo non solamente le prime lettere apparò, ma valorosissimo tra’ filosofanti divenne; ed appresso questo, essendo di tutto ciò cagione l’amore il quale ad Efigenia portava, non solamente la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e nelle cose belliche, cosí marine come di terra, espertissimo e feroce divenne. Ed in brieve, acciò che io non vada ogni particular cosa delle sue vertú raccontando, egli non si compiè il quarto anno dal dí del suo primiero innamoramento, che egli riuscí il piú leggiadro ed il meglio costumato e con piú particulari vertú che altro giovane alcuno che nell’isola fosse di Cipri. Che adunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l’alte vertú dal cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa fortuna in piccolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti amor ruppe e spezzò, sí come molto piú potente di lei; e come eccitatore degli addormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui suggetti ed in quale gli conduca co’ raggi suoi. Cimone adunque, quantunque, amando Efigenia, in alcune cose, sí come i giovani amanti molto spesso fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo, considerando che amor l’avesse di montone fatto tornare uno uomo, non solo pazientemente il sostenea, ma in seguir ciò in tutti i suoi piaceri il confortava. Ma Cimone, che d’esser chiamato Galeso rifiutava, ricordandosi che cosí da Efigenia era stato chiamato, volendo onesto fine porre al suo disio, piú volte fece tentare Cipseo, padre d’Efigenia, che lei per moglie gli dovesse dare: ma Cipseo rispose sempre, sé averla promessa a Pasimunda, nobile giovane rodiano, al quale non intendeva venirne meno. Ed essendo delle pattovite nozze d’Efigenia venuto il tempo, ed il marito mandato per lei, disse seco Cimone: — Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me amata. Io son per te divenuto uomo, e se io ti posso avere, io non dubito di non divenire piú glorioso che alcuno iddio: e per certo io t’avrò o io morrò. — E cosí detto, tacitamente alquanti nobili giovani richesti che suoi amici erano, e fatto segretamente un legno armare con ogni cosa opportuna a battaglia navale, si mise in mare, attendendo il legno sopra il quale Efigenia trasportata doveva essere in Rodi al suo marito. La quale, dopo molto onore fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare, verso Rodi dirizzaron la proda ed andâr via. Cimone, il quale non dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopraggiunse, e d’in su la proda a quegli che sopra il legno d’Efigenia erano, forte gridò: — Arrestatevi, calate le vele, o voi aspettate d’esser vinti e sommersi in mare. — Gli avversari di Cimone avevano l’armi tratte sopra coverta e di difendersi s’apparecchiavano; per che Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quello sopra la poppa de’ rodiani, che via andavan forte, gittò, e quella alla proda del suo legno per forza congiunse: e fiero come un leone, senza altro séguito d’alcuno aspettare, sopra la nave de’ rodian saltò, quasi tutti per niente gli avesse, e spronandolo amore, con maravigliosa forza tra’ nemici con un coltello in man si mise, ed or questo ed or quello fedendo, quasi pecore gli abbattea. Il che veggendo i rodiani, gittando in terra l’armi, quasi ad una voce tutti si confessaron prigioni. Alli quali Cimon disse: — Giovani uomini, né vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assalire: quello che mi mosse è a me grandissima cosa ad avere acquistata ed a voi è assai leggera a concederlami con pace, e cioè Efigenia da me sopra ogni altra cosa amata, la quale non potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come nemico e con l’armi m’ha costretto amore ad acquistarla; e per ciò intendo io d’esserle quello che esserle dovea il vostro Pasimunda: datelami, ed andate con la grazia di Dio. — I giovani, li quali piú forza che liberalitá costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon concedettono; il quale, veggendola piagnere, disse: — Nobile donna, non ti sconfortare; io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t’ho molto meglio meritata d’avere che Pasimunda per promessa fede. — Tornossi adunque Cimone, lei giá avendo sopra la sua nave fatta portare, senza alcuna altra cosa toccare de’ rodiani, a’ suoi compagni, e loro lasciò andare. Cimone adunque, piú che altro uomo contento dell’acquisto di cosí cara preda, poi che alquanto di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare, diliberò co’ suoi compagni non essere da tornare in Cipri al presente; per che, di pari diliberazion di tutti, verso Creti, dove quasi ciascuno, e massimamente Cimone, per antichi parentadi e novelli e per molta amistá si credevano insieme con Efigenia esser sicuri, dirizzaron la proda della lor nave. Ma la fortuna, la quale assai lietamente l’acquisto della donna avea conceduto a Cimone, non istabile, subitamente in tristo ed amaro pianto mutò l’inestimabile letizia dello ’nnamorato giovane. Egli non erano ancora quattro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando, sopravvegnente la notte, la quale Cimone piú piacevole che alcuna altra sentita giá mai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e tempestoso, il quale il cielo di nuvoli ed il mare di pistilenziosi venti riempié; per la qual cosa né poteva alcun veder che si fare o dove andarsi, né ancora sopra la nave tenersi a dover fare alcun servigio. Quanto Cimone di ciò si dolesse, non è da domandare. Egli pareva che gl’iddii gli avessero conceduto il suo disio acciò che piú noia gli fosse il morire, del quale senza esso prima si sarebbe poco curato. Dolevansi similmente i suoi compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte piagnendo ed ogni percossa dell’onda temendo: e nel suo pianto aspramente maladiceva l’amor di Cimone e biasimava il suo ardire, affermando, per niuna altra cosa quella tempestosa fortuna esser nata, se non perché gl’iddii non volevano che colui il quale lei contra li lor piaceri voleva aver per isposa, potesse del suo presuntuoso disidèro godere, ma veggendo lei prima morire, egli appresso miseramente morisse. Con cosí fatti lamenti e con maggiori, non sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il vento piú forte, senza sapere o conoscere dove s’andassero, vicini all’isola di Rodi pervennero: né conoscendo per ciò che Rodi si fosse quella, con ogni ingegno, per campar le persone, si sforzarono di dovere in essa pigliar terra, se si potesse. Alla qual cosa la fortuna fu favorevole, e lor perdusse in un piccolo seno di mare nel quale poco avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano con la lor nave pervenuti: né prima s’accorsero sé avere all’isola di Rodi afferrato, che, surgendo l’aurora ed alquanto rendendo il cielo piú chiaro, si videro forse per una tratta d’arco vicini alla nave il giorno davanti da lor lasciata; della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse quello che gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse ad uscir quindi, e poi dove alla fortuna piacesse, gli trasportasse, per ciò che in alcuna parte peggio che quivi esser non poteano. Le forze si misero grandi a dovere di quindi uscire, ma invano: il vento potentissimo poggiava in contrario, intanto che, non che essi del piccol seno uscir potessero, ma, o volessero o no, gli sospinse alla terra. Alla quale come pervennero, dalli marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti; de’ quali prestamente alcun corse ad una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani n’erano andati, e loro narrò, quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave per fortuna, sí come loro, essere arrivati. Costoro, udendo questo lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare: e Cimone che, giá co’ suoi disceso, aveva preso consiglio di fuggire in alcuna selva vicina, insieme tutti con Efigenia furon presi ed alla villa menati, e di quindi, venuto dalla cittá Lisimaco, appo il quale quello anno era il sommo maestrato de’ rodiani, con grandissima compagnia d’uomini d’arme, Cimone ed i suoi compagni tutti ne menò in prigione, sí come Pasimunda, al quale le novelle eran venute, aveva col senato di Rodi, dolendosi, ordinato. In cosí fatta guisa il misero ed innamorato Cimone perdé la sua Efigenia poco davanti da lui guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bascio. Efigenia da molte nobili donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata sí del dolore avuto della sua presura e sí della fatica sostenuta del turbato mare, ed appo quelle stette infino al giorno diterminato alle sue nozze. A Cimone ed a’ suoi compagni, per la libertá il dí davanti data a’ giovani rodiani, fu donata la vita, la qual Pasimunda a suo poter sollecitava di far lor tôrre, ed a prigion perpetua fûr dannati; nella quale, come si può credere, dolorosi stavano e senza speranza mai d’alcun piacere. Pasimunda quanto poteva l’apprestamento sollecitava delle future nozze: ma la fortuna, quasi pentuta della subita ingiuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua salute. Aveva Pasimunda un fratello, minor di tempo di lui ma non di vertú, il quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover tôrre per moglie una nobile giovane e bella della cittá, ed era chiamata Cassandrea, la quale Lisimaco sommamente amava: ed erasi il matrimonio per diversi accidenti piú volte frastornato. Ora, veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa celebrare le sue nozze, pensò ottimamente esser fatto se in questa medesima festa, per non tornare piú alle spese ed al festeggiare, egli potesse fare che Ormisda similmente menasse moglie; per che co’ parenti di Cassandrea rincominciò le parole e perdussele ad effetto, ed insieme egli ed il fratello con loro diliberarono che quel medesimo di che Pasimunda menasse Efigenia, quello Ormisda menasse Cassandrea. La qual cosa sentendo Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua speranza privare, nella quale portava, se Ormisda non la prendesse, fermamente doverla avere egli: ma sí come savio, la noia sua dentro tenne nascosa, e cominciò a pensare in che maniera potesse impedire che ciò non avesse effetto, né alcuna via vide possibile se non il rapirla. Questo gli parve agevole per l’uficio il quale aveva, ma troppo piú disonesto il reputava che se l’uficio non avesse avuto: ma in brieve, dopo lunga diliberazione, l’onestá die’ luogo ad amore, e prese per partito, che che avvenirne dovesse, di rapir Cassandrea. E pensando della compagnia che a far questo dovesse avere e dell’ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone il quale co’ suoi compagni in prigione avea, ed imaginò, niuno altro compagno migliore né piú fido dover potere avere che Cimone in questa cosa; per che la seguente notte occultamente nella sua camera il fe’ venire e cominciògli in cotal guisa a favellare: — Cimone, cosí come gl’iddíi sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, cosí sono sagacissimi provatori delle lor vertú, e coloro li quali essi truovano fermi e costanti a tutti i casi, sí come piú valorosi, di piú alti meriti fanno degni. Essi hanno della tua vertú voluta piú certa esperienza che quella che per te si fosse potuta mostrare dentro a’ termini della casa del padre tuo, il quale io conosco abbondantissimo di ricchezze: e prima con le pugnenti sollecitudini d’amore da insensato animale, sí come io ho inteso, ti recarono ad essere uomo, poi con dura fortuna ed al presente con noiosa prigione voglion veder se l’animo tuo si muta da quello che era quando poco tempo lieto fosti della guadagnata preda; il quale se quel medesimo è che giá fu, niuna cosa tanto lieta ti prestarono quanto è quella che al presente s’apparecchiano a donarti, la quale, acciò che tu l’usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo di dimostrarti. Pasimunda, lieto della tua disavventura e sollecito procuratore della tua morte, quanto può s’affretta di celebrare le nozze della tua Efigenia, acciò che in quelle goda della preda la qual prima lieta fortuna t’avea conceduta e subitamente turbata ti tolse; la qual cosa quanto ti debba dolere se cosí ami come io credo, per me medesimo il conosco, al quale pari ingiuria alla tua in un medesimo giorno Ormisda suo fratello s’apparecchia di fare a me di Cassandrea, la quale io sopra tutte l’altre cose amo. Ed a fuggire tanta ingiuria e tanta noia della fortuna, niuna via ci veggio da lei essere stata lasciata aperta se non la vertú de’ nostri animi e delle nostre destre, nelle quali aver ci convien le spade e farci far via, a te alla seconda rapina ed a me alla prima delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo’ dir libertá, la qual credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t’è cara di riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l’hanno posta gl’iddii. — Queste parole tutto feciono lo smarrito animo ritornare in Cimone, e senza troppo rispitto prendere alla risposta, disse: — Lisimaco, né piú forte né piú fido compagno di me puoi avere a cosí fatta cosa, se quel me ne dèe seguire che tu ragioni: e per ciò quello che a te pare che per me s’abbia a fare, impon’lomi, e vedera’ti con maravigliosa forza seguire. — Al quale Lisimaco disse: — Oggi al terzo dì le novelle spose entreranno primieramente nelle case de’ lor mariti, nelle quali tu co’ tuoi compagni armato ed io con alquanti miei ne’ quali io mi fido assai, in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de’ conviti rapite, ad una nave la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo chiunque ciò contrastar presummesse. — Piacque l’ordine a Cimone, e tacito infino al tempo posto si stette in prigione. Venuto il giorno delle nozze, la pompa fu grande e magnifica, ed ogni parte della casa de’ due fratelli fu di lieta festa ripiena. Lisimaco, ogni cosa opportuna avendo apprestata, Cimone ed i suoi compagni e similmente i suoi amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali cautamente l’una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire il salire sopra la nave quando bisognasse: e con l’altre due alle case di Pasimunda venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun dentro non gli potesse rinchiudere o a loro l’uscita vietare, e col rimanente insieme con Cimone montò su per le scale. E pervenuti nella sala dove le nuove spose con molte altre donne giá a tavola erano per mangiare assettate ordinatamente, fattisi innanzi e gittate le tavole in terra, ciascun prese la sua e nelle braccia de’ compagni messala, comandarono che alla nave apprestata le menassero di presente. Le novelle spose cominciarono a piagnere ed a gridare, ed il simigliante l’altre donne ed i servidori: e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno. Ma Cimone e Lisimaco ed i lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contrasto data loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero: e quelle scendendo, occorse lor Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva, cui animosamente Cimone sopra la testa fedì e ricisegliele ben mezza, e morto sel fece cadere a’piedi; all’aiuto del quale correndo il misero Ormisda, similmente da un de’ colpi di Cimone fu ucciso, ed alcuni altri che appressarsi vollero, da’ compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati indietro furono. Essi, lasciata piena la casa di sangue e di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno impedimento, stretti insieme con la loro rapina alla nave pervennero; sopra la quale messe le donne e saliti essi e tutti i lor compagni, essendo giá il lito pieno di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de’ remi in acqua, lieti andaron pe’ fatti loro. E pervenuti in Creti, quivi da molti ed amici e parenti lietamente ricevuti furono, e sposate le donne e fatta la festa grande, lieti della loro rapina goderono.
- In Cipri ed in Rodi furono i romori ed i turbamenti grandi e lungo tempo per le costoro opere; ultimamente, interponendosi e nell’un luogo e nell’altro gli amici ed i parenti di costoro, trovaron modo che, dopo alcuno esilio, Cimone con Efigenia lieto si tornò in Cipri e Lisimaco similmente con Cassandrea ritornò in Rodi: e ciascun lietamente con la sua visse lungamente contento nella sua terra.
- [II]
- Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi; palesaglisi, ed egli, grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
- La reina, finita sentendo la novella di Panfilo, poscia che molto commendata l’ebbe, ad Emilia impose che, una dicendone, seguitasse; la quale cosí cominciò:
- Ciascun si dèe meritamente dilettare di quelle cose alle quali egli vede i guiderdoni secondo l’affezioni seguitare: e per ciò che amare merita piú tosto diletto che afflizione a lungo andare, con molto mio maggior piacere, della presente materia parlando, ubidirò la reina che della precedente non feci il re.
- Dovete adunque, dilicate donne, sapere che vicin di Cicilia è una isoletta chiamata Lipari, nella quale, non è ancor gran tempo, fu una bellissima giovane chiamata Gostanza, d’assai orrevoli genti dell’isola nata, della quale un giovane che dell’isola era, chiamato Martuccio Gomito, assai leggiadro e costumato e nel suo mestier valoroso, s’innamorò. La quale sì di lui similmente s’accese, che mai ben non sentiva se non quanto il vedeva; e disiderando Martuccio d’averla per moglie, al padre di lei la fece addomandare, il quale rispose, lui esser povero, e per ciò non volergliele dare. Martuccio, sdegnato di vedersi per povertá rifiutare, con certi suoi amici e parenti giurò di mai in Lipari non tornare se non ricco: e quindi partitosi, corseggiando cominciò a costeggiare la Barberia, rubando ciascuno che meno poteva di lui; nella qual cosa assai gli fu favorevole la fortuna, se egli avesse saputo porre modo alle felicitá sue. Ma non bastandogli d’essere egli ed i suoi compagni in brieve tempo divenuti ricchissimi, mentre che di trasricchire cercavano, avvenne che da certi legni di saracini, dopo lunga difesa, co’ suoi compagni fu preso e rubato: e di lor la maggior parte da’ saracini mazzerati ed isfondolato il legno, esso, menato a Tunisi, fu messo in prigione ed in lunga miseria guardato. In Lipari tornò, non per uno o per due ma per molte e diverse persone, la novella che tutti quegli che con Martuccio erano sopra il legnetto erano stati annegati. La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, udendo lui con gli altri esser morto, lungamente pianse, e seco dispose di non voler piú vivere, e non sofferendole il cuore di se medesima con alcuna violenza uccidere, pensò nuova necessitá dare alla sua morte: ed uscita segretamente una notte di casa il padre ed al porto venutasene, trovò per ventura alquanto separata dall’altre navi una navicella di pescatori, la quale, per ciò che pure allora smontati n’erano i signori di quella, d’albero e di vela e di remi la trovò fornita. Sopra la quale prestamente montata e co’ remi alquanto in mar tiratasi, ammaestrata alquanto dell’arte marineresca, sí come generalmente tutte le femine in quella isola sono, fece vela e gittò via i remi ed il timone, ed al vento tutta si commise, avvisando dover di necessitá avvenire o che il vento barca senza carico e senza governator rivolgesse o ad alcuno scoglio la percotesse e rompesse; di che ella, eziandio se campar volesse, non potesse, ma di necessitá annegasse: ed avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca piagnendo si mise a giacere. Ma tutto altramenti addivenne che ella avvisato non avea: per ciò che, essendo quel vento che traeva, tramontana, e questo assai soave, e non essendo quasi mare, e ben reggente la barca, il seguente di alla notte che sú montata v’era, in sul vespro, ben cento miglia sopra Tunisi ad una piaggia vicina ad una cittá chiamata Susa ne la portò. La giovane d’esser piú in terra che in mare niente sentiva, si come colei che mai per alcuno accidente da giacere non aveva il capo levato né di levare intendeva. Era allora per ventura, quando la barca fedí sopra il lito, una povera feminetta alla marina, la quale levava dal sole reti di suoi pescatori; la quale, veggendo la barca, si maravigliò come con la vela piena fosse lasciata percuotere in terra: e pensando che in quella i pescator dormissono, andò alla barca e niuna altra persona che questa giovane vi vide, la quale essa lei, che forte dormiva, chiamò molte volte, ed alla fine fattala risentire ed all’abito conosciutala che cristiana era, parlando latino la domandò come fosse che ella quivi in quella barca cosí soletta fosse arrivata. La giovane, udendo la favella latina, dubitò non forse altro vento l’avesse a Lipari ritornata, e subitamente levatasi in piè, riguardò attorno, e non conoscendo le contrade e veggendosi in terra, domandò la buona femina dove ella fosse. A cui la buona femina rispose: — Figliuola mia, tu se’ vicina a Susa in Barberia. — Il che udito, la giovane, dolente che Iddio non l’aveva voluto la morte mandare, dubitando di vergogna e non sappiendo che farsi, a piè della sua barca a seder postasi, cominciò a piagnere. La buona femina, questo veggendo, ne le prese pietá, e tanto la pregò, che in una sua capannetta la menò: e quivi tanto la lusingò, che ella le disse come quivi arrivata fosse; per che, sentendola la buona femina essere ancor digiuna, suo pan duro ed alcun pesce ed acqua l’apparecchiò, e tanto la pregò, che ella mangiò un poco. La Gostanza appresso domandò chi fosse la buona femina che cosí latin parlava; a cui ella disse che da Trapani era ed aveva nome Carapresa e quivi serviva certi pescatori cristiani. La giovane, udendo dire «Carapresa», quantunque dolente fosse molto, e non sappiendo ella stessa che ragione a ciò la si movesse, in se stessa prese buono agurio d’aver questo nome udito, e cominciò a sperar senza saper che ed alquanto a cessare il disidèro della morte: e senza manifestar chi si fosse né donde, pregò caramente la buona femina che per l’amor di Dio avesse misericordia della sua giovanezza e che alcun consiglio le desse per lo quale ella potesse fuggire che villania fatta non le fosse. Carapresa, udendo costei, a guisa di buona femina, lei nella capannetta lasciata, prestamente raccolte le sue reti, a lei ritornò, e tutta nel suo mantello stesso chiusala, in Susa con seco la menò, e quivi pervenuta, le disse: — Gostanza, io ti menerò in casa d’una bonissima donna saracina, alla quale io fo molto spesso servigio di sue bisogne, ed ella è donna antica e misericordiosa; io le ti raccomanderò quanto io potrò il piú, e certissima sono che ella ti riceverá volentieri e come figliuola ti tratterá, e tu, con lei stando, t’ingegnerai a tuo potere, servendola, d’acquistare la grazia sua infino a tanto che Iddio ti mandi miglior ventura. — E come ella disse, cosí fece. La donna, la quale vecchia era oramai, udita costei, guardò la giovane nel viso e cominciò a lagrimare, e presala, le basciò la fronte e poi per la mano nella sua casa ne la menò, nella quale ella con alquante altre femine dimorava senza alcuno uomo, e tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di palma, di cuoio diversi lavoríi faccendo; de’ quali la giovane in pochi dí apparò a fare alcuno, e con loro insieme incominciò a lavorare, ed in tanta grazia e buono amore venne della buona donna e dell’altre, che fu maravigliosa cosa: ed in poco spazio di tempo, mostrandogliele esse, il lor linguaggio apparò. Dimorando adunque la giovane in Susa, essendo giá stata a casa sua pianta per perduta e per morta, avvenne che, essendo re di Tunisi uno che si chiamava Meriabdelá, un giovane di gran parentado e di molta potenza il quale era in Granata, dicendo che a lui il reame di Tunisi apparteneva, fatta grandissima moltitudine di gente, sopra il re di Tunisi se ne venne, per cacciarlo del regno. Le quali cose venendo agli orecchi a Martuccio Gomito in prigione, il quale molto bene sapeva il barbaresco, ed udendo che il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua difesa, disse ad un di quegli li quali lui ed i suoi compagni guardavano: — Se io potessi parlare al re, el mi dá il cuore che io gli darei un consiglio per lo quale egli vincerebbe la guerra sua. — La guardia disse queste parole al suo signore, il quale al re il rapportò incontanente; per la qual cosa il re comandò che Martuccio gli fosse menato, e domandato da lui che consiglio il suo fosse, gli rispose cosi: — Signor mio, se io ho bene posto mente, in altro tempo che io in queste vostre contrade usato sono, alla maniera la quale tenete nelle vostre battaglie, mi pare che piú con arceri che con altro quelle facciate: e per ciò, ove si trovasse modo che agli arceri del vostro avversario mancasse il saettamento ed i vostri n’avessero abbondevolmente, io avviso che la vostra battaglia si vincerebbe. — A cui il re disse: — Senza dubbio, se cotesto si potesse fare, io mi crederei essere vincitore. — Al quale Martuccio disse: — Signor mio, dove voi vogliate, egli si potrá ben fare, ed udite come. A voi convien far fare corde molto piú sottili agli archi de’ vostri arceri che quelle che per tutti comunalmente s’usano, ed appresso far fare saettamento, le cocche del quale non sien buone se non a queste corde sottili: e questo convien che sia si segretamente fatto, che il vostro avversario nol sappia, per ciò che egli ci troverebbe modo. E la cagione per che io dico questo, è questa: poi che gli arceri del vostro nemico avranno il suo saettamento saettato ed i vostri il suo, sapete che di quello che i vostri saettato avranno, converrá, durando la battaglia, che i vostri nemici ricolgano, ed a’ nostri converrá ricoglier del loro: ma gli avversari non potranno il saettamento saettato da’ vostri adoperare, per le piccole cocche che non riceveranno le corde grosse, dove a’ nostri avverrá il contrario del saettamento de’ nemici, per ciò che la sottil corda riceverá ottimamente la saetta che avrá larga cocca; e cosí i vostri saranno di saettamento copiosi, dove gli altri n’avranno difetto. — Al re, il quale savio signore era, piacque il consiglio di Martuccio: ed interamente seguitolo, per quello trovò la sua guerra aver vinta; laonde sommamente Martuccio venne nella sua grazia, e per conseguente in grande e ricco stato. Corse la fama di queste cose per la contrada, ed agli orecchi della Gostanza pervenne, Martuccio Gomito esser vivo, il quale lungamente morto aveva creduto; per che l’amor di lui, giá nel cuor di lei intiepidito, con subita fiamma si raccese e divenne maggiore e la morta speranza suscitò. Per la qual cosa alla buona donna con cui dimorava interamente ogni suo accidente aperse, e le disse, sé disiderare d’andare a Tunisi, acciò che gli occhi saziasse di ciò che gli orecchi con le ricevute voci fatti gli aveano disiderosi. La quale il suo disidèro le lodò molto, e come sua madre stata fosse, entrata in una barca, con lei insieme a Tunisi andò, dove con la Gostanza in casa d’una sua parente fu ricevuta onorevolemente. Ed essendo con lei andata Carapresa, la mandò a sentire quello che di Martuccio trovar potesse: e trovato lui esser vivo ed in grande stato, e rappòrtogliele, piacque alla gentil donna di volere esser colei che a Martuccio significasse, quivi a lui esser venuta la sua Gostanza; ed andatasene un di lá dove Martuccio era, gli disse: — Martuccio, in casa mia è capitato un tuo servidore che vien da Lipari, e quivi ti vorrebbe segretamente parlare: e per ciò, per non fidarmene ad altri, sí come egli ha voluto, io medesima tel sono venuta a significare. — Martuccio la ringraziò ed appresso lei alla sua casa se n’andò. Quando la giovane il vide, presso fu che di letizia non mori: e non potendosene tenere, subitamente con le braccia aperte gli corse al collo ed abbracciollo, e per compassione de’ passati infortuni e per la presente letizia, senza potere alcuna cosa dire, teneramente cominciò a lagrimare. Martuccio, veggendo la giovane, alquanto maravigliandosi soprastette, e poi sospirando disse: — O Gostanza mia, or se’ tu viva? Egli è buon tempo che io intesi che tu perduta eri, né a casa nostra di te alcuna cosa si sapeva. — E questo detto, teneramente lagrimando l’abbracciò e basciò. La Gostanza gli raccontò ogni suo accidente e l’onor che ricevuto avea dalla gentil donna con la quale dimorata era. Martuccio, dopo molti ragionamenti da lei partitosi, al re suo signore n’andò e tutto gli raccontò, cioè gli suoi casi e quegli della giovane, aggiugnendo che, con sua licenza, intendeva secondo la nostra legge di sposarla. Il re si maravigliò di queste cose; e fatta la giovane venire e da lei udendo che cosí era come Martuccio aveva detto, disse: — Adunque l’hai tu per marito molto ben guadagnato. — E fatti venire grandissimi e nobili doni, parte a lei ne diede e parte a Martuccio, dando loro licenza di fare intra sé quello che piú fosse a grado a ciascuno. Martuccio, onorata molto la gentil donna con la quale la Gostanza dimorata era, e ringraziatala di ciò che in servigio di lei aveva adoperato e donatile doni quali a lei si confaceano ed accomandatala a Dio, non senza molte lagrime della Gostanza si partí; ed appresso, con licenza del re sopra un legnetto montati, e con lor Carapresa, con prospero vento a Lipari ritornarono, dove fu sí grande la festa, che dire non si potrebbe giá mai. Quivi Martuccio la sposò, e grandi e belle nozze fece, e poi appresso con lei insieme in pace ed in riposo lungamente goderono del loro amore.
- [III]
- Pietro Boccamazza si fugge con l’Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso, e delle mani de’ ladron fugge, e dopo alcuno accidente capita a quel castello dove l’Agnolella era, e sposatala, con lei se ne torna a Roma.
- Niuno ne fu tra tutti che la novella d’Emilia non commendasse, la quale conoscendo la reina esser finita, vòlta ad Elissa, che ella continuasse le ’mpose; la quale, d’ubidire disiderosa, incominciò:
- A me, vezzose donne, si para dinanzi una malvagia notte da due giovanetti poco discreti avuta: ma per ciò che ad essa seguitarono molti lieti giorni, sí come conforme al nostro proposito mi piace di raccontarla.
- In Roma, la quale come è oggi coda cosí giá fu capo del mondo, fu un giovane, poco tempo fa, chiamato Pietro Boccamazza, di famiglia tra le romane assai onorevole, il quale s’innamorò d’una bellissima e vaga giovane chiamata Agnolella, figliuola d’uno che ebbe nome Gigliuozzo Saullo, uomo plebeio ma assai caro a’ romani. Ed amandola, tanto seppe operare, che la giovane cominciò non meno ad amar lui che egli amasse lei. Pietro, da fervente amor costretto e non parendogli piú dover sofferir l’aspra pena che il disidèro che avea di costei gli dava, la domandò per moglie; la qual cosa come i
- suoi parenti seppero, tutti furono a lui e biasimarongli forte ciò che egli voleva fare; e d’altra parte, fecero dire a Gigliuozzo Saullo che a niun partito attendesse alle parole di Pietro, per ciò che, se il facesse, mai per amico né per parente l’avrebbero. Pietro, veggendosi quella via impedita per la qual sola si credeva potere al suo disio pervenire, volle morir di dolore, e se Gigliuozzo l’avesse consentito, contro al piacere di quanti parenti avea, per moglie la figliuola avrebbe presa: ma pur si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avrebbe effetto, e per interposita persona sentito che a grado l’era, con lei si convenne di doversi con lui di Roma fuggire. Alla qual cosa dato ordine, Pietro una mattina, per tempissimo levatosi, con lei insieme montò a cavallo, e presero il cammin verso Alagna, lá dove Pietro aveva certi amici de’ quali esso molto si confidava; e cosí cavalcando, non avendo spazio di far nozze, per ciò che temevano d’esser seguitati, del loro amore andando insieme ragionando, alcuna volta l’un l’altro basciava. Ora, avvenne che, non essendo a Pietro troppo noto il cammino, come forse otto miglia da Roma dilungati furono, dovendo a man destra tenere, si misero per una via a sinistra: né furono guari piú di due miglia cavalcati, che essi si videro vicini ad un castelletto del quale, essendo stati veduti, subitamente uscirono da dodici fanti; e giá essendo loro assai vicini, la giovane gli vide, per che gridando disse: — Pietro, campiamo, ché noi siamo assaliti! — E come seppe, verso una selva grandissima volse il suo ronzino, e tenendogli gli sproni stretti al corpo, attenendosi all’arcione, il ronzino, sentendosi pugnere, correndo per quella selva ne la portava. Pietro, che piú al viso di lei andava guardando che al cammino, non essendosi tosto come lei de’ fanti che venieno avveduto, mentre che egli, senza vedergli ancora, andava guardando donde venissero, fu da lor sopraggiunto e preso e fatto del ronzino smontare; e domandato chi egli era, ed avendol detto, costor cominciaron tra loro ad aver consiglio ed a dire: — Questi è degli amici de’ nemici nostri; che ne dobbián fare altro se non tôrgli que’ panni e quel ronzino ed impiccarlo per dispetto degli Orsini ad una di queste querce? — Ed essendosi tutti a questo consiglio accordati, avevano a Pietro comandato che si spogliasse; il quale spogliandosi, giá del suo male indovino, avvenne che un guato di ben venticinque fanti subitamente uscì addosso a costoro gridando: — Alla morte! alla morte! — Li quali, soprappresi da questo, lasciato star Pietro, si volsero alla lor difesa, ma veggendosi molti meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, e costoro a seguirgli; la qual cosa Pietro veggendo, subitamente prese le cose sue e salìsopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva a fuggire per quella via donde aveva veduto che la giovane era fuggita. Ma non veggendo per la selva né via né sentiero, né pedata di caval conoscendovi, poscia che a lui parve esser sicuro e fuor delle mani di coloro che preso l’aveano e degli altri ancora da cui quegli erano stati assaliti, non ritrovando la sua giovane, piú doloroso che altro uomo, cominciò a piagnere e ad andarla or qua or lá per la selva chiamando: ma niuna persona gli rispondeva, ed esso non ardiva a tornare addietro, ed andando innanzi non conosceva dove arrivar si dovesse; e d’altra parte, delle fiere che nelle selve sogliono abitare aveva ad una ora di se stesso paura e della sua giovane, la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare. Andò adunque questo Pietro sventurato tutto il giorno per questa selva gridando e chiamando, a tale ora tornando indietro che egli si credeva innanzi andare; e giá, tra per lo gridare e per lo piagnere e per la paura e per lo lungo digiuno, era sì vinto, che piú avanti non poteva. E veggendo la notte sopravvenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, trovata una grandissima quercia, smontato del ronzino, a quella il legò, ed appresso, per non esser dalle fiere divorato la notte, sú vi montò: e poco appresso, levatasi la luna ed il tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro ardire d’addormentarsi per non cadere, come che, perché pure agio avuto n’avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l’avrebber lasciato; per che egli, sospirando e piagnendo e seco la sua disavventura maladicendo, vegghiava. La giovane fuggendo, come davanti dicemmo, non sappiendo dove andarsi se non come il suo ronzino stesso dove piú gli pareva ne la portava, si mise tanto infra la selva, che ella non poteva vedere il luogo donde in quella entrata era; per che, non altramenti che avesse fatto Pietro, tutto il dí, ora aspettando ed ora andando, e piagnendo e chiamando e della sua sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo s’andò avvolgendo. Alla fine, veggendo che Pietro non venia, essendo giá vespro, s’abbatté ad un sentieruolo, per lo qual messasi, e seguitandolo il ronzino, poi che piú di due miglia fu cavalcata, di lontano si vide davanti una casetta, alla quale essa come piú tosto potè se n’andò: e quivi trovò un buono uomo attempato molto con una sua moglie che similmente era vecchia, li quali, quando la videro sola, dissero: — O figliuola, che vai tu a questa ora cosí sola faccendo per questa contrada? — La giovane piagnendo rispose che aveva la sua compagnia nella selva smarrita, e domandò come presso fosse Alagna; a cui il buono uomo rispose: — Figliuola mia, questa non è la via d’andare ad Alagna; egli ci ha delle miglia piú di dodici. — Disse allora la giovane: — E come ci sono abitanze presso da potere albergare? — A cui il buono uomo rispose: — Non ci sono in luogo niun sí presso, che tu di giorno vi potessi andare. — Disse la giovane allora: — Piacerebbevi egli, poi che altrove andar non posso, di qui ritenermi per l’amor di Dio stanotte? — Il buono uomo rispose: — Giovane, che tu con noi ti rimanga per questa sera n’è caro; ma tuttavia ti vogliam ricordare che per queste contrade e di dí e di notte e d’amici e di nemici vanno di male brigate assai, le quali molte volte ne fanno di gran dispiaceri e di gran danni; e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuno, e veggendoti bella e giovane come tu se’, e ti farebbono dispiacere e vergogna, e noi non te ne potremmo aiutare. Vogliamelo aver detto, acciò che tu poi, se questo avvenisse, non ti possi di noi ramaricare. — La giovane, veggendo che l’ora era tarda, ancora che le parole del vecchio la spaventassero, disse: — Se a Dio piacerá, egli ci guarderá e voi e me di questa noia, la quale, se pur m’avvenisse, è molto men male esser dagli uomini straziata che sbranata per li boschi dalle fiere. — E cosí detto, discesa del suo ronzino, se n’entrò nella casa del povero uomo, e quivi con essoloro di quello che avevano poveramente cenò, ed appresso tutta vestita in su un lor letticello con loro insieme a giacer si gittò: né in tutta la notte di sospirar né di piagnere la sua sventura e quella di Pietro, del quale non sapea che si dovesse sperare altro che male, non rifinò. Ed essendo giá vicino al matutino, ella senti un gran calpestio di gente andare; per la qual cosa levatasi, se n’andò in una gran corte che la piccola casetta di dietro a sé avea, e veggendo dall’una delle parti di quella molto fieno, in quello s’andò a nascondere, acciò che, se quella gente quivi venisse, non fosse cosí tosto trovata. Ed appena di nasconder compiuta s’era, che coloro, che una gran brigata di malvagi uomini era, furono alla porta della piccola casa: e fattosi aprire e dentro entrati, e trovato il ronzin della giovane ancora con tutta la sella, domandaron chi vi fosse. Il buono uomo, non veggendo la giovane, rispose: — Niuna persona c’è altro che noi: ma questo ronzino, a cui che fuggito si sia, ci capitò iersera e noi cel mettemmo in casa acciò che i lupi nol manicassero. — Adunque, — disse il maggiore della brigata — sará egli buon per noi, poi che altro signore non ha. — Spartí adunque costor tutti per la piccola casa, parte n’andò nella corte, e poste giú lor lance e lor tavolacci, avvenne che uno di loro, non sappiendo altro che farsi, gittò la sua lancia nel fieno ed assai vicin fu ad uccidere la nascosa giovane, ed ella a palesarsi, per ciò che la lancia le venne allato alla sinistra poppa, tanto che col ferro le stracciò de’ vestimenti, laonde ella fu per mettere un grande strido temendo d’esser fedita: ma ricordandosi lá dove era, tutta riscossasi, stette cheta. La brigata, chi qua e chi lá, cotti lor cavretti e loro altra carne, e mangiato e bevuto, s’andaron pe’ fatti loro e menaronsene il ronzin della giovane. Ed essendo giá dilungati alquanto, il buono uomo cominciò a domandar la moglie: — Che fu della nostra giovane che iersera ci capitò, che io veduta non la ci ho poi che noi ci levammo? — La buona femina rispose che non sapea, ed andonne guatando. La giovane, sentendo coloro esser partiti, uscí del fieno; di che il buono uomo forte contento poi che vide che alle mani di coloro non era venuta, e faccendosi giá dí, le disse: — Omai che il dí ne viene, se ti piace, noi t’accompagneremo infino ad un castello che è presso di qui cinque miglia, e sarai in luogo sicuro: ma converratti venire a piè, per ciò che questa mala gente che ora di qui si parte, se n’ha menato il ronzin tuo. — La giovane, datasi pace di ciò, gli pregò per Dio che al castello la menassero; per che entrati in via, in su la mezza terza vi giunsero. Era il castello d’un degli Orsini, il quale si chiamava Liello di Campodifiore, e per ventura v’era una sua donna la qual bonissima e santa donna era: e veggendo la giovane, prestamente la riconobbe e con festa la ricevette, ed ordinatamente volle sapere come quivi arrivata fosse. La giovane gliele contò tutto. La donna, che conoscea similmente Pietro, sí come amico del marito di lei, dolente fu del caso avvenuto: ed udendo dove stato fosse preso, s’avvisò che morto fosse stato. Disse adunque alla giovane: — Poi che cosí è che di Pietro tu non sai, tu dimorerai qui meco infino a tanto che fatto mi verrá di potertene sicuramente mandare a Roma. — Pietro, stando sopra la quercia quanto piú doloroso esser potea, vide in sul primo sonno venir ben venti lupi, li quali tutti, come il ronzin videro, gli furon dintorno. Il ronzin sentendogli, tirata la testa, ruppe le cavezzine e cominciò a volersi fuggire, ma essendo intorniato e non potendo, gran pezza co’ denti e co’ calci si difese; alla fine da loro atterrato e strozzato fu e subitamente sventrato, e tutti pascendosi, senza altro lasciarvi che l’ossa, il divorarono ed andar via. Di che Pietro, al qual pareva del ronzino avere una compagnia ed un sostegno delle sue fatiche, forte sbigottí, ed imaginossi di non dover mai di quella selva potere uscire: ed essendo giá vicino al di, morendosi egli sopra la quercia di freddo, sí come quegli che sempre da torno guardava, si vide innanzi forse un miglio un grandissimo fuoco; per che, come fatto fu il dí chiaro, non senza paura della quercia disceso, verso lá si dirizzò e tanto andò, che a quello pervenne, dintorno al quale trovò pastori che mangiavano e davansi buon tempo, da’ quali esso per pietá fu raccolto. E poi che egli mangiato ebbe e fu riscaldato, contata loro la sua disavventura e come quivi solo arrivato fosse, gli domandò se in quelle parti fosse villa o castello dove egli andar potesse. I pastori dissero che ivi forse a tre miglia era un castello di Lielio di Campodifiore, nel quale al presente era la donna sua; di che Pietro contentissimo gli pregò che alcun di loro infino al castello l’accompagnasse, il che due di loro fecero volentieri. Al quale pervenuto Pietro, e quivi avendo trovato alcun suo conoscente, cercando di trovar modo che la giovane fosse per la selva cercata, fu da parte della donna fatto chiamare; il quale incontanente andò a lei, e veggendo con lei l’Agnolella, mai pari letizia non fu alla sua. Egli si struggea tutto d’andarla ad abbracciare, ma per vergogna la quale avea della donna, lasciava; e se egli fu lieto assai, la letizia della giovane veggendolo non fu minore. La gentil donna, raccoltolo e fattogli festa, ed avendo da lui ciò che intervenuto gli era, udito, il riprese molto di ciò che contro al piacer de’ parenti suoi far voleva: ma veggendo che egli era pure a questo disposto e che alla giovane aggradiva, disse: — In che m’affatico io? Costor s’amano, costor si conoscono; ciascuno è parimente amico del mio marito, ed il lor disidèro è onesto, e credo che egli piaccia a Dio, poi che l’uno dalle forche ha campato e l’altro dalla lancia ed ammenduni dalle fiere salvatiche: e però facciasi. — Ed a loro rivolta, disse: — Se pure questo v’è all’animo, di volere essere moglie e marito insieme, ed a me: facciasi, e qui le nozze s’ordinino alle spese di Liello; la pace poi tra voi ed i vostri parenti farò io ben fare. — Pietro lietissimo, e l’Agnolella piú, quivi si sposarono: e come in montagna si potè, la gentil donna fe’ loro onorevoli nozze, e quivi i primi frutti del loro amore dolcissimamente sentirono. Poi, ivi a parecchi dì, la donna insieme con loro montata a cavallo, e bene accompagnati, se ne tornarono a Roma, dove, trovati forte turbati i parenti di Pietro di ciò che fatto aveva, con loro in buona pace il ritornò: ed esso con molto riposo e piacere con la sua Agnolella infino alla lor vecchiezza si visse.
- [IV]
- Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio di Vaibona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
- Tacendosi Elissa, le lode ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò:
- Io sono stato da tante di voi tante volte morso perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi piagner v’imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io alquanto vi faccia ridere: e per ciò uno amore non da altra noia che di sospiri e d’una brieve paura con vergogna mescolata a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola intendo di raccontarvi.
- Non è adunque, valorose donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene e costumato il quale fu chiamato messer Lizio di Vaibona, a cui per ventura vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d’una sua donna chiamata madonna Giacomina; la quale oltre ad ogni altra della contrada, crescendo, divenne bella e piacevole: e per ciò che sola era al padre ed alla madre rimasa, sommamente da loro era amata ed avuta cara e con maravigliosa diligenza guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado. Ora, usava molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco della persona il quale era de’ Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del quale niuna altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano che fatto avrebbon d’un lor figliuolo; il quale, una volta ed altra veggendo la giovane bellissima e leggiadra e di laudevoli maniere e costumi, e giá da marito, di lei fieramente s’innamorò: e con gran diligenza il suo amore teneva occulto. Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente cominciò ad amare, di che Ricciardo fu forte contento: ed avendo molte volte avuta voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una, preso tempo ed ardire, le disse: — Caterina, io ti priego che tu non mi facci morire amando. — La giovane rispose subito: — Volesse Iddio che tu non facessi piú morir me! — Questa risposta molto di piacere e d’ardire aggiunse a Ricciardo; e dissele: — Per me non istará mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia. — La giovane allora disse: — Ricciardo, tu vedi quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti possi venire: ma se tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami, ed io la farò. — Ricciardo, avendo piú cose pensato, subitamente disse: — Caterina mia dolce, io non so alcuna via vedere, se giá tu non dormissi o potessi venire in sul verone che è presso al giardino di tuo padre, dove se io sapessi che tu di notte fossi, senza fallo io m’ingegnerei di venirvi, quantunque molto alto sia. — A cui la Caterina rispose: — Se quivi ti dá il cuor di venire, io mi credo ben far sí, che fatto mi verrá di dormirvi. — Ricciardo disse di sí: e questo detto, una volta sola si basciarono alla sfuggita, ed andar via. Il dí seguente, essendo giá vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò davanti alla madre a ramaricarsi che la passata notte per lo soperchio caldo non aveva potuto dormire. Disse la madre: — O figliuola, che caldo fa egli? Anzi non fa egli caldo veruno. — A cui la Caterina disse: — Madre mia, voi dovreste dire «a mio parere», e forse vi direste il vero: ma voi dovreste pensare quanto sieno piú calde le fanciulle che le donne attempate. — La donna disse allora: — Figliuola mia, cosí è il vero; ma io non posso fare caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti: i tempi si convengon pur sofferir fatti come le stagioni gli dánno; forse questa altra notte sará piú fresco e dormirai meglio. — Ora Iddio il voglia, — disse la Caterina — ma non suole essere usanza che, andando verso la state, le notti si vadano rinfrescando. — Adunque, — disse la donna — che vuoi tu che si faccia? — Rispose la Caterina: — Quando a mio padre ed a voi piacesse, io farei volentier fare un letticello in sul verone che è allato alla sua camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, ed udendo cantare l’usignuolo ed avendo il luogo piú fresco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo. — La madre allora disse: — Figliuola, confortati; io il dirò a tuo padre, e come egli vorrá, cosí faremo. — Le quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco ritrosetto, disse: — Che rusignuolo è questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto delle cicale. — Il che la Caterina sappiendo, piú per isdegno che per caldo, non solamente la seguente notte non dormí, ma ella non lasciò dormir la madre, pur del gran caldo dolendosi; il che avendo la madre sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse: — Messer, voi avete poco cara questa giovane; che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella non ha in tutta notte trovato luogo di caldo; ed oltre a ciò, maravigliatevi voi perché egli le sia in piacere l’udir cantar l’usignuolo, che è una fanciullina? I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro. — Messer Lizio, udendo questo, disse: — Via, faccialevisi un letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar da torno d’alcuna sargia: e dormavi ed oda cantar l’usignuolo a suo senno! — La giovane, saputo questo, prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente dormire, tanto attese che ella vide Ricciardo, e fecegli un segno posto tra loro, per lo quale egli intese ciò che far si dovea. Messer Lizio, sentendo la giovane essersi andata a letto, serrato uno uscio che della sua camera andava sopra il verone, similmente s’andò a dormire. Ricciardo, come d’ogni parte sentí le cose chete, con l’aiuto d’una scala salí sopra un muro, e poi d’in su quel muro appiccandosi a certe morse d’uno altro muro, con gran fatica e pericolo se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con grandissima festa dalla giovane fu ricevuto: e dopo molti basci si coricarono insieme e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l’un dell’altro, molte volte faccendo cantar l’usignuolo. Ed essendo le notti piccole ed il diletto grande, e giá al giorno vicino, il che essi non credevano, e sí ancora riscaldati sí dal tempo e sí dallo scherzare, senza alcuna cosa addosso s’addormentarono, avendo la Caterina col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini piú vi vergognate di nominare. Ed in cotal guisa dormendo senza svegliarsi, sopravvenne il giorno, e messer Lizio si levò: e ricordandosi la figliuola dormire sopra il verone, chetamente l’uscio aprendo, disse: — Lasciami vedere come l’usignuolo ha fatto questa notte dormire la Caterina. — Ed andato oltre pianamente, levò alto la sargia della quale il letto era fasciato, e Ricciardo e lei vide ignudi e scoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; ed avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s’uscí, ed andonne alla camera della sua donna e chiamolla, dicendo: — Su tosto, donna, lievati e vieni a vedere che tua figliuola è stata sí vaga dell’usignuolo, che ella l’ha preso e tienlosi in mano. — Disse la donna: — Come può questo essere? — Disse messer Lizio: — Tu il vedrai se tu vien’tosto. — La donna, affrettatasi di vestire, chetamente seguitò messer Lizio, e giunti ammenduni al letto e levata la sargia, potè manifestamente vedere madonna Giacomina come la figliuola avesse preso e tenesse l’usignuolo il quale ella tanto disiderava d’udir cantare. Di che la donna, tenendosi forte di Ricciardo ingannata, volle gridare e dirgli villania, ma messer Lizio le disse: — Donna, guarda che, per quanto tu hai caro il mio amore, tu non facci motto, ché in veritá, poscia che ella l’ha preso, egli si sará suo. Ricciardo è gentile uomo e ricco giovane; noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado: se egli si vorrá a buon concio da me partire, egli converrá che primieramente la sposi, sí che egli si troverá aver messo l’usignuolo nella gabbia sua e non nell’altrui. — Di che la donna racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto, e considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte ed erasi ben riposata ed aveva l’usignuol preso, si tacque. Né guari dopo queste parole stettero, che Ricciardo si svegliò: e veggendo che il giorno era chiaro, si tenne morto, e chiamò la Caterina, dicendo: — Oimè! anima mia, come faremo, che il giorno è venuto ed hammi qui colto? — Alle quali parole messer Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose: — Farén bene. — Quando Ricciardo il vide, parve che gli fosse il cuore del corpo strappato; e levatosi a sedere in sul letto, disse: — Signor mio, io vi cheggio mercé per Dio; io conosco, sí come disleale e malvagio uomo, aver meritata morte, e per ciò fate di me quello che piú vi piace: ben vi priego io, se esser può, che voi abbiate della mia vita mercé e che io non muoia. — A cui messer Lizio disse: — Ricciardo, questo non meritò l’amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te: ma pur, poi che cosí è, ed a tanto fallo t’ha trasportato la giovanezza, acciò che tu tolga a te la morte ed a me la vergogna, sposa per tua legittima moglie la Caterina, acciò che, come ella è stata questa notte tua, cosí sia mentre ella viverá; ed in questa guisa puoi e la mia pace e la tua salvezza acquistare: ed ove tu non vogli cosí fare, raccomanda a Dio l’anima tua. — Mentre queste parole si dicevano, la Caterina lasciò l’usignuolo, e ricopertasi, cominciò fortemente a piagnere ed a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse: e d’altra parte, pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò che con sicurtá e lungo tempo potessono insieme di cosí fatte notti avere. Ma a ciò non furono troppi prieghi bisogno, per ciò che d’una parte la vergogna del fallo commesso e la voglia dell’emendare, e d’altra la paura del morire ed il disidèro dello scampare, ed oltre a questo, l’ardente amore e l’appetito del possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire, sé essere apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva; per che messer Lizio, fattosi prestare a madonna Giacomina un de’ suoi anelli, quivi, senza mutarsi, in presenza di loro, Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina. La qual cosa fatta, messer Lizio e la donna partendosi, dissono: — Riposatevi oramai, ché forse maggior bisogno n’avete che di levarvi. — Partiti costoro, i giovani si rabbracciarono insieme, e non essendo piú che sei miglia camminati la notte, altre due anzi che si levassero ne camminarono, e fecer fine alla prima giornata. Poi levati, e Ricciardo avuto piú ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì appresso, sí come si convenia, in presenza degli amici e de’ parenti da capo sposò la giovane, e con gran festa se ne la menò a casa e fece onorevoli e belle nozze, e poi con lei lungamente in pace ed in consolazione uccellò agli usignuoli e di dí e di notte quanto gli piacque.
- [V]
- Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la qual Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffatisi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
- Aveva ciascuna donna, la novella dell’usignuolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan tenere. Ma pur, poi che alquanto ebbero riso, la reina disse: — Sicuramente, se tu ieri ci affliggesti, tu ci hai oggi tanto dileticate, che niuna meritamente di te si dèe ramaricare. — Ed avendo a Neifile le parole rivolte, le ’mpose che novellasse; la quale lietamente cosí cominciò a parlare:
- Poi che Filostrato, ragionando, in Romagna è entrato, a me per quella similmente gioverá d’andare alquanto spaziandomi col mio novellare.
- Dico adunque che giá nella cittá di Fano due lombardi abitarono, de’ quali l’un fu chiamato Guidotto da Cremona e l’altro Giacomin da Pavia, uomini omai attempati e stati nella lor gioventudine quasi sempre in fatti d’arme e soldati; dove, venendo a morte Guidotto, e niun figliuolo avendo né altro amico o parente di cui piú si fidasse che di Giacomin facea, una sua fanciulla d’etá forse di diece anni e ciò che egli al mondo avea, molto de’ suoi fatti ragionatogli, gli lasciò, e morissi. Avvenne in questi tempi che la cittá di Faenza, lungamente in guerra ed in mala ventura stata, alquanto in miglior disposizion ritornò, e fu a ciascun che ritornarvi volesse, liberamente conceduto il potervi tornare; per la qual cosa Giacomino, che altra volta dimorato v’era, e piacendogli la stanza, lá con ogni sua cosa
- si tornò, e seco ne menò la fanciulla lasciatagli da Guidotto, la quale egli come propria figliuola amava e trattava. La quale crescendo divenne bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse nella cittá: e cosí come era bella, era costumata ed onesta; per la qual cosa da diversi fu cominciata a vagheggiare, ma sopra tutti due giovani assai leggiadri e da bene igualmente le posero grandissimo amore, intanto che per gelosia insieme s’incominciarono ad avere in odio fuor di modo: e chiamavasi l’uno Giannole di Severino e l’altro Minghino di Mingole. Né era alcun di loro, essendo ella d’etá di quindici anni, che volentier non l’avesse per moglie presa, se da’ suoi parenti fosse stato sofferto; per che, veggendolasi per onesta cagion vietare, ciascuno a doverla, in quella guisa che meglio potesse, avere si diede a procacciare. Aveva Giacomino in casa una fante attempata ed un fante che Crivello aveva nome, persona sollazzevole ed amichevole assai, col quale Giannole dimesticatosi molto, quando tempo gli parve, ogni suo amor discoperse, pregandolo che a dovere il suo disidèro ottenere gli fosse favorevole, gran cose se ciò facesse promettendogli. Al quale Crivello disse: — Vedi, in questo io non potrei per te altro adoperare se non che, quando Giacomino andasse in alcuna parte a cenare, metterti lá dove ella fosse, per ciò che, volendole io dir parole per te, ella non mi starebbe mai ad ascoltare. Questo, se el ti piace, io il ti prometto, e farollo; fa’ tu poi, se tu sai, quello che tu creda che bene stea. — Giannole disse che piú non volea, ed in questa concordia rimase. Minghino, d’altra parte, aveva dimesticata la fante e con lei tanto adoperato, che ella avea piú volte ambasciate portate alla fanciulla e quasi del suo amor l’aveva accesa; ed oltre a questo, gli aveva promesso di metterlo con lei come avvenisse che Giacomino per alcuna cagione da sera fuori di casa andasse. Avvenne adunque, non molto tempo appresso queste parole, che, per opera di Crivello, Giacomino andò con un suo amico a cenare: e fattolo sentire a Giannole, compose con lui che, quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverebbe l’uscio aperto. La fante, d’altra parte, niente di questo sappiendo, fece sentire a Minghino che Giacomino non vi cenava, e gli disse che presso della casa dimorasse, sì che, quando vedesse un segno che ella farebbe, egli venisse ed entrassesene dentro. Venuta la sera, non sappiendo i due amanti alcuna cosa l’un dell’altro, ciascun, sospettando dell’altro, con certi compagni armati a dovere entrare in tenuta andò: Minghino co’ suoi a dovere il segno aspettar si ripose in casa d’un suo amico vicin della giovane; Giannole co’ suoi alquanto dalla casa stette lontano. Crivello e la fante, non essendovi Giacomino, s’ingegnavano di mandare l’un l’altro via. Crivello diceva alla fante: — Come non ti vai tu a dormire oramai? Che ti vai tu pure avviluppando per casa? — E la fante diceva a lui: — Ma tu perché non vai per signorto? Che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato? — E cosí l’uno non poteva l’altro far mutar di luogo. Ma Crivello, conoscendo l’ora posta con Giannole esser venuta, disse seco: — Che curo io di costei? Se ella non istará cheta, ella potrá aver delle sue. — E fatto il segno posto, andò ad aprir l’uscio: e Giannole prestamente venuto, con due de’ compagni andò dentro, e trovata la giovane nella sala, la presono per menarla via. La giovane cominciò a resistere ed a gridar forte, e la fante similmente; il che sentendo Minghino, prestamente co’ suoi compagni lá corse, e veggendo la giovane giá fuor dell’uscio tirare, tratte le spade fuori, gridaron tutti: — Ahi! traditori, voi siete morti; la cosa non andrá cosi; che forza è questa? — E questo detto, gl’incominciarono a fedire: e d’altra parte, la vicinanza, uscita fuori al romore e co’ lumi e con armi, cominciarono questa cosa a biasimare e ad aiutar Minghino; per che, dopo lunga contesa, Minghino tolse la giovane a Giannole e rimisela in casa di Giacomino: né prima si parti la mischia, che i sergenti del capitan della terra vi sopraggiunsero e molti di costor presero, e tra gli altri furon presi Minghino e Giannole e Crivello, ed in prigione menatine. Ma poi racquetata la cosa e Giacomino essendo tornato, e di questo accidente molto malinconoso, esaminando come stato fosse e trovato che in niuna cosa la giovane aveva colpa, alquanto si die’ piú pace, proponendo seco, acciò che piú simil caso non avvenisse, di doverla come piú tosto potesse maritare. La mattina venuta, i parenti dell’una parte e dell’altra, avendo la veritá del fatto sentita e conoscendo il male che a’ presi giovani ne poteva seguire volendo Giacomino quello adoperare che ragionevolmente avrebbe potuto, furono a lui, e con dolci parole il pregarono che alla ’ngiuria ricevuta dal poco senno de’ giovani non guardasse tanto, quanto all’amore ed alla benivolenza la qual credevano che egli a loro che il pregavano, portasse, offerendo appresso se medesimi ed i giovani che il male avean fatto ad ogni ammenda che a lui piacesse di prendere. Giacomino, il quale de’ suoi di assai cose vedute avea ed era di buon sentimento, rispose brievemente: — Signori, se io fossi a casa mia come io sono alla vostra, mi tengo io sì vostro amico, che né di questo né d’altro io non farei se non quanto vi piacesse: ed oltre a questo, piú mi debbo a’ vostri piaceri piegare in quanto voi a voi medesimi avete offeso, per ciò che questa giovane, forse come molti stimano, non è da Cremona né da Pavia, anzi è faentina, come che io né ella né colui da cui io l’ebbi non sapessimo mai di cui si fosse figliuola; per che, di quello che pregate, tanto sará per me fatto quanto me ne ’mporrete. — I valenti uomini, udendo costei essere di Faenza, si maravigliarono: e rendute grazie a Giacomino della sua liberale risposta, il pregarono che gli piacesse di dover loro dire come costei alle mani venuta gli fosse e come sapesse lei essere faentina; a’ quali Giacomin disse: — Guidotto da Cremona fu mio compagno ed amico: e venendo a morte, mi disse che quando questa cittá da Federigo imperadore fu presa, andatoci a ruba ogni cosa, egli entrò co’ suoi compagni in una casa, e quella trovò, di roba piena, esser dagli abitanti abbandonata, fuor solamente da questa fanciulla, la qual, d’etá di due anni o in quel torno, lui sagliente su per le scale chiamò padre; per la qual cosa a lui venuta di lei compassione, insieme con tutte le cose della casa seco ne la portò a Fano, e quivi morendo, con ciò che egli avea costei mi lasciò, imponendomi che, quando tempo fosse, io la maritassi e quello che stato fosse suo le dessi in dota. E venuta nell’etá da marito, non m’è venuto fatto di poterla dare a persona che mi piaccia: fare’l volentieri anzi che altro caso simile a quel d’iersera me n’avvenisse. — Era quivi intra gli altri un Guiglielmino da Medicina, che con Guidotto era stato a questo fatto, e molto ben sapeva la cui casa stata fosse quella che Guidotto avea rubata; e veggendolo ivi tra gli altri, gli s’accostò e disse: — Bernabuccio, odi tu ciò che Giacomin dice? — Disse Bernabuccio: — Sí, e testé vi pensava piú, per ciò che io mi ricordo che in quegli rimescolamenti io perdei una figlioletta di quella etá che Giacomin dice. — A cui Guiglielmino disse: — Per certo questa è dessa, per ciò che io mi trovai giá in parte ove io udii a Guidotto divisare dove la ruberia avesse fatta, e conobbi che la tua casa era stata: e per ciò rammèmorati se ad alcun segnale riconoscerla credessi, e fanne cercare, che tu troverai fermamente che ella è tua figliuola. — Per che pensando Bernabuccio, si ricordò lei dovere avere una margine a guisa d’una crocetta sopra l’orecchia sinistra, stata d’una nascenza che fatta l’avea poco davanti a quello accidente tagliare; per che, senza alcuno indugio pigliare, accostatosi a Giacomino che ancora era quivi, il pregò che in casa sua il menasse e veder gli facesse questa giovane. Giacomino il vi menò volentieri e lei fece venire dinanzi da lui; la quale come Bernabuccio vide, cosí tutto il viso della madre di lei, che ancora bella donna era, gli parve vedere: ma pur, non istando a questo, disse a Giacomino che di grazia voleva da lui poterle un poco levare i capelli sopra la sinistra orecchia, di che Giacomino fu contento. Bernabuccio, accostatosi a lei che vergognosamente stava, levati con la man dritta i capelli, la croce vide; laonde, veramente conoscendo lei essere la sua figliuola, teneramente cominciò a piagnere e ad abbracciarla, come che ella si contendesse, e vólto a Giacomin, disse: — Fratel mio, questa è mia figliuola; la mia casa fu quella che fu da Guidotto rubata, e costei nel furor subito vi fu dentro dalla mia donna e sua madre dimenticata, ed infino a qui creduto abbiamo che costei nella casa, che mi fu quel di stesso arsa, ardesse. — La giovane, udendo questo e veggendolo uomo attempato, e dando alle parole fede, e da occulta vertú mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a piagnere. Bernabuccio di presente mandò per la madre di lei e per altre sue parenti e per le sorelle e per li fratelli di lei, ed a tutti mostratala e narrando il fatto, dopo mille abbracciamenti, fatta la festa grande, essendone Giacomino forte contento, seco a casa sua ne la menò. Saputo questo il capitano della cittá, che valoroso uomo era, e conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di Bernabuccio e fratei carnal di costei, avvisò di volersi del fallo commesso da lui mansuetamente passare: ed intromessosi in queste cose, con Bernabuccio e con Giacomino insieme, a Giannole ed a Minghino fece far pace, ed a Minghino con gran piacer di tutti i suoi parenti diede per moglie la giovane, il cui nome era Agnesa, e con loro insieme liberò Crivello e gli altri che impacciati v’erano per questa cagione; e Minghino appresso lietissimo fece le nozze belle e grandi, ed a casa menatalasi, con lei in pace ed in bene poscia piú anni visse.
- [VI]
- Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggeri dell’Oria, campa e divien marito di lei.
- Finita la novella di Neifile, assai alle donne piaciuta, comandò la reina a Pampinea che a doverne alcuna dire si disponesse; la qual prestamente, levato il chiaro viso, incominciò:
- Grandissime forze, piacevoli donne, son quelle d’Amore, ed a gran fatiche ed a strabocchevoli e non pensati pericoli gli amanti dispongono, come per assai cose raccontate ed oggi ed altre volte comprender si può: ma nondimeno ancora con l’ardire d’un giovane innamorato m’aggrada di dimostrarlo.
- Ischia è una isola assai vicina di Napoli, nella quale fu giá tra l’altre una giovanetta bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta, e figliuola d’un gentile uom dell’isola che Marin Bolgaro avea nome; la quale un giovanetto che d’una isoletta ad Ischia vicina, chiamata Procida, era, e nominato Gianni, amava sopra la vita sua, ed ella lui. Il quale, non che il giorno da Procida ad usare ad Ischia per vederla venisse, ma giá molte volte di notte, non avendo trovata barca, da Procida infino ad Ischia notando era andato, per poter vedere, se altro non potesse, almeno le mura della sua casa. E durante questo amore cosí fervente avvenne che, essendo la giovane un giorno di state tutta soletta alla marina, di scoglio in iscoglio andando marine conche con un coltellino dalle pietre spiccando, s’avvenne in un luogo tra gli scogli riposto, nel quale, sí per l’ombra e sí per lo destro d’una fontana d’acqua freddissima che v’era, s’erano certi giovani ciciliani, che da Napoli venivano, con una lor fregata raccolti. Li quali, avendo la giovane veduta bellissima e che ancora lor non vedea, e veggendola sola, tra sé diliberarono di doverla pigliare e portarla via: ed alla diliberazione seguitò l’effetto. Essi, quantunque ella gridasse molto, presala, sopra la barca la misero ed andâr via: ed in Calavria pervenuti, furono a ragionamento di cui la giovane dovesse essere, ed in brieve ciascun la volea; per che, non trovandosi concordia tra loro, temendo essi di non venire a peggio e per costei guastare i fatti loro, vennero a concordia di doverla donare a Federigo re di Cicilia, il quale era allora giovane e di cosí fatte cose si dilettava: ed a Palermo venuti, così fecero. Il re, veggendola bella, l’ebbe cara: ma per ciò che cagionevole era alquanto della persona, infino a tanto che piú forte fosse, comandò che ella fosse messa in certe case bellissime d’un suo giardino il quale chiamavan la Cuba, e quivi servita; e cosí fu fatto. Il romore della rapita giovane fu in Ischia grande, e quello che piú lor gravava era che essi non potevan sapere chi si fossero stati coloro che rapita l’avevano. Ma Gianni, al quale piú che ad alcuno altro ne calea, non aspettando di doverlo in Ischia sentire, sappiendo verso che parte n’era la fregata andata, fattane armare una, sú vi montò, e quanto piú tosto potè, discorsa tutta la marina dalla Minerva infino alla Scalea in Calavria e per tutto della giovane investigando, nella Scalea gli fu detto, lei essere da marinai ciciliani portata via a Palermo; lá dove Gianni quanto piú tosto potè si fece portare, e quivi dopo molto cercare, trovato che la giovane era stata donata al re e per lui era nella Cuba guardata, fu forte turbato e quasi ogni speranza perdé, non che di doverla mai riavere, ma pur vedere. Ma pur, da amor ritenuto, mandatane la fregata, veggendo che da niun conosciuto v’era, si stette, e sovente dalla Cuba passando, gliele venne per ventura veduta un dì ad una finestra, ed ella vide lui; di che ciascun fu contento assai. E veggendo Gianni che il luogo era solingo, accostatosi come potè, le parlò, e da lei informato della maniera che a tenere avesse se piú da presso le volesse parlar, si partì, avendo prima per tutto considerata la disposizione del luogo; ed aspettata la notte, e di quella lasciata andar buona parte, lá se ne tornò, ed aggrappatosi per parti che non vi si sarebbono appiccati i picchi, nel giardin se n’entrò, ed in quello trovata un’antennetta, alla finestra dalla giovane insegnatagli l’appoggiò, e per quella assai leggermente se ne salì. La giovane, parendole il suo onore avere omai perduto, per la guardia del quale ella gli era alquanto nel passato stata salvatichetta, pensando a niuna persona piú degnamente che a costui potersi donare ed avvisando di poterlo inducere a portarla via, seco aveva preso di compiacergli in ogni suo disidèro, e per ciò aveva la finestra lasciata aperta, acciò che egli prestamente dentro potesse passare. Trovatala adunque Gianni aperta, chetamente se n’entrò dentro, ed alla giovane, che non dormiva, allato si coricò. La quale, prima che ad altro venissero, tutta la sua intenzion gli aperse, sommamente del trarla quindi e via portamela pregandolo; alla qual Gianni disse, niuna cosa quanto questa piacergli, e che senza alcun fallo, come da lei si partisse, in sì fatta maniera in ordine il metterebbe, che la prima volta che el vi tornasse, via ne la menerebbe. Ed appresso questo, con grandissimo piacere abbracciatisi, quel diletto presero oltre al quale niun maggiore ne puote Amor prestare; e poi che quello ebbero piú volte reiterato, senza accorgersene, nelle braccia l’un dell’altro s’addormentarono. Il re, al quale costei era molto nel primo aspetto piaciuta, di lei ricordandosi, sentendosi bene della persona, ancora che fosse al dí vicino, diliberò d’andare a starsi alquanto con lei; e con alcuno de’ suoi servidori chetamente se n’andò alla Cuba, e nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella quale sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n’entrò: e sopra il letto guardando, lei insieme con Gianni ignudi ed abbracciati vide dormire. Di che egli di subito si turbò fieramente ed in tanta ira montò, senza dire alcuna cosa, che a poco si tenne che quivi, con un coltello che allato avea, ammenduni non gli uccise; poi, estimando vilissima cosa essere a qualunque uom si fosse, non che ad un re, due ignudi uccidere dormendo, si ritenne, e pensò di volergli in publico e di fuoco far morire: e vòlto ad un sol compagno che seco aveva, disse: — Che ti par di questa rea femina in cui io giá la mia speranza avea posta? — Ed appresso il domandò se il giovane conoscesse che tanto d’ardire aveva avuto, che venuto gli era in casa a far tanto d’oltraggio e di dispiacere. Quegli che domandato era, rispose non ricordarsi d’averlo mai veduto. Partissi adunque il re turbato della camera e comandò che i due amanti, cosí ignudi come erano, fosser presi e legati, e come giorno chiaro fosse, fossero menati a Palermo ed in su la piazza legati ad un palo con le reni l’uno all’altro vòlte ed infino ad ora di terza tenuti, acciò che da tutti potessero esser veduti, ed appresso fossero arsi, sí come avean meritato; e cosí detto, se ne tornò in Palermo nella sua camera assai cruccioso. Partito il re, subitamente furon molti sopra i due amanti, e loro non solamente svegliarono, ma prestamente senza alcuna pietá presero e legarono; il che veggendo i due giovani, se essi furon dolenti e temettero della lor vita e piansero e ramaricaronsi, assai può essere manifesto. Essi furono, secondo il comandamento del re, menati in Palermo e legati ad un palo nella piazza, e davanti agli occhi loro fu la stipa ed il fuoco apparecchiato per dovergli ardere all’ora comandata dal re. Quivi subitamente tutti i palermitani ed uomini e donne concorsero a vedere i due amanti; gli uomini tutti a riguardar la giovane si traevano, e cosí come lei bella esser per tutto e ben fatta lodavano, cosí le donne, che a riguardare il giovane tutte correvano, lui d’altra parte esser bello e ben fatto sommamente commendavano. Ma gli sventurati amanti, ammenduni vergognandosi forte, stavano con le teste basse ed il loro infortunio piagnevano, d’ora in ora la crudel morte del fuoco aspettando. E mentre cosí infino all’ora diterminata eran tenuti, gridandosi per tutto il fallo da lor commesso e pervenendo agli orecchi di Rugger dell’Oria, uomo di valore inestimabile ed allora ammiraglio del re, per vedergli se n’andò verso il luogo dove erano legati; e quivi venuto, prima riguardò la giovane e commendolla assai di bellezza, ed appresso venuto il giovane a riguardare, senza troppo penare il riconobbe: e piú verso lui fattosi, il domandò se Gianni di Procida fosse. Gianni, alzato il viso e riconoscendo l’ammiraglio, rispose: — Signor mio, io fui ben giá colui di cui voi domandate, ma io sono per non esser piú. — Domandollo allora l’ammiraglio che cosa a quello l’avesse condotto; a cui Gianni rispose: — Amore e l’ira del re. — Fecesi l’ammiraglio piú la novella distendere, ed avendo ogni cosa udita da lui come stata era e partir volendosi, il richiamò Gianni e dissegli: — Deh! signor mio, se esser può, impetrami una grazia da chi cosí mi fa stare. — Roggeri domandò quale; a cui Gianni disse: — Io veggio che io debbo, e tostamente, morire; voglio adunque di grazia che, come io sono con questa giovane la quale io ho piú che la mia vita amata, ed ella me, con le reni a lei voltato, ed ella a me, che noi siamo co’ visi l’uno all’altro rivolti, acciò che, morendo io e veggendo il viso suo, io ne possa andar consolato. — Ruggeri ridendo disse: — Volentieri io farò si che tu la vedrai ancora tanto, che ti rincrescerá. — E partitosi da lui, comandò a coloro a’ quali imposto era di dovere questa cosa mandare ad esecuzione, che senza altro comandamento del re non dovessero piú avanti fare che fatto fosse; e senza dimorare, al re se n’andò, al quale, quantunque turbato il vedesse, non lasciò di dire il parer suo, e dissegli: — Re, di che t’hanno offeso i due giovani li quali lá giú nella piazza hai comandato che arsi sieno? — Il re gliele disse. Seguitò Ruggeri: — Il fallo commesso da loro il merita bene, ma non da te; e come i falli meritan punizione, cosí i benefici meritan guiderdone, oltre alla grazia ed alla misericordia. Conosci tu chi color sieno li quali tu vuogli che s’ardano? — Il re rispose del no. Disse allora Ruggeri: — Ed io voglio che tu gli conosca, acciò che tu veggi quanto discretamente tu ti lasci agl’impeti dell’ira trasportare. Il giovane è figliuolo di Landolfo di Procida, fratel carnale di messer Gian di Procida, per l’opera del quale tu se’ re e signor di questa isola; la giovane è figliuola di Marin Bolgaro, la cui potenza fa oggi che la tua signoria non sia cacciata d’Ischia. Costoro, oltre a questo, son giovani che lungamente si sono amati insieme, e da amor costretti, e non da volere alla tua signoria far dispetto, questo peccato, se peccato dirsi dèe quel che per amor fanno i giovani, hanno fatto. Perché adunque gli vuoi tu far morire, dove con grandissimi piaceri e doni gli dovresti onorare? — Il re, udendo questo e rendendosi certo che Ruggeri il vero dicesse, non solamente che egli a peggio dovere operar procedesse, ma di ciò che fatto avea gl’increbbe, per che incontanente mandò che i due giovani fossero dal palo sciolti e menati davanti da lui; e cosí fu fatto. Ed avendo intera la lor condizion conosciuta, pensò che con onore e con doni fosse la ’ngiuria fatta da compensare: e fattigli onorevolmente rivestire, sentendo che di pari consentimento era, a Gianni fece la giovanetta sposare, e fatti loro magnifichi doni, contenti gli rimandò a casa loro, dove con festa grandissima ricevuti, lungamente in piacere ed in gioia poi vissero insieme.
- [VII]
- Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la ’ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
- Le donne, le quali tutte temendo stavan sospese ad udire se i due amanti fossero arsi, udendogli scampati, lodando Iddio, tutte si rallegrarono; e la reina, udita la fine, alla Lauretta lo ’ncarico impose della seguente; la quale lietamente prese a dire:
- Bellissime donne, al tempo che il buon re Guiglielmo la Cicilia reggeva, era nell’isola un gentile uomo chiamato messere Amerigo Abate da Trapani, il quale, tra gli altri ben temporali, era di figliuoli assai ben fornito; per che, avendo di servidori bisogno e venendo galee di corsari genovesi di Levante, li quali costeggiando l’Erminia molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendogli turchi, alcun comperò, tra’ quali, quantunque tutti gli altri paressero pastori, n’era uno il quale gentilesco e di migliore aspetto che alcuno altro pareva, ed era chiamato Teodoro. Il quale, crescendo, come che egli a guisa di servo trattato fosse, nella casa, piú co’ figliuoli di messere Amerigo si crebbe: e traendo piú alla natura di lui che all’accidente, cominciò ad esser costumato e di bella maniera, intanto che egli piaceva sí a messere Amerigo, che egli il fece franco; e credendo che turchio fosse, il fe’ battezzare e chiamar Pietro, e sopra i suoi fatti il fece il maggiore, molto di lui confidandosi. Come gli altri figliuoli di messere Amerigo, cosí similmente crebbe una sua figliuola chiamata Violante, bella e dilicata giovane, la quale, soprattenendola il padre a maritare, s’innamorò per ventura di Pietro: ed amandolo e faccendo de’ suoi costumi e delle sue opere grande stima, pur si vergognava di discoprirgliele. Ma Amore questa fatica le tolse, per ciò che, avendo Pietro piú volte cautamente guatatala, sí s’era di lei innamorato, che bene alcun non sentiva se non quanto la vedea: ma forte temea non di questo alcun s’accorgesse, parendogli far men che bene; di che la giovane, che volentier lui vedeva, s’avvide, e per dargli piú sicurtá, contentissima, sí come era, se ne mostrava. Ed in questo dimorarono assai, non attentandosi di dire l’uno all’altro alcuna cosa, quantunque molto ciascuno il disiderasse. Ma mentre che essi cosí parimente nell’amorose fiamme accesi ardevano, la fortuna, come se diliberato avesse questo voler che fosse, loro trovò via da cacciare la temorosa paura che gl’impediva. Aveva messere Amerigo, fuor di Trapani forse un miglio, un suo molto bel luogo, al quale la donna sua con la figliuola e con altre femine e donne era usata sovente d’andare per via di diporto; dove essendo, un giorno che era il caldo grande, andate, ed avendo seco menato Pietro e quivi dimorando, avvenne, sí come noi veggiamo talvolta di state avvenire, che subitamente il cielo si chiuse d’oscuri nuvoli, per la qual cosa la donna con la sua compagnia, acciò che il malvagio tempo non le cogliesse quivi, si misero in via per tornare in Trapani, ed andavanne ratti quanto potevano. Ma Pietro, che giovane era, e la fanciulla similemente, avanzavano nell’andare la madre di lei e l’altre compagne assai, forse non meno da amor sospinti che da paura di tempo; ed essendo giá tanto entrati innanzi alla donna ed agli altri, che appena si vedevano, avvenne che dopo molti tuoni subitamente una gragnuola grossissima e spessa cominciò a venire, la quale la donna con la sua compagnia fuggí in casa d’un lavoratore. Pietro e la giovane, non avendo piú presto rifugio, se n’entrarono in una chiesetta antica e quasi tutta caduta, nella quale persona non dimorava, ed in quella sotto un poco di tetto che ancora rimaso v’era, si ristrinsono ammenduni: e costrinsegli la necessitá del poco coperto a toccarsi insieme. Il qual toccamento fu cagione di rassicurare un poco gli animi ad aprire gli amorosi disii; e prima cominciò Pietro a dire: — Or volesse Iddio che mai, dovendo io stare come io sto, questa grandine non ristesse! — E la giovane disse: — Ben mi sarebbe caro! — E da queste parole vennero a pigliarsi per mano e strignersi, e da questo ad abbracciarsi e poi a basciarsi, grandinando tuttavia: ed acciò che io ogni particella non racconti, il tempo non si racconciò prima che essi, l’ultime dilettazioni d’amor conosciate, a dover segretamente l’un dell’altro aver piacere ebbero ordine dato. Il tempo malvagio cessò, ed all’entrar della cittá, che vicina era, aspettata la donna, con lei a casa se ne tornarono. Quivi alcuna volta, con assai discreto ordine e segreto, con gran consolazione insieme si ritrovarono; e si andò la bisogna, che la giovane ingravidò, il che molto fu ed all’uno ed all’altro discaro; per che ella molte arti usò per dovere contro al corso della natura disgravidare, né mai le potè venir fatto. Per la qual cosa Pietro, della vita di se medesimo temendo, diliberato di fuggirsi, gliele disse; la quale udendolo disse: — Se tu ti parti, senza alcun fallo io m’ucciderò. — A cui Pietro, che molto l’amava, disse: — Come vuoi tu, donna mia, che io qui dimori? La tua gravidezza scoprirá il fallo nostro; a te fia perdonato leggermente, ma io misero sarò colui a cui del tuo peccato e del mio converrá portare la pena. — Al quale la giovane disse: — Pietro, il mio peccato si saprá bene, ma sii certo che il tuo, se tu nol dirai, non si saprá mai. — Pietro allora disse: — Poi che tu cosí mi prometti, io starò: ma pensa d’osservarlomi. — La giovane, che quanto piú potuto aveva, la sua pregnezza tenuta aveva nascosa, veggendo, per lo crescer che il corpo iacea, piú non poterla nascondere, con grandissimo pianto un dì il manifestò alla madre, lei per la sua salute pregando. La donna, dolente senza misura, le disse una gran villania e da lei volle sapere come andata fosse la cosa. La giovane, acciò che a Pietro non fosse fatto male, compose una sua favola, in altre forme la veritá rivolgendo. La donna la si credette, e per celare il difetto della figliuola ad una lor possessione ne la mandò. Quivi, sopravvenuto il tempo del partorire, gridando la giovane come le donne fanno, non avvisandosi la madre di lei che quivi messere Amerigo, che quasi mai usato non era, dovesse venire, avvenne che, tornando egli da uccellare e passando lunghesso la camera dove la figliuola gridava, maravigliandosi, subitamente entrò dentro e domandò che questo fosse. La donna, veggendo il marito sopravvenuto, dolente levatasi, ciò che alla figliuola era intervenuto gli raccontò: ma egli, men presto a creder che la donna non era stata, disse ciò non dovere esser vero, che ella non sapesse di cui gravida fosse, e per ciò del tutto il voleva sapere, e dicendolo, essa potrebbe la sua grazia racquistare; se non, pensasse, senza alcuna misericordia, di morire. La donna s’ingegnò, in quanto poteva, di dover fare stare contento il marito a quello che ella aveva detto, ma ciò era niente: egli, salito in furore, con la spada ignuda in mano sopra la figliuola corse, la quale, mentre la madre di lei il padre teneva in parole, aveva un figliuol maschio partorito, e disse: — O tu manifesta di cui questo parto si generasse, o tu morrai senza indugio. — La giovane, la morte temendo, rotta la promessa fatta a Pietro, ciò che tra lui e lei stato era tutto aperse; il che udendo il cavaliere e fieramente divenuto fellone, appena d’ucciderla si ritenne: ma poi che quello che l’ira gli apparecchiava detto l’ebbe, rimontato a cavallo, a Trapani se ne venne e ad uno messer Currado, che per lo re v’era capitano, la ’ngiuria fattagli da Pietro contatagli, subitamente, non guardandosene egli, il fe’ pigliare: e messolo al martorio, ogni cosa fatta confessò. Ed essendo dopo alcun dí dal capitano condannato che per la terra frustato fosse e poi appiccato per la gola, acciò che una medesima ora togliesse di terra i due amanti ed il lor figliuolo, messere Amerigo, al quale per avere a morte condotto Pietro non era l’ira uscita, mise veleno in un nappo con vino, e quello diede ad un suo famigliare ed un coltello ignudo con esso, e disse: — Va’ con queste due cose alla Violante e sí le di’ da mia parte che prestamente prenda qual vuole l’una di queste due morti, o del veleno o del ferro: se non che io, nel cospetto di quanti cittadini ci ha, la farò ardere sí come ella ha meritato; e fatto questo, piglierai il figliuolo pochi dí fa da lei partorito, e percossogli il capo al muro, il gitta a mangiare a’ cani. — Data dal fiero padre questa crudel sentenza contro alla figliuola ed al nepote, il famigliare, piú a male che a ben disposto, andò via. Pietro condannato, essendo da’ famigliari menato alle forche frustando, passò, sí come a color che la brigata guidavano piacque, davanti ad uno albergo dove tre nobili uomini d’Erminia erano, li quali dal re d’Erminia a Roma ambasciadori eran mandati a trattar col papa di grandissime cose per un passaggio che far si dovea, quivi smontati per rinfrescarsi e riposarsi alcun dì, e molto stati onorati da’ nobili uomini di Trapani e spezialmente da messere Amerigo. Costoro, sentendo passare coloro che Pietro menavano, vennero ad una finestra a vedere. Era Pietro dalla cintura insú tutto ignudo e con le mani legate di dietro, il quale riguardando l’un de’ tre ambasciadori, che uomo antico era e di grande autoritá, nominato Fineo, gli vide nel petto una gran macchia di vermiglio, non tinta ma naturalmente nella pelle infissa, a guisa che quelle sono che le donne qua chiamano «rose»; la qual veduta, subitamente nella memoria gli corse un suo figliuolo, il quale, giá erano quindici anni passati, da’ corsari gli era stato sopra la marina di Laiazzo tolto, né mai n’aveva potuta saper novella. E considerando l’etá del cattivello che frustato era, avvisò, se vivo fosse il suo figliuolo, dovere di cotale etá essere di quale colui pareva: e cominciò a suspicar per quel segno, non costui desso fosse, e pensossi, se desso fosse, lui ancora doversi del nome suo e di quel del padre e della lingua ermina ricordare; per che, come gli fu vicino, chiamò: — O Teodoro! — La qual voce Pietro udendo, subitamente levò il capo; al quale Fineo in ermino parlando disse: — Onde fosti e cui figliuolo? — Li sergenti che il menavano, per reverenza del valente uomo, il fermarono, sì che Pietro rispose: — Io fui d’Erminia, figliuolo d’uno che ebbe nome Fineo, qua piccol fanciul trasportato da non so che gente. — Il che Fineo udendo, certissimamente conobbe lui essere il figliuolo che perduto avea; per che, piagnendo, co’ suoi compagni discese giuso e lui tra tutti i sergenti corse ad abbracciare, e gittatogli addosso un mantello d’un ricchissimo drappo che indosso avea, pregò colui che a guastare il menava che gli piacesse d’attender tanto, quivi, che di doverlo rimenare gli venisse il comandamento. Colui rispose che l’attenderebbe volentieri. Aveva giá Fineo saputa la cagione per che costui era menato a morire, sí come la fama l’aveva portata per tutto; per che prestamente co’ suoi compagni e con la loro famiglia n’andò a messer Currado e si gli disse: — Messere, colui il quale voi mandate a morir come servo è libero uomo e mio figliuolo, ed è presto di tôrre per moglie colei la qual si dice che della sua virginitá ha privata: e però piacciavi di tanto indugiare l’esecuzione che saper si possa se ella lui vuol per marito, acciò che contro alla legge, dove ella il voglia, non vi troviate aver fatto. — Messer Currado, udendo colui esser figliuolo di Fineo, si maravigliò; e vergognatosi alquanto del peccato della fortuna, confessato quello esser vero che diceva Fineo, prestamente il fe’ ritornare a casa, e per messere Amerigo mandò, e queste cose gli disse. Messere Amerigo, che giá credeva la figliuola ed il nepote esser morti, fu il piú dolente uom del mondo di ciò che fatto avea, conoscendo che, dove morta non fosse, si poteva molto bene ogni cosa stata emendare: ma nondimeno mandò correndo lá dove la figliuola era, acciò che, se fatto non fosse il suo comandamento, non si facesse. Colui che andò, trovò il famigliare stato da messere Amerigo mandato, che, avendole il coltello ed il veleno posto innanzi, perché ella cosí tosto non eleggeva, le diceva villania e volevala costrignere di pigliar l’uno: ma udito il comandamento del suo signore, lasciata star lei, a lui se ne ritornò e gli disse come stava l’opera. Di che messere Amerigo contento, andatosene lá dove Fineo era, quasi piagnendo, come seppe il meglio, di ciò che intervenuto era si scusò e domandonne perdono, affermando, sé, dove Teodoro la sua figliuola per moglie volesse, esser molto contento di dargliele. Fineo ricevette le scuse volentieri, e rispose: — Io intendo che mio figliuolo la vostra figliuola prenda; e dove egli non volesse, vada innanzi la sentenza letta di lui. — Essendo adunque e Fineo e messere Amerigo in concordia, lá ove Teodoro era ancora tutto pauroso della morte, e lieto d’avere il padre ritrovato, il domandarono intorno a questa cosa del suo volere. Teodoro, udendo che la Violante, dove egli volesse, sua moglie sarebbe, tanta fu la sua letizia, che d’inferno gli parve saltare in paradiso: e disse che questo gli sarebbe grandissima grazia, dove a ciascun di lor piacesse. Mandossi adunque alla giovane a sentire del suo volere; la quale, udendo ciò che di Teodoro era avvenuto ed era per avvenire, dove piú dolorosa che altra femina la morte aspettava, dopo molto, alquanta di fede prestando alle parole, un poco si rallegrò, e rispose che, se ella il suo disidèro di ciò seguisse, niuna cosa piú lieta le poteva avvenire che d’esser moglie di Teodoro: ma tuttavia farebbe quello che il padre le comandasse. Cosí adunque in concordia fatta sposare la giovane, festa si fece grandissima con sommo piacere di tutti i cittadini. La giovane, confortandosi e faccendo nudrire il suo piccol figliuolo, dopo non molto tempo ritornò piú bella che mai; e levata del parto, e davanti a Fineo, la cui tornata da Roma s’aspettò, venuta, quella reverenza gli fece che a padre: ed egli, forte contento di sí bella nuora, con grandissima festa ed allegrezza fatte fare le lor nozze, in luogo di figliuola la ricevette e poi sempre la tenne; e dopo alquanti dí il suo figliuolo e lei ed il suo piccol nepote, montati in galea, seco ne menò a Laiazzo, dove con riposo e con pace de’ due amanti, quanto la vita lor durò, dimorarono.
- [VIII]
- Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene, pregato da’suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane ed ucciderla, e divorarla da due cani; invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare, e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
- Come la Lauretta si tacque, cosí, per comandamento della reina, cominciò Filomena:
- Amabili donne, come in noi è la pietá commendata, cosí ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltá vendicata, il che acciò che io vi dimostri e materia vi dèa di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non meno di compassion piena che dilettevole.
- In Ravenna, antichissima cittá di Romagna, furon giá assai nobili e gentili uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio
- degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo; il quale, sí come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo piú nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui. Le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovanetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltá sí altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse, le piaceva, la qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore piú volte, dopo essersi doluto, gli venne in disidèro d’uccidersi; poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto piú la speranza mancava, tanto piú multiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nell’amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé ed il suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa piú volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire ed in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, per ciò che, cosí faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio piú volte fece beffe Nastagio: ma pure, essendo da loro sollecitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo, e fatto fare un grande apparecchiamento come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato, di Ravenna uscí ed andossene ad un luogo fuor di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi, e quivi fatti venir padiglioni e trabacche, disse a color che accompagnato l’aveano che starsi volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio, cominciò a fare la piú bella vita e la piú magnifica che mai si facesse, or questi ed or quegli altri invitando a cena ed a desinare, come usato s’era. Ora, avvenne che, venendo quasi all’entrata di maggio, essendo un bellissimo tempo, ed egli entrato in pensiero della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per piú poter pensare a suo piacere, piede innanzi piè se medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta. Ed essendo giá passata presso che la quinta ora del giorno, ed esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi: ed oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé; ed oltre a questo, le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa ad una ora maraviglia e spavento gli mise nell'animo, ed ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidèro di liberarla da sí fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone e cominciò a farsi incontro a’ cani e contro al cavaliere. Ma il cavaliere che questo vide, gli gridò di lontano: — Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani ed a me quello che questa malvagia femina ha meritato. — E cosí dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, ed il cavaliere sopraggiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi, disse: — Io non so chi tu ti se’ che me cosí conosci, ma tanto ti dico, che gran viltá è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda ed averle i cani alle coste messí come se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò quanto io potrò. — Il cavaliere allora disse: — Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo piú innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari: e per la sua fierezza e crudeltá andò sì la mia sciagura, che io un dì, con questo stocco il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari di tempo, che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltá e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu ed è dannata alle pene del ninferno; nel quale come ella discese, cosí ne fu, ed a lei ed a me, per pena dato, a lei di fuggirmi davanti ed a me, che giá cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come amata donna: e quante volte io la giungo, tante con questo stocco col quale io uccisi me, uccido lei ed aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo nel qual mai né amor né pietá poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sí come tu vedrai incontanente, le caccio di corpo, e dolle mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio, che ella, sí come la giustizia e la potenza di Dio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, ed i cani ed io a seguitarla; ed avviene che ogni venerdí in su questa ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai: e gli altri di non credere che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; ed essendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, la mi conviene in questa guisa tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque, lasciami la divina giustizia mandare ad esecuzione, né ti volere opporre a quello a che tu non potresti contrastare. — Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere; il quale, finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso, con lo stocco in mano corse addosso alla giovane la quale, inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte, gli gridava mercé, ed a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall’altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, cosí cadde boccone, sempre piagnendo e gridando: ed il cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprí nelle reni, e fuori trattone il cuore ed ogni altra cosa da torno, a’ due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono; né stette guari, che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, ed i cani appresso di lei sempre lacerandola, ed il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare: ed in piccola ora si dileguarono in maniera, che piú Nastagio non gli potè vedere. Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne nella mente, questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdí avvenia; per che, segnato il luogo, a’ suoi famigliari se ne tornò, ed appresso, quando gli parve, mandato per piú suoi parenti ed amici, disse loro: — Voi m’avete lungo tempo stimolato che io d’amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio spendere: ed io son presto di farlo, dove voi una grazia m’impetriate, la quale è questa, che venerdí che viene voi facciate sí che messer Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, ed altre chi vi piacerá, qui sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora. — A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare: ed a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v’andò con l’altre insieme. Nastagio fece magnificamente apprestar da mangiare, e fece le tavole mettere sotto i pini dintorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna: e fatti metter gli uomini e le donne a tavola, si ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a seder di rimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire. Essendo adunque giá venuta l’ultima vivanda, ed il romor disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato ad udire; di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse, e niuno sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane ed il cavaliere ed i cani, né guari stette che essi tutti furon quivi tra loro. Il romore fu fatto grande ed a’ cani ed al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi, ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempié di maraviglia: e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’aveva; ché ve n’aveva assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere, e che si ricordavano dell’amore e della morte di lui; tutte cosí miseramente piagnevano come se a se medesime quello avesser veduto fare. La qual cosa al suo termine fornita, ed andata via la donna ed il cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e vari ragionamenti: ma tra gli altri che piú di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea ed udita, e conosciuto che a sé piú che ad altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltá sempre da lei usata verso Nastagio; per che giá le parea fuggire dinanzi da lui adirato ed avere i mastini a’ fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che ella, avendo l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere d’andare a lei, per ciò che ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove le piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli fece risponder che le piacea; per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre ed alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto: e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei piú tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sí tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo piú arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.
- [IX]
- Federigo degli Alberighi ama e non è amato, ed in cortesia spendendo, si consuma; e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro, dá a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la qual, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fállo ricco.
- Era giá di parlar ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che piú niuno a dover dire se non Dioneo, per lo suo privilegio, v’era rimaso, con lieto viso disse:
- A me omai appartiene di ragionare: ed io, carissime donne, d’una novella simile in parte alla precedente il farò volentieri, non acciò solamente che conosciate quanto la vostra vaghezza possa ne’ cuor gentili, ma perché apprendiate d’essere voi medesime, dove si conviene, donatrici de’ vostri guiderdoni senza lasciarne sempre esser la fortuna guidatrice, la qual non discretamente, ma, come s’avviene, smoderatamente il piú delle volte dona.
- Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra cittá, e forse ancora è, uomo di grande e di reverenda autoritá ne’ di nostri, e per costumi e per vertú molto piú che per nobiltá di sangue chiarissimo e degno d’eterna fama, ed essendo giá d’anni pieno, spesse volte delle cose passate co’ suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare; la qual cosa egli meglio e con piú ordine e con maggior memoria ed ornato parlare che altro uom seppe fare: ed era usato di dire tra l’altre sue belle cose che in Firenze fu giá un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme ed in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana. Il quale, sí come il piú de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta delle piú belle donne e delle piú leggiadre che in Firenze fossero; ed acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, ed il suo senza alcun ritegno spendeva: ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva. Spendendo adunque Federigo oltre ad ogni suo potere molto e niente acquistando, sí come di leggeri addiviene, le ricchezze mancarono, ed esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente vivea, ed oltre a questo, un suo falcone de’ miglior del mondo; per che, amando piú che mai né parendogli piú potere essere cittadino come disiderava, a Campi, lá dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva, uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertá comportava. Ora, avvenne un dí che, essendo cosí Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire, fece testamento: ed essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo giá grandicello, ed appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede sostituí, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state con questo suo figliuolo se n’andava in contado ad una sua possessione assai vicina a quella di Federigo; per che avvenne che questo garzoncello s’incominciò a dimesticare con Federigo ed a dilettarsi d’uccelli e di cani: ed avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare, stranamente piacendogli, forte disiderava d’averlo, ma pure non s’attentava di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E cosí stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò, di che la madre dolorosa molto, come colei che piú non n’avea e lui amava quanto piú si poteva, tutto il dí standogli dintorno, non ristava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, ché per certo, se possibile fosse ad avere, procaccerebbe come l’avesse. Il giovanetto, udite molte volte queste profferte, disse: — Madre mia, se voi fate che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire. — La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette, e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta; per che ella diceva: — Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse, ed oltre a ciò, il mantien nel mondo? E come sarò io sí sconoscente, che ad un gentile uomo al quale niuno altro diletto è piú rimaso, io questo gli voglia tôrre? — Ed in cosí fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d’averlo se il domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava. Ultimamente tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo, che che esserne dovesse, di non mandare, ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele, e risposegli: — Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, che io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e si il ti recherò. — Di che il fanciullo lieto, il dí medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di diporto se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo addomandare. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dí, d’uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto lá corse, la quale veggendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontro, avendola giá Federigo reverentemente salutata, disse: — Bene stea Federigo! — E seguitò: — Io son venuta a ristorarti de’ danni li quali tu hai giá avuti per me amandomi piú che stato non ti sarebbe bisogno: ed il ristoro è cotale, che io intendo con questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente stamane. — Alla qual Federigo umilmente rispose: — Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi, ma tanto di bene, che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l’amore che portato v’ho addivenne; e per certo questa vostra liberale venuta m’è troppo piú cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per addietro ho giá speso, come che a povero oste siate venuta. — E cosí detto, vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette, e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tener compagnia ad altrui, disse: — Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna, moglie di questo lavoratore, vi terrá compagnia tanto che io vada a far metter la tavola. — Egli, con tutto che la sua povertá fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze: ma questa mattina, niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna per amore della quale egli giá infiniti uomini onorati avea, il fe’ ravvedere. Ed oltre modo angoscioso, seco stesso maladicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse, or qua ed or lá trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l’ora tarda ed il disidèro grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna, e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere, gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza piú pensare, tiratogli il collo, ad una sua fanticella il fe’ prestamente, pelato ed acconcio, mettere in uno schedone ed arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino, ed il desinare che per lui far si potea, disse essere apparecchiato. Laonde la donna con la sua compagna levatasi, andarono a tavola, e senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone. E levate da tavola, ed alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, cosí benignamente verso Federigo cominciò a parlare: — Federigo, ricordandoti tu della tua preterita vita e della mia onestá, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltá, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione, sentendo quello per che principalmente qui venuta sono: ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata. Ma come che tu non n’abbia, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni dell’altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio ed oltre ad ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: ed è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t’ha la tua strema fortuna; e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliele porto, io temo che egli non aggravi tanto nella ’nfermitá la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente se’ tenuto, ma per la tua nobiltá la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto in vita il mio figliuolo, e per quello averloti sempre obligato. — Federigo, udendo ciò che la donna addomandava e sentendo che servir non ne la potea, per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse; il qual pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse piú che da altro, e quasi fu per dire che nol volesse: ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo. Il qual cosí disse: — Madonna, poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto, ma tutte sono state leggère a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un piccol don vogliate, ed ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa, vi dirò brievemente. Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volevate, avendo riguardo alla vostra eccellenza ed al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con piú cara vivanda, secondo la mia possibilitá, io vi dovessi onorare che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano; per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontá, degno cibo da voi il reputai: e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea, ma veggendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare. — E questo detto, le penne ed i piedi ed il becco le fe’ in testimonianza di ciò gittare avanti. La qual cosa la donna veggendo ed udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare ad una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertá non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò; poi, rimasa fuori della speranza d’avere il falcone, e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo. Il quale o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ’nfermitá che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassâr molti giorni che egli, con grandissimo dolor della madre, di questa vita passò. La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima ed ancora giovane, piú volte fu da’ fratelli costretta a rimaritarsi; la quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenza ultima, cioè d’avere ucciso un cosí fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: — Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei: ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi. — Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: — Sciocca, che è ciò che tu di’? Come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo? — A’ quali ella rispose: — Fratelli miei, io so bene che cosí è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo. — Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sí come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono; il quale cosí fatta donna e cui egli cotanto amata avea, per moglie veggendosi, ed oltre a ciò, ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.
- [X]
- Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre lá, vedelo, conosce lo ’nganno della moglie, con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
- Il ragionare della reina era alla sua fine venuto, essendo lodato da tutti Iddio che degnamente avea guiderdonato Federigo, quando Dioneo, che mai comandamento non aspettava, incominciò:
- Io non so se mi dica che sia accidental vizio e per malvagitá di costume ne’ mortali sopravvenuto, o se pure è della natura peccato, il rider piú tosto delle cattive cose che delle buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi non pertengono. E per ciò che la fatica la quale altra volta ho impresa, ed ora son per pigliare, a niuno altro fine riguarda se non a dovervi tôrre malinconia, e riso ed allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia seguente novella, innamorate giovani, sia in parte men che onesta, però che diletto può porgere, la vi pur dirò: e voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare quando ne’ giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare; il che farete lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestá, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all’altrui sciagure dove bisogna.
- Fu in Perugia, non è ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale, forse piú per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini che per vaghezza che egli n’avesse, prese moglie: e fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pel rosso ed accesa, la quale due mariti piú tosto che uno avrebbe voluti, lá dove ella s’avvenne ad uno che molto piú ad altro che a lei l’animo avea disposto. Il che ella in processo di tempo conoscendo, e veggendosi bella e fresca, e sentendosi gagliarda e poderosa, prima se ne cominciò forte a turbare e ad averne col marito di sconce parole alcuna volta e quasi di continuo mala vita; poi, veggendo che questo, suo consumamento piú tosto che ammendamento della cattivitá del marito potrebbe essere, seco stessa disse: — Questo dolente abbandona me per volere con le sue disonestá andare in zoccoli per l’asciutto: ed io m’ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso. Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota sappiendo che egli era uomo e credendol vago di quello che sono e deono essere vaghi gli uomini; e se io non avessi creduto che fosse stato uomo, io non l’avrei mai preso. Egli, che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all’animo gli erano? Questo non è da sofferire. Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca; e volendoci essere, come io voglio e sono, se io aspetterò diletto o piacer di costui, io potrò per avventura, invano aspettando, invecchiare: e quando io sarò vecchia, ravveggendomi, indarno mi dorrò d’avere la mia giovanezza perduta, alla qual dover consolare m’è egli assai buon maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta; il quale diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui: io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura. — Avendo adunque la buona donna così fatto pensiero avuto, e forse piú d’una volta, per dare segretamente a ciò effetto, si dimesticò con una vecchia che pareva pur santa Verdiana che dá beccare alle serpi, la quale sempre co’ paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d’altro che della vita de’ santi Padri ragionava e delle piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa: e quando tempo le parve, l’aperse la sua intenzion compiutamente. A cui la vecchia disse: — Figliuola mia, sallo Iddio, che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa il facessi, sì il dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il tempo della vostra giovanezza, per ciò che niun dolore è pari a quello, a chi conoscimento ha, che è ad avere il tempo perduto. E da che diavol siam noi poi, da che noi siam vecchie, se non da guardar la cenere intorno al focolare? Se niuna il sa o ne può render testimonianza, io sono una di quelle: ché ora che vecchia sono, non senza grandissime ed amare punture d’animo conosco, e senza prò, il tempo che andar lasciai: e ben che io noi perdessi tutto, ché non vorrei che tu credessi che io fossi stata una milensa, io pur non feci ciò che io avrei potuto fare; di che quando io mi ricordo, veggendomi fatta come tu mi vedi, che non troverei chi mi desse fuoco a cencio, Iddio il sa che dolore io sento. Degli uomini non avvien così: essi nascono buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto piú vecchi che giovani: ma le femine a niuna altra cosa che a fare questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care. E se tu non te n’avvedessi ad altro, sì te ne dèi tu avvedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avviene: ed oltre a questo, una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non possono una femina stancare; e per ciò che a questo siam nate, da capo ti dico che tu fai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia, sì che l’anima tua non abbia in vecchiezza che rimproverare alle carni. Di questo mondo ha ciascun tanto quanto egli se ne toglie, e spezialmente le femine, alle quali si convien troppo piú d’adoperare il tempo quando l’hanno che agli uomini, per ciò che tu puoi vedere che, quando c’invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole con la gatta e ad annoverare le pentole e le scodelle: e peggio, che noi siamo messe in canzone, e dicono: «Alle giovani i buon bocconi ed alle vecchie gli stranguglioni», ed altre lor cose assai ancora dicono. Ed acciò che io non ti tenga piú in parole, ti dico infino da ora che tu non potevi a persona del mondo scoprire l’animo tuo che piú utile ti fosse di me, per ciò che egli non è alcun sì forbito, al quale io non ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o zotico, che io non ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò. Fa’ pure che tu mi mostri qual ti piace, e lascia poscia fare a me: ma una cosa ti ricordo, figliuola mia, che io ti sia raccomandata, per ciò che io son povera persona, ed io voglio infino da ora che tu sii partefice di tutte le mie perdonanze e di quanti paternostri io dirò, acciò che Iddio gli faccia lume e candela a’ morti tuoi. E fece fine. Rimase adunque la giovane in questa concordia con la vecchia, che, se veduto le venisse un giovanetto il quale per quella contrada molto spesso passava, del quale tutti i segni le disse, che ella sapesse quello che avesse a fare: e datole un pezzo di carne salata, la mandò con Dio. La vecchia, non passar molti dì, occultamente le mise colui di cui ella detto l’aveva, in camera, ed ivi a poco tempo uno altro, secondo che alla giovane donna ne venivan piacendo; la quale in cosa che far potesse intorno a ciò, sempre del marito temendo, non ne lasciava a far tratto. Avvenne che, dovendo una sera andare a cena il marito con un suo amico il quale aveva nome Ercolano, la giovane impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone che era de’ piú belli e de’ piú piacevoli di Perugia; la quale prestamente cosí fece. Ed essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare, ed ecco Pietro chiamò all’uscio che aperto gli fosse. La donna, questo sentendo, si tenne morta: ma pur volendo, se potuto avesse, celare il giovane, non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nascondere in altra parte, essendo una sua loggetta vicina alla camera nella quale cenavano, sotto una cesta da polli che v’era il fece ricoverare, e gittovvi suso un pannaccio d’un saccone che fatto aveva il dí votare; e questo fatto, prestamente fece aprire al marito. Al quale entrato in casa ella disse: — Molto tosto l’avete voi trangugiata, questa cena. — Pietro rispose: — Non l’abbiam noi assaggiata. — E come è stato cosi? — disse la donna. Pietro allora disse: — Dirolti. Essendo noi giá posti a tavola, Ercolano e la moglie ed io, e noi sentimmo presso di noi starnutire, di che noi né la prima volta né la seconda ce ne curammo: ma quegli che starnutito aveva, starnutendo ancora la terza volta e la quarta e la quinta e molte altre, tutti ci fece maravigliare; di che Ercolano, che alquanto turbato con la moglie era, per ciò che gran pezza ci avea fatti stare all’uscio senza aprirci, quasi con furia disse: — Questo che vuol dire? Chi è questi che cosí starnutisce? — E levatosi da tavola, andò verso una scala la quale assai vicina n’era, sotto la quale era un chiuso di tavole, vicino al piè della scala, da riporvi, chi avesse voluto, alcuna cosa come tutto di veggiamo che fanno far coloro che le lor case acconciano; e parendogli che di quindi venisse il suono dello starnuto, aperse uno usciuolo il qual v’era, e come aperto l’ebbe, subitamente n’uscí fuori il maggior puzzo di solfo del mondo, benché davanti, essendocene venuto puzzo e ramaricaticene, aveva detto la donna: — Egli è che dianzi io imbiancai miei veli col solfo, e poi la tegghiuzza sopra la quale sparto l’avea, perché il fummo ricevessero, io la misi sotto quella scala, sì che ancora ne viene. — E poi che Ercolano aperto ebbe l’usciuolo e sfogato fu alquanto il puzzo, guardando dentro, vide colui il quale starnutito aveva ed ancora starnutiva, a ciò la forza del solfo strignendolo: e come che egli starnutisse, gli aveva giá il solfo sì il petto serrato, che poco a stare avea che né starnutito né altro non avrebbe mai. Ercolano, vedutolo, gridò: — Or veggio, donna, quello per che poco avanti, quando ce ne venimmo, tanto tenuti fuor della porta, senza esserci aperto, fummo: ma non abbia io mai cosa che mi piaccia se io non te ne pago. — Il che la donna udendo, e veggendo che il suo peccato era palese, senza alcuna scusa fare levatasi da tavola, si fuggì, né so ove se n’andasse. Ercolano, non accorgendosi che la moglie si fuggia, piú volte disse a colui che starnutiva che egli uscisse fuori, ma quegli, che giá piú non potea, per cosa che Ercolano dicesse non si movea; laonde Ercolano, presolo per l’un de’ piedi, nel tirò fuori, e correva per un coltello per ucciderlo: ma io, temendo per me medesimo la signoria, levatomi, non lo lasciai uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e difendendolo, fui cagione che quivi de’ vicini traessero, li quali, preso il giá vinto giovane, fuori della casa il portarono non so dove; per le quali cose la nostra cena turbata, io non solamente non l’ho trangugiata, anzi non l’ho pure assaggiata, come io dissi. — Udendo la donna queste cose, conobbe che egli erano dell’altre cosí savie come ella fosse, quantunque talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna, e volentieri avrebbe con parole la donna d’Ercolano difesa: ma per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve dovere a’ suoi far piú libera via, cominciò a dire: — Ecco belle cose! ecco buona e santa donna che costei dèe essere! ecco fede d’onesta donna, che mi sarei confessata da lei, sì spirital mi parea! e peggio, che, essendo ella oggimai vecchia, dá molto buono esemplo alle giovani! Che maladetta sia l’ora che ella nel mondo venne, ed ella altressí che viver si lascia, perfidissima e rea femina che ella dèe essere, universal vergogna e vitupèro di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via la sua onestá e la fede promessa al suo marito e l’onor di questo mondo, lui, che è cosí fatto uomo e cosí onorevole cittadino e che così ben la trattava, per uno altro uomo non s’è vergognata di vituperare, e se medesima insieme con lui. Se Iddio mi salvi, di così fatte femine non si vorrebbe avere misericordia: elle si vorrebbero uccidere, elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere! — Poi, del suo amante ricordandosi il quale ella sotto la cesta assai presso di quivi aveva, cominciò a confortar Pietro che s’andasse a letto, perciò che tempo n’era. Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di dormire, domandava pure se da cena cosa alcuna vi fosse; a cui la donna rispondeva: — Sì, da cena ci ha! Noi siamo molto usate di far da cena, quando tu non ci se’! Sì, che io sono la moglie d’Ercolano! Deh! ché non vai dormi per istasera? Quanto farai meglio! — Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe cose dalla villa, ed avendo messi gli asini loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla loggetta era, l’un degli asini, che grandissima sete avea, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando se forse trovasse dell’acqua: e cosí andando, s’avvenne per mei la cesta sotto la quale era il giovanetto; il quale avendo, per ciò che carpone gli convenia stare, alquanto le dita dell’una mano stese in terra fuori della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire, che questo asino ve gli pose su piede, laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido. Il quale udendo Pietro, si maravigliò, ed avvidesi ciò esser dentro alla casa; per che, uscito della camera e sentendo ancora costui ramaricarsi, non avendogli ancora l’asino levato il piè d’in su le dita ma premendol tuttavia forte, disse: — Chi è lá? — e corso alla cesta, e quella levata, vide il giovanetto, il quale, oltre al dolore avuto delle dita premute dal piè dell’asino, tutto di paura tremava che Pietro alcun male non gli facesse. Il quale essendo da Pietro riconosciuto, sí come colui a cui Pietro per le sue cattivitá era andato lungamente dietro, essendo da lui domandato: — Che fai tu qui? — niente a ciò gli rispose, ma pregollo che per l’amor di Dio non gli dovesse far male. A cui Pietro disse: — Lieva su, non dubitare che io alcun mal ti faccia: ma dimmi come tu se’ qui e perché. — Il giovanetto gli disse ogni cosa; il quale Pietro, non men lieto d’averlo trovato che la sua donna dolente, presolo per mano, con seco nel menò nella camera, nella quale la donna con la maggior paura del mondo l’aspettava. Alla quale Pietro postosi a seder di rimpetto, disse: — Or tu maladicevi cosí testé la moglie d’Ercolano e dicevi che arder si vorrebbe e che ella era vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O se di te dir non volevi, come ti sofiferiva l’animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi t’induceva, se non che voi siete tutte cosí fatte, e con l’altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli: che venir possa fuoco da cielo che tutte v’arda, generazion pessima che voi siete! — La donna, veggendo che egli nella prima giunta altro male che di parole fatto non l’avea, e parendole conoscere lui tutto gongolare per ciò che per man tenea un cosí bel giovanetto, prese cuore e disse: — Io ne son molto certa che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sí come colui che se’ cosí vago di noi come il can delle mazze: ma alla croce di Dio egli non ti verrá fatto. Ma volentieri farei un poco ragione con essoteco per sapere di che tu ti ramarichi: e certo io starei pur bene, se tu alla moglie d’Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto spigolistra ed ha da lui ciò che ella vuole, e tienla cara come si dèe tener moglie, il che a me non avviene. Ché, posto che io sia da te ben vestita e ben calzata, tu sai bene come io sto d’altro e quanto tempo egli ha che tu non giacesti con meco; ed io vorrei innanzi andar con gli stracci indosso e scalza, ed esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte queste cose, trattandomi come tu mi tratti. Ed intendi sanamente, Pietro, che io son femina come l’altre, ed ho voglia di quel che l’altre, sì che, perché io me ne procacci, non avendone da te, non è da dirmene male: almeno ti fo io cotanto d’onore, che io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi. — Pietro s’avvide che le parole non eran per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di lei curava, disse: — Or non piú, donna: di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di fare che noi abbiamo da cena qualche cosa, ché mi pare che questo garzone, altressí ben come io, non abbia ancor cenato. — Certo no, — disse la donna — che egli non ha ancor cenato, ché quando tu nella tua malora venisti, ci ponevam noi a tavola per cenare. — Or va’ dunque, — disse Pietro — fa’ che noi ceniamo, ed appresso io disporrò di questa cosa in guisa che tu non t’avrai che ramaricare. — La donna, levata su, udendo il marito contento, prestamente fatta rimetter la tavola, fece venir la cena la quale apparecchiata avea, ed insieme col suo cattivo marito e col giovane lietamente cenò. Dopo la cena, quello che Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre, m’è uscito di mente; so io ben cotanto, che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il giovane, non assai certo qual piú stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato. Per che cosí vi vo’ dire, donne mie care, che, chi la ti fa, fagliele: e se tu non puoi, tien’loti a mente fin che tu possa, acciò che quale asino dá in parete tal riceva.
- Essendo adunque la novella di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donna risa che per poco diletto, e la reina conoscendo che la fine del suo reggimento era venuta, levatasi in piè e trattasi la corona dell’alloro, quella piacevolmente mise in capo ad Elissa, dicendole: — A voi, madonna, sta omai il comandare.
- Elissa, ricevuto l’onore, sí come per addietro era stato fatto, così fece ella: ché, dato col siniscalco primieramente ordine a ciò che bisogno facea per lo tempo della sua signoria, con contentamento della brigata disse: — Noi abbiamo giá molte volte udito che con be’ motti o con risposte pronte o con avvedimenti presti molti hanno giá saputo con debito morso rintuzzare gli altrui denti o i sopravvegnenti pericoli cacciar via: e per ciò che la materia è bella e può essere utile, voglio che domane con l’aiuto di Dio infra questi termini si ragioni, cioè di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno. — Questo fu commendato molto da tutti; per la qual cosa la reina, levatasi in piè, loro tutti infino all’ora della cena licenziò.
- L’onesta brigata, veggendo la reina levata, tutta si dirizzò, e secondo il modo usato, ciascuno a quello che piú diletto gli era si diede. Ma essendo giá di cantar le cicale ristate, fatto ogni uom richiamare, a cena andarono; la quale con lieta festa fornita, a cantare ed a sonare tutti si diedero. Ed avendo giá, con volere della reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu comandato che cantasse una canzone; il quale prestamente cominciò: «Monna Aidruda, levate la coda, — ché buone novelle vi reco». Di che tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente la reina, la quale gli comandò che quella lasciasse e dicessene un’altra. Disse Dioneo: — Madonna, se io avessi cembalo io direi: «Alzatevi i panni, monna Lapa» o «Sotto l’ulivello è l’erba». O voleste voi che io dicessi: «L’onda del mare mi fa sì gran male»? Ma io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre. Piacerebbevi: «Esci fuor, che sii tagliato — com’un mio in su la campagna»? — Disse la reina: — No, dinne un’altra. — Adunque, — disse Dioneo — dirò io: «Monna Simona imbotta imbotta — e non è del mese d’ottobre». — La reina ridendo disse: — Deh in malora! dinne una bella, se tu vuogli, ché noi non voglián cotesta. — Disse Dioneo: — No, madonna, non ve ne fate male; pur qual piú vi piace? Io ne so piú di mille. O volete: «Questo mio nicchio, s’io nol picchio» o «Deh! fa’ pian, marito mio» o «Io mi comperai un gallo delle lire cento»? — La reina allora, un poco turbata, quantunque tutte l’altre ridessero, disse: — Dioneo, lascia stare il motteggiare e dinne una bella: e se non, tu potresti provare come io mi so adirare. — Dioneo, udendo questo, lasciate star le ciance, prestamente in cotal guisa cominciò a cantare:
- Amor, la vaga luce
- che move da’ begli occhi di costei
- servo m’ha fatto di te e di lei.
- Mosse da’ suoi begli occhi lo splendore
- che pria la fiamma tua nel cor m’accese,
- per li miei trapassando:
- e quanto fosse grande il tuo valore,
- il bel viso di lei mi fe’ palese;
- il quale imaginando,
- mi sentii gir legando
- ogni vertú e sottoporla a lei,
- fatta nuova cagion de’ sospir miei.
- Così de’ tuoi, adunque, divenuto
- son, signor caro, ed ubidente aspetto
- dal tuo poter merzede:
- ma non so ben se ’ntero è conosciuto
- l’alto disio che messo m’hai nel petto
- né la mia intera fede
- da costei, che possiede
- sì la mia mente, che io non torrei
- pace fuor che da essa, né vorrei.
- Per ch’io ti priego, dolce signor mio,
- che gliel dimostri, e faccile sentire
- alquanto del tuo foco
- in servigio di me, ché vedi ch’io
- giá mi consumo amando, e nel martire
- mi sfaccio a poco a poco;
- e poi, quando fia loco,
- me raccomanda a lei come tu dèi,
- che teco a farlo volentier verrei.
- Da poi che Dioneo tacendo mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell’altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo. Ma poi che alquanta della notte fu trapassata, e la reina, sentendo giá il caldo del dí esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dí seguente a suo piacere s’andasse a riposare.
- * * *
- * * *
- finisce la quinta giornata del decameron; incomincia la sesta, nella quale, sotto il reggimento d’elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
- Novella seconda
- Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda.
- Novella terza
- Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
- Novella quarta
- Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
- Novella quinta
- Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.
- Novella sesta
- Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
- Novella settima
- Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
- Novella ottava
- Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l’erano a veder noiosi.
- Novella nona
- Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l’aveano.
- Novella decima
- Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
- Conclusione
- * * *
- Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e giá per la nuova luce vegnente ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s’allontanarono, d’una e d’altra cosa vari ragionamenti tenendo, e della piú bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando, ed ancora de’ vari casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, giá piú alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare; per che, voltati i passi, lá se ne vennero. E quivi, essendo giá le tavole messe ed ogni cosa d’erbucce odorose e di be’ fiori seminata, avanti che il caldo surgesse piú, per comandamento della reina si misero a mangiare, e questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole; e Dioneo insieme con Lauretta di Troilo e di Criseida cominciarono a cantare. E giá l’ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano, dintorno alla fonte si posero a sedere: e volendo giá la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v’era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito che per le fanti ed i famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro, ma la cagione egli non sapea, sí come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore. Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era ed anzi superba che no, ed in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso, disse: — Vedi bestia d’uom che ardisce, lá dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me. — Ed alla reina rivolta, disse: — Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante, e né piú né meno come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che, la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer Mazza entrasse in Montenero per forza e con ispargimento di sangue: ed io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacer di quei d’entro. Ed è ben sí bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno sí sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro stando alla bada del padre e de’ fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni piú che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono se elle s’indugiasser tanto! Alla fé di Cristo, ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro, io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito: ed anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno a’ mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscer le femine, come se io fossi nata ieri! — Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sí gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre; e la reina l’aveva ben sei volte imposto silenzio, ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che ella volle. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina, ridendo, vòlta a Dioneo, disse: — Dioneo, questa è quistion da te, e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle, che tu sopra essa déi sentenza finale. — Alla qual Dioneo prestamente rispose: — Madonna, la sentenza è data senza udirne altro: e dico che la Licisca ha ragione, e credo che cosí sia come ella dice, e Tindaro è una bestia. — La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, ed a Tindaro rivolta, disse: — Ben lo diceva io; vatti con Dio: credi tu saper piú di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé; non ci son vivuta invano io, no. — E se non fosse che la reina con un mal viso le ’mpose silenzio e comandone che piú parola né romor facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quei giorno che attendere a lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio; la quale lietamente cosí cominciò:
- [I]
- Un cavalier dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e mal compostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
- Giovani donne, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’ verdi prati, e de’ colli i rivestiti albuscelli, cosí de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti belli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto piú alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. È il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagitá del nostro ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa c’è la qual ne sappia ne’ tempi opportuni dire alcuno o, se detto l’è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che giá sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, piú oltre non intendo di dirne: ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza a’ tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.
- Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra cittá fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per ventura, essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad uno altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dí avuti aveva a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di lá onde si partivano a colá dove tutti a piè d’andare intendevano, disse un de’ cavalieri della brigata: — Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo. — Al quale la donna rispose: — Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo. — Messer lo cavaliere, al quale forse non istava meglio la spada allato che il novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, ed ora indietro tornando, e talvolta dicendo: «Io non dissi bene», e spesso ne’ nomi errando, un per uno altro ponendone, fieramente la guastava: senza che, egli pessimamente, secondo le qualitá delle persone e gli atti che accadevano, proffereva. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore ed uno sfinimento di cuore come se, inferma, fosse stata per terminare; la qual cosa poi che piú sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio né era per riuscirne, piacevolemente disse: — Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè. — Il cavaliere, il quale per avventura era molto migliore intenditor che novellatore, inteso il motto, e quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata aveva e mal seguita, senza finita lasciò stare.
- [II]
- Cisti fornaio con una sola parola fa ravveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda.
- Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella cosí cominciò:
- Belle donne, io non so da me medesima vedere che piú in questo si pecchi, o la natura apparecchiando ad una nobile anima un vil corpo o la fortuna apparecchiando ad un corpo dotato d’anima nobile vil mestiere, sí come in Cisti nostro cittadino ed in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi, la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sí come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’ futuri casi, per le loro opportunitá le loro piú care cose ne’ piú vili luoghi delle lor case, sí come meno sospetti, sepelliscono, e quindi ne’ maggior bisogni le traggono, avendole il vil luogo piú sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E cosí le due ministre del mondo spesso le lor cose piú care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate piú vili, acciò che di quelle alle necessitá traendole, piú chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ’ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m’ha tornato nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.
- Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, ed egli con loro insieme i fatti del papa trattando, avvenne, che che se ne fosse cagione, che messer Geri con questi ambasciadori del papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte eserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare, splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del papa, ed essendo il caldo grande, s’avvisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco: ma avendo riguardo alla sua condizione ed a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo, ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo ad invitarsi. Ed avendo un farsetto bianchissimo indosso ed un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali piú tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava, messer Geri con gli ambasciadori dover passare, si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca ed un piccolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sí eran chiari: ed a seder postosi, come essi passavano, ed egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sí saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti. La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: — Chente è, Cisti? è buono? — Cisti, levato prestamente in piè, rispose: — Messer sí: ma quanto, non vi potrei io dare ad intendere, se voi non n’assaggiaste. — Messer Geri, al quale o la qualitá del tempo o affanno piú che l’usato avuto o forse il saporito bere che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, vòlto agli ambasciadori, sorridendo disse: — Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo; forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo — e con loro insieme se n’andò verso Cisti. Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuor dal forno, gli pregò che sedessero, ed alli lor famigliari, che giá per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: — Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola! — E cosí detto, esso stesso lavati quattro bicchieri belli e nuovi, e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino, diligentemente diede bere a messer Geri ed a’ compagni. Alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito, al quale invitò una parte de’ piú orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andarvi volle. Impose adunque messer Geri ad un de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti, e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco; il quale come Cisti vide, disse: — Figliuolo, messer Geri non ti manda a me. — Il che raffermando piú volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sí gliele disse; a cui messer Geri disse: — Tórnavi e digli che sí fo, e se egli piú cosí ti risponde, domandalo a cui io ti mando. — Il famigliare, tornato, disse: — Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te. — Al quale Cisti rispose: — Per certo, figliuol, non fa. — Adunque, — disse il famigliare — a cui mi manda? — Rispose Cisti: — Ad Arno. — Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ’ntelletto, e disse al famigliare: — Lasciami vedere che fiasco tu vi porti. — E vedutol, disse: — Cisti dice vero — e déttagli villania, gli fece tórre un fiasco convenevole; il quale Cisti veggendo, disse: — Ora so io bene che egli ti manda a me — e lietamente gliele empiè. E poi quel medesimo dí, fatto un botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo, gli disse: — Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato: ma parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi di co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, cioè che questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene piú guardiano, tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace. — Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.
- [III]
- Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
- Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutti e la risposta e la liberalitá di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso; la quale lietamente cosí a dir cominciò:
- Piacevoli donne, prima Pampinea ed ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca vertú e della bellezza de’ motti; alla qual per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de’ motti è stato detto, vi voglio ricordare, essere la natura de’ motti cotale, che essi, come la pecora morde, deono cosí mordere l’uditore, e non come il cane, per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania. La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. È il vero che, se per risposta si dice, ed il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprender come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe: e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando giá un nostro prelato, non minor morso ricevette che il desse; il che io in una piccola novella vi voglio mostrare.
- Essendo vescovo di Firenze messere Antonio d’Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto, il quale, essendo del corpo bellissimo e vie piú che grande vagheggiatore, avvenne che tra l’altre donne fiorentine una ne gli piacque la quale era assai bella donna, ed era nepote d’un fratello del detto vescovo. Ed avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d’ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe: ed il vescovo, come savio, s’infinse di queste cose niente sentire. Per che, usando molto insieme il vescovo ed il maliscalco, avvenne che il dí di san Giovanni, cavalcando l’uno allato all’altro veggendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una donna la quale questa pestilenza presente ci ha tolta, il cui nome fu monna Nonna de’ Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco, e poi, essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse: — Nonna, che ti par di costui? Crederestil vincere? — Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestá o la dovesser contaminare negli animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono; per che, non intendendo a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose: — Messere, e forse non vincerebbe me: ma vorrei buona moneta. — La qual parola udita, il maliscalco ed il vescovo sentendosi parimente trafitti, l’uno sí come facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo e l’altro sí come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergognosi e taciti se n’andarono, senza piú quel giorno dirle alcuna cosa. Cosí adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando.
- [IV]
- Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l’ira di Currado volge in riso e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
- Tacevasi giá la Lauretta e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse:
- Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti ed utili e belle, secondo gli accidenti, a’ dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’ paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone che mai, ad animo riposato, per lo dicitore si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.
- Currado Gianfigliazzi, sí come ciascuna di voi ed udito e veduto puote avere, sempre della nostra cittá è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani ed in uccelli s’è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dí presso a Peretola una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco il quale era chiamato Chichibio ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l’arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale, come nuovo bergolo era, cosí pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo giá presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando, e disse: — Voi non l’avri da mi, donna Brunetta, voi non l’avri da mi. — Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: — In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia. — Ed in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede. Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio, e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: — Signor mio, le gru non hanno se non una coscia ed una gamba. — Currado allora turbato disse: — Come diavol non hanno che una coscia ed una gamba? Non vidi io mai piú gru che questa? — Chichibio seguitò: — Egli è, messer, come io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi. — Currado per amore de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse: — Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io mai piú non vidi né udii dir che fosse, ed io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sará, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio. — Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fossero menati: e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana alla riva della quale sempre soleva in sul far del di vedersi delle gru, nel menò, dicendo: — Tosto vedremo chi avrá iersera mentito, o tu o io. — Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli conveniva pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito: ma non potendo, ora innanzi ed ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piè. Ma giá vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru le quali tutte in un piè dimoravano, sí come quando dormono soglion fare. Per che egli, prestamente mostratele a Currado, disse: — Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia ed un piè, se voi riguardate a quelle che colá stanno. — Currado veggendole disse: — Aspèttati, che io ti mostrerò che elle n’hanno due — e fattosi alquanto piú a quelle vicino, gridò: — Hohò ! — Per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giú, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde Currado, rivolto a Chichibio, disse: — Che ti par, ghiottone? Parti che elle n’abbian due? — Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose: — Messer sí, ma voi non gridaste «hohò!» a quella d’iersera: ché se cosí gridato aveste, ella avrebbe cosí l’altra coscia e l’altro piè fuor mandato come hanno fatto queste. — A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si converti in festa e riso, e disse: — Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare. — Cosí adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.
- [V]
- Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde.
- Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, cosí Panfilo per volere della reina disse:
- Carissime donne, egli avviene spesso che, sí come la fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di vertú nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, cosí ancora sotto turpissime forme d’uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla natura essere stati riposti. La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini de’ quali io intendo brievemente di ragionarvi: per ciò che l’uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato che a qualunque de’ Baronci piú trasformato l’ebbe, sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato; e l’altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dá la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sí simile a quella, che non simile, anzi piú tosto dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi dipignendo intendevano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dirsi puote: e tanto piú, quanto con maggiore umiltá, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d’esser chiamato maestro; il qual titolo rifiutato da lui tanto piú in lui risplendeva, quanto con maggior disidèro da quegli che men sapevan di lui o da’ suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa piú bello che fosse messer Forese. Ma alla novella venendo, dico che
- Avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni: ed essendo messer Forese le sue andato a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per ventura in su un cattivo ronzin da vettura venendosene, trovò il giá detto Giotto, il quale similmente, avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze; il quale né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sí come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s’accompagnarono. Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come piú tosto poterono, fuggirono in casa d’un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l’acqua alcuna vista di dover ristare e costoro volendo essere il dí a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v’erano, cominciarono a camminare. Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi e per gli schizzi che i ronzini fanno co’ piedi in quantitá, zaccherosi, le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d’orrevolezza, rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare. E messer Forese, cavalcando ed ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto: e veggendo ogni cosa cosí disorrevole, e cosí disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere e disse: — Giotto, a che ora, venendo di qua alla ’ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il migliore dipintor del mondo, come tu se’? — A cui Giotto prestamente rispose: — Messere, credo che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l’abici. — Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato quali erano state le derrate vendute.
- [VI]
- Pruova Michele Scalza a certi giovani coiné i Baronci sono i piú gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
- Ridevano ancora le donne della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta; la quale cosí incominciò a parlare:
- Giovani donne, l’essere stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa egli, m’ha nella memoria tornata una novella nella quale quanta sia la lor nobiltá si dimostra senza dal nostro proposito deviare: e per ciò mi piace di raccontarla.
- Egli non è ancora guari di tempo passato, che nella nostra cittá era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il piú piacevole ed il piú sollazzevole uom del mondo, e le piú nuove novelle aveva per le mani; per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di potere aver lui. Ora, avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si cominciò tra loro una quistion cosí fatta: quali fossero li piú gentili uomini di Firenze ed i piú antichi; de’ quali alcuni dicevano gli Uberti ed altri i Lamberti, e chi uno e chi uno altro, secondo che nell’animo gli capea. Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse: — Andate via, andate, goccioloni che voi siete; voi non sapete ciò che voi vi dite: i piú gentili uomini ed i piú antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci, ed a questo s’accordano tutti i filosofi ed ogni uomo che gli conosce come fo io; ed acciò che voi non intendeste d’altri, io dico de’ Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore. — Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero: — Tu ci uccelli, quasí come se noi non conoscessimo i Baronci come facci tu. — Disse lo Scalza: — Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero: e se egli ce n’è niuno che voglia metter sú una cena a doverla dare a chi vince, con sei compagni quali piú gli piaceranno, io la metterò volentieri; ed ancora vi farò piú, che io ne starò alla sentenza di chiunque voi vorrete. — Tra’ quali disse uno, che si chiamava Neri Vannini: — Io sono acconcio a voler vincere questa cena. — Ed accordatosi insieme d’aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano, ed andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. Piero, che discreto giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse: — E tu come potrai mostrare questo che tu affermi? — Disse lo Scalza: — Che? Il mostrerò per sí fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirá che io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini son piú antichi, piú son gentili, e cosí si diceva pur testé tra costoro: ed i Baronci son piú antichi che niuno altro uomo, sí che son piú gentili; e come essi sien piú antichi mostrandovi, senza dubbio io avrò vinta la quistione. Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli aveva cominciato d’apparare a dipignere, ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente a’ Baronci ed agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co’ visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenienza largo, e tal v’è col naso molto lungo e tale l’ha corto, ed alcuni col mento in fuori ed insú rivolto, e con mascelloni che paion d’asino, ed èvvi tale che ha l’uno occhio piú grosso che l’altro, ed ancora chi ha l’un piú giú che l’altro, sí come sogliono essere i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare; per che, come giá dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere, sí che essi son piú antichi che gli altri, e cosí piú gentili. — Della qual cosa e Piero che era il giudice e Neri che aveva messa la cena e ciascuno altro ricordandosi, ed avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e ad affermare che lo Scalza aveva ragione e che egli aveva vinta la cena e che per certo i Baronci erano i piú gentili uomini ed i piú antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma. E per ciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de’ Baronci.
- [VII]
- Madonna Filippa, dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
- Giá si tacea la Fiammetta e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogni altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse: ed egli a dir cominciò:
- Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima, quivi saperlo fare dove la necessitá il richiede; il che sí ben seppe fare una gentil donna della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de’ lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete.
- Nella terra di Prato fu giá uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion far, comandava che cosí fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcun suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto, avvenne che una gentil donna e bella ed oltre ad ogni altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de’ Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto se medesima amava; la qual cosa Rinaldo veggendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e d’uccidergli si ritenne, e se non fosse che di se medesimo dubitava, seguitando l’impeto della sua ira l’avrebbe fatto. Rattemperatosi adunque da questo, non si potè temperare da voler quello, dallo statuto pratese, che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per ciò, avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere. La donna, che di gran cuore era, sí come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler piú tosto, la veritá confessando, con forte animo morire che vilmente, fuggendo, per contumacia in esilio vivere e negarsi degna di cosí fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. Ed assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestá venuta, domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il podestá, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire. Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che apposto l’era, le disse: — Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio, e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che c’è, vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca: ma ciò far non posso se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa. — La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: — Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo negherei mai: ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano; le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare: ed oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta: ma avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi priego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no. — A che Rinaldo, senza aspettare che il podestá il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. — Adunque, — seguí prestamente la donna — domando io voi, messer podestá, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che piú che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare? — Eran quivi a cosí fatta esaminazione e di tanta e sí famosa donna quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo cosí piacevol domanda, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono, la donna aver ragione e dir bene: e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestá, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’ lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di cosí matta impresa confuso, si partí dal giudicio, e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa.
- [VIII]
- Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l’erano a veder noiosi.
- La novella da Filostrato raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore ne’ lor visi apparito ne dieder segno: e poi, l’una l’altra guardando, appena dal ridere potendosi astenere, sogghignando quella ascoltarono. Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le ’mpose; la quale, non altramenti che se da dormir si levasse, soffiando, incominciò:
- Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui m’ha tenuta gran pezza lontana, per ubidire alla nostra reina, forse con molto minor novella che fatto non avrei se qui l’animo avessi avuto, mi passerò, lo sciocco error d’una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se ella da tanto stata fosse, che inteso l’avesse.
- Uno, adunque, che si chiamò Fresco da Celatico aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca, la quale, ancora che bella persona avesse e viso, non però di quegli angelici che giá molte volte vedemmo, sé da tanto e sí nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare ed uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a se medesima la quale era tanto piú spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si potea fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de’ reali di Francia, sarebbe stata di soperchio. E quando ella andava per via, sí forte le veniva del cencio, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse. Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata lá dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non facea che soffiare; laonde Fresco domandando le disse: — Cesca, che vuol dir questo, che, essendo oggi festa, tu te ne se’ cosí tosto tornata in casa? — Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose: — Egli è il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra fossero ed uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi: e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; ed io non credo che sia al mondo femina a cui piú sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli, cosí tosto me ne son venuta. — Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse: — Figliuola, se cosí ti dispiaccion gli spiacevoli come tu di’, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiar giá mai. — Ma ella, piú che una canna vana ed a cui di senno pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto intese il vero motto di Fresco, anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre: e cosí nella sua grossezza si rimase, ed ancor vi si sta.
- [IX]
- Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappreso l’aveano.
- Sentendo la reina che Emilia della sua novella s’era diliberata e che ad altro non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, cosí a dir cominciò:
- Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due insú delle novelle delle quali io m’avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n’è pure una rimasa da raccontare, nella conclusion della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n’è alcuno di tanto sentimento contato.
- Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nella nostra cittá assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate; tra le quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, ed oggi l’uno, doman l’altro, e cosí per ordine, tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata, ed in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, ed ancora de’ cittadini: e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, ed insieme i dí piú notabili cavalcavano per la cittá, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella cittá. Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto ed i compagni s’erano molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza cagione, per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’ miglior loici che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale, delle quali cose poco la brigata curava, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto, ed ogni cosa che far volle ed a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare: e con questo era ricchissimo, ed a chiedere a lingua, sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta, speculando, molto astratto dagli uomini divenia: e per ciò che egli alquanto tenea dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. Ora, avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino; essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono, e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era; messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido lá tra quelle sepolture, dissero: — Andiamo a dargli briga. — E spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se n’avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: — Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata: ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto? — A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: — Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace. — E posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sí come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò. Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a fare piú che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro. Alli quali messer Betto rivolto, disse: — Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso: egli ci ha onestamente ed in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra. — Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire, e vergognossi, né mai piú gli diedero briga: e tennero per innanzi messer Betto sottile ed intendente cavaliere.
- [X]
- Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
- Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
- Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che piú mi piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della quale voi tutte avete assai acconciamente parlato: ma seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo un de’ frati di santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrá esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete il quale è ancora a mezzo il cielo.
- Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, giá di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso, ed il miglior brigante del mondo; ed oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta, ed una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi, disse: — Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre; ed oltre a ciò, solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato: e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa, lá dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; ed oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo giá recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazarette. — E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini, li quali poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa. Ed avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo amico, come a tavola il sentirono, cosí se ne scesero alla strada, ed all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono, con questo proponimento, che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla, e Giovanni dovesse tra le cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e tôrgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena ed altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco; il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: — Il fante mio ha in sé nove cose tali, che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertú, ogni lor senno, ogni lor santitá. Pensate adunque che uom dèe essere egli, nel quale né vertú né senno né santitá alcuna è, avendone nove! — Ed essendo alcuna volta domandato, quali fossero queste nove cose, ed egli avendole in rima messe, rispondeva: — Dirolvi. Egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato: senza che, egli ha alcune altre teccherelle con queste, che si taccion per lo migliore. E quello che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tôr casa a pigione, ed avendo la barba grande e nera ed unta, gli par sí forte esser bello e piacevole, che egli s’avvisa che quante femine il veggiono tutte di lui s’innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire, e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sí gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sí e no, come giudica si convenga. — A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre: ma Guccio Imbratta, il quale era piú vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta ed affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, lá si calò: ed ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, ad entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini piú di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi piú che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche. E senza riguardare ad un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio, e ad un suo farsetto rotto e ripezzato, ed intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con piú macchie e di piú colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, ed alle sue scarpette tutte rotte ed alle calze sdruscite, le disse, quasi stato fosse il siri di Ciastiglione, che rivestirla voleva e rimetterla in arnese e trarla di quella cattivitá di star con altrui, e senza gran possession d’avere, ridurla in isperanza di miglior fortuna, ed altre cose assai, le quali, quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le piú delle sue imprese facevano, tornarono in niente. Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contraddicendolo alcuno, nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna, la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola cassettina, la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono, dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a que’ tempi leggermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto se non in piccola quantitá trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestá degli antichi, non che veduti avessero pappagalli, ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avea ricordare. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero, e per non lasciare la cassetta vòta, veggendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono: e richiusala ed ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono ad aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con disidèro aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che lá su con le campanelle venisse e recasse le sue bisacce. Il quale poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addomandate con fatica lá su n’andò, dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla, andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, ed in acconcio de’ fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con gran solennitá la confessione, fece accender due torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse: e dette primieramente alcune parolette a laude ed a commendazione dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non suspicò che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse: ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascutato e smemorato; ma nonpertanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì forte, che da tutti fu udito: — O Iddio, lodata sia sempre la tua potenza! — Poi, richiusa la cassetta ed al popolo rivolto, disse: — Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto piú utili sono ad altrui che a noi; per la qual cosa, messomi io in cammino, di Vinegia partendomi ed andandomene per lo Borgo de’ greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il Braccio di san Giorgio, in Truffia ed in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli, e di quindi pervenni in Terra di menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilitá vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per que’ paesi; e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime, e poco piú lá trovai gente che portano il pan nelle mazze ed il vin nelle sacca, da’ quali alle montagne de’ baschi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiú. Ed in brieve tanto andai addentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, lá dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti: ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercatante io trovai lá, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in lá si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo quattro denari ed il caldo v’è per niente; e quivi trovai il venerabile padre messer Non-mi-blasmate-se-voi piace, degnissimo patriarca di Ierusalem, il quale, per reverenza dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante, che, se io le vi volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia: ma pure per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito santo cosí intero e saldo come fu mai, ed il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, ed una dell’unghie de’ gherubini, ed una delle coste del Verbum-carofátti-alle-finestre, e de’ vestimenti della santa fé catolica, ed alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, ed un’ampolla del sudore di san Michele quando combattè col diavolo, e la mascella della morte di san Lazzero ed altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Montemorello in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio li quali egli lungamente era andato cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi un de’ denti della santa croce ed in un’ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salamone e la penna dell’agnol Gabriello, della quale giá detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna, il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo de’ Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione: e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, ed holle tutte. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono o no, ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenza che io le mostri: ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnolo Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta, ed i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son si simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l'una per l’altra, ed al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontá sia stata di Dio e che egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie mani, ricordandomi io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì: e per ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor di quel santissimo corpo mi fe’ pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tócco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerá che non si senta. — E poi che cosí detto ebbe, cantando una lauda di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni, li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla, e migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sí come egli molte volte aveva provato. Ed in cotal guisa, non senza sua grandissima utilitá avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica ed avendo udito il nuovo riparo preso da lui, e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso, che s’eran creduti smascellare; e poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono ed appresso gli renderono la sua penna, la quale l’anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
- Questa novella porse igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie cosí da lui vedute come recate; la quale la reina sentendo esser finita, e similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e ridendo la mise in capo a Dioneo, e disse: — Tempo è, Dioneo, che tu alquanto pruovi che carico sia l’aver donne a reggere ed a guidare: sii adunque re, e sí fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine ci abbiamo a lodare.
- Dioneo, presa la corona, ridendo rispose: — Assai volte giá ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo piú cari che io non sono; e per certo, se voi m’ubidiste come vero re si dèe ubidire, io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò. — E fattosi, secondo il costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto durasse la sua signoria ordinatamente gl’impose; ed appresso disse:
- — Valorose donne, in diverse maniere ci s’è dell’umana industria e de’ casi vari ragionato tanto, che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue parole m’ha trovata materia a’ futuri ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tèma da ragionare. Ella, come voi udiste, disse che vicina non aveva che pulcella ne fosse andata a marito, e soggiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero a’ mariti. Ma lasciando stare la prima parte, che è opera fanciullesca, reputo che la seconda debba esser piacevole a ragionarne, e per ciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n’ha cagione, delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno giá fatte a’ lor mariti, senza essersene essi avveduti o no. — Il ragionare di sì fatta materia pareva ad alcuna delle donne che male a lor si convenisse, e pregavanlo che mutasse la proposta giá detta; alle quali il re rispose: — Donne, io conosco ciò che io ho imposto non meno che facciate voi, e da imporlo non mi potè istórre quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale, che, guardandosi e gli uomini e le donne d’operar disonestamente, ogni ragionare è conceduto. Or non sapete voi che, per la perversitá di questa stagione, li giudici hanno lasciati i tribunali, le leggi, cosí le divine come l’umane, tacciono, ed ampia licenza per conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per che, se alquanto s’allarga la vostra onestá nel favellare, non per dovere con l’opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma per dar diletto a voi e ad altrui, non veggio con che argomento da concedere vi possa nell’avvenire riprendere alcuno. Oltre a questo, la nostra brigata, dal primo di infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia non mi pare che in atto alcuno si sia maculata né si maculerá con l’aiuto di Dio. Appresso, chi è colui che non conosca la vostra onestá? La quale, non che i ragionamenti sollazzevoli, ma il terrore della morte non credo che potesse smagare. Ed a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe che voi in ciò foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste. Senza che, voi mi fareste un bello onore, essendo io stato obediente a tutti, ed ora, avendomi vostro re fatto, mi voleste la legge porre in mano e di quello non dire che io avessi imposto. Lasciate adunque questa suspizione piú atta a’ cattivi animi che a’ nostri, e con la buona ventura pensi ciascuna di dirla bella. — Quando le donne ebbero udito questo, dissero che cosí fosse come gli piacesse; per che il re per infino ad ora di cena di fare il suo piacere diede licenza a ciascuno.
- Era ancora il sole molto alto, per ciò che il ragionamento era stato brieve; per che, essendosi Dioneo con gli altri giovani messo a giucare a tavole, Elissa, chiamate l’altre donne da una parte, disse: — Poi che noi fummo qui, ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non credo che mai alcuna fosse di voi, e chiamavisi la Valle delle donne: né ancora vidi tempo da potervi quivi menare se non oggi, si è alto ancora il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che, quando vi sarete, non siate contentissime d’esservi state. — Le donne risposono che erano apparecchiate, e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa sentire a’ giovani, si misero in via: né guari piú d’un miglio furono andate, che alla Valle delle donne pervennero, dentro dalla quale per una via assai stretta, dall’una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto piú si potesse divisare. E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era, cosí era ritondo come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual paresse: ed era di giro poco piú che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa altezza, ed in su la sommitá di ciascuna si vedeva un palagio quasi in forma fatto d’un bel castelletto. Le piagge delle quali montagnette cosí digradando giuso verso il pian discendevano, come ne’ teatri veggiamo dalla lor sommitá i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro. Ed erano queste piagge, quante alla piaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d’ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d’altre maniere assai d’alberi fruttiferi piene senza spanna perdersene. Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d’altri alberi verdissimi e ritti quanto piú esser poteano. Il piano appresso, senza aver piú entrate che quella donde le donne venute v’erano, era pieno d’abeti, di cipressi, d’allori e d’alcuni pini sí ben composti e sí bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati: e tra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d’erba minutissima e piena di fiori porporini e d’altri. Ed oltre a questo, quel che non meno di diletto che altro porgeva, era un fiumicello il quale, d’una delle valli che due di quelle montagnette dividea, cadeva giú per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d’alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giú al piccol pian pervenia, cosí quivi in un bel canaletto raccolto infino al mezzo del piano velocissimo discorreva, ed ivi faceva un piccol laghetto, quale talvolta per modo di vivaio fanno ne’ lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro. Ed era questo laghetto non piú profondo che sia una statura d’uomo infino al petto lunga; e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser d’una minutissima ghiaia la quale tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare: né solamente nell’acqua vi si vedeva il fondo riguardando, ma tanto pesce in qua ed in lá andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia. Né da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto dintorno a quel piú bello quanto piú dell’umido sentiva di quello. L’acqua la quale alla sua capacitá soprabbondava uno altro canaletto ricevea, per lo qual fuori del valloncello uscendo, alle parti piú basse se ne correva. In questo adunque venute le giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il luogo, essendo il caldo grande e veggendosi il pelaghetto davanti e senza alcun sospetto d’esser vedute, diliberaron di volersi bagnare: e comandato alla lor fante che sopra la via per la quale quivi s’entrava, dimorasse, e guardasse se alcun venisse e loro il facesse sentire, tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso, il quale non altramenti li lor corpi candidi nascondeva che farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro. Le quali essendo in quello, né perciò alcuna turbazion d’acqua nascendone, cominciarono come potevano ad andare in qua ed in lá di dietro a’ pesci, i quali male avevan dove nascondersi, ed a volerne con esso le mani pigliare. E poi che in cosí fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si rivestirono e senza poter piú commendare il luogo che commendato l’avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave passo, molto della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero: ed al palagio giunte ad assai buona ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando dove lasciati gli aveano; alli quali Pampinea ridendo disse: — Oggi vi pure abbiam noi ingannati. — E come? — disse Dioneo — cominciate voi prima a far de’ fatti che a dir delle parole? — Disse Pampinea: — Signor nostro, sí — e distesamente gli narrò donde venivano e come era fatto il luogo e quanto di quivi distante e ciò che fatto avevano. Il re, udendo contare la bellezza del luogo, disideroso di vederlo, prestamente fece comandar la cena; la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita, li tre giovani con li lor famigliari, lasciate le donne, se n’andarono a questa valle, ed ogni cosa considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai piú, quella per una delle belle cose del mondo lodarono; e poi che bagnati si furono e rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, tornarono a casa, dove trovarono le donne che facevano, una carola ad un verso che facea la Fiammetta, e con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della Valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero. Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina lá facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto se alcun volesse o dormire o giacersi di meriggiana. Appresso questo, fatto venir de’ lumi e vino e confetti ed alquanto riconfortatisi, comandò che ogni uomo fosse in sul ballare; ed avendo per suo volere Panfilo una danza presa, il re, rivoltatosi verso Elissa, le disse piacevolemente: — Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della corona, ed io il voglio questa sera a te fare della canzone: e per ciò una fa’ che ne dichi qual piú ti piace. — A cui Elissa sorridendo rispose che volentieri, e con soave voce incominciò in cotal guisa:
- Amor, s’io posso uscir de’ tuoi artigli,
- appena creder posso
- che alcuno altro uncin mai piú mi pigli.
- Io entrai giovanetta en la tua guerra,
- quella credendo somma e dolce pace,
- e ciascuna mia arme posi in terra,
- come sicuro chi si fida face;
- tu, disleal tiranno aspro e rapace,
- tosto mi fosti addosso
- con le tue armi e co’ crudel roncigli.
- Poi, circondata delle tue catene,
- a quel che nacque per la morte mia,
- piena d’amare lagrime e di pene
- presa mi desti, ed hammi in sua balia;
- ed è sí cruda la sua signoria,
- che giá mai non l’ha mosso
- sospir né pianto alcun che m’assottigli.
- Li prieghi miei tutti glien porta il vento:
- nullo n’ascolta né ne vuole udire;
- per che ognora cresce il mio tormento,
- onde ’l viver m’è nòi né so morire;
- deh! dolgati, signor, del mio languire;
- fa’ tu quel ch’io non posso:
- dálmi legato dentro a’ tuoi vincigli.
- Se questo far non vuogli, almeno sciogli
- i legami annodati da speranza;
- deh! io ti priego, signor, che tu vogli:
- ché, se tu ’l fai, ancor porto fidanza
- di tornar bella qual fu mia usanza,
- ed il dolor rimosso,
- di bianchi fiori ornarmi e di vermigli.
- Poi che con un sospiro assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si maravigliasser di tali parole, niuno per ciò ve n’ebbe che potesse avvisare che di cosí cantare le fosse cagione. Ma il re, che in buona tempera era, fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuori traesse la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte danze: ma essendo giá molta parte di notte passata, a ciascun disse che andasse a dormire.
- * * *
- * * *
- finisce la sesta giornata del decameron; incomincia la settima, nella quale, sotto il reggimento di dioneo, si ragiona delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene essi avveduti o no.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
- Novella seconda
- Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha ad uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
- Novella terza
- Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
- Novella quarta
- Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
- Novella quinta
- Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
- Novella sesta
- Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
- Novella settima
- Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
- Novella ottava
- Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei. Il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
- Novella nona
- Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
- Novella decima
- Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
- Conclusione
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- Ogni stella era giá delle parti d’oriente fuggita, se non quella sola la qual noi chiamiamo Lucifero, che ancora luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco, levatosi, con una gran salmeria n’andò nella Valle delle donne per quivi disporre ogni cosa secondo l’ordine ed il comandamento avuto dal suo signore. Appresso alla quale andata non istette guari a levarsi il re, il quale lo strepito de’ caricanti e delle bestie aveva desto; e levatosi, fece le donne ed i giovani tutti parimente levare: né ancora spuntavano li raggi del sole ben bene, quando tutti entrarono in cammino. Né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli, quanto quella mattina pareva; da’ canti de’ quali accompagnati infino nella Valle delle donne n’andarono, dove da molti piú ricevuti, parve loro che essi della loro venuta si rallegrassero. Quivi intorniando quella e riprovveggendo tutta da capo, tanto parve loro piú bella che il dí passato, quanto l’ora del dí era piú alla bellezza di quella conforme. E poi che col buon vino e co’ confetti ebbero il digiun rotto, acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati, cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessono esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano. Ma poi che l’ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci allori e gli altri belli alberi, vicine al bel laghetto, come al re piacque, cosí andarono a sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere; il che, come di riguardare, cosí talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi che venuta fu la fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora piú lieti che prima cominciarono a cantare; quindi, essendo in piú luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenza del re, a cui piacque, si potè andare a dormire: e chi dormir non volle, degli altri loro diletti usati pigliar poteva a suo piacere. Ma venuta giá l’ora che tutti levati erano e tempo era da riducersi a novellare, come il re volle, non guari lontani al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l’erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse; la quale lietamente cosí cominciò a dir sorridendo:
- [I]
- Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, ed il picchiare si rimane.
- Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse a cosí bella materia come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento: ma poi che egli v’aggrada che io tutte l’altre assicuri, ed io il farò volentieri. Ed ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere utile nell’avvenire, per ciò che, se cosí son l’altre come io paurose, e massimamente della fantasima, la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia, né ancora alcuna trovai che il sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente, a quella cacciar via quando da voi venisse, notando bene la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole, apparare.
- Egli fu giá in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo il quale fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo piú avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de’ laudesi di Santa Maria Novella, ed aveva a ritenere la scuola loro, ed altri cosí fatti uficetti aveva assai sovente, di che egli da molto piú si teneva: e ciò gli avveniva per ciò che egli molto spesso, sí come agiato uomo, dava di buone pietanze a’ frati. Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gl’insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso ed il lamento di san Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali egli avea molto cari, e tutti per la salute dell’anima sua gli si serbava molto diligentemente. Ora, aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia ed avveduta molto; la quale, conoscendo la simplicitá del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta la state: e Gianni alcuna volta vi veniva a cenare e ad albergo, e la mattina se ne tornava a bottega e talora a’ laudesi suoi. Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo un dì che imposto gli fu, in sul vespro se n’andò lá su, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò ed albergò con la donna: ed ella, standogli in braccio la notte, gl’insegnò da sei delle laude del suo marito. Ma non intendendo essa che questa fosse così l’ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressi, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo, che egli ognidí, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto piú suso era, tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era: ed egli vedrebbe un teschio d’asino in su un palo di quegli della vigna, il quale quando col muso vòlto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera, di notte, se ne venisse a lei, e se non trovasse l’uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio vòlto verso Fiesole, non vi venisse, per ciò che Gianni vi sarebbe. Ed in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono: ma tra l’altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenare con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venire non vi doveva, molto tardi vi venne. Di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare: ed alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche ed un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e dove ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d’un pesco che era allato ad un pratello quelle cose ponesse; e tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v’era e che egli quelle cose dell’orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni a letto, e similmente la fante, non istette guari che Federigo venne e toccò una volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era, che Gianni incontanente il sentì, e la donna altressì: ma acciò che Gianni nulla suspicar potesse di lei, di dormire fece sembianti. E stando un poco, Federigo picchiò la seconda volta; di che Gianni maravigliandosi, punzecchiò un poco la donna, e disse: — Tessa, odi tu quel che io? El pare che l’uscio nostro sia tócco. — La donna, che molto meglio di lui udito l’avea, fece vista di svegliarsi, e disse: — Come di’ ? eh? — Dico — disse Gianni — che el pare che l’uscio nostro sia tócco. — Disse la donna: — Tócco? Oimè! Gianni mio, or non sai tu quello che egli è? Egli è la fantasima, della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s’avesse, tal che, come io sentita l’ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori si è stato di chiaro. — Disse allora Gianni: — Va’, donna, non aver paura se ciò è, ché io dissi dianzi il Te lucis e la ’ntemerata e tante altre buone orazioni, quando a letto ci andammo, ed anche segnai il letto di canto in canto al nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, che temere non ci bisogna: ché ella non ci può, per potere che ella abbia, nuocere. — La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v’era; e disse al marito: — Bene sta, tu di’ tue parole tu; io per me non mi terrò mai salva né sicura se noi non la ’ncantiamo, poscia che tu ci se’. — Disse Gianni: — O come s’incanta ella? — Disse la donna: — Ben la so io incantare, ché l’altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di quelle romite, che è, Gianni mio, pur la piú santa cosa che Iddio tel dica per me, veggendomene cosí paurosa, m’insegnò una santa e buona orazione, e disse che provata l’avea piú volte avanti che romita fosse, e sempre l’era giovato. Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d’andare sola a provarla: ma ora che tu ci se’, io vo’ che noi andiamo ad incantarla. — Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi, se ne vennero ammenduni pianamente all’uscio, al quale ancor di fuori Federigo, giá sospettando, aspettava: e giunti quivi, disse la donna a Gianni: — Ora sputerai, quando io il ti dirò. — Disse Gianni: — Bene. — E la donna cominciò l’orazione, e disse: — Fantasima fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai; va’ nell’orto a piè del pesco grosso: troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia; pon’ bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a Gianni mio. — E cosí detto, disse al marito: — Sputa, Gianni! — E Gianni sputò: e Federigo, che di fuori era e questo udiva, giá di gelosia uscito, con tutta la malinconia aveva sì gran voglia di ridere, che scoppiava, e pianamente, quando Gianni sputava, diceva: — I denti. — La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte incantata la fantasima, a letto se ne tornò col marito. Federigo, che con lei di cenar s’aspettava, non avendo cenato ed avendo bene le parole dell’orazione intese, se n’andò nell’orto ed a piè del pesco grosso trovati i due capponi ed il vino e l’uova, a casa se ne gli portò e cenò a grande agio; e poi dell’altre volte ritrovandosi con la donna, molto di questa incantagione rise con essolei. Vera cosa è che alcuni dicono che la donna aveva ben vòlto il teschio dell’asino verso Fiesole, ma un lavoratore per la vigna passando v’aveva entro dato d’un bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso vólto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v’era venuto, e che la donna aveva fatta l’orazione in questa guisa: Fantasima fantasima, vatti con Dio, ché la testa dell’asino non volsi io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio: ed io son qui con Gianni mio»; per che andatosene, senza albergo e senza cena era rimaso. Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l’una e l’altra fu vera, secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo, ma che l’ultimo non a Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma ad uno che si chiamò Gianni di Nello, che stava in Porta San Piero, non meno sufficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi. E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione sta di tôrre qual piú vi piace delle due, o volete ammendune: elle hanno grandissima vertú a cosí fatte cose, come per esperienza avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare.
- [II]
- Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha ad uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare; il quale, saltatone fuori, il fa radere al marito e poi portarsenelo a casa sua.
- Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascoltata e l’orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale alla sua fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò:
- Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d’udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne, d’altra parte, anche sanno; il che altro che utile esser non vi può, per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggermente a volerlo ingannare. Chi dubita adunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste beffare? È adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovanetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo per salvezza di sé al marito facesse.
- Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovanetta chiamata Peronella: ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo ed in uno altro la sollecitò, che con essolei si dimesticò. Ed a potere essere insieme presero tra sé questo ordine, che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo, per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori: ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse; e cosí molte volte fecero. Ma pur tra l’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, che cosí aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dí tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò e dopo il picchiare cominciò seco a dire: — O Iddio, lodato sii tu sempre, che, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona ed onesta giovane di moglie! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse, che noia le desse. — Peronella, sentito il marito, che al modo del picchiare il conobbe, disse: — Oimè! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire: ché egli non ci tornò mai piú a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c’entrasti! Ma per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costí, ed io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire, di tornare stamane cosí tosto a casa. — Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella, andata all’uscio, aprí al marito, e con un mal viso disse: — Ora questa che novella è, che tu cosí tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, che io ti veggio tornare co’ ferri tuoi in mano: e se tu fai così, di che viverem noi? onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli, che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio, che n’arda la nostra lucerna? Marito marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro: e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti essere a lavorare! — E cosí detto, incominciò a piagnere ed a dir da capo: — Oimè, lassa me, dolente me! in che malora nacqui! in che mal punto ci venni, che avrei potuto avere un giovane cosi da bene e nol volli, per venire a costui, che non pensa cui egli s’ha menata a casa! L’altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due e chi tre, e godono, e mostrano a’ mariti la luna per lo sole: ed io, misera me! perché son buona e non attendo a cosí fatte novelle, ho male e mala ventura. Io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente, marito mio, che, se io volessi far male, io troverei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene ed hannomi mandato profferendo dimolti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò: e tu mi torni a casa quando tu dèi essere a lavorare! — Disse il marito: — Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dèi credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero che io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di san Galeone e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno provveduto e trovato modo che noi avremo del pane per piú d’un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con meco il doglio, il quale tu sai che, giá è cotanto, ha tenuta la casa impacciata: e dammene cinque gigliati. — Disse allora Peronella: — E tutto questo è la cagione del dolor mio: tu che se’ uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ’mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un buono uomo il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo fosse. — Quando il marito udí questo, fu piú che contento, e disse a colui che venuto era per esso: — Buono uomo, vatti con Dio, ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque. — Il buono uom disse: — In buona ora sia! — ed andossene. E Peronella disse al marito: — Vien’ su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri. — Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se d’alcuna cosa gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio: e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: — Dove se’, buona donna? — Al quale il marito, che giá veniva, disse: — Eccomi; che domandi tu? — Disse Giannello: — Qual se’ tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio. — Disse il buono uomo: — Fate sicuramente meco, ché io son suo marito. — Disse allora Giannello: — Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa si secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però noi torrei se io nol vedessi prima netto. — Disse allora Peronella: — No, per quello non rimarrá il mercato; mio marito il netterá tutto. — Ed il marito disse: — Sì bene — e posti giú i ferri suoi ed ispogliatosi in camiscione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, ed oltre a questo, l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: — Radi quivi, e quivi, ed anche colá — e — Vedine qui rimaso un micolino. — E mentre che cosí stava ed al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidèro ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse: ed a lei accostatosi che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, ed in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovenil disidèro; il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione, e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, ed il marito uscitone fuori. Per che Peronella disse a Giannello: — Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo. — Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era contento: e datigli sette gigliati, a casa sei fece portare.
- [III]
- Frate Rinaldo si giace con la comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
- Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle partiche, che l’avvedute donne non ne ridessono, sembianti faccendo di rider d’altro. Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse; la quale, disposta ad ubidire, incominciò: Piacevoli donne, lo ’ncantar della fantasima d’Emilia m’ha fatto tornare alla memoria una novella d’un’altra incantagione, la quale quantunque cosí bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me n’occorre al presente, la racconterò.
- Voi dovete sapere che in Siena fu giá un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia il quale ebbe nome Rinaldo; ed amando sommamente una sua vicina ed assai bella donna e moglie d’un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non veggendone alcuno ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire: ed accontatosi col marito di lei, per quel modo che piú onesto gli parve gliele disse, e fu fatto. Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare ed avendo alquanto d’arbitrio piú colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione, con parole, le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto: ma poco per ciò gli valse, quantunque d’averlo udito non dispiacesse alla donna. Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione, che Rinaldo si rendè frate, e chente che egli trovasse la pastura, egli perseverò in quello; ed avvegna che egli alquanto, di que’ tempi che frate si fece, avesse dall’un de’ lati posto l’amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanitá, pure in processo di tempo, senza lasciar l’abito, le si riprese, e cominciò a dilettarsi d’apparere e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto ed ornato, ed a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, ed a cantare, e tutto pieno d’altre cose a queste simili. Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che cosí non facciano? Ahi vitupèro del guasto mondo! Essi non si vergognano d’apparir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi ne’ vestimenti ed in tutte le cose loro, e non come colombi ma come galli tronfi con la cresta levata pettoruti procedono: e che è peggio; lasciamo stare l’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con oli, di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, intanto che non celle di frati ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono piú tosto a’ riguardanti; essi non si vergognano che altri sappia, loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche ed il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili ed il piú sani: e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’infermano, alle quali si suole per medicina dare la castitá ed ogni altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltre la sottil vita, le vigilie lunghe, l’orare ed il disciplinarsi dover gli uomini pallidi ed afflitti rendere, e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quattro cappe per uno, non di tintillani né d’altri panni gentili ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provveggia come all’anime de’ semplici che gli nutricano fa bisogno! Così adunque ritornato frate Rinaldo ne’ primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare: e cresciutagli baldanza, con piú istanza che prima non faceva, la cominciò a sollecitare a quello che egli di lei disiderava. La buona donna, veggendosi molto sollecitare e parendole frate Rinaldo forse piú bello che non pareva prima, essendo un dì molto da lui infestata, a quel ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addomandato, e disse: — Come, frate Rinaldo, o fanno cosí fatte cose i frati? — A cui frate Rinaldo rispose: — Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che la mi traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate. — La donna fece bocca da ridere, e disse: — Oimè trista! voi siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male, ed io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato: e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste. — A cui frate Rinaldo disse: — Voi siete una sciocca se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de’ maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi: chi è piú parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo o vostro marito che il generò? — La donna rispose: — È piú suo parente mio marito. — E voi dite il vero, — disse il frate — e vostro marito non si giace con voi? — Mai sí — rispose la donna. — Adunque, — disse il frate — ed io, che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito. — La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero; e rispose: — Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole? — Ed appresso, nonostante il comparatico, si recò a dover fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico avendo piú agio, perché la suspizione era minore, piú e piú volte si ritrovarono insieme. Ma tra l’altre una avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna e veggendo quivi niuna persona essere altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco de’ colombi ad insegnarle il paternostro, egli con la donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n’entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere che in quella era s’incominciarono a trastullare: ed in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all’uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna. Madonna Agnesa, questo sentendo, disse: — Io son morta, ché ecco il marito mio: ora si pure avvedrá egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza. — Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella; il quale questo udendo, disse: — Voi dite vero; se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe: ma se voi gli aprite, ed egli mi truovi cosi, niuna scusa ci potrá essere. — La donna, da subito consiglio aiutata, disse: — Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, ed ascolterete bene ciò che io gli dirò, si che le vostre parole poi s’accordino con le mie: e lasciate fare a me. — Il buono uomo non era ancora ristato di picchiare, che la moglie rispose: — Io vengo a te — e levatasi, con un buon viso se n’andò all’uscio della camera ed aperselo, e disse: — Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, ed Iddio il ci mandò: ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro. — Quando il bescio santoccio udí questo, tutto misvenne, e disse: — Come? — O marito mio, — disse la donna — e’ gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti che fosse morto: e non sapeva né che mi far né che mi dire, se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatolsi in collo, disse: — Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, li quali gli s’appressano al cuore ed ucciderebbonlo troppo bene: ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò e farògli morir tutti, ed innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi vedeste mai. — E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece dire al compagno suo nel piú alto luogo della nostra casa, ed egli ed io qua entro ce n’entrammo: e per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a cosí fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo; ed ancora l’ha egli in braccio, e credomi io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è giá tutto tornato in sé. — Il santoccio credendo queste cose, tanto l’affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l’animo allo ’nganno fattogli dalla moglie, ma gittato un gran sospiro, disse: — Io il voglio andare a vedere. — Disse la donna: — Non andare, ché tu guasteresti ciò che s’è fatto; aspèttati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti. — Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea ed erasi rivestito a bello agio ed avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò: — O comare, non sento io di costá il compare? — Rispose il santoccio: — Messer sì. — Adunque, — disse frate Rinaldo — venite qua. — Il santoccio andò lá, al quale frate Rinaldo disse: — Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi noi vedeste vivo a vespro: e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Iddio ve n’ha fatta grazia. — Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale, recatolsi in braccio, lagrimando non altramenti che della fossa il traesse, il cominciò a basciare ed a render grazie al suo compare che guerito gliele avea. Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro ma forse piú di quattro n’aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco la quale a lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere ed udire ciò che vi si facesse poteva: e veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera, disse: — Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che m’imponeste, io l’ho dette tutte. — A cui frate Rinaldo disse: — Fratel mio, tu hai buona lena, ed hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, non n’aveva dette che due, ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito. — Il santoccio fece venire di buon vini e di confetti, e fece onore al suo compare ed al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d’altro; poi con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio, e senza alcuno indugio fatta fare l’imagine di cera, la mandò ad appiccare con l’altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano.
- [IV]
- Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra; Tofano esce di casa e corre lá, ed ella in casa se n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
- Il re, come la novella d’Elissa sentí aver fine, cosí senza indugio verso la Lauretta rivolto, le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare, cosí cominciò:
- O Amore, clienti e quali sono le tue forze, chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli accorgimenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi séguita le tue orme? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua, sí come assai bene comprender si può nelle cose davanti mostrate. Alle quali, amorose donne, io una n’aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tal che io non so chi altri se l’avesse potuta mostrare che Amore.
- Fu adunque giá in Arezzo un ricco uomo il quale fu Tofano nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso; di che la donna avveggendosi, prese sdegno, e piú volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare se non cotal generali e cattive, cadde nell’animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura: ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene la vagheggiava, discretamente con lui s’incominciò ad intendere. Ed essendo giá tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo: ed avendo giá, tra’ costumi cattivi del suo marito, conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollecitarlo a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per uso, che quasi ogni volta che a grado l’era, infino all’inebriarsi bevendo il conducea: e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente piú volte di ritrovarsi con lui continuò; e tanta di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s’andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana. Ed in questa maniera la ’nnamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva per ciò essa mai; di che egli prese sospetto, non cosí fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E volendo di questo, se cosí fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una sera, mostrandosi il piú ebbro uomo, e nel parlare e ne’ modi, che fosse mai, il che la donna credendo, né estimando che piú bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente a letto: e fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n’andò, e quivi infino alla mezzanotte dimorò. Tofano, come la donna non vi sentì, cosí si levò, ed andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue: e tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa e trovatasi serrata di fuori, fu oltre modo dolente e cominciò a tentare se per forza potesse l’uscio aprire; il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto, disse: — Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu tornare; va’ tornati lá dove infino ad ora se’ stata, ed abbi per certo che tu non ci tornerai mai infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de’ parenti tuoi e de’ vicini, te n’avrò fatto quell’onore che ti si conviene. — La donna lo ’ncominciò a pregar per l’amor di Dio che piacergli dovesse d’aprirle, per ciò che ella non veniva donde s’avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte né sola in casa vegghiare. Li prieghi non giovavano alcuna cosa, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin sapessero la lor vergogna, lá dove niun la sapeva. La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare, e disse: — Se tu non m’apri, io ti farò il piú tristo uom che viva. — A cui Tofano rispose: — E che mi puoi tu fare? — La donna, alla quale Amore aveva giá aguzzato co’ suoi consigli lo ’ngegno, rispose: — Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sará che creda che altri che tu per ebbrezza mi v’abbi gittata: e cosí o ti converrá fuggire e perder ciò che tu hai ed essere in bando, o converrá che ti sia tagliata la testa sí come a micidial di me che tu veramente sarai stato. — Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione; per la qual cosa la donna disse: — Ora ecco, io non posso piú sofferire questo tuo fastidio; Iddio il ti perdoni; farai riporre questa mia rócca che io lascio qui. — E questo detto, essendo la notte tanto oscura, che appena si sarebbe potuto veder l’un l’altro per la via, se n’andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando — Iddio, perdonami! — la lasciò cadere entro nel pozzo. La pietra giugnendo nell’acqua fece un grandissimo romore, il quale come Tofano udí, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla e corse al pozzo. La donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s’era, come il vide correre al pozzo, cosí ricoverò in casa e serrossi dentro ed andossene alle finestre, e cominciò a dire: — Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte. — Tofano, udendo costei, si tenne scornato, e tornossi all’uscio: e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse. Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire: — Alla croce di Dio, ebriaco fastidioso, tu non c’entrerai stanotte; io non posso piú sofferire questi tuoi modi: egli convien che io faccia vedere ad ogni uomo chi tu se’ ed a che ora tu torni la notte a casa. — Tofano, d’altra parte, crucciato le ’ncominciò a dir villania ed a gridare; di che i vicini sentendo il romor si levarono, ed uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse. La donna cominciò piagnendo a dire: — Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s’addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e non giovandomi, non potendo piú sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se n’ammenderá. — Tofano bestia, d’altra parte, diceva come il fatto era stato e minacciavala forte. La donna, co’ suoi vicini diceva: — Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fé di Dio, che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo! Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo, ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero ed affogato, sí che egli il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato. — I vicini, e gli uomini e le donne, cominciarono a riprender tutti Tofano ed a dar la colpa a lui ed a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; ed in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a’ parenti della donna, li quali, venuti lá ed udendo la cosa e da un vicino e da uno altro, presero Tofano e diedergli tante busse, che tutto il ruppono; poi andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio. Tofano, veggendosi mal parato e che la sua gelosia l’aveva mal condotto, sí come quegli che tutto il suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani e tanto procacciò, che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua; alla quale promise di mai piú non esser geloso, ed oltre a ciò, le die’ licenza che ogni suo piacer facesse, ma sí saviamente, che egli non se n’avvedesse. E cosi, a modo del villan matto, dopo danno fe’ patto.
- [V]
- Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dá a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascosamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante e con lui si dimora.
- Posto avea fine la Lauretta al suo ragionamento, ed avendo giá ciascun commendata la donna che ella bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le ’mpose del novellare; per la qual cosa ella cosí cominciò:
- Nobilissime donne, la precedente novella mi tira a dovere similmente ragionar d’un geloso, estimando che ciò che si fa loro dalla lor donna, e massimamente quando senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto: e se ogni cosa avessero i componitori delle leggi guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non altra pena aver costituita che essi costituirono a colui che alcuno offende sé difendendo, per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte. Esse stanno tutta la settimana rinchiuse ed attendono alle bisogne famigliari e domestiche, disiderando, come ciascun fa, d’aver poi il dí delle feste alcuna consolazione ed alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sí come prendono i lavoratori de’ campi, gli artefici delle cittá ed i reggitori delle corti, come fe’ Iddio che il dí settimo da tutte le sue fatiche si riposò e come vogliono le leggi sante e le civili, le quali, all’onor di Dio ed al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dí delle fatiche distinti da quegli del riposo. Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dí che a tutte l’altre son lieti, fanno ad esse, piú serrate e piú rinchiuse tenendole, esser piú miseri e piú dolenti, il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle, quelle sole il sanno che l’hanno provato; per che, conchiudendo, ciò che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condannare ma commendar si dovrebbe. Fu adunque in Arimino un mercatante ricco e di possessioni e di denari assai, il quale, avendo una bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso; né altra cagione a questo avea, se non che, come egli molto l’amava e molto bella la teneva, e conosceva che ella con tutto il suo studio s’ingegnava di piacergli, cosí estimava che ogni uomo l’amasse e che ella a tutti paresse bella ed ancora che ella s’ingegnasse cosí di piacere altrui come a lui. E cosí ingelosito, tanta guardia ne prendeva e sì stretta la tenea, che forse assai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono da’ prigionieri con tanta guardia servati. La donna, lasciamo stare che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse o il piè della casa trarre in alcun modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima: ed essa tanto piú impazientemente sosteneva questa noia quanto meno si sentiva nocente. Per che, veggendosi a torto fare ingiuria al marito, s’avvisò, a consolazion di se medesima, di trovar modo, se alcuno ne potesse trovare, di far sì che a ragione le fosse fatto; e per ciò che a finestra far non si potea, e cosí modo non avea di potersi mostrare contenta dell’amore d’alcuno che atteso l’avesse per la sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua, aveva alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per quel tante volte guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di donargli il suo amore se egli il volesse ricevere, e se modo vi si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta: ed in questa maniera trapassare la sua malvagia vita infino a tanto che il fistolo uscisse da dosso al suo marito. E venendo ora in una parte ed ora in un’altra, quando il marito non v’era, il muro della casa guardando, vide per ventura in una parte assai segreta di quella il muro alquanto da una fessura essere aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male discerner potesse dall’altra parte, pur s’avvide che quivi era una camera dove capitava la fessura, e seco disse: — Se questa fosse la camera di Filippo, — cioè del giovane suo vicino — io sarei mezza fornita. — E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare: e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che, visitando la fessura spesso, e quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e cotali fuscellini, tanto fece, che, per veder che ciò fosse, il giovane venne quivi. Il quale ella pianamente chiamò, ed egli, che la sua voce conobbe, le rispose: ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l’animo suo gli aprì, di che il giovane contento assai, si fece, che dal suo lato il pertugio si fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma piú avanti per la solenne guardia del geloso non si poteva. Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi, come fanno gli altri cristiani; alla quale il geloso disse: — E che peccati ha’ tu fatti, che tu ti vuoi confessare? — Disse la donna: — Come? credi tu che io sia santa? Perché tu mi tenghi rinchiusa, ben sai che io fo de’ peccati come l’altre persone che ci vivono: ma io non gli vo’ dire a te, ché tu non se’ prete. — Il geloso prese di queste parole sospetto, e pensossi di voler saper che peccati costei avesse fatti, ed avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto: e rispose che era contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella loro, e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro o da qualche prete che il cappellan le desse, e non da altrui, e tornasse di presente a casa. Alla donna pareva mezzo avere inteso: ma senza altro dire, rispose che si farebbe. Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su l’aurora ed acconciossi, ed andossene alla chiesa impostale dal marito. Il geloso, d’altra parte, levatosi, se n’andò a quella medesima chiesa, e fuvvi prima di lei: ed avendo giá col prete di lá entro composto ciò che far voleva, messasi prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote, come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a sedere in coro. La donna, venuta alla chiesa, fece domandare il prete. Il prete venne, ed udendo dalla donna che confessarsi volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno: ed andatosene, mandò il geloso nella sua malora. Il quale molto contegnoso venendo, ancora che egli non fosse molto chiaro il dì ed egli s’avesse molto messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare, che egli non fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo veggendo, disse seco medesima: — Lodato sia Iddio che costui di geloso è divenuto prete: ma pur lascia fare, ché io gli darò quello che egli va cercando. — Fatto adunque sembianti di non conoscerlo, gli si pose a sedere a’ piedi. Messer lo geloso s’avea messe alcune petruzze in bocca, acciò che esse alquanto la favella gl’impedissero, sì che egli a quella dalla moglie riconosciuto non fosse, parendogli in ogni altra cosa sì del tutto esser divisato, che esser da lei riconosciuto a niun partito credeva. Or, venendo alla confessione, tra l’altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che ella era innamorata d’un prete il quale ogni notte con lei s’andava a giacere. Quando il geloso udí questo, e’ gli parve che gli fosse dato d’un coltello nel cuore, e se non fosse che volontá lo strinse di saper piú innanzi, egli avrebbe la confessione abbandonata ed andatosene. Stando adunque fermo, domandò la donna: — E come? non giace vostro marito con voi? — La donna rispose: — Messer sì. — Adunque, — disse il geloso — come vi puote anche il prete giacere? — Messer, — disse la donna — il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato, che, come egli il tocca, non s’apra; e dicemi egli che, quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l’apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s’addormenta: e come addormentato il sente, così apre l’uscio e viensene dentro e stassi con meco, e questo non falla mai. — Disse allora il geloso: — Madonna, questo è mal fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere. — A cui la donna disse: — Messer, questo non crederei io mai poter fare, per ciò che io l’amo troppo. — Adunque, — disse il geloso — non vi potrò io assolvere. — A cui disse la donna: — Io ne son dolente: io non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi. — Disse allora il geloso: — In veritá, madonna, di voi m’incresce, che io vi veggio a questo partito perder l’anima: ma io in servigio di voi ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali a Dio in vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e si vi manderò alcuna volta un mio cherichetto a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no, e se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi. — A cui la donna disse: — Messer, cotesto non fate voi, che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il risapesse, egli è sì forte geloso, che non gli trarrebbe del capo tutto il mondo che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di questo anno. — A cui il geloso disse: — Madonna, non dubitate di questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne sentirete mai parola da lui. — Disse allora la donna: — Se questo vi dá il cuore di fare, io son contenta. — E fatta la confessione e presa la penitenza e da’ piè levataglisi, se n’andò ad udire la messa. Il geloso con la sua mala ventura, soffiando, s’andò a spogliare i panni del prete e tornossi a casa, disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per fare un mal giuoco ed all’uno ed all’altro. La donna tornò dalla chiesa, e vide bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua, ma egli quanto poteva s’ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e che saper gli parea: ed avendo seco stesso diliberato di dover la notte vegnente star presso all’uscio della via ed aspettare se il prete venisse, disse alla donna: — A me conviene questa sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l’uscio da via e quel da mezza scala e quel della camera, e quando ti parrá t’andrai a letto. — La donna rispose: — In buona ora. — E quando tempo ebbe, se n’andò alla buca e fece il segno usato, il quale come Filippo senti, cosí di presente a quel venne; al quale la donna disse ciò che fatto avea la mattina e quello che il marito appresso mangiare l’aveva detto, e poi disse: — Io son certa che egli non uscirá di casa, ma si metterá a guardia dell’uscio, e per ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua, sí che noi siamo insieme. — Il giovane, contento molto di questo fatto, disse: — Madonna, lasciate far me. — Venuta la notte, il geloso con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna, avendo fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quel da mezza scala, acciò che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve, ed il giovane per via assai cauta dal suo lato se ne venne: ed andaronsi a letto, dandosi l’un dell’altro piacere e buon tempo; e venuto il dí, il giovane se ne tornò in casa sua. Il geloso, dolente e senza cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi allato all’uscio ad aspettare se il prete venisse: ed appressandosi il giorno, non potendo piú vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire. Quindi vicin di terza levatosi, essendo giá l’uscio della casa aperto, faccendo sembianti di venire altronde, se ne salí in casa sua e desinò. E poco appresso, mandato un garzonetto a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata l’avea, la mandò domandando se colui cui ella sapeva piú venuto vi fosse. La donna, che molto bene conobbe il messo, rispose che venuto non v’era quella notte e che, se cosí facesse, che egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non volesse che di mente l’uscisse. Ora, che vi debbo dire? Il geloso stette molte notti per volere giugnere il prete all’entrata, e la donna continuamente col suo amante dandosi buon tempo; alla fine il geloso, che piú sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò che ella avesse al prete detto la mattina che confessata s’era. La donna rispose che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole. A cui il geloso disse: — Malvagia femina, a dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti, e convien del tutto che io sappia chi è il prete di cui tu tanto se’ innamorata e che teco per suoi incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni. — La donna disse che non era vero che ella fosse innamorata d’alcun prete. — Come? — disse il geloso — non dicestú cosí e cosí al prete che ti confessò? — La donna disse: — Non che egli te l’abbia ridetto, ma egli basterebbe se tu fossi stato presente; mai si, che io gliele dissi. — Adunque, — disse il geloso — dimmi chi è questo prete, e tosto. — La donna cominciò a sorridere, e disse: — Egli mi giova molto quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone per le corna in beccheria: benché tu non se’ savio né fosti, da quella ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia senza saper perché; e tanto quanto tu se’ piú sciocco e piú bestiale, cotanto ne diviene la gloria mia minore. Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se’ cieco di quegli della mente? Certo no: e veggendo, conobbi chi fu il prete che mi confessò e so che tu fosti desso tu. Ma io mi posi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dieditelo: ma se tu fossi stato savio come esser ti pare, non avresti per quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna, e senza prender vana suspizion ti saresti avveduto, di ciò che ella ti confessava, cosí essere il vero senza avere ella in cosa alcuna peccato. Io ti dissi che io amava un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato, quando meco giacer volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto, quando tu colá dove io fossi, se’ voluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me mandasti, tante sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era. Quale smemorato altri che tu, che alla gelosia tua t’hai lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se’ ti stato in casa a far la notte la guardia all’uscio, ed a me credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena e ad albergo. Ravvediti oggimai e torna uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne guardar che tu fai, ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le corna, se tu avessi cento occhi come tu n’hai due, el mi darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non te n’avvedresti. — Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo, si tenne scornato, e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per savia: e quando la gelosia gli bisognava, del tutto la si spogliò, cosí come, quando bisogno non gli era, se l’aveva vestita; per che la savia donna, quasi licenziata a’ suoi piaceri, senza far venire il suo amante su per lo tetto come vanno le gatte, ma pur per l’uscio, discretamente operando, poi piú volte con lui buon tempo e lieta vita si diede.
- [VI]
- Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornato il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa sua ne manda, ed il marito di lei poi Leonetto accompagna.
- Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno, ottimamente la donna aver fatto e quel che si convenia al bestiale uomo. Ma poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse; la quale incominciò a dire:
- Molti sono li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa divenire smemorato. Sciocca oppinione mi pare: ed assai le giá dette cose l’hanno mostrato, ed io ancora intendo di dimostrarlo.
- Nella nostra cittá, copiosa di tutti i beni, fu una giovane donna e gentile ed assai bella, la qual fu moglie d’un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso avviene che sempre non può l’uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare, non sodisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s’innamorò d’un giovane il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse, ed egli similmente s’innamorò di lei: e come voi sapete che rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al loro amor compimento molto tempo non s’interpose. Ora, avvenne che, essendo costei bella donna ed avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio s’innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevole uomo e sazievole le parea, per cosa del mondo ad amar lui disporre non si potea: ma costui con ambasciate sollecitandola molto e non valendogli, essendo possente uomo, la mandò minacciando di vituperarla se non facesse il piacer suo; per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare il voler suo. Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state, a stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il quale lietissimo incontanente v’andò. Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a cavallo, a lei se n’andò e picchiò alla porta. La fante della donna, vedutolo, n’andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e chiamatala, le disse: — Madonna, messer Lambertuccio è qua giú tutto solo. — La donna, udendo questo, fu la piú dolente femina del mondo: ma temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina del letto infino a tanto che messer Lambertuccio se n’andasse. Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose, ed ella comandò alla fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio; la quale apertogli, ed egli nella corte smontato d’un suo pallafreno, e quello appiccato ivi ad uno arpione, se ne salì suso. La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto piú potè in parole lietamente il ricevette, e domandollo quello che egli andasse faccendo. Il cavaliere, abbracciatala e basciatala, disse: — Anima mia, io intesi che vostro marito non c’era, sì che io mi son venuto a stare alquanto con essovoi. — E dopo queste parole entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei. E cosí con lei standosi, tutto fuori della credenza della donna avvenne che il marito di lei tornò, il quale quando la fante vicino al palagio vide, così subitamente corse alla camera della donna, e disse: — Madonna, ecco messer che torna; io credo che egli sia giá giú nella corte. — La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, e conosceva che il cavaliere non si poteva nascondere, per lo suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta; nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a messer Lambertuccio: — Messer, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò. Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto turbato ve n’andrete giú per le scale, ed andrete dicendo: «Io fo boto a Dio che io il coglierò altrove!»; e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v’ho, e montato a cavallo, per niuna cagione seco ristate. — Messer Lambertuccio disse che volentieri: e tirato fuori il coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e per l’ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl’impose, cosí fece. Il marito della donna giá nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse: — Che è questo, messere? — Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro se non: — Al corpo di Dio, io il giugnerò altrove! — ed andò via. Il gentile uomo, montato su, trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura; alla quale egli disse: — Che cosa è questa? Cui va messer Lambertuccio cosí adirato minacciando? — La donna, tiratasi verso la camera acciò che Leonetto l’udisse, rispose: — Messere, io non ebbi mai simil paura a questa. Qua entro si fuggì un giovane il quale io non conosco e che messer Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: — Madonna, per Dio aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto. — Io mi levai diritta, e come il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: — Dove se’, traditore? — Io mi parai in su l’uscio della camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni: ed egli intanto fu cortese, che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne giú come voi vedeste. — Disse allora il marito: — Donna, ben facesti; troppo ne sarebbe stato gran biasimo se persona fosse stata qua entro uccisa, e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro fuggita fosse. — Poi domandò dove fosse quel giovane. La donna rispose: — Messere, io non so dove egli si sia nascosto. — Il cavaliere allora disse: — Ove se’ tu? Esci fuori sicuramente. — Leonetto, che ogni cosa udita avea, tutto pauroso come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s’era. Disse allora il cavaliere: — Che hai tu a fare con messer Lambertuccio? — Il giovane rispose: — Messer, niuna cosa che sia in questo mondo: e per ciò io credo fermamente che egli non sia in buon senno o che m’abbia colto in iscambio, per ciò che, come poco lontano da questo palagio nella strada mi vide, cosí mise mano al coltello e disse: — Traditor, tu se’ morto! — Io non mi posi a domandare per che ragione, ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni, dove, mercé di Dio e di questa gentil donna, scampato sono. — Disse allora il cavaliere: — Or via, non aver paura alcuna: io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar quello che con lui hai a fare. — E come cenato ebbero, fattol montare a cavallo, a Firenze ne lo menò, e lasciollo a casa sua; il quale, secondo l’ammaestramento della donna avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente e sí con lui ordinò, che, quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s’accorse della beffa fattagli dalla moglie.
- [VII]
- Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi, levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
- Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso; ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse, disse:
- Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.
- Voi dovete sapere che in Parigi fu giá un gentile uomo fiorentino il quale per povertá divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia, che egli n’era fatto ricchissimo; ed avea della sua donna un figliuol senza piú, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla nobiltá del padre e non alla mercatantia si traesse, non l’aveva il padre voluto mettere ad alcun fondaco, ma l’avea messo ad essere con altri gentili uomini al servigio del re di Francia, lá dove egli assai di be’ costumi e di buone cose aveva apprese. E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani nel quale Lodovico era, ed udendogli tra sé ragionare delle belle donne di Francia e d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di loro a dir che per certo, di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza; a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l’avean veduta, s’accordarono. La qual cosa ascoltando Lodovico, che d’alcuna ancora innamorato non s’era, s’accese in tanto disidèro di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiero: e del tutto disposto d’andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare se ella gli piacesse, fece veduto al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con gran malagevolezza ottenne. Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne, e come la fortuna volle, il dí seguente vide questa donna ad una festa, e troppo piú bella gli parve assai che estimato non avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando che via dovesse a ciò tenere, ogni altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava. Venduti adunque i suoi cavalli, e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor comandato che sembianti facessero di non conoscerlo, essendosi accontato con l’oste suo, gli disse che volentier per servidore d’un signore da bene, se alcun ne potesse trovare, starebbe; al quale l’oste disse: — Tu se’ dirittamente famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il quale molti ne tiene, e tutti gli vuole appariscenti come tu se’; io ne gli parlerò. — E come disse, cosí fece; ed avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino, il che quanto piú potè esser, gli fu caro. E con Egano dimorando ed avendo copia di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sí a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare: e non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo. Avvenne un giorno che, essendo andato Egano ad uccellare ed Anichino rimaso, madonna Beatrice, che dell’amor di lui accorta non s’era ancora, e quantunque seco, lui ed i suoi costumi guardando, piú volte molto commendato l’avesse e piacessele, con lui si mise a giucare a scacchi: ed Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente faccendolo, si lasciava vincere; di che la donna faceva maravigliosa festa. Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna partite, e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo sospiro. La donna, guardatolo, disse: — Che avesti, Anichino? Duolti cosí che io ti vinco? — Madonna, — rispose Anichino — troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro. — Disse allora la donna: — Deh! dilmi, per quanto ben tu mi vuogli. — Quando Anichino si sentì scongiurare «per quanto ben tu mi vuogli» a colei la quale egli sopra ogni altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de’ suoi sospiri. Alla quale Anichin disse: — Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia se io il vi dico, ed appresso dubito che voi ad altra persona nol ridiciate. — A cui la donna disse: — Per certo egli non mi sará grave: e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quando ti piaccia, io non dirò mai ad altrui. — Allora disse Anichino: — Poi che voi mi promettete cosi, ed io il vi dirò. — E quasi con le lagrime in su gli occhi le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove, e come di lei s’era innamorato e perché per servidor del marito di lei postosi: ed appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d’aver pietá di lui, ed in questo suo segreto e sì fervente disidèro, di compiacergli, e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli l’amasse. O singular dolcezza del sangue bolognese, quanto se’ tu sempre stata da commendare in cosí fatti casi! Mai di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a’ prieghi pieghevole ed agli amorosi disidèri arrendevol fosti; se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia. La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa altressi cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose: — Anichino mio dolce, sta’ di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d’alcuno altro, ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti, mai potè muovere l’animo mio tanto che io alcuno n’amassi: ma tu m’hai fatta in cosí poco spazio come le tue parole durate sono, troppo piú tua divenir che io non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi. Ed acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezzanotte tu venghi alla camera mia; io lascerò l’uscio aperto; tu sai da qual parte del letto io dormo: verrai lá, e se io dormissi, tanto mi tocca che io mi svegli, ed io ti consolerò di cosí lungo disio come avuto hai; ed acciò che tu questo creda, io ti voglio dare un bascio per arra. — E gittatogli il braccio in collo, amorosamente il basciò, ed Anichin lei. Queste cose dette, Anichin, lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s’andò a dormire, e la donna appresso: e come promesso avea, lasciò l’uscio della camera aperto; al quale all’ora che detta gli era stata Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l’uscio riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n’andò, e postale la mano in sul petto, lei non dormente trovò. La quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua mano con ammendune le sue e tenendol forte, volgendosi per lo letto, tanto fece, che Egano che dormiva destò; al quale ella disse: — Io non ti volli iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco: ma dimmi, se Iddio ti salvi, Egano, quale hai tu per lo miglior famigliare e piú leale, e per colui che piú t’ami, di quegli che tu in casa hai? — Rispose Egano: — Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho né ebbi mai alcuno di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quanto io mi fido ed amo Anichino; ma perché me ne domandi tu? — Anichino, sentendo desto Egano ed udendo di sé ragionare, aveva piú volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare: ma ella l’aveva sì tenuto e teneva, che egli non s’era potuto partire né poteva. La donna rispose ad Egano, e disse: — Io il ti dirò. Io mi credeva che fosse ciò che tu di’ e che egli piú fede che alcuno altro ti portasse: ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu andasti oggi ad uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi che io dovessi a’ suoi piaceri acconsentirmi; ed io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti, e per parlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro ed a piè del pino l’aspetterei. Ora, io per me non intendo d’andarvi: ma se tu vuogli la fedeltá del tuo famiglio conoscere, tu puoi leggermente, mettendoti indosso una delle guarnacche mie ed in capo un velo, ed andare lá giuso ad aspettare se egli vi verrá, che son certa del sì. — Egano, udendo questo, disse: — Per certo io il convengo vedere. — E levatosi come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca della donna ed un velo in capo, ed andossene nel giardino ed a piè d’un pino cominciò ad attendere Anichino. La donna, come sentì lui levato ed uscito della camera, cosí si levò e l’uscio di quella dentro serrò. Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai, avuto avea, e che, quanto potuto avea, s’era sforzato d’uscire delle mani della donna e centomilia volte lei ed il suo amore e sé, che fidato se n’era, avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto, fu il piú contento uomo che fosse mai: ed essendo la donna tornata nel letto, come ella volle, con lei si spogliò, ed insieme presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo. Poi non parendo alla donna che Anichino dovesse piú stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse: — Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone ed andra’tene al giardino, e faccendo sembianti d’avermi richesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania ad Egano e sonera’mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirá maraviglioso diletto e piacere. — Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino, ed Egano il vide venire, e cosí levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro; al quale Anichin disse: — Ahi! malvagia femina, adunque ci se’ venuta, ed hai creduto che io volessi o voglia al mio signore far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte! — Ed alzato il bastone, lo ’ncominciò a sonare. Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, ed Anichino appresso, sempre dicendo: — Via, che Iddio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domattina ad Egano per certo. — Egano, avendone avute parecchie delle buone, come piú tosto potè, se ne tornò alla camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto. Egano disse: — Cosí non fosse egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m’ha con un bastone tutto rotto e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina. E per certo io mi maravigliava forte di lui, che egli con animo di far cosa che mi fosse vergogna t’avesse quelle parole dette: ma per ciò che cosí lieta e festante ti vede, ti volle provare. — Allora, — disse la donna — lodato sia Iddio che egli ha me provata con parole e te con fatti: e credo che egli possa dire che io porti con piú pazienza le parole, che tu i fatti non fai. Ma poi che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore. — Egano disse: — Per certo tu di’ il vero. — E da questo prendendo argomento, era in oppinione d’avere la piú leal donna ed il piú fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo; per la qual cosa, come che poi piú volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai piú agio di quello che per avventura avuto non avrebbono a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre ad Anichin piacque dimorar con Egano in Bologna.
- [VIII]
- Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei; il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei; li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
- Stranamente pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d’Anichino grandissima quando, tenuto forte dalla donna, l’udí dire che egli d’amore l’aveva richesta. Ma poi che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile vòltosi, disse: — Dite voi. — La qual, sorridendo prima un poco, cominciò:
- Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v’hanno; del quale con l’aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi.
- Dovete adunque sapere che nella nostra cittá fu giá un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri, il quale scioccamente, sí come ancora oggi fanno tutto il dí i mercatanti, pensò di volere ingentilire per moglie, e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda. La quale, per ciò che egli, sí come i mercatanti fanno, andava molto da torno e poco con lei dimorava, s’innamorò d’un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l’avea: ed avendo presa sua dimestichezza, e quella forse men discretamente usando, per ciò che sommamente le dilettava, avvenne, o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse o come che s’andasse, che egli ne diventò il piú geloso uomo del mondo e lascionne stare l’andar da torno ed ogni altro suo fatto, e quasi tutta la sua sollecitudine aveva posta in guardar ben costei, né mai addormentato si sarebbe se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto; per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva. Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d’esser con essolui, e molto ancora da lui essendone sollecitata, le venne pensato di tener questa maniera, che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezzanotte all’uscio della casa e d’andargli ad aprire ed a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte. Ed a fare che ella il sentisse quando venuto fosse, in guisa che persona non se n’accorgesse, divisò di mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l’un de’ capi vicino alla terra aggiugnesse, e l’altro capo mandatol basso infin sopra il palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando essa nel letto fosse, legarlosi al dito grosso del piede: ed appresso, mandato questo a dire a Ruberto, gl’impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare ed andrebbegli ad aprire, e se egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse. La qual cosa piacque a Ruberto: ed assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d’esser con lei ed alcuna no. Ultimamente, continuando costoro questo artificio cosí fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna, ed Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse seco stesso: — Per certo questo dèe essere qualche inganno. — Ed avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l’ebbe per fermo; per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette attento per vedere quel che questo volesse dire. Né stette guari che Ruberto venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì: e non avendoselo ben saputo legare, e Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare; e cosí fece. Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi, corse all’uscio per dover vedere chi fosse costui e per fargli male. Ora, era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero uomo ed un forte: e giunto all’uscio, e non aprendolo soavemente come soleva far la donna, e Ruberto che aspettava, sentendolo, s’avvisò esser ciò che era, cioè che colui che l’uscio apriva fosse Arriguccio; per che prestamente cominciò a fuggire, ed Arriguccio a seguitarlo. Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressí Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, ed incominciarono l’uno a volere offendere e l’altro a difendersi. La donna, come Arriguccio aprì la camera, svegliatasi, e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente s’accorse che il suo inganno era scoperto: e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò, che ella in persona di sé nel suo letto la mise, pregandola che, senza farsi conoscere, quelle busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito, che ella non avrebbe cagione donde dolersi. E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s’uscí, e nascosa in una parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire. Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono loro a dir male, ed Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o d’alcuna cosa offenderlo, adirato e di maltalento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua: e pervenuto nella camera, adiratamente cominciò a dire: — Ove se’ tu, rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l’hai fallita! — Ed andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare le mani ed i piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso l’ammaccò, ed ultimamente le tagliò i capelli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse. La fante piagneva forte, come colei che aveva di che, ed ancora che ella alcuna volta dicesse: — Oimè! mercé per Dio! — o — Non piú! — era sì la voce dal pianto rotta ed Arriguccio impedito dal suo furore, che discerner non poteva, piú quella esser d’un’altra femina che della moglie. Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i capelli, come dicemmo, disse: — Malvagia femina, io non intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò loro le tue buone opere: ed appresso, che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che loro onor fia e menintene, ché per certo in questa casa non istarai tu mai piú. — E cosí detto, uscito della camera, la serrò di fuori ed andò tutto sol via. Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la quale come potè il meglio racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente fattala servire e governare, sì di quel d’Arriguccio medesimo la sovvenne, che ella si chiamò per contenta. E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, cosí prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana, e sé rivestì e racconciò, come se ancora a letto non si fosse andata; ed accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire. Arriguccio, uscito di casa sua, quanto piú tosto potè, n’andò alla casa de’ fratelli della moglie, e quivi tanto picchiò, che fu sentito e fugli aperto. Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e fatto accendere de’ lumi, vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e cosí solo andasse cercando. A’ quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda infino all’ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro: e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva, lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai piú in casa tenerla. I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a lei inanimati, fatti accender de’ torchi, con intenzione di farle un mal giuoco con Arriguccio si misero in via ed andaronne a casa sua. Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl’incominciò a seguitare, or l’uno ed or l’altro pregando che non dovessero queste cose cosí subitamente credere senza vederne altro o saperne, per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei ed averle fatto male, ed ora apporle questo per iscusa di sé, dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua figliuola, sí come colei che infino da piccolina l’aveva allevata, e molte altre parole simiglianti. Pervenuti adunque a casa d’Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale; li quali monna Sismonda sentendo venir, disse: — Chi è lá? — Alla quale l’un de’ fratelli rispose: — Tu il saprai bene, rea femina, chi è. — Disse allora monna Sismonda: — Ora che vorrá dir questo? Domine, aiutaci! — e levatasi in piè, disse: — Fratelli miei, voi siate i ben venuti; che andate voi cercando a questa ora tutti e tre? — Costoro, avendola veduta sedere e cucire e senza alcuna vista nel viso d’essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l’aveva pesta, alquanto nella prima giunta si maravigliarono e rifrenarono l’impeto della loro ira, e domandaronla come stato fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni cosa non dicesse loro. La donna disse: — Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto. — Arriguccio, veggendola, la guatava come smemorato, ricordandosi che egli l’aveva dati forse mille punzoni per lo viso e graffiatogliele, e fattole tutti i mali del mondo, ed ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato. In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto e dello spago e delle battiture e di tutto. La donna, rivolta ad Arriguccio, disse: — Oimè! marito mio, che è quel che io odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non se’? E quando fostu questa notte piú in questa casa, non che con meco? o quando mi battesti? Io per me non me ne ricordo. — Arriguccio cominciò a dire: — Come, rea femina, non ci andammo noi a letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro all’amante tuo? Non ti diedi io dimolte busse e taglia’ti i capelli? — La donna rispose: — In questa casa non ti coricasti tu iersera; ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra testimonianza fare che le mie vere parole, e vegnamo a quello che tu di’, che mi battesti e tagliasti i capelli. Me non battestú mai, e quanti n’ha qui e tu altressí mi ponete mente se io ho segno alcuno per tutta la persona di battitura: né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito, che tu mano addosso mi ponessi, ché, alla croce di Dio, io ti sviserei. Né i capelli altressí mi tagliasti, che io sentissi o vedessi, ma forse il facesti che io non me n’avvidi; lasciami vedere se io gli ho tagliati o no. — E levatisi suoi veli di testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi; le quali cose e veggendo ed udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d’Arriguccio a dire: — Che vuoi tu dire, Arriguccio? Questo non è giá quello che tu ne venisti a dire che avevi fatto; e non sappiam noi come tu ti proverai il rimanente. — Arriguccio stava come trasognato e voleva pur dire: ma veggendo che quello che egli credeva poter mostrare non era così, non s’attentava di dir nulla. La donna, rivolta verso i fratelli, disse: — Fratei miei, io veggio che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai fare, cioè che io vi racconti le miserie e le cattivitá sue: ed io il farò. Io credo fermamente che ciò che egli v’ha detto gli sia intervenuto ed abbial fatto, ed udite come. Questo valente uomo, al qual voi nella mia malora per moglie mi deste, che si chiama mercatante, e che vuole esser creduto e che dovrebbe esser piú temperato che un religioso e piú onesto che una donzella, son poche sere che egli non si vada inebriando per le taverne, ed or con questa cattiva femina ed or con quella rimescolando; ed a me si fa infino a mezzanotte e talora infino a matutino aspettare nella maniera che mi trovaste. Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con alcuna sua trista ed a lei, destandosi, trovò lo spago al piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie che egli dice, ed ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle i capelli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver fatte a me: e se voi il porrete ben mente nel viso, egli è ancora mezzo ebbro. Ma tuttavia, che che egli s’abbia di me detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non come da uno ebriaco; e poscia che io gli perdono io, gli perdonate voi altressí. — La madre di lei, udendo queste parole, cominciò a fare romore ed a dire: — Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si vorrebbe fare, anzi si vorrebbe uccidere questo can fastidioso e sconoscente, che egli non ne fu degno d’avere una figliuola fatta come se’ tu. Frate, bene sta! basterebbe se egli t’avesse ricolta del fango! Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dèi stare al fracidume delle parole d’un mercatantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado ed usciti delle troiate vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con la penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono: «Io son de’ cotali» e «Que’ di casa mia fecer cosí»! Ben vorrei che i miei figliuoli n’avesser seguito il mio consiglio, che ti potevano cosí orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane: ed essi vollon pur darti a questa bella gioia, che, dove tu se’ la miglior figliuola di Firenze e la piú onesta, egli non s’è vergognato di mezzanotte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma alla fé di Dio, se me ne fosse creduto, el se ne gli darebbe sí fatta gastigatoia, che gli putirebbe. — E rivolta a’ figliuoli, disse: — Figliuoli miei, io il vi dicea bene che questo non doveva potere essere. Avete voi udito come il buon vostro cognato tratta la sirocchia vostra, mercatantuolo di quattro denari che egli è? Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha di lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né appagata se io nol levassi di terra; e se io fossi uomo come io son femina, io non vorrei che altri che io se ne ’mpacciasse. Domine, fallo tristo, ebriaco doloroso che non si vergogna! — I giovani, vedute ed udite queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun cattivo uom si dicesse, ed ultimamente dissero: — Noi ti perdoniam questa sí come ad ebbro, ma guarda che per la vita tua da quinci innanzi simili novelle noi non sentiamo piú, ché per certo, se piú nulla ce ne viene agli orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella. — E cosí detto, se n’andarono. Arriguccio, rimaso come uno smemorato, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato vero o se egli aveva sognato, senza piú farne parola, lasciò la moglie in pace; la qual non solamente con la sua sagacitá fuggí il pericolo soprastante, ma s’aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere senza paura alcuna piú aver del marito.
- [IX]
- Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; ed oltre a questo, in presenza di Nicostrato si sollazza con lui ed a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
- Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le donne tenere, quantunque il re piú volte silenzio loro avesse imposto, avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse: ma pur poi che tacquero, cosí Panfilo incominciò:
- Io non credo, reverende donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non ardisca chi ferventemente ama; la qual cosa, quantunque in assai novelle sia stato dimostrato, nondimeno io il mi credo molto piú con una che dirvi intendo mostrare, dove udirete d’una donna alla quale nelle sue opere fu troppo piú favorevole la fortuna che la ragione avveduta. E per ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate di colei di cui dire intendo, s’arrischiasse d’andare, per ciò che non sempre è la fortuna disposta, né sono al mondo tutti gli uomini abbagliati igualmente.
- In Argo, antichissima cittá d’Acaia, per li suoi passati re molto piú famosa che grande, fu giá un nobile uomo il quale appellato fu Nicostrato, a cui giá vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran donna non meno ardita che bella, detta per nome Lidia. Teneva costui, sí come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani ed uccelli, e grandissimo diletto prendea nelle cacce; ed aveva tra gli altri suoi famigliari un giovanetto leggiadro ed adorno e bello della persona e destro a qualunque cosa avesse voluta fare, chiamato Pirro, il quale Nicostrato oltre ad ogni altro amava e piú di lui si fidava. Di costui Lidia s’innamorò forte, tanto che né dí né notte in altra parte che con lui aver poteva il pensiero; del quale amore o che Pirro non s’avvedesse o non volesse, niente mostrava se ne curasse. Di che la donna intollerabile noia portava nell’animo: e disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua cameriera nominata Lusca, della quale ella si confidava molto, e sì le disse: — Lusca, li benefici li quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare obediente e fedele, e per ciò guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta giá mai se non colui al quale da me ti fia imposto. Come tu vedi, Lusca, io son giovane e fresca donna, e piena e copiosa di tutte quelle cose che alcuna può disiderare, e brievemente, fuor che d’una non mi posso ramaricare: e questa è che gli anni del mio marito son troppi se co’ miei si misurano, per la qual cosa di quello che le giovani donne prendono piú piacere io vivo poco contenta; e pur come l’altre disiderandolo, è buona pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna m’è stata poco amica in darmi cosí vecchio marito, essere io nemica di me medesima in non saper trovar modo a’ miei diletti ed alla mia salute. E per avergli cosí compiuti in questo come nell’altre cose, ho per partito preso di volere, sí come di ciò piú degno che alcuno altro, che il nostro Pirro co’ suoi abbracciamenti gli supplisca, ed ho tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il veggio o di lui penso: e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire. E per ciò, se la mia vita t’è cara, per quel modo che miglior ti parrá, il mio amore gli significherai e sí il pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me quando tu per lui andrai. — La cameriera disse che volentieri; e come prima tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quanto seppe il meglio, l’ambasciata gli fece della sua donna. La qual cosa udendo Pirro, si maravigliò forte, sí come colui che mai d’alcuna cosa avveduto non se n’era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per che subito e ruvidamente rispose: — Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna, e per ciò guarda quel che tu parli; e se pure da lei venissero, non credo che con l’animo dirleti faccia; e se pur con l’animo dir le facesse, il mio signore mi fa piú onore che io non vaglio: io non farei a lui sí fatto oltraggio per la vita mia, e però guarda che tu piú di sí fatte cose non mi ragioni. — La Lusca, non isbigottita per lo suo rigido parlare, gli disse: — Pirro, e di queste e d’ogni altra cosa che la mia donna m’imporrá ti parlerò io quante volte ella il mi comanderá, o piacere o noia che egli ti debba essere: ma tu se’ una bestia. — E turbatetta, con le parole di Pirro se ne tornò alla donna, la quale udendole disiderò di morire; e dopo alcun giorno riparlò alla cameriera e disse: — Lusca, tu sai che per lo primo colpo non cade la quercia; per che a me pare che tu da capo ritorni a colui che in mio pregiudicio nuovamente vuol divenir leale, e prendendo tempo convenevole, gli mostra interamente il mio ardore ed in tutto t’ingegna di far che la cosa abbia effetto, però che, se cosí s’intralasciasse, io ne morrei ed egli si crederebbe essere stato beffato: e dove il suo amor cerchiamo, ne seguirebbe odio. — La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò lieto e ben disposto, e sí gli disse: — Pirro, io ti mostrai pochi dí sono in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l’amor che ella ti porta, ed ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la durezza che l’altrieri dimostrasti, dimori, vivi sicuro che ella viverá poco; per che io ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disidèro: e dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, lá dove io per molto savio t’aveva, io t’avrò per uno scioccone. Che gloria ti può egli esser maggiore, che una cosí fatta donna, cosí bella, cosí gentile, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso questo, quanto ti puo’ tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella t’abbia parata dinanzi cosí fatta cosa ed a’ disidèri della tua giovanezza atta, ed ancora un cosí fatto rifugio a’ tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu che per via di diletto meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale altro troverai tu che in armi, in cavalli, in robe ed in denari possa star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei? Apri adunque l’animo alle mie parole ed in te ritorna; ricordati che una volta senza piú suole avvenire che la fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo aperto; la quale chi allora non sa ricevere, poi trovandosi povero e mendico, di sé e non di lei s’ha a ramaricare. Ed oltre a questo, non si vuol quella lealtá tra servidori usare e signori, che tra gli amici e parenti si conviene; anzi gli deono cosí i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro trattati sono. Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o sorella che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtá ritrovando che tu servar vuoi a lui della sua donna? Sciocco se’ se tu il credi: abbi di certo che, se le lusinghe ed i prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere, el vi s’adoperrebbe la forza. Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi noi e le nostre trattano; usa il beneficio della fortuna, non la cacciare: falleti incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo stare la morte la qual senza fallo alla tua donna ne seguirá, ma tu ancora te ne penterai tante volte, che tu ne vorrai morire. — Pirro, il qual piú fiate sopra le parole che la Lusca dette gli avea, avea ripensato, per partito avea preso che, se ella a lui ritornasse, di fare altra risposta e del tutto recarsi a compiacere alla donna, dove certificarsi potesse che tentato non fosse; e per ciò rispose: — Vedi, Lusca, tutte le cose che tu mi di’ io le conosco vere: ma io conosco d’altra parte il mio signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi tutti i suoi fatti in mano, io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose che io domanderò voglia fare a chiarezza di me, per certo niuna cosa mi comanderá poi che io prestamente non faccia. E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente, che in presenza di Nicostrato ella uccida il suo buono sparviere; appresso, che ella mi mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato, ed ultimamente, un dente di quegli di lui medesimo, de’ migliori. — Queste cose parvono alla Lusca gravi ed alla donna gravissime: ma pure Amore, che è buon confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la sua cameriera gli mandò dicendo che quello che egli aveva addomandato pienamente farebbe, e tosto; ed oltre a ciò, per ciò che egli cosí savio reputava Nicostrato, disse che in presenza di lui con Pirro si sollazzerebbe ed a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse vero. Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dí Nicostrato dato un gran desinare, sí come usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo giá levate le tavole, vestita d’uno sciamito verde ed ornata molto, ed uscita della sua camera, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e ciascuno altro, se n’andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era, cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo quasi in mano sel volesse levare, e presolo per li geti, al muro il percosse ed ucciselo. E gridando verso lei Nicostrato: — Oimè! donna, che hai tu fatto? — niente a lui rispose, ma rivolta a’ gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: — Signori, mal prenderei vendetta d’un re che mi facesse dispetto, se d’uno sparviere non avessi ardir di pigliarla. Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dovere esser prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m’ha tolto, per ciò che, sí come l’aurora suole apparire, cosí Nicostrato s’è levato, e salito a cavallo, col suo sparviere in mano n’è andato alle pianure aperte a vederlo volare: ed io, qual voi mi vedete, sola e malcontenta nel letto mi son rimasa; per la qual cosa ho piú volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra cagione m’ha di ciò ritenuta se non l’aspettar di farlo in presenza d’uomini che giusti giudici sieno alla mia querela, sí come io credo che voi sarete. — I gentili uomini che l’udivano, credendo non altramenti esser fatta la sua affezione a Nicostrato che sonasser le parole, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti, che turbato era, cominciarono a dire: — Deh! come la donna ha ben fatto a vendicar la sua ingiuria con la morte dello sparviere! — e con diversi motti sopra cosí fatta materia, essendosi giá la donna in camera ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato. Pirro, veduto questo, seco medesimo disse: — Alti principi ha dati la donna a’ miei felici amori: faccia Iddio che ella perseveri! — Ucciso adunque da Lidia lo sparviere, non trapassâr molti giorni che, essendo ella nella sua camera insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui incominciò a cianciare, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le die’ cagione di mandare ad effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro: e prestamente lui per un piccolo lucignoletto preso della sua barba, e ridendo, sì forte il tirò, che tutto dal mento gliele divelse; di che ramaricandosi Nicostrato, ella disse: — Or che avesti, che fai cotal viso per ciò che io t’ho tratti forse sei peli della barba? Tu non sentivi quel che io, quando tu mi tiravi testeso i capelli! — E cosí d’una parola in un’altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò la ciocca della barba che tratta gli avea, ed il dì medesimo la mandò al suo caro amante. Della terza cosa entrò la donna in piú pensiero: ma pur, si come quella che era d’alto ingegno ed amor la faceva vie piú, s’ebbe pensato che modo tener dovesse a darle compimento. Ed avendo Nicostrato due fanciulli datigli da’ padri loro acciò che in casa sua, però che gentili uomini erano, apparassono alcun costume, de’ quali, quando Nicostrato mangiava, l’uno gli tagliava innanzi e l’altro gli dava bere, fattigli chiamare ammenduni, fece lor vedere che la bocca putiva loro ed ammaestrògli che, quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro il piú che potessono, né questo mai dicessono a persona. I giovanetti, credendole, cominciarono a tener quella maniera che la donna aveva lor mostrata; per che ella una volta domandò Nicostrato: — Se’ ti tu accorto di ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono? — Disse Nicostrato: — Mai sí, anzi gli ho io voluti domandare perché il facciano. — A cui la donna disse: — Non fare, ché io il ti so dire io, ed holti buona pezza taciuto per non fartene noia: ma ora che io m’accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è piú da celarloti. Questo non t’avvien per altro se non che la bocca ti pute fieramente, e non so qual si sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare co’ gentili uomini, e per ciò si vorrebbe veder modo da curarla. — Disse allora Nicostrato: — Che potrebbe ciò essere? Avrei io in bocca dente niuno guasto? — A cui Lidia disse: — Forse che sí — e menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe d’una parte e d’altra riguardato, disse: — O Nicostrato, e come il puoi tu tanto aver patito? Tu n’hai uno da questa parte il quale, per quello che mi paia, non solamente è magagnato ma egli è tutto fracido, e fermamente, se tu il terrai guari in bocca, egli guasterá quegli che son da lato: per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori prima che l’opera andasse piú innanzi. — Disse allora Nicostrato: — Da poi che egli ti pare, ed egli mi piace: mandisi senza piú indugio per un maestro il qual mel tragga. — Al quale la donna disse: — Non piaccia a Dio che qui per questo venga maestro: el mi pare che egli stea in maniera che senza alcun maestro io medesima tel trarrò ottimamente. E d’altra parte, questi maestri son sí crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per ciò del tutto io voglio fare io medesima, ché almeno, se egli ti dorrá troppo, ti lascerò io incontanente, quello che il maestro non farebbe. — Fattisi adunque venire i ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fecero distender Nicostrato sopra un desco, e messegli le tanaglie in bocca e preso un de’ denti suoi, quantunque egli forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall’una, fu dall’altra per viva forza un dente tirato fuori, e quel serbatosi, e presone uno altro il quale sconciamente magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso e quasi mezzo morto il mostrarono, dicendo: — Vedi quello che tu hai tenuto in bocca giá è cotanto. — Egli credendolsi, quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che fuor n’era, gli parve esser guerito, e con una cosa e con altra riconfortato, essendo la pena alleviata, s’uscí della camera. La donna, preso il dente, tantosto al suo amante il mandò; il quale, giá certo del suo amore, sé ad ogni suo piacere offerse apparecchiato. La donna, disiderosa di farlo piú sicuro, e parendole ancora ogni ora mille che con lui fosse, volendo quello che profferto gli avea, attenergli, fatto sembianti d’essere inferma ed essendo un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altro che Pirro, il pregò, per alleggiamento della sua noia, che aiutarla dovessero ad andare infino nel giardino. Per che Nicostrato dall’un de’ lati e Pirro dall’altro presala, nel giardin la portarono ed in un pratello a piè d’un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che giá avea fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare: — Pirro, io ho gran disidèro d’avere di quelle pere, e però móntavi suso e gittane giú alquante. — Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giú delle pere, e mentre le gittava, cominciò a dire: — Hè messere, che è ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo in mia presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé cosí forte malata; come siete voi sì tosto guerita, che voi facciate tal cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere: perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve n’andate? E sará piú onesto che farlo in mia presenza. — La donna, rivolta al marito, disse: — Che dice Pirro? Farnetica egli? — Disse allora Pirro: — Non farnetico no, madonna; non credete voi che io veggia? — Nicostrato si maravigliava forte, e disse: — Pirro, veramente io credo che tu sogni. — Al quale Pirro rispose: — Signor mio, non sogno né miga, né voi anche non sognate: anzi vi dimenate ben sì, che, se cosí si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe sú niuna. — Disse la donna allora: — Che può questo essere? Potrebbe egli esser vero che egli paresse vero ciò che dice? Se Iddio mi salvi, se io fossi sana come io fui giá, che io vi sarrei suso, per vedere che maraviglie sieno queste che costui dice che vede. — Pirro d’in sul pero pur diceva, e continuava queste novelle; al quale Nicostrato disse: — Scendi giú. — Ed egli scese; a cui egli disse: — Che di’ tu che vedi? — Disse Pirro: — Io credo che voi m’abbiate per ismemorato o per trasognato: vedeva voi addosso alla donna vostra, poi pur dir mel conviene; e poi discendendo, io vi vidi levare e porvi costi, dove voi siete, a sedere. — Fermamente — disse Nicostrato — eri tu in questo smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero salisti, punto mossi se non come tu vedi. — Al quale Pirro disse: — Perché ne facciam noi quistione? Io vi pur vidi; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro. — Nicostrato piú ognora si maravigliava, tanto che egli disse: — Ben vo’ vedere se questo pero è incantato, e che chi v’è su veggia le maraviglie! — E montovvi su; sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro s’incominciarono a sollazzare. Il che Nicostrato veggendo, cominciò a gridare: — Ahi! rea femina, che è quel che tu fai? E tu, Pirro, di cui io piú mi fidava? — e cosí dicendo cominciò a scendere del pero. La donna e Pirro dicevan: — Noi ci seggiamo — e lui veggendo discendere, a sedersi tornarono in quella guisa che lasciati gli avea. Come Nicostrato fu giú e vide costoro dove lasciati gli avea, cosí lor cominciò a dir villania. Al quale Pirro disse: — Nicostrato, ora veramente confesso io che, come voi dicevate davanti, che io falsamente vedessi mentre fui sopra il pero; né ad altro il conosco se non a questo, che io veggio e so che voi falsamente avete veduto. E che io dica il vero, niuna altra cosa vel mostri se non l’aver riguardo e pensare, a che ora la vostra donna, la quale è onestissima e piú savia che altra, volendo di tal cosa farvi oltraggio, si recherebbe a farlo davanti agli occhi vostri; di me non vo’ dire, che mi lascerei prima squartare che io il pur pensassi, non che io il venissi a fare in vostra presenza. Per che di certo la magagna di questo trasvedere dèe procedere dal pero: per ciò che tutto il mondo non m’avrebbe fatto discredere che voi qui non foste con la vostra donna carnalmente giaciuto, se io non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai. — La donna appresso, che quasi tutta turbata s’era levata in piè, cominciò a dire: — Sia con la mala ventura, se tu m’hai per sì poco sentita, che, se io volessi attendere a queste tristezze che tu di’ che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi. Sii certo di questo, che, qualora volontá me ne venisse, io non verrei qui, anzi mi crederei sapere essere in una delle nostre camere, in guisa ed in maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giá mai. — Nicostrato, al quale vero parea ciò che dicea l’uno e l’altro, che essi quivi dinanzi a lui mai a tale atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionare della novitá del fatto e del miracolo della vista che cosí si cambiava a chi su vi montava. Ma la donna, che dell’oppinione che Nicostrato mostrava d’avere avuta di lei si mostrava turbata, disse: — Veramente questo pero non ne fará mai piú niuna, né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io potrò; e per ciò, Pirro, corri e va’ e reca una scure, e ad un’ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna cosí tosto si lasciò abbagliar gli occhi dello ’ntelletto: ché, quantunque a quegli che tu hai in testa paresse ciò che tu di’, per niuna cosa dovevi nel giudicio della tua mente comprendere o consentir che ciò fosse. — Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero, il quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostrato: — Poscia che io veggio abbattuto il nemico della mia onestá, la mia ira è ita via — ed a Nicostrato, che di ciò la pregava, benignamente perdonò, imponendogli che piú non gli avvenisse di presummere, di colei che piú che sé l’amava, una cosí fatta cosa giá mai. Cosi il misero marito schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono, nel quale poi molte volte Pirro di Lidia ed ella di lui con piú agio presero piacere e diletto. Iddio ce ne dèa a noi.
- [X]
- Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di lá si dimori.
- Restava solamente al re il dover novellare; il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa avuta non avea, si dolevano, incominciò:
- Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dèe essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione e non re si dèe giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader conviene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a’ nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dí il mio privilegio usare, ma soggiacendo con voi insieme a quella, di quel ragionare che voi tutti ragionato avete: ma egli non solamente è stato ragionato quello che io imaginato avea di raccontare, ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto piú belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sí fatta materia dir potessi cosa che alle dette s’appareggiasse. E per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sí come degno di punizione, infino da ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, ed al mio privilegio usitato mi tornerò: e dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare, ed appresso, la bessaggine de’ sanesi hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando star le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi contare una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dèe, nondimeno sará in parte piacevole ad ascoltare.
- Furono adunque in Siena due giovani popolani, de’ quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meticcio di Tura, ed abitavano in Porta Salaia: e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse, s’amavano molto. Ed andando, come gli uomini vanno, alle chiese ed alle prediche, piú volte udito avevano e della gloria e della miseria che all’anime di color che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo; delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli disiderava: e questo fermaron con giuramento. Avendosi adunque questa promession fatta ed insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il quale d’una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo. Il quale Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, nonostante il comparatico s’innamorò di lei; e Meuccio similemente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se n’innamorò. E di questo amore l’un si guardava dall’altro, ma non per una medesima ragione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattivitá che a lui medesimo parea fare d’amar la comare, e sarebbesi vergognato che alcuno l’avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo, ma perché giá avveduto s’era che ella piaceva a Tingoccio, laonde egli diceva: — Se io questo gli discuopro, egli prenderá gelosia di me, e potendole ad ogni suo piacere parlare, sí come compare, in ciò che egli potrá le mi metterá in odio, e cosí mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò. — Ora, amando questi due giovani come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era piú destro il potere alla donna aprire ogni suo disidèro, tanto seppe fare e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacer suo; di che Meuccio s’accorse bene, e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidèro, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene. Cosí amando i due compagni, l’uno piú felicemente che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò, che una infermitá ne gli sopravvenne, la quale dopo alquanti dí si l’aggravò forte, che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E trapassato, il terzo di appresso, ché forse prima non avea potuto, se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il quale forte dormiva, chiamò. Meuccio, destatosi, disse: — Qual se’ tu? — A cui egli rispose: — Io son Tingoccio, il quale, secondo la promessione che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell’altro mondo. — Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato, disse: — Tu sii il ben venuto, fratel mio! — E poi il domandò se egli era perduto; al quale Tingoccio rispose: — Perdute son le cose che non si ritruovano: e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto? — Deh! — disse Meuccio — io non dico cosí: ma io ti domando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace di ninferno. — A cui Tingoccio rispose: — Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene ed angosciose molto. — Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio, che pene si dessero di lá per ciascun de’ peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi il domandò Meuccio se egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa; a cui Tingoccio rispose del sí, e ciò era che egli facesse per lui dire delle messe e dell’orazioni e fare delle limosine, per ciò che queste cose molto giovavano a que’ di lá. A cui Meuccio disse di farlo volentieri; e partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo, disse: — Ben, che mi ricorda, o Tingoccio: della comare con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di lá data? — A cui Tingoccio rispose: — Fratel mio, come io giunsi di lá, si fu uno il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io piansi in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condannati che io: e stando io tra loro e ricordandomi di ciò che giá fatto avea con la comare, ed aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m’era da lato, mi disse: — Che hai tu piú che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? — Oh! — dissi io — amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d’un gran peccato che io feci giá. — Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse; a cui io dissi: — Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare: e giacquivi tanto, che io me ne scorticai. — Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: — Va’, sciocco, non dubitare, ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari! — il che io udendo tutto mi rassicurai. — E detto questo, appressandosi il giorno, disse: — Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso piú esser con teco — e subitamente andò via. Meuccio, avendo udito che di lá niuna ragion si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che giá parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse sapute, non gli sarebbe stato bisogno d’andar sillogizzando quando convertí a’ suoi piaceri la sua buona comare.
- Zefiro era levato per lo sole che al ponente s’avvicinava, quando il re, finita la sua novella né altro alcun restandovi a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo: — Madonna, io vi corono di voi medesima reina della nostra brigata; quello ornai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sí come donna, comanderete — e riposesi a sedere.
- La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora che l’usato si mettesser le tavole, acciò che poi ad agio si potessero al palagio tornare; ed appresso, ciò che a fare avesse mentre il suo reggimento durasse, gli divisò. Quindi, rivolta alla compagnia, disse: — Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a’ mariti: e se non fosse che io non voglio mostrare d’essere di schiatta di can botolo, che incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli uomini fanno alle lor mogli. Ma lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno; e credo che in questo sará non meno di piacevole ragionare che stato sia questo giorno. — E cosí detto, levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata.
- Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de’ quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono ad andare, ed altri tra’ belli e diritti alberi sopra il verde prato s’andavano diportando. Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d’Arcita e di Palemone: e così, vari e diversi diletti pigliando, il tempo infino all’ora della cena con grandissimo piacer trapassarono; la qual venuta, e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un’aura soave che da quelle montagnette da torno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono. E levate le tavole, poi che alquanto la piacevole valle ebbero circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sí come alla loro reina piacque, inverso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino, e motteggiando e cianciando di ben mille cose, cosí di quelle che il dì erano state ragionate come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del piccol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d’altri suon carolando: ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone; la quale cosí incominciò: Deh! lassa la mia vita!
- sará giá mai ch’io possa ritornare
- donde mi tolse noiosa partita?
- Certo io non so, tanto è ’l disio focoso,
- che io porto nel petto
- di ritrovarmi ov’io, lassa! giá fui;
- o caro bene, o solo mio riposo,
- che ’l mio cuor tien’distretto,
- dch! dilmi tu, ché ’l domandarne altrui
- non oso, né so cui;
- dch! signor mio, dch! fammelo sperare,
- sí ch’io conforti l’anima smarrita.
- Io non so ben ridir qual fu ’l piacere
- che sí m’ha infiammata,
- che io non trovo dí né notte loco;
- per che l’udire e ’l sentire e ’l vedere,
- con forza non usata,
- ciascun per sé accese nuovo foco,
- nel qual tutta mi coco:
- né mi può altri che tu confortare
- o ritornar la vertú sbigottita.
- Deh! dimmi s’esser dèe e quando fia
- ch’io ti trovi giá mai
- dov’io basciai quegli occhi che m’han morta;
- dimmel, caro mio bene, anima mia,
- quando tu vi verrai,
- e col dir — Tosto — alquanto mi conforta;
- sia la dimora corta
- d’ora al venire e poi lunga allo stare,
- ch’io non men curo, sí m’ha Amor ferita.
- Se egli avvien che io mai piú ti tenga,
- non so s’io sarò sciocca,
- com’io or fui, a lasciarti partire;
- io ti terrò, e che può si n’avvenga,
- e della dolce bocca
- convien ch’io sodisfaccia al mio disire:
- d’altro non voglio or dire;
- dunque vien’tosto, vienmi ad abbracciare,
- ché ’l pur pensarlo di cantar m’invita.
- Estimar fece questa canzone a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella piú avanti che la vista sola n’avesse sentito, tenendonela piú felice, invidia per tali vi furono, ne le fu avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dí seguente era venerdí, cosí a tutti piacevolemente disse: — Voi sapete, nobili donne, e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il quale, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo essendo reina Neifile, ed a’ ragionamenti dilettevoli demmo luogo; ed il simigliante facemmo del sabato susseguente. Per che, volendo il buono esemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia che domane e l’altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci astegnamo, quello a memoria riducendoci che in cosí fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne. — Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina; dalla quale licenziati, essendo giá buona pezza di notte passata, tutti s’andarono a riposare.
- * * *
- * * *
- finisce la settima giornata del decameron; incomincia l’ottava, nella quale, sotto il reggimento di lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
- Novella seconda
- Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
- Novella terza
- Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l’elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
- Novella quarta
- Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
- Novella quinta
- Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
- Novella sesta
- Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l’abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
- Novella settima
- Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole.
- Novella ottava
- Due usano insieme; l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace.
- Novella nona
- Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
- Novella decima
- Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d’esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
- Conclusione
- * * *
- Giá nella sommitá de’ piú alti monti apparivano, la domenica mattina, i raggi della surgente luce, ed ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi, con la sua compagnia primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino uficio ascoltarono: ed a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, ed appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè. Ma avendo il sol giá passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina cosí Neifile cominciò:
- [I]
- Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, si gliele dá; e poi in presenza di lei a Guasparruol dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
- Se cosí ha disposto Iddio che io debba alla presente giornata con la mia novella dar cominciamento, ed el mi piace: e per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto si sia detto delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non giá perché io intenda in quella di biasimare ciò che l’uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l’uomo e biasimar la donna, e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui eglino credono son beffati. Avvegna che, chi volesse piú propriamente parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito, per ciò che, con ciò sia cosa che la donna debba essere onestissima e la sua castitá come la sua vita guardare, né per alcuna cagione a contaminarla conducersi, e questo non potendosi cosí appieno tuttavia come si converrebbe, per la fragilitá nostra, affermo, colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amor, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dí son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
- Fu adunque giá in Melano un tedesco al soldo il cui nome fu Gulfardo, pro’ della persona ed assai leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte suole de’ tedeschi avvenire: e per ciò che egli era, nelle prestanze de’ denari che fatte gli erano, lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantitá di denari gli avrebber prestata. Pose costui, in Melan dimorando, l’amor suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia, moglie d’un ricco mercatante che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente ed amico: ed amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d’essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che Gulfardo volesse, dove due cose ne dovesser seguire: l’una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l’altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d’oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, ed appresso, sempre sarebbe al suo servigio. Gulfardo, udendo la ’ngordigia di costei, sdegnato per la viltá di lei la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore; e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo che molto volentieri, e quello ed ogni altra cosa che egli potesse, che le piacesse: e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, che egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva. La donna, anzi cattiva femina, udendo questo, fu contenta, e mandògli dicendo che Guasparruolo suo marito doveva ivi a pochi dí per sue bisogne andare infino a Genova, ed allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui. Gulfardo, quando tempo gli parve, se n’andò a Guasparruolo e sí gli disse: — Io son per fare un mio fatto per lo quale mi bisognan fiorini dugento d’oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestar degli altri. — Guasparruolo disse che volentieri, e di presente gli annoverò i denari. Ivi a pochi giorni Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorini d’oro. Gulfardo, preso il compagno suo, se n’andò a casa della donna, e trovatala che l’aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d’oro, veggente il suo compagno, e sí le disse: — Madonna, tenete questi denari, e daretegli a vostro marito quando sará tornato. — La donna gli prese, e non s’avvide perché Gulfardo dicesse così: ma si credette che egli il facesse acciò che il compagno suo non s’accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli desse; per che ella disse: — Io il farò volentieri, ma io voglio veder quanti sono. — E versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella notte ma molte altre, avanti che il marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece. Tornato Guasparruolo da Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era, se n’andò a lui, ed in presenza di lei disse: — Guasparruolo, i denari che l’altrier mi prestasti, non m’ebber luogo, per ciò che io non potei fornir la bisogna per la quale gli presi: e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua e si gliele diedi, e per ciò dannerai la mia ragione. — Guasparruolo, vòlto alla moglie, la domandò se avuti gli avea. Ella, che quivi vedeva il testimonio, nol seppe negare, ma disse: — Mai sí che io gli ebbi, né m’era ancor ricordata di dirloti. — Disse allora Guasparruolo: — Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione. — Gulfardo partitosi, e la donna rimasa scornata, diede al marito il disonesto prezzo della sua cattivitá: e cosí il sagace amante senza costo godè della sua avara donna.
- [II]
- Il prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro, ed accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
- Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla ’ngorda melanese, quando la reina, a Panfilo voltatasi, sorridendo gl’impose che el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò:
- Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n’offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’ preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne posson metter sotto, che se d’Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare, come che nelle madri, nelle sirocchie, nelle amiche e nelle figliuole, con non meno ardore che essi le lor mogli assaliscano, vendichin l’ire loro. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, piú da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere.
- Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne’ servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell’olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell’acqua benedetta ed alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione. Ora, avvenne che, tra l’altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque che aveva nome monna Belcolore, moglie d’un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata ed atta a meglio saper macinar che alcuna altra: ed oltre a ciò, era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare «L’acqua corre la borrana» e menare la ridda ed il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con un bel moccichino e gente in mano. Per le quali cose messer lo prete ne ’nvaghí sí forte, che egli ne menava smanie, e tutto il dí andava aiato per poterla vedere: e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie ed un Sanctus, sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedea, si passava assai leggermente; ma pur sapeva sí fare, che Bentivegna del Mazzo non se n’avvedeva, né ancora vicina che egli avesse. E per poter piú avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d’agli freschi, che egli aveva i piú belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuolo di cipolle malige o di scalogni: e quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo. Ora, avvenne un dí che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or lá zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi, e fattogli motto, il domandò dove egli andava. A cui Bentivegna rispose: — Gnaffe, sere, in buona veritá io vo infino a cittá per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, ché m’aiuti di non so che m’ha fatto richiedere, per una comparigione del parentorio, per lo pericolator suo il giudice del dificio. — Il prete lieto disse: — Ben fai, figliuolo; or va’ con la mia benedizione e torna tosto: e se ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t’esca di mente di dir loro che mi rechino quelle còmbine per li coreggiati miei. — Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d’andare alla Belcolore e di provar sua ventura: e messasi la via tra’ piedi, non ristette si fu a casa di lei, ed entrato dentro, disse: — Dio ci mandi bene; chi è di qua? — La Belcolore, che era andata in palco, udendol disse: — O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo? — Il prete rispose: — Se Iddio mi dèa bene, che io mi veniva a star con teco una pezza, per ciò che io trovai l’uom tuo che andava a cittá. — La Belcolore, scesa giú, si pose a sedere e cominciò a nettar sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati. Il prete le cominciò a dire: — Bene, Belcolore, dé’mi tu far sempremai morire a questo modo? — La Belcolore cominciò a ridere ed a dire: — O che ve fo io? — Disse il prete: — Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quel che io vorrei e che Iddio comandò. — Disse la Belcolore: — Deh! andate andate: o fanno i preti cosí fatte cose? — Il prete rispose: — Sí facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti piú, che noi facciamo vie miglior lavorío; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta: ma in veritá, bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare. — Disse la Belcolore: — O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti piú scarsi che il fistolo? — Allora il prete disse: — Io non so; chiedi pur tu, o vuogli un paio di scarpette o vuogli un frenello o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli. — Disse la Belcolore: — Frate, bene sta! Io me n’ho, di coteste cose: ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, ed io farò ciò che voi vorrete? — Allora disse il prete: — Di’ ciò che ta vuogli, ed io il farò volentieri. — La Belcolore allora disse: — Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata ed a far racconciare il filatoio mio: e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io ricoglierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale da’ dí delle feste che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l’ho; ed io sempremai poscia farò ciò che voi vorrete. — Rispose il prete: — Se Iddio mi dèa il buono anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri. — Sí, — disse la Belcolore — tutti siete cosí gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla: credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n’andò col ceteratoio? Alla fé di Dio, non farete, ché ella n’è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi. — Deh! — disse il prete — non mi fare ora andare infino a casa, ché vedi che ho cosí ritta la ventura testé che non c’è persona, e forse, quando io ci tornassi, ci sarebbe chi che sia che c’impaccerebbe: ed io non so quando el mi si venga cosí ben fatto come ora. — Ed ella disse: — Bene sta: se voi volete andar, sí andate; se non, sí ve ne durate. — Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine custodia, disse: — Ecco, tu non mi credi che io gli ti rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato. — La Belcolore levò alto il viso e disse: — Sí, cotesto tabarro o che vale egli? — Disse il prete: — Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, ed hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio; e non è ancora quindici dí che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de’ soldi ben cinque, per quel che mi dica Buglietto, che sai che si conosce cosí bene di questi panni sbiavati. — O síe? — disse la Belcolore — se Iddio m’aiuti, io non l’avrei mai creduto: ma dateimi in prima. — Messer lo prete, che aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l’ebbe, disse: — Sere, andiancene — qua nella capanna, che non vi vien mai persona. — E cosí fecero: e quivi il prete, dandole i piú dolci basciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo. Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valeva la metá di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d’avere lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riaverlo potesse senza costo. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s’avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto: per ciò che il dí seguente, essendo festa, egli mandò un fanciullo d’un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, per ciò che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sí che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò; e come fu in su l’ora del desinare, ed il prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il cherico suo, gli disse: — Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di’ : — Dice il sere che gran mercé, e che voi gli rimandiate il tabarro che il fanciullo vi lasciò per ricordanza. — Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco, che desinavano, e quivi posto giú il mortaio, fece l’ambasciata del prete. La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: — Adunque tòi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va’ rendigliel tosto, che canciola te nasca, e guarda che di cosa che voglia mai, io dico se volesse l’asino nostro, non che altro, non gli sia detto di no. — La Belcolore brontolando si levò, ed andatasene al soppediano, ne trasse il tabarro e diello al cherico, e disse: — Dirai cosí al sere da mia parte: — La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai piú salsa in suo mortaio, non l’avete voi sí bello onor fatto di questa. — Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere; a cui il prete ridendo disse: — Dira’le quando tu la vedrai che, se ella non ci presterá il mortaio, io non presterò a lei il pestello; vada l’un per l’altro. — Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l’aveva garrito, e non se ne curò: ma la Belcolore venne in iscrezio col sere e tennegli favella infino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro la capanna, col mosto e con le castagne calde, si rappattumò con lui, e piú volte insieme fecer poi gozzoviglia: ed in iscambio delle cinque lire le fèce il prete rincartare il cembal suo ed appiccovvi un sonagliuzzo, ed ella fu contenta.
- [III]
- Calandrino, Bruno e Buffalmacco giú per lo Mugnone vanno cercando di trovar l’elitropia, e Calandrino la si crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia ed egli turbato la batte, ed a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
- Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevan tanto riso, che ancora ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse; la quale, ancora ridendo, incominciò:
- Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrá fatto di farvi con una mia novelletta non men vera che piacevole tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua: ma io me ne ’ngegnerò.
- Nella nostra cittá, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abbondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il piú del tempo con due altri dipintori usava chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicitá sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto ed avvenevole, chiamato Maso del Saggio, il quale, udendo alcune cose della simplicitá di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa: e per ventura trovandolo un dí nella chiesa di San Giovanni e veggendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli del tabernáculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. Ed informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono lá dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme incominciarono a ragionare delle vertú di diverse pietre, delle quali Maso cosí efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario; a’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchi, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso. Il quale seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre cosí virtuose si trovassero. Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, ed avevavisi una oca a denaio ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú: e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; ed ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. — Oh! — disse Calandrino — cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro? — Rispose Maso: — Mangianglisi i baschi tutti. — Disse allora Calandrino: — Fostivi tu mai? — A cui Maso rispose: — Di’ tu se io vi fu’ mai? Si, vi sono stato cosí una volta come mille! — Disse allora Calandrino: — E quante miglia ci ha? — Maso rispose: — Haccene piú di millanta, che tutta notte canta. — Disse Calandrino: — Adunque dèe egli essere piú lá che Abruzzi. — Sí bene, — rispose Maso — si è cavelle. — Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque veritá è piú manifesta, e cosí l’aveva per vere; e disse: — Troppo c’è di lungi a’ fatti miei: ma se piú presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco pur per veder fare il tomo a que’ maccheroni e tórmene una satolla. Ma dimmi, che lieto sii tu: in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cosí virtuose? — A cui Maso rispose: — Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima vertú. L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci, per vertú de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina, e per ciò si dice egli in que’ paesi di lá che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine: ma ècci di questi macigni sì gran quantitá, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Montemorello, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertú, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è. — Allora Calandrin disse: — Gran vertú son queste; ma questa seconda dove si truova? — A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: — Di che grossezza è questa pietra o che colore è il suo? — Rispose Maso: — Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è piú, alcuna meno: ma tutte son di colore quasi come nero. — Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di volere cercare di questa pietra: ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente, essendo giá l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, cosí disse loro: — Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i piú ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercare. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella ed andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e tôrcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrá: e cosí potremo arricchire subitamente, senza avere tuttodí a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca. — Bruno e Buffalmacco, udendo costui, tra se medesimi cominciarono a ridere; e guatando l’un verso l’altro, fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio di Calandrino: ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era giá il nome uscito di niente; per che egli rispose: — Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiamo la vertú? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star piú. — Or ben, — disse Bruno — come è ella fatta? — Calandrin disse: — Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vedrem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa: e per ciò non perdiam tempo, andiamo. — A cui Bruno disse: — Or t’aspetta. — E vólto a Buffalmacco, disse: — A me pare che Calandrino dica bene: ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dá per lo Mugnone entro ed ha tutte le pietre rasciutte; per che tali paion testé bianche, delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere: ed oltre a ciò, molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dí da lavorare, per lo Mugnone, li quali, veggendoci, si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo e forse farlo essi altressí: e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover far da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, ed in dì di festa, che non vi sará persona che ci veggia. — Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò, ed ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra: ma sopra ogni altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che cosí era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono tra se medesimi. Calandrino con disidèro aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare ingiú, della pietra cercando. Calandrino andava, come piú volenteroso, avanti, e prestamente or qua ed or lá saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano: ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all’analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empiè, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: — Calandrino dove è? — Buffalmacco, che ivi presso sei vedea, volgendosi intorno ed or qua ed or lá riguardando, rispose: — Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi. — Disse Bruno: — Benché fa poco, a me pare egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d’andar cercando le pietre nere giú per lo Mugnone. — Deh! come egli ha ben fatto — disse allor Buffalmacco — d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sí sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una cosí virtuosa pietra, altri che noi! — Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la vertú d’essa coloro, ancor che loro fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa: e vòlti i passi indietro, se ne cominciò a venire. Veggendo ciò Buffalmacco, disse a Bruno: — Noi che faremo? Ché non ce n’andiam noi? — A cui Bruno rispose: — Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne fará piú niuna: e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa! — Ed il dir le parole e l’aprirsi ed il dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque ed andò oltre. Buffalmacco, recatosi in mano un de’ codoli che raccolti avea, disse a Bruno: — Deh! vedi bel codolo: cosí giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! — E lasciato andare, gli die’ con esso nelle reni una gran percossa: ed in brieve, in cotal guisa, or con una parola ed or con un’altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando; quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero, le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla macina; ed intanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la cittá, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino cosí carico in casa sua. Era per ventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala: ed alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: — Mai, frate, il diavol ti ci reca! Ogni gente ha giá desinato quando tu torni a desinare. — Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: — Oimè! malvagia femina, o eri tu costi? Tu m’hai diserto: ma in fé di Dio io te ne pagherò! — E salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le trecce, la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli potè menar le braccia ed i piedi, tanto le die’ per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce. Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino; e giunti a piè dell’uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso ed affannato si fece alla finestra e pregògli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’ canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere: e d’altra parte, Calandrino, scinto ed ansando a guisa d’uom lasso, sedersi. Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: — Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, ché noi veggiamo qui tante pietre? — Ed oltre a questo, soggiunsero: — E monna Tessa che ha? El par che tu l’abbi battuta; che novelle son queste? — Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando, Buffalmacco rincominciò: — Calandrino, se tu avevi altra ira, tu non ci dovevi per ciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti e venistitene, il che noi abbiamo forte per male: ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai. — A queste parole Calandrino, sforzandosi, rispose: — Compagni, non vi turbate: l’opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato, aveva quella pietra trovata: e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia, e veggendo che voi ve ne venivate e non mi vedevate, v’entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto. — E cominciandosi dall’un de’ capi, infino alla fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: — E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; ed oltre a questo, ho trovati per la via piú miei compari ed amici, li quali sempre mi soglion far motto ed invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sí come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertú ad ogni cosa; di che io, che mi poteva dire il piú avventurato uom di Firenze, sono rimaso il piú sventurato: e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa! — E raccesosi nell’ira, si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, ed avevano sí gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano: ma veggendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi alla ’ncontro, il ritennero, dicendo, di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertú alle cose, e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno; il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il dovea palesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.
- [IV]
- Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, cd i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
- Venuta era Elissa alla fine della sua novella, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che ella appresso d’Elissa la sua raccontasse; la quale prestamente cosí cominciò:
- Valorose donne, quanto i preti e frati ed ogni cherico sieno sollecitatori delle menti nostre, in piú novelle dette mi ricorda esser mostrato: ma per ciò che dire non se ne potrebbe tanto, che ancora piú non ne fosse, io, oltre a quelle, intendo di dirvene una d’un proposto il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva che una gentil donna vedova gli volesse bene, o volesse ella o no; la quale, sí come molto savia, il trattò sí come egli era degno.
- Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi possiamo di quinci vedere, fu giá antichissima cittá e grande, come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò è mai cessato che vescovo avuto non abbia, ed ha ancora. Quivi vicino alla maggior chiesa ebbe giá una gentil donna vedova, chiamata monna Piccarda, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la piú agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte dell’anno dimorava, e con lei due suoi fratelli, giovani assai da bene e cortesi. Ora, avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s’innamorò sí forte il proposto della chiesa, che piú qua né piú lá non vedea; e dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d’amar lui, come egli lei amava. Era questo proposto d’anni giá vecchio ma di senno giovanissimo, baldanzoso ed altiero, e di sé ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pien di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole, che niuna persona era che ben gli volesse: e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli volea punto, ma ella l’aveva piú in odio che il mal del capo. Per che ella, sí come savia, gli rispose: — Messer, che voi m’amiate mi può esser molto caro, ed io debbo amar voi ed amerovvi volentieri: ma tra il vostro amore ed il mio niuna cosa disonesta dèe cader mai. Voi siete mio padre spiritale e siete prete, e giá v’appressate molto bene alla vecchiezza, le quali cose vi debbono fare ed onesto e casto; e d’altra parte, io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova, che sapete quanta onestá nelle vedove si richiede: e per ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non v’amerò mai né cosí voglio essere amata da voi. — Il proposto, per quella volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al primo colpo, ma usando la sua trascutata prontezza, la sollecitò molte volte e con lettere e con ambasciate ed ancora egli stesso quando nella chiesa la vedeva venire; per che, parendo questo stimolo troppo grave e troppo noioso alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva: ma cosa alcuna far non volle, che prima co’ fratelli nol ragionasse. E detto loro ciò che il proposto verso lei operava e quello ancora che ella intendeva di fare, ed avendo in ciò piena licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla chiesa come usata era; la quale come il proposto vide, cosí se ne venne verso lei, e come far soleva, per un modo parentevole seco entrò in parole. La donna, veggendol venire e verso lui riguardando, gli fece lieto viso: e da una parte tiratisi, avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo un gran sospiro disse: — Messere, io ho udito assai volte che egli non è alcun castello sí forte, che, essendo ognidí combattuto, non venga fatto d’esser preso una volta; il che io veggio molto bene in me essere avvenuto. Tanto ora con dolci parole ed ora con una piacevolezza ed ora con un’altra mi siete andato da torno, che voi m’avete fatto rompere il mio proponimento: e son disposta, poscia che io cosí vi piaccio, a volere esser vostra. — Il proposto tutto lieto disse: — Madonna, gran mercé; ed a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete tanto tenuta, pensando che mai piú di niuna non m’avvenne: anzi ho io alcuna volta detto che, se le femine fossero d’ariento, elle non varrebbon denaio, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello. Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme? — A cui la donna rispose: — Signor mio dolce, il quando potrebbe essere qualora piú ci piacesse, per ciò che io non ho marito a cui mi convenga render ragione delle notti: ma io non so pensare il dove. — Disse il proposto: — Come no? o in casa vostra? — Rispose la donna: — Messer, voi sapete che io ho due fratelli giovani, li quali e di dí e di notte vengono in casa con lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser non vi si potrebbe, salvo chi non volesse starvi a modo di mutolo senza far motto o zitto alcuno, ed al buio a modo di ciechi; volendo far cosí, si potrebbe, per ciò che essi non s’impacciano nella camera mia: ma è la loro sí allato alla mia, che paroluzza sí cheta non si può dire, che non si senta. — Disse allora il proposto: — Madonna, per questo non rimanga per una notte o per due, intanto che io pensi dove noi possiamo essere in altra parte con piú agio. — La donna disse: — Messer, questo stea pure a voi: ma d’una cosa vi priego, che questo stea segreto che mai parola non se ne sappia. — Il proposto disse allora: — Madonna, non dubitate di ciò; e se esser puote, fate che stasera noi siamo insieme. — La donna disse: — Piacemi — e datogli l’ordine come e quando venir dovesse, si partí e tornossi a casa. Aveva questa donna una sua fante, la quale non era però troppo giovane, ma ella aveva il piú brutto viso ed il piú contraffatto che si vedesse mai: ché ella aveva il naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse ed i denti mal composti e grandi, e sentiva del guercio, né mai era senza mal d’occhi, con un color verde e giallo che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia avesse fatta la state; ed oltre a tutto questo, era sciancata ed un poco monca dal lato destro. Ed il suo nome era Ciuta: e perché cosí cagnazzo viso aveva, da ogni uomo era chiamata Ciutazza; e benché ella fosse contraffatta della persona, ella era pure alquanto maliziosetta. La quale la donna chiamò a sé, e dissele: — Ciutazza, se tu mi vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camiscia nuova. — La Ciutazza, udendo ricordar la camiscia, disse: — Madonna, se voi mi date una camiscia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro. — Or ben, — disse la donna — io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio e che tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far motto, sí che tu non fossi sentita da’ fratei miei, che sai che ti dormono allato; e poscia io ti darò la camiscia. — La Ciutazza disse: — Sí dormirò io con sei, non che con uno, se bisognerá. — Venuta adunque la sera, messer lo proposto venne come ordinato gli era stato: ed i due giovani, come la donna composto avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente ed al buio nella camera della donna entratosene, se n’andò, come ella gli disse, a letto, e dall’altra parte la Ciutazza, ben dalla donna informata di ciò che a fare avesse. Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza e cominciolla a basciare senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de’ beni lungamente disiderati. Quando la donna ebbe questo fatto, impose a’ fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li quali, chetamente della camera usciti, n’andarono verso la piazza, e fu lor la fortuna in quello che far voleano piú favorevole che essi medesimi non domandavano, per ciò che, essendo il caldo grande, aveva domandato il vescovo di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor diportando e ber con loro. Ma come venir gli vide, cosí detto loro il suo disidèro, con loro si mise in via: ed in una lor corticella fresca entrato dove molti lumi accesi erano, con gran piacer bevve d’un lor buon vino. Ed avendo bevuto, dissono i giovani: — Messer, poi che tanta di grazia n’avete fatta, che degnato siete di visitar questa nostra piccola casetta alla quale noi venivamo ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare.— Il vescovo rispose che volentieri; per che l’un de’ giovani, preso un torchietto acceso in mano e messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza, il quale, per giugner tosto, s’era affrettato di cavalcare, ed era, avanti che costor quivi venissero, cavalcato giá delle miglia piú di tre; per che stanchetto, avendo, nonostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava. Entrato adunque con lume in mano il giovane nella camera, ed il vescovo appresso e poi tutti gli altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio. In questo destatosi messer lo proposto, e veduto il lume e questa gente da tornosi, vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni; al quale il vescovo disse una gran villania, e fecegli trarre il capo fuori e vedere con cui giaciuto era. Il proposto, conosciuto lo ’nganno della donna, sì per quello e sì per lo vitupèro che aver gli parea, subito divenne il piú doloroso uomo che fosse mai: e per comandamento del vescovo, rivestitosi, a patire gran penitenza del peccato commesso, con buona guardia, ne fu mandato alla casa. Volle il vescovo appresso sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere andato. I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa; il che il vescovo udito, commendò molto la donna, ed i giovani altressi che, senza volersi del sangue de’ preti imbrattar le mani, lui sí come egli era degno avean trattato. Questo peccato gli fece il vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e sdegno gliele fecero piagnere piú di quarantanove: senza che, poi ad un gran tempo, egli non poteva mai andar per via che egli non fosse da’ fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano: — Vedi colui che giacque con la Ciutazza! — Il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in su lo ’mpazzare; ed in cosí fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dell’impronto proposto e la Ciutazza guadagnò la camiscia.
- [V]
- Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
- Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la reina, a Filostrato guardando, disse: — A te viene ora il dover dire. — Per la qual cosa egli prestamente rispose, sé essere apparecchiato, e cominciò:
- Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi fará lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e d’alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia per ciò che vocaboli in essa s’usano che voi d’usar vi vergognate, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.
- Come voi tutte potete avere udito, nella nostra cittá vengono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria, e per questa loro innata miseria ed avarizia menan seco e giudici e notari che paiono uomini levati piú tosto dall’aratro o tratti dalla calzoleria che dalle scuole delle leggi. Ora, essendovene venuto uno per podestá, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il quale pareva piú tosto un magnano che altro a vedere: e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire le quistion criminali. E come spesso avviene che, benché i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d’un suo amico, v’andò: e venutogli guardato lá dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando. E come che egli, gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo ed un pennaiuolo a cintola e piú lunga la gonnella che la guarnacca ed assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una piú notabile che alcuna dell’altre, al parer suo, ne gli vide: e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli ed i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro infino a mezza gamba gli aggiugnea. Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de’ quali l’uno aveva nome Ribi e l’altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro: — Se vi cal di me, venite meco infino a palagio, ché io vi voglio mostrare il piú nuovo squasimodeo che voi vedeste mai. — E con loro andatosene in palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi piú vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggermente si poteva andare; ed oltre a ciò, videro rotta l’asse sopra la quale messer lo giudice teneva i piedi, tanto che a grande agio vi si poteva mettere la mano ed il braccio. Ed allora Maso disse a’ compagni: — Io voglio che noi gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene. — Aveva giá ciascun de’ compagni veduto come; per che, tra sé ordinato che dovessero fare e dire, la seguente mattina vi ritornarono: ed essendo la corte molto piena d’uomini, Matteuzzo, che persona non se n’avvide, entrò sotto il banco ed andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi; Maso, dall’un de’ lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi accostatosi dall’altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire: — Messere, o messere, io vi priego per Dio che innanzi che cotesto ladroncello che v’è costì da lato vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d’uose le quali egli m’ha imbolate, e dice pur di no: ed io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare. — Ribi, dall’altra parte, gridava forte: — Messer, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello; e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d’una valigia la quale egli m’ha imbolata, è egli testé venuto e dice dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’altrieri: e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia da lato, e la Grassa ventraiuola ed uno che va ricogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia, che il vide quando egli tornava di villa. — Maso, d’altra parte, non lasciava dire a Ribi, anzi gridava: e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice stava ritto, e loro piú vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell’asse e pigliò il fondo delle brache del giudice, e tirò giú forte. Le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato; il quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall’un lato e Ribi dall’altro pur tenendolo e gridando forte: — Messer, voi fate villania a non farmi ragione e non volermi udire e volervene andare altrove; di cosí piccola cosa come questa è, non si dá libello in questa terra! — tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n’erano, s’accorsero essergli state tratte le brache. Matteuzzo, poi che alquanto tenute l’ebbe, lasciatele, se n’uscí fuori ed andossene senza esser veduto. Ribi, parendogli avere assai fatto, disse: — Io fo boto a Dio d’aiutarmene al sindacato! — e Maso, d’altra parte, lasciatagli la guarnacca, disse: — No, io ci pur verrò tante volte, che io non vi troverò cosí impacciato come voi siete paruto stamane! — e l’uno in qua e l’altro in lá, come piú tosto poterono, si partirono. Messer lo giudice, tirate insú le brache in presenza d’ogni uomo, come se da dormir si levasse, accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan quistione: ma non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e’ gli conveniva conoscere e saper se egli s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici quando sedevano al banco della ragione. Il podestá, d’altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentin conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne miglior mercato, per lo migliore si tacque, né piú avanti andò la cosa per quella volta.
- [VI]
- Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare l’esperienza da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, ed a lui ne dánno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l’abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
- Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che seguitando dicesse; la quale incominciò:
- Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita avete, cosí né piú né men son tirata io da quel di Calandrino e de’ compagni suoi a dirne un’altra di loro, la qual, sí come io credo, vi piacerá.
- Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero, non bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito: e per ciò, piú avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze, che in dota aveva avuto dalla moglie, del quale, tra l’altre cose che sú vi ricoglieva, n’aveva ogni anno un porco; ed era sua usanza sempre colá, di dicembre, d’andarsene la moglie ed egli in villa, ed ucciderlo e quivi farlo salare. Ora, avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e veggendogli col prete, gli chiamò, e disse: — Voi siate i ben venuti; io voglio che voi veggiate che massaio io sono. — E menatigli in casa, mostrò loro questo porco. Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare; a cui Brun disse: — Deh! come tu se’ grosso! Vendilo, e godianci i denari: ed a móglieta di’ che ti sia stato imbolato. — Calandrin disse: — No, ella nol crederebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v’impacciate, ché io nol farei mai. — Le parole furono assai, ma niente montarono. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista, sì che costor non vi vollon cenare, e partirsi da lui. Disse Bruno a Buffalmacco: — Vogliángli noi imbolare stanotte quel porco? — Disse Buffalmacco: — O come potremmo noi? — Disse Bruno: — Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di lá ove egli era testé. — — Adunque, — disse Buffalmacco — facciánlo: perché nol faremmo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine. — Il prete disse che gli era molto caro. Disse allora Bruno: — Qui si vuole usare un poco d’arte. Tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e menianlo alla taverna: quivi il prete faccia vista di pagar tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerá, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa. — Come Brun disse, cosí fecero. Calandrino, veggendo che il prete non lo lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo giá buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio, il lasciò aperto ed andossi a letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenar col prete, e come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino lá onde Bruno aveva divisato, lá chetamente n’andarono: ma trovando aperto l’uscio, entraron dentro, ed ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n’andarono a dormire. Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e come scese giú, guardò e non vide il porco suo, e vide l’uscio aperto; per che, domandato quello e quello altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romor grande, oisè! dolente sé! che il porco gli era stato imbolato. Bruno e Buffalmacco, levatisi, se n’andarono verso Calandrino per udir ciò che egli del porco dicesse; il quale, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse: — Oimè! compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato! — Bruno, accostatoglisi, pianamente gli disse: — Maraviglia che se’ stato savio una volta! — Oimè! — disse Calandrino — che io dico da dovero. — Così di’, — diceva Bruno — grida forte sì, che paia bene che sia stato così. — Calandrino gridava allora piú forte e diceva: — Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m’è stato imbolato! — E Brun diceva: — Ben di’, ben di’: el si vuol ben dir cosi, grida forte, fatti ben sentire sí, che egli paia vero. — Disse Calandrino: — Tu mi faresti dar l’anima al nemico; io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato! — Disse allora Bruno: — Deh! come dèe potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì; credimi tu far credere che egli sia volato? — Disse Calandrino: — Egli è come io ti dico. — Deh! — disse Bruno — può egli essere? — Per certo — disse Calandrino — egli è così; di che io son diserto, e non so come io mi torni a casa; mógliema nol mi crederá, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei. — Disse allora Bruno: — Se Iddio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è: ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così; io non vorrei che tu ad una ora ti facessi beffe di móglieta e di noi. — Calandrino incominciò a gridare ed a dire: — Deh! perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio ed i santi e ciò che v’è? Io vi dico che il porco m’è stato stanotte imbolato. — Disse allora Buffalmacco: — Se egli è pur così, vuoisi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo. — E che via — disse Calandrino — potrem noi trovare? — Disse allora Buffalmacco: — Per certo egli non c’è venuto d’India niuno a tôrti il porco: alcuno di questi tuoi vicini dèe essere stato, e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare l’esperienza del pane e del formaggio, e vedremmo di botto chi l’ha avuto. — Sì, — disse Bruno — ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha da torno! ché son certo che alcun di lor l’ha avuto, ed avvedrebbesi del fatto e non ci vorrebbe venire. — Come è adunque da fare? — disse Buffalmacco. Rispose Bruno: — Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, ed invitargli a bere: essi non sel penserebbono e verrebbono; e cosí si possono benedicer le galle del gengiovo come il pane ed il cascio. — Disse Buffalmacco: — Per certo tu di’ il vero; e tu, Calandrino, che di’? Vogliánlo fare? — Disse Calandrino: — Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio: ché, se io sapessi pure chi l’ha avuto, sì mi parrebbe essere mezzo consolato. — Or via, — disse Bruno — io sono acconcio d’andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari. — Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede. Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libra di belle galle di gengiovo e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero come avevan l’altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto ben le conoscea: e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino, e dissegli: — Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto: egli è festa, ciascun verrá volentieri, ed io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ’ncantagione sopra le galle e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare. — Calandrino cosí fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini che per la villa erano e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno: — Signori, el mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrino che qui è, fu iernotte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e perciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dèe potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha, vi dá a mangiar queste galle una per uno e bere: ed in fino da ora sappiate che chi avuto avrá il porco, non potrá mandar giú la galla, anzi gli parrá piú amara che veleno e sputeralla, e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse meglio che quel cotale che avuto l’avesse, in penitenza il dica al sere, ed io mi rimarrò di questo fatto. — Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a ciascun la sua: e come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare, ma si tosto come la lingua senti l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, per veder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d’intendere a ciò, s’udí dir dietro: — Eia, Calandrino, che vuol dir questo? — Per che, prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse: — Aspèttati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tènne un’altra. — E presa la seconda, gliele mise in bocca e fornì di dare l’altre che a dare avea. Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima: ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; ed ultimamente, non potendo piú, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li quali insieme con gli altri questo veggendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso: e furonvene di quegli che aspramente il ripresero. Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: — Io l’aveva per lo certo tuttavia che tu te l’avevi avuto tu, ed a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de’ denari che tu n’avesti. — Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dell’aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l’aveva. Disse Buffalmacco: — Ma che n’avesti, sozio, alla buona fé? Avestine sei? — Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare; a cui Brun disse: — Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovanetta che tu tenevi a tua posta, e dávile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco tu, sí hai apparato ad esser beffardo. Tu ci menasti una volta giú per lo Mugnone raccogliendo pietre nere: e quando tu ci avesti messi in galea senza biscotto, e tu te ne venisti, e poscia ci volevi far credere che tu non l’avessi trovata; ed ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressí che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sí siamo usi delle tue beffe e conoscianle; tu non ce ne potresti far piú: e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l’arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa. — Calandrino, veggendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi, li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.
- [VII]
- Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un di la fa stare in su una torre alle mosche ed a’ tafani ed al sole.
- Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e piú n’avrebbono ancora, se stato non fosse che loro increbbe di vedergli tórre ancora i capponi a coloro che tolto gli avevano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; ed essa prestamente cosí cominciò:
- Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è dall’arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui. Noi abbiamo per piú novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s’è raccontato: ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d’una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo; e questo udire non sará senza utilitá di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.
- Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’ beni della fortuna convenevolmente abbondante, e nominata Elena, la quale, rimasa del suo marito vedova, mai piú maritar non si volle, essendosi ella d’un giovanetto bello e leggiadro a sua scelta innamorata; e da ogni altra sollecitudine sviluppata, con l’opera d’una sua fante di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo. Avvenne in questi tempi che un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra cittá, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienza a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d’esse, il che ottimamente sta in gentile uomo, tornò da Parigi a Firenze: e quivi, onorato molto sí per la sua nobiltá e sí per la sua scienza, cittadinescamente viveasi. Ma come spesso avviene, coloro ne’ quali è piú l’avvedimento delle cose profonde, piú tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri; al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato ad una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sí come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza, al suo giudicio, e di tanta piacevolezza quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere: e seco estimò, colui potersi beato chiamare al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere. Ed una volta ed altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena ed ogni sollecitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere aver copia di lei. La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno, ma quello e piú tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli, si guardava dintorno e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in se stessa ridendo, disse: — Io non ci sarò oggi venuta invano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso. — E cominciatolo con la coda dell’occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s’ingegnava di dimostrargli che di lui le calesse, d’altra parte pensandosi che quanti piú n’adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l’aveva data. Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l’animo rivolse a costei: e credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v’incominciò a passare, con varie cagioni colorando l’andate. Al quale la donna, per la cagion giá detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s’accontò con la fante di lei ed il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sí, che la grazia di lei potesse avere. La fante promise largamente ed alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò, e disse: — Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello che va cercando. Dira’gli, qualora egli ti parla piú, che io amo molto piú lui che egli non ama me: ma che a me si convien di guardar l’onestá mia, sí che io con l’altre donne possa andare a fronte scoperta; di che egli, se cosí è savio come si dice, mi dèe molto piú cara avere. — Ahi cattivella cattivella! ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari. La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto. Lo scolar lieto procedette a piú caldi prieghi ed a scriver lettere ed a mandar doni, ed ogni cosa era ricevuta, ma indietro non venivan risposte se non generali: ed in questa guisa il tenne gran tempo in pastura. Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato ed alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei suspicasse, sollecitandola lo scolar molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter far cosa che gli piacesse, poi che del suo amore fatta l’aveva certa, se non che, per la festa del Natale che s’appressava, ella sperava di potere esser con lui: e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, piú che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare. La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo: — E potrai vedere quanto e quale sia l’amore il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa. — Queste parole ascoltò l’amante con gran piacer d’animo, disideroso di veder per opera ciò che la donna con parole gli dava ad intendere. Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, ed ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir piú freddo che voluto non avrebbe: ma aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva. La donna al suo amante disse dopo alquanto: — Andiancene in camera e da una finestretta guardiamo ciò che colui di cui se’ divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderá alla fante, la quale io gli ho mandata a favellare. — Andatisene adunque costoro ad una finestretta e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un’altra favellare allo scolare e dire: — Rinieri, madonna è la piú dolente femina che mai fosse, per ciò che egli c’è stasera venuto un de’ suoi fratelli ed ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, ed ancora non se n’è andato, ma io credo che egli se n’andrá tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma tosto verrá oggimai: ella ti priega che non t’incresca l’aspettare. — Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose: — Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dèa infino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire: ma che questo ella faccia come piú tosto può. — La fante, dentro tornatasi, se n’andò a dormire. La donna allora disse al suo amante: — Ben, che dirai? Credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse lá giú ad agghiacciare? — E questo detto, con l’amante suo, che giá in parte era contento, se n’andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa ed in piacere, del misero scolare ridendosi e faccendosi beffe. Lo scolare, andando per la corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno; e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna, e ciò che udiva, credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s’aprisse: ma invano sperava. Essa infin vicino della mezzanotte col suo amante sollazzatasi, gli disse: — Che ti pare, anima mia, dello scolar nostro? Qual ti par maggiore, o il suo senno o l’amor che io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t’entrò l’altrieri? — L’amante rispose: — Cuor del corpo mio, sí, assai conosco che cosí come tu se’ il mio bene ed il mio riposo ed il mio diletto e tutta la mia speranza, cosí sono io la tua. — Adunque, — diceva la donna — or mi bascia ben mille volte, a veder se tu di’ vero. — Per la qual cosa l’amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma piú di centomilia la basciava; e poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna: — Deh! levianci un poco ed andiamo a vedere se il fuoco è punto spento nel quale questo mio novello amante tutto il dí mi scrivea che ardeva. — E levati, alla finestretta usata n’andarono: e nella corte guardando, videro lo scolare far su per la neve una carola trita, al suono d’un batter di denti che egli faceva per troppo freddo, sí spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano. Allora disse la donna: — Che dirai, speranza mia dolce? Párti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa? — A cui l’amante ridendo rispose: — Diletto mio grande, sí. — Disse la donna: — Io voglio che noi andiamo infin giú all’uscio: tu ti starai cheto, ed io gli parlerò ed udirem quello che egli dirá, e per avventura n’avremo non men festa che noi abbiam di vederlo. — Ed aperta la camera chetamente, se ne scesero all’uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa, da un pertugetto che v’era, il chiamò. Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro, ed accostatosi all’uscio, disse: — Eccomi qui, madonna; aprite per Dio, ché io muoio di freddo. — La donna disse: — O sì, che io so che tu se’ uno assiderato! ed anche è il freddo molto grande, perché costí sia un poco di neve! Giá so io che elle sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che iersera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora: ma egli se n’andrá tosto, ed io verrò incontanente ad aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui per venirti a confortare che l’aspettar non t’incresca. — Disse lo scolare: — Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m’apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s’è messa la piú folta neve del mondo, e nevica tuttavia; ed io v’attenderò quanto vi sará a grado. — Disse la donna: — Oimè! ben mio dolce, che io non posso, ché questo uscio fa sí gran romore quando s’apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t’aprissi: ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti. — Disse lo scolare: — Ora andate tosto, e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io entrerò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo, che appena sento di me. — Disse la donna: — Questo non dèe potere essere, se quello è vero che tu m’hai piú volte scritto, cioè che tu per l’amor di me ardi tutto: ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspèttati e sii di buon cuore. — L’amante, che tutto udiva ed aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto ed in farsi beffe dello scolar consumarono. Lo scolar cattivello, quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti, accorgendosi d’esser beffato, piú volte tentò l’uscio se aprirlo potesse e riguardò se altronde ne potesse uscire: né veggendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualitá del tempo, la malvagitá della donna e la lunghezza della notte insieme con la sua simplicitá; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo ed acerbo odio trasmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto piú disiderava che prima d’esser con la donna non avea disiato. La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s’avvicinò al dì e cominciò l’alba ad apparire; per la qual cosa la fante, dalla donna ammaestrata, scesa giú, aperse la corte, e mostrando d’aver compassion di costui, disse: — Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne! Egli n’ha tutta notte tenute in bistento, e te ha fatto agghiacciare: ma sai che? Portalti in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere, sará un’altra volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta che tanto fosse dispiaciuta a madonna. — Lo scolare sdegnoso, sì come savio il qual sapeva niuna altra cosa le minacce essere che arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontá s’ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse: — Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sí come pietosa di me, infin qua giú venne a scusar sé ed a confortar me: e come tu di’, quello che stanotte non è stato, sará un’altra volta; raccomandalemi e fátti con Dio. — E quasi tutto rattrappato, come potè, a casa sua se ne tornò, dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle braccia e delle gambe si destò; per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe’ provvedere. Li medici, con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono de’ nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere: ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio serbando, vie piú che mai si mostrava innamorato della vedova sua. Ora, avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disidèro sodisfare. Per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato, non avendo alcun riguardo all’amor da lei portatogli, innamorato d’un’altra donna, e non volendo né poco né molto dire né fare cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime ed in amaritudine si consumava: ma la sua fante, la quale gran compassion le portava, non trovando modo da levare la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, veggendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l’amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse potere riducere per alcuna nigromántica operazione e che di ciò lo scolare dovesse esser gran maestro; e disseto alla sua donna. La donna poco savia, senza pensare che, se lo scolare saputa avesse nigromantía, per sé adoperata l’avrebbe, pose l’animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che, per merito di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse. La fante fece l’ambasciata bene e diligentemente; la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo disse: — Iddio, lodato sii tu; venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ’ngiuria fattami in premio del grande amore che io le portava. — Ed alla fante disse: — Dirai alla mia donna che di questo non istea in pensiero, ché, se il suo amante fosse in India, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto: ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò attendo di dire a lei quando e dove piú le piacerá, e cosí le di’ e da mia parte la conforta. — La fante fece la risposta, ed ordinossi che in Santa Lucia dal prato fossero insieme. Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava, e pregollo per la sua salute; a cui lo scolar disse: — Madonna, egli è il vero che tra l’altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantía, della quale per certo io so ciò che n’è: ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui adoperarla. È il vero che l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi neghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sí son presto di farlo poi che vi piace. Ma io vi ricordo che ella è piú malagevole cosa a fare che voi per avventura non v’avvisate, e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l’uomo una donna, per ciò che questo non si può fare se non per la propria persona a cui appartiene, ed a far ciò convien che chi il fa sia di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare ed in luoghi solitari e senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta. — A cui la donna, piú innamorata che savia, rispose: — Amor mi sprona per sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riavere colui che a torto m’ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura. — Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda, disse: — Madonna, a me converrá fare una imagine di stagno in nome di colui il quale voi disiderate di racquistare, la quale quando io v’avrò mandata, converrá che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola sette volte con lei vi bagniate, ed appresso cosí ignuda n’andiate sopra ad uno albero o sopra una qualche casa disabitata: e vòlta a tramontana con l’imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte, le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle piú belle che voi vedeste mai e si vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quello che voi vogliate che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disidèri vostri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per uno altro; e come detto l’avrete, elle si partiranno e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati, e rivestirvi e tornarvene a casa. E per certo egli non sará mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi verrá a domandar mercé e misericordia: e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascerá. — La donna, udendo queste cose ed intera fede prestandovi, parendole il suo amante giá riaver nelle braccia, mezza lieta divenuta, disse: — Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene: ed ho il piú bel destro da ciò del mondo, ché io ho un podere verso il Valdarno di sopra, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio, che sará il bagnarsi dilettevole. Ed ancora mi ricorda essere non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che v’è, a guatar di lor bestie smarrite, luogo molto solingo e fuor di mano; sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m’imporrai. — Lo scolare, che ottimamente sapeva ed il luogo della donna e la torricella, contento d’esser certificato della sua intenzion, disse: — Madonna, io non fui mai in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella: ma se cosí sta come voi dite, non può essere al mondo migliore; e per ciò, quando tempo sará, vi manderò l’imagine e l’orazione: ma ben vi priego che, quando il vostro disidèro avrete e conoscerete che io v’avrò ben servita, che vi ricordi di me e d’attenermi la promessa. — A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo, e preso da lui commiato, se ne tornò a casa. Lo scolar, lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte e scrisse una sua favola per orazione: e quando tempo gli parve, la mandò alla donna, e mandolle a dire che la notte vegnente senza piú indugio dovesse far quello che detto l’avea; ed appresso segretamente con un suo fante se n’andò a casa d’un suo amico che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto. La donna, d’altra parte, con la sua fante si mise in via ed al suo poder se n’andò: e come la notte fu venuta, vista faccendo d’andarsi a letto, la fante ne mandò a dormire, ed in su l’ora del primo sonno di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d’Arno se n’andò, e molto da torno guatatasi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi ed i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con l’imagine si bagnò, ed appresso, ignuda, con l’imagine in mano, verso la torricella n’andò. Lo scolare, il quale in sul far della notte col suo fante tra salci ed altri alberi presso della torricella nascoso s’era ed aveva tutte queste cose veduto, e passandogli ella quasi allato cosí ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, ed appresso riguardandole il petto e l’altre parti del corpo, e veggendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d’altra parte, lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva, e confortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere ed il suo piacer ne facesse: e vicin fu ad essere tra dall’uno e dall’altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era e qual fosse la ’ngiuria ricevuta e perché e da cui, e per ciò nello sdegno raccesosi, e la compassione ed il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo e lasciolla andare. La donna, montata in su la torre ed a tramontana rivolta, cominciò a dir le parole datele dallo scolare; il quale poco appresso, nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, ed appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare. La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l’aspettare; senza che, fresco le faceva troppo piú che voluto non avrebbe; che ella vide l’aurora apparire, per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l’avea, seco disse: — Io temo che costui non m’abbia voluta dare una notte chente io diedi a lui; ma se per ciò questo m’ha fatto, mal s’è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua: senza che, il freddo fu d’altra qualitá. — E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a volere smontar della torre, ma ella trovò non esservi la scala. Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l’animo: e vinta cadde sopra il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere ed a dolersi, ed assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s’incominciò a ramaricare d’avere altrui offeso, ed appresso, d’essersi troppo fidata di colui il quale ella doveva meritamente creder nemico: ed in ciò stette lunghissimo spazio. Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, rincominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero, a se stessa dicendo: — O sventurata, che si dirá da’ tuoi fratelli, da’ parenti e da’ vicini e generalmente da tutti i fiorentini quando si saprá che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestá, stata cotanta, sará conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste cose trovare scuse bugiarde, che pur ce n’avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerá mentire. Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto il male amato giovane ed il tuo onore! — E dopo questo venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra: ma essendosi giá levato il sole ed ella alquanto piú dall’una delle parti piú al muro accostatasi della torre, guardando se alcun fanciullo quivi con le bestie s’accostasse, cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d’un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide, ed ella lui; alla quale lo scolar disse: — Buon dí, madonna; sono ancora venute le damigelle? — La donna, veggendolo ed udendolo, rincominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai cortese. La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello, e piagnendo disse: — Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se’ ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda, assiderare: senza che, io ho tanto pianto e lo ’nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me la quale tu amar non dèi, ma per amor di te che se’ gentile uomo, che ti basti, per vendetta della ’ngiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare e che io possa di qua su discendere, e non mi voler tôr quello che tu poscia, volendo, render non mi potresti, cioè l’onor mio: ché, se io tolsi a te l'esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e l'averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad un’aquila l’aver vinta una colomba: adunque, per l’amor di Dio e per onor di te, t’incresca di me. — Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo e veggendo piagnere e pregare, ad una ora aveva piacere e noia nell’animo: piacere della vendetta la quale piú che altra cosa disiderata avea, e noia sentiva movendolo l’umanitá sua a compassion della misera. Ma pur non potendo l’umanitá vincere la fierezza dell’appetito, rispose: — Madonna Elena, se i miei prieghi, li quali io nel vero io non seppi bagnar di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi, m’avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure un poco sotto il coperto, leggèr cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire: ma se cotanto ora piú che per lo passato del tuo onor ti cale, ed ètti grave il costá sú ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t’increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, ed a lui ti fa’ aiutare, a lui ti fa’ i tuoi panni recare, a lui ti fa’ por la scala per la qual tu scenda, in lui t’ingegna di metter tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo ed ora e mille altre volte non hai dubitato di mettere in periglio. Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? Ed a cui appartiene egli piú che a lui? Tu se’ sua: e quali cose guarderá egli o aiuterá, se egli non guarda ed aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se’, e pruova se l’amore il quale tu gli porti ed il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare; la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore, o la mia sciocchezza o l’amor che tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero né negare il mi puoi, se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se egli avvien che tu di qui viva ti parti: tue si sieno e di lui: io n’ebbi troppo d’una, e bastimi d’essere stato una volta schernito. Ed ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t’ingegni col commendarmi la mia benivolenza acquistare e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io, come magnanimo, mi ritragga dal punirti della tua malvagitá t’ingegni di fare: ma le tue lusinghe non m’adombreranno ora gli occhi dello ’ntelletto, come giá fecero le tue disleali promessioni: io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere. Ma presupposto che io pur magnanimo fossi, non se’ tu di quelle in cui la magnanimitá debba i suoi effetti mostrare: la fine della penitenza nelle salvatiche fiere come tu se’, e similmente della vendetta, vuole essere la morte, dove negli uomini quello dèe bastare che tu dicesti; per che, quantunque io aquila non sia, te non colomba ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nemico, con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propriamente vendetta chiamare, ma piú tosto gastigamento, in quanto la vendetta dèe trapassar l’offesa, e questo non v’aggiugnerá, per ciò che, se io vendicarmi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l’anima mia, la tua vita non mi basterebbe togliendolati, né cento altre alla tua simigliami, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea feminetta. E da che diavol, togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendole di crespe, se’ tu piú che qualunque altra dolorosetta fante? Dove per te non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrá piú in un dì essere utile al mondo che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dèe. Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento e che cosa sia lo schernir gli scolari, e darotti materia di giá mai piú in tal follia non cader, se tu campi. Ma se tu n’hai cosí gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con l’aiuto di Dio, fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare e me farai il piú lieto uom del mondo. Ora io non ti vo’ dir piú: io seppi tanto fare, che io costá sú ti feci salire; sappi tu ora tanto fare, che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare. — Parte che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo, ed il tempo se n’andava, salendo tuttavia il sol piú alto. Ma poi che ella il sentì tacer, disse: — Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave, e parveti il fallo mio cosí grande, che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza né l’amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l'essermi di te nuovamente fidata e l’averti ogni mio segreto scoperto, col quale ho data via al tuo disidèro in potermi fare del mio peccato conoscente: con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato. Deh! lascia l'ira tua e perdonami omai: io sono, quando tu perdonarmi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d’abbandonare del tutto il disleal giovane e te solo avere per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell'altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, sí è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini: e tu non se’ vecchio. E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare cosí disonesta morte come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giú dinanzi agli occhi tuoi, a’ quali, se tu bugiardo non eri come se’ diventato, giá piacqui cotanto. Deh! increscati di me, per Dio e per pietá: il sole s’incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo fresco questa notte m’offese, così il caldo m’incomincia a far grandissima noia. — A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole, rispose: — Madonna, la tua fede non si rimise ora nelle mie mani per amore che tu mi portassi, ma per racquistar quello che tu perduto avevi, e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male: e mattamente credi, se tu credi questa sola via, senza piú, essere alla disiderata vendetta da me opportuna stata. Io n’aveva mille altre, e mille lacciuoli col mostrar d’amarti t’aveva tesi intorno a’ piedi, né guari di tempo era ad andare, che di necessitá, se questo avvenuto non fosse, ti conveniva in uno incappare, né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia, caduta non fossi: e questo presi non per agevolarti, ma per esser piú tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei ed in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute, che l’avresti, avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata. Le forze della penna son troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno. Io giuro, a Dio, e se egli di questa vendetta che io di te prendo mi faccia allegro infino alla fine come nel cominciamento m’ha fatto, che io avrei di te scritte cose, che, non che dell’altre persone ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere, t’avresti cavati gli occhi: e per ciò non rimproverare al mare d’averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto. Del tuo amore o che tu sii mia, non ho io, come giá dissi, alcuna cura: siiti pur di colui di cui stata se’, se tu puoi, il quale come io giá odiai, cosí al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi v’andate innamorando e disiderate l’amor de’ giovani, per ciò che alquanto con le carni piú vive e con le barbe piú nere gli vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le quali cose tutte ebber coloro che piú alquanto attempati sono, e quel sanno che coloro hanno ad imparare. Ed oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri, e far di piú miglia le lor giornate che gli uomini piú maturi. Certo io confesso che essi con maggior forza scuotano i pilliccioni: ma gli attempati, sí come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci, e di gran lunga è da elegger piú tosto il poco e saporito che il molto ed insipido; ed il trottar forte rompe e stanca altrui quantunque sia giovane, dove il soavemente andare, ancora che alquanto piú tardi altrui meni all’albergo, egli il vi conduce almen riposato. Voi non v’accorgete, animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso. Non sono i giovani d’una contenti, ma quante ne veggiono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che esser non può stabile il loro amore, e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia. E par loro esser degni d’esser reveriti e careggiati dalle lor donne, né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo giá sotto a’ frati, che nol ridicono, ne mise molte. Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante ed io, tu il sai male, e mal credi se così credi. La sua contrada quasi di niuna altra cosa ragiona, e la tua: ma le piú volte è l’ultimo a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono. Essi ancora vi rubano, dove dagli attempati v’è donato. Tu adunque, che male eleggesti, siiti di colui a cui tu ti désti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto piú che tu non se’, che meglio m’ha conosciuto che tu non facesti. Ed acciò che tu del disidèro degli occhi miei possi maggior certezza nell’altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giú pur tosto, e l’anima tua, sí come io credo, giá ricevuta nelle braccia del diavolo potrá vedere se gli occhi miei d’averti veduta strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no. Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato. — La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, rincominciò a piagnere e disse: — Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietá ti muove, muovati l’amore il qual tu porti a quella donna che piú savia di me di’ che hai trovata e da cui tu di’ che se’ amato, e per amor di lei mi perdona ed i miei panni mi reca, ché io rivestirmi possa, e quinci mi fa’ smontare. — Lo scolare allora cominciò a ridere, e veggendo che giá la terza era di buona ora passata, rispose: — Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n’hai pregato: insegnaglimi, ed io andrò per essi e farotti di costá sú scendere. — La donna, ciò credendo, alquanto si riconfortò ed insegnògli il luogo dove aveva i panni posti. Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, ed a suo poter guardasse che alcuno non v’entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se n’andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, ed appresso, quando ora gli parve, s’andò a dormire. La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere, ed a quella parte del muro dove un poco d’ombra era s’accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare: ed ora pensando ed ora piagnendo, ed ora sperando ed or disperando della tornata dello scolar co’ panni, e d’un pensiero in altro saltando, sí come quella che dal dolore era vinta e che niente la notte passata aveva dormito, s’addormentò. Il sole, il quale era ferventissimo, essendo giá al mezzogiorno salito, feriva alla scoperta ed al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto tutte l’aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva costrinse a destarsi. E sentendosi cuocere ed alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s’aprisse e schiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abbrusciata, se altri la tira: ed oltre a questo, le doleva sí forte la testa, che pareva che le si spezzasse; il che niuna maraviglia era. Ed il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co’ piè né con altro vi poteva trovar luogo; per che, senza star ferma, or qua or lá si tramutava piagnendo. Ed oltre a questo, non faccendo punto di vento, v’erano mosche e tafani in grandissima quantitá abbondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte, sí fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d’uno spuntone; per che ella di menare le mani attorno non ristava niente, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo. E cosí essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da’ tafani, ed ancor dalla fame ma molto piú dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenirnele dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto. Ma anche questo l’aveva la sua nemica fortuna tolto. I lavoratori eran tutti partiti de’ campi per lo caldo, avvegna che quel dí niuno ivi appresso era andato a lavorare, sí come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il quale, porgendole disidèro delle sue acque, non iscemava la sete ma l’accresceva. Vedeva ancora in piú luoghi boschi ed ombre e case, le quali tutte similmente l’erano angoscia disiderando. Che direm piú della sventurata vedova? Il sol di sopra ed il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de’ tafani da lato sì per tutto l’avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora, rossa divenuta come robbia e tutta di sangue chiazzata, sarebbe paruta, a chi veduta l’avesse, la piú brutta cosa del mondo. E cosí dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, piú la morte aspettando che altro, essendo giá la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per vedere che di lei fosse se ne tornò alla torre, ed il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire: — Rinieri, ben ti se’ oltre misura vendicato: ché, se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, ed oltre a ciò, di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che qua su salghi, e poi che a me non sofferá il cuore di dare a me stessa la morte, dállami tu, ché io la disidero piú che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d’acqua mi fa’ venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l’asciugaggine e l’arsura la quale io v’ho dentro. — Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, ed ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei: ma nonpertanto rispose: — Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu giá: tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrá; e tanta acqua avrai da me a sollenamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te ad alleggiamento del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte, che la ’nfermitá del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo dell’odorifera acqua rosa si curerá; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu, da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio. — O misera me! — disse la donna — queste bellezze in cosí fatta guisa acquistate dèa Iddio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, piú crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che piú doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltá si fosse potuta usare in un traditore che tutta una cittá avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m’hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche: ed oltre a questo, non un bicchier d’acqua volermi dare, che a’ micidiali dannati dalla ragione, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne domandino. Ora ecco, poscia che io veggio te star fermo nella tua acerba crudeltá, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienza mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia dell’anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi. — E queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da cosí ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli altri suoi dolori, credette di sete spasimare, tuttavia piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi. Ma essendo giá vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei ed inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n’andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi; alla quale egli disse: — Buona femina, che è della donna tua? — A cui la fante rispose: — Messere, io non so; io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l’era paruta vedere andare, ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta; di che io vivo con grandissimo dolore: ma voi, messere, saprestemene dire niente? — A cui lo scolar rispose: — Così avessi io avuta te con lei insieme lá dove io ho lei avuta, acciò che io t’avessi della tua colpa cosí punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai delle mani che io non ti paghi sì dell’opere tue, che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi. — E questo detto, disse al suo fante: — Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, se ella vuole. — Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l’era, temette forte non l’avessero uccisa, ed appena di gridar si ritenne: e subitamente piagnendo, essendosi giá lo scolar partito, con quegli verso la torre n’andò correndo. Aveva per isciagura un lavoratore di questa donna quel di due suoi porci smarriti, ed andandogli cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, ed andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva; per che, salito su quanto potè, gridò: — Chi piagne lá su? — La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e chiamatol per nome, gli disse: — Deh! vammi per la mia fante, e fa’ si che ella possa qua sú a me venire. — Il lavoratore, conosciutola, disse: — Oimè! madonna, e chi vi portò costá sú? La fante vostra v’è tuttodí oggi andata cercando: ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui? — E presi i travicelli della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea ed a legarvi con ritorte i bastoni a traverso; ed in questo la fante di lei sopravvenne, la quale, nella torre entrata, non potendo piú la voce tenere, battendosi a palme, cominciò a gridare: — Oimè ! donna mia dolce, ove siete voi? — La donna udendola, come piú forte potè, disse: — O sirocchia mia, io son qua sú; non piagnere, ma recami tosto i panni miei. — Quando la fante l’udí parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala giá presso che racconcia dal lavoratore, ed aiutata da lui, in sul battuto pervenne: e veggendo la donna sua non corpo umano, ma piú tosto un cepparello inarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi l’unghie nel viso, cominciò a piagnere sopra di lei non altramenti che se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse: ed avendo da lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l’aveano ed il lavoratore che al presente v’era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero. Il lavoratore, dopo molte novelle, levatasi la donna in collo che andar non poteva, salvamente infino fuori della torre la condusse. La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piede, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone. Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta, similmente nell’erbaio la recò ed allato alla donna la pose, la quale, veggendo questo per aggiunta degli altri suoi mali avvenuto, e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata piú che da altrui, dolorosa senza modo, rincominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressi cominciò a piagnere. Ma essendo giá il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna piacque, n’andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie, e lá tornati con una tavola, su v’acconciarono la fante ed alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d’acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò. La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, ed ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e cosí fu fatto. Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuori dell’ordine delle cose avvenute, sí di sé e sí della sua fante fece a’ suoi fratelli ed alle sirocchie e ad ogni altra persona credere che per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto. I medici furon presti, e non senza grandissima angoscia ed affanno della donna, che tutta la pelle piú volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d’una fiera febbre e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia; per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d’amare si guardò saviamente: e lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne se ne passò. Cosí adunque alla stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramenti con uno scolare credendosi frascheggiare che con uno altro avrebbe fatto, non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda. E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
- [VIII]
- Due usano insieme; l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace.
- Gravi e noiosi erano stati i casi d’Elena ad ascoltare alle donne, ma per ciò che in parte giustamente avvenuti gli estimavano, con piú moderata compassione gli avean trapassati, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, reputassero lo scolare. Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse; la quale, d’ubidire disiderosa, disse:
- Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto trafitte v’abbia la severitá dell’offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa piú dilettevole rammorbidare gl’inacerbiti spiriti: e perciò intendo di dirvi una novelletta d’un giovane il quale con piú mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con piú moderata operazion vendicò; per la quale potrete comprendere che assai dèe bastare a ciascuno se quale asino dá in parete tal riceve, senza volere, soprabbondando oltre la convenevolezza della vendetta, ingiuriare, dove l’uom si mette alla ricevuta ingiuria vendicare.
- Dovete adunque sapere che in Siena, sí come io intesi giá, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de’ quali l’uno ebbe nome Spinelloccio di Tavena e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino, ed ammenduni eran vicini a casa in Camollia. Questi due giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, cosí s’amavano, o piú, come se stati fosser fratelli; e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella. Ora, avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per sí fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei, ed in questo continuarono una buona pezza avanti che persona se n’avvedesse. Pure a lungo andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a chiamarlo. La donna disse che egli non era in casa; di che Spinelloccio, prestamente andato sú e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v’era, abbracciatala, la cominciò a basciare, ed ella lui. Il Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire: e brievemente, egli vide la sua moglie e Spinelloccio cosí abbracciati andarsene in camera ed in quella serrarsi; di che egli si turbò forte. Ma conoscendo che, per far romore né per altro, la sua ingiuria non ne diveniva minore, anzi ne crescea la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi da torno, l’animo suo rimanesse contento. E dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo, tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna; il quale come andato se ne fu, cosí egli nella camera se n’entrò, dove trovò la donna che ancora non s’era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali scherzando Spinelloccio fatti l’aveva cadere; e disse: — Donna, che fai tu? — A cui la donna rispose: — Nol vedi tu? — Disse il Zeppa: — Sí bene, sí ho io veduto anche altro che io non vorrei! — E con lei delle cose state entrò in parole; ed essa con grandissima paura, dopo molte novelle, quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl’incominciò a chieder perdono. Alla quale il Zeppa disse: — Vedi, donna, tu hai fatto male; il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di far compiutamente quello che io t’imporrò, il che è questo. Io voglio che tu dichi a Spinelloccio che domattina in su l’ora della terza egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te: e quando egli ci sará, io tornerò, e come tu mi senti, cosí il fa’ entrare in questa cassa e serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, ed io ti dirò il rimanente che a fare avrai: e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno. — La donna, per sodisfargli, disse di farlo; e cosí fece. Venuto il dí seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme, in su la terza Spinelloccio, che promesso aveva alla donna d’andare a lei a quella ora, disse al Zeppa: — Io debbo staman desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti con Dio. — Disse il Zeppa: — Egli non è ora di desinare di questa pezza. — Spinelloccio disse: — Non fa forza; io ho altressí a parlar seco d’un mio fatto, sí che egli mi vi convien pure essere a buona ora. — Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui: ed essendosene entrati in camera, non istette guari che il Zeppa tornò; il quale come la donna sentí, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito detto l’avea, e serrollovi entro, ed uscí della camera. Il Zeppa, giunto suso, disse: — Donna, è egli otta di desinare? — La donna rispose: — Sí, oggimai. — Disse allora il Zeppa: — Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico ed ha la donna sua lasciata sola; fátti alla finestra e chiamala, e di’ che venga a desinar con essonoi. — La donna, di se stessa temendo e per ciò molto obediente divenuta, fece quello che il marito le ’mpose. La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi doveva desinare: e quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cucina n’andasse, e quella seco ne menò in camera; nella quale come fu, voltatosi addietro, serrò la camera dentro. Quando la donna vide serrare la camera dentro, disse: — Oimè! Zeppa, che vuol dir questo? Adunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora è questo l’amore che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate? — Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse: — Donna, in prima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo’ dire. Io ho amato ed amo Spinelloccio come fratello: ed ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna cosí si giace come con teco; ora, per ciò che io l’amo, non intendo di volere di lui pigliare vendetta se non quale è stata l’offesa: egli ha la mia donna avuta, ed io intendo d’aver te. Dove tu non vogli, per certo egli converrá che io il ci colga, e per ciò che io non intendo di lasciare questa offesa impunita, io gli farò giuoco che né tu né egli sarete mai lieti. — La donna, udendo questo, e dopo molte riconfermazioni fattenele dal Zeppa credendol, disse: — Zeppa mio, poi che sopra me dèe cadere questa vendetta, ed io son contenta, sí veramente che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io, nonostante quello che ella m’ha fatto, intendo di rimaner con lei. — A cui il Zeppa rispose: — Sicuramente io il farò: ed oltre a questo, ti donerò un così caro e bel gioiello come niuno altro che tu n’abbi. — E cosi detto, abbracciatala e cominciatala a basciare, la distese sopra la cassa nella quale era il marito di lei serrato, e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui. Spinelloccio, che nella cassa era ed udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie, e poi avea sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore, che parea che morisse: e se non fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania, cosí richiuso come era. Poi, pur ripensandosi che da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s’era portato, seco stesso disse di volere esser piú che mai amico del Zeppa, quando volesse. Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il gioiello promesso, aperta la camera, fece venir la moglie, la quale niuna altra cosa disse se non: — Madonna, voi m’avete renduto pan per focaccia — e questo disse ridendo. Alla quale il Zeppa disse: — Apri questa cassa — ed ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio. E lungo sarebbe a dire qual piú di lor due si vergognò, o Spinelloccio veggendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna veggendo il suo marito e conoscendo che egli aveva ed udito e sentito ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva. Alla quale il Zeppa disse: — Ecco il gioiello il quale io ti dono. — Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle, disse: — Zeppa, noi siam pari pari, e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo amici come solevamo: e non essendo tra noi due niuna altra cosa che le mogli divisa, che noi quelle ancora comunichiamo. — Il Zeppa fu contento, e nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme: e da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.
- [IX]
- Maestro Simone medico da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
- Poi che le donne alquanto ebber cianciato dell’accomunar le mogli fatto da’ due sanesi, la reina, alla qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo, incominciò:
- Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna. Spinelloccio la si guadagnò: ed io intendo di dirvi d’uno che se l’andò cercando, estimando che quegli che gliele fecero non da biasimare ma da commendar sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico che a Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai.
- Sì come noi veggiamo tutto il dì, i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co’ panni lunghi e larghi e con gli scarlatti e co’ vai e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano, anche veggiamo tuttogiorno. Tra’ quali un maestro Simone da Villa, piú ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del cocomero. Questo maestro Simone novellamente tornato, sì come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare: e quasi degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a’ suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e raccoglievagli. Ed intra gli altri alli quali con piú efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due dipintori de’ quali s’è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de’ quali era continua, ed eran suoi vicini. E parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero e piú lieti vivessono, sí come essi facevano, piú persone domandò di lor condizione: ed udendo da tutti, costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero cosí lietamente vivere della lor povertá, ma s’avvisò, per ciò che udito aveva che astuti uomini erano, che d’alcuna altra parte non saputa dagli uomini dovesser trarre profitti grandissimi, e per ciò gli venne in disidèro di volersi, se esso potesse, con ammenduni o con l’uno almeno dimesticare: e vennegli fatto di prender dimestichezza con Bruno. E Bruno, conoscendo in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno animale, cominciò di lui ad avere il piú bel tempo del mondo con sue nuove novelle: ed il medico similemente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere. Ed avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo poveri uomini, cosí lietamente viveano, e pregollo che gl’insegnasse come faceano. Bruno, udendo il medico e parendogli la domanda dell’altre sue sciocche e dissipite, cominciò a ridere e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine si convenia, e disse: — Maestro, io nol direi a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che ad altrui nol direte, non mi guarderò. Egli è vero che il mio compagno ed io viviamo così lietamente e cosí bene come vi pare, e piú: né di nostra arte né d’altro frutto che noi d’alcune possessioni traiamo, avremmo da poter pagar pur l’acqua che noi logoriamo; né voglio per ciò che voi crediate che noi andiamo ad imbolare, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun danno d’altrui, tutto traiamo: e da questo viene il nostro viver lieto che voi vedete. — Il medico, udendo questo, e senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto, e subitamente entrò in disidèro caldissimo di sapere che cosa fosse l’andare in corso, e con grande istanza il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe. — Oimè! — disse Bruno — maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo, anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San Gallo, se altri il risapesse: ma sí è grande l’amor che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia e la fidanza la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate: e per ciò io il vi dirò, con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che mai, come promesso avete, a niuno il direte. — Il maestro affermò che non farebbe. — Dovete adunque, — disse Bruno — maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa cittá fu un gran maestro in nigromantia il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanza de’ prieghi loro ci lasciò due suoi sufficienti discepoli, a’ quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini che onorato l’aveano, fossero sempre presti. Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d’altre cosette liberamente; poi, piacendo loro la cittá ed i costumi degli uomini, ci si disposero a voler sempre stare e preserci di grandi e di strette amistá con alcuni, senza guardare che essi fossero piú gentili che non gentili o piú ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’ lor costumi. E per compiacere a questi cosí fatti loro amici, ordinarono una brigata forse di venticinque uomini li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato: e quivi essendo, ciascuno a costoro il suo disidèro dice, ed essi prestamente per quella notte il forniscono; co’ quali due avendo Buffalmacco ed io singulare amistá e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo. E dicovi cosí che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla sala dove mangiamo e le tavole messe alla reale e la quantitá de’ nobili e belli servidori, cosí femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal compagnia, ed i bacini, gli orciuoli, i fiaschi e le coppe e l’altro vasellamento d’oro e d’ariento ne’ quali noi mangiamo e beiamo: ed oltre a questo, le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono davanti ciascuna a suo tempo. Io non vi potrei mai divisare chenti e quali sieno i dolci suoni d’infiniti strumenti ed i canti pieni di melodia che vi s’odono, né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s’arde a queste cene né quanti sieno i confetti che vi si consumano e come sieno preziosi i vini che vi si beono. E non vorrei, zucca mia da sale, che voi credeste che noi stessimo lá in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve n’è niun sí cattivo, che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari vestimenti e di belle cose ornati. Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono si è quello delle belle donne, le quali subitamente, pur che l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna de’ barbanicchi, la reina de’ baschi, la moglie del soldano, la ’mperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedra di Narsia. Che vi vo io annoverando? E’ vi sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato, fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui istanza v’è fatta venire se ne va nella sua camera: e sappiate che quelle camere paiono un paradiso a vedere, tanto son belle! E sono non meno odorifere che sieno i bossoli delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino; ed havvi letti che vi parrebber piú belli che quel del doge di Vinegia, ed in quegli a riposar se ne vanno. Or che menar di calcole e di tirar le casse a sé, per fare il panno serrato, faccian le tessitrici, lascerò io pensar pure a voi! Ma tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco ed io, per ciò che Buffalmacco le piú delle volte vi fa venir per sé la reina di Francia ed io per me quella d’Inghilterra, le quali son due pur le piú belle donne del mondo: e sì abbiamo saputo fare, che elle non hanno altro occhio in capo che noi; per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere ed andare piú che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l’amore di due cosí fatte reine: senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo. E questa cosa chiamiam noi volgarmente «l’andare in corso», per ciò che, sí come i corsari tolgono la roba d’ogni uomo, e cosí facciam noi: se non che di tanto siamo differenti da loro, che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo come adoperata l’abbiamo. Ora avete, maestro mio da bene, inteso ciò che noi diciamo «l’andare in corso»: ma quanto questo voglia esser segreto, voi il vi potete vedere, e per ciò piú nol vi dico né ve ne priego. — Il maestro, la cui scienza non si stendeva forse piú oltre che il medicare i fanciulli del lattime, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque veritá: ed in tanto disidèro s’accese di volere essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa piú disiderabile si potesse essere acceso. Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era se lieti andavano, ed a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo che essere il vi facesse, infino a tanto che, con piú onor fattogli, gli potesse con piú fidanza porgere i prieghi suoi. Avendolsi adunque riservato, cominciò piú a continuare con lui l’usanza e ad averlo da sera e da mattina a mangiar seco, ed a mostrargli smisurato amore: ed era sí grande e sí continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere. Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinta nella sala sua la quaresima ed uno agnusdei all’entrar della camera e sopra l’uscio della via uno orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscer dagli altri: ed in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia de’ topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico; ed oltre a questo, diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non aveva cenato: — Stanotte fui io alla brigata, ed essendomi un poco la reina d’Inghilterra rincresciuta, mi feci venir la gumedra del gran can d’Altarisi. — Diceva il maestro: — Che vuol dir «gumedra»? Io non gl’intendo questi nomi. — O maestro mio, — diceva Bruno — io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannaccena non ne dicon nulla. — Disse il maestro: — Tu vuoi dire Ipocrasso ed Avicena. — Disse Bruno: — Gnaffe, io non so: io m’intendo cosí male de’ vostri nomi come voi de’ miei; ma «la gumedra» in quella lingua del gran cane vuol tanto dire quanto «imperadrice» nella nostra. O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti ed ogni impiastro. — E cosí dicendogli alcuna volta per piú accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro, una sera a vegghiare, parte che il lume teneva a Bruno che la battaglia de’ topi e delle gatte dipigneva, bene averlo co’ suoi onor preso, che egli si dispose d’aprirgli l’animo suo; e soli essendo, gli disse: — Bruno, come Iddio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te, e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo che io v’andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te dimesticamente ed a fidanza richiederò. Come tu sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de’ modi della vostra lieta brigata, di che sí gran disidèro d’esserne m’è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto. E questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia, ché infino da ora voglio io che tu ti faccia beffe di me se io non vi fo venire la piú bella fante che tu vedessi giá è buona pezza, che io vidi pur l’altranno a Cacavincigli, a cui io voglio tutto il mio bene: e per lo corpo di Cristo, che io le volli dare diece bolognin grossi ed ella mi s’acconsentisse, e non volle. E però quanto piú posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci ed adoperi che io vi sia: e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno ed orrevole. Tu vedi innanzi innanzi come io son bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, ed ho un viso che pare una rosa; ed oltre a ciò, son dottore di medicine, che non credo che voi ve n’abbiate niuno, e so dimolte belle cose e di belle canzonette: e vo’tene dire una — e di botto incominciò a cantare. Bruno aveva sí gran voglia di ridere, che egli in se medesimo non capeva, ma pur si tenne. E finita la canzone, ed il maestro disse: — Che te ne pare? — Disse Bruno: — Per certo con voi perderieno le cetere de’ sagginali, sí artagoticamente stracantate. — Disse il maestro: — Io dico che tu non l’avresti mai creduto, se tu non m’avessi udito. — Per certo voi dite vero — disse Bruno. Disse il maestro: — Io so bene anche dell’altre: ma lasciamo ora star questo. Cosí fatto come tu mi vedi, mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, ed io altressí son nato per madre di quegli da Vallecchio: e come tu hai potuto vedere, io ho pure i piú be’ libri e le piú belle robe che medico di Firenze. In fé di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini, giá è degli anni piú di diece! Per che quanto piú posso ti priego che facci che io ne sia: ed in fé di Dio, se tu il fai, sii pure infermo se tu sai, che mai di mio mestiere io non ti torrò un denaio. — Bruno, udendo costui e parendogli, sí come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse: — Maestro, fate un poco il lume piú qua, e non v’incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò. — Fornite le code, e Bruno, faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse: — Maestro mio, gran cose son quelle che per me fareste, ed io il conosco: ma tuttavia quella che a me addomandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facessi, se io non la facessi per voi, sí perché v’amo quanto si conviene e sí per le parole vostre, le quali son condite di tanto senno, che trarrebbono le pinzochere degli usatti, non che me del mio proponimento; e quanto piú uso con voi, piú mi parete savio. E dicovi ancora cosí, che, se altro non mi vi facesse voler bene, sí vi vo’ bene perché veggio che innamorato siete di cosí bella cosa come diceste. Ma tanto vi vo’ dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate, e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe, adoperare: ma ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi credenza, io vi dirò il modo che a tenere avrete, e parmi esser certo, avendo voi cosí be’ libri e l’altre cose che di sopra dette m’avete, che egli vi verrá fatto. — A cui il maestro disse: — Sicuramente di’. Io veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto. Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice della podestá di Forlimpopoli, che egli non le mi mandasse a dire, perché mi trovava cosí buon segretaro. E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi oggimai tu! — Or bene sta adunque, — disse Bruno — se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io. Il modo che voi avrete a tener fia questo. Noi sí abbiamo a questa nostra brigata sempre un capitano con due consiglieri, li quali di sei in sei mesi si mutano, e senza fallo a calendi sará capitano Buffalmacco ed io consigliere, e cosí è fermato: e chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe che voi, in quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore. Egli è uomo che, veggendovi cosí savio, s’innamorerá di voi incontanente; e quando voi l’avrete, col senno vostro e con queste buone cose che avete, un poco dimesticato, voi il potrete richiedere: egli non vi saprá dir di no. Io gli ho giá ragionato di voi, e vuolvi il meglio del mondo; e quando voi avrete fatto così, lasciate far me con lui. — Allora disse il maestro: — Troppo mi piace ciò che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de’ savi uomini, e favellami pure un poco, io farò bene che egli m’andrá sempre cercando, per ciò che io n’ho tanto del senno, che io ne potrei fornire una cittá e rimarrei savissimo. — Ordinato questo, Brun disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni di dovere essere a far quello che questo maestro sapa andava cercando. Il medico, che oltre modo disiderava d’andare in corso, non mollò mai che egli divenne amico di Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto, e cominciògli a dare le piú belle cene ed i piú be’ desinari del mondo, ed a Bruno con lui altressí, ed essi si carmignavano come que’ signori; li quali, sentendogli bonissimi vini e di grossi capponi e d’altre buone cose assai, gli si tenevano assai di presso: e senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui. Ma pure, quando tempo parve al maestro, sí come Bruno aveva fatto, cosí Buffalmacco richiese; di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un gran romore in testa, dicendo: — Io fo boto all’alto Dio da Passignano che io mi tengo a poco che io non ti do tale in su la testa, che il naso ti caschi nelle calcagna, traditor che tu se’, che altri che tu non ha queste cose manifestate al maestro. — Ma il maestro lo scusava forte, dicendo e giurando se averlo d’altra parte saputo; e dopo molte delle sue savie parole pure il paceficò. Buffalmacco, rivolto al maestro, disse: — Maestro mio, egli si par bene che voi siete stato a Bologna e che voi infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa; ed ancora vi dico piú, che voi non apparaste miga l’abici in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi l’apparaste bene in sul mellone, che è così lungo: e se io non m’inganno, voi foste battezzato in domenica. E come che Bruno m’abbia detto che voi studiaste lá in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliare uomini, il che voi meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con vostre novelle. — Il medico, rompendogli la parola in bocca, verso Brun disse: — Che cosa è a favellare e ad usare co’ savi! Chi avrebbe cosí tosto ogni particularitá compresa del mio sentimento, come ha questo valente uomo? Tu non te n’avvedesti miga cosí tosto tu di quello che io valeva, come ha fatto egli: ma di’ almeno quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de’ savi uomini; parti che io l’abbia fatto? — Disse Bruno: — Meglio! — Allora il maestro disse a Buffalmacco: — Altro avresti detto se tu m’avessi veduto a Bologna, dove non era niun grande né piccolo, né dottore né scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sí tutti gli sapeva appagare col mio ragionare e col senno mio. E dirótti piú, che io non vi dissi mai parola, che io non facessi ridere ogni uomo, sí forte piaceva loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano tutti che io vi pur rimanessi, e fu a tanto la cosa perché io vi stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi a quanti scolari v’avea le medicine: ma io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a grandissime ereditá che io ci ho, state sempre di quei di casa mia; e cosí feci. — Disse allora Bruno a Buffalmacco: — Che ti pare? Tu nol mi credevi quando io il ti diceva. Alle guagnele! egli non ha in questa terra medico che s’intenda d’orina d’asino a petto a costui, e fermamente tu non ne troveresti uno altro di qui alle porti di Parigi de’ cosí fatti. Va’ tienti oggimai tu di non far ciò che vuole! — Disse il medico: — Brun dice il vero, ma io non ci son conosciuto. Voi siete anzi gente grossa che no, ma io vorrei che voi mi vedeste tra’ dottori, come io soglio stare. — Allora disse Buffalmacco: — Veramente, maestro, voi le sapete troppo piú che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi come si vuole parlare a’ savi come voi siete, frastagliatamente vi dico che io procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete. — Gli onori dal medico fatti a costoro appresso questa promessa inultiplicarono; laonde essi, godendo, gli facean cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo, ed impromisongli di dargli per donna la contessa di Civillari, la quale era la piú bella cosa che si trovasse in tutto il culattario dell’umana generazione. Domandò il medico chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse: — Pinca mia da seme, ella è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione: e non che altri, ma i frati minori a suon di nacchere le rendon tributo. E sovvi dire che, quando ella va da torno, ella si fa ben sentire, benché ella stea il piú richiusa: ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi all’uscio una notte che andava ad Arno a lavarsi i piedi e per pigliare un poco d’aria: ma la sua piú continua dimora è in Laterina. Ben vanno per ciò de’ suoi sergenti spesso da torno, e tutti a dimostrazion della maggioranza di lei portano la verga ed il piombino. De’ suoi baroni si veggon per tutto assai, sí come è il Tatnagnin dalla porta, don Meta, Manico di scopa, lo Squacchera ed altri, li quali vostri dimestichi credo che sieno, ma ora non ve ne ricordate. A cosí gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se il pensier non c’inganna, vi metterem nelle dolci braccia. — Il medico, che a Bologna nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro; per che egli della donna si chiamò per contento: né guari dopo queste novelle gli recarono i dipintori che egli era per ricevuto. E venuto il di che la notte seguente si dovean ragunare, il maestro gli ebbe ammenduni a desinare: e desinato che egli ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a venire a questa brigata. Al quale Buffalmacco disse: — Vedete, maestro, a voi conviene esser molto sicuro, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l’udirete. A voi si convien trovar modo che voi siate stasera in sul primo sonno in su uno di quegli avelli rilevati che poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella, con una delle vostre piú belle robe indosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sí ancora per ciò che; per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi; per ciò che voi siete gentile uomo, la contessa intende di farvi cavalier bagnato alle sue spese: e quivi v’aspettate tanto, che per voi venga colui che noi manderemo. Ed acciò che voi siate d’ogni cosa informato, egli verrá per voi una bestia nera e cornuta non molto grande, ed andrá faccendo per la piazza dinanzi da voi un gran sufolare ed un gran saltare per ispaventarvi: ma poi, quando vedrá che voi non vi spaventiate, ella vi s’accosterá pianamente; e quando accostata vi si sará, e voi allora senza alcuna paura scendete giú dell’avello, e senza ricordare o Iddio o’ santi, vi salite suso, e come suso vi siete acconcio, cosí, a modo che se steste cortese, vi recate le mani al petto senza piú toccar la bestia. Ella allora soavemente si moverá e recheravvene a noi: ma infino da ora, se voi ricordaste Iddio o’ santi, o aveste paura, vi dico io che ella vi potrebbe gittare o percuotere in parte che vi putirebbe; e per ciò, se non vi dá il cuore d’esser ben sicuro, non vi venite, ché voi fareste danno a voi senza fare a noi prò niuno. — Allora il medico disse: — Voi non mi conoscete ancora: voi guardate forse perché io porto i guanti in mano ed i panni lunghi. Se voi sapeste quello che io ho giá fatto di notte a Bologna, quando io andava talvolta co’ miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste. In fé di Dio, egli fu tal notte, che, non volendone una venir con noi; ed era una tristanzuola, che è peggio, che non era alta un sommesso; io le die’ prima dimolte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la portassi presso ad una balestrata: e pur convenne, sí feci, che ella ne venisse con noi. Ed un’altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante, colá, un poco dopo l’avemaria, passai allato al cimitero de’ frati minori: ed eravi il dí stesso stata sotterrata una femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non v’isfidate, ché sicuro e gagliardo sono io troppo. E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi metterò la roba mia dello scarlatto con la quale io fui conventato, e vedrete se la brigata si rallegrerá quando mi vedrá e se io sarò fatto a mano a man capitano. Vedrete pure come l’opera andrá quando io vi sarò stato, da che, non avendomi ancora quella contessa veduto, ella s’è sí innamorata di me, che ella mi vuol fare cavalier bagnato: e forse che la cavalleria mi stará cosí male? e saprolla cosí mal mantenere, o pur bene? Lascerete pur far me. — Buffalmacco disse: — Troppo dite bene; ma guardate che voi non ci faceste la beffa e non vi veniste, o non vi foste trovato quando per voi manderemo: e questo dico, per ciò che egli fa freddo e voi signor medici ve ne guardate molto. — Non piaccia a Dio! — disse il medico — Io non sono di questi assiderati: io non curo freddo; poche volte è mai che io mi lievi la notte cosí per bisogno del corpo, come l’uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccion mio sopra il farsetto; e per ciò io vi sarò fermamente. — Partitisi adunque costoro, come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie: e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve, messalasi indosso, se n’andò sopra uno de’ detti avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi, essendo il freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia. Buffalmacco, il quale era grande ed atante della persona, ordinò d’avere una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno, e messosi indosso un pilliccion nero a rivescio, in quello s’acconciò in guisa che pareva pure uno orso, se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta. E cosí acconcio, venendogli Bruno appresso per vedere come l’opera andasse, se n’andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella: e come egli si fu accorto che messer lo maestro v’era, cosí cominciò a saltabellare ed a fare un nabissar grandissimo su per la piazza ed a sufolare e ad urlare ed a stridire in guisa che se imperversato fosse. Il quale come il maestro sentí e vide, cosí tutti i peli gli s’arricciarono addosso, e tutto cominciò a tremare, come colui che era piú che una femina pauroso, e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che quivi: ma nonpertanto pur, poi che andato v’era, si sforzò d’assicurarsi, tanto il vinceva il disidèro di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da costoro. Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è detto, faccendo sembianti di rappacefícarsi, s’accostò all’avello sopra il quale era il maestro, e stette fermo. Il maestro, sí come quegli che tutto tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse. Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda paura cacciò la prima, e sceso dell’avello, pianamente dicendo: — Iddio m’aiuti! — sú vi salí, ed acconciossi molto bene: e sempre tremando tutto, si recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato. Allora Buffalmacco pianamente s’incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, ed andando carpone infino presso le donne di Ripole il condusse. Erano allora per quella contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que’ campi facevan votare la contessa di Civillari per ingrassare i campi loro; alle quali come Buffalmacco fu vicino, accostatosi alla proda d’una e preso tempo, messa la mano sotto all’un de’ piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo innanzi il gittò in essa e cominciò a ringhiar forte ed a saltare e ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il prato d’Ognissanti, dove ritrovò Bruno che, per non poter tener le risa, fuggito s’era: ed ammenduni festa faccendosi, di lontan si misero a veder quello che il medico impastato facesse. Messer lo medico, sentendosi in questo luogo cosí abominevole, si sforzò di rilevare e di volersi aiutar per uscirne, ed ora in qua ed ora in lá ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo, avendone alquante dramme ingozzate, pur n’uscí fuori, e lasciovvi il cappuccio: e spastandosi con le mani come poteva il meglio, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e picchiò tanto che aperto gli fu. Né prima, essendo egli entrato dentro cosí putente, fu l’uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi, per udire come il maestro fosse dalla sua donna raccolto; li quali stando ad udir, sentirono alla donna dirgli la maggior villania che mai si dicesse a niun tristo, dicendo: — Deh! come ben ti sta! Tu eri ito a qualche altra femina e volevi comparire molto orrevole con la roba dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate, io sarei sufficiente ad un popolo, non che a te. Deh! or t’avessono essi affogato, cosí come essi ti gittarono lá dove tu eri degno d’esser gittato! Ecco medico onorato, aver moglie ed andar la notte alle femine altrui! — E con queste e con altre assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezzanotte non rifinò la donna di tormentarlo. Poi, la mattina vegnente, Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno di lividori a guisa che far soglion le battiture, se ne vennero a casa del medico e trovaron lui giá levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa putirvi, ché ancora non s’era sí ogni cosa potuta nettare, che non vi putisse. E sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che Iddio desse loro il buon dí; al quale Bruno e Buffalmacco, sí come proposto aveano, risposero con turbato viso: — Questo non diciam noi a voi, anzi preghiamo Iddio che vi dèa tanti malanni, che voi siate morto a ghiado, sí come il piú disleale ed il maggior traditor che viva, per ciò che egli non è rimaso per voi, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi non siamo stati morti come cani. E per la vostra dislealtá abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno andrebbe uno asino a Roma: senza che, noi siamo stati a pericolo d’essere stati cacciati della compagnia nella quale noi avevamo ordinato di farvi ricevere. E se voi non ci credete, ponete mente le carni nostre come elle stanno. — E ad un cotal barlume apertisi i panni dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza indugio. Il medico si volea scusare e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato; al quale Buffalmacco disse: — Io vorrei che egli v’avesse gittato dal ponte in Arno; perché ricordavate voi o Dio o’ santi? Non vi fu egli detto dinanzi? — Disse il medico che in fé di Dio non ricordava. — Come — disse Buffalmacco — non ricordate? Voi ve ne ricordate molto, ché ne disse il messo nostro che voi tremavate come verga e non sapevate dove voi vi foste. Or voi ce l’avete ben fatta, ma mai piú persona non la ci fará: ed a voi ne faremo ancora quello onore che vi se ne conviene.— Il medico cominciò a chieder perdono ed a pregargli per Dio che noi dovesser vituperare, e con le migliori parole che egli potè s’ingegnò di paceficargli: e per paura che essi questo suo vitupèro non palesassero, se da indi addietro onorati gli avea, molto piú gli onorò e careggiò con conviti ed altre cose da indi innanzi. Cosí adunque, come udito avete, senno s’insegna a chi tanto non n’apparò a Bologna.
- [X]
- Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembianti faccendo d’esservi tornato con molta piú mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
- Quanto la novella della reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve n’era a cui per soperchio riso non fossero dodici volte le lagrime venute in su gli occhi. Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui toccava la volta, disse:
- Graziose donne, manifesta cosa è, tanto piú l’arti piacere quanto piú sottile artefice è per quelle artificiosamente beffato. E per ciò, quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo di raccontarne una tanto piú che alcuna altra déttane da dovervi aggradire, quanto colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui che alcuno altro che beffato fosse di quegli o di quelle che avete contate.
- Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto, cosí fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco, il quale in molti luoghi è chiamato «dogana», tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano: e quivi, dando a coloro che sopra ciò sono, per iscritto tutta la mercatantia ed il pregio di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino nel quale esso la sua mercatantia ripone, e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del loro diritto pagare al mercatante o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse. E da questo libro della dogana assai volte s’informano i sensali e delle qualitá e delle quantitá delle mercatantie che vi sono, ed ancora chi sieno i mercatanti che l’hanno; con li quali poi essi, secondo che lor cade per mano, ragionan di cambi, di baratti e di vendite e d’altri spacci. La quale usanza, sí come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia; dove similemente erano, ed ancor sono, assai femine del corpo bellissime ma nemiche dell’onestá, le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi ed onestissime donne. Ed essendo, non a radere ma a scorticare uomini date del tutto, come un mercatante forestiere vi veggiono, cosí dal libro della dogana s’informano di ciò che egli v’ha e di quanto può fare, ed appresso, con lor piacevoli ed amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s’ingegnano d’adescare e di trarre nel loro amore: e giá molti ve n’hanno tratti, a’ quali buona parte della loro mercatantia hanno delle mani tratta, e ad assai tutta; e di quegli vi sono stati che la mercatantia ed il naviglio e le polpe e l’ossa lasciate v’hanno, sí ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio. Ora, non è ancor molto tempo, addivenne che quivi, da’ suoi maestri mandato, arrivò un giovane nostro fiorentino detto Niccolò da Cignano, come che Salabaetto fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano avanzati, che potevano valere un cinquecento fiorin d’oro; e dato il legaggio di quegli a’ doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran fretta dello spaccio, s’incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per la terra. Ed essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita, avvenne che una di queste barbiere, che si facea chiamare madama Iancofiore, avendo alcuna cosa sentita de’ fatti suoi, gli pose l’occhio addosso; di che egli accorgendosi, estimando che ella fosse una gran donna, s’avvisò che per la sua bellezza le piacesse, e pensossi di volere molto cautamente menar questo amore: e senza dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le passate dinanzi alla casa di costei. La quale accortasene, poi che alquanti dí l’ebbe bene con gli occhi acceso, mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli mandò una sua femina la quale ottimamente l’arte sapeva del ruffianesimo, la quale quasi con le lagrime in su gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la bellezza e con la piacevolezza sua aveva sí la sua donna presa, che ella non trovava luogo né dí né notte: e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava piú che altra cosa di potersi con lui ad un bagno segretamente trovare; ed appresso questo, trattosi uno anello di borsa, da parte della sua donna gliele donò. Salabaetto, udendo questo, fu il piú lieto uomo che mai fosse: e preso l’anello e fregatolsi agli occhi e poi basciatolo, sel mise in dito e rispose alla buona femina che, se madama Iancofiore l’amava, che ella n’era ben cambiata, per ciò che egli amava piú lei che la sua propria vita, e che egli era disposto d’andare dovunque a lei fosse a grado e ad ogni ora. Tornata adunque la messaggera alla sua donna con questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man detto a qual bagno il dí seguente, passato vespro, la dovesse aspettare; il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all’ora impostagli v’andò, e trovò il bagno per la donna esser preso. Dove egli non istette guari, che due schiave venner cariche: l’una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo, e l’altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser sú un paio di lenzuola sottilissime listate di seta e poi una coltre di bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie; ed appresso questo, spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottimamente. Né stette guari che la donna, con due sue altre schiave appresso, al bagno venne; dove ella, come prima ebbe agio, fece a Salabaetto grandissima festa, e dopo i maggiori sospiri del mondo, poi che molto ed abbracciato e basciato l’ebbe, gli disse: — Non so chi mi s’avesse a questo potuto conducere altri che tu; tu m’hai miso lo foco all’arma, toscano acanino. — Appresso questo, come a lei piacque, ignudi ammenduni se n’entraron nel bagno, e con loro due delle schiave. Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui, ella medesima con sapone moscoleato e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto, ed appresso sé fece e lavare e stropicciare alle schiave. E fatto questo, recaron le schiave due lenzuoli bianchissimi e sottili, de’ quali veniva sí grande odor di rose, che ciò che v’era pareva rose: e l’una inviluppò nell’uno Salabaetto e l’altra nell’altro la donna, ed in collo levatigli, ammenduni nel letto fatto ne gli portarono. E quivi, poi che di sudare furon ristati, dalle schiave fuori di que’ lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri. E tratti del paniere oricanni d’ariento bellissimi e pieni qual d’acqua rosa, qual d’acqua di fior d’aranci, qual d’acqua di fiori di gelsomino e qual d’acqua nanfa, tutti costoro di queste acque spruzzarono; ed appresso, tirate fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono. A Salabaetto pareva essere in paradiso: e mille volte aveva riguardato costei, la quale era per certo bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora che queste schiave se n’andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse. Le quali poi che per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella camera, andate se ne furon fuori, costei abbracciò Salabaetto, ed egli lei: e con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si struggesse per suo amore, dimorarono una lunga ora. Ma poi che tempo parve di levarsi alla donna, fatte venir le schiave, si vestirono, ed un’altra volta bevendo e confettando si riconfortarono alquanto, ed il viso e le mani di quelle acque odorifere lavatesi, e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto: — Quando a te fosse a grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e ad albergo meco. — Salabaetto, il qual giá e dalla bellezza e dall’artificiosa piacevolezza di costei era preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuore del corpo amato, rispose: — Madonna, ogni vostro piacere m’è sommamente a grado, e per ciò e stasera e sempre intendo di far quello che vi piacerá e che per voi mi fia comandato. — Tornatasene adunque la donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto; il quale, come alquanto fu fatto oscuro, lá se n’andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e benservito cenò. Poi, nella camera entratisene, sentí quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d’uccelletti cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe; le quali cose tutte insieme e ciascuna per sé gli fecero stimare, costei dovere essere una grande e ricca donna: e quantunque in contrario avesse della vita di lei udito bucinare, per cosa del mondo nol voleva credere, e se pure alquanto ne credeva lei giá alcuno aver beffato, per cosa del mondo non poteva credere questo dovere a lui intervenire. Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre piú accendendosi. Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra cinturetta d’ariento con una bella borsa, e sí gli disse: — Salabaetto mio dolce, io mi ti raccomando: e cosí come la mia persona è al piacer tuo, cosí è ciò che c’è, e ciò che per me si può, è allo comando tuio. — Salabaetto lieto, abbracciatala e basciatala, s’uscí di casa costei e vennesene lá dove usavano gli altri mercatanti. Ed usando una volta ed altra con costei senza costargli cosa del mondo, ed ognora piú invescandosi, avvenne che egli vendè i panni suoi a contanti e guadagnonne bene; il che la buona donna non da lui ma da altrui sentí incontanente. Ed essendo Salabaetto da lei andato una sera, costei incominciò a cianciare ed a ruzzare con lui, a basciarlo ed abbracciarlo, mostrandosi sí forte di lui infiammata, che pareva che ella gli volesse d’amor morir nelle braccia: e volevagli pur donare due bellissimi nappi d’ariento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva tôrre, sí come colui che da lei tra una volta ed altra aveva avuto quello che valeva ben trenta fiorin d’oro, senza aver potuto fare che ella da lui prendesse tanto che valesse un grosso. Alla fine, avendol costei bene acceso col mostrar sé accesa, e liberale, una delle sue schiave, sí come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e stata alquanto, tornò dentro piagnendo, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò a fare il piú doloroso lamento che mai facesse femina. Salabaetto, maravigliandosi, la si recò in braccio, e cominciò a piagner con lei ed a dire: — Deh! cuor del corpo mio, che avete voi cosí subitamente? che è la cagione di questo dolore? Deh! ditelmi, anima mia. — Poi che la donna s’ebbe assai fatta pregare, ed ella disse: — Oimè! signor mio dolce, io non so né che mi fare né che mi dire! Io ho testé ricevute lettere da Messina, e scriverai mio fratello che, se io dovessi vendere ed impegnare ciò che c’è, che senza alcun fallo io gli abbia tra qui ed otto dí mandati mille fiorin d’oro, se non che gli sará tagliata la testa; ed io non so quello che io mi debba fare che io gli possa cosí prestamente avere: ché, se io avessi spazio pur quindici dí, io troverei modo d’accivirne d’alcun luogo donde io ne debbo aver molti piú, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma non potendo, io vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse. — E detto questo, forte mostrandosi tribolata, non ristava di piagnere. Salabaetto, al quale l’amorose fiamme avevano gran parte del debito conoscimento tolto, credendo quelle verissime lagrime e le parole ancor piú vere, disse: — Madonna, io non vi potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d’oro sí bene, dove voi crediate poterglimi rendere di qui a quindici dí; e questa è vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei: ché, se cosí non fosse, io non vi potrei prestare un grosso. — Oimè ! — disse la donna — adunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi tu? Perché io non n’abbia mille, io n’aveva ben cento ed anche dugento da darti: tu m’hai tolta tutta la baldanza da dovere da te ricevere il servigio che tu mi profferi. — Salabaetto, vie piú che preso da queste parole, disse: — Madonna, per questo non voglio io che voi lasciate; ché, se fosse cosí bisogno a me come egli fa a voi, io v’avrei ben richesta. — Oimè! — disse la donna — Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore verso di me, quando, senza aspettar d’esser richesto, di cosí gran quantitá di moneta in cosí fatto bisogno liberamente mi sovvieni. E per certo io era tutta tua senza questo, e con questo sarò molto maggiormente: né sará mai che io non riconosca da te la testa di mio fratello. Ma sallo Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che tu se’ mercatante, ed i mercatanti fanno co’ denari tutti i fatti loro: ma per ciò che il bisogno mi strigne ed ho ferma speranza di tosto rendergliti, io gli pur prenderò, e per l’avanzo, se piú presta via non troverò, impegnerò tutte queste mie cose. — E cosí detto, lagrimando, sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere. Salabaetto la cominciò a confortare: e stato la notte con lei, per mostrarsi bene liberalissimo suo servidore, senza alcuna richesta di lei aspettare, le portò cinquecento be’ fiorin d’oro, li quali ella ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione. Come la donna ebbe i denari, cosí s’incominciarono le ’ndizioni a mutare: e dove prima era libera l’andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere, cosí incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni per le quali non gli veniva delle sette volte l’una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle carezze né quelle feste piú gli eran fatte che prima. E passato d’un mese e di due il termine, non che venuto, al quale i suoi denari riaver dovea, richiedendogli, gli eran date parole in pagamento; laonde, avveggendosi Salabaetto dell’arte della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa piú che le si piacesse di questo poteva dire, sí come colui che di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di ramaricarsene con alcuno, sí perché n’era stato fatto avveduto dinanzi e sí per le beffe le quali meritamente della sua bestialitá n’aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea. Ed avendo da’ suoi maestri piú lettere avute che egli quegli denari cambiasse e mandassegli loro, acciò che, non faccendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi, ed in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se ne venne. Era quivi in que’ tempi nostro compar Pietro del Canigiano, tesorier di madama la ’mperadrice di Costantinopoli, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo amico e di Salabaetto e de’ suoi; col quale, sí come con discretissimo uomo, dopo alcun giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto aveva ed il suo misero accidente, e domandogli aiuto e consiglio in fare che esso quivi potesse sostentar la sua vita, affermando che mai a Firenze non intendeva di ritornare. Il Canigiano, dolente di queste cose, disse: — Male hai fatto, mal ti se’ portato, male hai i tuoi maestri ubiditi, troppi denari ad un tratto hai spesi in dolcitudine: ma che? Fatto è; vuolsi vedere altro. — E sí come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare ed a Salabaetto il disse; al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire. Ed avendo alcun denaio ed il Canigiano avendonegli alquanti prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate, e comperate da venti botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo: ed il legaggio delle balle dato a’ doganieri e similmente il costo delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise ne’ magazzini, dicendo che infino che altra mercatantia la quale egli aspettava, non veniva, quelle non voleva toccare. Iancofiore, avendo sentito questo ed udendo che ben dumilia fiorin d’oro valeva, o piú, quello che al presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che valeva piú di tremilia, parendole aver tirato a pochi, pensò di restituirgli i cinquecento, per potere avere la maggior parte de’ cinquemilia: e mandò per lui. Salabaetto, divenuto malizioso, v’andò; al quale ella, faccendo vista di niente sapere di ciò che recato s’avesse, fece maravigliosa festa, e disse: — Ecco, se tu fossi crucciato meco perché io non ti rendei cosí al termine i tuoi denari? — Salabaetto cominciò a ridere, e disse: — Madonna, nel vero egli mi dispiacque bene un poco, sí come a colui che mi trarrei il cuor per darlovi, se io credessi piacervene: ma io voglio che voi udiate come io son crucciato con voi. Egli è tanto e tale l’amor che io vi porto, che io ho fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni, ed ho al presente recata qui tanta mercatantia che vale oltre a dumilia fiorini, ed aspettone di Ponente tanta che varrá oltre a tremilia; ed intendo di fare in questa terra un fondaco e di starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del vostro amore che io creda che stea alcuno innamorato del suo. — A cui la donna disse: — Vedi, Salabaetto, ogni tuo acconcio mi piace forte, sí come di quello di colui il quale io amo piú che la vita mia, e piacemi forte che tu con intendimento di starci tornato ci sii, però che spero d’avere ancora assai di buon tempo con teco: ma io mi ti voglio un poco scusare che, di que’ tempi che tu te n’andasti, alcune volte ci volesti venire e non potesti, ed alcune ci venisti e non fosti cosí lietamente veduto come solevi, ed oltre a questo, di ciò che io al termine promesso non ti rendei i tuoi denari. Tu dèi sapere che io era allora in grandissimo dolore ed in grandissima afflizione: e chi è in cosí fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli può far cosí buon viso né attendere tuttavia a lui come colui vorrebbe; ed appresso, dèi sapere che egli è molto malagevole ad una donna il poter trovar mille fiorin d’oro, e sonci tutto il dí dette delle bugie e non c’è attenuto quello che c’è promesso, e per questo conviene che noi altressí mentiamo altrui: e di quinci venne, e non da altro difetto, che io i tuoi denari non ti rendei. Ma io gli ebbi poco appresso la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io gli t’avrei mandati: ma perché saputo non l’ho, gli t’ho guardati. — E fattasi venire una borsa dove erano quegli medesimi che esso portati l’avea, gliele pose in mano, e disse: — Annovera se son cinquecento. — Salabaetto non fu mai sí lieto, ed annoveratigli e trovatigli cinquecento, e ripóstigli, disse: — Madonna, io conosco che voi dite vero, ma voi n’avete fatto assai: e dicovi che per questo e per l’amore che io vi porto voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella quantitá che io potessi fare, che io non ve ne servissi; e come io ci sarò acconcio, voi ne potrete essere alla pruova. — Ed in questa guisa reintegrato con lei l’amore in parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente ad usar con lei, ed ella a fargli i maggior piaceri ed i maggiori onori del mondo, ed a mostrargli il maggiore amore. Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire lo ’nganno di lei, avendogli ella un dí mandato che egli a cena e ad albergo con lei andasse, v’andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che volesse morire. Iancofiore, abbracciandolo e basciandolo, lo ’ncominciò a domandare perché egli questa malinconia avea. Egli, poi che una buona pezza s’ebbe fatto pregare, disse: — Io son diserto, per ciò che il legno sopra il quale è la mercatantia che io aspettava, è stato preso da’ corsari di Monaco e riscattasi diecemilia fiorin d’oro, de’ quali ne tocca a pagare a me mille: ed io non ho un denaio, per ciò che li cinquecento che mi rendesti, incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per far venir qui. E se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena che io abbia delle due derrate un denaio: ed io non ci sono sí ancora conosciuto, che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia ne fia portata a Monaco e non ne riavrò mai nulla. — La donna, forte crucciosa di questo, sí come colei alla quale tutto il pareva perdere, avvisando che modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse: — Iddio il sa che ben me n’incresce per tuo amore: ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi questi denari, sallo Iddio che io gli ti presterei incontanente, ma io non gli ho: è il vero che egli c’è alcuna persona il quale l’altrieri mi serví de’ cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole, ché egli non ne vuol meno che a ragione di trenta per centinaio; se da questa cotal persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno, ed io per me sono acconcia d’impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrá su prestare, per poterti servire: ma del rimanente come il sicurerai tu? — Conobbe Salabaetto la cagione che movea costei a fargli questo servigio, ed accorsesi che di lei dovevano essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, ed appresso disse che giá per pregio ingordo non lascerebbe, strignendolo il bisogno: e poi disse che egli il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui che i denar gli prestasse, ma che egli voleva guardare la chiave de’ magazzini, sì per potere mostrare la sua mercatantia se richesta gli fosse, e si acciò che niuna cosa gli potesse essere tócca o tramutata o scambiata. La donna disse che questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà; e per ciò, come il dí fu venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si confidava molto, e ragionato con lui questo fatto, gli die’ mille fiorin d’oro li quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla dogana ciò che Salabaetto dentro v’avea; e fattesi loro scritte e contrascritte insieme, ed in concordia rimasi, attesero a’ loro altri fatti. Salabaetto, come più tosto potè, montato in su un legnetto, con millecinquecento fiorini d’oro a Pietro del Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona ed intera ragione rimandò a Firenze a’ suoi maestri che co’ panni l’avevan mandato; e pagato Pietro ed ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si die’ buon tempo dello ’nganno fatto alla ciciliana; poi di quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne a Ferrara. Iancofiore, non trovandosi Salabaetto in Palermo, s’incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi che ben due mesi aspettato l’ebbe, veggendo che non veniva, fece che il sensale fece schiavare i magazzini. E primieramente, tastate le botti che si credeva che piene d’olio fossero, trovò quelle esser piene d’acqua marina, avendo in ciascuna forse un baril d’olio di sopra vicino al cocchiume; poi, sciogliendo le balle, tutte fuor che due, che panni erano, piene le trovò di capecchio: ed in brieve, tra ciò che v’era, non valeva oltre a dugento fiorini; di che Iancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo più i mille prestati, spesse volte dicendo: — Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco. — E così, rimasasi col danno e con le beffe, trovò che tanto seppe altri quanto altri.
- Come Dioneo ebbe la sua novella finita, cosí Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro del Canigiano, che apparve dal suo effetto buono, e la sagacitá di Salabaetto, che non fu minore a mandarlo ad esecuzione, levatasi la laurea di capo, in testa ad Emilia la pose, donnescamente dicendo: — Madonna, io non so come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi: fate adunque che alle vostre bellezze l’opere sien rispondenti. — E tornossi a sedere.
- Emilia, non tanto dell’esser reina fatta quanto del vedersi cosí in publico commendare di ciò che le donne sogliono esser piú vaghe, un pochetto si vergognò, e tal nel viso divenne quali in su l’aurora son le novelle rose; ma pur, poi che tenuti ebbe gli occhi alquanto bassi ed ebbe il rossor dato luogo, avendo col suo siniscalco de’ fatti pertenenti alla brigata ordinato, cosí cominciò a parlare:
- Dilettose donne, assai manifestamente veggiamo che, poi che i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e disciolti, e liberamente dove lor piú piace, per li boschi, lasciati sono andare alla pastura: e veggiamo ancora non esser men belli, ma molto piú, i giardini di varie piante fronzuti che i boschi ne’ quali solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti giorni sotto certa legge ristretti ragionato abbiamo, che, sí come a bisognosi, di vagare alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il giogo, non solamente sia utile ma opportuno. E per ciò quello che domane seguendo il vostro dilettevole ragionar sia da dire, non intendo di ristrignervi sotto alcuna spezialtá, ma voglio che ciascuno secondo che gli piace ragioni, fermamente tenendo che la varietá delle cose che si diranno non meno graziosa ne fia che l’avere pur d’una parlato; e cosi avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrá, sí come piú forti, con maggior sicurtá ne potrá nell’usate leggi ristrignere. — E detto questo, infino all’ora della cena libertá concedette a ciascuno.
- Commendò ciascun la reina delle cose dette, sí come savia; ed in piè dirizzatisi, chi ad un diletto e chi ad uno altro si diede: le donne a far ghirlande ed a trastullarsi, i giovani a giucare ed a cantare; e cosí infino all’ora della cena passarono, la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono, e dopo la cena al modo usato, cantando e ballando, si trastullarono. Alla fine la reina, per seguire de’ suoi predecessori lo stilo, nonostanti quelle che volontariamente avean dette piú di loro, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare; il quale liberamente cosí cominciò:
- Tanto è, Amore, il bene
- ch’io per te sento, e l’allegrezza e ’l gioco,
- ch’io son felice ardendo nel tuo foco.
- L’abbondante allegrezza ch’è nel core
- dell’alta gioia e cara
- nella qual m’hai recato,
- non potendo capervi, esce di fore,
- e nella faccia chiara
- mostra ’l mio lieto stato:
- ch’essendo innamorato
- in cosí alto e ragguardevol loco,
- lieve mi fa lo star dov’io mi coco.
- Io non so col mio canto dimostrare
- né disegnar col dito,
- Amore, il ben ch’io sento;
- e s’io sapessi, mel convien celare:
- ché, s’el fosse sentito,
- torneria in tormento;
- ma io son sì contento,
- ch’ogni parlar sarebbe corto e fioco
- pria n’avessi mostrato pure un poco.
- Chi potrebbe estimar che le mie braccia
- aggiugnesser giá mai
- lá dov’io l’ho tenute,
- e ch’io dovessi giugner la mia faccia
- lá dov’io l’accostai
- per grazia e per salute?
- Non mi sarien credute
- le mie fortune: ond’io tutto m’infoco,
- quel nascondendo ond’io m’allegro e gioco.
- La canzone di Panfilo aveva fine; alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun ve n’ebbe che, con piú attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di convenirgli tener nascoso cantava: e quantunque vari varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla veritá del fatto pervenne. Ma la reina, poi che vide la canzon di Panfilo finita e le giovani donne e gli uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n’andasse a dormire.
- * * *
- * * *
- finisce l’ottava giornata del decameron; incomincia la nona, nella quale, sotto il reggimento d’emilia, si ragiona, ciascuno secondo che gli piace e di quello che piú gli aggrada.
- * * *
- Introduzione
- Novella prima
- Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l’un per morto in una sepoltura, e l’altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
- Novella seconda
- Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
- Novella terza
- Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
- Novella quarta
- Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia.
- Novella quinta
- Calandrino s’innamora d’una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
- Novella sesta
- Due giovani albergano con uno, de’ quali l’uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro. Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
- Novella settima
- Talano d’Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e ’l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle.
- Novella ottava
- Biondello fa una beffa a Ciacco d’un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui sconciamente battere.
- Novella nona
- Due giovani domandano consiglio a Salamone, l’uno come possa essere amato, l’altro come gastigar debba la moglie ritrosa. All’un risponde che ami, all’altro che vada al Ponte all’oca.
- Novella decima
- Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo ’ncantamento.
- Conclusione
- * * *
- La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva giá l’ottavo cielo d’azzurrino in color cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso, quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne ed i giovani parimente chiamare; li quali venuti ed appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad un boschetto non guari al palagio lontano se n’andarono, e per quello entrati, videro gli animali, sí come cavriuoli, cervi ed altri, quasi sicuri da’ cacciatori per la soprastante pestilenza, non altramenti aspettargli che se senza tema o dimestichi fossero divenuti. Ed ora a questo ed ora a quello altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero: ma giá inalzando il sole, parve a tutti di ritornare. Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le man piene o d’erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niuna altra cosa avrebbe potuto dire se non: — O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderá lieti. — Cosí adunque, piede innanzi piè venendosene, cantando e cianciando e motteggiando, pervennero al palagio, dove ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette piú liete l’una che l’altra da’ giovani e dalle donne cantate furono; appresso alle quali, data l’acqua alle mani, tutti secondo il piacere della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande venute, allegri tutti mangiarono: e da quello levati, al carolare ed al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, comandandolo la reina, chi volle s’andò a riposare. Ma giá l’ora usitata venuta, ciascuno nel luogo usato s’adunò a ragionare, dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle novelle del presente giorno; la quale sorridendo cominciò in questa guisa:
- [I]
- Madonna Francesca, amata da un Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l’un per morto in una sepoltura e l’altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente gli si leva da dosso.
- Madonna, assai m’aggrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenza n’ha messi, del novellare, d’esser colei che corra il primo aringo; il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno, non facciano bene e meglio.
- Molte volte s’è, o vezzose donne, ne’ nostri ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d’Amore: né però credo che pienamente se ne sia detto, né sarebbe ancora se di qui ad uno anno d’altro che di ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a vari dubbi di dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de’ morti per morti tira, m’aggrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette sono, una novella nella quale non solamente la potenza d’Amore comprenderete, ma il senno da una valorosa donna usato a tôrsi da dosso due che contro al suo piacere l’amavan, conoscerete.
- Dico adunque che nella cittá di Pistoia fu giá una bellissima donna vedova, la qual due nostri fiorentini, che per aver bando di Firenze lá dimoravano, chiamati l’uno Rinuccio Palermini e l’altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l’un dell’altro, per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva a dovere l’amor di costei acquistare. Ed essendo questa gentil donna, il cui nome fu madonna Francesca de’ Lazzari, assai sovente stimolata da ambasciate e da’ prieghi di ciascun di costoro, ed avendo ella ad esse men saviamente piú volte gli orecchi pórti, e volendosi saviamente ritrarre e non potendo, le venne, acciò che la loro seccaggine si levasse da dosso, un pensiero: e quel fu di volergli richiedere d’un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di piú non volere le loro ambasciate udire; ed il pensiero fu questo. Era, il giorno che questo pensiero le venne, morto in Pistoia uno il quale, quantunque stati fossero i suoi passati gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse: ed oltre a questo, vivendo, era sí contraffatto e di sí divisato viso, che chi conosciuto non l’avesse, veggendol da prima, n’avrebbe avuta paura; ed era stato sotterrato in uno avello fuori della chiesa de’ frati minori. Il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento; per la qual cosa ella disse ad una sua fante: — Tu sai la noia e l’angoscia la quale io tutto il dí ricevo dell’ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro: ora, io non son disposta a dover loro del mio amor compiacere, e per tôrglimi da dosso m’ho posto in cuore, per le grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare la quale io son certa che non faranno, e cosí questa seccaggine tôrne via; ed odi come. Tu sai che stamane fu sotterrato al luogo de’ frati minori lo Scannadio — cosí era chiamato quel reo uomo di cui di sopra dicemmo — del quale, non che morto, ma vivo i piú sicuri uomini di questa terra, veggendolo, avevan paura: e però tu te n’andrai segretamente in prima ad Alessandro, e sí gli dirai: — Madonna Francesca ti manda dicendo che ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il quale tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu vogli, in questa forma. A lei dèe, per alcuna cagione che tu poi saprai, questa notte esser da un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito: ed ella, sí come quella che ha di lui, cosí morto come egli è, paura, nol vi vorrebbe; per che ella ti priega, in luogo di gran servigio, che ti debba piacere d’andare stasera in sul primo sonno ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni indosso e stare come se tu desso fossi infino a tanto che per te sia venuto, e senza alcuna cosa dire o motto fare, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverá, e con lei poi ti starai, ed a tua posta ti potrai partire, lasciando del rimanente il pensiero a lei. — E se egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di non volerlo fare, sí gli di’ da mia parte che piú dove io sia non apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che piú né messo né ambasciata mi mandi. Ed appresso questo, te n’andrai a Rinuccio Palermini e sí gli dirai: — Madonna Francesca dice che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio, cioè che tu stanotte in su la mezzanotte te ne vadi all’avello dove fu stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di cosa che tu oda o senta, tragghi di quello soavemente e rechigliele a casa; quivi perché ella il voglia vedrai, e di lei avrai il piacer tuo: e dove questo non ti piaccia di fare, ella infino da ora t’impone che tu mai piú non le mandi né messo né ambasciata. — La fante n’andò adammenduni, ed ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse; alla quale risposto fu da ognuno che, non che in una sepoltura, ma in inferno andrebber, quando le piacesse. La fante fe’ la risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se si fossero pazzi, che essi il facessero. Venuta adunque la notte ed essendo giá primo sonno, Alessandro Chiarmontesi, spogliatosi in farsetto, usci di casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nell’avello: ed andando gli venne un pensier molto pauroso nell’animo, e cominciò a dir seco: — Deh! che bestia sono io! Dove vo io? O che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi che io l’amo, credendo essi quello che non è, le fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che se avvenisse, io m’avrei il danno, né mai cosa del mondo se ne saprebbe che lor nocesse. O che so io se forse alcun mio nemico questo m’ha procacciato, il quale ella forse amando, di questo il vuol servire? — E poi dicea: — Ma pognam che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portarmi debbano: io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi tenere in braccio o metterlo in braccio a lei; anzi si dèe credere che essi ne voglian far qualche strazio, sí come di colui che forse giá d’alcuna cosa gli diserví. Costei dice che di cosa che io senta io non faccia motto. O se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o mozzassermi le mani o facessermi alcuno altro cosí fatto giuoco, a che sarei io? Come potrei io star cheto? E se io favello, e mi conosceranno e per avventura mi faranno male: ma come che essi non me ne facciano, io non avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna dirá poi che io abbia rotto il suo comandamento e non fará mai cosa che mi piaccia. — E cosí dicendo, fu tutto che tornato a casa: ma pure il grande amore il sospinse innanzi con argomenti contrari a questi e di tanta forza, che all’avello il condussero; il quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e l’avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi, gl’incominciò a tornare a mente chi costui era stato, e le cose che giá aveva udite dire che di notte erano intervenute, non che nelle sepolture de’ morti, ma ancora altrove: e tutti i peli gli s’incominciarono ad arricciare addosso, e parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui. Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire. Rinuccio, appressandosi la mezzanotte, uscí di casa sua per far quello che dalla sua donna gli era stato mandato a dire: ed andando, in molti e vari pensieri entrò delle cose possibili ad intervenirgli, sí come di poter col corpo, sopra le spalle, di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso condannato al fuoco, o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de’ suoi parenti, e d’altri simili, da’ quali tutto che rattenuto fu. Ma poi, rivolto, disse: — Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale io ho cotanto amata ed amo, m’ha richesto, e spezialmente dovendone la sua grazia acquistare? Non ne dovessi io di certo morire, che io non me ne metta a far ciò che promesso l’ho. — Ed andato avanti, giunse alla sepoltura, e quella leggermente aperse. Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto. Rinuccio, entrato dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe’ piedi e lui fuor ne tirò, ed in su le spalle levatolsi, verso la casa della gentil donna cominciò ad andare; e cosí andando, e non riguardandolo altramenti, spesse volte il percoteva ora in un canto ed ora in uno altro d’alcune panche che allato alla via erano: e la notte era sí buia e sí oscura, che egli non poteva discernere ove s’andava. Ed essendo giá Rinuccio a piè dell’uscio della gentil donna, la quale alle finestre con la sua fante stava, per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, giá da sé armata in modo da mandargli ammendun via, avvenne che la famiglia della signoria, in quella contrada ripostasi e chetamente standosi, aspettando di dover pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio co’ piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi, e mossi i pavesi e le lance, gridò: — Chi è lá? — La quale Rinuccio conoscendo, non avendo tempo da troppo lunga diliberazione, lasciatosi cadere Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via. Alessandro, levatosi prestamente, con tutto che i panni del morto avesse indosso, li quali erano molto lunghi, pure andò via altressí. La donna, per lo lume tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro alle spalle, e similmente aveva scorto Alessandro esser vestito de’ panni di Scannadio; e maravigliossi molto del grande ardir di ciascuno, ma con tutta la maraviglia rise assai del veder gittar giuso Alessandro e del vedergli poscia fuggire. Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando Iddio che dallo ’mpaccio di costoro tolta l’avea, se ne tornò dentro ed andossene in camera, affermando con la fante, senza alcun dubbio ciascun di costoro amarla molto, poscia che quello avevan fatto, sí come appariva, che ella loro aveva imposto. Rinuccio, dolente e bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo: ma partita di quella contrada la famiglia, colá tornò dove Alessandro aveva gittato, e cominciò brancolone a cercare se egli il ritrovasse, per fornire il suo servigio; ma non trovandolo, ed avvisando la famiglia quindi averlo tolto, dolente a casa se ne tornò. Alessandro, non sappiendo altro che farsi, senza aver conosciuto chi portato se l’avesse, dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n’andò. La mattina, trovata aperta la sepoltura di Scannadio né dentro veggendovisi, per ciò che nel fondo l’aveva Alessandro voltato, tutta Pistoia ne fu in vari ragionamenti, estimando gli sciocchi lui da’ diavoli essere stato portato via. Nondimeno ciascun de’ due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo comandamento, la sua grazia ed il suo amore addomandava; la qual, mostrando a niun ciò voler credere, con ricisa risposta di mai per loro niente voler fare, poi che essi ciò che essa addomandato avea, non avean fatto, gli si tolse da dosso.
- [II]
- Levasi una badessa in fretta ed al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali veggendo l’accusata, e fattanela accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
- Giá si tacea Filomena, ed il senno della donna a tôrsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato commendato, e cosí in contrario, non amor ma pazzia era stata tenuta da tutti l’ardita presunzion degli amanti, quando la reina ad Elissa vezzosamente disse: — Elissa, segui. — La qual prestamente incominciò:
- Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua: ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo leggiadramente parlando diliberò. E come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li quali, sí come voi potrete comprendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meritamente vitupera: e ciò addivenne alla badessa sotto la cui obedienza era la monaca della quale debbo dire.
- Sapere adunque dovete, in Lombardia essere un famosissimo monistero di santitá e di religione, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dí ad un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò: ed esso, lei veggendo bellissima, giá il suo disidèro avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s’accese, e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero. Ultimamente, essendone ciascuno sollecito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di lá entro fu veduto, senza avvedersene o egli o ella, dall’Isabetta partirsi ed andarsene: il che costei con alquante altre comunicò. E prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo l’oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa, e cosí taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei. Or, non guardandosi l’Isabetta da questo né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano. Le quali, quando a lor parve tempo, essendo giá buona pezza di notte, in due si divisero, ed una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta ed un’altra n’andò correndo alla camera della badessa, e picchiando l’uscio, a lei che giá rispondeva, dissero: — Su, madonna, levatevi tosto, che noi abbiam trovato che l’Isabetta ha un giovane nella cella. — Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire; la quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe, si vestí al buio, e credendosi tórre certi veli piegati li quali in capo portano e chiamangli «il saltero», le venner tolte le brache del prete: e tanta fu la fretta, che senza avvedersene, in luogo del saltero, le si gittò in capo, ed uscí fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro, dicendo: — Dove è questa maladetta da Dio? — E con l’altre, che si focose e sí attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra: ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati, li quali, da cosí subito soprapprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa, e per comandamento della badessa, menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso, e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugnerne potesse, se alla sua giovane novitá niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco. La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenza di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sí come a colei la quale la santitá, l’onestá e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea: e dietro alla villania aggiugnea gravissime minacce. La giovane, vergognosa e timida, sí come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell’altre. E multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo e gli usulieri che di qua e di lá pendevano; di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata, disse: — Madonna, se Iddio v’aiuti, annodatevi la cuffia e poscia mi dite ciò che voi volete. — La badessa, che non la ’ntendeva, disse: — Che cuffia, rea femina? Ora hai tu viso da motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo? — Allora la giovane un’altra volta disse: — Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace. — Laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta cosí diceva; di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e veggendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone, ed in tutta altra guisa che fatto non aveva, cominciò a parlare, e conchiudendo venne, impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere: e per ciò chetamente, come infino a quel dí fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse. E liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante, il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe’ venire; l’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura.
- [III]
- Maestro Simone ad istanza di Bruno e di Buffalmacco e di Nello fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dá a’ predetti capponi e denari, e guerisce senza partorire.
- Poi che Elissa ebbe la sua novella finita, essendo da tutti rendute grazie a Dio che la giovane monaca aveva con lieta uscita tratta de’ morsi dell’invidiose compagne, la reina a Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza piú comandamento aspettare, incominciò:
- Bellissime donne, lo scostumato giudice marchigiano di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino la quale io era per dirvi: e per ciò che ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicar la festa, benché di lui e de’ suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur quella che ieri aveva in animo vi dirò. Mostrato e di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de’ quali in questa novella ragionar debbo, e per ciò, senza piú dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morí e lasciògli dugento lire di piccioli contanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere, e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecemilia fiorin d’oro, teneva mercato, il qual sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva. Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avean piú volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra come se egli avesse avuto a far pallottole: ma, non che a questo, essi non l’aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare. Per che un dí dolendosene, ed essendo a ciò sopravvenuto un lor compagno che aveva nome Nello, dipintore, diliberâr tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alle spese di Calandrino: e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina, appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro Nello e disse: — Buon dí, Calandrino. — Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dí ed il buono anno. Appresso questo, Nello, rattenutosi un poco, lo ’ncominciò a guardar nel viso; a cui Calandrino disse: — Che guati tu? — E Nello disse a lui: — Haiti tu sentita stanotte cosa niuna? Tu non mi par’desso. — Calandrino incontanente cominciò a dubitare, e disse: — Oimè! come? che ti pare egli che io abbia? — Disse Nello: — Deh! io nol dico per ciò: ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro — e lasciollo andare. Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, veggendol partito da Nello, gli si fece incontro, e salutatolo, il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose: — Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla? — Disse Buffalmacco: — Sí, potrestú aver cavelle, non che nulla: tu par’ mezzo morto. — A Calandrino pareva giá aver la febbre: ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse: — Calandrino, che viso è quello? El par che tu sii morto: che ti senti tu? — Calandrino, udendo ciascun di costoro cosí dire, per certissimo ebbe seco medesimo d’esser malato, e tutto sgomentato gli domandò: — Che fo? — Disse Bruno: — A me pare che tu te ne torni a casa e vaditene in sul letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal tuo al maestro Simone, che è cosí nostra cosa come tu sai. Egli ti dirá incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco: e se bisognerá far cosa niuna, noi la faremo. — E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua: ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie: — Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male. — Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone. E Bruno disse a’ compagni: — Voi vi rimarrete qui con lui, ed io voglio andare a sapere che il medico dirá, e se bisogno sará, a menarloci. — Calandrino allora disse: — Deh! sí, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro. — Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simon del fatto; per che, venuta la fanticella ed il maestro veduto il segno, disse alla fanticella: — Vattene e di’ a Calandrino che egli si tenga ben caldo, ed io verrò a lui incontanente e dirògli ciò che egli ha e ciò che egli avrá a fare. — La fanticella cosí rapportò: né stette guari che il medico e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere allato, gl’incominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse: — Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se’ pregno. — Come Calandrino udí questo, dolorosamente cominciò a gridare ed a dire: — Oimè! Tessa, questo m’hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra; io il ti diceva bene! — La donna, che assai onesta persona era, udendo cosí dire al marito, tutta di vergogna arrossò, ed abbassata la fronte, senza risponder parola s’uscí della camera. Calandrino, continuando il suo ramarichio, diceva: — Oimè, tristo me! come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirá egli? Ben veggio che io son morto per la rabbia di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma cosí fossi io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare’le tante busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra: ma per certo, se io scampo di questa, ella se ne potrá ben prima morir di voglia. — Bruno e Buffalmacco e Nello avevano sí gran voglia di ridere, che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino, ma pur se ne tenevano: ma il maestro Scimmione rideva si squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure, a lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli dovesse dar consiglio ed aiuto, gli disse il maestro: — Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sí tosto accorti del fatto, che con poca fatica ed in pochi dí ti dilibererò: ma conviensi un poco spendere. — Disse Calandrino: — Oimè! maestro mio, sí, per l’amor di Dio; io ho qui da dugento lire di che io volea comperare un podere: se tutti bisognano, tutti gli togliete, pur che io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi; ché io odo fare alle femine un sí gran rornore quando son per partorire, con tutto che elle abbiano buon cotal grande donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi. — Disse il medico: — Non aver pensiero: io ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole a bere, che in tre mattine risolverá ogni cosa, e rimarrai piú sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio, e piú non incappi in queste sciocchezze. Ora, ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e fara’mi ogni cosa recare alla bottega: ed io, al nome di Dio, domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera’ne a bere un buon bicchier grande per volta. — Calandrino, udito questo, disse: — Maestro mio, ciò siane in voi. — E date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica. Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea, e mandògliele. Bruno, comperati i capponi ed altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni suoi gli si mangiò. Calandrino bevve tre mattine della chiarea: ed il medico venne da lui, ed i suoi compagni; e toccatogli il polso, gli disse: — Calandrino, tu se’ guerito senza fallo, e però sicuramente oggimai va’ a fare ogni tuo fatto, né per questo star piú in casa. — Calandrino lieto, levatosi, s’andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, d’averlo fatto in tre dí senza alcuna pena spregnare; e Bruno e Buffalmacco e Nello rimaser contenti d’aver con ingegni saputa schernire l’avarizia di Calandrino, quantunque monna Tessa, avveggendosene, molto col marito ne brontolasse.
- [IV]
- Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Bonconvento ogni sua cosa ed i denari di Cecco di messere Angiulieri, ed in camiscia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani; ed i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camiscia.
- Con grandissime risa di tutta la brigata erano state ascoltate le parole da Calandrin dette della sua moglie; ma tacendosi Filostrato, Neifile, sí come la reina volle, incominciò:
- Valorose donne, se egli non fosse piú malagevole agli uomini il mostrare altrui il senno e la vertu loro, che sia la sciocchezza ed il vizio, invano si faticherebber molti in por freno alle lor parole: e questo v’ha assai manifestato la stoltizia di Calandrino, al quale di niuna necessitá era, a voler guerire del male che la sua si triplicitá gli faceva accredere che egli avesse, i segreti diletti della sua donna in publico addimostrare. La qual cosa una a sé contraria nella mente me n’ha recata, cioè come la malizia d’uno il senno soperchiasse d’uno altro, con grave danno e scorno del soperchiato; il che mi piace di raccontarvi.
- Erano, non sono molti anni passati, in Siena due giá per etá compiuti uomini, ciascuno chiamato Cecco, ma l’uno di messere Angiulieri e l’altro di messer Fortarrigo, li quali, quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si convenissero, in uno, cioè che ammenduni li loro padri odiavano, tanto si convenieno, che amici n’erano divenuti e spesso n’usavano insieme. Ma parendo all’Angiulieri, il quale e bello e costumato uomo era, mal dimorare in Siena della provvisione che dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d’Ancona esser per legato del papa venuto un cardinale che molto suo signore era, si dispose a volersene andare a lui, credendone la sua condizion migliorare: e fatto questo al padre sentire, con lui ordinò d’avere ad una ora ciò che in sei mesi gli dovesse dare, acciò che vestir si potesse e fornir di cavalcatura ed andare orrevole. E cercando d’alcuno il quale seco menar potesse al suo servigio, venne questa cosa sentita al Fortarrigo, il quale di presente fu all’Angiulieri e cominciò come il meglio seppe a pregarlo che seco il dovesse menare, e che egli voleva essere e fante e famiglio ed ogni cosa, e senza alcun salario sopra le spese. Al quale l’Angiulieri rispose che menar nol volea, non perché egli nol conoscesse bene ad ogni servigio sufficiente, ma per ciò che egli giucava, ed oltre a ciò, s’inebriava alcuna volta; a che il Fortarrigo rispose che dell’uno e dell’altro senza dubbio si guarderebbe e con molti saramenti gliele affermò, tanti prieghi sopraggiugnendo, che l’Angiulieri, sí come vinto, disse che era contento. Ed entrati una mattina in cammino ammenduni, a desinar n’andarono a Bonconvento, dove avendo l’Angiulier desinato ed essendo il caldo grande, fattosi acconciare un letto nell’albergo e spogliatosi, dal Fortarrigo aiutato, s’andò a dormire, e dissegli che come nona sonasse, il chiamasse. Il Fortarrigo, dormendo l’Angiulieri, se n’andò in su la taverna, e quivi, alquanto avendo bevuto, cominciò con alcuni a giucare, li quali in poca d’ora, alcuni denari che egli aveva avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva indosso gli vinsero; onde egli, disideroso di riscuotersi, cosí in camiscia come era, se n’andò lá dove dormiva l’Angiulieri, e veggendol dormir forte, di borsa gli trasse quanti denari egli avea, ed al giuoco tornatosi, cosí gli perdé come gli altri. L’Angiulieri, destatosi, si levò e vestissi, e domandò del Fortarrigo, il quale non trovandosi, avvisò l’Angiulieri lui in alcun luogo ebbro dormirsi, sí come altra volta era usato di fare; per che, diliberatosi di lasciarlo stare, fatta mettere la sella e la valigia ad un suo pallafreno, avvisando di fornirsi d’altro famigliare a Corsignano, volendo, per andarsene, l’oste pagare, non si trovò denaio; di che il romor fu grande e tutta la casa dell’oste fu in turbazione, dicendo l’Angiulieri che egli lá entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli tutti presi andare a Siena. Ed ecco venire in camiscia il Fortarrigo, il quale per tôrre i panni, come fatto aveva i denari, veniva: e veggendo l’Angiulieri in concio di cavalcar, disse: — Che è questo, Angiulieri? Vogliáncene noi andare ancora? Deh! aspettati un poco: egli dèe venir qui testeso uno, che ha pegno il mio farsetto per trentotto soldi; son certo che egli cel renderá per trentacinque pagandol testé. — E duranti ancora le parole, sopravvenne uno, il quale fece certo l’Angiulieri, il Fortarrigo essere stato colui che i suoi denar gli avea tolti, col mostrargli la quantitá di quegli che egli aveva perduti. Per la qual cosa l’Angiulier turbatissimo disse al Fortarrigo una grandissima villania, e se piú d’altrui che di Dio temuto non avesse, gliele avrebbe fatta: e minacciandolo di farlo impiccar per la gola o fargli dar bando delle forche di Siena, montò a cavallo. Il Fortarrigo, non come se l’Angiulieri a lui, ma ad uno altro dicesse, diceva: — Deh! Angiulieri, in buona ora, lasciamo stare ora costette parole che non montan cavelle; intendiamo a questo: noi il riavrem per trentacinque soldi ricogliendol testé, ché, indugiandosi pure di qui a domane, non ne vorrá meno di trentotto come egli me ne prestò: e fammene questo piacere, perché io gli misi a suo senno. Deh! perché non ci miglioriam noi questi tre soldi? — L’Angiulieri, udendol cosí parlare, si disperava, e massimamente veggendosi guatare a quegli che v’eran da torno, li quali parea che credessero, non che il Fortarrigo i denari dell’Angiulieri avesse giucati, ma che l’Angiulieri ancora avesse de’ suoi; e dicevagli: — Che ho io a fare di tuo farsetto, che appiccato sii tu per la gola? Ché non solamente m’hai rubato e giucato il mio, ma sopra ciò hai impedita la mia andata, ed anche ti fai beffe di me. — Il Fortarrigo stava pur fermo come se a lui non dicesse, e diceva: — Deh! perché non mi vuoi tu migliorar que’ tre soldi? Non credi tu che io te gli possa ancor servire? Deh! fallo, se ti cal di me; perché hai tu questa fretta? Noi giugnerem bene ancora stasera a Torrenieri. Fa’ truova la borsa: sappi che io potrei cercar tutta Siena e non ve ne troverei uno che cosí mi stesse ben come questo: ed a dire che il lasciassi a costui per trentotto soldi! Egli vale ancora quaranta o piú, sí che tu mi piggiorresti in due modi. — L’Angiulieri, da gravissimo dolor punto, veggendosi rubare da costui ed ora tenersi a parole, senza piú rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammino verso Torrenieri. Al quale il Fortarrigo, in una sottil malizia entrato, cosí in camiscia cominciò a trottar dietro: ed essendo giá ben due miglia andato pur del farsetto pregando, andandone l’Angiulier forte per levarsi quella seccaggine dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori in un campo vicini alla strada dinanzi all’Angiulieri; a’ quali il Fortarrigo, gridando forte, incominciò a dire: — Pigliatel pigliatelo! — Per che essi, chi con vanga e chi con marra, nella strada paratisi dinanzi all’Angiulieri, avvisando che rubato avesse colui che in camiscia dietrogli veniva gridando, il ritennero e presono; al quale per dir loro chi egli fosse e come il fatto stesse, poco giovava. Ma il Fortarrigo, giunto lá, con un mal viso disse: — Io non so come io non t’uccido, ladro disleale che ti fuggivi col mio! — Ed a’ villani rivolto, disse: — Vedete, signori, come egli m’aveva lasciato nell’albergo in arnese, avendo prima ogni sua cosa giucata! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia questo cotanto racquistato; di che io sempre vi sarò tenuto. — L’Angiulieri diceva egli altressi, ma le sue parole non erano ascoltate. Il Fortarrigo con l’aiuto de’ villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de’ suoi panni si rivestí, ed a caval montato, lasciato l’Angiulieri in camiscia e scalzo, a Siena se ne tornò, per tutto dicendo, sé il pallafreno ed i panni aver vinti all’Angiulieri. L’Angiulieri, che ricco si credeva andare al Cardinal nella Marca, povero ed in camiscia si tornò a Bonconvento, né per vergogna a que’ tempi ardí di tornare a Siena: ma statigli panni prestati, in sul ronzino che cavalcava Fortarrigo se n’andò a suoi parenti a Corsignano, co’ quali si stette tanto che da capo dal padre fu sovvenuto. E cosí la malizia del Fortarrigo turbò il buono avviso dell’Angiulieri, quantunque da lui non fosse a luogo ed a tempo lasciata impunita.
- [V]
- Calandrino s’innamora d’una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui; e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
- Finita la non lunga novella di Neifile, senza troppo o riderne o parlarne passatosene la brigata, la reina, verso la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò; la quale tutta lieta rispose che volentieri, e cominciò:
- Gentilissime donne, sí come io credo che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si parli, che sempre piú non piaccia, dove il tempo ed il luogo che quella cotal cosa richiede si sappi, per colui che parlarne vuole, debitamente eleggere. E per ciò, se io riguardo quello per che noi siam qui, che per aver festa e buon tempo e non per altro ci siamo, estimo che ogni cosa che festa e piacer possa porgere, qui abbia luogo e tempo debito, e benché mille volte ragionato ne fosse, altro che dilettar non debba altrettanto parlandone. Per la qual cosa, posto che assai volte de’ fatti di Calandrino detto si sia tra noi, riguardando, sí come poco avanti disse Filostrato, che essi son tutti piacevoli, ardirò, oltre alle dette, dirvene una novella, la quale, se io dalla veritá del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla: ma per ciò che il partirsi dalla veritá delle cose state, nel novellare, è gran diminuire di diletto negl’intendenti, in propria forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò.
- Niccolò Cornacchini fu nostro cittadino e ricco uomo, e tra l’altre sue possessioni una bella n’ebbe in Camerata, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e con Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele dipignessero si convenne; li quali, per ciò che il lavorio era molto, seco aggiunsero e Nello e Calandrino, e cominciarono a lavorare. Dove, benché alcuna camera fornita di letto e dell’altre cose opportune fosse ed una fante vecchia dimorasse sí come guardiana del luogo, per ciò che altra famiglia non v’era, era usato un figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo, sí come giovane e senza moglie, di menar talvolta alcuna femina a suo diletto e tenervela un dì o due, e poscia mandarla via. Ora, tra l’altre volte avvenne che egli ve ne menò una che aveva nome la Niccolosa, la quale un tristo, che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa da Camaldoli, prestava a vettura. Aveva costei bella persona ed era ben vestita, e secondo sua pari, assai costumata e ben parlante; ed essendo ella un dì di meriggio della camera uscita in un guarnel bianco e co’ capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte era del casamento lavandosi le mani ed il viso, avvenne che Calandrino quivi venne per acqua e dimesticamente la salutò. Ella, rispostogli, il cominciò a guatare, piú perché Calandrino le pareva un nuovo uomo che per altra vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella, cominciò a trovar sue cagioni, e non tornava a’ compagni con l’acqua: ma non conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s’era del guatar di costui, per uccellarlo, alcuna volta guardava lui, alcun sospiretto gittando; per la qual cosa Calandrino subitamente di lei s’imbardò, né prima si partí della corte che ella fu da Filippo nella sua camera richiamata. Calandrino, tornato a lavorare, altro che soffiar non facea; di che Bruno accortosi, per ciò che molto gli poneva mente alle mani, sí come quegli che gran diletto prendeva de’ fatti suoi, disse: — Che diavolo hai tu, sozio Calandrino? Tu non fai altro che soffiare. — A cui Calandrino disse: — Sozio, se io avessi chi m’aiutasse, io starei bene. — Come? — disse Bruno. A cui Calandrin disse: — El non si vuol dire a persona: egli è una giovane qua giú, che è piú bella che una lammia, la quale è sí forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto; io me n’avvidi testé, quando io andai per l’acqua. — Oimè! — disse Bruno — guarda che ella non sia la moglie di Filippo. — Disse Calandrino: — Io il credo, per ciò che egli la chiamò, ed ella se n’andò a lui nella camera; ma che vuol per ciò dir questo? Io la fregherei a Cristo, di cosí fatte cose, non che a Filippo. Io ti vo’ dire il vero, sozio: ella mi piace tanto, che io nol ti potrei dire. — Disse allora Bruno: — Sozio, io ti spierò chi ella è: e se ella è la moglie di Filippo, io acconcerò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è molto mia dimestica. Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia? Io non le posso mai favellare che non sia meco. — Disse Calandrino: — Di Buffalmacco non mi curo io, ma guardiánci di Nello, ché egli è parente della Tessa e guasterebbeci ogni cosa. — Disse Bruno: — Ben di’. — Or sapeva Bruno chi costei era, sí come colui che veduta l’avea venire, ed anche Filippo gliele aveva detto; per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorío partito ed andato per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello ed a Buffalmacco, ed insieme tacitamente ordinarono quello che fargli dovessero di questo suo innamoramento. E come egli ritornato fu, disse Bruno pianamente: — Vedestila? — Rispose Calandrino: — Oimè! sí, ella m’ha morto. — Disse Bruno: — Io voglio andare a vedere se ella è quella che io credo, e se cosí sará, lascia poscia far me. — Sceso adunque Bruno giuso, e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino e quello che egli aveva di lor detto, e con loro ordinò quello che ciascun di loro dovesse fare e dire, per aver festa e piacere dello ’nnamoramento di Calandrino: ed a Calandrino tornatosene, disse: — Bene è dessa, e per ciò si vuol questa cosa molto saviamente fare, per ciò che, se Filippo se n’avvedesse, tutta l’acqua d’Arno non ci laverebbe. Ma che vuoi tu che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli? — Rispose Calandrino: — Gnaffe, tu sí le dirai in prima che io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare, e poscia, che io son suo servigiale, e se ella vuol nulla; ha’mi bene inteso?— Disse Bruno: — Sí, lascia far me. — Venuta l’ora della cena, e costoro avendo lasciata opera e giú nella corte discesi, essendovi Filippo e la Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a stare; dove Calandrino cominciò a guardare la Niccolosa ed a fare i piú nuovi atti del mondo, tali e tanti, che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella, d’altra parte, ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo, e secondo la ’nformazione avuta da Bruno, il miglior tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino; Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto. Ma pur dopo alquanto, con grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze, disse Bruno a Calandrino: — Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio al sole; per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra delle finestre per venire a te. — Disse Calandrino: — Parti, sozio? Parti che io la rechi? — Sí — rispose Bruno. A cui Calandrino disse: — Tu non mi credevi oggi, quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m’avveggio che io so meglio che altro uomo far ciò che io voglio. Chi avrebbe saputo altri che io far cosí tosto innamorare una cosí fatta donna come è costei? A buona otta l’avrebber saputo far questi giovani di tromba marina, che tutto il dí vanno ingiú ed insú, ed in mille anni non saprebbero accozzare tre man di noccioli! Ora io vorrò che tu mi veggi un poco con la ribeba: vedrai bel giuoco! Ed intendi sanamente che io non son vecchio come io ti paio; ella se n’è bene accorta ella: ma altramenti ne la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso, per lo verace corpo di Cristo, ché io le farò giuoco che ella mi verrá dietro come va la pazza al figliuolo. — Oh! — disse Bruno — tu la ti griferai: el mi par pur vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a bischeri quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che paion due rose, e poscia manicarlati tutta quanta. — Calandrino, udendo queste parole, gli pareva essere a’ fatti, ed andava cantando e saltando tanto lieto, che non capeva nel cuoio. Ma l’altro dí, recata la ribeba, con gran diletto di tutta la brigata cantò piú canzoni con essa: ed in brieve, in tanta sosta entrò dello spesso veder costei, che egli non lavorava punto, ma mille volte il dí ora alla finestra, ora alla porta ed ora nella corte correva per veder costei; la quale, astutamente secondo l’ammaestramento di Bruno adoperando, molto bene ne gli dava cagione. Bruno, d’altra parte, gli rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolta; e quando ella non v’era, che era il piú del tempo, gli faceva venir lettere da lei, nelle quali esso gli dava grande speranza de’ disidèri suoi, mostrando che ella fosse a casa di suoi parenti lá dove egli allora non la poteva vedere. Ed in questa guisa Bruno e Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de’ fatti di Calandrino il maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sí come domandato dalla sua donna, quando un pettine d’avorio e quando una borsa e quando un coltellino e cotali ciance, allo ’ncontro recandogli cotali anelletti contraffatti di niun valore, de’ quali Calandrino faceva maravigliosa festa; ed oltre a questo, n’avevan da lui di buone merende e d’altri onoretti, acciò che solleciti fossero a’ fatti suoi. Ora, avendol tenuto costoro ben due mesi in questa forma senza piú aver fatto, veggendo Calandrino che il lavorio si veniva finendo, ed avvisando che, se egli non recasse ad effetto il suo amore prima che finito fosse il lavorio, mai piú fatto non gli potesse venire, cominciò molto a strignere ed a sollecitare Bruno; per la qual cosa, essendovi la giovane venuta, avendo Bruno prima con Filippo e con lei ordinato quello che fosse da fare, disse a Calandrino: — Vedi, sozio, questa donna m’ha ben mille volte promesso di dover fare ciò che tu vorrai, e poscia non ne fa nulla, e parmi che ella ti meni per lo naso: e per ciò, poscia che ella noi fa come ella promette, noi gliele farem fare o voglia ella o no, se tu vorrai. — Rispose Calandrino: — Deh! sí, per l’amor di Dio, facciasi tosto. — Disse Bruno: — Dratti egli il cuore di toccarla con un brieve che io ti darò? — Disse Calandrino: — Sí bene. — — Adunque, — disse Bruno — fa’ che tu mi rechi un poco di carta non nata ed un vispistrello vivo e tre granella d’incenso ed una candela benedetta, e lascia far me. — Calandrino stette tutta la sera vegnente con suoi artifici per pigliare un vispistrello, ed alla fine presolo, con l’altre cose il portò a Bruno; il quale, tiratosi in una camera, scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte, e portogliele e disse: — Calandrino, sappi che, se tu la toccherai con questa scritta, ella ti verrá incontanente dietro e fará quello che tu vorrai. E però, se Filippo va oggi in niun luogo, accostaleti in qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia che è qui da lato, che è il miglior luogo che ci sia, per ciò che non vi bazzica mai persona: tu vedrai che ella vi verrá; quando ella v’è, tu sai bene ciò che tu t’hai a fare. — Calandrino fu il piú lieto uomo del mondo, e presa la scritta, disse: — Sozio, lascia far me. — Nello, da cui Calandrino si guardava, avea di questa cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme teneva mano a beffarlo; e per ciò, sí come Bruno gli aveva ordinato, se n’andò a Firenze alla moglie di Calandrino, e dissele: — Tessa, tu sai quante busse Calandrino ti die’ senza ragione il dí che egli ci tornò con le pietre di Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne vendichi: e se tu nol fai, non m’aver mai né per parente né per amico. Egli si s’è innamorato d’una donna colá sú, ed ella è tanto trista, che ella si va richiudendo assai spesso con essolui, e poco fa si dieder la posta d’essere insieme via via; e per ciò io voglio che tu vi venghi e veggilo e gastighil bene. — Come la donna udí questo, non le parve giuoco: ma levatasi in piè, cominciò a dire: — Oimè! ladro piuvico, faimi tu questo? Alla croce di Dio, ella non andrá cosi, che io non te ne paghi. — E preso suo mantello ed una feminetta in compagnia, vie piú che di passo insieme con Nello lá sú n’andò; la quale come Bruno vide venir di lontano, disse a Filippo: — Ecco l’amico nostro. — Per la qual cosa Filippo, andato colá dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse: — Maestri, a me convien testé andare a Firenze: lavorate di forza. — E partitosi, s’andò a nascondere in parte che egli poteva, senza esser veduto, veder ciò che facesse Calandrino. Calandrino, come credette che Filippo alquanto dilungato fosse, cosí se ne scese nella corte, dove egli trovò sola la Niccolosa: ed entrato con lei in novelle, ed ella, che sapeva ben ciò che a far s’aveva, accostataglisi, un poco piú di dimestichezza che usata non era gli fece, donde Calandrino la toccò con la scritta. E come tócca l’ebbe, senza dir nulla, volse i passi verso la casa della paglia, dove la Niccolosa gli andò dietro: e come dentro fu, chiuso l’uscio, abbracciò Calandrino ed in su la paglia che era ivi in terra il gittò e saligli addosso a cavalcione, e tenendogli le mani in su gli omeri, senza lasciariosi appressate al viso, quasi come un suo gran disidèro il guardava, dicendo: — O Calandrin mio dolce, cuor del corpo mio, anima mia, ben mio, riposo mio, quanto tempo ho io disiderato d’averti e di poterti tenere a mio senno! Tu m’hai con la piacevolezza tua tratto il filo della camiscia; tu m’hai aggratigliato il cuor con la tua ribeba: può egli esser vero che io ti tenga? — Calandrino, appena potendosi muover, diceva: — Deh! anima mia dolce, lasciamiti basciare. — La Niccolosa diceva: — O tu hai la gran fretta! Lasciamiti prima vedere a mio senno: lasciami saziar gli occhi di questo tuo viso dolce. — Bruno e Buffalmacco n’erano andati da Filippo, e tutti e tre vedevano ed udivano questo fatto; ed essendo giá Calandrino per voler pur la Niccolosa basciare, ed ecco giugner Nello con monna Tessa. Il quale come giunse, disse: — Io fo boto a Dio che sono insieme — ed all’uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava, datovi delle mani, il mandò oltre, ed entrata dentro, vide la Niccolosa addosso a Calandrino; la quale, come la donna vide, subitamente levatasi, fuggí via ed andossene lá dove era Filippo. Monna Tessa corse con l’unghie nel viso a Calandrino, che ancora levato non era, e tutto gliele graffiò; e presolo per li capelli, ed in qua ed in lá tirandolo, cominciò a dire: — Sozzo can vituperato, adunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maladetto sia il bene che io t’ho voluto; adunque non ti pare aver tanto a fare a casa tua, che ti vai innamorando per l’altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo? Non ti conosci tu, dolente, che, premendoti tutto, non uscirebbe tanto sugo che bastasse ad una salsa? Alla fé di Dio, egli non era ora la Tessa quella che t’impregnava, che Dio la faccia trista chiunque ella è, ché ella dèe ben sicuramente esser cattiva cosa ad aver vaghezza di cosí bella gioia come tu se’! — Calandrino, veggendo venir la moglie, non rimase né morto né vivo, né ebbe ardire di far contro di lei difesa alcuna: ma pur cosí graffiato e tutto pelato e rabbuffato, ricolto il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente a pregar la moglie che non gridasse, se ella non volesse che egli fosse tagliato tutto a pezzi, per ciò che colei, che con lui era, era moglie del signor della casa. La donna disse: — Sia, che Iddio le dèa il malanno! — Bruno e Buffalmacco, che con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al romor venendo, colá trassero, e dopo molte novelle rappaceficata la donna, dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se n’andasse e piú non vi tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli facesse male. Cosi adunque Calandrino tristo e cattivo, tutto pelato e tutto graffiato a Firenze tornatosene, piú colá su non avendo ardir d’andare, il dí e la notte molestato ed afflitto da’ rimbrotti della moglie, al suo fervente amor pose fine, avendo molto dato da ridere a’ suoi compagni ed alla Niccolosa ed a Filippo.
- [VI]
- Due giovani albergano con uno, de’ quali l’un si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro; quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendo dire al compagno; fanno romore insieme; la donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
- Calandrino, che altre volte la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de’ fatti del quale poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che dicesse, il quale disse:
- Laudevoli donne, il nome della Niccolosa amata da Calandrino m’ha nella memoria tornata una novella d’un’altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace, per ciò che in essa vedrete, un subito avvedimento d’una buona donna avere un grande scandalo tolto via.
- Nel pian di Mugnone fu, non ha guari, un buono uomo il quale a’ viandanti dava pe’ lor denari mangiare e bere: e come che povera persona fosse ed avesse piccola casa, alcuna volta, per un bisogno grande, non ogni persona, ma alcun conoscente albergava. Ora, aveva costui una sua moglie assai bella femina, della quale aveva due figliuoli: e l’uno era una giovanetta bella e leggiadra, d’etá di quindici o di sedici anni, che ancora marito non avea; l’altro era un fanciul piccolino che ancora non aveva uno anno, il quale la madre stessa allattava. Alla giovane aveva posti gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della nostra cittá, il quale molto usava per la contrada, e focosamente l’amava: ed ella, che d’esser da un cosí fatto giovane amata forte si gloriava, mentre di ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava, di lui similmente s’innamorò; e piú volte per grado di ciascuna delle parti avrebbe tale amore avuto effetto, se Pinuccio, che cosí avea nome il giovane, non avesse schifato il biasimo della giovane ed il suo. Ma pur di giorno in giorno multiplicando l’ardore, venne disidèro a Pinuccio di doversi pur con costei ritrovare, e caddegli nel pensiero di trovar modo di dovere col padre albergare, avvisando, sí come colui che la disposizion della casa della giovane sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto d’esser con lei, senza avvedersene persona; e come nell’animo gli venne, cosí senza indugio mandò ad effetto. Esso insieme con un suo fidato compagno chiamato Adriano, il quale questo amor sapeva, tolti una sera al tardi due ronzini a vettura e postevi su due valige, forse piene di paglia, di Firenze uscirono, e presa una lor volta, sopra il pian di Mugnon cavalcando pervennero essendo giá notte: e di quindi, come se di Romagna tornassero, data la volta, verso le case se ne vennero, ed alla casa del buono uom picchiarono; il quale, sí come colui che molto era dimestico di ciascuno, aperse la porta prestamente. Al quale Pinuccio disse: — Vedi, a te conviene stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere entrare in Firenze, e non ci siamo sí saputi studiare, che noi non siam qui pure a cosí fatta ora, come tu vedi, giunti. — A cui l’oste rispose: — Pinuccio, tu sai bene come io sono agiato di poter cosí fatti uomini come voi siete, albergare: ma pur, poi che questa ora v’ha qui sopraggiunti, né tempo c’è da potere andare altrove, io v’albergherò volentieri come io potrò. — Smontati adunque i due giovani e nell’alberghetto entrati, primieramente i lor ronzini adagiarono, ed appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con l'oste cenarono. Ora, non avea l’oste che una cameretta assai piccola, nella quale eran tre letticelli messi come il meglio l’oste avea saputo: né v’era per tutto ciò tanto di spazio rimaso, essendone due dall’una delle facce della camera ed il terzo di rincontro a quegli dall’altra, che altro che strettamente andar vi si potesse. Di questi tre letti fece l’oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e fecegli coricare; poi, dopo alquanto, non dormendo alcun di loro, come che di dormir mostrassero, fece l’oste nell’un de’ due che rimasi erano coricar la figliuola, e nell’altro s’entrò egli e la donna sua, la quale allato del letto dove dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva. Ed essendo le cose in questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto spazio, parendogli che ogni uomo addormentato fosse, pianamente levatosi, se n’andò al letticello dove la giovane amata da lui si giaceva, e miselesi a giacere allato; dalla quale, ancora che paurosamente il facesse, fu lietamente raccolto, e con essolei, di quel piacere che piú disideravano prendendo, si stette. E standosi cosí Pinuccio con la giovane, avvenne che una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentí; per che levatasi, temendo non fosse altro, cosí al buio come era, se n’andò lá dove sentito aveva il romore. Adriano, che a ciò non avea l’animo, per avventura per alcuna opportunitá natural si levò, alla quale espedire andando, trovò la culla postavi dalla donna, e non potendo senza levarla oltrepassare, presala, la levò del luogo dove era e posela allato al letto dove esso dormiva: e fornito quello per che levato s’era, e tornandosene, senza della culla curarsi, nel letto se n’entrò. La donna, avendo cerco, e trovato che quello che caduto era non era tal cosa, non si curò d’altramenti accender lume per vederlo, ma garrito alla gatta, nella cameretta se ne tornò, ed a tentone dirittamente al letto dove il marito dormiva se n’andò: ma non trovandovi la culla, disse seco stessa: — Oimè, cattiva me! vedi quel che io faceva: in fé di Dio, che io me n’andava dirittamente nel letto degli osti miei! — E fattasi un poco piú avanti e trovata la culla, in quello letto al quale ella era allato, insieme con Adriano si coricò, credendosi col marito coricare. Adriano, che ancora raddormentato non era, sentendo questo, la ricevette bene e lietamente: e senza fare altramenti motto, da una volta insú caricò l’orza con gran piacer della donna. E cosí stando, temendo Pinuccio non il sonno con la sua giovane il soprapprendesse, avendone quel piacer preso che egli disiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si levò da lato, e lá venendone, trovando la culla, credette quello essere quel dell’oste; per che, fattosi un poco piú avanti, insieme con l’oste si coricò, il quale per la venuta di Pinuccio si destò. Pinuccio, credendosi essere allato ad Adriano, disse: — Ben ti dico che mai si dolce cosa non fu come è la Niccolosa! Al corpo di Dio, io ho avuto con lei il maggior diletto che mai uomo avesse con femina: e dicoti che io sono andato da sei volte insuso in villa, poscia che io mi partii quinci. — L’oste, udendo queste novelle e non piacendogli troppo, prima disse seco stesso: — Che diavol fa costui qui? — poi, piú turbato che consigliato, disse: — Pinuccio, la tua è stata una gran villania, e non so perché tu mi t’abbi a far questo: ma per lo corpo di Dio, io te ne pagherò. — Pinuccio, che non era il piú savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse ad emendare come meglio avesse potuto, ma disse: — Di che mi pagherai? Che mi potrestú far tu? — La donna dell’oste, che col marito si credeva essere, disse ad Adriano: — Oimè! odi gli osti nostri che hanno non so che parole insieme. — Adriano ridendo disse: — Lasciagli far, che Iddio gli metta in malanno: essi bevver troppo iersera. — La donna, parendole avere udito il marito garrire ed udendo Adriano, incontanente conobbe lá dove stata era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola dire, subitamente si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola e con lei si coricò: e quasi desta fosse per lo romor del marito, il chiamò, e domandollo che parole egli avesse con Pinuccio. Il marito rispose: — Non odi tu ciò che dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa? — La donna disse: — Egli mente ben per la gola, ché con la Niccolosa non è egli giaciuto: che io mi ci coricai io in quel punto che io non ho mai poscia potuto dormire; e tu se’ una bestia che gli credi. Voi bevete tanto la sera, che poscia sognate la notte ed andate in qua ed in lá senza sentirvi, e parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costí Pinuccio? Perché non si sta egli nel letto suo? — D’altra parte, Adriano, veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva, disse: — Pinuccio, io te l’ho detto cento volte che tu non vada attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno e di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala ventura; torna qua, che Iddio ti dèa la mala notte! — L’oste, udendo quello che la donna diceva e quello che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene che Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo ’ncominciò a dimenare ed a chiamar, dicendo: — Pinuccio, dèstati; tornati al letto tuo. — Pinuccio, avendo raccolto ciò che detto s’era, cominciò, a guisa d’uom che sognasse, ad entrare in altri farnetichi; di che l’oste faceva le maggiori risa del mondo. Alla fine, pur sentendosi dimenare, fece sembianti di destarsi, e chiamando Adrian, disse: — È egli ancora dí, che tu mi chiami? — Adriano disse: — Sí, vienne qua. — Costui, infignendosi e mostrandosi ben sonnacchioso, alla fine si levò da lato all’oste e tornossi al letto con Adriano; e venuto il giorno e levatosi l’oste, incominciò a ridere ed a farsi beffe di lui e de’ suoi sogni. E cosí d’uno in altro motto, acconci i due giovani i lor ronzini e messe le lor valige e bevuto con l’oste, rimontati a cavallo se ne vennero a Firenze, non meno contenti del modo in che la cosa avvenuta era, che dell’effetto stesso della cosa. E poi appresso, trovati altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre affermava, lui fermamente aver sognato; per la qual cosa la donna, ricordandosi dell’abbracciar d’Adriano, sola seco diceva d’aver vegghiato.
- [VII]
- Talano d’Imolese sogna che un lupo squarcia tutta la gola ed il viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella noi fa, ed avvienle.
- Essendo la novella di Panfilo finita e l’avvedimento della donna commendato da tutti, la reina a Pampinea disse che dicesse la sua; la quale allora cominciò:
- Altra volta, piacevoli donne, delle veritá dimostrate da’ sogni, le quali molte scherniscono, s’è tra noi ragionato; e però, come che detto ne sia, non lascerò io che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello che ad una mia vicina, non è ancora guari, addivenne, per non crederne uno di lei dal marito veduto.
- Io non so se voi vi conosceste Talano d’Imolese, uomo assai onorevole. Costui, avendo una giovane chiamata Margherita, bella tra tutte l’altre, per moglie presa, ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa, intanto che a senno di niuna persona voleva fare alcuna cosa, né altri farla poteva a suo; il che quantunque gravissimo fosse a comportare a Talano, non potendo altro fare, sel sofferiva. Ora, avvenne una notte, essendo Talano con questa sua Margherita in contado ad una lor possessione, che, dormendo egli, gli parve in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano: e mentre cosí andar la vedeva, gli parve che d’una parte del bosco uscisse un grande e fiero lupo, il quale prestamente s’avventava alla gola di costei e tiravala in terra, e lei gridante aiuto si sforzava di tirar via; e poi di bocca uscitagli, tutta la gola ed il viso pareva l’avesse guasto. Il quale la mattina appresso levatosi, disse alla moglie: — Donna, ancora che la tua ritrosia non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un buon di con teco, pur sarei io dolente quando mal t’avvenisse: e per ciò, se tu crederai al mio consiglio, tu non uscirai oggi di casa. — E domandato da lei del perché, ordinatamente le contò il sogno suo. La donna, crollando il capo, disse: — Chi mal ti vuol, mal ti sogna; tu ti fai molto di me pietoso, ma tu sogni di me quello che tu vorresti vedere: e per certo io me ne guarderò, ed oggi e sempre, di non farti né di questo né d’altro mio male mai allegro. — Disse allora Talano: — Io sapeva bene che tu dovevi dir cosí, per ciò che cotal grado ha chi tigna pettina: ma credi che ti piace, io per me il dico per bene, ed ancora da capo te ne consiglio che tu oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d’andare nel nostro bosco. — La donna disse: — Bene io il farò — e poi seco stessa cominciò a dire: — Hai veduto come costui maliziosamente si crede avermi messa paura d’andare oggi al bosco nostro, lá dove egli per certo dèe aver data posta a qualche cattiva, e non vuole che io il vi truovi? Oh! egli avrebbe buon manicar co’ ciechi, ed io sarei bene sciocca se io nol conoscessi e se io il credessi! Ma per certo el non gli verrá fatto: el convien pur che io veggia, se io vi dovessi star tuttodí, che mercatantía debba esser questa che egli oggi far vuole. — E come questo ebbe detto, uscito il marito da una parte della casa, ed ella uscí dall’altra: e come piú nascosamente potè, senza alcuno indugio se n’andò nel bosco, ed in quello, nella piú folta parte che v’era, si nascose, stando attenta e guardando or qua or lá se alcuna persona venir vedesse. E mentre in questa guisa stava senza alcun sospetto di lupo, ed ecco vicino a lei uscir d’una macchia folta un lupo grande e terribile: né potè ella, poi che veduto l’ebbe, appena dire — Domine, aiutami! — che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala forte, la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto. Essa non poteva gridare, sí aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che, portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l’avrebbe, se in certi pastori non si fosse scontrato, li quali, sgridandolo, a lasciarla il costrinsero: ed essa, misera e cattiva, da’ pastori riconosciuta ed a casa portatane, dopo lungo studio da’ medici fu guerita, ma non sí, che tutta la gola ed una parte del viso non avesse per sí fatta maniera guasta, che, dove prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contraffatta. Laonde ella, vergognandosi d’apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse la sua ritrosia ed il non avere, in quello che niente le costava, al vero sogno del marito voluta dar fede.
- [VIII]
- Biondello fa una beffa a Ciacco d’un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica faccendo lui sconciamente battere.
- Universalmente ciascun della lieta compagnia disse, quello che Talano veduto aveva dormendo, non essere stato sogno ma visione, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era avvenuto.
- Ma tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse; la qual disse:
- Come costoro, savissime donne, che oggi davanti da me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa giá detta mossi sono stati a ragionare, cosí me muove la rigida vendetta, ieri raccontata da Pampinea, che fe’ lo scolare, a dover dire d’una assai grave a colui che la sostenne, quantunque non fosse per ciò tanto fiera; e per ciò dico che
- Essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco, uomo ghiottissimo quanto alcuno altro fosse giá mai, e non potendo la sua possibilitá sostener le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede ad essere, non del tutto uom di corte ma morditore, e ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano: e con questi a desinare ed a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai sovente. Era similmente in que’ tempi in Firenze uno il quale era chiamato Biondello, piccoletto della persona, leggiadro molto e piú pulito che una mosca, con una sua cuffia in capo, con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi, il quale quel medesimo mestiere usava che Ciacco; il quale, essendo una mattina di quaresima andato lá dove il pesce si vende e comperando due grossissime lamprede per messer Vieri de’ Cerchi, fu veduto da Ciacco, il quale, avvicinatosi a Biondello, disse: — Che vuol dir questo? — A cui Biondel rispose: — Iersera ne furon mandate tre altre troppo piú belle che queste non sono ed uno storione a messer Corso Donati, le quali non bastandogli per voler dar mangiare a certi gentili uomini, m’ha fatte comperare queste altre due: non vi verrai tu? — Rispose Ciacco: — Ben sai che io vi verrò. — E quando tempo gli parve, a casa messer Corso se n’andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che ancora non era andato a desinare; al quale egli, essendo da lui domandato che andasse faccendo, rispose: — Messere, io vengo a desinar con voi e con la vostra brigata. — A cui messer Corso disse: — Tu sii il ben venuto: e per ciò che egli è tempo, andianne. — Postisi adunque a tavola, primieramente ebbero del cece e della sorra, ed appresso del pesce d’Arno fritto, senza piú. Ciacco, accortosi dello ’nganno di Biondello ed in sé non poco turbatosene, propose di dovernel pagare: né passâr molti dí, che egli in lui si scontrò, il qual giá molti aveva fatti rider di questa beffa. Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò chenti fossero state le lamprede di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse: — Avanti che otto giorni passino tu il saprai molto meglio dir di me. — E senza mettere indugio al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattier si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de’ Cavicciuli e mostrògli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti, uom grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracondo e bizzarro piú che altro, e dissegli: — Tu te n’andrai a lui con questo fiasco in mano e dira’gli cosi: — Messere, a voi mi manda Biondello, e mándavi pregando che vi piaccia d’arrubinargli questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ché si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri. — E sta’ bene accorto che egli non ti ponesse le mani addosso, per ciò che egli ti darebbe il mal dí, ed avresti guasti i fatti miei. — Disse il barattiere: — Ho io a dire altro? — Disse Ciacco: — No, va’ pure; e come tu hai questo detto, torna qui a me col fiasco, ed io ti pagherò. — Mossosi adunque il barattiere, fece a messer Filippo l’ambasciata. Messer Filippo, udito costui, come colui che piccola levatura avea, avvisando che Biondello, il quale egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto nel viso, dicendo: — Che «arrubinatemi» e che «zanzeri» son questi, che nel malanno metta Iddio te e lui? — si levò in piè e distese il braccio per pigliar con la mano il barattiere: ma il barattiere, come colui che attento stava, fu presto e fuggí via, e per altra parte ritornò a Ciacco, il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva detto. Ciacco contento pagò il barattiere, e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Biondello; al quale egli disse: — Fostu a questa pezza dalla loggia de’ Cavicciuli? — Rispose Biondello: — Mai no; perché me ne domandi tu? — Disse Ciacco: — Per ciò che io ti so dire che messer Filippo ti fa cercare; non so quel che si vuole. — Disse allora Biondello: — Bene, io vo verso lá, io gli farò motto. — Partitosi Biondello, Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in se medesimo si rodea, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del mondo trarre altro, se non che Biondello, ad istanza di cui che sia, si facesse beffe di lui: ed in questo che egli cosí si rodeva, e Biondel venne. Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli die’ nel viso un gran punzone. — Oimè! messer, — disse Biondel — che è questo? — Messer Filippo, presolo per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio per terra e dandogli tuttavia forte, diceva: — Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è; che «arrubinatemi» e che «zanzeri» mi mandi tu dicendo a me? Paioti io fanciullo da dovere essere uccellato? — E cosí dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse, e convoltolo per lo fango, tutti i panni indosso gli stracciò: e sí a questo fatto si studiava, che pure una volta dalla prima innanzi non gli potè Biondello dire una parola né domandare perché questo gli facesse; aveva egli bene inteso dell’«arrubinatemi» e de’ «zanzeri», ma non sapeva che ciò si volesse dire. Alla fine, avendol messer Filippo ben battuto ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano cosí rabbuffato e malconcio come era, e dissergli perché messer Filippo questo avea fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli aveva dicendo, e dicendogli che egli doveva bene oggimai conoscere messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui. Biondello, piagnendo, si scusava e diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino: ma poi che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente se ne tornò a casa, avvisando questa essere stata opera di Ciacco. E poi che dopo molti dí, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il domandò: — Biondello, chente ti parve il vino di messer Filippo? — Rispose Biondello: — Tali fosser parute a te le lamprede di messer Corso! — Allora disse Ciacco: — A te sta oramai: qualora tu mi vuogli cosí ben dare da mangiare come facesti, io darò a te cosí ben da ber come avesti. — Biondello, che conosceva che contro a Ciacco egli poteva piú aver mala voglia che opera, pregò Iddio della pace sua, e da indi innanzi si guardò di mai piú beffarlo.
- [IX]
- Due giovani domandan consiglio a Salamone, l’uno come possa essere amato, l’altro come gastigare debba la moglie ritrosa; all’un risponde che ami ed all’altro che vada al Ponte all’oca.
- Niuno altro che la reina, volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare; la qual, poi che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta cominciò cosí a parlare:
- Amabili donne, se con sana mente sará riguardato l’ordine delle cose, assai leggermente si conoscerá, tutta l’universal moltitudine delle femine dalla natura e da’ costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e secondo la discrezione di quegli convenirsi reggere e governare: e però ciascuna che quiete, consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a’ quali s’appartiene, dèe essere umile, paziente ed obediente, oltre all’essere onesta, il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia. E quando a questo le leggi, le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l’usanza, o costume che vogliamo dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne’ corpi dilicate e morbide, negli animi timide e paurose, nelle menti benigne e pietose, ed hacci date le corporali forze leggère, le voci piacevoli ed i movimenti de’ membri soavi: cose tutte testificanti, noi avere dell’altrui governo bisogno. E chi ha bisogno d’essere aiutato e governato, ogni ragion vuol, lui dovere essere obediente e suggetto e reverente al governator suo: e cui abbiam noi governatori ed aiutatori se non gli uomini? Adunque agli uomini dobbiamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte, estimo che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d’aspro gastigamento. Ed a cosí fatta considerazione, come che altra volta avuta l’abbia, pur poco fa mi ricondusse ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò; alla quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo: e per ciò nel mio giudicio cape, tutte quelle esser degne, come giá dissi, di rigido ed aspro gastigamento, che dall’esser piacevoli, benivole e pieghevoli, come la natura, l’usanza e le leggi voglion, si partono. Per che m’aggrada di raccontarvi un consiglio renduto da Salamone, sí come utile medicina a guerire quelle che cosí son fatte da cotal male; il quale niuna che di tal medicina degna non sia, reputi ciò esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone». Le quali parole chi volesse sollazzevolemente interpetrare, di leggeri si concederebbe da tutte cosí esser vero: ma pur volendole moralmente intendere, dico che è da concedere. Son naturalmente le femine tutte labili ed inchinevoli, e perciò, a correggere l’iniquitá di quelle che troppo fuori de’ termini posti loro si lasciano andare, si conviene il baston che le punisca, ed a sostentar la vertú dell’altre, ché trascorrer non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi. Ma lasciando ora stare il predicare, a quel venendo che di dire ho nell’animo, dico che
- Essendo giá quasi per tutto il mondo l’altissima fama del miracoloso senno di Salamone discorsa per l’universo, ed il suo esser di quello liberalissimo mostratore a chiunque per esperienza ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro strettissimi ed ardui bisogni concorrevano per consiglio: e tra gli altri che a ciò andavano, si partì un giovane il cui nome fu Melisso, nobile e ricco molto, della cittá di Laiazzo, lá onde egli era e dove egli abitava. E verso Ierusalem cavalcando, avvenne che, uscendo d’Antiochia, con uno altro giovane chiamato Giosefo, il quale quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò per alquanto spazio; e come costume è de’ camminanti, con lui cominciò ad entrare in ragionamenti. Avendo Melisso giá da Giosefo di sua condizione e donde fosse saputo, dove egli andasse e perché, il domandò; al quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie piú che altra femina ritrosa e perversa, la quale egli né con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle sue ritrosie ritrar poteva. Ed appresso, lui similmente, donde fosse e dove andasse e perché, domandò; al quale Melisso rispose: — Io son di Laiazzo, e sí come tu hai una disgrazia, cosí n’ho io un’altra: io son ricco giovane e spendo il mio in metter tavola ed onorare i miei cittadini, ed è nuova e strana cosa a pensare che, per tutto questo, io non posso trovare uomo che ben mi voglia; e per ciò io vado dove tu vai, per aver consiglio come addivenir possa che io amato sia. — Camminarono adunque i due compagni insieme, ed in Ierusalem pervenuti, per introdotto d’un de’ baroni di Salamone, davanti da lui furon messi, al quale brievemente Melisso disse la sua bisogna; a cui Salamone rispose: — Ama. — E detto questo, prestamente Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v’era; al quale Salamone nulla altro rispose se non: — Va’ al Ponte all’oca. — Il che detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso il quale l’aspettava, e dissegli ciò che per risposta aveva avuto. Li quali, a queste parole pensando e non potendo d’esse comprendere né intendimento né frutto alcuno per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro entrarono in cammino: e poi che alquante giornate camminati furono, pervennero ad un fiume sopra il quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana di some sopra muli e sopra cavalli passavano, lor convenne sofferir di passar tanto che quelle passate fossero. Ed essendo giá quasi che tutte passate, per ventura v’ebbe un mulo il quale adombrò, sí come sovente gli veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un mulattiere, presa una stecca, prima assai temperatamente lo ’ncominciò a battere perché el passasse. Ma il mulo ora da questa parte della via ed ora da quella attraversandosi, e talvolta indietro tornando, per niun partito passar volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo adirato gl’incominciò con la stecca a dare i maggior colpi del mondo, ora nella testa ed ora ne’ fianchi ed ora sopra la groppa: ma tutto era nulla. Per che Melisso e Giosefo, li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere: — Deh! cattivo, che farai? Vuoil tu uccidere? Perché non t’ingegni tu di menarlo bene e pianamente? Egli verrá piú tosto che a bastonarlo come tu fai. — A’ quali il mulattier rispose: — Voi conoscete i vostri cavalli, ed io conosco il mio mulo: lasciate far me con lui. — E questo detto, rincominciò a bastonarlo, e tante d’una parte e d’altra ne gli die’, che il mulo passò avanti, sí che il mulattiere vinse la pruova. Essendo adunque i due giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo il quale a capo del ponte sedeva, come quivi si chiamasse; al quale il buono uomo rispose: — Messer, qui si chiama il Ponte all’oca. — Il che come Giosefo ebbe udito, cosí si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso Melisso: — Or ti dico io, compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia: ma questo mulattiere m’ha mostrato quello che io abbia a fare. — Quindi, dopo alquanti di venuti ad Antiochia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dí: ed essendo assai ferialmente dalla donna ricevuto, le disse che cosí facesse far da cena come Melisso divisasse; il quale, poi vide che a Giosefo piaceva, in poche parole se ne diliberò. La donna, sí come per lo passato era usata, non come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario fece; il che Giosefo veggendo, turbato disse: — Non ti fu egli detto in che maniera tu facessi questa cena fare? — La donna, rivoltasi con orgoglio, disse: — Ora, che vuol dir questo? Deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me parve da far cosí: se ti piace, sí ti piaccia; se non, sí te ne sta’. — Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e biasimolla assai. Giosefo, udendo questo, disse: — Donna, ancor se’ tu quel che tu suogli, ma credimi che io ti farò mutar modo. — Ed a Melisso rivolto, disse: — Amico, tosto vedremo chente sia stato il consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di reputare per un giuoco quello che io farò. Ed acciò che tu non m’impediscili, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del suo mulo c’increbbe. — Al quale Melisso disse: — Io sono in casa tua, dove dal tuo piacere io non intendo di mutarmi. — Giosefo, trovato un baston tondo d’un querciuolo giovane, se n’andò in camera, dove la donna, per istizza da tavola levatasi, brontolando se n’era andata, e presala per le trecce, la si gittò a’ piedi e cominciolla fieramente a battere con questo bastone. La donna cominciò prima a gridare e poi a minacciare: ma veggendo che per tutto ciò Giosefo non ristava, giá tutta rotta cominciò a chieder mercé per Dio che egli non l’uccidesse, dicendo oltre a ciò di mai dal suo piacer non partirsi. Giosefo per tutto questo non rifinava, anzi con piú furia l’una volta che l’altra, or per lo costato, ora per l’anche ed ora su per le spalle battendola forte, l’andava le costure ritrovando, né prima ristette che egli fu stanco: ed in brieve, niuno osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata non fosse; e questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli: — Doman vedremo che pruova avrá fatto il consiglio del Va’ al Ponte all’oca». — E riposatosi alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo, s’andarono a riposare. La donna cattivella a gran fatica si levò di terra ed in sul letto si gittò, dove, come potè il meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe’ domandar Giosefo di quello che voleva si facesse da desinare. Egli, di ciò insieme ridendosi con Melisso, il divisò; e poi, quando fu ora, tornati, ottimamente ogni cosa e secondo l’ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio prima da lor male inteso sommamente lodarono. E dopo alquanti di, partitosi Melisso da Giosefo e tornato a casa sua, ad alcun che savio uomo era, disse ciò che da Salamone avuto avea; il quale gli disse: — Niun piú vero consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai che tu non ami persona, e gli onori ed i servigi li quali tu fai, gli fai non per amore che tu ad alcun porti, ma per pompa. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato. — Cosí adunque fu gastigata la ritrosa ed il giovane amando fu amato.
- [X]
- Donno Gianni ad istanza di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo ’ncantamento.
- Questa novella dalla reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a’ giovani; ma poi che ristate furono, Dioneo cosí cominciò a parlare:
- Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne piú di bellezza un nero corvo che non farebbe un candido cigno: e cosí tra molti savi alcuna volta un men savio è atto non solamente a crescere splendore e bellezza alla loro maturitá, ma ancora diletto e sollazzo. Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il quale sento anzi dello scemo che no, faccendo la vostra vertú piú lucente col mio difetto, piú vi debbo esser caro che se con piú valore quella facessi divenir piú oscura: e per conseguente piú largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal quale io sono, e piú pazientemente dèe da voi esser sostenuto che non dovrebbe se io piú savio fossi, quel dicendo che io dirò. Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente si convengano osservare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza d’incantamento fanno e quanto piccol fallo in quelle commesso ogni cosa guasti dallo ’ncantator fatta.
- L’altranno fu a Barletta un prete chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera chiesa aveva, per sostentar la vita sua con una cavalla cominciò a portar mercatantia in qua ed in lá per le fiere di Puglia ed a comperare ed a vendere. E cosí andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti, che quel medesimo mestiere con un suo asino faceva, ed in segno d’amorevolezza e d’amistá, alla guisa pugliese, nol chiamava se non compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva, l’onorava. Compar Pietro, d’altra parte, essendo poverissimo ed avendo una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie ed all’asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava, tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento dell’onor che da lui in Barletta riceveva, l’onorava. Ma pure al fatto dell’albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol letticello nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva: ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanta di paglia si giacesse. La donna, sappiendo l’onor che il prete faceva al marito a Barletta, era piú volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina che aveva nome zita Carapresa di giudice Leo, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, ed avevalo molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto; e tra l’altre volte, una le disse: — Comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto bene, per ciò che, quando mi piace, io fo questa cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi, quando voglio, la fo diventar cavalla: e per ciò non mi partirei da lei. — La giovane si maravigliò e credettelo, ed al marito il disse, aggiugnendo: — Se egli è cosí tuo come tu di’, ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, che tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e guadagneremmo due cotanti? E quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono. — Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no, credette questo fatto ed accordossi al consiglio: e come meglio seppe, cominciò a sollecitar donno Gianni che questa cosa gli dovesse insegnare. Donno Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse: — Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, ed io vi mostrerò come si fa; è il vero che quello che piú è malagevole in questa cosa si è l’appiccar la coda, come tu vedrai. — Compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo la notte dormito, con tanto disidèro questo fatto aspettavano, come vicino a dí fu, si levarono e chiamarono donno Gianni; il quale, in camiscia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse: — Io non so al mondo persona a cui io questo facessi se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto. — Costoro dissero di far ciò che egli dicesse; per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar Pietro e dissegli: — Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a mente come io dirò: e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che, per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s’appicchi bene. — Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe. Appresso, donno Gianni fece spogliare ignuda nata comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ piedi in terra a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa, cominciò a dire: — Questa sia bella testa di cavalla. — E toccandole i capelli, disse: — Questi sieno belli crini di cavalla. — E poi toccandole le braccia, disse: — E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla. — Poi, toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su levandosi, disse: — E questo sia bel petto di cavalla. — E cosí fece alla schiena ed al ventre ed alle groppe ed alle cosce ed alle gambe: ed ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camiscia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: — E questa sia bella coda di cavalla. — Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene, disse: — O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda! — Era giá l’umido radicale per lo quale tutte le piante s’appiccano, venuto, quando donno Gianni, tiratolo indietro, disse: — Oimè! compar Pietro, che hai tu fatto? Non ti dissi io che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasta ogni cosa, né piú ci ha modo da poterla rifare oggimai. — Compar Pietro disse: — Bene sta; io non vi voleva quella coda io; perché non dicevate voi a me: — Falla tu — ? Ed anche, l’appiccavate troppo bassa. — Disse donno Gianni: — Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa appiccar sí come io. — La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di buona fé disse al marito: — Deh! bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi fatti ed i miei? Qual cavalla vedestu mai senza coda? Se m’aiuti Iddio, tu se’ povero, ma egli sarebbe mercé che tu fossi molto piú. — Non avendo adunque piú modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette avea compar Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico: e con donno Gianni insieme n’andò alla fiera di Bitonto, né mai piú di tal servigio il richiese.
- Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderá. Ma essendo le novelle finite ed il sole giá cominciando ad intiepidire, e la reina conoscendo la fine della sua signoria esser venuta, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo di cosí fatto onore restava ad onorare, e sorridendo disse: — Signor mio, gran carico ti resta, sí come è l’avere il mio difetto e degli altri che il luogo hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l’ultimo, ad emendare; di che Iddio ti presti grazia, come a me l’ha prestata di farti re.
- Panfilo, lietamente l’onor ricevuto, rispose: — La vostra vertú e degli altri miei sudditi fará sí, che io, come gli altri sono stati, sarò da lodare. — E secondo il costume de’ suoi predecessori, col siniscalco delle cose opportune avendo disposto, alle donne aspettanti si rivolse, e disse:
- Innamorate donne, la discrezion d’Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo alle vostre forze, arbitrio vi die’ di ragionare ciò che piú vi piacesse; per che, giá riposati essendo, giudico che sia bene il ritornare alla legge usata, e per ciò voglio che domane ciascuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè di chi liberamente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa. Questo così, e dicendo e faccendo, senza alcun dubbio gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderá, che la vita nostra, che altro che brieve esser non può nel mortal corpo, si perpetuerá nella laudevole fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non serve, dèe non solamente disiderare, ma con ogni studio cercare ed operare.
- Il tema piacque alla lieta brigata, la quale, con licenza del nuovo re, tutta levatasi da sedere, agli usati diletti si diede, ciascuno secondo quello a che piú dal disidèro era tirato: e cosi fecero infino all’ora della cena. Alla quale con festa venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si levarono a’ balli costumati, e forse mille canzonette piú sollazzevoli di parole che di canto maestrevoli avendo cantate, comandò il re a Neifile che una ne cantasse a suo nome; la quale con voce chiara e lieta cosí piacevolmente e senza indugio incominciò:
- Io mi son giovanetta, e volentieri
- m’allegro e canto en la stagion novella,
- merzé d’Amore e de’ dolci pensieri.
- Io vo pe’ verdi prati riguardando
- i bianchi fiori e gialli ed i vermigli,
- le rose in su le spine e’ bianchi gigli,
- e tutti quanti gli vo somigliando
- al viso di colui che me amando
- ha presa e terrá sempre, come quella
- ch’altro non ha in disio che’ suoi piaceri.
- De’ quai quand’io ne truovo alcun che sia,
- al mio parer, ben simile di lui,
- il colgo e bascio, e parlomi con lui,
- e com’io so, cosí l’anima mia
- tututta gli apro, e ciò che ’l cuor disia;
- quindi con altri il metto in ghirlandella,
- legato co’ miei crin biondi e leggeri.
- E quel piacer che di natura il fiore
- agli occhi porge, quel simil mel dona
- che s’io vedessi la propria persona
- che m’ha accesa del suo dolce amore;
- quel che mi faccia piú il suo odore,
- esprimer nol potrei con la favella,
- ma i sospir miei ne son testimon veri.
- Li quai non escon giá mai del mio petto,
- come dell’altre donne, aspri né gravi,
- ma se ne vengon fuor caldi e soavi,
- ed al mio amor sen vanno nel cospetto;
- il qual, come gli sente, a dar diletto
- di sé a me si move e viene in quella
- ch’i’ son per dir: — Deh! vien’, ch’i’ non disperi. —
- Assai fu e dal re e da tutte le donne commendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che giá molta notte andata n’era, comandò il re che ciascuno per infino al giorno s’andasse a riposare.
- * * *
- * * *
- finisce la nona giornata del decameron; incomincia la decima ed ultima, nella quale, sotto il reggimento di panfilo, si ragiona di chi liberamente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa.
- * * *
- Indice
- Introduzione
- Novella prima
- Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
- Novella seconda
- Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e mèdicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa, e fallo friere dello Spedale.
- Novella terza
- Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
- Novella quarta
- Messer Gentil de’ Carisendi, venuto da Mòdona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio; e messer Gentile lei ed il figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico marito di lei.
- Novella quinta
- Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messere Ansaldo con l’obligarsi ad uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, ed il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo.
- Novella sesta
- Il re Carlo vecchio vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei ed una sua sorella onorevolmente marita.
- Novella settima
- Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un gentil giovane la marita; e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo cavaliere.
- Novella ottava
- Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a Roma; dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma; Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto, il che colui che fatto l’avea vedendo, sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
- Novella nona
- Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l’onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n’è recato a Pavia, e alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
- Novella decima
- Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d’un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto di uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra, e come marchesana l’onora e fa onorare.
- Conclusione
- * * *
- Ancora eran vermigli certi nuvoletti nell’occidente, essendo giá quegli dell’oriente, nelle loro estremitá simili ad oro, lucentissimi divenuti per li solari raggi che, molto loro avvicinandosi, li fedieno, quando Panfilo, levatosi, le donne ed i suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero a lor diletto, con lento passo si mise innanzi, accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli: e molte cose della loro futura vita insieme parlando, e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s’andaron diportando: e data una volta assai lunga, cominciando il sole giá troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla chiara fonte, fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi tra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di mangiare s’andarono sollazzando; e poi che ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a Neifile, la quale lietamente cosí cominciò:
- [I]
- Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienza certissima gli mostra non esser colpa di lui ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
- Grandissima grazia, onorabili donne, reputarmi debbo che il nostro re me a tanta cosa come è a raccontar della magnificenza, m’abbia preposta; la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza ed ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra vertú. Dironne adunque una novelletta assai leggiadra, al mio parere, la quale rammemorarsi per certo non potrá esser se non utile.
- Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra cittá, fu un di quegli, e forse il piú da bene, messer Ruggeri de’ Figiovanni; il quale, essendo e ricco e di grande animo, e veggendo che, considerata la qualitá del vivere e de’ costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso ad Anfonso, re di Spagna, la fama del valore del quale quella di ciascuno altro signor trapassava a que’ tempi: ed assai onorevolmente in armi ed in cavalli ed in compagnia a lui se n’andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto. Quivi adunque dimorando messer Ruggeri e splendidamente vivendo ed in fatti d’arme maravigliose cose faccendo, assai tosto si fece per valoroso conoscere. Ed essendovi giá buon tempo dimorato, molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora ad uno ed ora ad uno altro donasse castella e cittá e baronie assai poco discretamente, sí come dandole a chi nol valea: e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò ed al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e donògli una delle miglior mule che mai si cavalcasse, e la piú bella, la quale per lo lungo cammino che a fare avea fu cara a messer Ruggeri. Appresso questo, commise il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s’ingegnasse di cavalcare con messer Ruggeri in guisa che egli non paresse dal re mandato, ed ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse sí, che ridire gliele sapesse, e l’altra mattina appresso, gli comandasse che egli indietro al re tornasse. Il famigliare, stato attento, come messer Ruggeri uscí della terra, cosí assai acconciamente con lui si fu accompagnato, dandogli a vedere che esso veniva verso Italia. Cavalcando adunque messer Ruggeri sopra la mula dal re datagli, e con costui d’una cosa e d’altra parlando, essendo vicino ad ora di terza, disse: — Io credo che sia ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie. — Ed entrati in una stalla, tutte l’altre fuor che la mula stallarono; per che, cavalcando avanti, stando sempre lo scudiere attento alle parole del cavaliere, vennero ad un fiume, e quivi abbeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume. Il che veggendo messer Ruggeri, disse: — Deh! dolente ti faccia Iddio, bestia, ché tu se’ fatta come il signore che a me ti donò. — Il famigliare questa parola ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dí seco, niuna altra se non in somma lode del re dir ne gli udí; per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggeri incontanente tornò addietro. Ed avendo giá il re saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamare, con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato o vero la mula a lui. Messer Ruggeri con aperto viso gli disse: — Signor mio, per ciò ve l’assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene e dove si converrebbe non date, cosí ella dove si conveniva non istallò e dove non si convenia sí. — Allora disse il re: — Messer Ruggeri, il non avervi donato come fatto ho a molti li quali a comparazion di voi da niente sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d’ogni gran dono: ma la vostra fortuna, che lasciato non m’ha, in ciò ha peccato e non io. E che io dica vero, io il vi mostrerò manifestamente. — A cui messer Ruggeri rispose: — Signor mio, io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol disiderava per esser piú ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia vertú: nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta, e son presto di veder ciò che vi piacerá, quantunque io vi creda senza testimonio. — Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sí come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, ed in presenza di molti gli disse: — Messer Ruggeri, nell’un di questi forzieri è la mia corona, la verga reale ed il pomo e molte mie belle cinture, fermagli, anella ed ogni altra cara gioia che io ho; l’altro è pieno di terra. Prendete adunque l’uno, e quello che preso avrete si sia vostro: e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la vostra fortuna. — Messer Ruggeri, poscia che vide cosí piacere al re, prese l’uno, il quale il re comandò che fosse aperto: e trovossi esser quello che era pien di terra; laonde il re ridendo disse: — Ben potete vedere, messer Ruggeri, che quello è vero che io vi dico della fortuna: ma certo il vostro valor merita che io m’opponga alle sue forze. Io so che voi non avete animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né cittá, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare e della vostra vertú con la testimonianza de’ miei doni meritamente gloriarvi possiate co’ vostri vicini. — Messer Ruggeri, presolo e quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana.
- [II]
- Ghino di Tacco piglia l’abate di Cligni e medicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa, e fállo friere dello Spedale.
- Lodata era giá stata la magnificenza del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse; la quale prestamente incominciò:
- Dilicate donne, l’essere stato un re magnifico e l’avere la sua magnificenza usata verso colui che servito l’avea non si può dire che laudevole e gran cosa non sia: ma che direm noi se si racconterá, un cherico aver mirabil magnificenza usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro, se non che quella del re fosse vertú e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo piú che le femine sieno, e d’ogni liberalitá nemici a spada tratta; e quantunque ogni uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienza predichino e sommamente la remission dell’offese commendino, piú focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.
- Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nemico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, ed in quel dimorando, chiunque per le circostanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Cligni, il quale si crede essere un de’ piú ricchi prelati del mondo: e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo; per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con gran pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse: e questo fatto, un de’ suoi il piú saccente, bene accompagnato, mandò all’abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente gli disse che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sí come quegli che con Ghino niente aveva a fare, ma che egli andrebbe avanti e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse. Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: — Messer, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti: e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo. — Era giá, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circondato; per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui. E smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, ed ogni altro uomo secondo la sua qualitá per lo castello fu assai bene adagiato, ed i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo senza alcuna cosa toccarne. E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: — Messer, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significargli dove voi andavate e per qual cagione. — L’abate che, come savio, aveva l’altierezza giú posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina: ed allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito ed un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dell’abate medesimo; e si disse all’abate: — Messer, quando Ghino era piú giovane, egli studiò in medicine, e dice che apparò, niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi fará; della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento, e per ciò prendetele e confortatevi. — L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, ed in ispezialtá chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sí come vane e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che, come Ghino piú tosto potesse, il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì, con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia: e cosí il tenne piú giorni, tanto che egli s’accorse, l’abate aver mangiate fave secche le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate. Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: — A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; ed appresso questo, niuno altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito. — Ghino adunque, avendogli de’ suoi arnesi medesimi ed alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dell’abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: — Messer, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria — e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, ed in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L’abate co’ suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino; ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti gli suoi arnesi fatti venire, ed in una corte che di sotto a quella era tutti i suoi cavalli infino al piú misero ronzino, all’abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare; a cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: — Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, ed avere molti e possenti nemici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltá, e non malvagitá d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nemico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come uno altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, ed i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte ed il tutto, come vi piace, prendete, e da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro. — Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sí libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenza mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: — Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistá d’uno uomo sí fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sí dannevole mestier ti costrigne! — Ed appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime ed opportune prendere, e de’ cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il papa saputa la presura dell’abate: e come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser prò; al quale l’abate sorridendo rispose: — Santo padre, io trovai piú vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha. — E contògli il modo, di che il papa rise; al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia. Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: — Santo padre, quello che io intendo domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ piú, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare. — Il papa, udendo questo, sí come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino, fidato, come all’abate piacque, a corte: né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatolsi, gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere; la quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dell’abate di Cligni, tenne mentre visse.
- [III]
- Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
- Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata: ma riposandosene giá il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse; il quale prestamente incominciò:
- Nobili donne, grande fu la magnificenza del re di Spagna e forse cosa piú non udita giá mai quella dell’abate di Cligni, ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrá l’udire che uno, per liberalitá usare ad uno altro che il suo sangue, anzi il suo spirito disiderava, cautamente a dargliele si disponesse: e fatto l’avrebbe se colui prender l’avesse voluto, sí come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi.
- Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d’alcuni genovesi e d’altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu giá uno uomo di legnaggio nobile, e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan, il quale, avendo un suo ricetto vicino ad una strada per la qual quasi di necessitá passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante in Ponente, ed avendo l’animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera conosciuto, quivi avendo molti maestri, fece in piccolo spazio di tempo fare un de’ piú belli e de’ maggiori e de’ piú ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili uomini ricevere ed onorare fece ottimamente fornire. Ed avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere ed onorare: ed intanto perseverò in questo laudevol costume, che giá non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. Ed essendo egli giá d’anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d’un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano, il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua vertú invidioso, seco propose con maggior liberalitá quella o annullare o offuscare: e fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le piú smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso. Ora, avvenne un giorno che, dimorando il giovane tutto solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina ed ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l’ebbe, e cosí successivamente infino alla duodecima: e la tredécima volta tornata, disse Mitridanes: — Buona femina, tu se’ assai sollecita a questo tuo domandare — e nondimeno le fece limosina. La vecchierella, udita questa parola, disse: — O liberalitá di Natan, quanto se’ tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sí come questo, entrata e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse, riconosciuta non fui, e sempre l’ebbi: e qui non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata. — E cosí dicendo, senza piú ritornarvi si dipartí. Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva, diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire: — Ahi lasso a me! quando aggiugnerò io alla liberalitá delle gran cose di Natan, non che io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le mie mani. — E con questo impeto levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia montato a cavallo, dopo il terzo dí dove Natan dimorava pervenne: ed a’ compagni imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di conoscerlo, e che di stanza si procacciassero infino che da lui altro avessero, quivi in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnargli sapesse dove Natan dimorasse. Natan lietamente rispose: — Figliuol mio, niuno è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò. — Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai, ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto; al qual Natan disse: — E còtesto ancora farò, poi che ti piace. — Smontato adunque Mitridanes, con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al suo bel palagio n’andò. Quivi Natan fece ad un de’ suoi famigliari prendere il caval del giovane, ed accostatoglisi agli orecchi, gl’impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e cosí fu fatto. Ma poi che ne’ palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera, dove alcuno nol vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea: e sommamente faccendolo onorare, esso stesso gli tenea compagnia. Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenza come padre l’avesse, pur lo domandò chi el fosse; al quale Natan rispose: — Io sono un piccol servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato, né mai ad altro che tu mi veggi mi trasse; per che, come che ogni altro uomo molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io. — Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes di potere con piú consiglio e con piú salvezza dare effetto al suo perverso intendimento; il qual Natan assai cortesemente domandò chi egli fosse e qual bisogno per quindi il portasse, offerendo il suo consiglio ed il suo aiuto in ciò che per lui si potesse. Mitridanes soprastette alquanto al rispondere, ed ultimamente, diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole la sua fede richiese, ed appresso, il consiglio e l’aiuto: e chi egli era e perché venuto e da che mosso, interamente gli discoperse. Natan, udendo il ragionare ed il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò: ma senza troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose: — Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sí alta impresa avendo fatta come hai, cioè d’essere liberale a tutti: e molto la ’nvidia che alla vertú di Natan porti, commendo, per ciò che, se di cosí fatte fossero assai, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sará occulto, al quale io piú tosto util consiglio che grande aiuto posso donare; il quale è questo. Tu puoi di quinci vedere, forse un mezzo miglio vicin di qui, un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo prendendo diporto per ben lungo spazio: quivi leggèr cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere; il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco, n’andrai, per ciò che, ancora che un poco piú salvatica sia, ella è piú vicina a casa tua e per te piú sicura. — Mitridanes, ricevuta la ’nformazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a’ suoi compagni, che similmente lá entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dí seguente. Ma poi che il nuovo dí fu venuto, Natan, non avendo animo vario al consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n’andò al boschetto a dover morire. Mitridanes, levatosi e preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n’andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando per quello; e diliberato, avanti che l’assalisse, di volerlo vedere e d’udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea, disse: — Vegliardo, tu se’ morto! — Al quale niuna altra cosa rispose Natan se non: — Adunque, l’ho io meritato. — Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente l’avea ricevuto e famigliarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente gli cadde il furore, e la sua ira si convertí in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual giá per fedirlo aveva tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a’ piè di Natan e disse: — Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalitá, riguardando con quanta cautela venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra’mi: ma Iddio, piú al mio dover sollecito che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato, gli occhi m’ha aperto dello ’ntelletto, li quali misera invidia m’avea serrati; e per ciò, quanto voi piú pronto stato siete a compiacermi, tanto piú mi conosco debito alla penitenza del mio errore: prendete adunque di me quella vendetta che convenevole estimate al mio peccato. — Natan fece levar Mitridanes in piede, e teneramente l’abbracciò e basciò, e gli disse: — Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altramenti, non bisogna di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma per potere esser tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, ed abbi di certo che niuno altro uom vive il quale te quanto io ami, avendo riguardo all’altezza dell’animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad ispender gli ammassati s’è dato: né ti vergognare d’avermi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori ed i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno uomo, come tu volevi fare, ma infiniti, ed ardere paesi ed abbattere le cittá, li loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu, per piú farti famoso, me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata. — Mitridanes, non iscusando il suo disidèro perverso, ma commendando l’onesta scusa da Natan trovata ad esso, ragionando pervenne a dire, sé oltre modo maravigliarsí come a ciò si fosse Natan potuto disporre, ed a ciò dargli modo e consiglio; al quale Natan disse: — Mitridanes, io non voglio che tu del mio consiglio né della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio arbitrio fui e disposto a fare quel medesimo che tu hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io noi contentassi a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato. Venistivi tu vago della mia vita; per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua domanda di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, ed acciò che tu l’avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e priego che, se ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio spendere. Io l’ho adoperata giá ottanta anni, e ne’ miei diletti e nelle mie consolazioni usata: e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare che ella mi sia contro a mia voglia tolta dalla natura. Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a starci abbia? Prendila adunque, se ella t’aggrada, io te ne priego, per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l’abbia, né so quando trovarmene possa veruno, se tu non la prendi che la domandi; e se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto piú la guarderò, di minor pregio sará: e però, anzi che ella divenga piú vile, prendila, io te ne priego. — Mitridanes, vergognandosi forte, disse: — Tolga Iddio che cosí cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale, non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l’aggiugnerei volentier de’ miei, se io potessi. — A cui prestamente Natan disse: — E se tu puoi, vuo’nele tu aggiugnere? E farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell’altrui non pigliai. — Sì — disse subitamente Mitridanes. — Adunque, — disse Natan — farai tu come io ti dirò. Tu rimarrai, giovane come tu se’, qui nella mia casa ed avrai nome Natan, ed io me n’andrò nella tua e farommi sempre chiamar Mitridanes. — Allora Mitridanes rispose: — Se io sapessi cosí bene operare come voi sapete ed avete saputo, io prenderei senza troppa diliberazione quello che m’offerete: ma per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, ed io non intendo di guastare in altrui quello che in me io non so acconciare, nol prenderò. — Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan piú giorni sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande proponimento. E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalitá nol potrebbe avanzare, il licenziò.
- [IV]
- Messer Gentil de’ Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio; e messer Gentile lei ed il figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianemico marito di lei.
- Maravigliosa cosa parve a tutti che alcuno del proprio sangue fosse liberale: e veramente affermaron, Natan aver quella del re di Spagna e dell’abate di Cligni trapassata. Ma poi che assai ed una cosa ed altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le dimostrò che egli disiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta prestamente incominciò:
- Giovani donne, magnifiche cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna cosa restata sia a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo, sí son tutte dall’altezza delle magnificenze raccontate occupate, se noi ne’ fatti d’amore giá non mettessimo mano, li quali ad ogni materia prestano abbondantissima copia di ragionare. E per ciò, sí per questo e sí per quello a che la nostra etá ci dèe principalmente inducere, una magnificenza da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non vi parrá per avventura minore che alcuna delle mostrate, se quello è vero, che i tesori si donino, l’inimicizie si dimentichino e pongasi la propria vita, l’onore e la fama, che è molto piú, in mille pericoli per potere la cosa amata possedere.
- Fu adunque in Bologna, nobilissima cittá di Lombardia, un cavaliere, per vertù e per nobiltá di sangue ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil de’ Carisendi, il qual giovane d’una gentil donna chiamata madonna Catalina, moglie d’un Niccoluccio Caccianemico, s’innamorò: e perché male dell’amor della donna era ricambiato, quasi disperatosene, podestá chiamato di Modona, v’andò. In questo tempo, non essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione forse tre miglia alla terra vicina essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare, avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese, il quale fu tale e di tanta forza, che in lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da alcun medico morta giudicata fu: e per ciò che le sue piú congiunte parenti dicevan, sé avere avuto da lei non essere ancora di tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella era, in uno avello d’una chiesa ivi vicina dopo molto pianto la sepellirono. La qual cosa subitamente da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che della sua grazia fosse poverissimo, si dolse molto, ultimamente seco dicendo: — Ecco, madonna Catalina, tu se’ morta: io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, cosí morta come tu se’, io alcun bascio ti tolga. — E questo detto, essendo giá notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare, colá pervenne dove sepellita era la donna: ed aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e piú volte con molte lagrime, piagnendo, il basciò. Ma sí come noi veggiamo l’appetito degli uomini a niun termine star contento, ma sempre piú avanti disiderare, e spezialmente quel degli amanti, avendo costui seco diliberato di piú non istarvi, disse: — Deh! perché non le tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai piú toccare, né mai piú la toccai. — Vinto adunque da questo appetito, le mise la mano in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve sentire alcuna cosa battere il cuore a costei, il quale, poi che ogni paura ebbe cacciata da sé, con piú sentimento cercando, trovò costei per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente quanto piú potè, dal suo famigliare aiutato, del monimento la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna. Era quivi la madre di lui, valorosa e savia donna, la qual poscia che dal figliuolo ebbe distesamente ogni cosa udita, da pietá mossa, chetamente con grandissimi fuochi e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vita. La quale come rivenne, cosí la donna gittò un gran sospiro, e disse: — Oimè! ora ove sono io? — A cui la valente donna rispose: — Confortati, tu se’ in buon luogo. — Costei, in sé tornata e dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse in che guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente contò ogni cosa. Di che ella dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendè che ella potè, ed appresso il pregò, per quello amore il quale egli l’aveva giá portato e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dí venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare; alla quale messer Gentile rispose: — Madonna, chente che il mio disidèro si sia stato ne’ tempi passati, io non intendo al presente né mai per innanzi; poi che Iddio m’ha questa grazia conceduta, che da morte a vita mi v’ha renduta, essendone cagione l’amore che io v’ho per addietro portato; di trattarvi né qui né altrove se non come cara sorella. Ma questo mio benefício operato in voi questa notte merita alcun guiderdone: e per ciò io voglio che voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò. — Al quale la donna benignamente rispose, sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, ed onesta fosse. Messer Gentile allora disse: — Madonna, ciascun vostro parente ed ogni bolognese credono ed hanno per certo voi esser morta, per che niuna persona è la quale piú a casa v’aspetti: e per ciò io voglio di grazia da voi che vi debba piacere di dimorarvi tacitamente qui con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sará tosto. E la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò, che io intendo di voi, in presenza de’ migliori cittadini di questa terra, fare un caro ed un solenne dono al vostro marito. — La donna, conoscendosi al cavaliere obligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far quello che messer Gentile domandava, e cosí sopra la sua fede gli promise. Ed appena erano le parole della sua risposta finite, che ella sentí il tempo del partorire esser venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante partorí un bel figliuol maschio, la qual cosa in molti doppi multiplicó la letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile ordinò che le cose opportune tutte vi fossero e che cosí fosse servita costei come se sua propria moglie fosse, ed a Modona segretamente se ne tornò. Quivi fornito il tempo del suo uficio ed a Bologna dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra’ quali fu Niccoluccio Caccianemico, un grande e bel convito in casa sua; e tornato e smontato e con lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata piú bella e piú sana che mai, ed il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi forestieri mise a tavola, e quegli fece di piú vivande magnificamente servire. Ed essendo giá vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, cosí cominciò a parlare: — Signori, io mi ricordo avere alcuna volta inteso, in Persia essere, secondo il mio giudicio, una piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare il suo amico, egli lo ’nvita a casa sua, e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha piú cara, affermando che, se egli potesse, cosí come questo gli mostra, molto piú volentieri gli mostrería il cuor suo; la quale io intendo di volere osservare in Bologna. Voi, la vostra mercé, avete onorato il mio convito, ed io voglio onorar voi alla persesca, mostrandovi la piú cara cosa che io abbia nel mondo o che io debba aver mai. Ma prima che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite d’un dubbio il quale io vi moverò. Egli è alcuna persona la quale ha in casa un suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale, senza attendere la fine del servo infermo, il fa portare nel mezzo della strada né piú ha cura di lui; viene uno strano, e mosso a compassione delio ’nfermo, e sel reca a casa e con gran sollecitudine e con ispesa il torna nella prima sanitá: vorrei io ora sapere se, tenendolsi ed usando i suoi servigi, il suo signore si può a buona equitá dolere o ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo, rendere nol volesse. — I gentili uomini, tra sé avuti vari ragionamenti e tutti in una sentenza concorrendo, a Niccoluccio Caccianemico, per ciò che bello ed ornato favellatore era, commisero la risposta. Costui, commendata primieramente l’usanza di Persia, disse, sé con gli altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione avesse piú nel suo servidore, poi che in sí fatto caso non solamente abbandonato, ma gittato l’avea, e che per li benefici del secondo usati giustamente parea di lui il servidore divenuto; per che, tenendolo, niuna noia, niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri tutti che alle tavole erano, ché v’avea di valenti uomini, tutti insieme dissero, sé tener quello che da Niccoluccio era stato risposto. Il cavaliere, contento di tal risposta e che Niccoluccio l’avesse fatta, affermò, sé essere in quella oppinione altressí, ed appresso disse: — Tempo è omai che io secondo la promessa v’onori. — E chiamati due de’ suoi famigliari, gli mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire ed ornare, e mandolla pregando che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della sua presenza. La qual, preso in braccio il figliolin suo bellissimo, da’ due famigliari accompagnata, nella sala venne, e come al cavalier piacque, appresso ad un valente uomo si pose a sedere; ed egli disse: — Signori, questa è quella cosa che io ho piú cara, ed intendo d’avere, che alcuna altra; guardate se egli vi pare che io abbia ragione. — I gentili uomini, onoratala e commendatala molto, ed al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare; ed assai ve n’eran che lei avrebbon detto colei che ella era, se lei per morta non avessero avuta: ma sopra tutti la riguardava Niccoluccio. Il quale, essendosi alquanto partito il cavaliere, sí come colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la domandò se bolognese fosse o forestiera. La donna, sentendosi al suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne: ma pur per servare l’ordine postole, tacque. Alcuno altro la domandò se suo era quel figlioletto, ed alcuno se moglie fosse di messer Gentile o in altra maniera sua parente; a’ quali niuna risposta fece. Ma sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de’ suoi forestieri: — Messer, bella cosa è questa vostra, ma ella ne par mutola: è ella cosi? — Signori, — disse messer Gentile — il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento della sua vertú. — Diteci adunque voi — seguitò colui — chi ella è. — Disse il cavaliere: — Questo farò io volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi muovere del luogo suo infino a tanto che io non ho la mia novella finita. — Al quale avendol promesso ciascuno, ed essendo giá levate le tavole, messer Gentile, allato alla donna sedendo, disse: — Signori, questa donna è quel leale e fedel servo del quale io poco avanti vi fe’ la domanda; la quale da’ suoi poco avuta cara, e cosí come vile e piú non utile nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta e con la mia sollecitudine ed opera delle mani la trassi alla morte: ed Iddio, alla mia buona affezion riguardando, di corpo spaventevole cosí bella divenir me l’ha fatta. Ma acciò che voi piú apertamente intendiate come questo avvenuto mi sia, brievemente vel farò chiaro. — E cominciatosi dal suo innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse: — Per le quali cose, se mutata non avete sentenza da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo la mi può raddomandare. — A questo niun rispose, anzi tutti attendevan quello che egli piú avanti dovesse dire. Niccoluccio e gli altri che v’erano e la donna di compassion lagrimavano: ma messer Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il piccol fanciullino e la donna per la mano, ed andato verso Niccoluccio, disse: — Lieva su, compare; io non ti rendo la tua mogliere, la quale i tuoi e suoi parenti gittarono via: ma io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale son certo che fu da te generato ed il quale io a battesimo tenni, e nomina’lo Gentile: e priegoti che, perché ella sia nella mia casa vicin di tre mesi stata, che ella non ti sia men cara: ché io ti giuro per quello Iddio che forse giá di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sí come stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col padre o con la madre o con teco piú onestamente non visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa. — E questo detto, si rivolse alla donna e disse: — Madonna, omai da ogni promessa fattami io v’assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio. — E rimessa la donna ed il fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere. Niccoluccio disiderosamente ricevette la sua donna ed il figliuolo, tanto piú lieto quanto piú n’era di speranza lontano: e come meglio potè e seppe, ringraziò il cavaliere; e gli altri, che tutti di compassion lagrimavano, di questo il commendaron molto: e commendato fu da chiunque l’udí. La donna con maravigliosa festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu piú tempo guatata da’ bolognesi; e messer Gentile sempre amico visse di Niccoluccio e de’ suoi parenti e di que’ della donna. Che adunque qui, benigne donne, direte? Estimerete, l’aver donato un re lo scettro e la corona, ed uno abate senza suo costo avere riconciliato un malfattore al papa, ed un vecchio porgere la sua gola al coltello del nemico, essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il quale, giovane ed ardente, e giusto titolo parendogli avere in ciò che la trascutaggine altrui aveva gittato via ed egli per la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo fuoco, ma liberamente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e cercar di rubare, avendolo, restituí. Per certo niuna delle giá dette a questa mi par simigliante.
- [V]
- Madonna Dianora domanda a messere Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messere Ansaldo con l’obligarsi ad uno nigromante gliele dá; il marito le concede che ella faccia il piacere di messere Ansaldo, il quale, udita la liberalitá del marito, l’assolve della promessa, ed il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messere Ansaldo.
- Per ciascuno della lieta brigata era giá stato messer Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose ad Emilia che seguisse; la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, cosí cominciò:
- Morbide donne, niun con ragione dirá, messer Gentile non aver magnificamente operato: ma il voler dire che piú non si possa, il piú potersi non fia forse malagevole a mostrarsi; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi.
- In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di piú fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu giá una bella e nobile donna chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria: e meritò questa donna per lo suo valore d’essere amata sommamente da un nobile e gran barone il quale aveva nome messere Ansaldo Gradense, uomo d’alto affare, e per armi e per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, fervenfemente amandola ed ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e da ciò spesso per sue ambasciate sollecitandola, invano si faticava. Ed essendo alla donna gravi le sollecitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatale, esso per ciò né d’amarla né di sollecitarla si rimaneva, con una nuova ed al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi tôrre da dosso: e ad una femina che a lei da parte di lui spesse volte veniva, disse un dì cosi: — Buona femina, tu m’hai molte volte affermato che messere Ansaldo sopra tutte le cose m’ama e maravigliosi doni m’hai da sua parte profferti; li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei. E se io potessi esser certa che egli cotanto m’amasse quanto tu di’, senza fallo io mi recherei ad amar lui ed a far quello che egli volesse: e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sarei a’ suoi comandamenti presta. — Disse la buona femina: — Che è quello, madonna, che voi disiderate che el faccia? — Rispose la donna: — Quello che io disidero è questo: io voglio, del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti alberi, non altramenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te né altri mi mandi mai piú, per ciò che, se piú mi stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito ed a’ miei parenti tenuto l’ho nascoso, così, dolendomene loro, di levarlomi da dosso m’ingegnerei. — Il cavaliere, udita la domanda e la profferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse, e conoscesse per niuna altra cosa ciò essere dalla donna addomandato, se non per tôrlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse, ed in piú parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse: e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica proffereva di farlo. Col quale messere Ansaldo per grandissima quantitá di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli; il qual venuto, essendo i freddi grandissimi ed ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla cittá con sue arti fece sì, la notte alla quale il calendigennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che il vedevan testimoniavano, un de’ piú be’ giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de’ piú be’ frutti e de’ piú be’ fior che v’erano, quegli occultamente fe’ presentare alla sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promession fattagli e con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele. La donna, veduti i fiori ed i frutti, e giá da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a pentere della sua promessa: ma con tutto il pentimento, sí come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della cittá andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, piú che altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era obligata. E fu il dolore tale, che, non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n’accorgesse: e volle del tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa. Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte; poi, considerata la pura intenzion della donna, con miglior consiglio cacciata via l’ira, disse: — Dianora, egli non è atto di savia né d’onesta donna d’ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte, né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castitá. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non estimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima ad ascoltare e poscia a pattovire: ma per ciò che io conosco la puritá dell’animo tuo, per solverti dal legame della promessa, quel ti concederò che forse alcuno altro non farebbe, inducendomi ancora la paura del nigromante, al quale forse messere Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe dolenti. Voglio io che tu a lui vada, e se per modo alcun puoi, t’ingegni di far che, servata la tua onestá, tu sii da questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo ma non l’animo gli concedi. — La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto, piacque che cosí fosse; per che, venuta la seguente mattina, in su l’aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso n’andò la donna a casa messere Ansaldo. Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, e levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse: — Io voglio che tu veggi quanto di bene la tua arte m’ha fatto acquistare. — Ed incontro andatile, senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, ed in una bella camera ad un gran fuoco se n’entrâr tutti; e fatto lei porre a seder, disse: — Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d’aprirmi la vera cagione che qui a cosí fatta ora v’ha fatta venire e con cotal compagnia. — La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose: — Messer, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito, il quale, avuto piú rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire: e per comandamento di lui disposta sono per questa volta ad ogni vostro piacere. — Messere Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna, molto piú s’incominciò a maravigliare, e dalla liberalitá di Gilberto commosso, il suo fervore in compassione cominciò a cambiare, e disse: — Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che cosí è come voi dite, che io sia guastatore dell’onore di chi ha compassione al mio amore: e per ciò l'esser qui sará, quanto vi piacerá, non altramenti che se mia sorella foste, e quando a grado vi sará, liberamente vi potrete partire, sí veramente che voi al vostro marito, di tanta cortesia quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore. — La donna, queste parole udendo, piú lieta che mai disse: — Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a’ vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate; di che io vi sarò sempre obligata. — E preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto, e racconlògli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistá lui e messere Ansaldo congiunse. Il nigromante, al quale messere Ansaldo di dare il promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalitá di Gilberto verso messere Ansaldo e quella di messere Ansaldo verso la donna, disse: — Giá Iddio non voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia. — Il cavaliere si vergognò ed ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere: ma poi che invano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dí tolto via il suo giardino e piacendogli di partirsi, l’accomandò a Dio; e spento del cuore il concupiscibile amore, verso la donna acceso d’onesta caritá si rimase. Che direm qui, amorevoli donne? Preporremo la quasi morta donna ed il giá rattiepidito amore per la spossata speranza a questa liberalitá di messere Ansaldo, piú ferventemente che mai amando ancora e quasi da piú speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella liberalitá a questa compararsi potesse.
- [VI]
- Il re Carlo vecchio vittorioso, d’una giovanetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei ed una sua sorella onorevolmente marita.
- Chi potrebbe pienamente raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalitá usasse, o Gilberto o messere Ansaldo o il nigromante, intorno a’ fatti di madonna Dianora? Troppo sarebbe lungo. Ma poi che il re alquanto disputare ebbe conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse lor di quistione; la quale, niuno indugio preso, incominciò:
- Splendide donne, io fui sempre in oppinione che nelle brigate come la nostra è, si dovesse sì largamente ragionare, che la troppa strettezza della ’ntenzion delle cose dette non fosse altrui materia di disputare, il che molto piú si conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rócca ed al fuso bastiamo. E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse avea, veggendovi per le giá dette alla mischia, quella lascerò stare ed una ne dirò, non miga d’uomo di poco affare, ma d’un valoroso re raccontando quello che egli cavallerescamente operasse in nulla movendo per amore a far contra il suo onore.
- Ciascuna di voi molte volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio o ver primo, per la cui magnifica impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi; per la qual cosa un cavalier chiamato messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia del re Carlo riducere. E per essere in solitario luogo, e quivi finire in riposo la vita sua, a Castello a mare di Stabia se n’andò: ed ivi forse una balestrata rimosso dall’altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de’ quali la contrada è abbondevole, comperò una possessione; sopra la quale un bel casamento ed agiato fece, ed allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d’acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempié leggermente. Ed a niuna altra cosa attendendo che a fare ognidí piú bello il suo giardino, avvenne che il re Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto a Castello a mar se n’andò, dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo. Ed avendo udito di cui era, pensò che, per ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, piú famigliarmente con lui si volesse fare: e mandògli a dire che con quattro compagni chetamente la seguente sera con lui voleva cenare nel suo giardino. Il che a messer Neri fu molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo ordinato ciò che far si dovesse, come piú lietamente potè e seppe, il re nel suo bel giardino ricevette; il qual, poi che il giardin tutto e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio, ad una di quelle, lavato, si mise a sedere, ed al conte Guido di Monforte, che l’un de’ compagni era, comandò che dall’un de’ lati di lui sedesse, e messer Neri dall’altro, e ad altri tre che con loro eran venuti comandò che servissero secondo l’ordine posto da messer Neri. Le vivande vi vennero dilicate, ed i vini vi furono ottimi e preziosi, e l’ordine bello e laudevole molto, senza alcun sentore e senza noia, il che il re commendò molto. E mangiando egli lietamente e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due giovanette d’etá forse di quindici anni l’una, bionde come fila d’oro e co’ capelli tutti inanellati e sopra essi sciolti una leggera ghirlandetta di provinca: e nelli lor visi piú tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; ed eran vestite d’un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura insú era strettissimo e da indi ingiú largo a guisa d’un padiglione e lungo infino a’ piedi. E quella che dinanzi veniva, recava in su le spalle un paio di vangaiuole le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston lungo; l’altra, che veniva appresso, aveva sopra la spalla sinistra una padella e sotto quel braccio medesimo un fascetto di legne e nella mano un treppiede e nell’altra mano uno utel d’olio ed una facellina accesa; le quali il re veggendo, si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse dire. Le giovanette, venute innanzi, onestamente e vergognose fecero reverenza al re: ed appresso, lá andatesene onde nel vivaio s’entrava, quella che la padella aveva, postala giú e l’altre cose appresso, prese il baston che l’altra portava, ed ainmendune nel vivaio, l’acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se n’entrarono. Un de’ famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la padella sopra il treppiè e dell’olio messovi, cominciò ad aspettare che le giovani gli gittasser del pesce. Delle quali l’una frugando in quelle parti dove sapeva che i pesci si nascondevano e l’altra le vangaiuole parando, con grandissimo piacere del re che ciò attentamente guardava, in piccolo spazio di tempo presero pesce assai: ed al famigliar gittatine, che quasi vivi nella padella gli metteva, sí come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere de’ piú belli ed a gittare su per la tavola davanti al re ed al conte Guido ed al padre. Questi pesci su per la mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere: e similmente egli prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro, e cosí per alquanto spazio cianciarono, tanto che il famigliare quello ebbe cotto che dato gli era stato; il qual, piú per uno intramettere che per molto cara o dilettevol vivanda avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re. Le fanciulle, veggendo il pesce cotto ed avendo assai pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo celando, usciron del vivaio: e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re vergognosamente passando, in casa se ne tornarono. Il re ed il conte e gli altri che servivano, avevano molto queste giovanette considerate, e molto in se medesimo l’avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte, ed oltre a ciò, per piacevoli e per costumate: ma sopra ad ogni altro erano al re piaciute, il quale sí attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse dell’acqua, che chi allora l’avesse punto, non si sarebbe sentito. E piú a loro ripensando, senza sapere chi si fossero né come, si sentì nel cuor destare un ferventissimo disidèro di piacer loro, per lo quale assai ben conobbe sé divenire innamorato, se guardia non se ne prendesse: né sapeva egli stesso qual di lor due si fosse quella che piú gli piacesse, si era di tutte cose l’una simiglievole all’altra. Ma poi che alquanto fu sopra questo pensier dimorato, rivolto a messer Neri, il domandò chi fossero le due damigelle; a cui messer Neri rispose: — Monsignore, queste son mie figliuole ad un medesimo parto nate, delle quali l’una ha nome Ginevra la bella e l’altra Isotta la bionda. — A cui il re le commendò molto, confortandolo a maritarle; dal che messer Neri, per piú non poter, si scusò. Ed in questo, niuna cosa fuor che le frutte restando a dar nella cena, vennero le due giovanette in due giubbe di zendado bellissime, con due grandissimi piattelli d’ariento in mano pieni di vari frutti, secondo che la stagion portava, e quegli davanti al re posarono sopra la tavola. E questo fatto, alquanto indietro tiratesi, cominciarono a cantare un suono le cui parole cominciano:
- Lá ov’io son giunto, Amore,
- non si poria contare lungamente,
- con tanta dolcezza e sì piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava ed ascoltava, pareva che tutte le gerarchie degli agnoli quivi fossero discese a cantare; e quel detto, inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il quale, ancora che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il diede. Finita adunque la cena, ed il re co’ suoi compagni rimontato a cavallo e messer Neri lasciato, ragionando d’una cosa e d’altra, al reale ostiere se ne tornarono. Quivi, tenendo il re la sua affezion nascosa né per grande affare che sopravvenisse potendo dimenticar la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella a lei simigliarne ancora amava, sì nell’amorose panie s’invescò, che quasi ad altro pensar non poteva: ed altre cagioni dimostrando, con messer Neri teneva una stretta dimestichezza ed assai sovente il suo bel giardin visitava per veder la Ginevra. E giá piú avanti sofferir non potendo ed essendogli, non sappiendo altro modo vedere, nel pensier caduto di dover non solamente l’una, ma ammendune le giovanette al padre tôrre, ed il suo amore e la sua intenzione fe’ manifesta al conte Guido. Il quale, per ciò che valente uomo era, gli disse: — Monsignore, io ho gran maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l’ho maggiore che uno altro non avrebbe, quanto mi par meglio, dalla vostra fanciullezza infino a questo dí, avere i vostri costumi conosciuti che alcuno altro; e non essendomi paruto giá mai nella vostra giovanezza, nella quale Amor piú leggermente doveva i suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta, sentendovi ora che giá siete alla vecchiezza vicino, m’è sí nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che quasi un miracol mi pare. E se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so bene ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l’arme indosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazione non conosciuta e piena d’inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollecitudini e d’alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere: ed intra tante cose abbiate fatto luogo al lusinghevole amore. Questo non è atto di re magnanimo, anzi d’un pusillanimo giovanetto. Ed oltre a questo, che è molto peggio, dite che diliberato avete di tôrre le due figliuole al povero cavaliere il quale in casa sua oltre al poter suo v’ha onorato, e per piú onorarvi quelle quasi ignude v’ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede che egli ha in voi e che esso fermamente creda voi essere re, e non lupo rapace. Ora, èvvi cosí tosto della memoria caduto, le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l’entrata aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giá mai piú degno d’eterno supplicio che saria questo, che voi a colui che v’onora togliate il suo onore e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi se il faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: Io il feci per ciò che egli è ghibellino». Ora, è questo della giustizia de’ re, che coloro che nelle lor braccia ricorrono, in cotal forma, chi che essi si sieno, in cosí fatta guisa si trattino? Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v’è aver vinto Manfredi, ma molto maggiore è se medesimo vincere: e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito raffrenate, né vogliate con cosí fatta macchia ciò che gloriosamente acquistato avete, guastare. — Queste parole amaramente punsero l’animo del re, e tanto piú l’afflissero quanto piú vere le conoscea; per che, dopo alcun caldo sospiro, disse: — Conte, per certo ogni altro nemico, quantunque forte, estimo che sia al bene ammaestrato guerriere assai debole ed agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito: ma quantunque l’affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sí m’hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, cosí similmente so a me medesimo soprastare. — Né molti giorni appresso a queste parole passarono, che, tornato il re a Napoli, sí per tôrre a sé materia d’operar vilmente alcuna cosa e sí per premiare il cavaliere dell’onore ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui possessor di quello che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose di voler maritare le due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come sue. E con piacer di messer Neri, magnificamente dotatele, Ginevra la bella diede a messer Maffeo da Palizzi ed Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno: e loro assegnatele, con dolore inestimabile in Puglia se n’andò, e con fatiche continue tanto e sí forte macerò il suo fiero appetito, che, spezzate e rotte l’amorose catene, per quanto viver dovea, libero rimase da tal passione. Saranno forse di que’ che diranno, piccola cosa essere ad un re l'aver maritate due giovanette, ed io il consentirò: ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo che un re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso o pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Cosí adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l’amate giovanette laudevolmente onorando e se medesimo fortemente vincendo.
- [VII]
- Il re Pietro, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta, ed appresso, ad un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere.
- Venuta era la Fiammetta alla fine della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenza del re Carlo, quantunque alcuna che quivi era, ghibellina, commendar nol volesse, quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò:
- Niun discreto, ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon re Carlo, se non costei, che gli vuol mal per altro. Ma per ciò che a me va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo avversario in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di raccontarvi.
- Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d’una sua donna, senza piú, aveva una figliuola bellissima e giá da marito. Ed essendo il re Pietro d’Araona signor dell’isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa festa co’ suoi baroni; nella qual festa, armeggiando egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli, e sì maravigliosamente le piacque, che, una volta ed altra poi riguardandolo, di lui ferventemente s’innamorò. E cessata la festa ed ella in casa del padre standosi, a niuna altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico ed alto amore; e quello che intorno a ciò piú l’offendeva era il conoscimento della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine: ma nonpertanto da amare il re indietro non si voleva tirare, e per paura di maggior noia a manifestar non l’ardiva. Il re di questa cosa non s’era accorto né si curava, di che ella, oltre a quello che si potesse estimare, portava intollerabil dolore; per la qual cosa avvenne che, crescendo in lei amor continuamente ed una malinconia sopra altra aggiugnendosi, la bella giovane, piú non potendo, infermò, ed evidentemente di giorno in giorno come la neve al sole si consumava. Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva l’aiutavano: ma niente era, per ciò che ella, sí come del suo amore disperata, aveva eletto di piú non volere vivere. Ora, avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore ed il suo proponimento, prima che morisse, fare al re sentire: e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d’Arezzo. Era in que’ tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare; per che fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne: e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l’ebbe, con una sua viuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone, le quali all’amor della giovane erano fuoco e fiamma, lá dove egli la credea consolare. Appresso questo, disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che partitosi ciascuno altro, ella gli disse: — Minuccio mio, io ho eletto te per fidissimo guardatore d’un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar giá mai, ed appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare; e cosí ti priego. Dèi adunque sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro signore re Pietro fece la gran festa della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto, che dell’amor di lui mi s’accese un fuoco nell’anima che al partito m’ha recata che tu mi vedi: e conoscendo io quanto male il mio amore ad un re si convenga, e non potendolo, non che cacciare, ma diminuire, ed egli essendomi oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire; e cosí farò. È il vero che io fieramente n’andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse; e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion far sentire piú acconciamente che per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non rifiuti di farlo: e quando fatto l’avrai, assapere mel facci, acciò che io, consolata morendo, mi sviluppi da queste pene. — E questo detto, piagnendo, si tacque. Maravigliossi Minuccio dell’altezza dell’animo di costei e del suo fiero proponimento, ed increbbenegli forte; e subitamente nell’animo corsogli come onestamente la poteva servire, le disse: — Lisa, io t’obligo la mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverai: ed appresso, commendandoti di sì alta impresa come è aver l’animo posto a cosí gran re, t’offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortarti vogli, sì adoperare, che avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare. — La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s’andasse con Dio. Minuccio, partitosi, ritrovò un Mico da Siena, assai buon dicitore in rima a que’ tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:
- Moviti, Amore, e vattene a messere,
- e contagli le pene ch’io sostegno;
- digli ch’a morte veglio,
- celando per temenza il mio volere.
- Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,
- ch’a messer vadi lá dove dimora;
- di’ che sovente lui disio ed amo,
- sì dolcemente lo cuor m’innamora:
- e per lo foco ond’io tutta m’infiamo
- temo morire, e giá non saccio l’ora
- ch’i’ parta da sì grave pena dura
- la qual sostegno per lui disiando,
- temendo e vergognando;
- deh! il mal mio per Dio fagli assapere.
- Poi che di lui, Amor, fu’ innamorata
- non mi donasti ardir, quant’ho temenza
- che io potessi sola una fiata
- lo mio voler dimostrare in parvenza
- a quegli che mi tien tanto affannata;
- così morendo, il morir m’è gravenza:
- forse che non gli saria dispiacenza
- se el sapesse quanta pena i’ sento,
- s’a me dato ardimento
- avesse in fargli il mio stato sapere.
- Poi che ’n piacere non ti fu, Amore,
- ch’a me donassi tanta sicuranza,
- ch’a messer far savessi lo mio core,
- lassa! per messo mai o per sembianza,
- merzé ti chero, dolce mio signore,
- che vadi a lui: e donagli membranza
- del giorno ch’io il vidi a scudo e lanza
- con altri cavalieri arme portare:
- presilo a riguardare
- innamorata sì, che ’l mio cuor pére.
- Le quali parole Minuccio prestamente intonò d’un suono soave e pietoso sí come la materia di quelle richiedeva, ed il terzo dì se n’andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare; dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n’erano parevano uomini adombrati, sí tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, ed il re per poco piú che gli altri. Ed avendo Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai piú non gliele pareva avere udito. — Monsignore, — rispose Minuccio — e’ non sono ancora tre giorni che le parole si fecero ed il suono. — Il quale avendo il re domandato per cui, rispose: — Io non l’oso scoprir se non a voi. — Il re, disideroso d’udirlo, levate le tavole, nella camera sel fe’ venire, dove Minuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò; di che il re fece gran festa e commendò la giovane assai, e disse che di sí valorosa giovane si voleva aver compassione, e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare. Minuccio, lietissimo di portare cosí piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola n’andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò, e poi la canzon cantò con la sua viuola. Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi della sua sanitá: e con disidèro, senza sapere o presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò ad aspettare il vespro, nel quale il suo signore veder dovea. Il re, il quale liberale e benigno signore era, avendo poi piú volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora piú che non era pietoso: ed in su l’ora del vespro montato a cavallo, sembianti faccendo d’andare a suo diporto, pervenne lá dove era la casa dello speziale; e quivi, fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora maritata l’avesse. Rispose Bernardo: — Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata ed ancora è forte malata; è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata. — Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire, e disse: — In buona fé, danno sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sí bella cosa; noi la vogliamo venire a visitare. — E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n’andò, e come lá entro fu, s’accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio l’aspettava, e lei per la man prese dicendo: — Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver male? Noi vi vogliam pregare che vi piaccia per amor di noi di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita. — La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacere nell’animo quanto se stata fosse in paradiso, e come potè gli rispose: — Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi m’è di questa infermitá stata cagione, dalla quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete. — Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane e da piú ognora la reputava, e piú volte seco stesso maladisse la fortuna che di tale uomo l’aveva fatta figliuola: e poi che alquanto fu con lei dimorato e piú ancora confortatala, si partí. Questa umanitá del re fu commendata assai ed in grande onor fu attribuita allo speziale ed alla figliuola; la quale tanto contenta rimase quanto altra donna di suo amante fosse giá mai: e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita, piú bella diventò che mai fosse. Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dí a cavallo, con molti de’ suoi baroni a casa dello speziai se n’andò, e nel giardino entratosene, fece lo spezial chiamare e la sua figliuola: ed in questo venuta la reina con molte donne, e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa. E dopo alquanto, il re insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re: — Valorosa giovane, il grande amor che portato n’avete v’ha grande onore da noi impetrato, del quale noi vogliamo che per amor di noi siate contenta: e l’onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, nonostante questo, vostro cavaliere appellarci, senza piú di tanto amor voler da voi che un sol bascio. — La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa voce cosí rispose: — Signor mio, io son molto certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la piú della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che io la mia condizione, ed oltre a questo, la vostra non conoscessi: ma, come Iddio sa che solo i cuori de’ mortali vede, io nell’ora che voi prima mi piaceste conobbi voi essere re, e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l’ardore dell’animo dirizzare. Ma sí come voi molto meglio di me conoscete, niun secondo debita elezione ci s’innamora, ma secondo l’appetito ed il piacere; alla qual legge piú volte s’opposero le forze mie: e piú non potendo, v’amai ed amo ed amerò sempre. È il vero che, come io ad amore di voi mi sentii prendere, cosí mi disposi di far sempre del vostro voler mio: e per ciò, non che io faccia questo, di prender volentier marito e d’aver caro quello il quale vi piacerá di donarmi, che mio onore e stato sará, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere, mi sarebbe diletto. Aver voi re per cavaliere, sapete quanto mi si conviene, e per ciò piú a ciò non rispondo; né il bascio che solo del mio amor volete, senza licenza di madama la reina vi sará conceduto. Nondimeno di tanta benignitá verso me quanta è la vostra e quella di madama la reina che è qui, Iddio per me vi renda e grazie e merito, ché io da render non l’ho. — E qui si tacque. Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele cosí savia come il re l’aveva detto. Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma povero, che avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano, a lui non recusante di farlo fece sposare la Lisa; a’ quali incontanente il re, oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Ceffalú e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo: — Queste ti doniam noi per dota della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire. — E questo detto, rivolto alla giovane, disse: — Ora vogliami noi prender quel frutto che noi del vostro amore aver dobbiamo — e presole con ammendune le mani il capo, le basciò la fronte. Perdicone ed il padre e la madre della Lisa, ed ella altressí, contenti grandissima festa fecero e liete nozze: e secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente, per ciò che, mentre visse, sempre s’appellò suo cavaliere, né mai in alcun fatto d’arme andò che egli altra sopransegna portasse che quella che dalla giovane mandata gli fosse. Cosí adunque operando, si pigliano gli animi de’ suggetti, dássi altrui materia di bene operare e le fame eterne s’acquistano; alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l’arco teso dello ’ntelletto, essendo li piú de’ signori divenuti crudeli e tiranni.
- [VIII]
- Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a Roma; dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma; Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto, il che colui che fatto l’avea veggendo, se stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dá a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
- Filomena, per comandamento del re, essendo Pampinea di parlar ristata e giá avendo ciascuna commendato il re Pietro, e piú la ghibellina che l’altre, incominciò:
- Magnifiche donne, chi non sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare, e loro altressí spezialissimamente richiedersi l’esser magnifico? Chi adunque, potendo, fa quello che a lui s’appartiene, fa bene, ma non se ne dèe l’uom tanto maravigliare né alto con somme lode levarlo, come uno altro si converria, che il facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse. E per ciò, se voi con tante parole l’opere de’ re esaltate e paionvi belle, io non dubito punto che molto piú non vi debban piacere ed esser da voi commendate quelle de’ nostri pari, quando sono a quelle de’ re simigliami o maggiori; per che una laudevole opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una novella di raccontarvi.
- Nel tempo adunque che Ottavian Cesare, non ancora chiamato Augusto, ma nell’uficio chiamato triumvirato lo ’mperio di Roma reggeva, fu in Roma un gentile uomo chiamato Publio Quinzio Fulvo, il quale, avendo un suo figliuolo, Tito Quinzio Fulvo nominato, di maraviglioso ingegno, ad imprender filosofia il mandò ad Atene, e quantunque piú poté, il raccomandò ad un nobile uomo chiamato Cremete, il quale era antichissimo suo amico. Dal quale Tito nelle proprie case di lui fu allogato in compagnia d’un suo figliuolo nominato Gisippo; e sotto la dottrina d’un filosofo chiamato Aristippo, e Tito e Gisippo furon parimente da Cremete posti ad imprendere. E venendo i due giovani usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una fratellanza ed un’amicizia sí grande ne nacque tra loro, che mai poi da altro caso che da morte non fu separata: e niun di loro aveva né ben né riposo se non tanto quanto erano insieme. Essi avevano cominciati gli studi, e parimente ciascuno d’altissimo ingegno dotato, saliva alla gloriosa altezza della filosofia con pari passo e con maravigliosa laude: ed in cotal vita con grandissimo piacer di Cremete, che quasi l’un piú che l’altro non avea per figliuolo, perseveraron ben tre anni. Nella fine de’ quali, sí come di tutte le cose addiviene, addivenne che Cremete giá vecchio di questa vita passò; di che essi pari compassione sí come di comun padre portarono, né si discernea per gli amici né per gli parenti di Cremete qual piú fosse per lo sopravvenuto caso da racconsolar di lor due. Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di Gisippo ed i parenti furon con lui, ed insieme con Tito il confortarono a tôr moglie, e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti discesa e cittadina d’Atene, il cui nome era Sofronia, d’etá forse di quindici anni. Ed appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un dí Tito che con lui andasse a vederla, che veduta ancora non l’avea: e nella casa di lei venuti, ed essa sedendo in mezzo d’ammenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò attentissimamente a riguardare, ed ogni parte di lei smisuratamente piacendogli, mentre quelle seco sommamente lodava, sì fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s’accese, quanto alcuno amante di donna s’accendesse giá mai. Ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono. Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto piú accendendosi quanto piú nel pensier si stendea; di che accorgendosi, dopo molti caldi sospiri, seco cominciò a dire: — Ahi! misera la vita tua, Tito! Dove ed in che pon’tu l’animo e l’amore e la speranza tua? Or non conosci tu, sì per gli ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia e sì per l’intera amicizia la quale è tra te e Gisippo di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? Che adunque ami? Dove ti lasci trasportare allo ’ngannevole amore? dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello ’ntelletto e te medesimo, o misero, riconosci; dá’ luogo alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disidèri non sani e ad altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine, e vinci te medesimo mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene che tu vogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo di giugnerlo, che non se’, tu il dovresti fuggire, se quel riguardassi che la vera amistá richiede e che tu dèi. Che adunque farai, Tito? Lascerai lo sconvenevole amore, se quel vorrai fare che si conviene. — E poi, di Sofronia ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava dicendo: — Le leggi d’amore sono di maggior potenza che alcune altre: elle rompono, non che quelle dell’amistá, ma le divine. Quante volte ha giá il padre la figliuola amata, il fratello la sorella, la matrigna il figliastro? Cose piú mostruose che l’uno amico amar la moglie dell’altro, giá fattosi mille volte. Oltre a questo, io son giovane, e la giovanezza è tutta sottoposta all’amorose leggi; quello adunque che ad amor piace, a me convien che piaccia. L’oneste cose s’appartengono a’ piú maturi; io non posso volere se non quello che amor vuole. La bellezza di costei merita d’essere amata da ciascuno; e se io l’amo, che giovane sono, chi me ne potrá meritamente riprendere? Io non l’amo perché ella sia di Gisippo, anzi l’amo che l’amerei di chiunque ella stata fosse; qui pecca la fortuna, che a Gisippo mio amico l’ha conceduta piú tosto che ad uno altro. E se ella dèe essere amata, che dèe, e meritamente, per la sua bellezza, piú dèe esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l’ami io che uno altro. — E da questo ragionamento, faccendo beffe di se medesimo, tornando in sul contrario, e di questo in quello e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma piú altri, intanto che, il cibo ed il sonno perdutone, per debolezza fu costretto a giacere. Gisippo, il qual piú dí l’avea veduto di pensier pieno ed ora il vedeva infermo, se ne doleva forte, e con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s’ingegnava di confortarlo, spesso e con istanza domandandolo della cagione de’ suoi pensieri e della ’nfermitá. Ma avendogli piú volte Tito dato favole per risposta e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito costrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa: — Gisippo, se agl’iddii fosse piaciuto, a me era assai piú a grado la morte che il piú vivere, pensando che la fortuna m’abbi condotto in parte che della mia vertú mi sia convenuto far pruova, e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta: ma certo io n’aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia piú cara che il vivere con rimembranza della mia viltá; la quale, per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirò. — E cominciatosi da capo, la cagion de’ suoi pensieri e la battaglia di quegli, ed ultimamente di quali fosse la vittoria, e sé per l’amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenza n’avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo. Gisippo, udendo questo ed il suo pianto veggendo, alquanto prima sopra sé stette, sí come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che piú temperatamente, era preso: ma senza indugio diliberò la vita dell’amico piú che Sofronia dovergli esser cara, e cosí, dalle lagrime di lui a lagrimare invitato, gli rispose piagnendo: — Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se’, io di te a te medesimo mi dorrei, sí come d’uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sí lungamente la tua gravissima passione nascosa. E come che onesto non ti paresse, non son per ciò le disoneste cose se non come l’oneste da celare all’amico, per ciò che chi amico è, come dell’oneste con l’amico prende piacere, cosí le non oneste s’ingegna di tôrre dell’animo dell’amico. Ma ristarommene al presente, ed a quel verrò che di maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maravigliere’mi io ben se cosí non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltá dell’animo tuo, atta tanto piú a passion sostenere quanto ha piú d’eccellenza la cosa che piaccia. E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti duoli, quantunque tu ciò non esprimi, che a me conceduta l’abbia, parendoti il tuo amarla onesto se d’altrui fosse stata che mia. Ma se tu se’ savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu piú l’avessi a render grazie che d’averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l’avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l’avrebbe egli a sé amata piú tosto che a te, il che di me, se cosí mi tieni amico come io ti sono, non dèi sperare: e la cagione è questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che cosí non fosse tua come mia; il che, se tanto fosse la cosa avanti, che altramenti esser non potesse, cosí ne farei come dell’altre: ma ella è ancora in sí fatti termini, che di te solo la posso fare, e cosí farò, per ciò che io non so quello che la mia amistá ti dovesse esser cara, se io, d’una cosa che onestamente farsi puote, non sapessi d’un mio voler far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa e che io l’amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava: ma per ciò che tu, sí come molto piú intendente di me, con piú fervor disideri cosí cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrá nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta sanitá ed il conforto e l’allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto piú degno amore che il mio non era. — Tito, udendo cosí parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto piú era di Gisippo la liberalitá tanto di lui ad usarla pareva la sconvenevolezza maggiore; per che, non ristando di piagnere, con fatica cosí gli rispose: — Gisippo, la tua liberale e vera amistá assai chiaro mi mostra quello che alla mia s’appartenga di fare. Tolga via Iddio che mai colei la quale egli sí come a piú degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dèe credere che mai a te conceduta l’avesse. Usa adunque lieto la tua elezione ed il discreto consiglio ed il suo dono, e me nelle lagrime le quali egli sí come ad indegno di tanto bene m’ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò, e saratti caro, o esse me vinceranno, e sarò fuor di pena. — Al quale Gisippo disse: — Tito, se la nostra amistá mi può concedere tanta di licenza, che io a seguire un mio piacer ti sforzi, e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d’usarla: e dove tu non condiscenda piacevole a’ prieghi miei, con quella forza che ne’ beni del l’amico usar si dèe farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d’amore, e so che elle non una volta ma molte hanno ad infelice morte gli amanti condotti: ed io veggio te sí presso, che tornare addietro né vincere potresti le lagrime, ma procedendo, vinto verresti meno; al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t’amassi, m’è, acciò che io viva, cara la vita tua. Sará adunque Sofronia tua, ché di leggeri altra che cosí ti piacesse non troveresti, ed io il mio amore leggermente ad un’altra volgendo, avrò te e me contentato. Alla qual cosa forse cosí liberal non sarei, se cosí rade o con quella difficultá le mogli si trovasser che si truovan gli amici: e per ciò, potendo io leggerissimamente altra moglie trovare ma non altro amico, io voglio innanzi; non vo’ dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma ad uno altro me la trasmuterò; di bene in meglio trasmutarla che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, ad una ora consoli te e me, e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera. — Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse, e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore e d’altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse: — Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia piú, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di’ che tanto ti piace; e poi che la tua liberalitá è tanta, che vince la mia debita vergogna, ed io il farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca, me da te ricever non solamente la donna amata, ma con quella la vita mia. Facciano gl’iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, piú pietoso di me che io medesimo, adoperi. — Appresso queste parole, disse Gisippo: — Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tener questa via. Come tu sai, dopo lungo trattato de’ miei parenti e di que’ di Sofronia, essa è divenuta mia sposa: e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe, e turberei i suoi ed i miei parenti; di che niente mi curerei se io per questo vedessi lei dover divenir tua: ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente ad uno altro, il qual forse non sarai desso tu, e cosí tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho séguiti avanti, e sí come mia la mi meni a casa e faccia le nozze: e tu poi occultamente, sí come noi saprem fare, con lei sí come con tua moglie ti giacerai; poi a luogo ed a tempo manifesteremo il fatto, il quale se lor piacerá, bene stará: se non piacerá, sará pur fatto, e non potendo indietro tornare, converrá per forza che sien contenti. — Piacque a Tito il consiglio; per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo giá Tito guerito e ben disposto: e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito ed andar via. Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta, e dell’una si poteva nell’altra andare; per che, essendo Gisippo nella sua camera ed ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene, gli disse che con la sua donna s’andasse a coricare. Tito, veggendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere, e recusava l’andata: ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò; il quale come nel letto giunse, presa la giovane, quasí come sollazzando, chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose del sí; onde egli un bello e ricco anello le mise in dito, dicendo: — Ed io voglio esser tuo marito. — E quinci consumato il matrimonio, lungo ed amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s’accorgesse che altri che Gisippo giacesse con lei. Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita passò, per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse. E per ciò egli d’andarne e di menarne Sofronia diliberò con Gisippo, il che senza manifestarle come la cosa stesse, far non si dovea né poteva acconciamente; laonde un dí, nella camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che l’uno e l’altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a piagnere, sé dello ’nganno di Gisippo ramaricando: e prima che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n’andò a casa il padre suo, e quivi a lui ed alla madre narrò lo ’nganno il quale ella ed eglino da Gisippo ricevuto avevano, affermando sé esser moglie di Tito e non di Gisippo, come essi credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co’ suoi parenti e con que’ di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le turbazioni molte e grandi. Gisippo era a’ suoi ed a que’ di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno non solamente di riprensione, ma d’aspro gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli esser rendute grazie da’ parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata. Tito, d’altra parte, ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de’ greci tanto innanzi sospignersi co’ romori e con le minacce quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, ed allora non solamente umili ma vilissimi divenire, pensò, piú non fossero senza risposta da comportare le lor novelle: ed avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i parenti di Gisippo e que’ di Sofronia in un tempio fe’ ragunare, ed in quello entrato, accompagnato da Gisippo solo, cosí agli aspettanti parlò: — Credesi per molti filosofanti che ciò che s’adopera da’ mortali sia degl’iddii immortali disposizione e provvedimento; e per questo vogliono alcuni, esser di necessitá ciò che ci si fa o fará mai, quantunque alcuni altri sieno che questa necessitá impongano a quel che è fatto solamente. Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate fieno, assai apertamente si vedrá che il riprender cosa che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi piú savio mostrar che gl’iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e senza alcuno error dispongano e governino noi e le nostre cose; per che, quanto le loro operazion ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai leggermente il potete vedere, ed ancora chenti e quali catene color meritino che tanto in ciò si lasciano trasportar dall’ardire. De’ quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta, dove lei a Gisippo avevate data, non riguardando che ab eterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma mia, sí come per effetto si conosce al presente. Ma per ciò che il parlare della segreta provvedenza ed intenzion degl’iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di niun nostro fatto s’impaccino, mi piace di discendere a’ consigli degli uomini; de’ quali dicendo, mi converrá far due cose molto a’ miei costumi contrarie: l’una fia alquanto me commendare e l’altra il biasimare alquanto altrui o avvilire; ma per ciò che dal vero né nell’una né nell’altra non intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò. I vostri ramarichíi, piú da furia che da ragione incitati, con continui mormoríi, anzi romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo per ciò che colei m’ha data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avevate data, lá dove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l’una, perché egli ha fatto quello che amico dèe fare; l’altra, perché egli ha piú saviamente fatto che voi non avevate. Quello che le sante leggi dell’amicizia vogliono che l’uno amico per l’altro faccia, non è mia intenzione di spiegare al presente, essendo contento d’avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il legame dell’amistá troppo piú stringa che quel del sangue o del parentado, con ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali gli c’eleggiamo ed i parenti quali gli ci dá la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò piú la mia vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico, come io mi tengo, niun se ne dèe maravigliare. Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con piú istanza vi si convien dimostrare, lui piú essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che della provvedenza degl’iddii niente mi pare che voi sentiate, e molto men conosciate dell’amicizia gli effetti. Dico che il vostro avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo, giovane e filosofo, quel di Gisippo la diede a giovane e filosofo; il vostro consiglio la diede ad ateniese, quel di Gisippo a romano; il vostro ad un gentil giovane, quel di Gisippo ad un piú gentile; il vostro ad un ricco giovane, quel di Gisippo ad un ricchissimo; il vostro ad un giovane il quale non solamente non l’amava, ma appena la conosceva, quel di Gisippo ad un giovane il quale sopra ogni sua felicitá e piú che la propria vita l’amava. E che quello che io dico sia vero, e piú da commendare che quello che voi fatto avevate, riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosofo sia come Gisippo, il viso mio e gli studi, senza piú lungo sermon farne, il possono dichiarare. Una medesima etá è la sua e la mia, e con pari passo sempre proceduti siamo studiando. È il vero che egli è ateniese ed io romano. Se della gloria delle cittá si disputerá, io dirò che io sia di cittá libera, ed egli di tributaria; io dirò che io sia di cittá donna di tutto il mondo, ed egli di cittá obediente alla mia; io dirò che io sia di cittá fiorentissima d’armi, d’imperio e di studi, dove egli non potrá la sua se non di studi commendare. Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del popolazzo di Roma; le mie case ed i luoghi publici di Roma son pieni d’antiche imagini de’ miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti triunfi menati da’ Quinzi in sul roman Capitolio: né è, per vecchiezza, marcita, anzi oggi piú che mai fiorisce la gloria del nostro nome. Io mi taccio, per vergogna, delle mie ricchezze, nella mente avendo che l’onesta povertá sia antico e larghissimo patrimonio de’ nobili cittadini di Roma; la quale, se dall’oppinione de’ volgari è dannata, e son commendati i tesori, io ne sono, non come cupido ma come amato dalla fortuna, abbondante. Ed assai conosco che egli v’era qui, e doveva essere e dèe, caro d’aver per parente Gisippo: ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me lá avrete ottimo oste, ed utile e sollecito e possente padrone, cosí nelle publiche opportunitá come ne’ bisogni privati. Chi adunque, lasciando star la volontá e con ragion riguardando, piú i vostri consigli commenderá che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. È adunque Sofronia ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma ed amico di Gisippo; per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dèe né sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi, Sofronia esser moglie di Tito, ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta: nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa. E questo non è miracolo, né cosa che di nuovo avvenga. Io lascio star volentieri quelle che giá contro a’ voleri de’ padri hanno i mariti presi e quelle che si sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli, e quelle che prima con le gravidezze o co’ parti hanno i matrimoni palesati che con la lingua, ed hagli fatti la necessitá aggradire: quello che di Sofronia non è avvenuto; anzi ordinatamente, discretamente ed onestamente da Gisippo a Tito è stata data. Ed altri diranno, colui averla maritata, a cui di maritarla non apparteneva. Sciocche lamentanze son queste e feminili, e da poca considerazion procedenti. Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie ed istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati. Che ho io a curare se il calzolaio piú tosto che il filosofo avrá d’un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli piú non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo ha ben Sofronia maritata, l’andarsi del modo dolendo e di lui è una stoltizia superflua; se del suo cenno voi non vi confidate, guardatevi che egli piú maritar non ne possa, e di questa il ringraziate. Nondimeno dovete sapere che io non cercai né con ingegno né con fraude d’imporre alcuna macula all’onestá ed alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io l’abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a tôrle la sua virginitá né come nemico la volli men che onestamente avere, il vostro parentado rifiutando: ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della vertú di lei, conoscendo che, se con quello ordine che voi forse volete dire cercata l’avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l’avessi, avuta non l’avrei. Usai adunque, l’arte occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non era disposto, consentire in mio nome; ed appresso, quantunque io ardentemente l’amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non appressandomi prima a lei, sí come essa medesima può con veritá testimoniare, che io e con le debite parole e con l’anello l’ebbi sposata, domandandola se ella me per marito volea; a che ella rispose del sí. Se esser le pare ingannata, non io ne son da riprendere, ma ella, che me non domandò chi io fossi. Questo è adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate, minacciate ed insidiate. E che ne fareste voi piú, se egli ad un villano, ad un ribaldo, ad un servo data l’avesse? Quali catene, qual carcere, quali croci ci basterieno? Ma lasciamo ora star questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare, v’ho palesato quello che io forse ancora v’avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete, per ciò che, se ingannare o oltraggiare v’avessi voluto, schernita la vi poteva lasciare: ma tolga Iddio via questo, che in romano spirito tanta viltá albergar possa giá mai. Ella adunque, per consentimento degl’iddii e per vigor delle leggi umane e per lo laudevole senno del mio Gisippo e per la mia amorosa astuzia è mia, la qual cosa voi, per avventura piú che gl’iddii o che gli altri uomini savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi danniate: l’una è Sofronia tenendovi, nella quale, piú che mi piaccia, alcuna ragion non avete; e l’altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati siete, come nemico. Nelle quali quanto scioccamente facciate, io non intendo al presente di piú aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongan giuso gli sdegni vostri, ed i crucci presi si lascino tutti e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro: sicuri di questo, che, o piacciavi o non piacciavi quello che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, mal grado che voi n’abbiate; e quanto lo sdegno de’ romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienza conoscere. — Poi che Tito cosí ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d’aver poco a cura quanti nel tempio n’erano, di quello, crollando la testa e minacciando, s’uscí. Quegli che lá entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado ed alla sua amistá indótti ed in parte spaventati dall’ultime sue parole, di pari concordia diliberarono essere il migliore d’aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito per nemico acquistato; per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d’aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico: e fattasi parentevole ed amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono, la quale, sí come savia, fatta della necessitá vertú, l’amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito, e con lui se n’andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta. Gisippo rimasosi in Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d’Atene cacciato e dannato ad esilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto non solamente povero ma mendico, come potè il men male, a Roma se ne venne per provare se di lui Tito si ricordasse: e saputo lui esser vivo ed a tutti i roman grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardí di far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse chiamare. Per che, passato oltre Tito ed a Gisippo parendo che egli veduto l’avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che giá per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartí: ed essendo giá notte ed esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s’andasse, piú che d’altro di morir disideroso, s’avvenne in un luogo molto salvatico della cittá, dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s’addormentò. Alla qual grotta due li quali insieme erano la notte andati ad imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, ed a quistion venuti, l’uno, che era piú forte, uccise l’altro ed andò via; la qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via: e per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che giá il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale esaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi, per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sí come allora s’usava. Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio, il quale, guardando nel viso il misero condannato ed avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse: ed ardentissimamente disiderando d’aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d’accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò: — Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente; io ho assai con una colpa offesi gl’iddii uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d’uno altro innocente offendergli. — Varrone si maravigliò e dolfegli che tutto il pretorio l’avesse udito, e non potendo con suo onore ritrarsi da far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo, ed in presenza di Tito gli disse: — Come fostu sí folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giá mai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l’uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l’ha ucciso. — Gisippo guardò, e vide che colui era Tito, ed assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sí come grato del servigio giá ricevuto da lui; per che, di pietá piagnendo, disse: — Varrone, veramente io l’uccisi, e la pietá di Tito alla mia salute è omai troppo tarda. — Tito, d’altra parte, diceva: — Pretore, come tu vedi, costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all’ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire: e per ciò liberalo, e me, che l’ho meritato, punisci. — Maravigliossi Varrone dell’istanza di questi due, e giá presummeva niuno dovere esser colpevole; e pensando al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un giovane chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza ed a tutti i romani notissimo ladrone, il quale veramente l’omicidio avea commesso: e conoscendo niun de’ due esser colpevole di quello di che ciascun s’accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per l’innocenza di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone e disse: — Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio dentro mi stimola ed infesta a doverti il mio peccato manifestare: e per ciò sappi, niun di costoro esser colpevole di quello che ciascun se medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi stamane in sul dí: e questo cattivello che qui è, lá vidi io che si dormiva mentre che io i furti fatti dividea con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto, lui non essere uomo di tal condizione; adunque liberagli, e di me quella pena piglia che le leggi m’impongono. — Aveva giá Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condannato; la quale ciascun narrò. Ottaviano li due per ciò che erano innocenti, ed il terzo per amor di lor liberò. Tito, preso il suo Gisippo e molto prima della sua tiepidezza e diffidenza ripresolo, gli fece maravigliosa festa ed a casa sua nel menò, lá dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto e rivestitolo e ritornatolo nell’abito debito alla sua vertú e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune, ed appresso, una sua sorella giovanetta, chiamata Fulvia, gli die’ per moglie, e quindi gli disse: — Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare o volerti con ogni cosa che donata t’ho in Acaia tornare. — Gisippo, costrignendolo da una parte l’esilio che aveva della sua cittá e d’altra l’amore il qual portava debitamente alla grata amistá di Tito, a divenir romano s’accordò; dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, piú ciascun giorno, se piú potevano essere, divenendo amici.
- Santissima cosa adunque è l’amistá, e non solamente di singular reverenza degna, ma d’essere con perpetua laude commendata, sí come discretissima madre di magnificenza e d’onestá, sorella di gratitudine e di caritá, e d’odio e d’avarizia nemica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato; li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggiono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de’ mortali, la qual, solo alla propria utilitá riguardando, ha costei fuor degli estremi termini della terra in esilio perpetuo rilegata. Quale amore, qual ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime ed i sospiri di Tito con tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile ed amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovenili braccia di Gisippo ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della bella giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, quai meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e que’ di Sofronia, non curar de’ disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e degli scherni per sodisfare all’amico, se non costei? E d’altra parte, chi avrebbe Tito senza alcuna diliberazione, potendosi egli onestamente infignere di vedere, fatto prontissimo a procurar la propria morte, per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propria sorella a Gisippo, il quale vedeva poverissimo ed in estrema miseria posto, se non costei? Disiderino adunque gli uomini la moltitudine de’ consorti, le turbe de’ fratelli e la gran quantitá de’ figliuoli, e con gli lor denari il numero de’ servidori s’accrescano: e non guardino, qualunque s’è l’un di questi, ogni menomo suo pericolo piú temere che sollecitudine aver di tôr via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all’amico.
- [IX]
- Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello; fassi il passaggio; messer Torello dá un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano, il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l’onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n’è recato a Pavia, ed alle nozze che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
- Aveva alle sue parole giá Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti parimente era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo riserbando a Dioneo, cosí cominciò a parlare: Vaghe donne, senza alcun fallo Filomena, in ciò che dell’amistá dice, racconta il vero, e con ragione nella fine delle sue parole si dolfe, lei oggi cosí poco da’ mortali esser gradita. E se noi qui per dover correggere i difetti mondani o pur per riprendergli fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue parole: ma per ciò che altro è il nostro fine, a me è caduto nell’animo di dimostrarvi, forse con una istoria assai lunga ma piacevol per tutto, una delle magnificenze del Saladino, acciò che per le cose che nella mia novella udirete, se pienamente l’amicizia d’alcuno non si può per li nostri vizi acquistare, almeno diletto prendiamo del servire, sperando che, quando che sia, di ciò merito ci debba seguire.
- Dico adunque che, secondo che alcuni affermano, al tempo dello ’mperador Federigo primo a racquistar la Terrasanta si fece per li cristiani un general passaggio; la qual cosa il Saladino, valentissimo signore ed aliora soldano di Babilonia, alquanto dinanzi sentendo, seco propose di voler personalmente vedere gli apparecchiamenti de’ signori cristiani a quel passaggio, per meglio poter provvedersi. Ed ordinato in Egitto ogni suo fatto, sembianti faccendo d’andare in pellegrinaggio, con due de’ suoi maggiori e piú savi uomini e con tre famigliari solamente, in forma di mercatante si mise in cammino; ed avendo cerche molte province cristiane, e per Lombardia cavalcando per passare oltre a’ monti, avvenne che, andando da Melano a Pavia ed essendo giá vespro, si scontrarono in un gentile uomo il cui nome era messer Torello di Strá da Pavia, il quale con suoi famigliari e con cani e con falconi se n’andava a dimorare ad un suo bel luogo il quale sopra il Tesino aveva. Li quali come messer Torel vide, avvisò che gentili uomini e stranier fossero, e disiderò d’onorargli; per che, domandando il Saladino un de’ suoi famigliari quanto ancora avesse di quivi a Pavia e se ad ora giugner potesser d’entrarvi, non lasciò rispondere al famigliar, ma rispose egli: — Signori, voi non potrete a Pavia pervenire ad ora che dentro possiate entrare. — Adunque, — disse il Saladino — piacciavi d’insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi possiamo meglio albergare. — Messer Torello disse: — Questo farò io volentieri. Io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infino vicin di Pavia per alcuna cosa: io nel manderò con voi, ed egli vi conducerá in parte dove voi albergherete assai convenevolemente. — Ed al piú discreto de’ suoi accostatosi, gl’impose quello che egli avesse a fare, e mandòl con loro: ed egli al suo luogo andatosene, prestamente, come si potè il meglio, fece ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e questo fatto, sopra la porta se ne venne ad aspettargli. Il famigliare, ragionando co’ gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò ed al luogo del suo signore, senza che essi se n’accorgessero, condotti gli ebbe; li quali come messer Torel vide, tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse: — Signori, voi siate i molto ben venuti. — Il Saladino, il quale accortissimo era, s’avvide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non avesser tenuto lo ’nvito se, quando gli trovò, invitati gli avesse, e per ciò, acciò che negar non potessero d’esser la sera con lui, con ingegno a casa sua gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse: — Messer, se de’ cortesi uomini l’uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi il quale, lasciamo stare del nostro cammino che impedito alquanto avete, ma senza altro essere stata da noi la vostra benivolenza meritata che d’un sol saluto, a prender sí alta cortesia come la vostra è, n’avete quasi costretti. — Il cavalier, savio e ben parlante, disse: — Signori, questa che voi ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che io ne’ vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia: ma nel vero fuor di Pavia voi non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse, e per ciò non vi sia grave l’avere alquanto la via traversata per un poco men di disagio avere. — E cosí dicendo, la sua famiglia venuta da torno a costoro, come smontati furono, i cavalli adagiarono, e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per loro apparecchiate, dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con freschissimi vini, ed in ragionamenti piacevoli infino all’ora di poter cenar gli ritenne. Il Saladino ed i compagni ed i famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano ed erano intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavalier fosse il piú piacevole ed il piú costumato uomo e quegli che meglio ragionasse che alcuno altro che ancora n’avesser veduto. A messer Torello, d’altra parte, pareva che costoro fossero magnifichi uomini e da molto piú che avanti stimato non avea, per che seco stesso si dolea che di compagnia e di piú solenne convito quella sera non gli poteva onorare; laonde egli pensò di volere la seguente mattina ristorare, ed informato un de’ suoi famigli di ciò che far volea, alla sua donna, che savissima era e di grandissimo animo, nel mandò a Pavia assai quivi vicina e dove porta alcuna non si serrava. Ed appresso questo, menati i gentili uomini nel giardino, cortesemente gli domandò chi e’ fossero; al quale il Saladino rispose: — Noi siamo mercatanti cipriani e di Cipri vegnamo, e per nostre bisogne andiamo a Parigi. — Allora disse messer Torello: — Piacesse a Dio che questa nostra contrada producesse cosí fatti gentili uomini, chenti io veggio che Cipri fa mercatanti! — E di questi ragionamenti in altri trapassando, stati alquanto, fu di cenar tempo; per che a loro l’onorarsi alla tavola commise, e quivi, secondo cena sprovveduta, furono assai bene ed ordinatamente serviti: né guari dopo, le tavole levate, stettero, che, avvisandosi messer Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a riposare, ed esso similmente poco appresso s’andò a dormire. Il famigliar mandato a Pavia fe’ l’ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo ma con reale, fatti prestamente chiamar degli amici e de’ servidori di messer Torello assai, ogni cosa opportuna a grandissimo convito fece apparecchiare, ed a lume di torchio molti de’ piú nobili cittadini fece al convito invitare, e fe’ tórre panni e drappi e vai, e compiutamente mettere in ordine ciò che dal marito l’era stato mandato a dire. Venuto il giorno, i gentili uomini si levarono, co’ quali messer Torello montato a cavallo, e fatti venire i suoi falconi, ad un guazzo vicin gli menò, e mostrò loro come essi volassero; ma domandando il Saladino d’alcuno che a Pavia ed al migliore albergo gli conducesse, disse messer Torello: — Io sarò desso, per ciò che esser mi vi conviene. — Costoro, credendolsi, furon contenti ed insieme con lui entrarono in cammino; ed essendo giá terza, ed essi alla cittá pervenuti, avvisando d’essere al migliore albergo inviati, con messer Torello alle sue case pervennero, dove giá ben cinquanta de’ maggior cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a’ quali subitamente furon dintorno a’ freni ed alle staffe. La qual cosa il Saladino ed i compagni veggendo, troppo ben s’avvisaron ciò che era, e dissono: — Messer Torello, questo non è ciò che noi v’avevam domandato: assai n’avete questa notte passata fatto, e troppo piú che noi non vagliamo; per che acconciamente ne potevate lasciare andare al cammin nostro. — A’ quali messer Torello rispose: — Signori, di ciò che iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna piú che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola casa; di questo di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme tutti questi gentili uomini che dintorno vi sono, a’ quali se cortesia vi par fare il negare di voler con lor desinare, farlo potete, se voi volete. — Il Saladino ed i compagni, vinti, smontarono, e ricevuti da’ gentili uomini lietamente, furono alle camere menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate: e posti giú gli arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove splendidamente era apparecchiato, vennero; e data l’acqua alle mani ed a tavola messi con grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon serviti, intanto che, se lo ’mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe piú potuto fargli d’onore. E quantunque il Saladino ed i compagni fossero gran signori ed usi di veder grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi molto di questa, e lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla qualitá del cavaliere, il qual sapevano che era cittadino e non signore. Finito il mangiare e le tavole levate, avendo alquanto d’alte cose parlato, essendo il caldo grande, come a messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s’andarono a riposare: ed esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene, acciò che niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero, quivi si fece la sua valente donna chiamare; la quale, essendo bellissima e grande della persona e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi figlioletti che parevan due agnoli, se ne venne davanti a costoro e piacevolmente gli salutò. Essi, veggendola, si levarono in piè e con reverenza la ricevettero, e fattala seder tra loro, gran festa fecero de’ due belli suoi figlioletti. Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu, essendosi alquanto partito messer Torello, essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò; alla quale i gentili uomini cosí risposero come a messer Torello avevan fatto. Allora la donna con lieto viso disse: — Adunque, veggio io che il mio feminile avviso sará utile, e per ciò vi priego che di spezial grazia mi facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccoletto dono il quale io vi farò venire: ma considerando che le donne secondo il lor piccol cuore piccole cose danno, piú al buono animo di chi dá riguardiate che alla quantitá del dono. — E fattesi venire per ciascuno due paia di robe, l’un foderato di drappo e l’altro di vaio, non miga cittadine né da mercatanti ma da signore, e tre giubbe di zendado e pannilini, disse: — Prendete queste: io ho delle robe il mio signore vestito con voi; l’altre cose, considerando che voi siate alle vostre donne lontani, e la lunghezza del cammin fatto e quella di quello che è a fare, e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor che elle vaglian poco, vi potranno esser care. — I gentili uomini si maravigliarono ed apertamente conobber, messer Torello niuna parte di cortesia voler lasciare a far loro, e dubitarono, veggendo la nobiltá delle robe non mercatantesche, di non essere da messer Torel conosciuti: ma pure alla donna rispose l’un di loro: — Queste son, madonna, grandissime cose e da non dover di leggeri pigliare, se i vostri prieghi a ciò non ci strignessero, alli quali dir di no non si puote. — Questo fatto, essendo giá messer Torel ritornato, la donna, accomandatigli a Dio, da lor si partí, e di simili cose di ciò, quali a loro si convenieno, fece provvedere a’ famigliari. Messer Torello con molti prieghi impetrò da loro che tutto quel dí dimorasson con lui; per che, poi che dormito ebbero, vestitesi le robe loro, con messer Torello alquanto cavalcar per la cittá, e l’ora della cena venuta, con molti onorevoli compagni magnificamente cenarono. E quando tempo fu, andatisi a riposare, come il giorno venne, su si levarono, e trovarono in luogo de’ loro ronzini stanchi tre grossi pallafreni e buoni, e similmente nuovi cavalli e forti alli lor famigliari. La qual cosa veggendo il Saladino, rivolto a’ suoi compagni disse: — Io giuro a Dio che piú compiuto uomo né piú cortese né piú avveduto di costui non fu mai; e se li re cristiani son cosí fatti re verso di sé chente costui è cavaliere, al soldano di Babilonia non ha luogo l’aspettarne pure un, non che tanti quanti, per addosso andargliene, veggiam che s’apparecchiano! — Ma sappiendo che il rinunziargli non avrebbe luogo, assai cortesemente ringraziandonelo, montarono a cavallo. Messer Torello con molti compagni gran pezza di via gli accompagnarono fuori della cittá, e quantunque al Saladino il partirsi da messer Torello gravasse, tanto giá innamorato se n’era, pure, strignendolo l’andata, il pregò che indietro se ne tornasse; il quale, quantunque duro gli fosse il partirsi da loro, disse: — Signori, io il farò poi che vi piace, ma cosí vi vo’ dire: io non so chi voi vi siete, né di saperlo piú che vi piaccia addomando, ma chi che voi vi siate, che voi siate mercatanti non lascerete voi per credenza a me questa volta; ed a Dio v’accomando. — Il Saladino, avendo giá da tutti i compagni di messer Torello preso commiato, gli rispose dicendo: — Messere, egli potrá ancora avvenire che noi vi farem vedere di nostra mercatantia, per la quale noi la vostra credenza raffermeremo; ed andatevi con Dio. — Partissi adunque il Saladino ed i compagni, con grandissimo animo, se vita gli durasse e la guerra la quale aspettava nol disfacesse, di fare ancora non minore onore a messer Torello che egli a lui fatto avesse; e molto e di lui e della sua donna e di tutte le sue cose ed atti e fatti ragionò co’ compagni, ogni cosa piú commendando. Ma poi che tutto il Ponente non senza gran fatica ebbe cercato, entrato in mare, co’ suoi compagni se ne tornò in Alessandria, e pienamente informato, si dispose alla difesa. Messer Torello se ne tornò in Pavia, ed in lungo pensier fu, chi questi tre esser potessero, né mai al vero non aggiunse né s’appressò. Venuto il tempo del passaggio e faccendosi l’apparecchiamento grande per tutto, messer Torello, nonostanti i prieghi della sua donna e le lagrime, si dispose ad andarvi del tutto: ed avendo ogni appresto fatto ed essendo per cavalcare, disse alla sua donna, la quale egli sommamente amava: — Donna, come tu vedi, io vado in questo passaggio sí per onor del corpo e sí per salute dell’anima; io ti raccomando le nostre cose ed il nostro onore; e per ciò che io sono dell’andar certo, e del tornare, per mille casi che posson sopravvenire, niuna certezza ho, voglio io che tu mi facci una grazia: che che di me s’avvenga, ove tu non abbi certa novella della mia vita, che tu m’aspetti uno anno ed un mese ed un dí senza rimaritarti, incominciando da questo di che io mi parto. — La donna, che forte piagneva, rispose: — Messer Torello, io non so come io mi comporterò il dolore nel qual, partendovi, voi mi lasciate: ma dove la mia vita sia piú forte di lui ed altro di voi avvenisse, vivete e morite sicuro che io viverò e morrò moglie di messer Torello e della sua memoria. — Alla qual messer Torel disse: — Donna, certissimo sono che, quanto in te sará, che questo che tu mi prometti avverrá: ma tu se’ giovane donna e se’ bella e se’ di gran parentado, e la tua vertú è molta ed è conosciuta per tutto; per la qual cosa io non dubito punto che molti grandi e gentili uomini, se niente di me si suspicherá, non ti domandino a’ tuoi fratelli e parenti, dagli stimoli de’ quali, quantunque tu vogli, non ti potrai difendere e per forza ti converrá compiacere a’ voler loro: e questa è la cagion per la quale io questo termine e non maggior ti domando. — La donna disse: — Io farò ciò che io potrò di quello che detto v’ho; e quando pure altro far mi convenisse, io v’ubidirò, di questo che m’imponete, certamente. Priego io Iddio che a cosí fatti termini né voi né me rechi a questi tempi. — Finite le parole, la donna piagnendo abbracciò messer Torello, e trattosi di dito uno anello, gliele diede dicendo: — Se egli avviene che io muoia prima che io vi riveggia, ricordivi di me quando il vedrete. — Ed egli presolo, montò a cavallo, e detto ad ogni uomo addio, andò a suo viaggio: e pervenuto a Genova con sua compagnia, montato in galea, andò via, ed in poco tempo pervenne ad Acri e con l’altro esercito de’ cristian si congiunse. Nel quale quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeria e mortalitá, la qual durante, qual che si fosse l’arte o la fortuna del Saladino, quasi tutto il rimaso degli scampati cristiani da lui a man salva fûr presi, e per molte cittá divisi ed imprigionati; tra’ quali presi messer Torello fu uno, ed in Alessandria menato in prigione. Dove non essendo conosciuto e temendo esso di farsi conoscere, da necessitá costretto si diede a conciare uccelli, di che egli era grandissimo maestro: e per questo a notizia venne del Saladino, laonde egli di prigione il trasse e ritennelo per suo falconiere. Messer Torello, che per altro nome che «il cristiano» dal Saladino non era chiamato, il quale egli non riconosceva né il soldan lui, solamente in Pavia l’animo avea e piú volte di fuggirsi aveva tentato, né gli era venuto fatto; per che esso, venuti certi genovesi per ambasciadori al Saladino per la ricompera di certi lor contadini, e dovendosi partire, pensò di scrivere alla donna sua come egli era vivo ed a lei come piú tosto potesse tornerebbe, e che ella l’attendesse; e cosí fece, e caramente pregò un degli ambasciadori, che conoscea, che facesse che quelle alle mani dell’abate di San Pietro in Cieldoro, il quale suo zio era, pervenissero. Ed in questi termini stando messer Torello, avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di suoi uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la bocca il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato, per lo quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello: e cominciò fiso a riguardarlo e parvegli desso; per che, lasciato il primo ragionamento, disse: — Dimmi, cristiano: di che paese se’ tu di Ponente? — Signor mio, — disse messer Torello — io son lombardo, d’una cittá chiamata Pavia, povero uomo e di bassa condizione. — Come il Saladino udí questo, quasi certo di quel che dubitava, tra sé lieto disse: — Dato m’ha Iddio tempo di mostrare a costui quanto mi fosse a grado la sua cortesia! — E senza altro dire, fattisi tutti i suoi vestimenti in una camera acconciare, vel menò dentro, e disse: — Guarda, cristiano, se tra queste robe n’è alcuna che tu vedessi giá mai, — Messer Torello cominciò a guardare e vide quelle che al Saladino aveva la sua donna donate, ma non estimò dover potere essere che desse fossero, ma tuttavia rispose: — Signor mio, niuna ce ne conosco: è ben vero che quelle due somiglian robe di che io giá con tre mercatanti che a casa mia capitarono, vestito ne fui. — Allora il Saladino, piú non potendo tenersi, teneramente l’abbracciò, dicendo: — Voi siete messer Torel di Strá, ed io son l’un de’ tre mercatanti a’ quali la donna vostra donò queste robe: ed ora è venuto il tempo di far certa la vostra credenza qual sia la mia mercatantia, come nel partirmi da voi dissi che potrebbe avvenire. — Messer Torello, questo udendo, cominciò ad esser lietissimo ed a vergognarsi: ad esser lieto d’avere avuto cosí fatto oste, a vergognarsi che poveramente gliele pareva aver ricevuto: a cui il Saladin disse: — Messer Torello, poi che Iddio qui mandato mi v’ha, pensate che non io oramai, ma voi qui siate il signore. — E fattasi la festa insieme grande, di reali vestimenti il fe’ vestire, e nel cospetto menatolo di tutti i suoi maggiori baroni e molte cose in laude del suo valor dette, comandò che da ciascun che la sua grazia avesse cara, cosí onorato fosse come la sua persona; il che da quindi innanzi ciascun fece, ma molto piú che gli altri i due signori li quali compagni erano stati del Saladino in casa sua. L’altezza della subita gloria nella qual messer Torel si vide alquanto le cose di Lombardia gli trasse della mente, e massimamente per ciò che sperava fermamente le sue lettere dovere essere al zio pervenute. Era nel campo o vero esercito de’ cristiani, il dí che dal Saladin furon presi, morto e sepellito un cavalier provenzale di piccol valore il cui nome era messer Torel di Dignes; per la qual cosa, essendo messer Torel di Strá per la sua nobiltá per l’esercito conosciuto, chiunque udí dire: «Messer Torello è morto», credette di messer Torel di Strá e non di quel di Dignes; ed il caso, che sopravvenne, della presura non lasciò sgannar gl’ingannati. Per che molti italici tornarono con questa novella, tra’ quali furon de’ sí presuntuosi, che ardiron di dire, sé averlo veduto morto ed essere stati alla sepoltura; la qual cosa saputa dalla donna e da’ parenti di lui fu di grandissima ed inestimabile doglia cagione non solamente a loro, ma a ciascuno che conosciuto l’avea. Lungo sarebbe a mostrare qual fosse e quanto il dolore e la tristizia ed il pianto della sua donna; la quale dopo alquanti mesi che con tribulazion continua doluta s’era, ed a men dolersi avea cominciato, essendo ella da’ maggiori uomini di Lombardia domandata, da’ fratelli e dagli altri suoi parenti fu cominciata a sollecitar di maritarsi, il che ella molte volte e con grandissimo pianto avendo negato, costretta alla fine le convenne far quello che vollero i suoi parenti, con questa condizione, che ella dovesse stare senza a marito andarne tanto quanto ella aveva promesso a messer Torello. Mentre in Pavia eran le cose della donna in questi termini, e giá forse otto dì al termine del doverne ella andare a marito eran vicini, avvenne che messer Torello in Alessandria vide un di uno il quale veduto avea con gli ambasciador genovesi montar sopra la galea che a Genova ne venia; per che, fattolsi chiamare, il domandò che viaggio avuto avessero e quando a Genova fosser giunti. Al quale costui disse: — Signor mio, malvagio viaggio fece la galea, si come in Creti sentii, lá dove io rimasi; per ciò che, essendo ella vicina di Cicilia, si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la percosse, né ne scampò testa: ed intra gli altri, due miei fratelli vi perirono. — Messer Torello, dando alle parole di costui fede, che eran verissime, e ricordandosi che il termine ivi a pochi dí finiva da lui domandato alla sua donna, ed avvisando niuna cosa di suo stato doversi sapere a Pavia, ebbe per costante, la donna dovere essere rimaritata; di che egli in tanto dolor cadde, che, perdutone il mangiare ed a giacer postosi, diliberò di morire. La qual cosa come il Saladin senti, che sommamente l’amava, venne da lui: e dopo molti prieghi e grandi fattigli, saputa la cagion del suo dolore e della sua infermitá, il biasimò molto che avanti non gliele aveva detto, ed appresso il pregò che si confortasse, affermandogli che, dove questo facesse, egli adopererebbe sì, che egli sarebbe in Pavia al termine dato; e dissegli come. Messer Torello, dando fede alle parole del Saladino, ed avendo molte volte udito dire che ciò era possibile e fatto s’era assai volte, s’incominciò a confortare ed a sollecitare il Saladino che di ciò si diliberasse. Il Saladino ad un suo nigromante, la cui arte giá espermentata aveva, impose che egli vedesse via come messer Torello sopra un letto in una notte fosse portato a Pavia; a cui il nigromante rispose che ciò saria fatto, ma che egli per ben di lui il facesse dormire. Ordinato questo, tornò il Saladino a messer Torello, e trovandol del tutto disposto a voler pure essere in Pavia al termine dato, se esser potesse, e se non potesse, a voler morire, gli disse cosí: — Messer Torello, se voi affettuosamente amate la donna vostra e che ella d’altrui non divenga dubitate, sallo Iddio che io in parte alcuna non ve ne so riprendere, per ciò che di quante donne mi parve veder mai, ella è colei li cui costumi, le cui maniere ed il cui abito, lasciamo star la bellezza che è fior caduco, piú mi paion da commendare e da aver care. Sarebbemi stato carissimo, poi che la fortuna qui v’aveva mandato, che quel tempo che voi ed io viver dobbiamo, nel governo del regno che io tengo, parimente signori, vivuti fossimo insieme: e se questo pur non mi doveva esser conceduto da Dio, dovendovi questo cader nell’animo, o di morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia, sommamente avrei disiderato d’averlo saputo a tempo che io con quello onore, con quella grandezza, con quella compagnia che la vostra vertú merita v’avessi fatto porre a casa vostra; il che poi che conceduto non m’è, e voi pur disiderate d’esser lá di presente, come io posso, nella forma che detto v’ho, ve ne manderò. — Al quale messer Torel disse: — Signor mio, senza le vostre parole m’hanno gli effetti assai dimostrata della vostra benivolenza, la quale mai da me in sí suppremo grado non fu meritata, e di ciò che voi dite, eziandio non dicendolo, vivo e morrò certissimo: ma poi che cosí preso ho per partito, io vi priego che quello che mi dite di fare si faccia tosto, per ciò che domane è l’ultimo dí che io debbo essere aspettato. — Il Saladino disse che ciò senza fallo era fornito: ed il seguente dí, attendendo di mandarlo via la vegnente notte, fece il Saladin fare in una gran sala un bellissimo e ricco letto di materassi, tutti, secondo la loro usanza, di velluti e di drappi ad oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di perle grossissime e di carissime pietre preziose, la qual fu poi di qua stimata infinito tesoro, e due guanciali quali a cosí fatto letto si richiedeano; e questo fatto, comandò che a messer Torello, il quale era giá forte, fosse messa indosso una roba alla guisa saracinesca, la piú ricca e la piú bella cosa che mai fosse stata veduta per alcuno, ed in testa alla lor guisa una delle sue lunghissime bende gli fe’ ravvolgere. Ed essendo giá l’ora tarda, il Saladino con molti de’ suoi baroni nella camera lá dove messer Torello era, se n’andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando, a dir cominciò: — Messer Torello, l’ora che da voi dividermi dèe s’appressa, e per ciò che io non posso né accompagnarvi né farvi accompagnare, per la qualitá del cammino che a fare avete, che nol sostiene, qui in camera da voi mi conviene prender commiato, al qual prendere venuto sono. E per ciò, prima che io a Dio v’accomandi, vi priego per quello amore e per quella amistá la quale è tra noi, che di me vi ricordi, e se possibile è, anzi che i nostri tempi finiscano, che voi, avendo in ordine poste le vostre cose di Lombardia, una volta almeno a vedermi vegnate, acciò che io possa in quella, essendomi d’avervi veduto rallegrato, quel difetto supplire che ora per la vostra fretta mi convien commettere; ed infino che questo avvenga non vi sia grave visitarmi con lettere e di quelle cose che vi piaceranno richiedermi, che piú volentier per voi che per alcuno uom che viva le farò certamente. — Messer Torello non potè le lagrime ritenere, e per ciò, da quelle impedito, con poche parole rispose, impossibil cosa esser che mai i suoi benefici ed il suo valore di mente gli uscissero, e che senza fallo quello che egli comandava farebbe, dove tempo gli fosse prestato. Per che il Saladino, teneramente abbracciatolo e basciatolo, con molte lagrime gli disse: — Andate con Dio — e della camera s’uscí, e gli altri baroni appresso tutti da lui s’accommiatarono e col Saladino in quella sala ne vennero lá dove egli aveva fatto il letto acconciare. Ma essendo giá tardi ed il nigromante aspettando lo spaccio ed affrettandolo, venne un medico con un beveraggio, e fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere: né stette guari, che addormentato fu. E cosí dormendo, fu portato per comandamento del Saladino in sul bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran valore, e sí la segnò, che apertamente fu poi compreso, quella dal Saladino alla donna di messer Torello esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello nel quale era legato un carbunculo tanto lucente, che un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere il cui guernimento non si saria di leggeri apprezzato, ed oltre a questo, un fermaglio gli fe’ davanti appiccare nel quale erano perle mai simili non vedute con altre care pietre assai, e poi da ciascun de’ lati di lui due grandissimi bacin d’oro pieni di doble fe’ porre: e molte reti di perle ed anella e cinture ed altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno. E questo fatto, da capo basciò messer Torello ed al nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenza del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, ed il Saladino co’ suoi baroni di lui ragionando si rimase. Era giá nella chiesa di San Pietro in Cieldoro di Pavia, sí come domandato avea, stato posato messer Torello con tutti i sopraddetti gioielli ed ornamenti, ed ancor si dormiva, quando, sonato giá il matutino, il sagrestano nella chiesa entrò con un lume in mano: ed occorsogli subitamente di vedere il ricco letto, non solamente si maravigliò, ma avuta grandissima paura, indietro fuggendo si tornò; il quale l’abate ed i monaci veggendo fuggire, si maravigliarono e domandaron della cagione. Il monaco la disse. — Oh! — disse l’abate — e sí non se’ tu oggimai fanciullo né se’ in questa chiesa nuovo, che tu cosí leggermente spaventarti debbi; ora andiam noi: veggiamo chi t’ha fatto baco. — Accesi adunque piú lumi, l’abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati, videro questo letto cosí maraviglioso e ricco, e sopra quello il cavalier che dormiva: e mentre dubitosi e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie riguardavano, avvenne che, essendo la vertú del beveraggio consumata, che messer Torel, destatosi, gittò un gran sospiro. Li monaci come questo videro, e l’abate con loro, spaventati e gridando: — Domine, aiutaci! — tutti fuggirono. Messer Torello, aperti gli occhi e da torno guardatosi, conobbe manifestamente sé essere lá dove al Saladino domandato avea, di che forte fu seco contento; per che, a seder levatosi e partitamente guardando ciò che da torno avea, quantunque prima avesse la magnificenza del Saladin conosciuta, ora gli parve maggiore, e piú la conobbe. Nonpertanto, senza altramenti mutarsi, sentendo i monaci fuggire ed avvisatosi il perché, cominciò per nome a chiamar l’abate ed a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel suo nepote. L’abate, udendo questo, divenne piú pauroso, come colui che per morto l’avea dimolti mesi innanzi: ma dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato, sentendosi pur chiamare, fattosi il segno della santa croce, andò a lui; al qual messer Torel disse: — O padre mio, di che dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d’oltremar ritornato. — L’abate, con tutto che egli avesse la barba grande ed in abito arabesco fosse, pur dopo alquanto il raffigurò, e rassicuratosi tutto, il prese per la mano, e disse: — Figliuol mio, tu sii il ben tornato! — E seguitò: — Tu non ti dèi maravigliare della nostra paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non creda fermamente che tu morto sii, tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie, vinta da’ prieghi e dalle minacce de’ parenti suoi e contra suo volere, è rimaritata: e questa mattina ne dèe ire al nuovo marito, e le nozze e ciò che a festa bisogno fa è apparecchiato.— Messer Torello, levatosi d’in sul ricco letto e fatta all’abate ed a’ monaci maravigliosa festa, ognun pregò che di questa sua tornata con alcun non parlasse infino a tanto che egli non avesse una sua bisogna fornita. Appresso questo, fatte le ricche gioie porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto raccontò all’abate. L’abate, lieto delle sue fortune, con lui insieme rendè grazie a Dio. Appresso questo, domandò messer Torel l’abate, chi fosse il nuovo marito della sua donna. L’abate gliele disse; a cui messer Torel disse: — Avanti che di mia tornata si sappia, io intendo di veder che contenenza fia quella di mia mogliere in queste nozze: e per ciò, quantunque usanza non sia le persone religiose andare a così fatti conviti, io voglio che per amor di me voi ordiniate che noi v’andiamo. — L’abate rispose che volentieri: e come giorno fu fatto, mandò al nuovo sposo dicendo che con un compagno voleva essere alle sue nozze; a cui il gentile uom rispose che molto gli piacea. Venuta adunque l’ora del mangiare, messer Torello, in quello abito che era, con l’abate se n’andò alla casa del novello sposo, con maraviglia guatato da chiunque il vedeva, ma riconosciuto da nullo: e l’abate a tutti diceva, lui essere un saracino mandato dal soldano al re di Francia ambasciadore. Fu adunque messer Torello messo ad una tavola appunto di rimpetto alla donna sua, la quale egli con grandissimo piacer riguardava: e nel viso gli pareva turbata di queste nozze. Ella similmente alcuna volta guardava lui, non giá per riconoscenza alcuna che ella n’avesse, ché la barba grande e lo strano abito e la ferma credenza che aveva che egli fosse morto, gliele toglievano. Ma poi che tempo parve a messer Torello di volerla tentare se di lui si ricordasse, recatosi in mano l’anello che dalla donna nella sua partita gli era stato donato, si fece chiamare un giovanetto che davanti a lei serviva, e dissegli: — Di’ da mia parte alla nuova sposa che nelle mie contrade s’usa, quando alcun forestier, come io son qui, mangia al convito d’alcuna sposa nuova, come ella è, che, in segno d’aver caro che egli venuto vi sia a mangiare, ella la coppa con la qual bee gli manda piena di vino; con la qual poi che il forestiere ha bevuto quello che gli piace, ricoperchiata la coppa, la sposa bee il rimanente. — Il giovanetto fe’ l’ambasciata alla donna, la quale, sí come costumata e savia, credendo costui essere un gran barbassoro, per mostrare d’avere a grado la sua venuta, una gran coppa dorata la qual davanti avea, comandò che lavata fosse ed empiuta di vino e portata al gentile uomo; e cosí fu fatto. Messer Torello, avendosi l’anello di lei messo in bocca, sí fece, che bevendo il lasciò cader nella coppa, senza avvedersene alcuno, e poco vino lasciatovi, quella ricoperchiò e mandò alla donna. La quale presala, acciò che l’usanza di lui compiesse, scoperchiatala, la si mise a bocca e vide l’anello, e senza dire alcuna cosa alquanto il riguardò: e riconosciuto che egli era quello che dato avea nel suo partire a messer Torello, presolo e fiso guardato colui il qual forestier credeva, e giá conoscendolo, quasi furiosa divenuta fosse, gittata in terra la tavola che davanti aveva, gridò: — Questi è il mio signore, questi veramente è messer Torello! — E corsa alla tavola alla quale esso sedeva, senza avere riguardo a’ suoi drappi o a cosa che sopra la tavola fosse, gittatasi oltre quanto potè, l’abbracciò strettamente, né mai dal suo collo fu potuta, per detto o per fatto d’alcun che quivi fosse, levare infino a tanto che per messer Torello non le fu detto che alquanto sopra sé stesse, per ciò che tempo da abbracciarlo le sarebbe ancora prestato assai. Allora ella dirizzatasi, essendo giá le nozze tutte turbate ed in parte piú liete che mai per lo racquisto d’un cosí fatto cavaliere, pregandone egli, ogni uomo stette cheto; per che messer Torello dal dí della sua partita infino a quel punto ciò che avvenuto gli era a tutti narrò, conchiudendo che al gentile uomo, il quale, lui morto credendo, aveva la sua donna per moglie presa, se egli essendo vivo la si ritoglieva, non doveva spiacere. Il nuovo sposo, quantunque alquanto scornato fosse, liberamente e come amico rispose che delle sue cose era nel suo volere quel farne che piú gli piacesse. La donna e l’anella e la corona avute dal nuovo sposo quivi lasciò, e quello che della coppa aveva tratto si mise, e similmente la corona mandatale dal soldano: ed usciti della casa dove erano, con tutta la pompa delle nozze infino alla casa di messer Torel se n’andarono, e quivi gli sconsolati amici e parenti e tutti i cittadini, che quasi per un miracolo il riguardavano, con lunga e lieta festa racconsolarono. Messer Torello, fatta delle sue care gioie parte ed a colui che avute aveva le spese delle nozze ed all’abate ed a molti altri, e per piú d’un messo significata la sua felice repatriazione al Saladino, suo amico e suo servidor ritenendosi, piú anni con la sua valente donna poi visse, piú cortesia usando che mai. Cotale adunque fu la fine delle noie di messer Torello e di quelle della sua cara donna, ed il guiderdone delle lor liete e preste cortesie. Le quali molti si sforzan di fare, che, benché abbian di che, sí mal farle sanno, che prima le fanno assai piú comperar che non vagliono, che fatte l’abbiano; per che, se loro merito non ne segue, né essi né altri maravigliarsene dèe.
- [X]
- Il marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d’un villano, della quale ha due figliuoli, li quali le fa veduto d’uccidergli; poi, mostrando lei essergli rincresciuta ed avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camiscia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, piú cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra e come marchesana l’onora e fa onorare.
- Finita la lunga novella del re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse: — Il buono uomo, che aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima, avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello. — Ed appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò:
- Mansuete mie donne, per quel che mi paia, questo dí d’oggi è stato dato a re ed a soldani ed a cosí fatta gente: e per ciò, acciò che io troppo da voi non mi scosti, vo’ ragionar d’un marchese non una cosa magnifica ma una matta bestialitá, come che ben ne gli seguisse alla fine; la quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse.
- Giá è gran tempo, fu tra’ marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare ed in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiero avea; di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piacendo, piú volte il pregaron che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliel tale e di sí fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene molto. A’ quali Gualtieri rispose: — Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. Ed il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerá, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle: quantunque, pur conoscendogli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri ed alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, ed io voglio esser contento: ed acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi. — I valenti uomini risposon che eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie. Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera giovanetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse potere aver vita assai consolata; e per ciò, senza piú avanti cercare, costei propose di volere sposare: e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di tôrla per moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro: — Amici miei, egli v’è piaciuto e piace che io mi disponga a tór moglie, ed io mi vi son disposto piú per compiacere a voi che per disidèro che io di moglie avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d’esser contenti e d’onorar come donna, qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io intendo di tôr per moglie e di menarlami tra qui e pochi dì a casa: e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella e come voi onorevolmente riceverla possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento come voi della mia vi potrete chiamare. — I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro e che, fosse chi volesse, essi l’avrebber per donna ed onorerebbonla in tutte cose sí come donna; ed appresso questo, tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, ed il simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparar le nozze grandissime e belle, ed invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini ed altri da torno: ed oltre a questo, fece tagliare e far piú robe belle e ricche al dosso d’una giovane la quale della persona gli pareva che la giovanetta la quale avea proposto di sposare, ed oltre a questo, apparecchiò cinture ed anella ed una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si richiedea. E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che ad onorarlo era venuto; ed ogni cosa opportuna avendo disposta, disse: — Signori, tempo è d’andare per la novella sposa. — E messosi in via con tutta la compagnia sua, pervennero alla villetta: e giunti a casa del padre della fanciulla, e lei trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri; la quale come Gualtier vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale ella vergognosamente rispose: — Signor mio, egli è in casa. — Allora Gualtieri, smontato e comandato ad ogni uom che l’aspettasse, solo se n’entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei, che avea nome Giannucolo, e dissegli: — Io sono venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenza. — E domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e se ella sarebbe obediente e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sí. Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, ed in presenza di tutta la sua compagnia e d’ogni altra persona la fece spogliare ignuda: e fattisi quegli vestimenti venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i suoi capelli, cosí scarmigliati come erano, le fece mettere una corona, ed appresso questo, maravigliandosi ogni uomo di questa cosa, disse: — Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito. — E poi, a lei rivolto che di se medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: — Griselda, vuoimi tu per tuo marito? — A cui ella rispose: — Signor mio, sí. — Ed egli disse: — Ed io voglio te per mia moglie. — Ed in presenza di tutti la sposò: e fattala sopra un pallafren montare, orrevolmente accompagnata, a casa la si menò. Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia. La giovane sposa parve che co’ vestimenti insieme l’animo ed i costumi mutasse. Ella era, come giá dicemmo, di persona e di viso bella, e cosí come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucolo e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogni uom che prima conosciuta l’avea: ed oltre a questo, era tanto obediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il piú contento ed il piú appagato uomo del mondo, e similmente verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n’era che piú che sé non l’amasse e che non l’onorasse di buon grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo esaltamento pregando, dicendo, dove dir soleano Gualtieri aver fatto come poco savio d’averla per moglie presa, che egli era il piú savio ed il piú avveduto uomo che al mondo fosse, per ciò che niuno altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l’alta vertú di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l’abito villesco. Ed in brieve, non solamente nel suo marchesato ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sí fare, che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, ed in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s’era contro al marito per lei quando sposata l’avea. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata che ella ingravidò, ed al tempo debito partorí una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa. Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell’animo, cioè di volere con lunga esperienza e con cose intollerabili provare la pazienza di lei, primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli, e della figliuola che nata era tristissimi, altro che mormorar non faceano. Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse: — Signor mio, fa’ di me quello che tu credi che piú tuo onore o consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sí come colei che conosco che io sono da men di loro e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti. — Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata per onore che egli o altri fatto l’avesse. Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse: — Madonna, se io non voglio morire, a me convien far quello che il mio signor mi comanda. Egli m’ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e che io... — e non disse piú. La donna, udendo le parole e veggendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l’uccidesse; per che prestamente, presala della culla e basciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso, in braccio la pose al famigliare e dissegli: — Te’, fa’ compiutamente quello che il tuo e mio signore t’ha imposto: ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse. — Il famigliare, presa la fanciulla e fatto a Gualtier sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua costanza, lui con essa ne mandò a Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente l’allevasse e costumasse. Sopravvenne appresso che la donna da capo ingravidò, ed al tempo debito partorí un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma non bastandogli quello che fatto avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dí le disse: — Donna, poscia che tu questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son potuto, sí duramente si ramaricano che un nepote di Giannucolo dopo me debba rimaner lor signore; di che io mi dótto, se io non ci vorrò esser cacciato, che non mi ci convenga fare di quello che io altra volta feci, ed alla fine lasciar te e prendere un’altra moglie. — La donna con paziente animo l’ascoltò, né altro rispose se non: — Signor mio, pensa di contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiero alcuno, per ciò che niuna cosa m’è cara se non quanto io la veggio a te piacere. — Dopo non molti dí Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato aveva per la figliuola, mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato d’averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse, di che Gualtieri si maravigliava forte, e seco stesso affermava, niuna altra femina questo poter fare che ella faceva: e se non fosse che carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedeva, lei avrebbe creduto ciò fare per piú non curarsene, dove come savia lei farlo conobbe. I sudditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo, ed alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le donne le quali con lei de’ figliuoli cosí morti si condoleano, mai altro non disse, se non che quel ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea. Ma essendo piú anni passati dopo la nativitá della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l’ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de’ suoi disse che per niuna guisa piú sofferir poteva d’aver per moglie Griselda e che egli conosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l’aveva presa, e per ciò a suo potere voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che un’altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso, a che nulla altro rispose, se non che conveniva che cosí fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre, e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto, e vedere ad un’altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in se medesima si dolea: ma pur, come l’altre ingiurie della fortuna aveva sostenute, cosí con fermo viso si dispose a questa dover sostenere. Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a’ suoi sudditi, il papa per quelle aver seco dispensato di poter tôrre altra moglie e lasciar Griselda; per che, fattalasi venir dinanzi, in presenza di molti le disse: — Donna, per concession fattami dal papa io posso altra donna pigliare e lasciar te: e per ciò che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu piú mia moglie non sia, ma che tu a casa Giannucolo te ne torni con la dota che tu mi recasti, ed io poi un’altra, che trovata n’ho convenevole a me, ce ne menerò. — La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime, e rispose: — Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobiltá in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea, né mai come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, ed a me dèe piacere e piace di renderlovi: ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dota me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare né a voi pagatore né a me borsa bisognerá né somiere, per ciò che di mente uscito non m’è che ignuda m’aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo nel quale io ho portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n’andrò ignuda: ma io vi priego, in premio della mia virginitá che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camiscia sopra la dota mia vi piaccia che io portarne possa. — Gualtieri, che maggior voglia di piagnere aveva che d’altro, stando pur col viso duro, disse: — E tu una camiscia ne porta. — Quanti dintorno v’erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei che sua moglie tredici anni o piú era stata, di casa sua cosí poveramente e cosí vituperosamente uscire, come era uscirne in camiscia: ma invano andarono i prieghi; di che la donna in camiscia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatigli a Dio, gli uscí di casa ed al padre se ne tornò, con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro. Giannucolo, che creder non avea mai potuto questo esser vero, che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, ed ognidí questo caso aspettando, guardati l’aveva i panni che spogliati s’avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che, recatigliele ed ella rivestitiglisi, a’ piccoli servigi della paterna casa si diede sí come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nemica fortuna. Come Gualtieri questo ebbe fatto, cosí fece veduto a’ suoi che presa aveva una figliuola d’un de’ conti da Panago: e faccendo fare l’appresto grande per le nozze, mandò per la Griselda che a lui venisse; alla quale venuta disse: — Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta, ed intendo in questa sua prima venuta d’onorarla: e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciar le camere né fare molte cose che a cosí fatta festa si richeggiono; e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far c’è, e quelle donne fa invitar che ti pare, e ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare. — Come che queste parole fossero tutte coltella al cuor di Griselda, come a colei che non aveva cosí potuto por giú l’amore che ella gli portava come fatto aveva la buona fortuna, rispose: — Signor mio, io son presta ed apparecchiata. — Ed entratasene co’ suoi pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa della qual poco avanti era uscita in camiscia, cominciò a spazzar le camere ed ordinarle, ed a far porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestar la cucina, e ad ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani: né mai ristette, che ella ebbe tutto acconcio ed ordinato quanto si conveniva. Ed appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitar tutte le donne della contrada, cominciò ad attender la festa: e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri indosso, con animo e costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette. Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente che maritata era in casa de’ conti da Panago, essendo giá la fanciulla, d’etá di dodici anni, la piú bella cosa che mai si vedesse, ed il fanciullo era di sei, avea mandato a Bologna al parente suo pregando che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo ed ordinare di menar bella ed onorevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dí con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l’ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini da torno trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri. La quale dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, cosí come era, le si fece lietamente incontro, dicendo: — Ben venga la mia donna! — Le donne, che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la Griselda si stesse in una camera o che egli alcuna delle robe che sue erano state le prestasse, acciò che cosí non andasse davanti a’ suoi forestieri, furon messe a tavola e cominciate a servire. La fanciulla era guardata da ogni uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio: ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei ed il suo fratellino. Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna, veggendo che di niente la novitá delle cose la cambiava, ed essendo certo, ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell’amaritudine la quale estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse; per che, fattalasi venire, in presenza d’ogni uomo sorridendo le disse: — Che ti par della nostra sposa? — Signor mio, — rispose Griselda — a me ne par molto bene; e se cosí è savia come ella è bella, che il credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il piú consolato signor del mondo: ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra che vostra fu giá, déste, non diate a questa, ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sí perché piú giovane è, e sí ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata. — Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva, costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato e disse: — Griselda, tempo è ornai che tu senta frutto della tua lunga pazienza e che coloro li quali me hanno reputato crudele ed iniquo e bestiale conoscano che ciò che io faceva ad antiveduto fine operava, volendoti insegnar d’esser moglie ed a loro di saperla tenere, ed a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non m’intervenisse: e per ciò, per pruova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacere partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò che io tra molte ti tolsi e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi: e per ciò con lieto animo prendi questa che tu mia sposa credi, ed il suo fratello, per tuoi e miei figliuoli; essi sono quegli li quali tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi, ed io sono il tuo marito, il quale sopra ogni altra cosa t’amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sí come io, si possa di sua moglier contentare. — E cosí detto, l’abbracciò e basciò, e con lei insieme, la qual d’allegrezza piagnea, levatosi, n’andarono lá dove la figliuola, tutta stupefatta queste cose ascoltando, sedea: ed abbracciatala teneramente, ed il fratello altressi, lei e molti altri che quivi erano sgannarono. Le donne lietissime, levate dalle tavole, con Griselda n’andarono in camera e con migliore agurio trattile i suoi pannicelli, d’una nobile roba delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono. E quivi fattasi co’ figliuoli maravigliosa festa, essendo ogni uomo lietissimo di questa cosa, il sollazzo ed il festeggiar multiplicarono ed in piú giorni tirarono: e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre ed intollerabili l’esperienze prese della sua donna, e sopra tutti savissima tenner Griselda. Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucolo dal suo lavorio, come suocero il pose in istato che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto piú si potea, lungamente e consolato visse. Che si potrá dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien piú degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria? Chi avrebbe altri che Griselda potuto col viso non solamente asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai piú non udite pruove da Gualtier fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto ad una che, quando fuor di casa l’avesse in camiscia cacciata, s’avesse sì ad uno altro fatto scuotere il pilliccione, che riuscito ne fosse una bella roba.
- La novella di Dioneo era finita, ed assai le donne, chi d’una parte e chi d’altra tirando, chi biasimando una cosa e chi un’altra intorno ad essa lodandone, n’avevan favellato, quando il re, levato il viso verso il cielo e veggendo che il sole era giá basso all’ora di vespro, senza da seder levarsi, cosí cominciò a parlare:
- Adorne donne, come io credo che voi conosciate, il senno de’ mortali non consiste solamente nell’avere a memoria le cose preterite o conoscere le presenti: ma per l’una e per l’altra di queste sapere antiveder le future è da’ solenni uomini senno grandissimo reputato. Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostrá sanitá e della vita, cessando le malinconie ed i dolori e l’angosce le quali per la nostra cittá continuamente, poi che questo pistilenzioso tempo incominciò, si veggiono, uscimmo di Firenze; il che, secondo il mio giudicio, noi onestamente abbiam fatto, per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenza dette ci sieno, e del continuo mangiato e bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare: continua onestá, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi c’è paruta vedere e sentire, il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m’è carissimo. E per ciò, acciò che per troppo lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse, nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, ed avendo ciascun di noi la sua giornata avuta la sua parte dell’onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci lá onde ci partimmo. Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, giá da piú altre saputa da torno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe: e per ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi altramenti diliberaste, io ho giá pronto cui per lo dí seguente ne debba incoronare. — I ragionamenti furon molti tra le donne e tra’ giovani, ma ultimamente presero per utile e per onesto il consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva ragionato; per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del modo che a tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata infino all’ora della cena, in piè si levò.
- Le donne e gli altri, levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi ad un diletto e chi ad uno altro si diede; e l’ora della cena venuta, con sommo piacere furono a quella, e dopo quella, a cantare ed a sonare ed a carolare cominciarono: e menando la Lauretta una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone; la quale assai piacevolemente cosí incominciò a cantare: S’Amor venisse senza gelosia,
- io non so donna nata
- lieta com’io sarei, e qual vuol sia.
- Se gaia giovanezza
- in bello amante dèe donna appagare,
- o pregio di vertute
- o ardire o prodezza,
- senno, costumi o ornato parlare
- o leggiadrie compiute,
- io son colei, per certo, in cui salute,
- essendo innamorata,
- tutte le veggio en la speranza mia.
- Ma per ciò ch’io m’avveggio
- che altre donne savie son com’io,
- io triemo di paura:
- e pur credendo il peggio,
- di quello, avviso en l’altre esser disio,
- ch’a me l’anima fura;
- e cosí quel che m’è somma ventura
- mi fa isconsolata
- sospirar forte e stare in vita ria.
- Se io sentissi fede
- nel mio signor quant’io sento valore,
- gelosa non sarei:
- ma tanto se ne vede,
- pure che sia ch’inviti l’amadore,
- ch’io gli ho tutti per rei;
- questo m’accuora, e volentier morrei:
- e di chiunque il guata
- sospetto, e temo non mel porti via.
- Per Dio, dunque, ciascuna
- donna pregata sia che non s’attenti
- di farmi in ciò oltraggio:
- ché, se ne fia nessuna
- che con parole o cenni o blandimenti
- in questo il mio dannaggio
- cerchi o procuri, s’io il risapraggio,
- se io non sia svisata,
- piagner farolle amara tal follia.
- Come la Fiammetta ebbe la sua canzon finita, cosí Dioneo, che allato l’era, ridendo disse: — Madonna, voi fareste una gran cortesia a farlo conoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi fosse tolta la possessione, poi che cosí ve ne dovete adirare. — Appresso questa, se ne cantaron piú altre: e giá essendo la notte presso che mezza, come al re piacque, tutti s’andarono a riposare. E come il nuovo giorno apparve, levati, avendo giá il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono: ed i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s’erano, da esse accommiatatisi, a loro altri piaceri attesero; ed esse, quando tempo lor parve, se ne tornarono alle lor case.
- * * *
- * * *
- Conclusione dell’autore.
- Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sí come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non giá per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa, Iddio primieramente ed appresso voi ringraziando, è da dare alla penna ed alla man faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire; con ciò sia cosa che a me paia esser certissimo, queste non dovere avere spezial privilegio piú che l’altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata aver mostrato; quasi a tacite quistion mosse, di rispondere intendo. Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenza usata, sí come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sí disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto. Ma presuppognamo che cosí sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste: dico che, a rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragion vengon prontissime. Primieramente, se alcuna cosa in alcuna n’è, le qualitá delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sará conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta piú liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali piú le parole pesan che i fatti e piú d’apparer s’ingegnan che d’esser buone, dico che piú non si dèe a me esser disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica agli uomini ed alle donne di dir tuttodí «fóro» e «caviglia» e «mortaio» e «pestello» e «salsiccia» e «mortadello», e tutto pien di simigliami cose. Senza che, alla mia penna non dèe essere meno d’autoritá conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il dragone, dove gli piace, ma egli fa Adamo maschio ed Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute dell’umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. Appresso, assai ben si può conoscere che queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire; quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le scritte da me si truovino assai; né ancora nelle scuole de’ filosofanti, dove l’onestá non meno che in altra parte è richesta, né tra chericj né tra filosofi in alcun luogo, ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli piú onesti non disdicevole, dette sono. Le quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sí come possono tutte l’altre cose, avendo riguardo all’ascoltatore. Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi, secondo Cinciglione e Scolaio ed assai altri, ed a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a’ febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’ mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le cittá, che sia malvagio? L’armi similmente la salute difendon di coloro che paceficamente di viver disiderano: ed anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l’adoperano. Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola: e così come l’oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più reverende che quelle della divina Scrittura? E si sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé ed altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in se medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utili ed oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali state son raccontate. Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere: benché e le pinzochere altressi dicono ed anche fanno delle cosette otta per vicenda! Saranno similmente di quelle che diranno, qui esserne alcune che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio. Concedasi: ma io non potea né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, ed io l’avrei scrìtte belle. Ma se pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente: e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe tanti creare, che esso di lor soli potesse fare oste. Conviene, nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici giovanette, come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga: elle, per non ingannare alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono. Ed ancora, credo, sará tal che dirá che ve ne son di troppo lunghe; alle quali ancora dico che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai infino a questa ora che io alla fine vengo della mia fatica, non m’è per ciò uscito di mente, me avere questo mio affanno offerto all’oziose e non all’altre: ed a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli l’adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete; ed oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, piú distesamente parlarvi si conviene che a quegli che hanno negli studi gl’ingegni assottigliati. Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno, le cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance, e mal convenirsi ad uno uomo pesato e grave aver cosí fattamente scritto. A queste sono io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che, da buon zelo movendosi, tènere sono della mia fama. Ma cosí alla loro opposizion vo’ rispondere: io confesso d’esser pesato, e molte volte de’ miei di essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m’hanno, affermo che io non son grave, anzi sono io sì lieve, che io sto a galla nell’acqua: e considerato che le prediche fatte da’ frati per rimorder delle lor colpe gli uomini, il piú oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggiono, estimai che quegli medesimi non istesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore ed il ramarichio della Maddalena ne le potrá agevolmente guerire. E chi stará in pensiero che ancor di quelle non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de’ frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è da credere che altro che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono il disagio per l’amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono: e se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe piú piacevole il piato loro. Confesso nondimeno, le cose di questo mondo non avere stabilitá alcuna, ma sempre essere in mutamento, e cosí potrebbe della mia lingua essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio giudicio, il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io l’aveva la migliore e la piú dolce del mondo: ed in veritá, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per risposta. E lasciando omai a ciascuna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo aiuto m’ha al disiderato fine condotto: e voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l’averle lette.
- qui finisce la decima ed ultima giornata del libro
- chiamato decameron.
- * * *
- NOTA
- * * *
- I
- La celebritá tre volte secolare del codice nel quale Francesco Mannelli terminava di trascrivere addí 13 agosto 1384 il Decameron (oggi Laurenziano XLII, i = L) era assicurata il giorno in cui Vincenzo Borghini, filologo principe e dell’opera boccaccesca studioso autorevolissimo, esprimeva intorno ad esso questi giudizi: «fu scritto l’anno mccclxxxiiii e dopo la morte dell’autore il nono, e da uomo (come a molti segni si conosce) intendente, diligente e molto accorto, Francesco di Amaretto della nobilissima famiglia de’ Mannelli, e dallo originale istesso dell’autore, come egli in piú di un luogo fa fede»1. Nessun dubbio che il Borghini si riferisse specialmente alla postilla dal Mannelli apposta alla parola «costette» di II 204272 e che suona: «cosí dice il testo originale, e però non radere tu che leggi» (L, c. 142v); ed insieme, ad altre di questo tenore: «sic est testus», «sic erat testus», «cosí dice il testo», «dicit testus» (alle parole «paoneggiar» I 2308, «come vivi» I 23418, «sosta» II 2102, «tal cosa» II 2163). Ma l’opinione si fondava anche su altre prove numerose di diligenza e di scrupolo nella copiatura, che il Mannelli pareva offrire: non mancando, dopo che aveva introdotto di suo un supplemento, d’avvertire chi legge con un «deficiebat» ; annotando «deficit» se aveva rilevato la mancanza ma non aveva creduto di supplire; dove gli fosse parsa non buona una lezione, limitandosi nel margine a proporne cautamente l’emendamento ovvero modificando senza trascurare di far conoscere la lezione originale o almeno appagandosi di mettere in guardia contro l’errore sia vero che presunto3. Aggiungasi che molte altre postille, tra le tante bizzarre o maliziose o svelte, facevan fede di una discreta coltura classica e volgare4 in chi le andava vergando (il Mannelli cita in esse Vergilio, Seneca, Giovenale, Isidoro, Dante, il «Fiammetto», tre volte la Teseide, cinque il Filostrato); che del trascrittore si doveva conservare il ricordo in Firenze come di persona ragguardevole5; che si favoleggiò, e per molto tempo si ebbe in conto di fondata veritá, che il Mannelli fosse stato intrinseco amico e, chi disse compare, chi addirittura «figlio di battesimo» ossia figlioccio di messer Giovanni6. Queste ragioni accrebbero immensamente agli occhi dei dotti il valore della copia, ed appena dieci anni dopo la prima presentazione di L il Salviati giungeva ad asserire «che egli solo vale il rimaso di tutti gli altri insieme, anzi piú senza fine: intanto, che poco avremmo per piú sicuro l’originale stesso»7: parole non aliene dal gusto ormai secentisticamente incline all’enfasi ed all’amplificazione8.
- Ma, prescindendo dagli asseriti suoi rapporti con la copia mannelliana, è da constatare come di esso l’autografo noi non siamo in grado di dir nulla. Facile stabilire che «fino dagli antichi tempi perí»; ma era per lo meno arrischiato affermare che si trovasse tra i libri boccacceschi lasciati per testamento a frate Martino da Signa, insieme coi quali sarebbe arso nell’incendio della chiesa di Santo Spirito (21-22 marzo 1471) o nel bruciamento delle vanitá ordinato dal Savonarola nel 14979. A buon conto, tralasciando quest’ultima men seria asserzione, è provato che l’incendio non danneggiò la biblioteca del convento, che rimase in essere sino al principio del Cinquecento, quando dunque studiosi ed editori del Dec. avrebbero avuto ogni agio di vedere e di studiare il prezioso volume; ed anzi sappiamo che sin dal 1451 non era piú traccia in quella libreria di nessuna delle opere volgari del Nostro10. Un’altra ipotesi in proposito risale al Foscolo: che l’autore, dopo la visita del famigerato frate emissario del Petroni (1362), non che attender mai a correggere ed a ripulire il suo capolavoro, lo distruggesse11; e nessuno dubita infatti che così egli avrebbe fatto se il sacrificio fosse potuto giungere tempestivo, da che il Bocc. medesimo ci si rappresenta in una sua notissima lettera12 vergognoso e dolente delle novelle scritte in gioventú. Ma poteva la scomparsa dell’originale fermare la diffusione di un libro che giá, copiato e ricopiato subito dopo la sua uscita alla luce, correva il mondo? In ogni modo, l’ipotesi della distruzione volontaria scalzava radicalmente la fede nella discendenza di L, ch’è del 1384, dall’autografo: il Foscolo avvertì infatti il contrasto tra l’uno e l’altro concetto, ma non seppe schivare abilmente ogni insidia della deduzione13.
- Che diremo invece dell’altro supposto, che il Bocc. non una, ma «avesse lasciato due copie di propria mano, ma varie»14, così che da esse fossero derivate le varianti sì numerose e gravi nei codici? A voler menare il supposto per buono, converrebbe però anche estenderlo, e pensare che tante copie di man dell’autore fossero state scritte, quante potrebbero contarsi famiglie o stipiti fondamentali, a cui i mss. del Dec. debbano, chi li voglia studiare a fondo, ridursi: il che è manifestamente assurdo.
- Ma né questo studio né una semplice enumerazione di segnature sono, com’è chiaro, da attendersi qui. Basterá ricordare, piú che le scarse e mal determinate notizie raccolte in proposito dal Borghini e passate poi ad altri autori15, quei pochissimi testi a penna che di tempo in tempo furono additati particolarmente come osservabili. Tra essi il piú curioso è quel fascicoletto giá Strozziano (S) che V. Follini illustrò con una lezione tenuta nel 182316, e che in sostanza si riduce ad una specie di estratto della cornice del Dec., costituito dalla «chiusa» delle prime nove Giornate, inclusevi le ballate corrispondenti ed inclusa a suo luogo l’intera novella IX, x; il tutto introdotto da una specie di preambolo satirico-morale e letterario, dove il nome del Bocc. è presentato in maniera da far intendere ch’egli fosse vivo ancora quando il singolare documento fu scritto17. Indiscutibile pertanto l’antichitá di questo, quantunque non forse cosí remota come aveva creduto l’illustratore del «Frammento magliabechiano» (col qual nome fu impropriamente designato S nella tradizione critica); anche la bontá della lezione è certo ragguardevole, specialmente al paragone con la copia Mannelli, ma non mancano segni palesi d’inquinamento18. Pessimi senz’altro, e da non tenere in conto che di mere unitá bibliografiche, diremo invece altri due codici dei quali è stato fatto conoscere per le stampe qualche saggio in occasione di nozze19. Finalmente sarebbe qui da discorrere del ms. Hamilton, oggi Berlinese (B), e del cospicuo risveglio critico che il suo rinvenimento ha determinato: ma si troverá luogo a ciò piú opportuno nelle pagine seguenti20.
- Passando adesso a dire delle edizioni21, l’unica su quante ne vide il primo secolo della stampa (una dozzina circa) che abbia un reale valore per la critica del testo è quella senza data e senza note tipografiche, anzi di non riconosciuta officina, che comunemente dicono del Deo Gratias dalle parole con cui termina: essa non cede in antichitá, e forse è anteriore, alla prima edizione con la data, ch’è quella veneziana di Cristoforo Valdarfer (1471). La Deo Gratias (D) va identificata con quel libro impresso che il Borghini chiamò «il Secondo» e sagacemente riconobbe tratto «da buon testo» e conforme ad L, «e pure alcuna volta è diverso, che ci mostra che e’ non viene da questo»22; la ebbe presente il Salviati, che ne accolse a studio le varianti. Di essa si occupò trent’anni fa con indagine diligentissima O. Hecker, venendo alla conchiusione che, secondo ogni probabilitá, le serví di esemplare il ms. B appena ricordato piú sopra: ossia proprio, come sin dal Cinquecento s’era veduto, un testo strettamente affine ad L23. La lezione è però non troppo corretta o addirittura scorretta, e va quindi adoperata con incessante cautela.
- La piú importante delle antiche stampe fu dichiarata dal Tobler la fiorentina del 1527 «per li heredi di Philippo di Giunta» (G). Ne parlò il Borghini come del principal fondamento della fatica sua e degli altri Deputati, e sommamente celebrò quei «giovani nobili e virtuosi» i quali attesero a correggere il Dec. «con gran diligenza e non minor giudizio» purgandolo «da tanti e tanto gravi errori»; un po’ di freddo mise nel fervore di questi elogi il Salviati quando rilevò, quel testo «essere in molti luoghi stato corretto di fantasia, avvengaché bene le piú volte, e per acconcio modo, e con ingegno si vegga fatto»24. Secondo il Borghini i dotti giovani non conobbero L, o lo conobbero tardi ed a stampa inoltrata; essi si sarebbero valsi invece di un codice giá appartenuto a Giannozzo Manetti († 1459) e specialmente di un altro di casa Cavalcanti tenuto sempre «in grande stima e reverenzia », restati ambedue inaccessibili ai Deputati del 1573 e che nemmeno noi siamo in grado d’identificare25. Se non che un raffronto tra la lezione della Giuntina e quella di L (raffronto reso facile dal fatto che l’edizione lucchese del 1761 registra in calce con non interrotta diligenza le varianti di G) mostra che il ms. non restò affatto ignoto a chi curò la «ventisettana», e ciò sino dal bel principio della stampa; questo punto fu assodato giá dal Fanfani con argomentazione alquanto prolissa26 ma che un accurato accertamento mi dá per fondata. Oltre ad L è agevole rilevare che quegli editori ebbero per le mani un ms. molto corretto ed autorevole, ch’era strettamente affine a B piú volte ricordato; l’affinitá è comprovata dal fatto che su circa novecento passi da me studiati in cui G presenta una lezione diversa da L, ben 370 coincidono con B. I risultati sin qui raggiunti per questa strada non mi consentono per altro di stabilire se si debba arrivare senz’altro all’identificazione con B, potendosi invece pensare ad un altro rappresentante della stessa famiglia; non bisogna poi dimenticare l’affermazione del Borghini, che di due fonti manoscritte, almeno, si valsero gli editori di G: affermazione che dovrá essere controllata, ma che non può a priori respingersi. Complica l’indagine il fatto delle correzioni «di fantasia» segnalate con piú aperte parole dal Salviati: questi mutamenti arbitrari (che non mancano qualche volta di rivelarsi plausibili o indubitabili emendamenti) credo si possano riconoscere approssimativamente sommanti a due centinaia e mezzo. Ora, detratti questi, resta un numero assai considerevole di lezioni che debbono risalire ad un antigrafo, e tale sará caso per caso o l’uno o l’altro o tutti insieme i mss. di cui s’è parlato, senza poter nemmeno escludere che concorra ancor qualche riflesso di alcuna delle stampe anteriori. Infatti, il testo sul quale condussero il loro lavoro i promotori di G fu un esemplare dell’edizione Aldina del 1522, da loro postillato ed acconciato per la stampa27; quest’originale fu per le mani dei Deputati del 1573, i quali poterono osservare che in certi casi «nel libro loro fu racconcio bene e nello stampato sta male», o che la miglior lezione pervenisse a conoscenza dopo terminata la stampa o che con poca cura fosse eseguita la correzione della stampa medesima28. Se pertanto è presumibile che un certo numero di lezioni proprie dell’Aldina sia andato a confluire in G, è fuor di questione che l’immensa maggioranza delle altre varianti proceda dalle fonti a penna; delle quali, giudicando dal fatto che tra queste lezioni s’incontrano numerose integrazioni di lacune diversamente insanabili, bisognerá pur conchiudere che una almeno sia stata di capitale importanza. In rapporto a tale constatazione la mente corre subito a quel «testo di casa i Cavalcanti, tenuto sempre da quella famiglia in grande stima e reverenzia, e da’ vecchi loro, sotto stretto fidecommesso e gravi pregiudizi cavandolo di casa, lasciato a’ posteri loro»; cosí ne ragguagliò il Borghini, soggiungendo tuttavia che gli editori di G non poterono vedere «il libro proprio, che giá era perduto,.... ma un riscontro con quello da M. Francesco Berni»29. Tante precauzioni per la salvaguardia di un ms., si vera sunt exposita (s’intende), costituiscono una testimonianza lampante di pregio intrinseco attribuito ad un cimelio che appartenesse giá da qualche generazione alla famiglia: come avrebbe potuto essere, supponiamo, quel Dec. sul quale, con grande vergogna e dolore del Bocc. giá vecchio e pentito, le donne famigliari di messer Mainardo Cavalcanti solevano leggere, col permesso del loro capo, «quot ibi sint minus decentia et adversantia honestati, quot Veneris infauste aculei, quot in scelus impellentia etiam si sint ferrea pectora»30.
- La «ventisettana», con tutti i quesiti di critica del testo che solleva e che giova sperare non tardino ad essere in acconcia sede affrontati e risolti, è la prima edizione condotta con serietá moderna di propositi dietro un esame abbastanza diligente di antigrafi bene scelti; e con ragione i Deputati la chiamarono «pianta di tutto l’edificio» e «fondamento» della loro «fabbrica», ch’è la nota edizione rassettata del 1573. Tra l’una e l’altra volsero anni ben poco propizi al libro boccaccesco: dentro le circa trentadue ristampe si contano le famigerate «correzioni» di Lodovico Dolce (1541-’46-’52) e di Girolamo Ruscelli (1552-’54-’57); esse appartengono alla storia delle fortune del capolavoro, non a quella del suo testo, al quale non apportarono che guasti31. Poi, nel, 1559, per sentenza del Concilio tridentino, il Dec. è compreso nell’Index librorum prohibitorum con provvisoria condanna, «donec expurgetur»32; e da allora ogni attivitá editoriale si sospende per forza, durante quasi tre lustri: né ripiglierá che per offrire, ai dotti ed ai curiosi, alle liete comari ed ai filologi, la prima delle tre «rassettature» o meglio sconciature cinquecentesche.
- In che cosa questa consista è presto detto. Quando «quei di Roma» si avvidero che a spegnere del tutto il ricordo e il desiderio dell’opera perseguitata non era pur da pensare e che una dannazione definitiva non sarebbe stata veduta di buon occhio dal granduca Cosimo I, escogitarono il grottesco rimedio di metter fuori il Dec. corretto, ossia purgato in forma «che per niun modo si parli in male o scandalo de’ preti, frati, abati, abbadesse, monaci, monache, piovani, proposti, vescovi o altre cose sacre: ma si mutin li nomi e si faccia per altro modo che parrá meglio». Fu da Roma spedita allo stampatore Giunti in Firenze una copia nella quale era segnato minutamente, parola per parola, tutto ciò che doveva essere tolto via senza remissione; l’Accademia fiorentina propose una lista di nove nomi di persone idonee ad eseguire il lavoro secondo le istruzioni della Curia romana, ed il granduca ne trascelse quattro, che furono i «Deputati» (1571). Il piú operoso e dotto dei quattro, il Borghini, compí da solo, o quasi, in un anno giusto, l’ingente fatica di rimediare nei limiti del possibile alle barbare mutilazioni, adattando saldando rifacendo con la maggior circospezione i passi lesi, riconducendo gl’illesi a quel ch’egli si persuase essere stato il testo originario boccaccesco, curando la stampa ed allestendo le Annotazioni. Il Dec. «ricorretto in Roma et emendato secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento e riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati di Loro Alt. Ser.» (cosí si legge nel frontespizio) vide la luce in Firenze nel 1573; le Annotazioni «fatte dalli molto Magnifici Sig. Deputati da Loro Altezze Serenissime» furono stampate l’anno stesso, ma pubblicate con la data del 157433.
- Queste ultime, pur senza essere quel «tesoro inesausto di critica filologica» che parvero al Fanfani, segnano invero un momento saliente nella storia del testo decameroniano. In esse per la prima volta si premette un accurato studio di mss. e di stampe allo scopo di costituire la norma e la giustificazione della lezione; si mette bene in vista il valore preminente di L, che tra i codici esistenti in Firenze nell’ottavo decennio del secolo era verisimilmente il migliore; si affrontano con sicuri e talvolta moderni criteri questioni spinose di ortografia, di pronunzia, di sintassi, di cronologia della lingua; si discute di numerosi passi controversi col sussidio di una preparazione, su scrittori fiorentini e in genere toscani, coevi e anteriori al Bocc., senza ombra di dubbio vastissima. Ma il testo delle novelle, come sembra a noi invereconda offesa all’arte ed al buon senso, cosí dispiacque a tutti subito che fu dato in pubblico: prima degli altri agli editori (cui non mancò la coscienza dell'enormitá voluta da Roma e della quale cercarono di non assumersi essi il carico), ai lettori, alla Chiesa medesima. Quest’ultima, movendo censure al riassetto dei Deputati, mirò subito a promuovere una nuova sconciatura, che l’autoritá personale del priore degl’Innocenti e l’appoggio dei Medici poterono per qualche anno stornare; ma finalmente, scomparso il Borghini, si dovè porre mano al secondo scempio, demandato dal granduca Francesco I non piú ad una commissione ma ad un solo sapiente, e Lionardo Salviati fu colui che osò proclamarsi responsabile della novella rassettatura del Dec., «di nuovo ristampato e riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera lezione ridotto», come suona il titolo bugiardo (1582). Nonostante la maggior fortuna libraria della fatica salviatesca34, non potè il suo autore schivare il giudizio severo degl’intelligenti, che con la penna satirica del Boccalini lo dichiararono colpevole di «scelleraggine» biasimata da «tutti i virtuosi», e «pubblico e notorio assassino». I testi onde si giovò il Salviati furono i medesimi tenuti davanti dai Deputati, identico il giudizio datone e l’aggruppamento fattone dal nuovo editore (se si prescinde da insignificanti divergenze e dal proclamato riscontro di alcuni altri libri «da non farne molta stima»), sì che, per questo rispetto, non v’è progresso: L, ora chiamato non piú «l’Ottimo» ma «il Mannelli» in omaggio al nome di chi lo scrisse, séguita ad essere la piú fondata autoritá cui sappia appellarsi il Salviati. Solamente va segnalata con lode la prima comparsa di un apparato critico assai ampio, inteso a registrare le principali differenze dal testo del 1573 ed a giustificarle coi riferimenti delle lezioni tenute a fondamento.
- Come non è mio ufficio segnalare le goffaggini, le brutture, le oscenitá, non piú ora scusate dall’intento satirico antifratesco né ripagate dalla bellezza artistica, dei due rassettamenti35, cosí nulla piú che passando rammenterò l’oltraggio addirittura bestiale commesso da Luigi Groto «Cieco d’Adria» con la postuma stampa veneziana del 1588, troppo fortunata ancor essa36; dacché qui nessun elemento nuovo venga introdotto che contribuisca o s’attenga alla critica del testo. Alla quale neppure conferirono le stampe integrali riprese a pubblicarsi, ma fuori d’Italia e della giurisdizione del Santo Uffizio, a partire dal 1665: per quasi trent’anni, dopo l’ultima rispolveratura del Dec. salviatesco, non s’erano avute nuove edizioni, e la prima che venne fuori dalla luterana Amsterdam non poté che riprodurre il testo ventisettano, corretto «nella parte non ritocca col testo del 73»37. Al primo dei due ritornò risolutamente Paolo Rolli ristampando (Londra, 1725) la lezione della piú celebre Giuntina «parola per parola, linea per linea», insieme con certe sue annotazioni grammaticali che provocarono la Lettera di Giuseppe Buonamici sopra il Dec. del Boccaccio, scritto pregevole per le notizie raccolte sulle principali stampe antecedenti38. Intorno agli stessi anni era eseguita in Venezia anche una vera e propria contraffazione della «ventisettana» con caratteri fusi nelle matrici originali di quelli che avevano servito ai Giunti39; a sí fatta sterilitá s’eran ridotte nel bel mezzo del Settecento, mentre il Manni veniva apprestando con l’Istoria del Decamerone (1742) il risveglio degli studi sul Bocc., le cure per il suo capolavoro. Né maggior genialitá o sapienza o acume critico mostraron d’avere quei valentuomini che nel 1761 misero fuori la riproduzione quasi diplomatica del ms. mannelliano, conservandone fedelmente la grafia, le interpunzioni, le cassature, le postille, le correzioni, in guisa che «chiunque leggerá il Decameron su questa Impressione, sará come se ei lo leggesse» su L40.
- Fu cosí fatta la riscossa decameroniana dei toscani, anzi dei fiorentini (tali erano il marchese P. A. Guadagni ed il canonico A. M. Bandini): candida impresa e di arcadicamente innocua filologia, che pure si dové circondare di mistero e non riuscí ad evitare difficoltá ed intoppi41; della quale, non dirò certo il merito, ma il risultato capitale fu d’avere prolungato ed ingigantito il feticismo per il Mannelli, copista e copia. Propizie volgevano invece le stagioni alle «castrature» per uso dei «modesti giovani» (incominciarono nel 1739 e vi si segnalarono il Seghezzi, il p. Corticelli ed il p. Bandiera) oppure, per un altro e peggior verso, alle ristampe londinesi, parigine, lipsiensi o amstelodamie, per erotica suggestione dei viziosi.
- Dalla fine del secolo XVIII alla metá del XIX le poche edizioni serie e rispettabili si uniformano su per giú ai medesimi criteri: fedeltá al testo mannelliano del 1761 temperata con maggiore o minor discrezione da ricorsi e riscontri sulla «ventisettana», da ammodernamenti ortografici, da correzioni, quali ragionevoli quali arbitrarie o cervellotiche o erronee. Riproducono questi caratteri: l’edizione livornese di G. Poggiali (1789-’90), la parmense di M. Colombo (1812-’l4), la veneziana del Vitarelli (1813), la parigina di A. Cerutti (1823), la londinese del Foscolo (1825), le fiorentine d’I. Moutier (1827-’28) e di P. Dal Rio (1841-’44). Di tanti nomi uno solo, quel del poeta di Zante, arresta naturalmente l’attenzione e vuole per sé piú che un fuggevole ricordo: e non per l’edizione42, la quale non si scosta dal modello di sopra ritratto, ma per il profondo ed ispirato Discorso storico sul testo che fu premesso al primo volume43. Il valore intrinseco di esso fu analiticamente posto in rilievo dal Gian, con cui si può convenire che il Discorso meriti d’essere «rammentato con ammirazione», non però dove afferma che vi si schiude «un’èra nuova» nella storia della critica boccaccesca44. Rispetto alla distribuzione della materia ed allo scopo preciso dello scritto, troppe parti appaiono superflue o fuor di posto, di che lo stesso Foscolo mostrò di rendersi conto quando le tolse di lì per rifonderle successivamente in altri saggi; quello che s’attiene propriamente al testo del Dec. non è nuovo (benché di ciò non si possa far colpa allo scrittore), non evita tutti i vecchi errori, e talvolta, come nella questione dell’ortografia, è piuttosto vago e superficiale.
- Il tipo venutosi giá delineando nelle edizioni del primo cinquantennio dell’Ottocento trova la sua piú piena e corrente espressione nel Dec. «riscontrato co’ migliori testi e postillato» da P. Fanfani, del 185745, ma rimasto sino ad oggi il campione a cui si conforma ogni ristampa, o scolastica o mercantile o per uso delle così dette «persone cólte». Le caratteristiche di questo tipo mi piace di esprimere con alcune parole del Tobler che traduco dal tedesco: «tutte le piú recenti edizioni offrono nel migliore dei casi il testo mannelliano (e non giá nell’ortografia originale, ma in una che si accosta qua piú e lá meno all’uso odierno) e lo rendono leggibile sull’autoritá di questo o di quel codice»46. Per conto suo il Fanfani si attenne alla lezione del Colombo, ma la riscontrò «parola per parola» col testo del Mannelli; quando irrepugnabili ragioni» lo costrinsero a scostarsi dall’una o dall’altro, ricorse alle vecchie stampe Deo Gratias, «ventisettana», dei Deputati e del Salviati, ai riscontri dei codici fiorentini e a certi «pregevoli ed esatti» studi, o meglio zibaldoni di varianti, dell’abate V. Masini fiorentino, morto nel 1822 prima di ricavarne qualche frutto per i suoi propositi47. Non potrei dire se da questo inedito materiale ne traesse il convincimento, ma è un fatto che il Fanfani nel suo Ragionamento sopra il testo Mannelli preposto all’edizione accertò con buone e fondate ragioni un punto «rilevantissimo e capitale» per la critica: che il ms. L, pur seguitando ad essere per lui «migliore di ogni altro», sia tuttavia ed inferiore all’importanza attribuitagli e «non per niente copiato dall’autografo». Nell’atto pratico, bensí, l’ossequio ad L sopravvisse nel Fanfani forse immutato o certo piú saldo di quanto avrebbe dovuto dopo tali constatazioni: e la vulgata (quale può considerarsi sino ad oggi la stampa di cui sto parlando) fece perdurare per altri decenni parecchi la tradizione della supremazia e della «mirabil diligenza» della copia mannelliana48.
- [II]
- Un’èra veramente nuova si apre, per l’argomento qui studiato, con la dissertazione consacrata da A. Tobler al ms. B, dissertazione comparsa in luce nel 1887 e divulgata subito tra noi da una nota di L. Biadene49. Il Tobler diede una descrizione larga e metodica del codice, poi lo studiò nella sua lezione in rapporto ad L, rappresentatogli dalla stampa lucchese; riprodusse minuziosamente le varietá tra i due mss. per i tratti dei quali giá il Follini aveva fatto conoscere la lezione di S50, ed affrontò infine, mercé la comparazione testuale condotta limitatamente ad alcune novelle, lo studio dei rapporti intercorrenti tra loro, conchiudendo che B non può essere per certo una copia di L, mentre L può benissimo essere una copia di B. Tale conchiusione fu poco piú tardi avvalorata e determinata dallo Hecker dopo aver esteso a tutto il corpo di B l’esame iniziato dal Tobler: con sicura dimostrazione egli passò a stabilire che B fu l’antigrafo immediato di L, e venne a togliere per sempre a quest’ultimo il posto d’onore che tanta brava gente e per tanto tempo gli aveva ciecamente accordato e continuato a riconoscere51.
- Le indagini nuove, auspicate e promosse dal Tobler, dopo avere condotto a questi eccellenti risultati, disgraziatamente si fermarono52: ma non v’è dubbio che di necessitá esse dovranno al piú presto essere riprese ed estese. Intanto, poiché giá solo con le compiute sin qui si poteva far fare un progresso sensibilissimo al testo del capolavoro della prosa d’arte italiana, fu creduto opportuno concretar la portata pratica di quelle, assumendo la lezione di B per fondamento di una nuova stampa che affrancasse definitivamente il lettore dalla vulgata, permettendogli d’attendere con minor danno il momento della desiderata edizione critica. Tale è appunto lo scopo che si prefigge la presente edizione; di cui dovendosi ora, ch’è tempo, venire a discorrere, par bene premettere alcune notizie descrittive e storiche sul codice adoperato per esemplare53.
- Il ms. Hamilton 90 è un volume in pergamena, di gran formato, costituito attualmente di cc. 112, che furono per altro numerate (forse nel sec. XVII) dall’1 al 111, perché fu lasciata senza numero la carta successiva alla ventesima. Il testo è scritto su due colonne; il Dec. comincia a c. ir e termina a c. 110v; nel recto dell’ultima carta, rimasto bianco in origine, fu scritto di mano degli estremi anni del Trecento o dei primissimi del secolo seguente un «Sonnetus Peregrini de Zambecariis», noto per esserci stato conservato da altre fonti54. Il codice si compone attualmente di 14 fascicoli quaderni, ma è purtroppo mutilo per la perdita, accaduta anteriormente alla numerazione, di due interi fascicoli, uno dopo la c. 79 e un altro dopo la c. 103; mancano per conseguenza i tratti seguenti del nostro vol. II:
- 1) dalle parole «pare che l’uscio nostro sia tócco» 4423 alle parole «e ciascuno altro, se» 8720;
- 2) dalle parole «tu di’, ché non ti fai» 2308 alle parole i fatti suoi a Roma» 28215.
- Una terza mancanza è determinata dalla perdita della prima carta originale, sostituita per cura di un nuovo possessore da un’altra, pure membranacea, la cui scrittura (che a me par senza dubbio di mano del secolo XV) si direbbe condotta espressamente sul modello di quella di B son cosí andati distrutti, del testo primitivo, tutto il proemio ed il tratto iniziale dell’introduzione alla Giorn. I sino alle parole «adoperata pareva seco» di I 1113. Alla prima carta doveva precedere la tavola delle novelle, che andò egualmente distrutta e non fu piú sostituita55. Si può stabilire che intorno al 1470, ossia quando B servì di antigrafo all’edizione del Deo Gratias56, la surrogazione del foglio iniziale era giá avvenuta; invece i due fascicoli intermedi erano sempre al loro posto. In quel tempo il volume non doveva essere rilegato, e questa condizione, come fece svanire quasi completamente la scrittura del recto della prima carta, cosí fu senza dubbio cagione (forse durante il Cinquecento) della piú grave dispersione.
- La scrittura, su due colonne, è nitida, regolarissima: e tutte le caratteristiche grafiche, con la loro esattezza e bellezza, son quali dovevano essere a voler fare del volume un oggetto, se non lussuoso (non vi sono miniature), certamente decoroso e signorile. Le lettere iniziali della Giorn. II e delle successive57 sono turchine con un contorno di fregi rossi, di altezza corrispondente al tratto compreso tra quattro righe di scrittura; altre iniziali, alternativamente rosse e turchine, dell’altezza di due righe, contrassegnano il cominciamento delle parti principali dell’introduzione alla Giorn. I, il principio delle singole novelle e della chiusa di ogni Giornata, ed il capoverso delle ballate; infine, altre piú piccole, sempre rosse e turchine alternate, stanno all’inizio del preambolo delle novelle, a quello della vera e propria narrazione e a quello delle singole stanze delle ballate. I versi di queste sono scritti a modo di prosa; si va a capo ad ogni principio di stanza.
- La riconosciuta derivazione di L dal nostro ms. attesta in modo inconfutabile che quest’ultimo fu scritto prima del 1384, poiché di quest’anno è la copia58. Si può sospettare che B abína appartenuto sullo scorcio del Trecento al cancelliere del Comune bolognese Pellegrino Zambeccari († 1400), che fu non tiepido umanista e corrispondente ed amico del Salutati59; sappiamo invece con certezza che appartenne ad un Giuliano de’ Medici60; nel Settecento diventò proprietá di Apostolo Zeno, il quale lo giudicò pregevolissimo» e «da riporsi tra i piú stimabili»61. Le ultime vicende lo portarono nella collezione del duca di Hamilton e quindi nella sede definitiva attuale.
- [III]
- Questa edizione non pretende di segnare un termine d’arrivo, ma si contenta di costituire il punto di partenza della fase ultima della storia del testo: quello da cui si cominci a scorgere non remoto lo scopo a cui tendono le fatiche della critica industre e sagace, il ripristino del Dec. quale uscì dalle mani dello scrittore (x).
- Per adesso il problema è meno arduo: atteso che gli studi sinora compiuti hanno posto in evidenza il singoiar pregio del ms. B, basterá limitarsi a stampar questo, tenendo però conto di tre ordini di fatti: 1°) la lezione del codice non è immune da errori, anche di notevole gravitá, poiché esso, per quanto assai antico (nulla vieta di crederlo scritto in tempo che il Bocc. ancora viveva), non si può tuttavia ritener procedente senza intermediari da x, sì che rappresenta giá un grado della tradizione manoscritta in cui l’inevitabile inquinamento s’è reso sensibile; 2°) il testo di B non è nella sua integritá sotto gli occhi nostri, avendo sciagurate traversie fatto disperdere, come sappiamo62, una carta in principio del volume, otto nella Giorn. VII, otto ancora tra la Giorn. IX e la X63; 3°) la veste formale (ortografia e morfologia) di B non è tale da potersi senz’altro riprodurre fedelmente nella stampa: ed in questo tipo di stampa, destinalo ad un pubblico ed a finalitá speciali, meno che in altri.
- Incominciando senza piú lo studio del primo di tali punti, premetto che gli errori di B si riconducono alle tre solite categorie fondamentali: interpolazioni, lacune e mutamenti.
- Interpolazioni. — Nel ricopiare era facilissimo che un amanuense incorporasse nel testo note marginali scambiandole per supplementi, senza badare all’assenza dei segni di richiamo che nell’ultimo caso non avrebber dovuto mancare; tanto piú facile fu ciò per il Dec., la cui festivitá e vena satirica peculiari potevano ispirare allo stesso trascrittore o ad un lettore sfoghi, frizzi ed osservazioni di vario genere fissate in forma di postille sugli spazi bianchi delle pagine. Un esempio cospicuo di tale costume ci lasciò appunto il Mannelli, postillatore arrabbiato, le cui note bizzarre o salaci o erudite o critiche (sommano a trecento circa) furono riprodotte con sufficiente esattezza dall’edizione lucchese; ebbene, due di quelle note furono assunte per supplementi integrativi dagli editori appunto del 1761, i quali pertanto le introdussero nella loro stampa, donde si travasarono nella vulgata64! Casi consimili d’interpolazione non poterono dunque mancare nell’ascendenza di B, dalla cui lezione non è però facile snicchiarle: ed anche men facile in genere è dimostrare la lor natura di elementi intrusi, estranei al testo originale. Io ritengo di averne rintracciate alcune e passo qui a farne parola, incominciando dalla piú rilevante di tutte: la famosa espressione «cognominato prencipe Galeotto» che segue al titolo vero e proprio in capo ed in fine del libro.
- Se in B la prima carta originaria, dov’era l’incipit, è andata distrutta (della carta surrogatale non è il caso d’occuparci), nessun dubbio però che quelle tre parole vi figurassero, cosí come vi figurano dentro l’explicit (c. 110v); anche, si trovano in ambedue i luoghi presso tutti gli altri testi, con unica ma ben autorevole eccezione fatta da S, il quale nella sua parte introduttiva ricorda il libro «titolato Decameron», senz’altro65. Tutto ciò fu giá avvertito dall’Hauvette, il quale, in una breve memoria scartò giudiziosamente l’ipotesi preliminare che il Bocc. abbia escogitato quel sottotitolo all’atto della composizione dell’opera66: così, egli venne esplicitamente a riconoscerne il carattere interpolativo, il che, se anche a lui non parve poi di dover percorrere sino in fondo la strada67, basta a costituire un fondato consenso di massima al mio avviso, che quell’aggiunta non abbia il minimo diritto di figurare nel testo.
- Gli altri luoghi nei quali ho creduto che si debbano riscontrare interpolazioni nella lezione di B sono i seguenti:
- I 6414 «chi addosso o in dosso»: le ultime parole hanno tutta l’aria d’una variante segnata in margine e poi entrata abusivamente nel testo68;
- I 15516 «al prod’uomo cioè al conte», ivi I 15532 «il prod’uomo cioè il conte»: qui è evidentissimo che si tratti di glosse dichiarative; basta osservare che il termine «prod’uomo» ricorre anche altre volte poco prima e poco dopo, sempre da solo, e che nei due casi segnalati risulta con tutta chiarezza dal contesto come il prod’uomo sia appunto il conte;
- I 27079 «una sua donna moglie»: altro glossema, che gli editori di G non ammisero ma la vulg. ristabilí;
- I 2756 «alle cui leggi cioè della natura»: in questo e nei due passi seguenti è forse anche piú appariscente la glossa69; qui il termine natura non aveva bisogno d’essere espresso, essendo nominato in modo implicito nel «naturalmente» che precede70;
- II 10536 «i denari cioè li dugento fiorin d’oro»: sor parole di Gulfardo, il quale non aveva bisogno dí chiarire a Guasparruolo quali e quanti fossero i denari presi in prestito qualche giorno prima; ú
- II 2875 «Ella adunque cioè Sofronia»: era perfettamente inutile menzionare il nome della donna, non potendo cader equivoco circa la persona a cui riferire il pronome femminile71.
- Lacune. — B ne presenta una serie purtroppo assai ricca, che va da certune gravissime per la loro estensione ad altre piú brevi, limitate ad una o due parole, spesso congiunzioni o preposizioni o altre parti del discorso poco importanti. Quelle da me riscontrate sono quasi centocinquanta: e non va escluso che ve ne siano altre meno avvertibili, come sicuramente vi sono alcune avvertite mediante il confronto con vari testi (specie D e G), ma non colmate in attesa di accertamenti che converrá attendersi dall’edizione critica. Distribuisco le prime in tre gruppi secondo la loro ampiezza ed entitá nei rispetti del guasto che producono al testo.
- Tre sono le piú estese:
- II 16024 «e con grande istanza il pregò che gliel dicesse» dopo le parole «che cosa fosse l’andare in corso»: il completamento è indispensabile, perché senza esso non si saprebbe come il desiderio di maestro Simone era venuto a conoscenza di Bruno;
- II 29036 «Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovenili braccia di Gisippo ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della bella giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei?»: la perdita di questo periodo distruggerebbe la simmetria ternaria cosí caratteristica della chiusa della presente novella72;
- II 31724 «ed il suo fratello» dopo le parole «sposa credi»: integrazione indispensabile per cagione del «tuoi e miei figliuoli» che segue, il quale mostra che Gualtieri intende di parlare della figlia e del figlio. Tutti e tre i supplementi sono offerti da G, e di qui anche la vulg. li prese.
- Vengon poi piú di cinquanta lacune meno ampie ma non meno rilevanti:
- I 1117 «fededegna persona» (L, mostra di aver avvertito la mancanza correggendo fededegno: ma cfr. I 1727 «persona degna di fede»73);
- I 2813 «da falsa oppinione ingannati»: senza l’aggettivo qualificativo l’espressione restante è un nonsenso logico ed implica egualmente un difetto di articolazione;
- I 12319 «che altressi»: il che essi rimasto nella vulg. diede l’aire alle piú strane spiegazioni74;
- I 12630 «seco propose»: cfr. poche righe piú sotto «sé avere seco proposto» (e seco è in G);
- I 12822 «dove Pericon con la donna dormiva n’andarono»: qui il Fanfani supplisce invece se n’andò, adducendo l’autoritá di alcuni mss. 75; ma la proposta non persuade, sia perché «se n’andò» è giá stato usato quattro righe prima, sia perché i due plurali seguenti «uccisono... presero» richiedono che di quel numero fosse anche la forma verbale coordinata che deve precedere;
- I 13125 «fatte cadere», giá suppl. da L;
- I 13626 «grandissima parte delle cose»: giá L supplí de’ beni, ed il Fanfani, sempre adducendo i mss.76, pose delle piú care cose, che trova un riscontro in I 12825 «delle piú preziose cose»;
- I 14024 «che degli uomini.... si fosse»: il costrutto quasi identico che ricorre sei righe piú sotto mi ha suggerito l’integrazione, in luogo di avvenisse supplito da L e passato alla vulg.;
- I 14330 «sopra i nemici ordinarono»: quanto al supplemento (L ha raunò, impossibile) seguo il Fanfani77, che però lo colloca prima delle parole «un grandissimo esercito», con minor sonoritá;
- I 1458 «la quale fosse ricca» (L supplí sia, ma qui è necessario l’impf. del congiuntivo);
- I 14630 «piú tosto potè»: cfr. la stessa dizione tre righe innanzi;
- I 17117 «fatto migliore estimatore delle sue forze»: G supplí invece divenuto dopo «d. s. forze», ma resta a vedere se di fantasia o su l’autoritá di mss.;
- I 1747 «quanto è a me»: per racconciare questo luogo, «disputatissimo» a torto78, bastava tener presente I 27217 «quanto è a me» (ed anche I 32011 «quanto è al nostro giudicio»), e supplire di conseguenza;
- I 1789 «voglio»: senza questa parola il passo (come figura nella vulg.) è insostenibile; bisogna riflettere che l’asse centrale del periodo passa per la subordinata «che sopra un de’ molti fatti della fortuna si dica»79, alla quale mancherebbe il sostegno: di qui il riconoscimento della lacuna e l’integrazione (per la forma «voglio» cfr. cinque analoghi in I 33818, 4098, II 3325, I18427 e 23220);
- I 1964 «che il re far dovesse», restituito da L;
- I 20634 «il quale era» (anche in G fu supplito era, ma dopo le parole «bello della persona» che seguono);
- I 23922 «lor fe’ chiaro»: l’integrazione è di L (che pose fe’ innanzi a lor) ed è indubitabile80;
- I 24013 «Venuta era», mancanza non avvertita sin qui, perché L, sopprimendo «per che» tre righe sotto, ristabilí l’andamento del periodo;
- I 24412 «non avrebbe mai detto alcuno»: restituzione necessaria e giá eseguita da G, che però prepone alcuno alle altre parole (e cosí la vulg.);
- I 24734 «poca ismovitura a fare aveva»: il passo appar certamente guasto, e non sanabile senza intervento critico; m’è sembrato che vi si avesse a presupporre una lacuna81;
- I 25311 «venir fatte dove che fosse»: senza ammettere la lacuna il passo non si può ricondurre ad un senso soddisfacente, ed i tentativi precedenti misero capo a rebus del genere di quello segnalato dal Fanfani82, il quale del resto non fu piú felice col suo stiracchiato venir fatt’e dove. Giletta non si poteva preoccupar di sapere dove potessero venir fatte» le due condizioni imposte dal marito, ma soltanto se potessero esser adempiute, qualunque fosse il luogo;
- I 25827 «non mossa», suppl. anche da G, che tuttavia inserí mossa dopo «fanciullesco appetito»: la vulg. lo rifiutò83, ma prima o dopo ci vuole;
- I 2707 «aguti strali»: nessuno s’accorse di questa lacuna, eppure la simmetria ternaria che domina il passo la rendeva evidente84; quanto alla parola supplita, la suggerisce I 2639;
- I 2772 «avesse a fare», giá suppl. da L (ma dopo le parole «il di seguente»);
- I 28227 «e lui e me»: è di G (ma quivi lui e me), e per necessitá fu accettato dalla vulg.;
- I 28824 «tante bastonate mi die’»: che la parola rimessa occorra, mostra il confronto con I 10513; chi volle sostenere che non c’è bisogno di supplir nulla perché anche nell’uso vivo tante e quante si adoperano da sole85, dimenticò di rilevare che allora si aggiunge il ne, come si trova infatti nove righe piú oltre del passo in discorso, «darottene tante»86;
- I 2935 «buono uomo», giá suppl. da L;
- I 29919 «essere presta ad ogni suo comandamento»: lacuna non avvertita (cfr. I 25546 «presta a fare ogni suo piacere»);
- I 30810 «d’una fante»: anche qui nessuno s’è avvisto che mancava il sostantivo, e «una» non poteva reggersi da solo perché non si sarebbe saputo di chi si parlasse (il termine «fante» vien fuori soltanto dopo);
- I 3164 «cosí detto», lacuna non segnalata sin qui;
- I 3188 «lei piú spesso»: cfr. qui oltre, p. 372:
- I 3582 «se io ho bene posto mente»: il supplemento fu giá proposto da L (ma collocandolo, con eccessivo ritardo, dopo le parole «vostre battaglie») e passò alla vulg.;
- I 37811 «riposto, nel quale» (G supplí dove, conservato nella vulg.);
- I 3869 «mentre la madre di lei», suppl. da G, la cui integrazione il Fanfani trovò giusta e necessaria, com’è infatti, senza per altro osar di accoglierla nel testo87;
- II 59 «portarla con una novella a cavallo»: le ultime due parole furon reintegrate giá da L;
- II 822 «la qualitá del tempo»: la proposta del supplemento, perfettamente plausibile (cfr. II 13731), è di L;
- II 1510 «dipignendo intendevano»: della lacuna mostrò d’aver sentore il Mannelli con una delle sue solite postille di L («non t’intendo»), ma la vulg. lasciò le cose com’erano, ed il Fanfani s’illuse di spiegare il passo con una norma grammaticale che qui non regge88;
- II 2936 «disse sí forte», mancamento non avvertito da altri;
- II 354 «dall’una delle parti della quale correva», suppl. giá da L (ma dopo la parola «fiumicello») e di qui passato alla vulg.; S conferma autorevolmente cosí il supplemento come il posto da me datogli;
- II 1046 «con ciò sia cosa che la donna», suppl. da L;
- II 1119 «entro la capanna»: è piacevole leggere tutte le amenitá che furono scritte su questo passo, del cui difetto nessuno s’accorse mai89, mentre il guasto era cosí palese! La «capanna» dove si era sollazzato la prima volta il sere da Varlungo (cfr. 1103) era naturalmente il luogo piú adatto a farvi consumare la sua riconciliazione con la Beicolore;
- II 1198 «Venuta era», suppl. da G e passato alla vulg.;
- II 13010 «di gengiovo», suppl. da G (cfr. 1273);
- II 15713 «di lui pigliare vendetta», integrazione di L giustissima;
- II 16713 «Chi avrebbe cosí tosto», suppl. da G;
- II 22831 «un men savio è atto»: non rilevata la lacuna, si arzigogolò intorno a questo passo, che nella vulg. finí con l’assumere la lezione «un men savio è non solamente accrescere splendore»; il costrutto risultante fu secondo il Fanfani di quelli che agli esperti della lingua antica non paiono nuovi»90, ma queste son parole e non ragioni91;
- II 22927 «in riconoscimento dell’onor»: la deficienza è riparata con accordo tra S e G;
- II 29418 «in altri trapassando», lacuna non avvertita;
- II 30311 «gli fe ’ravvolgere»: anche questa non fu segnalata, e non si comprende che spiegazione sintattica potesse darsi del passo cosí malconcio;
- II 30339 «impossibil cosa esser», lacuna parimente inosservata;
- II 3114 «quegli vestimenti venire», giá suppl. da L;
- II 31127 «l’onorasse di buon grado»: non parve sin qui lacunoso il passo, quasi che di grado cosí da solo potesse veramente valere, come fu detto92, di cuore, di buona voglia93.
- Assai piú numerose sono le piccole lacune, le quali dipendono dall’omissione di monosillabi sempre poco appariscenti alla vista, spesso poco importanti al senso, ma che l’andamento dell’espressione consiglia e talvolta impone di ristabilire. Le passerò in rassegna raggruppandole insieme:
- non — I 30527 «non si sforzasse»94, II 1324 «che tu non l’avessi trovata»95;
- sua — I 6812 «oltre alla sua speranza» (cfr. I 714), II 30127 «domandato alla sua donna» (suppl. giá da L);
- chi — II 20522 «chi con vanga e chi con marra», II 31822 «chi biasimando una cosa e chi» (qui manca in B anche la e): la correlazione chi.... e chi richiede l’integrazione96;
- se — I 27418 «se non che» (il Fanfani pensò alla correzione, ma lasciò nella vulg. non che, e non si comprende come l’intendesse);
- ne, né — I 497 e II 20020 «andatosene», I 29020 «salitosene» e II 20913 «venendosene»97; I 3I2 32 «né piú né meno», II 1463 «né l’amare lagrime», II 16235 «né ve ne priego», II 16725 «me ne partii»;
- mi — I 6623 «m’imponete», I 27247 «non m’è»98, II 30227 «conceduto non m’è»99;
- si, sí — I 5910 «partito si fosse» (anche poco avanti leggiamo «partito si fosse» e «si fosse partito»), I 19132 «sí ordinarono» (senza il sí manca il sostegno del che seguente), I 38332 «s’era», II 3226 «s’eran»;
- gli — II 12836 «chiamatigli» ;
- io — I 35234 «ed io con alquanti miei»100;
- è — I 1183 «lungo tempo è che», I 20328 «la quale è sopra», II 28635 cioè» ciò); un, una — I 5929 «ed un pallafreno» (cfr. 605), II 10718 «con un bel moccichino», II 2214 «con una sua cuffia», II 30825 «non una cosa magnifica»;
- il, lo, la — I 9518 «con la mano», I 16719 «il fece ricevere», I 21324 il piú lieto» (suppl. in L), I 2321 «o l’ucciderlo», I 33012 «la teneva fornita», I 33632 «egli la lasciò»101, II 29128 «riconosciutolo»102, II 3131 l’allevasse»;
- per — I 7324 e I 13015 «il perché»103, I 10428 «Per la qual cosa»104, I 3127 «o per soperchio», I 37332 «per opera di Crivello»105, II 15317 per aggiunta»106;
- con — I 36722 «con maravigliosa diligenza» (suppl. da L), II 22712 con orgoglio» (id.);
- a, ad — I 6720 «a dover»107, I 23418 «a Tedaldo», I 24713 «ad ainmenduni»;
- di, del, de’ — I 7323 «danno di sé solo»108, I 16526 e 392 5 «guari di tempo» e I 31312 «guari di spazio»109, I 36518 «di Pietro tu non sai»110, I 3893 «alquanta di fede»111, I 4027 «di continuo», II 222 di soperchio»112, II 1555 «Spinelloccio di Tavena»113, II 18335 «Pietro del Canigiano» (cfr. II 1801 e II 18313, dove non trovo ragione per conservare la forma dello di B accanto alle regolari «il Canigiano, col Canigiano»), II 20828 «di lor detto»114, II 2288 «domandar Giosefo di quello», II 29330 «poco men di disagio», II 30615 «di rimpetto»115;
- in — I 6114 «in rapportar male»116, I 1126 e I 3632 «infra» (cfr. I 1725 «infra mare»), I 15723 I 2603 e I 28929 «in ginocchione» (cfr. I 16832 e i 288 13); I 26532 «in su l’erba ed in sui fiori»;
- che, ché — I 2522 «che niuna novella», I 19829 «che da lui si volea», I 20936 «che e di buona aria»117, I 23028 «essi conoscono che»118, I 2338 «questo, che», I 23431 «si veramente... che io voglio», I 23515 «cosí ti dico.... che», I 25414 «disse alla donna che», I 31032 «e che essi» (suppl. giá da L), I 38813 «conoscendo che», I 40326 «tu puoi vedere che», II 728 «avvenne... che messer Gerí»119, II 1519 «dico che»120, II 1219 «ho io alcuna volta detto che», II 14217 «fu sí lungo l’aspettare... che ella» (suppl. da L), II 1698 «che non vi fummo»121; II 17235 «Disse il medico che», II 17327 «alcuno altro che beffato fosse», II 21825 «avvenne una notte... che», II 28616 «conoscendo che», II 30624 «nelle mie contrade s’usa... che», II 32322 «dico che», II 32418 «conoscere che»;
- e, ed — I 4413 «e per ciò», I 4416 ivi16 «ed a narrarvi quella»122, I 831 «e dopo la cena», I 10115 «e cosí compostamente», I 25635 «e quegli», I 35331 «e di romore», I 39524 «ed era usato», II 3621 «ed in lá», II 2108 «e quivi», II 16916 «e quando», II 19321 «e tutti», II 2108 «e quando», II 29317 «e per ciò», II 30132 «e dopo molti»123.
- Mutamenti. — I mutamenti introdottisi in B rispetto alla certa o probabile lezione originaria sono numerosissimi e dipendono un po’ da tutte quelle cause di alterazione e di perturbamento che sogliono notoriamente produrre nella tradizione manoscritta i passaggi da una copia ad un’altra. Vi hanno parte per conseguenza gli scambi tra due lettere, la caduta o la trascuranza di elementi grafici, l’errata interpretazione dei segni di richiamo o di compendio, la replica di suoni o di parole, i trascorsi provocati dall’occhio o dall’orecchio, l’arbitrio o la sbadataggine nei riguardi delle particelle (e, in genere, delle parole monosillabiche, con le quali si trattava piú confidenzialmente), l’intenzione piú o meno deliberata di modificare quel che non si capisce o non piace. Queste, le principali cause delle mutazioni; l’effetto può essere di due sorta, che il guasto s’avverta immediatamente, con la forza dell’evidenza, oppure che richieda attenzione, meditazione, riscontro per essere individuato: e la correzione sará, naturalmente, anch’essa certissima o certa o meno certa caso per caso. Ma degli errori piú crassi ed insieme meno maligni, come quelli dei quali l’emendamento è ovvio ed intuitivo, non accade intrattenerci qui124, dovendosi rivolgere l’attenzione a quegli altri, i quali per comoditá d’esposizione saranno raccolti in gruppi secondo la natura della causa che ha presieduto al loro formarsi: questo, ben inteso, senza escludere che piú d’una causa abbia concorso talvolta a produrre un medesimo mutamento o che piú errori dello stesso gruppo possano aver avuto origine da cause assai diverse. Ciò premesso, le alterazioni della lezione originaria, quale fu realmente o quale è presumibile che fosse, introdottesi per via di B son le seguenti:
- da scambio tra lettere di forma simile: 1) di m con n, II 32030 «temo non mel» (nel, e cosí la vulg.), II 32718 «m’ha» (na ossia n’á, e cosí la vulg.: il Bocc. di sé parla sempre al sing.); 2) di n con u e vicev., I 2724 «al nostro» (uostro, la correzione è del Fanfani125), I 676 «di noi» (uoi, giá corr. in L), II 3001 «vel menò» (nel, corr. in L), II 3265 «ve ne son» (nône per uene, corr. ciene in L) 3); di l con b, II 4123 «vivaci allori» (albori, alla correzione si era giá pensato ma senza osare d’adottarla126); 4) di s con f, I 27328 «sanno» (fanno, corr. in L);
- da errori relativi all’uso dei segni di compendio: 1) per omissione, I 1193 «l’abbian»(abbia), I 14722 «paltonier» (palloni, serbato religiosamente dalla vulg.), I 37828 «chiamavan» (chiamava, anche nella vulg.127), I 38026 «avean» (avea), I 3928 «pentendosene» (potendosene da un originario pêtendosene, la correzione è giá in L); 2) per intromissione, I 3523 «No» (non, cfr. I 2017, 2292, 40815 e II 6529 «Certo no»), II 3088 «Saluzzo» (sanluzo, e cosí le altre tre volte che il nome ricorre nella nov. X, x128; 3) nonn (ossia non ne con l’ultimo elemento ridotto per elisione a n innanzi a vocale) potè essere scritto originariamente o per disteso in quattro lettere ovvero col segno di compendio nôn: in ambedue i casi si ridusse per fraintendimento al semplice non, e cosí passò nove volte nella vulg.129: I 1278, 27132, 27210, 2878, 39626, i 398 s3, II 821, II 17310, II 17830; 4) i come segno numerale (.i.) potè essere scambiato per il principio dell’art. il e corretto di conseguenza, ciò che si verificò, a mio credere, in II 925 «un botticello» e II 1822 «un dí» (resp. il botticello e il dí, che risalirebbero a ibotticello e idí, indi a .i. botticello e .i. dí; naturalmente la lezione errata di B passò in L e di qui nella vulg.130); con un equivoco non simile ma analogo si può spiegare I 2810 in lui, dove in è intruso131;
- da spostamento di parole: il caso piú semplice è la trasposizione, come nei tre passi I 29835 «che di veleno fosse morto» di che, conservato nella vulg.132), I 31712 «niuna altra cosa» (cosa altra, che diventò cosa altro in L e poi nella vulg.), II 2128 «un poco piú di dimestichezza» (di piú, e cosí la vulg.); piú complessi sono i casi seguenti, che hanno certo per origine parole richiamate dai margini e non bene inserite ai loro posti: I 19227 «sí come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia, cittá di Lombardia, fermò» (in Pavia, c. di L., avevan fatto, con la conseguenza, non rilevata da altri editori, che «fermò il solio» verrebbe ad esser privo di ogni determinazione locale), I 35035 Pasimunda.... ma la fortuna» (ma Pasimunda. ..: l’avversativa è fuor di posto innanzi alla prima proposizione e occorre invece davanti alla seconda); in quest’altro caso una trasposizione si complicò di un la quale richiamato fuori di posto: I 18429 «iv’entro, la quale.... per una figura che sopra una colonna nel mezzo» (per una figura la quale sopra una colonna che133); da trascuranza o inesatta interpretazione dei segni di richiamo: II 119 «una donna la quale questa pestilenza presente ci ha tolta» (una giovane la quale q.p.p. ci a tolta donna, e cosí la vulg.; il passo fu ristabilito sostituendo «donna» al posto di «giovane» e sopprimendolo dopo «tolta», in base al seguente presupposto: in un ascendente di B prima fu scritto una giovane.... tolta, poi giovane, evidentemente improprio134, fu sostituito con donna, che fu registrato nel margine e richiamato al posto di giovane; chi copiò non tenne conto dei segni di chiamata, lasciò immutato giovane, ed inserí donna dopo tolta forse perché questa parola nell’antigrafo era l’ultima della riga e donna stava subito dopo nel margine alla stessa altezza), II 29615 «riguardiate che alla quantitá del dono» (riguardando che a. q. del don riguardiate; l’errore sará da spiegare cosí: il «considerando» che precede influí col suono perdurante nell’orecchio di un amanuense a tramutare riguardiate in riguardando, poi chi s’accorse dello sbaglio scrisse in margine la forma corretta e la richiamò al posto che le spettava, con la conseguenza che riguardando rimase e riguardiate entrò nel testo135), II 32444 «Adamo maschio ed Eva femina» (cristo maschio! quest’aberrazione non fu rilevata da nessuno: bastava avvistare la contiguitá del nome d’Eva e riflettere che Cristo è ricordato subito dopo mediante la perifrasi «Lui medesimo ecc.»; quel Cristo136 fu senza dubbio una chiosa esplicativa apposta proprio alla perifrasi e creduta poi correzione di «Adamo», al quale nome fu pertanto surrogato);
- da duplicazione di parole o di sillabe: 1) immediatamente, I 3225 d’ogni cosa dogni cosa», I 6724 «intendo di dimostrare» (cfr. I 6233), I 796 «egli l’avergli» (egli gli avergli, che il Fanfani non ebbe il coraggio di escludere dalla vulg.137), I 14024 «che che degli uomini» (cfr, sei righe dopo lo stesso costrutto con un solo che), II 12617 «Mamatteuzzo» (la vulg. Ma Matteuzzo, benché l’avversativa non c’entri), II 15419 «avvenuti gli gli estimavano» (anche nella vulg., pur chiamandolo il Fanfani «brutto solecismo»), II 20628 «novella, la quale la quale», II 20885 «in prima in prima», II 2274 «alquanti di divenuti», II 30234 «dite di fare di fare», II 30534 «infino a tanto infino a tanto»; 2) a qualche distanza, I 191 «ciascuna di noi.... a quello di che ciascuna di voi» (diuoi, err. per dinoi, non è che una replica da intrusione), I 8783 «ad impetrare.... ad impetrare che», I 19528 «fosse potuto.... potuto riposare», I 23216 «quanto eravate voi sopra ogni altra donna quanto eravate voi», I 28320 «ora piú che giá mai.... debbo giá mai», I 31228 «con la mano subitamente con la mano», II 1131 «veggendo Maso dir maso», II 16130 «chenti e quali» (quanti, è stato ripetuto il suono finale di «chenti»; cfr. poi II 5527), II 1666 «che voi.... voi prendeste», II 17129 «ed ora in qua ed ora in lá» (qua, corr. in G), II 21530’«levatasi... cosí al buio come era levatasi», II 3033 «tutti.... tutti di velluti»;
- da anticipazione intempestiva di elementi grafici simili: I 27233 «lasciamo stare all’aver conosciuti» (gli, dovuto a gli di «gli amorosi basciari» che segue138), I 28433 «i termini ne’ quali» (ne termini), II 15415 «fa con la sua moglie» (che, dovuto al «che» subito seguente), II 19244 «che tu stanotte» (stu, per colpa della parola successiva), II 28328 «condiscendere a’ consigli» (con non è che l’inizio di «consigli», ed il contesto esclude l’idea di condiscendere, «per discendere» cfr. I 4415), II 32424 né ancora nelle scuole... dette sono... ma ne’ giardini... dette sono»;
- da sovrabbondanza: I 15135 «il che promesso avea», I 1814 «da lui disiderata» (tolgo da lui per analogia con I 17814), II 1815 «aveva la ragione» (cfr. II 211 «aver ragione» ecc.), II 3328 «o avveduti» (tolgo o per analogia con II 395), II 13934 «di mai... d'adoperarla», II 2244 «ad ciascuna»; frequenti sono i che sovrabbondanti139, e cosí gli e, ed140;
- da scambio tra la preposizione semplice e l’articolata: I 3311, 1482, 3825, II 9523, II 28626, II 3111 «del si resp. no» (di, ma cfr. I 546, 5832, 13835, 31512 ecc.141; I 9420 «del legnetto» e 2952 «del loro» (de), II 15235 «dal lavoratore» e II 17419 «dal libro» (da), I 35729 «agli orecchi» e II 20911 «al sole» (ad), II 2993 «esercito de’ cristian» (di, corr. in L,cfr. II 30028);
- da scambio tra preposizioni diverse, semplici e articolate: 1) tra di e da, I 1143 «tempo da ciò» (di), I 20227 «novelle della donna» (dalla), I 27428 «dell’aiuto di Dio e del vostro» (dal... dal, ma dipende da armato» ed è correlativo a «di buona pazienza»), I 27517 «della terra» (dalla, ma correlativo a «del cielo»), I 30830 «di niuna altra acqua» (da, vien poi in correlazione «o delle sue lagrime»), I 33019 «quel di casa» (da, che non dá senso), I 3603 «della Gostanza si partí» (dalla, che renderebbe ancor piú oscuro un passo giá poco perspicuo142), I 39510 «d’una novella» (da, ma dipende da «il farò» col valore di ragionerò), II 1917 «dallo statuto pratese» (dello, che non dá senso), II 11728 «dal dolore» (del, ma è correlativo a «faticato dal peso»), II 12421 «dalle scuole» (delle, precede «levati.... dall’aratro o tratti dalla calzoleria»), II 1382 «dalla donna ammaestrata» (della, che farebbe far nesso con «la fante» e toglierebbe il compl. d’agente ad «ammaestrata»), II 16214 «bossoli delle spezie» (dalle), II 1911 «da ambasciate» (damb., precede «stimolata» e segue il correlai. «e da’ prieghi»), II 21924 «uscito.... da una» (duna, segue «uscí dall’altra»), II 29914 «dal Saladino» (del)143; 2) tra di e in, I 641 «de’ verdi prati» (ne, ma dipende da «ornamento», e poi «de’» si trova nella replica di quest’esordio in II 512), I 40115 «della natura» (nella, ma qui è da intendere peccato della natura ossia peccato naturale, contrapposto a «accidental vizio»), II 956 «nella camera» (della)144; 3) tra di e ad, I 5831 «di rimpetto» (arrimpetto, cfr. p. 361 e n. 4), II 17119 «contessa di Civillari» ad, ma cfr. II 16810); 4) tra da e ad, I 1596 «da fare a far sia» (affare affar145); rientra in questo gruppo la ricca serie dei casi in cui infino ad ora sta per la forma corretta infino da ora: I 20417, 21430, 2894, 33816, 40332, 4043, II 9322, II 16411, II 16921, II 19218146;
- da scambio tra congiunzioni: I 20631 «o le prediche» (e, ma subito dopo si hanno due «o»), I 38031 «e piansero» (o, ma precede e segue «e»), II 19620 «o egli» (e, ma segue «o»147);
- da scambio tra pronomi o particelle pronominali: I 1238 «d’acquistarlo» (acquistarle, corr. in G148), I 22233 «ne la lasciasse» (nel), I 25028 «le mostrasse» (gli), I 32424 «a lei avvenuto» (lui), I 33029 «piacendole» piacendogli), I 37617 «fatta l’avea» (gli), I 4049 «le disse» (gli), II 9426 «le mi» (la mi), II 1344 «le calesse» (gli), II 14935 «avvenirnele» (negli), II 22611 «lor convenne» (gli), II 30725 «gli piacesse» (le), II 3242 «poterle» (poterlo)149;
- da scambio nei segnacasi: I 1422 «dinanzi alla casa» (la), I 4519 «al qual pareva» (il qual, non rilevato sin qui), I 10831 «convenirgli morire» (convenirlo), I 3375, II 1187 e II 1478 «infino alla fine» (infin la150, II 4124 «e gli altri» (ed agli, ma il reggimento è «sotto i»), II 15922 «gli altri alli quali» (li quali, ma il costrutto prosegue «gli vennero gli occhi addosso posti»), II 16031 «la fidanza» (alla, ma in correlazione a «si è grande l’amor»151);
- da scambio tra genere masch. e femm.: I 3620 «una grandissima pezza», I 1833 «gran pezza», II 10819 «una pezza» (un grandissimo pezzo, gr. pezzo, un pezzo, che da L passarono alla vulg.: ma contro di essi sta la ricca serie dei casi in cui si ha il femm. pezza 152); I 405 2857 e 40113 «alla sua fine», I 6532 6810 23727 II 21732 e II 3269 alla fine», I 32928 «fatta fine», I 40833 e II 3081 «la fine», II 2922 nella fine» (al suo fine, al f., fatto f., il f., nel f., rimasti tutti quanti in L e poscia nella vulg., ad eccezione di I 68 che fu corr.: il significato mostra che va ristabilita dappertutto la forma femminile153); I 5517 «una» (uno), I 6736 «stati» (state, corr. dallo Hecker154), I 8228 «era detto» (decta), I 13716 «consolato» (consolata), I 15027 «fatto l’hai» (fatta, e cosí nella vulg.), I 17510 «pietoso» (pietosa), I 1765 «tenero» (tenera), I 19428 «la troppa stanza» (troppo), I 34031 «ciascuno» (ciascuna, e cosí la vulg., ma non è da pensare che solo delle donne si parli qui155), I 35729 e II 11215 «orecchi» (orecchie, ma cfr. il masch. I 733, 30128, 3027, 32533, 35832, 3593, 3819 ecc.), I 36631 «montata» (montati, corr. giá da L), I 38034 «apparecchiato» (apparecchiata, corr. nella vulg.), I 38826 «contento» (contenta), I 3933 «quella aprí nelle reni» (quello, giustamente respinto dal Fanfani156), I 39733 «venuta» (venuto), I 4049 datole un pezzo» (datale), I 4113 «alquanta della notte» (alquanto, mutato per la regola di cui è detto a p. 360, n. 12; il «fu trapassata» che segue è conferma della correzione), II 721 «m’ha tornato» (tornata, ma il pred. ha per ogg. il quale ossia messer Geri Spina), II 149 «mandato» (mandata157), II 11215 «posto orecchi» (posta, corr. da L), II 1338 «innamorata» (innamorato), II 1439 «accostatasi» (accostatosi), II 22933 «alquanta di paglia» (alquanto: v. sopra per I 411í), II 23230 «Il tema» (La, il femm. è dell’uso popolare), II 28627 «ingannata» (ingannato), II 29034 «fatti» (fatte, corr. nella vulg), II 31228 «benedettala» (benedettola);
- da scambio tra numero sing. e plur.: I 152 «accompagnati; li quali» (acompagnato il quale, l’errore fu avvertito e in parte corr. da L 158), I 2325 «piacevole» (piacevoli, corr. dallo Hecker159), I 3035 «medesimi» (medesimo), I 13710 «quello dell’une e dell’altra facci che credi che sia» (altre... sieno, giá in L fu corr. altra che troppo manifestamente si riferiva al sing. «ella»; sieno restò nella vulg. ma è insostenibile: esso sará stato portato dal doppio plur. une e altre, ovvero suggerito dal «sieno raccomandate» che precede), I 23122 «si stanno eglino» (egli), I 2812 «hanne dato» (anno ossia hanno, ma il plur. è escluso dal sogg. «l’aver giá conosciuto»), I 29526 «divenuto infelicissimo» (divenuti infelicissimi, corr. giá da L), I 30027 «colpevoli» (colpevole, corr. dallo Hecker160), I 33421 «casa de’ prestatori» (del prestatore, ma si tratta di due prestatori), I 33724 «ridirle» (ridirla, va riferito al plur. «queste cose»), I 3452 «usanze» (usanza, corr. da L), II 2321 «ingegnati» (ingegnato), II 13436 «la festa del Natale» (le feste, conservato nella vulg.: ma si tratta di una sera sola, e infatti poche righe dopo è detto «la seguente sera alla festa»161, e cfr. anche II 6133), II 1385 «tenute» (tenuta, e cosí la vulg.: ma bastava fare attenzione al ne che precede, il qual si riferisce alla padrona ed alla fante insieme), II 30026 «trasse» (trasser, ma il sogg. è «l’altezza»; fu conservato dalla vulg., e il Fanfani, per non ammettere l’errore di L, arrivò a supporre una svista del Bocc.162), II 32111 «accommiatatisi» (accommiatatosi, corr. da L), II 32324 «le qualitá» (la, il plur. è determinato dal seguente «l’hanno richesta»; si noti che in B precede a quel la un lei espunto, che forse cela in sé il «le» originario163), II 3243 «quelle» (quella);
- da scambi tra modi e tempi dei verbi: I 12429 «si gittarono» (gittano 164), I 1961 «farebbe» (facesse, impossibile, ma rimasto alla vulg.; fu suggerito dal precedente «avvedesse»), I 22912 «come che io creda» (credo), I 24023 «Dirò» (dico, ma in casi analoghi il Bocc. usa il futuro, cfr.I 217 1, II 12414, II 19832, II 20633 e II 26231 «dirò», II 2298 «Dirovvi», II 2382 «Dironne»), I 24220 «lasciaste» (lasciate), I 28620 «sforzansi» (sforzandosi, il Fanfani intuí l’emendamento ma non osò adottarlo165), I 3114 «confortino» (confortano, corr. in L), II 14818 «ricorditi» (ricordati, corr. giá in L perché la frase vuole il congiuntivo), II 17236 «non ricordate» (ricordavate, ma subito dopo è ancora «ve ne ricordate», che rende evidente l’errore: eppure la vulg. lo conservò), II 32016 «credendo» (credo, corr. in L).
- Segue per ultimo un elenco di tutte quelle altre correzioni che sfuggono alle categorie sopra rassegnate:
- I 3213 «mia usanza... di confessarmi» (confessarsi, ma cfr. I 24132 «il confessarmi»; contro il buon senso si volle difendere ingegnosamente ma senza costruito questo svarione, che passò alla vulg.166);
- I 5327 «per ventura» (per adventura, che ha tutt’altro significato167: ciò nondimeno lo stesso scambio è frequentissimo in B,cfr. infatti ancora I 5815, 7527, 8030, 818, 11324, 12528, 14512, 16518, 25329, 27186, 3563, 38329, II 532, II 1522, II 1125, II 11633168);
- I 7322 «ingegnato» (ingegno, corr. giá in L);
- I 10916 «andando alla ventura» (alladventura, corr. in L);
- I 2245 «vendicata» (vendica), e piú avanti si trova I 3536 appresta e II 15022 vendico (ma poi I 35318 apprestata, II 14320 vendicato ecc.): io ho sostituito dappertutto le forme intere, la vulg. conservò vendica e vendico;
- I 2247 «tempo è» (tempo ai, conservato dal Fanfani benché ritenuto lezione cattiva169; cfr. II 32716 «tempo è»);
- I 23424 «sentendo la sua voce» (temendo, scorsa dell’orecchio e dell’occhio, i quali s’erano giá imbattuti alcune righe prima in un doppio «temendo»; la vulg. lo conservò, pur dubitandone il Fanfani170; in G si legge riconoscendo);
- I 2391 «essere stato falso» (fatto, corr. da L);
- I 2658 «quella mia sventura» (la, ch’è impossibile perché il verso risulterebbe troppo corto, onde G allungò sventura in isventura; ma cosí viene fuori uno iato spiacevole; d’altra parte la locuzione quella quando trova un calzante riscontro in I 18921 «a rispetto di quella quando la femina ecc.»);
- I 27331 «E quando» (se quando; il Fanfani intuí l’emendamento ma non osò adottarlo171);
- I 28622 «dichiarirei» (dichiarerei, ma cfr. I 421 «dichiarire»);
- I 28718 «fede commessario» (fedel commessario!);
- I 2902 «poco-fina» (pocofila, che non dá senso);
- I 30218 «rispostogli che ella» (rispostomi che egli, giá corr. da L)
- I 3188 «lei piú spesso che l’altre sollecitava» (piú s. che l’altre era sollecitata, comincerò col rilevare che L trasformò l’altre in l’altra, sí che ai feticisti del testo mannelliano fu forza riferire l’altra a lana, sul quale presupposto rimase unica possibile la spiegazione riferita dal Fanfani172: ma l’errore del presupposto è reso evidente dalle parole che seguono «l’un sollecitando ed all’altra giovando d’esser sollecitata», dove l’altra non può intendersi che della Simona173);
- I 32027 «s’amavano» (sarmavano, per influsso della parola «armi» che precede);
- I 33916 «lo mio» (il, ritoccato per evitare lo iato; e pochi versi dopo, 34024, si ha per la stessa ragione «lo suo»);
- I 39320 «Traversaro» (Traversari, ma cfr. 3904);
- I 40833 «reggimento» (ragionamento, in giá sospettato che s’avesse a correggere reggimento174, e cosí infatti legge S);
- II 3023 «baschi» (bachi, rimasto nella vulg., ma non persuade affatto: per i «baschi» cfr. II 11220-30 e II 1625);
- II 3034 «Non-mi-blasmate-se-voi-piace» (blasmete);
- II 395 «avveduti o no» (o si, ma cfr. II 3328);
- II 9331 «popolani» (popolari, corr. da L);
- II 10816 «in palco» (balco, ma è la stessa parte della casa che è chiamata palco in II 5312, né regge la definizione data dal Fanfani175);
- II 12516 «messer lo giudice» (gíudicio, evidentemente per giudicie, che B ha infatti in II 12624, ma la vulg. lo conservò accentandolo giúdicio ed il Fanfani postillò: «Detto per Giudice beffardamente176, senza riflettere che la stessa dizione «messer lo giudice», non mai storpiata, ricorre nella nov. altre tre volte);
- II 13829 «serbando» (servando);
- II 15012 «rossa divenuta come robbia» (rabbia, conservata dalla vulg. benché il Fanfani si dichiari «quasi certo» che il Bocc. scrisse robbia177);
- II 15716 «offesa» (nêdetta! che L interpretò uendecta, passato nella vulg., ma insostenibile qui; «vendetta» era stato giá incontrato poche righe sopra ed influí sullo scambio);
- II 16112 «che essi fossero» (chi, ma la correzione è richiesta dal costrutto);
- II 16525 «dirò» (I, assurdo ma conservato dalla vulg.);
- II 1727 «cosí come essi» (della prima parola è appena visibile in B l’ultima lettera, ch’è un’I; essa chiude una riga, e poiché la seconda incomincia per «come», è possibile che si sia avuto per anticipazione un altro come in luogo del cosí, che mi sembra opportuno ristabilire);
- II 1801 «tesorier» (trasorier, forse per una ripercussione del suono finale di «Pietro» che precede; cfr. anche I 2511: ma la vulg. serbò quella forma infranciosata e non mancò chi la difese178);
- II 2055 «que’ tre soldi» (qui), e similmente II 2063 «a que’ tempi» (ad qui, corr. giá da L);
- II 2208 «avere.... voluta» (I, che un amanuense scrisse «avendo la mente al voluto che veniva appresso», come rilevò il Fanfani179, il quale non ardí però di correggere);
- II 2296 «dimostrarmi» (dimostrarvi, che poteva anche emendarsi dimostrarmivi);
- II 28317 «quanto» (quando, corr. in L);
- II 29728 «v’accomando» (uicomando, evidente svista per vacomando; la lezione vi comando di L fu difesa e trasmessa alla vulg.), e similmente II 30319 «v’accomandi» (uicomandi, che questa volta L corresse uacomandi180).
- [IV]
- Ai tratti mancanti attualmente in B convien supplire servendosi di L e della stampa D, che, per quanto sappiamo ormai181, rappresenta un altro apografo di B invero, la coincidenza tra la lezione del primo e quella del secondo (b) ci dá la sicurezza che abbiamo sotto gli occhi la lezione appunto non conservatasi nel comune originale. Ma dove tra i derivati è disaccordo, quale dei due seguiremo? In tal caso io ho creduto di dover uniformarmi in massima a L, la cui scarsa fedeltá è almeno nota e pesata esattissimamente182, mentre di D sappiamo solo che in alcuni luoghi riproduce sí con meccanica e cieca diligenza l’antigrafo183, ma non possiamo escludere che in altri sia intervenuta qualche causa ad offuscare con elementi estranei la lezione stessa184. In altre parole, prima di adoperare D come surrogato di B, e di seguitarlo in tutto e per tutto, ritengo si debba cercare in qualche ms. una conferma della bontá intrinseca di molte lezioni sue peculiari; il che è quanto dire che l’adozione di quel testo per fonte mi sembra doversi rinviare a dopo fatti piú esaurienti accertamenti. Tanto piú che D non potrebbe darci alcun aiuto per la prima delle tre grandi lacune di B185, poiché, quando quella stampa fu eseguita, questo codice aveva giá perduto il foglio i originale ed era stato reintegrato col foglio i attuale (7?1), qua e lá brutto di grossolani spropositi, quantunque condotto senza dubbio sopra un testo assai buono186. Premesso ciò, le osservazioni critiche interessanti i tre tratti in questione, ripartite secondo lo schema osservato nel capo precedente, sono queste che seguono.
- Interpolazioni. — Rifiuto assolutamente di considerare come facenti parte integrale ed originaria del testo boccaccesco i due passi «E viva Amore e muoia soldo e tutta la brigata» (alla fine della nov. VII, v) dopo le parole «fé’patto» II 5917, e «Argomento di cattivo uomo e con poco sentimento era» (al principio della nov. seguente) dopo le parole «come a lui» II 6028. Quest’ultimo è senza dubbio una chiosa critico-morale; il primo è un novello saggio di quelle sortite bizzarre o facete con cui spesso, come abbiamo visto anche qui addietro, qualche lettore vivace si permetteva di fornire una specie d’epilogo ad una novella187.
- Lacune. — Una è assai vasta e risale per certo a B, come prova la sua mancanza in b; la si sana con G, d’onde anche la vulg. tolse il tratto in questione, II 4834 «tu déi credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto»e Un’altra ventina è di molto minor entitá:
- I 423 «l’hanno provato e pruovano» (da B1, in L si legge provate e manca il séguito, e cosí ha la vulg.);
- I 96 «e lagrimevole molto», da B1;
- I 1021 «spazio di tempo», da B1;
- II 48 2 «l’amore di Dio», dove l’ovvia aggiunta fu introdotta dal Mannelli con l’indicazione che mancava in B;
- II 497 «la cagione del dolor mio», lacuna evidente ma non avvertita sin qui;
- II 5217 «che non pareva prima», suppl. da G;
- II 571 «mise prestamente a letto», da G le due parole finali;
- II 6628 «è da lui visitata», guasto inosservato prima d’ora;
- II 7528 «assai piú agio»188;
- II 7727 «Per certo questo», da D (ed è anche in G)
- II 861 «esser maggiore», lacuna non rilevata da alcun altro (senza quell’integrazione la domanda di Lusca diventa una scempiaggine);
- II 23526 «i sospir miei» (necessario miei per ristabilire la misura dell’endecasillabo189, senza contare che l’espressione se n’avvantaggia);
- II 24522 «un suo ricetto», suppl. da G;
- II 25025 «se io potessi»: l’aggiunta (da G) mi sembra indispensabile, ed è certo opportuna;
- II 2526 «era ricambiato», da D (la parola fu suppl. in L da mano seriore);
- II 25310 «cosí la donna», da D (ed anche in G): «la donna» è il sogg. di «gittò», mentre «La quale» che precede si riferisce a «vita»;
- II 25521 «tutti insieme dissero», da D (dissono): la parola fu suppl. in L di mano piú tarda;
- II 2621 «ingegnossi a suo potere», suppl. da D (ed anche in G);
- II 26222 «d’un valoroso re raccontando quello che.... operasse in nulla movendo per amore a far contra il suo onore»: tutto il passo è sicuramente guasto190 e l’errore risale certo a b (è anche in G); il primo supplemento sembra certo, poiché senza quella parola non si saprebbe come mettere in rapporto «dirò» con «quello che egli ecc.», il secondo è suggerito dal dato fondamentale della novella, in cui si narra precisamente come il re Carlo soffoca il suo amore per non contravvenire al suo onore: ma qui è chiaro che la mia restituzione non può essere che congetturale;
- II 2682 «sí forte macerò», altra lacuna sin qui inavvertita: senza quell’aggiunta, «tanto» e «sí» farebbero un duplicato affatto ozioso.
- Mancanze minime son poi:
- dell’articolo — I 31 «l’avere», I 34 «1 i quali», I 1034 «la natura» 191, II 5021 «i vermini» (da G), II 7136 «i suoi costumi», II 7831 «i piedi», II 862l «i prieghi», II 23129 «i miei», II 2572 «la tua mogliere» (da G), II 2601 «i frutti», II 27120 «il mio stato» (da G), II 28119 «i miei»192; I 55 «in uno altro» (cfr. qui oltre, p. 379), II 597 «da uno altro»;
- del pronome e particelle pronominali — I 39 «narrandolo io», I 511 «io intendo»193, II 7412 «se tu vuogli» (da G) II 24628 «gli mi posso», lacuna non mai segnalata, II 24928 «si fosse Natan potuto» (da G, accolto dalla vulg.); II 5809 «il vide», II 8233 «nol» (solamente non in L, ma nollo in D e non lo in G, nol la vulg.), II 2567 «ordine postole» (da D, ed anche G), II 25913 «tenuto l’ho»194; II 4423 «el pare» (cfr. due righe prima la stessa espressione);
- della negazione — II 25828 «né d’amarla», II 26910 «non si voleva», lacune non avvertite da altri (la seconda è tale, che, non supplita, volge la frase al senso contrario!);
- della preposizione — II 2523 «de’ Carisendi» (cfr. II 25111); II 23836 «con costui» (mancanza non avvertita da altri, che sposta il sogg. di «disse» facendo apparire come tale non piú messer Ruggeri ma il famigliare del re, e ciò non può essere perché è il primo quel che parla mentre l’altro sta solo attento alle parole del compagno, cfr. II 2394); I 107 «inverso», da B1, II 25617 «infino», II 2647 «ingiú» (da D, ed anche in G);
- della congiunzione — I 51 «o pescare» e 103 «o per operazion», da B1; II 7527 «quello che per avventura» (corr. su G, e cfr. subito dopo «quello che loro era diletto»), II 7630 «avvenne.... che egli» (che indispensabile alla sintassi), II 8621 «abbi di certo che» (c. s), II 2576 «priegoti che.... che» (da G il secondo che passò nella vulg.), II 2686 «se diremo che» (da G); I 1013 «ed in altre guise» e 1021 «ed altre» e 1031 «e cosí», da B1195, II 556 «e veggendo» (la sua assenza rende durissimo il costrutto), II 608 «ed alcuna quiete», II 7486 «e cosí» (anche qui il costrutto, non bene inteso nella vulg., come mostra l’interpunzione, esige la e), II 2704 «e cosí», II 27615 «e niun di loro»;
- dell’interiezione — II 23128 «Deh! bestia» (da D, ed anche in G).
- Mutamenti. — Li raggruppo secondo l’ordine seguito per quelli del testo B, ma qui, dato il loro minor numero, con maggior costipamento nelle diverse categorie principali:
- da scambio di lettere simili o errata risoluzione di segni di compendio: I 418 «fia» (sia, corr. in G, d’onde nella vulg), II 4724 «Scrignario» (Strignario in D e G, Sirignario in L e nella vulg.: la somiglianza tra i e t, e t e c resp., generò l’errore196); II 6616 «el mi darebbe» (in luogo di el è la nota tironiana della cop., che sará stata originariamente e, per e’, inteso male197); II 5334 «bescio santoccio» (sanctio, che può risalire a sanctocio attraverso un sanccio originato dalla caduta di una sill. intermedia ovvero un compendio di sancto male amalgamato con la terminazione -cio e però male interpretato198); son da ricordare anche due casi di non per non n’199, II 4823 «che non n’abbia» e ioio 55 10 «non n’aveva dette», che la vulg. stampò al solito no n’
- da trasposizione di parole: I 37 «stato acceso» (acceso stato), 429 «mossa da focoso disio, alcuna malinconia» (alcuna mal. mossa da foc. disio), 56 «per me in parte» (in parte per me), 92 «pietose siate» (siete pietose, ma il congiunt. è piú opportuno), 918 «da cosí fatto inizio non sarebbe» (non sar. da cosí f. inizio), 1023 «predette del corpo» (del corpo predette), 1026 «appresso questo» (da questo appresso, con erronea intrusione di quel da)200;
- da sovrabbondanza: I 520 «e conoscere» (cosí B1, ma L e la vulg. in quanto potranno conoscere, dove potranno è oziosa ripetizione essendo stata usata questa parola subito prima, e quell’in quanto non ha punto sapor boccaccesco), I 1017 «usciva sangue» (da B1, il sangue in L e vulg.), II 734 «mai mi potè muovere l’animo mio» (non in D né in G, ma la vulg. lo conservò201), II 8027 «come per smemorato», II 25635 «Niccoluccio e degli altri» (degli rimase nella vulg.);
- da anticipazione di elementi grafici seguenti: II 6326 «si vi gioveranno; e sí» (si manca in G ma lo conservò la vulg.), II 8411 «né notte che in altra parte che» (che non è in D né in G), II 2608 «non polendol » (nol, con anticipazione della particella pronom., D e G hanno non);
- da duplicazione di elementi grafici: 1) in immediata vicinanza: II 598 tututti» (il Bocc. adoperò tututti in poesia202 per allungare d’una sill. il verso, ma qui non ce n’è bisogno, ed infatti G non lo accolse), II 2638 «Castello a mare di di Stabia» (la vulg. Castello da mare di Distabia! ma D reca la forma corretta203); 2) a qualche distanza: II 6929 «che egli non sia.... o che egli m’abbia», II 7832 «tanti calci le diede, tanto che» (è nella vulg., ma il Fanfani lo trovò di piú204), II 27014 «potergli questa mia disposizion fargli sentire» (la vulg. conservò questa bella dizione), II 27524 «la cagion de’ suoi pensieri e pensieri e la battaglia» (e pensieri manca in D ed anche in G, ma lo conservò la vulg. benché non si possa assolutamente difendere205);
- da scambio tra congiunzioni: I 52 «e mercatare» (o merc. in L e vulg.), 55 «o in un modo o in uno altro» (L e la vulg. con un modo o con altro, di cui nessuno par ch’abbia rilevato la scorrettezza), I 1112 «e qualunque» (e par meglio che o di L e della vulg.)206, II 4824 «e chi» (o in L e vulg., la correzione da D e G), II 24931 «né della mia» (e, corr. in G ma rimasto nella vulg.), II 25726 «ed un vecchio» (o in L e vulg., e in G);
- da scambio tra preposizione sempl. ed articolata o tra preposizioni diverse: II 2602i «dal legame» (da), II 27825 «di quali» (de), II 2828 «del sí» (di, per la correzione cfr. p. 367 e n. 1); II 562 «da una» (duna in L, corr. da D e G), II 2638 «Castello a mare» (da, cfr. qui sopra), II 2662 «al re» (dal, ch’è anche nella vulg., ma non soddisfa in rapporto al vb. domandare);
- da scambio nei segnacasi: I 322 «il quale» (al, ma la correzione, di B1, è ovvia e fu introdotta dal Fanfani nella vulg.207), I 524 «m’ha conceduto di potere» (da B1, L e la vulg. il);
- da scambio tra masch. e femminile: II 4624 «alla sua fine» (al, cfr. p. 369), II 5123 «altre cose a queste simili» (questi), II 5210 «fatte» (fatti, ma va riferito a «cappe» ed è strano che nessuno mai se ne sia accorto), II 5624 «tanta di fidanza» e II 28014 «tanta di licenza» (tanto, conservato in ambedue i luoghi dalla vulg., corr. nel primo da D; per la ragione dell’emendamento cfr. p. 360, n. 12), II 6228 «medesima» (medesimo, corr. da D ma conservato a gran torto nella vulg.), II 718 «fece veduto» (veduta, ma la locuzione è proprio far veduto, cfr. II 30810 II 31410 e II 31516208), II 7422 «avuto avea» (avuta, corr. anche dalla vulg. su G), II 8718 «ornata» (ornato, corr. da D e G), II 25828 «ogni cosa... domandatale» (domandatole, rimasto nella vulg.), II 26710 «è questo» (questa, ma la locuzione richiede il masch., cfr. I 8036 «questo non essere»209), II 27124 «lassa» (lasso, corr. da D, ma l’errore passò alla vulg. senza badarsi che la poesia è posta in bocca di donna), II 27317 «tanto.... quanto» (tanta.... quanta, rimasto nella vulg.; D corregge il solo quanto), II 27730 «sottoposta» (sottoposto);
- da scambio tra sing. e plurale: I 318 «per quello» (da B1; quelle, ch’è la lezione di L e della vulg., si riferirebbe al solo termine «laudevoli consolazioni» mentre quello comprende anche l’altro precedente «piacevoli ragionamenti»), I 1022 «alcuna piú ed alcuna meno» (da I, invece L e vulg. alcune piú et alcun’altre meno), II 5315 «era» (I, ma va riferito a «lettuccio» e fu corr. anche nella vulg. di su G, era in D), II 5610 «cotal generali» (cotali, ma qui si richiede l’avverbio cotale, cfr. I 8423, II 1285 e II 20124), II 24216 «studiò in medicine» (medicina, per il plur. cfr. II 15914 «dottor di medicine», II 16727 «leggessi... le medicine»), II 26711 e II 27528 «de’ re» (del re, corr. giá nella vulg. per il senso, e nel secondo passo anche in G);
- da scambio tra forme verbali: I 917 «seguirá» (da B1, in L e vulg. seguita, ma è evidentemente da preferire il fut.), II 5314 «se n’entrarono» (se n’entrano, corr. da D, ed anche in G e nella vulg.), II 5624 «prese» (presa, corr. come nel caso precedente), II 629 «confessassesi» (confessasi, c. s.), II 26418 «prese» (preso, corr. da D ma rimasto nella vulg.).
- Altre variazioni:
- I 319 «addivenuto» (avvenuto), 414 «sostenimento» (sostentamento), 518 «fortunosi» (fortunati), 518 «quelle» (queste), 911 «appresso la» (presso alla), 913 «scendere» (smontare), 102 «nobilissima» (bellissima), 1036 «mai» (giamai), 119 «vi sono» (gli)210;
- II 4513 «io vo’» (uoj in L, ma voglio in D e G);
- II 464 «vatti con Dio» (fatti, mutato, con D e G, anche nella vulg.211);
- II 4929 «impiastricciato» (impastricciato, che non ha altri esempi);
- II 5145 «che che si fosse la cagione» (ragione, corr. secondo G, ché la parola è piú appropriata);
- II 536 «pure una volta» (per, che è nella vulg., ma non soddisfa);
- II 5335 «tutto misvenue» (svenne, ma il vb. svenire non ha che far qui; cfr. I 25717 «tutto misvenne»);
- II 602 «costituita» (costituta);
- II 6116 «per ventura» (per adventura, ma la locuzione che il contesto richiede è quell’altra212);
- II 6628 «tornato» (torna, corr. anche nella vulg. su G);
- II 6812 «essovoi» (essolei, corr. giá di sua iniziativa dal Mannelli);
- II 7219 «quando» (quanto, mutato anche nella vulg. per il senso);
- II 8416 «nominata» (nomata, ma in altri passi è usato sempre nominata, che G reca anche qui);
- II 23223 «Questo cosí» (io, accettato da tutti: ma per aderire bisognerebbe considerar queste cose come ogg. di «dicendo e faccendo», e queste due forme verbali come un doppio sogg. di «accenderá», il che non mi sembra punto probabile213);
- II 23330 «amor» (amar, la correzione è ovvia: la danno D e G, e l’accoglie la vulg.);
- II 2414 «remission» (rimession, corr. su G);
- II 25031 «me n’andrò» (menando, corr. c. s);
- II 2561 «colei che ella era» (chi, passato nella vulg.);
- II 25832 «un dí» (indi, corr. da D e G);
- II 2624 «l’accomandò a Dio» (il comandò, cfr. qui, p. 373);
- II 26831 «d’Araona» (di Raona da L nella vulg., ma cfr. I 11536);
- II 27117 «dispiacenza» (spiacenza, corr. per dare al verso una sill.);
- II 2819 «me da te ricever» (ma, errore e correzione evidenti);
- II 28211 «altri che» (altro, corr. da D e G).
- [V]
- Soltanto l’edizione critica potrá addossarsi l’onere e la cura di presentare il Dec. sotto l’aspetto formale corrispondente a quelle che noi sappiamo essere state le consuetudini e puramente grafiche e piú propriamente ortografiche del Bocc. press’a poco nel tempo in cui l’opera fu composta214. Caratteristica di tali consuetudini è una maggiore coerenza e costanza in confronto alla varietá ed irregolaritá delle prime scritture, e specialmente una tendenza assai accentuata a dar veste latineggiante o in genere etimologica alle parole che ciò potessero comportare. Sotto quest’aspetto il ms. B dá l’impressione di attenersi, nell’insieme, con soddisfacente accostamento al tipo che sarebbe offerto da x, se per ventura nostra sopravvivesse; tuttavia, è da ammettere che elementi deformanti si siano annidati anche in B, non foss’altro che in grazia della sua non piccola distanza genealogica (non cronologica) da x, e conseguentemente, della presenza di grafie peculiari di singoli amanuensi giá intervenute a perturbare la grafia originale215. Ma, anche nell’ipotesi piú favorevole, ossia che B fosse la replica piú scrupolosa di x, noi non avremmo potuto qui contentarci di riprodurlo poco meno che diplomaticamente: ché la presente stampa non può, per correre tra piú largo stuolo di lettori, farsi oscura di grafie antiquate disformi dall’uso odierno, ed anche per quelle che tale uso pur consentirebbe, deve fare i conti con le norme speciali adottate per i volumi della nostra collezione. Perciò mi limiterò a dire in breve che, per quanto si attiene alla rappresentazione dei suoni, alla riunione e divisione delle parole, ai raddoppiamenti consonantici, ai troncamenti ed elisioni è stato seguito in tutto e per tutto, riservate pochissime eccezioni, l’uso corretto contemporaneo216. Dove poi l’incostanza di B gli fa alternare forme diverse che siano però tutte egualmente compatibili con l’uso stesso, mi sono indotto, dietro il prudente esame di ogni singolo caso, a ricondurre ad una sola tutte le altre, ristabilendo una regolare ma non pedantesca uniformitá217.
- Un problema particolarmente spinoso, a proposito di siffatte oscillazioni di forme, è costituito dall’esistenza in B (e, del resto, negli autografi boccacceschi) di numerosi doppioni morfologici, lessicali e sintattici: desinenze come dissono e dissero, forme nominali e verbali come pestilenza e pistolenza, vedendo e veggendo, aggruppamenti di particelle come fattolsi e fattoselo, farnele e fartene ecc., come andavano trattati? Anche qui s’è proceduto caso per caso, maggior varietá consentendo in qualche punto e maggiore uniformitá perseguendo in altri. Render conto di tutto il cumulo di osservazioni, di raffronti, d’indagini che questo studio ha richiesto, sarebbe qui fuor di posto; basti accennare al criterio seguito, che fu in primo luogo, dove ciò fu possibile, l’adesione all’uso boccaccesco accertabile, di poi l’adozione delle forme ripetute in B piú costantemente o almeno le piú volte.
- La revisione accurata dell’interpunzione portò in molti casi a ravvivare di nuova forza costrutti fiacchi o scoloriti, a far dileguare incomprensioni, a ricreare effetti artistici perduti. Anche la disposizione esteriore dell’opera ha molto guadagnato dal conformarsi all’esempio di B, dove l’impiego di lettere capitali piú e meno grandi ricordato qui addietro (p. 349) ha mostrato che in ogni Giorn. l’introduzione e la chiusa debbono andare nettamente separate dalle dieci novelle218 e che in ogni novella vanno distinte, quasi senza eccezione, tre parti: l’esordio narrativo che si addentella alla «cornice», il preambolo morale o ragionativo del novellatore ed il racconto vero e proprio219.
- L’armonia della prosa boccaccesca riacquista non poco della sua perduta essenza da questa nuova recensione, per merito quasi esclusivo di B, che o lascia intere certe parole passate con troncamento nella vulg. o, viceversa, tronca quelle che lá erano intere, ovvero ne porge acconce modificazioni, cosí che molte volte viene a ricostituirsi quell’esito del periodo o delle sue clausole piú importanti conforme ai dettami del cursus medievale, che il Parodi intuí felicemente dovesse essere seguito dal Bocc. anche nella prosa volgare come fu nei suoi scritti latini preumanistici220. Su questo argomento per altro la prudenza ha consigliato di attendere che studi e ricerche nella direzione indicata permettano di procedere a ritocchi testuali per la ricostituzione del cursus con la necessaria sicurezza221.
- Non è lecito sperare che in un testo cosí ampio una certa quantitá di errori di varia natura non siano ancora insidiosamente celati nella lezione, sí da sfuggire alle cure piú sagaci e alla pazienza piú metodica impiegate a snidarneli: mancamenti inavvertiti, infiltrazioni indebite, parole non proprie, pause non giuste creanti interpretazioni inesatte, equivoci d’altra qualitá, se sussistono nella presente stampa, potranno essere di mano in mano additati e corretti, da me stesso e da altri. Mi si lasci per altro esprimere l’opinione che con questa un serio sforzo sia stato fatto per avvicinare la meta a cui tesero tanti secoli di lavorio critico: restituire, come fu giá detto, un autentico capolavoro qual è il Dec. alle sue forme originarie nei rispetti dell’arte e della lingua222.
- * * *
- ↑ Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron, pp. 11-2 della quarta edizione fiorentina (1857), che sará citata qui avanti. Sulle Annotazioni e la parte che vi ebbe il Borghini cfr. piú oltre, p. 341. Un altro passo osservabile è il seguente: «si comprende che cosí avea l’originale (ché per altri luoghi si vede che e’ [il Mannelli] l’ebbe innanzi)» (p. 71).
- ↑ I rinvii sono al volume, alla pagina ed alla linea della presente edizione.
- ↑ La postilla «deficiebat» s’incontra ventun volte, «deficit» quattro; alcuni emendamenti marginali son accompagnati dalle parole «credo che uogla resp. uoglia dire....» (cinque volte) o «direbbe meglo....» (una volta); in corrispondenza di un emendamento introdotto nel testo la lezione primitiva è segnata nel margine con la formula «diceva....» (quattro volte) o «dicebat prius....» (una volta); altre avvertenze suonano: «superfluum est» (due volte), «ècci troppo quel....», «troppo ci è quel....», «o quel.... u’è troppo» (due volte), «....ci è troppo, chi ben guarda», «dicit testus male, ut credo».
- ↑ Mi riferisco anche a quelle che furono apposte al Corbaccio, la cui copia, della stessa mano a cui si deve il Dec., viene appresso (L, cc. 174-191).
- ↑ In una sua lettera (VII, x) il Salutati lo ebbe a dire legato a sé «singularis dilectionis vinculo», e lo raccomandò per fargli avere in Padova un beneficio ecclesiastico. Il Novati opportunamente rilevò da questo che il Mannelli appartenesse al clero e dovesse almeno aver conseguito gli ordini minori (Giorn. stor. della lett. it., XXI, p. 453): e giá dal Passerini (Arch. stor. ital., Append., I [1842-’44], p. 139, n. 1) s’era avvertito: «Ho ragione di supporre che fosse uomo di chiesa». Per altre notizie sul Mannelli (n. intorno al 1357, † tra il 1427 ed il ’33) cfr. Novati, loc. cit., pp. 451-3, ed Epistol. di Col. Salutati, II, p. 288, n. 2. La lettera del cancelliere fiorentino (1392?) è certamente posteriore di qualche anno al tempo della copiatura del Dec., che risulta dalla nota apposta dopo l’explicit: «scripto per me francesco damaretto mannelli di xiij dagosto 1384. deo sit laus et gloria in ecternum ad honorem egregie simacuspinj et beneplacitum et mandatum» (L, c. 172 r). Nessun dubbio che debba leggersi «egregie» anzi che «egregii» (cosí lesse, p. es., il Bandini, Cat. codd. italic. Bibl. Med. Laur., col. 171; il Novati restò incerto, ma a torto: Giorn. stor., XXI, p. 454, n. 1); quanto alla parola seguente, tutti indistintamente la fecero terminare con una s, scambiando con questa lettera quello svolazzo (ben diverso dalla s finale consueta del Mannelli) che segue alla j, la quale non sarebbe stata certo introdotta in sede interna: si può solo dubitare se l’ultima sillaba sia -nj o -uj, ma è preferibile la prima lettura. Che poi il nome «simacuspinj», lungi dal risolversi in quello di un Simmaco Spini non mai esistito, sia una scrittura anagrammata del nome vero (e cioè del nome della donna ad onor della quale fu trascritto il Dec.), affermò giá ragionevolmente il Novati: ma né a lui né a me è riuscito di trovare il nome in questione.
- ↑ L’errore cominciò col Cinelli, l’accreditò il Manni (Cronichette antiche di varj scrittori, Firenze, 1733, p. 9), lo fissò l’autore della prefazione alla stampa lucchese del 1761. Il Fanfani ebbe a far giustizia di queste fantasie nel Ragionamento premesso all’edizione del 1857 (p. xvi sgg.), dove produsse come inedito un doc. del 1427 fatto giá conoscere dal Passerini alcuni anni prima.
- ↑ Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, Firenze, 1584, p. 7. Le Annotazioni dei cosí detti Deputati, ossia quasi esclusivamente del Borghini, avevan detto con piú prudenza qualche cosa di simile: «da lui solo si è ricevuto piú di lume e di utilitá, che da tutto il resto degli altri insieme» (p. 11).
- ↑ Delle quali è buon saggio in queste parole di G. Cinelli nella sua Toscana letterata, «parmi nondimeno, che quel del Mannelli sia come il Regolo di Policleto» (il passo fu riferito nella prefaz. alla stampa lucchese, p. x, n. 1); l’espressione piacque al Manni, che la fece propria (Cron. ant., p. 10). Il medesimo Manni tornò a parlare di L qualche anno dopo, mettendo in evidenza che il Mannelli fu «non giá il primo» a copiare il Dec. ma quegli a cui toccò la sorte «di perpetuare per la lunghezza di quattro secoli fin qui la sua Copia» (Istoria del Dec., Firenze, 1742, p. 629). Ch’egli la considerasse fedelissima, e che tale la proclamassero gli editori del 1761 (p. 1), e scrupolosa il Baldelli (Vita di G. Bocc., Firenze, 1806, p. 294), non dovrá sorprendere: visto che ai giorni nostri l’Hauvette poteva parlare a sua volta di «scrupolo quasi religioso» (Giorn. stor., XXI, p. 408, n. 1).
- ↑ Prefaz. alla stampa lucchese, pp. I, xi-xii. Mera fantasia è ciò che scrisse il Cinelli: «Un altro Codice di mano dell’Autore, per quanto si dice, è nella Libreria del Granduca».
- ↑ Cfr. O. Hecker, Boccaccio-Funde, Hannover, 1902, pp. 7-11.
- ↑ Discorso storico sul testo del Decamerone, p. 9 dell’ediz. delle Opere edite e postume, III (Firenze, 1850): «certo quand’ei moriva aveva giá da dieci o dodici anni distrutto il testo autografo del libro»; cfr. anche p. 13: «l’autore aveva piú tempo innanzi di morire aboliti gli autografi del Decamerone».
- ↑ Quella che comincia Idibus septembris, a Mainardo Cavalcanti.
- ↑ Discorso cit., p. 14: «Il Mannelli ebbe di certo sott’occhio un testo ch’ei teneva per autentico insieme e inesatto; ma non che descriverlo, non ne palesa l’origine, e appena lo accenna qua e lá con la postilla sic textus. E s’ei pur l’ebbe mai dal Boccaccio, ei non domandò, o non ottenne la correzione di molti sbagli». Ammettendosi che l’originale di L provenisse dal Bocc., dove andava a finire l’asserito bruciamento del Dec.?
- ↑ Son parole foscoliane del Discorso cit. (p. 13) e si riferiscono al passo seguente delle Annotazioni: «siamo stati alcuna volta dubbj, se nel principio fussero per avventura usciti fuori, e dal medesimo Autore, duoi testi, l’un prima e l’altro poi, e l’ultimo in qualche cosellina... diverso dal primo» (ediz. cit., p. 221). Il Salviati riferí questo pensiero ed affermò di non discordare da esso, adducendo certi luoghi i quali alcuno indizio ne dánno per avventura» (Degli Avvertimenti cit., p. 6).
- ↑ Annotazioni cit., p. 13; cfr. anche Manni, Ist. del Dec. cit., pp. 628-32. Per altre indicazioni si veda (oltre la prefaz. alla stampa lucchese del 1761, p. I, n. 1) E. Narducci, Di un Catalogo generale dei mss. e dei libri a stampa delle Biblioteche governative d’Italia, Roma, 1877, pp. 11-2: è una «Proposta al signor Ministro della P. I. nella quale si dá per saggio l’articolo Boccaccio». Un «testo antichissimo e perfetto» possedeva Pietro Bembo, ed è forse quel medesimo che nel 1582, quando Fulvio Orsini lo cercava per arricchirne la sua libreria, risultò scomparso (De Nolhac, La bibliothèque de F. Orsini, pp. 106, 278-9, 309).
- ↑ Sopra il piú antico cod. del Dec. del Bocc. contenente solo una parte di quest’opera e scritto vivente il Bocc. medesimo circa il 1354 o 1355, Firenze, 1828. È il secondo dei codicetti legati insieme nell’odierno ms. II. II. 8 della Nazionale Centrale fiorentina, di cui costituisce le cc. 20-37, numerate originariamente xxiiij-xlj. In calce alla prima facciata si legge: «Del Sen.re Carlo di Tommaso Strozzi 1670».
- ↑ Il preambolo fu stampato da G. Biagi, Il Dec. giudicato da un contemporaneo, negli Aneddoti letterari (Milano, 1887), p. 327 sgg.; il passo relativo al Bocc. è questo: «torniamo a commendare la fama di coloro i quali hanno a vostra reverenzia ad alcune belle e dilettevoli inventive dato composizione; de’ quali, infra gli altri di cui io al presente mi ricordo, si è il valoroso messer Giovanni di Boccaccio, a cui Iddio presti lunga e prosperevole vita come a lui medesimo è piacere. Questi da picciol tempo in qua ha fatti molti belli e dilettevoli libri, ed in prosa ed in versi, a onore di quelle graziose donne la cui magnanimitade nelle cose dilettevoli e vertudiose aoperare si contenta, e de’ libri e delle belle istorie, leggendole o udendole leggere, sommo piacere e diletto ne prendono, di che a lui n’accresce fama ed a voi diletto; de’ quali, infra gli altri, uno molto bello e dilettevole ne compuose titolato Decameron. Il quale tratta, siccome voi se l’avete udito leggere dovete sapere, d’una lieta compagnia di sette giovani donne e di tre giovani, i quali si partirono della cittá di Firenze ne’ tempi della mortalitá ed andaronsene ivi presso a dilettevoli luoghi diportando; i nomi de’ quali figuratamente furono questi: delle sette donne, la prima fu nominata Pampinea, la seconda Fiammetta, Filomena la terza, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile, l’ultima Elissa; i giovani, il primo fue chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, l’ultimo Dioneo. L’ordine dato tra loro fue che ciascheduno per uno giorno avesse la signoria della brigata e fosse chiamato re o reina, e quello che comandasse fosse ubidito di presente; di che a boce per tutti di concordia Pampinea fu chiamata reina per la prima giornata e fue coronata d’alloro: ed essa fue quella che diede l’ordine del novellare, e volle che, quando il sole fosse per tramontare, la nuova reina s’eleggesse, la 'lezione della quale istesse nell’albitrio di quella o di quegli che il dí avesse avuta la signoria, e la corona dello alloro si levasse di capo e coronasse cui le piacesse d’eleggere. Cosí ogni giornata, eletta la nuova reina la sera dinanzi, ella in prima dava ordine,...». Il Biagi (p. 332) stampò, e non senza errori, sino a «l’ultimo Dioneo»; in S, c. xxv r, il proemio rimane in tronco senza segno d’interruzione alle parole «dava ordine», poi (c. xxvj r) comincia il vero testo con la rubrica Come alla prima Giornata si diede compimento sotto la signoria di Pampinea ed essa la nuova reina elesse; la fine si ha, egualmente in tronco, alla quarta riga della c. xij v, di cui il resto è bianco.
- ↑ Un raffronto di S con L fece giá il Follini (pp. 11-29}) ricavandone piú di mezzo migliaio di varianti, per la maggior parte ortografiche; frequenti sono le trasposizioni e v’è anche qualche omissione. Letture caratteristiche: «cosa» in luogo di «tosa» I 26530, «rettore» al posto di «stradicò» I 337 35, «laurea ghirlanda» per «la laurea» I 338 7. Circa l’etá trovo che il Tobler giustamente ricusò di assegnare il «Frammento» al 1354 (n. 3 a p. 376 dello scritto che sará citato qui oltre). Naturalmente, anche il Foliini ammetteva che «questi pezzi» del Dec. «fossero tratti pure dall’originale», il quale, nel tempo che fu scritto S, sarebbe stato in condizioni migliori di quelle in cui fu trovato dal Mannelli, allorché era giá passato «per molte mani di curiosi lettori»; il Mannelli «forse lo ebbe dall’autore né lo restituí giammai», e dopo trattane la copia L, non è «inverisimile» che il prezioso cimelio «piú non si curasse, essendo in pessimo stato, o venisse come inutile lacerato» (pp. 9-10). Queste ipotesi sonda mettersi in ischiera con le altre ricordate sú nel testo.
- ↑ Mi riferisco agli opuscoli Per le nozze Caimo Dragoni-Mattioli, Udine, 1829, e Nozze Tommasini-Broun XXI Giugno M.DCCCC.IJ Roma, Perugia, 1902; il primo è intitolato «Novella ed epistola tratte da un codice del secolo XIV», e la novella a sua volta reca il titolo «Madonna Dianora udinese, Novella di Giovanni Boccaccio giusta la lezione di un codice del secolo XIV» (l’editore, Q. Viviani, non ci dice nulla di preciso intorno ad esso, ma sembra di poter intendere che la novella X, v vi stesse a sé e che il ms. fosse di proprietá privata); il secondo, curato da E. Monaci, s’intitola «La novella di Griselda secondo la lezione di un ms. non ancora illustrato del Decameron», ossia del Chig. M. VII. 46, probabilmente quattrocentesco.
- ↑ Cfr. pp. 346-50.
- ↑ Su queste si veda: [G. Buonamici], Lettera sopra il Decameron del Bocc., nella Racc. d’opusc. scientifici e filologici del Calogerá, [1728], p. 321 sgg.; Manni, Ist. del Dec. cit., p. 637 sgg.; A. Bacchi della Lega, Le edizioni delle opere di G. Bocc., nel Propugnatore, VIII [1875], 1, p. 305 sgg. (e a parte, col titolo Serie delle edizioni delle opere di G. Bocc. latine, volgari, tradotte e trasformate, Bologna, 1875); E. Narducci, Di un Catalogo cit., pp. 15-16 (alcune sue aggiunte alla bibliografia del Bacchi della Lega apparvero nel periodico Il Buonarroti, X [1875], p. 377 sgg); F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna, 1S84, col. 80 sgg.
- ↑ Cfr. Annotazioni cit., p. 12. A torto il Bacchi della Lega e lo Zambrini la dissero invece fatta su L.
- ↑ Hecker, Der Deo Gratias-Druck des Decam., nelle Abhandlungen H. Prof, Dr. A. Tobler.. in Ehrerbietung dargebrachtl, Halle, 1895, p 210 sgg. Lo H. parla prima di dipendenza diretta di D da B, poi sembra per un certo apprezzabile scrupolo ammettere eventualmente anche un intermediario tra i due testi (p. 223); a me pare che tale riserva non abbia ragion d’essere.
- ↑ Cfr. Annotazioni cit., p. 15; Sai.viati, Avvertenza premessa alla sua edizione. I nomi degli editori indicò il Manni, op. cit.. pp. 642-3, sul fondamento di una nota che fu piú tardi stampata dal Baldelli (cfr. qui oltre, p. 341, n.); il Buonamici (Lettera cit., p. 327) errò restringendoli a tre, e forse trasse in errore il Foscolo, che (Discorso cit., p. 22) parla di «parecchi gentiluomini» ma effettivamente ne ricorda tre soli, e tra essi il Bcrni, la cui opera si limitò appena ad eseguire il riscontro col testo Cavalcanti, com’è chiaramente detto dai Deputati/Di Stiatta Bagnesi, unCI dei correttori, «fu ufizio particulare scrivere quel che era fermo da tutti» (Anno i tazioni, p. 182).
- ↑ Cfr. Annotazioni, pp. 15-6. Sui rapporti con L ecco le precise parole del Borghini: «Perché noi crediamo, et a molti segni ce lo pare quasi potere affermare (ché per testimonio di alcuno non ce ne siamo ancora potuti interamente chiarire) che e’ non ebber questo nostro buono anzi ottimo libro, o lo vider molto tardi, et in tempo che l’opera era poco meno che stampata» (si badi che l’ediz. principe legge erroneamente «non crediamo», lezione che passò nelle successive). Il medesimo asserto fu ripetuto dal Buonamici (p. 327), dal Manni (p. 643) e nella prefaz. alla stampa lucchese del 1761 (p. IV), dove si aggiunge che nel tempo in cui fu fatta l’edizione Giuntina L era smarrito: il che non è vero, visto che lo smarrimento avvenne solo alcuni anni piú tardi (Hecker, Der Deo Gratias-Druck cit., p. 218, n. 1).
- ↑ Ragionamento premesso all’edizione del 1857, pp. xxiii-vi.
- ↑ Annotazioni cit., pp. 70, 112 n. 1, 183 n. 1, 255; cfr. anche Manni, op. cit., p. 643
- ↑ Annotazioni, p. 16; casi del genere sono quelli segnalati ivi, pp. 68, 70, 94 n., 120, 122, 126-7, 176 n. 1, 181, 182, 230.
- ↑ Annotazioni, p. 16. Al lavoro dei «giovani nobili e virtuosi» partecipò appunto «qualche volta» Baccio o Bartolomeo Cavalcanti «uomo di assai buon giudicio, di cui varie erudite fatiche abbiamo alla luce» (Manni, p. 643).
- ↑ Epist. cit. Idibus septembris.
- ↑ Manni, pp. 646-51.
- ↑ Vi si trova ancora nell’Index del 1881 e non piú in quello del 1900 (Hutton, G. Bocc. A biographical study, p. 310 n.).
- ↑ Si veda in proposito: Baldelli, Vita di G. Bocc. cit., pp. 291-4 (in nota è pubblicato un lungo ragguaglio, dovuto forse al Borghini, sulla storia della stampa); Biagi, La rassettatura del Dec., negli Anedd. letterari cit., pp. 282-326; A. Legrenzi, Vincenzio Borghini, Udine, 1910, II, pp. 26-45; G. Lesca, V. Borghini e il Dec., nel vol. Studii su G. Bocc., Castelfiorentino, 1913, pp. 246-63.
- ↑ Di quella dei Deputati non si ebbe che una ristampa nel 1575; dell’altra, quattro consecutive edizioni Giuntine tra il 1582 e l’87, ed in complesso una dozzina di ristampe sino al 1638.
- ↑ Meglio e piú diffusamente di ogni altro ne parlò il Biagi, loc. cit., pp. 310-26.
- ↑ Fu riprodotta quattro volte sino al 1612. La «correzione» era stata principiata nel 1579, prima ancora della rassettatura del Salviati (Manni, pp. 658-9).
- ↑ Così il Baldelli (op. cit., p. 309), che per nitidezza e per correzione ebbe la stampa in conto d’una delle migliori. Di questo testo composito furono fatte varie repliche, per lo piú a Napoli, con la falsa data d’Amsterdam; ebbe fortuna quella del 1718, perché prescelta dagli Accademici della Crusca insieme con la salviatesca del 1587.
- ↑ La Lettera, giá citata qui addietro, comparve anonima nel 1726 e fu ristampata nel tomo I della Raccolta calogeriana, ch’è l’edizione piú alla mano. Fu poi ridata in luce nel 1728 a Parigi insieme con una Lettera rispondente del Rolli; una successiva Replica del Buonamici uscì pure a Parigi nel 1729.
- ↑ Prefaz. alla stampa lucchese del 1761, pp. vii-viii; Baldelli, op. cit., p. 311; Zambrini, op. cit., coll. 87-88.
- ↑ Il Dec. di M. Gio. Boccaccio tratto dall’Ottimo Testo scritto da Fran.co d’Amaretto Mannelli sull’Originale dell’Autore, s. n. t., 1761; le parole riferite sono a p. v. La vantata esattezza della trascrizione non è da credere tuttavia assoluta; l’Hauvette (Giorn. stor., XXI, p. 407) affermò di aver rilevato «un numero ragguardevole di discrepanze» tra L e la stampa, di cui invece lo Hecker tentò una benevola difesa (ivi, XXVI, pp. 162-3).
- ↑ Cfr. E. Lazzareschi, L’ediz. lucchese del Dec., nel cit. vol. Studii su G. Bocc., pp. 269-78.
- ↑ Cfr. E. Levi, Una ediz. del Dec. curata da U. Foscolo, nella Bibliofilia, XV (1913-’l4, pp. 220-4. 11 Foscolo riprodusse con acconce migliorie ortografiche il testo del Vitarelli.
- ↑ Fu poi ristampato a parte a Lugano nel 1828 ed infine nel cit. vol. III delle Opere edite e postume di U. Foscolo. Parti staccate del Discorso furono rielaborate ripetutamente dall’autore, che da ultimo ne compose lo scritto pubblicato in inglese col titolo Boccaccio nel London Magazine del giugno 1826 ed il cui originale italiano fu rintracciato e stampato di recente (E. Levi, Il testo ital. dell’ultimo scritto di U. F. sul Bocc., nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1913).
- ↑ U. Fosc. erudito, nel Giorn. stor., XLIX [1907], pp. 30-33. Senza importanza sono certi magri appunti di C. Antona-Traversi sul Discorso (Note foscoliane, nel Fanfulla della Domenica del 25 giugno 1916).
- ↑ Firenze, Le Monnier; in due volumi, a cui fu aggiunto per terzo quello che riproduce le Annotazioni del Deputati. L’edizione fu ripetuta parecchie volte; l’ultima (12a impressione) è del 1926 e porta in appendice le osservazioni critiche di A. Mussafia sul testo Fanfani e sulla sintassi boccaccesca, edite nella Rivista ginnasiale (IV) del 1857.
- ↑ A p. 376 dell’art. che sará citato prossimamente.
- ↑ Dá queste indicazioni lo stesso Fanfani, p. xxxi; per gli studi del Masini cfr. p. xv n., ed anche Follini, Sopra il piú antico cod. cit., pp. 31-2.
- ↑ Bene spesso l’editore dissentì nelle note dalla lezione di L, con ragioni talvolta fondate o inoppugnabili: eppure conservò quella lezione nel testo. La designazione di vulgata è anche dell'Hauvette, Boccace, p. 481. Tra le repliche piú autorevoli di essa negli ultimi anni va segnalata quella della Bibliotheca romanica di Strasburgo, curata dal Gröber.
- ↑ Tobler, Die Berliner Handschrift des Decameron, nei Sitzungsberichte d. kön. preuss. Akad. d. Wissensch. zu Berlin, 1887, pp. 375-405; Biadene, Il cod. Berlin, del Dec., nel Giorn. stor., X, pp. 296-8.
- ↑ Cfr. qui, p. 336.
- ↑ Hecker, Die Berliner Decameron-Handschrift u. ihr Verhältnis zum Cod. Mannelli, Inaugural-Dissertation, Berlino, 1892. In una breve recensione di quest’opuscolo (Giorn. stor., XXI [1893], pp. 407-11) l’Hauvette manifestò dei dubbi circa l’affermata dipendenza di L da B, mostrandosi propenso invece ad ammettere che i due mss. derivassero entrambe da un terzo. Lo Hecker ebbe poco dopo un facile giuoco a sfatare tali sospetti ed a confermare, mediante l’esame diretto di L in luogo della sua riproduzione a stampa, il proprio asserto con nuovi validi argomenti (Della parentela esistente fra il ms. Berlinese del Dec. ed il cod. Mannelli, nel Giorn. stor., XXVI [1895], p 162 sgg.
- ↑ Era stato promesso (Hecker, Die Berl. Decameron-Hs. cit., p. 68 n.) un lavoro di simile indagine su sette mss., tra cui segnatamente il Parig. 7260, che non vide la luce.
- ↑ Potei averlo in istudio presso la R. Biblioteca Universitaria di Bologna nell’ottobre 1921, prestato dalla National Bibliothek di Berlino mercé l’interessamento del senatore Benedetto Croce, allora Ministro della Pubblica Istruzione.
- ↑ Com. Qual Phidia nelo scudo de Minerva e fu riprodotto dal Tobler, loc. cit.. pp. 378-9. Lo stampò di recente, senza conoscere la lezione di B, ch’è autorevolissima, L. Frati nei suoi Rimatori bolognesi del Trecento, Bologna, 1915, p. 65.
- ↑ Il Tobler era rimasto incerto circa la presenza della tavola (p. 380); l’ammise invece lo Hecker (Das Deo Gratias-Druck cit., p. 222 n.), e mi sembra che avesse ragione. Quanto alla causa della scomparsa della prima carta, credo di non andar errato supponendo che questa fosse strappata per eliminare indicazioni di proprietá (notamenti in calce o stemma miniato o ambedue le cose insieme) che riescissero imbarazzanti ad un nuovo possessore.
- ↑ Cfr. qui, p. 337.
- ↑ L’iniziale del proemio e quella della Giorn. I andarono perdute con la prima carta originale.
- ↑ Cfr. qui, p. 331.
- ↑ Arguisco ciò dal fatto che, con ogni probabilitá, il «Sonnetus» dello Zambeccari esistente a c. 110 r (cfr. p. prec.) fu scritto dalla mano stessa dell’autore. Prove interne di quanto asserisco son le seguenti: la dicitura dell’intestazione, dove il nome di Pellegrino non è preceduto da nessuno dei titoli o delle qualifiche che ogni contemporaneo, data la notorietá del personaggio, non avrebbe omesso e che invece è naturalmente astretto a trascurare chi scrive di sé; la correttezza assoluta della lezione, ed in sé e quanto alla lingua, che risponde esattamente al tipo idiomatico ibrido invalso alla fine del sec. XIV presso gli scrittori emiliani (un amanuense diverso dall’autore era necessariamente inclinato a modificare il tipo predetto, come si può riscontrare infatti nel testo a stampa cit. sopra, p. 348 n. 1). Vi è poi la prova paleografica, che ho potuto fare tenendo presenti alcuni atti di mano dello Zambeccari trascritti in fine al vol. Provvisioni 1381-’85 del R. Archivio di Stato in Bologna. Tenendo conto del diverso tipo di scrittura nei due saggi (quella degli atti è la calligrafica notarile, quella del sonetto la corsiva), ho rilevato l’identitá di certe s e z capitali, con altre somiglianze meno caratteristiche, incompatibilitá nessuna. Se il risultato non è nettamente favorevole, non va però dimenticato che la scrittura del registro bolognese è forse di un ventennio anteriore al tempo a cui risalirebbe, col possesso del volume, la registrazione del sonetto nel foglio di chiusa.
- ↑ Dico cosi, perché dalla notizia che di questo precedente possessore lasciò A. Zeno (cfr. Giorn. stor., X, p. 297) non è possibile ricavare di quale dei due Giuliani si tratti, se del piú celebre († 1478) ovvero del duca di Nemours († 1516).
- ↑ Cfr. Giorn. stor., X, p. 297. Come di proprietá dello Zeno il ms. fu appena ricordato dal Manni (op. cit., p. 631). Al medesimo B credo che voglia riferirsi questa postilla di A. M. Salvini ad un luogo delle Annotazioni dei Deputati: «Vi era a’ nostri giorni un testo in cartapecora a Venezia: non si trovò in Firenze chi lo pigliasse» (ediz. cit., p. 93 n,).
- ↑ Cfr. p. 348.
- ↑ Complessivamente l’autoritá di B ci vien meno: per il proemio; per le prime due pagine ali’incirca dell’introd. alla Giorn. I; per intere le novelle VII, ii-viii e X, i-vii; per parte delle novelle VII, i e ix, IX, x e X, viii; per la chiusa della Giorn. IX e l’introd. della X.
- ↑ La prima consiste nelle parole «e la buona notte» al séguito di quelle «la Ciutazza guadagnò la camiscia» II 12336, la seconda nelle parole «che ha per me’ ’l culo le corna» dopo «schinchimurra del Presto Giovanni» II 1628. Cfr. Hecker, Die Berl. Dec. - Handschr., p. 68. La seconda nota, cosí sguaiata, non è dovuta al Mannelli, ma si rivela di altra mano piú tarda, forse del sec. XV.
- ↑ Cfr. p. 355, n. 3.
- ↑ Principe Galeotto, nei Mélanges offerts á M. E. Picot, 1913, I, p. 505 sgg.; cfr. anche Boccace, p. 211.
- ↑ L’Hauvette ammise che l’aggiunta fosse scritta sull’esemplare autografo del Bocc., e per conseguenza da lui stesso, ma alcuni anni piú tardi: ossia dopo il 1360, quand’egli s’era fatto grave, moralista e devoto. La ragione addotta è questa: «l’exemplaire sur lequel fut faite l’addition doit être nécessairement considéré comme l’archetype d’oú dérivent toutes les copies que nous possédons», e ciò equivale a dire che si fatto esemplare «doit avoir été l’exemplaire de Boccace» (p. 508). Ma perché? Che cosa vieta di credere (ed io per vari indizi lo credo) che l’archetipo comune di tutte le copie sin qui conosciute sia non giá lo stesso x cioè l’autografo, ma y cioè una sua copia immediata? In y possono essere state aggiunte primamente quelle parole, da un lettore che avesse famigliare il celebre verso di Dante (Inf., V, 137) conoscenza che non s’ha davvero motivo di supporre, nella seconda metá del Trecento, monopolio esclusivo del Nostro. Non mi fermo poi sulle ragioni intrinseche, di decoro e d’atnor proprio, che a me sembra intuitivo non dovessero consentire al Bocc. quel basso screditamento dell’opera propria, qualunque fosse il giudizio morale ch’egli ne portava da vecchio e che solo in occasioni eccezionali (come nella lettera al Cavalcanti) potè essere confidato ad estranei. Non mi sfugge finalmente che pochi anni fa H. Morf in una memoria densa e notevole che s’intitola dal verso dantesco (può vedersene un lucido riassunto nel Giorn. stor., LXX 1917, pp. 196-8) patrocinò una riabilitazione di Galeotto, il cui tipo morale presso l’Alighieri, ed anche presso il Bocc. nell’Amorosa visione (XI, 28-30) e nel Commento, sarebbe non quello d’un turpe mezzano ma d’un cavalleresco messo d’amore. Ebbene, se pure si deve ammettere ciò, io nego che il nome di Galeotto possa essere stato dato dallo scrittore stesso all’opera sua, perché un Galeotto simbolo dell’amore cortese sarebbe in fondamentale contrasto col carattere d’un libro quale il Dec., dove si esalta ben altro amore; dal punto di vista strettamente e rigorosamente morale, all’autore stesso non parve di potersi considerare altro che «spurgidum lenonem»! Dove va a finire il gentil messo d’amore? Qualunque fosse pertanto l’opinione che nel Trecento si aveva del cavaliere Galahot, converrá pur sempre ravvisare nelle parole «cognominato prencipe Galeotto» un apprezzamento di sostanza non cavalleresca ma morale, ed attribuirle, per conseguenza, ad un lettore.
- ↑ La distinzione tra porre addosso e porre in dosso escogitata dai chiosatori per difendere la vulg. è un cavillo senza fondamento e porta ad una conseguenza assurda. Il Bocc. non può aver pensato che alcuno facesse indossare dei panni ad un asino (cfr. Fanf., I, p. 72, n. 3).
- ↑ Per il primo ciò fu giá sospettato (Fanf., I, p. 309, n. 1): ma la lezione della vulg. fu difesa dallo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., p. 52) senza buone ragioni.
- ↑ Altri esempi di sillessi che rimasero senza glossa: I 1317 «di ciascuna» (oppinione, sottinteso nel precedente «oppinanti»), I 2636 «nel quale» (giuoco, implicito nel precedente «giucando»), I 12822 «e quella aperta» (da intendere camera, indicata prima con la perifrasi «lá dove Pericon con la donna dormiva»), Il 299 22 «che quelle» (cioè lettere, implicito nel precedente «pensò di scrivere alla donna sua»); cfr. anche qui. pp. 361, n. 1, e 362, n. 1.
- ↑ Qualche sospetto mi dá anche il «cioè», con quel che segue, di I 30025, ma non sufficiente a farlo condannare; va da sé, invece, che in altri casi la clausola introdotta dal cioè appare nulla meno che indispensabile (cfr. I 1372, II 2612, II 2418 ecc.). A proposito di sospetti, credo sia lecito almeno esternarli sulla genuinitá della frase finale «Iddio faccia noi goder del nostro» comune alle nov. Ili, vi e vii, e di quella Iddio ce ne dèa a noi» della nov. VII, ix, tutte cosí stentate e con tanto sentor di posticcio; si veda alla fine della nov. III, in un esempio di chiusa ben altrimenti naturale e spontanea. Anche, mi sembra giusto il rilievo dello Hecker (op. cit., p. 52) sulla stranezza della menzione di un personaggio della nov. VI, x alla fine della nov. IV, vii: che siano interpolate quelle parole I 32034 «e da Guccio Imbratta»?
- ↑ Vi si riscontrano due serie di periodi interrogativi, la prima introdotta mediante tre clausole: «Quale amore, qual ricchezza, qual parentado» — «Quali leggi, quali minacce, qual paura» — «Quali stati, quai ineriti, quali avanzi» (dove si rileva giá un altro raggruppamento ternario): la seconda, dopo il passaggio «E d’altra parte», retta dai tre successivi «Chi avrebbe Tito». Il tripliclsmo è osservato anche: nel primo periodo, con i tre complementi oggetti «il fervore, le lagrime ed i sospiri»; nel secondo, con i tre complementi di luogo «ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio»; nel terzo, con i tre «non curar... non curar... non curar».
- ↑ La lacuna fu supposta anche dallo Hecker (op. cit., p. 55).
- ↑ Si veda la lepida nota del Fanf., il quale giustamente riconobbe ancora che basta ripetere a suo luogo il s’avvidero a rendere semplice e chiaro il costrutto» (I, p. 140, n. 2): ma quell’essi non è davvero possibile accettarlo.
- ↑ I, p. 146, n. 4; la proposta sembra accolta dallo Hecker, Die Berl. Dec.-Hs., p. 62.
- ↑ I, p. 155. n. 3
- ↑ 1, p. 164, n. 3.
- ↑ Cosí il Fanf., che per suo conto lesse quanto è io, non mi ricordo, come se quel mostruoso quanto è io fosse proprio conforme all’uso del Sacchetti, il quale disse invece quanto io (I, p. 200, n. 3).
- ↑ Va soppressa la copula che B premette al «che».
- ↑ Cfr. «far chiaro» I 7719, 18625, 21820; II 25627, 28220.
- ↑ Si poteva anche pensare che «ismovitura» fosse un lapsus per «levatura», determinato da persistenza del suono d’«ismossolo», che precede, nell’orecchio d’un trascrittore; si sarebbe cosí ristabilita l’espressione «poca levatura aveva», la quale ricorre anche altrove ma sempre in senso figurato (p. es. I 29120, II 532, 2227), mentre qui sarebbe usata nel proprio. Tutto ben considerato, sembra preferibile il restauro accolto nel testo. Il Fanf. lasciò poca ismovitura avea e spiegò «era facile a smuoversi», il che è pura fantasia.
- ↑ I» p. 287, n. 2.
- ↑ I, p. 293, n. 1.
- ↑ Si noti: «così fatti — cosí atroci — cosí aguti, (sono) sospinto — molestato — trafitto»: impossibile che accanto agli altri sostantivi «soffiamenti — denti» mancasse il terzo il quale rispondesse al «sono trafitto», in correlazione alle altre due rispondenze di «soffiamenti» con «sono sospinto» e di «denti» con «sono molestato».
- ↑ Fanf., I, p. 324, n. 3.
- ↑ E cosí II 759 e 22629; il ne manca in I 1084 «ti darem tante d’un di questi pali», ma qui, a sua volta, è facile sottintendere il termine percosse implicito nelle parole «d’un di questi pali». Si potrebbe forse anche pensare ad un supplemento busse (cfr. II 598, 814, 21117 ecc.).
- ↑ Cfr. II, p. 50, n. 4
- ↑ Il gerundio «dipignendo» starebbe per dipigneano (II, p. 95, n. 3)! Ma c’è il fatto che siamo in una proposizione relativa: e l’uso antico del ger. per il verbo di modo finito non regge piú.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 200, n. 3; Hecker, op. cit., p. 53 (e la nota del Tobler ivi in calce),
- ↑ II, p. 331. n. 4.
- ↑ È vero che anche S legge come la vulg., aggiungendo uno dopo «non solamente», il che migliora alquanto il passo ma non lo sana del tutto; e piuttosto mi sembra che stia ad indicare essere qui stata avvertita vagamente la lacuna. Per il mio supplemento cfr. II 10714 «atta a meglio saper macinar» e 27910 «atta... a passion sostenere».
- ↑ Fanf., II, p. 419, n. 2.
- ↑ Secondo lo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., p. 67) B presenterebbe altre due lacune che sarebbero poi state integrate da L,e precisamente I 27725 «molti di con suoi ingegni» e II 29510 «furono alle camere menati»; sta di fatto invece che fu aggiunto «di» nell’interlinea dall’amanuense e «camere» nello spazio tra le due colonne della scrittura, di mano trecentesca che convien credere quella dell’amanuense medesimo (cfr. qui, p. 362, n. 3). Aggiungo che alcuni luoghi, una mezza dozzina in tutto; furon creduti lacunosi dal medesimo Hecker, ma io non li toccai, per non essermi parse convincenti le sue ragioni: né una discussione è opportuna in questo luogo.
- ↑ In G fu ristabilito opportunamente il non, ma la strenua difesa della lezione di L (che è quella di B) fatta dai Deputati del 1573 lo fece respingere dalla vulg.: a torto, come mostra il vb. sforzare qui usato; se il passo non doveva portare la negazione, invece di «sforzasse» avremmo dovuto trovare «osasse» o altra parola simile. Cfr. per altre argomentazioni Hecker, Die Berl. Dec.-Hs., p. 10.
- ↑ Stampando questo passo senza la negazione, con’è nella vulg, gli s’è fatto dire il contrario di quel che doveva essere evidentemente nell’animo di Bruno, il quale rimprovera Calandrino di avergli voluto far credere che non avesse trovato i’elitropia, non giá che l’avesse trovata (basterebbero a provar ciò, se ce ne fosse bisogno, i rimproveri di Bruno e di Buffalmacco sul finire della nov. VIII, iii: «perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il dovea palesare»).
- ↑ In II 31823 la lezione della vulg. «chi biasimando una cosa, un’altra intorno ad essa lodandone» travolge addirittura il senso, facendo apparire che sia la stessa persona a biasimare una cosa ed a lodare un’altra.
- ↑ Nei primi due luoghi e nell’ultimo fu giá corr. in L. Che le forme sú registrate siano da tenere per incompiute, mostra l’osservare come in I 638 l’amanuense di B, dopo avere scritto dandarse, aggiunse subito in alto il ne mancante.
- ↑ Per mancare al «non è ancora paruta», secondo la lezione di B e quindi di L, il suo legittimo complemento di termine, e per non osarsi pensar da nessuno ad una restituzione, la vulg. delegò l’ufficio di compl. ad «a me» che precede; per quel che accadesse poi per il conseguito spostamento della virgola («quanto è, a me no n’è ancora paruta») cfr. Fanf., I, p. 305, n. 3; il quanto è fu mandato in coppia con l’altro quanto è difettivo di I 1747 (cfr. qui, p. 355) e ne venne il caos.
- ↑ Senza questo «m’» non si sa dove la vulg. abbia cercato il compl. di «conceduto non è»; lo stesso dicasi per «imponete» di I 66.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 12, n. 4.
- ↑ In questo caso e nel precedente non si vede come la vulg. non abbia sentito la necessitá del complemento.
- ↑ Cfr. Hecker, op. cit., p. 11.
- ↑ Cfr. I 258l6. Nel secondo passo perché fu restituito giá da L nel primo, il che rimase in L e nella vulg., e si sforzò di difenderlo, dopo i Deputati, il Fanf. (I, p. 81, n. 2).
- ↑ Non regge la difesa di la qual cosa cosí da solo, nel significato di per la qual cosa, tentata dal Fanf. (I, p. 117, n. 3).
- ↑ Anche qui è vana la difesa della lezione di L fatta dal Fanf. (II, p. 36, n. 4).
- ↑ La vulg., senza trovar luogo a supplemento, si contentò di dividere «adgiunta» in a giunta: ma cfr. II 14932 «per aggiunta».
- ↑ Dipende da «disposta», che vuol sempre l’a (cfr. I 782 ecc.).
- ↑ Il passo è stato frainteso sin qui per non essersi veduta la lacuna.
- ↑ Cfr. I 15325, I 21731, II 1628 «guari di tempo», I 3193 «guari di spazio»,ed anche I 25919 «guari d’indugio».
- ↑ Si veda come il Fanf. spieghi la lezione senza di da lui accolta (11, p. 27, n. 1).
- ↑ Cfr. I 9616 «alquante delle perdute forze» e 141 10 «alquanta... della loro lingua»; e in genere per l’uso seguito dal Bocc. nella costruzione partiti va: I 1156 molta di via», I 17236 I 18811 e II 20333 «poca d’ora», I 22922 «tanta di piacevolezza», I 247 26 «di quella polvere tanta», I 31811 «molta della paura e della ver gogna», II 1231 «tanta di grazia», II 14730 «quella poca di bella apparenza», II 15936 «poche di volte». Va rilevato che nella maggior parte di questi casi L sostituí il masch. alquanto, tanto, molto ecc., rammodernando senza accorgersi.
- ↑ Il passo contiene uno dei soliti esempi di sillessi: il sogg. di «sarebbe stata di soperchio» è infatti alterezza, implicito nelle parole «era altiera» che precedono; non che render possibile questa spiegazione, la vulg., per non aver ripristinato la locuzione avverbiale di soperchio, fu costretta a concordare stata con soperchio creduto sostantivo.
- ↑ Tavena è il nome del padre.
- ↑ Del guasto nei passo presente non s’accorse che lo Hecker (op. cit., pp. 53-4), ma per trarne tutt’altra conseguenza. Salta agli occhi che lasciando «aveva lor detto», ossia non presupponendo la caduta del di, si dovrebbe riferire «lor» al solo Bruno, ciò ch’è manifestamente assurdo (Calandrino sino a questo punto del racconto non s’è confidato che con Bruno).
- ↑ Cfr. I 5816, I 2603, I 30519, I 33225, I 33517 ecc.
- ↑ Cfr. Fanf., I, p. 69, n. 1.
- ↑ Il guasto apparve evidente anche allo scrittore di L,che correggendo lo aggravò con la sua restituzione spostata («e di buona aria e che valente donna»); in G fu tolta via la seconda e, e la vulg. accolse il passo cosí deformato.
- ↑ Cfr. Fanf., I, p. 262, n. 4.
- ↑ La caduta di questa che provocò impensate conseguenze ermeneutiche, perché la vulg. la sostituí col primo dei due che dell’inciso precedente «che che se ne fosse cagione», dando poi al che se ne fosse il valore di che che (cfr. Fanf., II, p. 86, n. 3): tutto per non avere osato metter le mani in L.
- ↑ Cfr. l’identica formula in I 14323, I 27025, II 22023, II 2257
- ↑ Il Fanf. sembrerebbe aver inteso rettamente (II, p. 268, 11. 3) tutto questo passo, per veritá assai ingarbugliato, e piú ancora senza il ché suppl. da me; esso va riordinato cosi: «e sí ancora per ciò che la contessa intende (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi) di farvi cavalier bagnato alle sue spese, per ciò che voi siete gentile uomo».
- ↑ Nel passo presente il testo parve difettivo al Fanf. (I, p. 49, n. 2), che intravvide il rimedio ma non osò adottarlo. Si avverta che «quella» va riferito al concetto novella implicito nel «narrarvi», ed è inoltre sorretto dal ricordo, persistente nell’orecchio, delle parole «novella da Neifile detta» che stanno quattro righe prima; un caso analogo di sillessi appoggiata ad un richiamo di vocabolo si riscontra in I 6014 «La precedente novella.... m’induce a voler dire come.... la quale ecc.».
- ↑ La mancanza di questo e non s’avverte nella vulg,, per avere L mutato il precedente «venne da lui» in «venuto da lui».
- ↑ Basterá indicare i principali: I 1116 scrivirlo, 5032 rei («reina»), 8318 stasere, 898 se cortine («le c.»), 931 chi («che»), 1237 adomarono («addomandarono»), 13134 prenza, 1354 vacando («vogando»), 19213 tondalo, 20131 abbiasimo («abbia biasimo»), 20230 pargliandogli, 23833 labbia («t’abbia»), 2534 îpartiva («il partiva»), 28431 camere («camera»), 28827 mandonna, 3371 attarcar, 34817 rohodiani, 36626 vole («volere»), 36880 il sul («in sul»), 37718 stada («stata»), 37914 lascianta, 3846 amore («amorose»), 38532 usa («usato»), 3862 dissie, II 2227 ad ad certi, 986 Do («Io»), 10526 î facesse («il facesse»), 10633 a a preti, 10826 andante («andate»), 11119 avevanto («avevan»), 1222 sinagaglia, 12819 preta, 16127 beamo, 17426 soavemen, 20126 io ti fara, 21320 niccola («Niccolosa»), 22315 do («dopo»), 28323 date («data»), 30527 rimatata («rimaritata»), A molti errori riparò in un secondo tempo lo stesso amanuense di B, scrivendo in luogo opportuno la forma corretta e sostituendola alla sbagliata con qualche segno di richiamo; è notevole che lo Hecker abbia quasi sempre ingrossato le sue liste anche di tali sbagli senza tener conto della correzione (p. es. a p. 46 riportò l’err. comincio ad pregar di I 40619 senza rilevare che nel margine fu poi a pregar sostituito confortar). Posso aggiungere qui che ho riscontrato un certo numero d’inesattezze nello spoglio delle lezioni di B fatto da quello studioso.
- ↑ Cfr. I, p. 28, n. 1.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 124, 11. 1; straordinaria è la sua lezione: «sotto vivaci arbori, et agli altri belli arberi»! Che anche allori si trovassero nella Valle delle donne, risulta chiaramente da II 35.
- ↑ Lasciando il sing., il sogg. è «il re»; e non era egli il solo a chiamare il suo giardino «la Cuba», ma tutto il popolo.
- ↑ La prima volta fu corretta da L, le altre restarono.
- ↑ Il Fanf., non osando restituire non n’, usò la scrizione no n’, e peggio ancora, osò difenderla (cfr. I, pp. 145 n. 1, e 304 n. 4). Il primo dei passi segnalati qui sopra fu corr. giá in L, l’ultimo restò nella vulg. in forma di non.
- ↑ S’intende che la mia correzione è imposta dal senso, il quale in ambedue i casi non ammette l’art. dimostrativo.
- ↑ Talvolta, nei mss. piú curati, quando al termine della riga restava uno spazio vuoto insufficiente a ricevere la prima sillaba o lettera della parola successiva, si usava riempirlo, per la vista, con un’asticella facile a scambiarsi con la lettera i (qualche es. nello stesso B). Uno scambio del genere e quindi l’arbitraria correzione di i in î poterono produrre in.
- ↑ il Fanf., I, p. 336, n. 3, propose la correzione, ma non s’attentò d’accoglierla; lo Hecker non la trovò accettabile (op. cit., p. 52), senza però rendersi ben conto della questione.
- ↑ «Questo luogo è uno de’ piú tartassati da’ chiosatori», notò il Fanf., per soggiungere lepidamente che esso invece «non ha bisogno di niuno de’ loro impiastri» (I, p. 210, n. 2). Come possa aver detto ciò in rapporto alla lezione accolta dalla vulg., è un mistero: tanto piú che a lui sfuggí come uno dei due legamenti relativi del tratto la quale sopra una colonna che rimanga senza dipendente; e non parliamo di quello straordinario iv’entro sostantivato, nel senso di il luogo di colá entro!
- ↑ Dico cosí, perché nel 1348, ossia al tempo della «pestilenza presente», la Nonna non poteva esser piú una giovane, se era «una fresca e bella giovane» (com’è detto due righe sotto) quando messer Diego della Ratta fu in Firenze come vicario del re di Napoli (1318), giusto trent’anni prima.
- ↑ in L fu soppresso del don ma senza vantaggio, anzi con ulteriore aggravamento; in G si legge riguardando che alla q. del dono il prendiate, accolto dalla vulg.: resta a sapere donde traessero questa lezione gli editori.
- ↑ La vulg. ha cosi: ma il Bembo, adducendo il passo nelle sue Prose della volgar lingua, aveva giá stampato «Adamo maschio» (c. lii v dell’ediz. principe del 1525), sia che ciò trovasse nel suo testo a penna (qui, p. 335, n. 1) sia che qui ricorresse all’emendamento.
- ↑ Cfr. I, p. 87, n. 2.
- ↑ Essendo l’errore evidente, la vulg. corresse l’aver (Fanf., 1, p. 306, n. 2). Per la mia correzione giova tener presente che lasciamo stare è locuzione la quale ormai ha perduto il suo valore verbale per divenire semplice congiunzione: cfr. I 10026 «lasciamo stare all’amore»(«all’amore» con riferimento ad «avendo riguardo» che precede), I 16020 «lasciamo stare ad una» (precede «condiscenda», che spiega l’«ad una»).
- ↑ Eccoli: I 4716 «avendo udito che... Abraam aver», I 791 «diliberarono che... di rubarlo», I 14419 «che la donna del figliuolo del re» (precede a una certa distanza «avvenne che», poi, dopo alcune proposizioni dipendenti, è ripreso «che», ed infine, dopo altre due subordinate, viene il passo riportato, ch’è la prop. retta dalla principale), I 35117 «portava che... fermamente doverla avere», II 810 «avvisava che... dover passare», II 121 «una che... ne gli vide». Nel penultimo caso L mutò «dover» in dovesser, nell’ultimo il Fanf. serbò che leggendo ch’è; i che di I 79, 144 e 351 furono conservati dalla vulg. e giustificati dal Fanfani.
- ↑ I 17 33 «ventiedottesimo», rimasto nella vulg., benché paresse inaccettabile al suo editore (Fanf., I, p. 16, n. 3; cfr. invece I 15330 «dieceottesimo»), I 711 e 267 1 «ed incomincia» nell’incipit delle altre Giorn. la congiunzione è sempre omessa), I 17812 «e che sopra» (cfr. qui, p. 355, n. 6), I 23817 «e non l’avete», I 2391 «e senza che», I 2416 «ed in questa dimestichezza» (la sintassi lo esclude; il passo si guastò ancor piú in L. per la soppressione del sost. «dimestichezza», e fece perdere le staffe ai chiosatori: cfr. Fanf., I, p. 273, n. 2), I 3204 «e per l’aversi» (cfr. Fanf., I, p. 360, n. 3), I 33627 «va’ e procaccia» (è un es. del noto uso arcaico di va’ con l’imperativo, cfr. II 5712 «va’ tornati»), II 231 «me n’è pure e una», II 11518 «e come piú volenteroso», II 12616 «e tanto... il tennero», II 13385 «ed accortasi», II 16330 «a Bruno e che», II 3126 «e primieramente». In II 115, 126, 133, 163 la e rimase nella vulg., ancorché nei due ultimi casi il Fanf. la trovasse inopportuna (II, pp. 227 n. 2. e 261 n. 5) e in II 163 la sua conservazione sia un’evidente offesa al senso comune.
- ↑ In tutti questi casi il vb. reggente è sempre rispondere (solo una volta affermare, I 315): costantemente il Bocc, usa invece dir di sí, dir di no: cfr. I 776, 23224, 3331, 39025, II 12531, II 29621 ecc.
- ↑ L’oscuritá dipende dall’anacoluto non facilmente riconoscibile (il sogg. di «si partí» sembra Mariuccio, mentre è la gentil donna, la quale doveva naturalmente ritornare da Tunisi a Susa e provocare partendosi le «lagrime della Gostanza». Per il Fanf. invece «è senza dubbio Martuccio colui che partí» (II, p. 20, n. 2): ma da chi? Dalla Gostanza no, perché subito dopo è detto che i due amanti tornarono a Lipari insieme. Vero è che lo stesso Fanf. spiegò non senza lagrime dalla Gostanza per non senza lagrime da parte della Gostanza, e trovò che sta ottimamente (e non è vero): ma la difficoltá da me accennata non era rimossa.
- ↑ I passi I 202, II 124 e 191 furon corretti nella vulg.; I 308, II 162 e 299 erano stati giá corretti da L in II 219 L conservò «d’una» e subito dopo corresse «dell’altra». Tutti gli altri luoghi rimasero in L, e quindi nella vulg., come li rese B.
- ↑ Il terzo passo fu corretto in L, gli altri due rimasero nella vulg. tali e quali.
- ↑ Questo modo di dire, ch’è ben chiarito dal contesto, importa senza dubbio ciò che noi diremmo: «se fa l’uno, faccia l’altro»; di qui la necessitá di ristabilire il rapporto da...... a. Il Fanf. intese rettamente (I, p. 182, n. 3), ma conservò la lezione errata.
- ↑ Tutti questi infino ad ora passarono nella vulg., meno l’ultimo, compreso in una clausola che il Mannelli copiando saltò a piè pari (ella infino adhora timpone). Il Fanf. con la consueta disinvoltura affermò che infino ad ora vale fin da questo momento e fu spesso usato dagli antichi (I, p. 244, n. 1): il che è mera affermazion sua. Correttamente B scrisse infino da ora piú d’una volta, p. es. I 6823 (e qui L ridusse infino ad hora), I 3047, II 13082 ecc.
- ↑ Poiché la e si trova proprio in fin di riga, potrebbe darsi che l’amanuense intendesse di scrivere non tanto la congiunzione (nel qual caso avrebbe usato come quasi dappertutto altrove la nota tironiana) quanto la prima sill. di egli, che poi diede per intero in principio della riga successiva; L a buon conto la tralasciò.
- ↑ Cfr. Hecker, Die Berl, Dec.-Hs. cit., p. 9.
- ↑ Il passo II 226 fu giá corr. da L, che però invertí convenne lor; i quattro precedenti e quello II 324 furono egualmente emendati in L: gli altri passarono nella vulg., ed il Fanf. non die’ segno di rilevare che il terzo, giustificandolo come solecismo (I, p. 284, n. 3). Imperdonabile non aver rilevato in I 324 quell’a lui, quando si parla di cosa che si riferisce alla Salvestra.
- ↑ Cfr. I 9720 ecc.
- ↑ Cfr. Hecker, op. cit., p. 11.
- ↑ Cfr. I 33315 eII 15731 «grandissima pezza», I 1021 22413 32422 33330 II 2121 II 3329 II 1106 «gran pezza», I 28915 «una pezza» (ed inoltre: I 8825 31733 II 15512 II 1643 «buona pezza», II 15618 «di questa pezza»),
- ↑ Bisogna distinguere nettamente la fine ed il fine, quest’ultimo nel senso di scopo ed anche risultato o riuscita (cfr. I 482o, 6812, 716, 9226, 10829, 23914, 28511, 29434, 3215, 36712, 40119, II 2926, II 32718 ecc.); invece B reca correttamente: I 9720, 12414 22233 27016 28328 3375.24 «alla fine», I 24013 29427 e 31011 «la fine», I 29422 «nella fine», I 12233 e 34029 «posta fine» ecc.
- ↑ Op. cit., p. 9.
- ↑ Ivi, p. 10.
- ↑ Cfr. II, p. 58, n. 3.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 94, n. 4. Non mi so risolvere a supporre che il femm. «l’altra coscia» abbia attratto il participio (e lo stesso dicasi nei riguardi di I 330 apparecchiato», riferito qui sopra).
- ↑ Che sostituí a il quale un inesplicabile de’ quali, passato naturalmente nella vulg.; «li quali» è correzione di mano cinquecentesca segnata nel margine di B,e mi par giusta.
- ↑ Op. cit., p. 8.
- ↑ Ivi, p. 10.
- ↑ Secondo l’uso antico il Bocc. considerava il giorno finito al tramonto, e però questa locuzione determina la notte dal 25 al 26 dicembre.
- ↑ Cfr. II, p. 407, n. 1.
- ↑ Secondo lo Hecker (pp. 24, 60) la lezione di B è addirittura le, ma non è vero.
- ↑ È una semplice svista per gittarono: le prime due sillabe furono scritte in fin di riga, l’ultima a capo, e ciò determinò l’errore, la cui ovvia correzione è giá in L.
- ↑ Cfr. I, p. 307, n. 5
- ↑ Cfr. Fanf., I, p. 34, n. 1.
- ↑ Rispettivamente per ventura e per avventura valgono per caso e forse.
- ↑ Il contesto aiuta sempre a correggere, ma la vulg. attraverso L ha conservato l’errore in tutti i casi (eccetto I 145, dove fu scritto per ventura). Esempi di per avventura in B nell’uso corretto: I 134, 1412, 2015 ecc.
- ↑ Cfr. I, p. 254, n. 3.
- ↑ Cfr. I, p. 266, n. 2.
- ↑ Cfr. I, p. 322, n. 1.
- ↑ Cfr. I, p. 358, n. 4.
- ↑ Il guasto si sará formato cosí: prima sará stato omesso «lei», poi nel passo divenuto incomprensibile il vb. «sollecitava» sará stato ridotto alla forma passiva.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 77, n. 3.
- ↑ Cfr. II, p. 196, n. 7: «Balco è luogo alto e aperto dove i contadini tengono fieno, e vi si monta per una scala a piuoli». Invece si tratta del piano superiore della casa rurale, che ha per pavimento un palco di legname (il «palco de’ colombi» di II 531 è quel che noi diciamo piú propriamente soffitta, ma qui si parla di una casa cittadinesca e di gente agiata); il palco poi, nel suo significato proprio testé espresso, è nominato in I 20929 e II 7714.
- ↑ Cfr. II, p. 217, n. 2
- ↑ Cfr. II, p. 245, n. 2.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 280, n. 5. Per la forma dello Canigiano cfr. qui, p. 361.
- ↑ Cfr. II, p. 322, n. 2.
- ↑ La locuzione è senza dubbio accomandare a Dio: cfr. I 5310, 12410, 21515, 25326, II 5516, II 29632, II 3157.
- ↑ Cfr. p. 337.
- ↑ La leggenda della scrupolosa aderenza di L al suo originale, sulla quale si è tanto detto per l’addietro (cfr. qui, p. 331 sgg.), è crollata da quando, riconosciuto in B l’originale medesimo, si è potuto procedere al raffronto diretto. Lo Hecker dá un elenco di circa 350 luoghi in cui L áltera la lezione di B (Die Berl. Dec.-Hs. cit., pp. 11-24); ma a quelli bisogna aggiungere altri 650 passi all’incirca (ivi, pp. 25-50), dove L, pur non offrendo una lezione assolutamente scorretta in sé, si scosta da B con un arbitrio ch’è appunto ciò che mi preme ora di assodare.
- ↑ Si veda la serie degli errori comuni a B e a D nello scritto dello Hecker, Der Deo Gralias-Druck cit., pp. 221-22.
- ↑ Per es. è certamente dono dell’editore quattrocentesco quel di Grecia in luogo di II 841 «d’Acaia». La negligenza e l’arbitrio intervenuti nella costituzione di D sono ammessi senza esitazione dallo Hecker (art. cit., p. 221).
- ↑ Cfr p. dec2.
- ↑ Lo spoglio della sua lezione nei confronti di L è dato ancor dallo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., pp. 69-72). Che B i fosse giá in posto quando B serví di esemplare a D, risulta luminosamente dai due primi tra i raffronti istituiti dal medesimo studioso nell’altro suo scritto (p. 221). Da B1 ho derivato circa una quarantina di emendamenti su un tratto di cinque pagine della presente stampa: indizio della sua bontá.
- ↑ I due passi sono in b, e quindi si trovavano in B. Nel secondo, G (che li porta entrambe, come pure la vulg.) omise era; di esso lo Hecker disse ch’è «una parentesi per lo meno strana» (Der Deo Gr.-Dr., p. 227).
- ↑ La mancanza di piú fu giá rilevata (cfr. Fanf., II, p. 163, n 1), ma la vulg. non provvide.
- ↑ Nella vulg. bisogna ammettere uno iato durissimo tra ma e i.
- ↑ Ciò fu giá avvertito da molti (p. es. Fanf., II, p. 365 11.; Hecker, Der Deo Gr.-Dr., p. 227). ma limitatamente alla prima delle due lacune.
- ↑ Le tre aggiunte da B1.
- ↑ La vulg. supplisce dove può alla mancanza dell’art. apostrofando in I 34 la prep. fra e negli altri casi la e copulativa precedente (partito a cui ho dovuto appigliarmi io per II 2338, dove et di L è stata mutata in «e’» per non allungare il verso); altrimenti lascia immutata la lezione di L.
- ↑ Ambedue le aggiunte da B1
- ↑ Il Fanf. segnalò la mancanza (II, p. 361, n. 5), ma senza eseguire l’emendamento; non avvertí invece nemmeno il difetto di il in II 58.
- ↑ Nel primo caso la vulg. ristabilí la copula.
- ↑ Due donne di questa famiglia Scrignara di Napoli, elencata tra le feudali giá nel secolo XIII, son nominate nella Caccia di Diana boccaccesca; anche qui il casato si deformò nelle stampe (Strignan, Strignani) ma fu ristabilito nella mia edizione torinese del 1914 (p. 5, n. 2). Cfr. poi Torraca, G. Bocc. a Napoli, Napoli, 1915 (estr. dall’Arch. stor. per le prov. napol. del 1914), p. 157.
- ↑ La vulg. accolse e’, G omise la parola.
- ↑ Nessun dubbio che santoccio, usato cinque volte nel sèguito della nov., valga lo stesso che santolo, ossia «colui al quale è stato tenuto un figliuolo al battesimo» (Fanf., II, p. 138, n. 5); quanto a quel suppositizio I, lo si credè una storpiatura burlevole, ma non si seppe trovare di che voce e con che valore (ivi, n. 2).
- ↑ Cfr. p. 364.
- ↑ La lezione di B1. da me accolta, mi sembra per varie ragioni migliore di quella, passata nella vulg., di L.
- ↑ E il Fanf. lo trovò utile (II, p. 160, n. 1).
- ↑ Cfr. I 26431, II 23317.
- ↑ Cfr. Hecker, Der Deo Gr.-Dr. cit., p. 226.
- ↑ Cfr. II, p. 166, n. 6.
- ↑ Cfr. Hecker, art. cit., pp. 226-7.
- ↑ Le tre correzioni secondo B1.
- ↑ Cfr. I, p. 2, n. 1
- ↑ La vulg. conserva veduta e il Fanf. la difende (II, p. 158, n. 1).
- ↑ Nella vulg. questa, benché il Fanf. mostri di dubitar dell’errore (II, p. 370, n. 3).
- ↑ Tutte queste varietá sou desunte da B1; che siano migliori delle lezioni rimaste nella vulg., è per alcune evidente di per sé (cosí sostenimento, fortunosi, scendere, vi sono). Quanto alla bontá della lezione appresso la quale, cfr. Hecker, Die Berl. Dec.-Hs. cit., p 69.
- ↑ Cfr. Fanf., II, p. 129, n. t.
- ↑ Cfr. p. 371.
- ↑ È vero che la lezione non accolta ha la conferma di S, dove in luogo di faccendo si legge udendo, che lo Hecker trovò doversi preferire (Der Deo Gr.-Dr., p. 227).
- ↑ Un primo abbozzo deilo studio sull’ortografia boccaccesca secondo i diversi autografi volgari fu da me delineato nell’introduzione al testo critico delle Rime di G. Bocc., Bologna, 1914, p. ccxxi sgg., ma aspetta di essere svolto in modo organico ed integrale sull’esplorazione di tutti i mss. che ci rimangono.
- ↑ Degli usi grafici di L, molto piú lontani di quelli di B dai boccacceschi, non è il caso di preoccuparsi; alle parti del Dec. per cui il fondamento del testo è appunto in L. basta estendere le grafie adottate per il rimanente.
- ↑ Tra le eccezioni registrerò le forme oppinione oppinare e deriv., presummere, suppremo, faccendo, che sono costanti in B e nell’ortografia trecentesca, riflettendosi anche nelle scritture in latino. In rapporto al cosí detto raddoppiamento sintattico, che naturalmente ho eliminato dappertutto in coerenza alla norma generica indicata su nel testo, rilevo l’improprietá della vulg., che stampa al lor potere, al lor diletto, al lungo andare, (andare o tornare), al letto ecc., dove la l di al non è certo l’elemento articolare e la preposizione non può figurare che semplice. La doppia di bella nella locuzione di I 2475, che in B si legge bella cacheremo, è stata ritenuta prodotta da assimilazione di n inn. l, «ben la»; sembrò con ciò di rendere la bizzarra frase un po’ piú sensata di quanto sia la lezione accolta nella vulg. (cfr. Fanf., I, p. 280, n. 4). La medesima vulg. conservò in II 5022 il plur. partice di L, che andrá sicuramente ricondotto a partiche (sul modello di catholiche I 7821 di B); anche Anthiocia II 22510 e II 2274 di B non persuade (L ha Anthioccia, la vulg. Antioccia).
- ↑ Ad es, la copula, che in B è rappresentata generalmente con la nota tironiana (salvo pochi casi, in cui, principiando un periodo, assume la forma Et, oppure, incorporandosi all’art., con o senza aferesi o raddoppiamento sintattico, dá luogo alle grafie ei = e i, elle — e le, e = e’= e i, el = e ’l = e il ecc.), è da me resa di regola con e e ed, e innanzi a parola che cominci per consonante, ed innanzi a parola che cominci per vocale: a meno che questa sia ad, nel qual caso l’eufonia consiglia di evitare il fastidioso ed ad. D’altra parte, nelle ballate è talvolta necessario, per la misura dei versi, conservare ed, ed una volta conviene restituire e’ (cfr. p. 376, n. 4).
- ↑ Nella Giorn. IV si ha anche uno speciale proemio, che non va confuso con l’introduzione.
- ↑ Si eccettua la prima novella di ogni Giorn., in cui l’esordio narrativo è innestato nell’introduzione che immediatamente precede (ma in 1, i e IX, i il preambolo è doppio, cosí che esse vengono ad avere tre parti egualmente); inoltre si hanno due novelle, I, iii e IV, ii, in cui le parti son quattro, per essere doppio il preambolo ragionativo della prima e l’esordio narrativo della seconda; e due finalmente, II, v e V, vii, in cui le parti son due, in una per fusione dell’esordio e del preambolo, nell’altra per assenza del preambolo.
- ↑ Cfr. E. G. Parodi, Osservazioni sul ‘cursus’nelle opere latine e volg. del Bocc., nel vol. Studii su G. Bocc cit., p. 232 sgg.
- ↑ Che non si tratti di mera illusione, mostra la seguente analisi ritmica del primo periodo del Dec., dove segno tra le lettere da elidere nella pronunzia secondo i bisogni del ritmo: «Umana cosa è l’avere compassióne degli afflitti (velox), e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è mássimamènte (planus) richésto (pi.) li quali giá hanno di confòrto avúto (pl.) mestière (pl.) ed hannol trovat[o] in alcuni (pi.); tra li quali, se alcuno mai n’èbbe (pi) bisógno (pl.) o gli fu caro o giá ne ricevétte piacére (pl.), io sóno un di quégli (pi.)». Qui si nota l’assenza completa del cursus tardus, che infatti mi risulta rappresentato assai scarsamente nei pochi altri assaggi che ho fatto qua e lá della prosa delle novelle.
- ↑ Non sará fuor di posto segnalare qui i sensibili benefici che hanno tratto i nomi propri dei personaggi delle novelle sia dalla lezione di B (corrottasi in L e quindi nella vulg.) sia da altri sussidi Ser Ciapperello (I, i) torna ad essere sempre e soltanto Cepparello; messer Tedaldo padre di un omonimo Tedaldo (II, iii) si rifá Tebaldo, per distinguersi dal figlio; il casato di Landolfo Ruffolo (III, iv) si riuniforma alla grafia reale dei documenti e perde una f, come quello del marito di Catella (III, vi) ritorna, di Fighinolfi, Sighinolfi, e quello dell’amico di Peronella (VII, ii), di Sirignario, Scrignario. Non Giusfredi ma Giuffrcdi si ribattezza il primogenito di madama Beritola (II, vi). Encararch (II, ix) lascia scomporre il suo nome barbarico in un onorevole En Cararh, secondo la buona creanza catalana, e si milmente Narnald Cluada (IV, iii) riacquista il prefisso provenzalesco ed il cognome, N’Arnald Civada. Talano di Molese (IX, vii) ritrova il nome del padre Imolese, come Ruggeri da Ieroli (IV, x) il suo paese d’origine in Aieroli, ch’è Agerola (cfr. Torraca, G. Bocc. a Napoli cit., p. 156 e n. 1; ivi osserva l’autore che il Bocc. chiamò stadico lo stratigoto ossia il magistrato che esercitava la giustizia criminale in Salerno: ebbene, anche quella strana parola stadico della vulg. torna ora al suo vero suono stradicò); nello stesso modo messer Torello d’Istria da Pavia (!) si fa riconoscere per di Strá (X, ix). Neri Mannini (VI, vi) era un Vannini, e il padre di Spinelloccio (VIII, viii), non Tanena, nome che a Siena non usò mai, ma Tavena; invece un nome proprio della vulg., la Trecca (VIII, v), ritorna alle piú modeste funzioni del nome comune «trecca», ossia venditrice di erbaggi e frutta, e quello sconosciuto del maestro Scipa (cfr. Fanf., II, p. 264, n 2) si contenta di raddolcirsi in «maestro sapa». Salutiamo anche senza rimpianto una mezza dozzina di vocaboli che, nati da una sbadataggine di amanuense, erano entrati nel lessico per colpa di quella non mai abbastanza deplorata idolatria per le deformazioni dei testi a penna: pocofila, trasorier, giudicio, sanctio, balco, borrana (nel senso di borro o burrone), e, piú straordinario di tutti, l’impagabile verbo carapignare! Questo è introdotto da L e dalla vulg. nel passo di II 16624 «ed essi si carmignavano come que’ signori»: in B la quinta lettera della parola fu espunta (ed il punto di espunzione fu creduto dal Mannelli costituire la gamba di una p), mentre sulla quarta e su parte della quinta l’amanuense tracciò segni che sembrano voler trasformare le lettere stesse in una m, ma non cosí bene, che le due aste anteriori non tradiscano ad incerta lettura un’a; d’onde appunto carapignavano.
- INDICE DEI NOMI DI PERSONA
- * * *
- Abate Amerigo (messere), I, 383-388.
- Abraam giudeo, I, 40, 41, 43, 47; v. Giovanni.
- Adalieta (madonna), II, 305.
- Adamo, II, 324.
- Adimari, II, 24.
- Adriano, II, 214-218.
- Agilulf re de’ longobardi, I, 192.
- Agnesa, I, 377.
- — (madonna), II, 51, 53.
- Agnolella, I, 360, 366.
- Agolante, I, 85, 92.
- Agolanti, I, 85.
- — Sandro I, 77.
- Aieroli (d’), v. Ruggeri d’Aieroli.
- Alatiel, I, 124, 138.
- Alberighi (degli) Federigo, I, 395-401.
- — messer Filippo, I, 395.
- Alberto (maestro) da Bologna, I, 63, 65.
- — (frate) da Imola, I, 285, 287-294; v. Berto della Massa.
- Aldobrandino, v. Palermini Aldobrandino.
- Aidruda (monna), I, 409.
- Alessandro, I, 86-92.
- — v. Chiarmontesi Alessandro.
- Alesso (santo), II, 43.
- Alesso, v. Rinucci Alesso (messere).
- Alibech, I, 258, 260, 262, 263.
- Alighieri Dante, I, 273.
- Altarisi (gran can d’), II, 163.
- Ambruogia (madonna), II, 104.
- Ambruogio (santo), II, 54, 55.
- — v. Anselmini Ambruogio.
- Ambruogiuolo da Piagenza, I, 158-163, 166-170, 177.
- Ambusto, v. Publio Ambusto.
- Amerigo, v. Abate Amerigo (messere).
- Anastagi (degli) messer Guido, I, 391, 392.
- Andreuccio da Perugia, Andreuccio di Pietro, I, 97-109.
- Andreuola, I, 310, 311, 315-317.
- Anfonso re di Spagna, II, 237, 238, 240.
- Angiulieri (messere), II, 202, 203; v. Cecco di messere Angiulieri.
- Anguersa (conte d’), v. Gualtieri conte d’Anguersa.
- Anichino, II, 71-76; v. Lodovico.
- Ansaldo, v. Gradense Ansaldo (messere).
- Anselmini Ambruogio, II, 94.
- Antigono di Famagosta, I, 138-142.
- Antioco, I, 136-138.
- Antonio (santo), II, 25, 26, 30. Antonio (messere) d’Orso, vescovo di Firenze, II, 10.
- Araona(re d’), v. Pietro re d’Araona.
- Arcita, II, 97.
- Arezzo (d’), v. Minuccio d’Arezzo.
- Argenti Filippo (messer), II, 221-223.
- Aristippo, I, 344, 347.
- — II, 276.
- Aristotile, II, 27.
- Arnald (N’), v. Civada N’Arnald.
- Arrighetto, v. Capece Arrighetto.
- Arrigo (santo), I, 73-75.
- Arriguccio, v. Berlinghieri Arriguccio.
- Asti (d’), v. Rinaldo d’Asti.
- Atene (duca d’), I, 130, 132, 133.
- Atticciato (l’), I, 319, 320.
- Augusto, II, 276; v. Ottaviano Cesare.
- Auttari re de’ longobardi, I, 192.
- Avarizia Ermino (messere), I, 60; v. Grimaldi (de’) messere Ermino.
- Avicena, II, 163; v. Vannaccena.
- Azzo (marchese) da Ferrara, I, 78, 81.
- Babilonia (soldano di), I, 122, 123; II, 292, 297; v. Beminedab soldano di Babilonia.
- Balducci Filippo, I, 270, 271.
- Balena, v. Guccio Balena.
- Barbadoro, v. Giovanni Barbadoro (san).
- Barolo (di), v. Gianni (donno) di Barolo.
- Baronci, II, 14, 16-18, 27.
- Bartolomea, I, 171.
- Basano re di Capadocia, I, 135, 136.
- Beatrice (madonna), II, 70, 71, 76.
- Belcolore (monna), II, 106-m.
- Beltramo conte di Rossiglione, I, 249-254, 256.
- Beminedab soldano di Babilonia, I, 123.
- Benedetto (san), I, 50, 209, 247, 248. — v. Ferondi Benedetto.
- Bentivegna del Mazzo II, 107, 108, 110, III.
- Bergamina, II, 165.
- Bergamino, I, 55-57, 59-60.
- Beritola, v. Caracciola Beritola (madama).
- Berlinghieri Arriguccio, II, 76-81, 83.
- Berlinzone (semistante di), II, 162.
- Bernabò, v. Fornellino Bernabò.
- Bernabuccio, I, 376, 377.
- Bernardo (san), II, 43.
- — v. Puccini Bernardo.
- Bertella, I, 296.
- Berto della Massa, I, 286; v. Alberto (frate) da Imola.
- Betto, v. Brunelleschi Betto (messer).
- Biagio, v. Pizzini Biagio.
- Biliuzza, II, 109.
- Binguccio dal Poggio, II, no.
- Biondello, II, 220-223.
- Boccadoro, v. Giovanni Boccadoro (san).
- Boccamazza Pietro, I, 360-366.
- Bolgaro Marino, I, 377, 378, 382.
- Bologna (da), v. Alberto (maestro) da Bologna.
- Bonaccorri (ser) da Ginestreto, II, 108.
- Bonifazio papa ottavo, I, 28; II, 7, 240, 241.
- Bonsi (de’) Gherardo, II, 31.
- Borghese, v. Domenichi Borghese.
- Borsiere Guiglielmo, I, 60-62.
- Bragoniera (il), II, 26; v. Giovanni del Bragoniera.
- Brunelleschi Betto (messer), II, 23, 24.
- Brunetta, II, 12.
- Bruno, II, 110, 113-118, 127-131, 158-160, 163-167, 170-172, 198-202, 206-213.
- Buffalmacco, II, 111, 113-118, 127 131, 158-162, 166-168, 170-172,198, 199, 201, 202, 207-210, 212, 213.
- Buglietti Nuto, II, 111.
- Buglietto, II, 109.
- Buglione (di), v. Gottifrè di Buglioli.
- Buttafuoco, I, 106.
- Caccianemico Niccoluccio, II, 251, 252, 254-257.
- Cagastraccio Guasparruolo, II, 103-106.
- Calandrino, II, 111-118, 127-132, 198-202, 206-213.
- Campodifiore (di), v. Liello di Campodifiore.
- Cane della Scala (messer), I, 55-57, 59Canigiano (il), II, 180, 183; v. Pietro del Canigiano.
- Capadocia (re di), I, 136; v. Basano re di Capadocia.
- Capece Arrighetto, I, 110-112, 116, 120-122.
- Capova (duca di), I, 276.
- Caracciola Beritola (madama), I, 109-113, 116, 119, 121, 122; v. Cavriuola (la).
- Carapresa, I, 356, 357, 359, 360.
- — (zita) di giudice Leo, II, 229-230.
- Cararh (En), I, 165.
- Carisendi (de’) messer Gentile, II, 251-254 256-258.
- Carlo Magno, II, 325.
- Carlo primo (re), Carlo vecchio (re), I, 109, 110, 114, 116, 121; II, 262, 263, 268.
- — secondo (re), I, 101.
- — Senzaterra (messer), I, 28.
- — vecchio (re), v. Carlo primo (re).
- Cassandrea, I, 344, 351, 352, 354.
- Catalina (madonna), II, 252.
- Catella, I, 217-221, 223.
- Caterina, I, 368-371.
- Cavalcante, v. Cavalcanti (de’) messer Cavalcante.
- Cavalcanti (de’) messer Cavalcante, II, 23.
- — Guido, I, 273; II, 22-25.
- Cavicciuli, II, 221, 222.
- Cavriuola (la), I, 113, 118; v. Caracciola Beritola (madama).
- Cecco di messere Angiulieri, II, 202-206.
- — di messer Fortarrigo, II, 202-206.
- Celatico (da), v. Fresco da Celatico.
- Cepparello (ser) da Prato, I, 27, 29, 30, 39; v. Ciappelletto (ser).
- Cerchi (de’) messer Vieri, II, 221.
- Cesare, v. Ottaviano Cesare.
- Cesca, II, 21, 22.
- Chiarmontesi Alessandro, II, 190-192, 194, 195.
- Chichibio, II, 12-14.
- Chimera, I, 25.
- Chinzica (di), v. Riccardo di Chitizica (messer).
- Ciacco, II, 220-223.
- Ciappelletto (ser), I, 27, 29-39; v. Cepparello (ser) da Prato.
- Ciastiglione (siri di), II, 28.
- Cicilia (re di), I, 110; v. Federigo re di Cicilia, Guiglielmo secondo re di Cicilia.
- Cignano(da), v. Niccolò daCignano.
- Cimone, I, 344-354; v. Galeso.
- Cinciglione, I, 54; II, 324.
- Cino da Pistoia (messer), I, 273.
- Cipolla (frate), II, 25-29, 32.
- Cipri (re di), I, 62, 63, 138, 142.
- Cipseo, I, 347.
- Cisti, II, 6-10.
- Ciuriaci, I, 131, 132.
- Ciuta, Ciutazza, II, 122, 123.
- Ciutazza, v. Ciuta.
- Civada N’Arnald, I, 295, 296.
- Civigni (di), v. Giannotto di Civigni.
- Cligni (abate di), I, 55, 57; II, 240, 241, 244, 245, 251.
- Coppo, v. Domenichi Coppo.
- Cornacchini Niccolò, II, 207.
- Corso, v. Donati Corso (messer).
- Costantinopoli (imperadore di), I, 133.
- (imperadrice di), II, 180.
- Costanzo, I, 133-135.
- Cremete, II, 276, 277.
- Cremona (da), v. Guidotto da Cremona.
- Greti (duca di), I, 294, 299.
- Criseida, II, 3.
- Cristo, I, 34, 37, 53, 54, 192, 204, 206, 208, 231; II, 4, 13, 110, 164, 208, 209.
- Crivello, I, 373, 374, 377.
- Cuculia (dalla), v. Mannuccio dalla Cuculia.
- Currado (messer), I, 386, 388.
- — v. Gianfigliazzi Currado, Malespini (de’ marchesi) Currado.
- Dama del vergili, I, 264.
- Dante, v. Alighieri Dante.
- Dego, v. Ratta (della) messer Dego.
- Dianora (madonna), II, 258, 260, 262.
- Digne s(di), v. Torello di Dignes (messer).
- Dioneo, I, 22-26, 47, 50, 68, 69, 158, 170, 177, 178, 206, 249, 258, 262, 263, 326, 329, 337, 395, 401, 408-411; II, 3, 4, 25, 33, 34, 36, 39, 96, 97, 158, 173, 183, 223, 228, 232, 291, 308, 318, 321.
- Domenichi Borghese, I, 395.
- — Coppo, I, 395.
- Domenico (san), II, 52.
- Donati Corso (messer), II, 221, 223.
- Efigenia, I, 344, 346-352, 354.
- Egano, v. Galluzzi (de’) Egatio.
- Elena (madonna), II, 133, 144, 154. ac Elisei (degli) Tedaldo, I, 224, 225, 227-229, 232-240; v. Filippo di San Lodeccio.
- Elissa, I, 18, 21, 62, 63, 143, 158, 211, 216, 301, 306, 360, 367, 408, 409; II, 1, 34, 37, 38, 50, 55, 93, 111, 119, 124, 195, 198, 240.
- Emilia, I, 18, 53, 55, 69, 109, 122, 178, 224, 240, 317, 321,354, 360, 409; II, 21, 22, 42, 46, 50, 119, 124, 184, 187, 189, 232, 258.
- En Cararh, v. Cararh (En).
- Ercolano, I, 401, 404-407.
- Ermellina (monna), I, 224, 236, 238.
- Erminia (re d’), I, 387.
- Erinino, v. Grimaldi (de’) messere Ermino.
- Esculapio, I, 17.
- Eva, II, 324.
- Famagosta (di), v. Antigono di Famagosta.
- Faziuolo da Pontriemoli, I, 239, 240.
- Federigo (re), Federigo re di Cicilia, I, 101, 377, 378.
- — primo imperadore, II, 292.
- — secondo imperadore, I, 56, 110, 375.
- — v. Alberighi (degli) Federigo, Pegolotti Federigo.
- Felice (don), I, 206.
- Ferondi Benedetto, I, 248.
- Ferondo, I, 240-249.
- Ferrara (da), v. Azzo (marchese) da Ferrara.
- Fiammetta, I, 18, 25, 26, 50, 53, 97, 109, 216, 224, 263, 275, 285, 338, 341, 343; II, 16, 18, 37, 59, 66, 97, 154, 206, 237, 262, 268, 319, 321.
- Figiovanni (de’) messer Ruggeri, II, 238-240.
- Filippa (madonna), II, 18, 19, 104.
- Filippello, v. Sighinolfo Filippello.
- Filippo, II, 61, 64. Filippo, II, 207-213.
- — di San Lodeccio, I, 225; v. Elisei (degli) Tedaldo.
- — il bornio (re), I, 51.
- — v. Alberighi (degli) messer Filippo, Argenti Filippo (messer), Balducci Filippo, Minutolo Filippo (messer).
- Filomena, I, 18, 21, 22, 24, 25, 44, 47, 67, 71, 158, 192, 206, 264, 306, 310. 338, 389, 395; II, 5, 10, 70, 76, 97, 98, 126, 190, 195, 237, 275, 291, 292.
- Filostrato, I, 22, 25, 56, 60, 78, 84, 186, 192, 262-264, 267, 275, 294, 338-340, 367, 372; II, 18, 21, 46, 50, 104, 124, 126, 198, 202, 206, 245.
- Finale (da), v. Sicurano da Finale.
- Fineo, I, 387-389.
- Fiordaliso (madama), I, 104.
- Fiorentino (di), v. Piero di Fiorentino.
- Firenze (vescovo di), v. Antonio (messer) d’Orso vescovo di Firenze.
- Folco, I, 296, 298-300.
- Forese, v. Rabatta (da) messer Forese.
- Fortarrigo (messer), II, 202, 203; v. Cecco di messer Fortarrigo.
- Francesca, v. Lazzari (de’) madonna Francesca.
- Francesco (san), I, 206, 287, 402; II, 31, 52.
- — v. Vergellesi (de’) messer Francesco.
- Francia (re’di), I, 28, 50, 51, 53, 143, 144, 155, 249, 250; II, 70, 306, 311.
- — (reali di), II, 22.
- — (reina di), I, 155; II, 162.
- Franzesi M usciatto (messer), I, 28, 30Fresco da Celatico, II, 21, 22.
- Fulvia, II, 290.
- Fulvo, v. Publio Quinzio Fulvo, Tito Quinzio Fulvo.
- Gabriotto, I, 310-316.
- Galeone (san), II, 49.
- Galeso, I, 344, 347; v. Cimone.
- Galieno, I, 17, 54.
- Galluzzi (de’) Egano, II, 70, 71, 73-75.
- Garbo (re del), I, 122, 124, 139, 142.
- Gemmata, II, 230.
- Gentile, II, 257.
- — v. Carisendi (de’) messer Gentile.
- Gerardo (maestro) di Nerbona, I, 249, 251.
- Gerbino, I, 301-306.
- Geremia, II, 326.
- Geri, v. Spina Gerí (messer).
- Gherardo (san) da Villamagna, II, 31.
- — v. Botisi (de’) Gherardo.
- Ghino di Tacco, II, 240-244.
- Ghismunda, I, 278-280, 283, 285, 286.
- Ghisolieri (de’) madonna Malgherida, I, 65.
- Ghita (monna), II, 56.
- Giachetto, v. Lamiens Giachetto.
- Giacomina (madonna), I, 367, 370, 371.
- Giacomino da Pavia, I, 372-377.
- Gian (messer) di Procida, I, 116, 382.
- — di Procida, Gianni, I, 377-382.
- Gianfigliazzi Currado, II, 12-14.
- Giannello, v. Scrignario Giannello.
- Giannetta, I, 147-155; v. Violante.
- Gianni (donno) di Barolo, II, 228-231.
- Gianni di Nello, II, 46.
- — v. Gian di Procida, Lotteringhi Gianni. Giannole di Severino, I, 372-374, 377Giannotto di Civigni, I, 40-44, 47.
- — di Procida, I, 114-120; v. Giuffredi.
- Giannucolo, II, 310, 311, 313-315, 318.
- Gigliuozzo, v. Saullo Gigliuozzo.
- Gilberto, II, 258, 260-262.
- Giletta di Nerbona, I, 249.
- Ginestreto (da), v. Bonaccorri (ser) da Ginestreto.
- Ginevra la bella, II, 265-267.
- Giorgio (san), II, 324.
- Giosefo, II, 225-228.
- Giotto (maestro), II, 14-16.
- Giovanna (monna), I, 395-397.
- Giovanni, I, 44; v. Abraam giudeo.
- — (san), II, 11.
- — Barbadoro (san), I, 54.
- — Boccadoro (san), I, 54.
- — del Bragoniera, II, 26.
- — Gualberto (san), I, 209.
- — v. Presto Giovanni.
- Girolamo, I, 321-325.
- Gisippo, II, 275-291.
- Giuffredi, I, 110, 114, 116, 118-122; v. Giannotto di Procida.
- Giuliano (san), I, 78-81, 84.
- Gomito Martuccio, I, 354, 355, 357- 360.
- Gostanza, I, 301.
- — I, 354» 356-360.
- Gottifrè di Buglione, I, 63.
- Gradense Ansaldo (messere), II, 258-262.
- Granata (re di), I, 302.
- Grassa (la), II, 126.
- Grignano (da), v. Niccolò da Grigliano.
- Grigoro (san), I, 202.
- Grimaldi (de’) messere Ermino, I, 60-62; v. Avarizia Ermino (messere).
- Griselda, II, 310, 311, 3x3-318.
- Gualandi Lotto (messer), I, 171.
- Gualberto, v. Giovanni Gualberto (san).
- Gualtieri conte d’Anguersa, I, 143, 144, 146, 153, 155, 156.
- — marchese di Saluzzo, II, 308-318.
- Guardastagno Guiglielmo (messer), I, 326-329.
- Guasparrin (messer) d’Oria, I, 113, 114, 120-122.
- Guasparruolo (messer) da Saliceto, II, 165.
- — v. Cagastraccio Guasparruolo.
- Guazzagliotri (de’) Lazzarino, II, 19, 20.
- Guccio Balena, II, 26, 29.
- — Imbratta, I, 320; II, 27, 29.
- — Porco, II, 27, 28.
- Guidi (conti), II, 82.
- Guido (conte) di Monforte, II, 263, 264, 266.
- — v. Anastagi (degli) messer Guido, Cavalcanti Guido.
- Guidotto da Cremona, I, 372, 373, 375, 376.
- Guiglielmino da Medicina, I, 376.
- Guiglielmo (il buon re), v. Guiglielmo secondo re di Cicilia.
- — (messer), I, 263 264.
- — (messer) della Magna, II, 267.
- — secondo re di Cicilia, Guiglielmo (il buon re), I, 301, 303-305, 383.
- — v. Borsiere Guiglielmo, Guardastagno Guiglielmo (messer), Rossiglione Guiglielmo (messer).
- Guiscardo, I, 276-283, 285.
- Gulfardo, II, 103-106.
- Iancofiore (madama), II, 175, 180, 183.
- Ierusalem (patriarca di), v. Non-mi-blasmate-se-voi-piace (messer) patriarca di Ierusalem. Imbratta, v. Guccio Imbratta.
- Imola (da), v. Alberto (frate) da Imola.
- Imolese (d’), v. Talano d’Imolese.
- Inghilterra (re d’), I, 84, 90, 91, 147, 153, 155.
- — (reina d’), II, 162, 163.
- Ipocrasso, Ipocrate, I, 17; II, 163; v. Porcograsso.
- Ipocrate, v. Ipocrasso.
- Isabella (madonna), II, 66, 67, 70.
- Isabetta (monna), I, 206.
- — , Lisabetta, I, 306, 307.
- — II, 196-198.
- Isnardo conte di Rossiglione, I, 249.
- Isotta la bionda, II, 265, 267.
- Lagina, I, 318, 319.
- Lamberti, I, 85; II, 17.
- Lamberto, I, 85, 86.
- Lambertaccio (messer), II, 66-70.
- Lamiens Giachetto, I, 154-157.
- Lamporecchio (da), v. Masetto da Lamporecchio.
- Landolfo di Procida, I, 382.
- — v. Rufolo Landolfo.
- Lapa (monna), I, 409.
- Lapuccio, II, 108.
- Lauretta, I, 18, 25, 60, 62, 69, 92, 97, 240, 249, 264, 265, 294, 301, 383, 389;II, 3, 10, 12, 55, 59, 96, 101, 183, 220, 251, 319.
- Lazzari (de’) madonna Francesca, II, 190-192, 195.
- Lazzarino, v. Guazzagliotri (de’) Lazzarino.
- Lazzero (san), II, 31.
- Leo (giudice), II, 230.
- Leonardo, v. Sighieri Leonardo.
- Leonetto, II, 66-69.
- Licisca, I, 25; II, 3, 4, 33.
- Lidia, II, 83, 84, 86, 88, 89, 92.
- Liello di Campodifiore, I, 365, 366.
- Lippo Topo, II, 27.
- Lisa, II, 268-270, 273-275.
- Lisabetta, v. Isabetta.
- Lisetta, v. Quirino (da ca’) madonna Lisetta.
- Lisimaco, I, 344, 350-354.
- Lizio, v. Vaibona (di) messer Lizio Lodovico, II, 70, 71; v. Anichino.
- Lomellino Bernabò, I, 158-163, 165-170, 177.
- Lorenzo (san), II, 25, 31, 32.
- — I, 306, 307, 309.
- Lotteringhi Gianni, II, 42-46.
- Lotto, II, 109.
- — v. Gualandi Lotto (messer).
- Luigi, I, 147; v. Perotto.
- Lusca, II, 84-87, 89.
- Maddalena (la), I, 206; II, 326.
- — I, 296, 299, 300.
- Maffeo (messer) da Palizzi, II, 267.
- Magi (i tre), II, 31.
- Magna (della), v. Guiglielmo (messer) della Magna.
- Malagevole (il), I, 319, 320.
- Malaspina Currado, v. Malespini (de’ marchesi) Currado.
- Malespini (de’ marchesi) Currado, Malaspina Currado, I, 112-122.
- Malgherida, v. Ghisolieri (de’) madonna Malgherida.
- Manardi Ricciardo, I, 367-371.
- Manfredi (re), I, 110, 116; II, 263, 267.
- Mangione (il), II, 207.
- Mannuccio dalla Cuculia, II, 43.
- Manovello, I, 133, 134.
- Marato, I, 128, 129.
- Marchese, I, 74-77.
- Marco Varrone, II, 288, 289.
- Mare (da) Paganino, Paganino da Monaco, I, 170, 172-174, 176.
- Margherita, II, 218.
- Maria (Vergine), I, 289; II, 26.
- Marino, v. Bulgaro Marino. Martellino, I, 73-78.
- Martuccio, v. Gomito Martuccio.
- Masetto da Lamporecchio, I, 186-188, 190-192, 263.
- Maso del Saggio, II, 30, 112, 113, 124-127.
- Massa (della), v. Berto della Massa.
- Matelda (donna), II, 43.
- Matteuzzo, II, 125, 126.
- Mazzeo, v. Montagna (della) maestro Mazzeo.
- Mazzo (del), v. Bentivegna del Mazzo.
- Medicina (da), v. Guiglielmino da Medicina.
- Melchisedech giudeo, I, 44, 45, 47.
- Melisso, II, 225-228.
- Meriabdelá re di Tunisi, I, 357.
- Meuccio di Tura, II, 93 96.
- Michele (san), II, 31, 324.
- — Scotto, II, 161.
- — v. Scalza Michele.
- Mico da Siena, II, 270.
- Minghino di Mingole, I, 372-374, 377.
- Mingole (di), v. Minghino di Mingole.
- Mini Tingoccio, II, 93-95, Mino (di), v. Zeppa di Mino.
- Minuccio d’Arezzo, li, 269-272.
- Minutolo Filippo (messer), I, 106.
- — Ricciardo, I, 216-218, 220-224.
- Misia, I, 25.
- Mita (monna), II, 94.
- Mitridanes, II, 245-251.
- Monaco (da), v. Paganino da Monaco.
- Monferrato (marchesana di), I, 50.
- — (marchese di), I, 51.
- Monforte (di), v. Guido (conte) di Moti forte.
- Montagna (della) maestro Mazzeo, 1. 330-337.
- Morea (prenze della), I, 130.
- Musciatto, v. Franzesi Musciatto (messer).
- Muse, I, 269, 273, 274.
- Naldino, II, 108.
- Napoli (arcivescovo di), I, 106.
- Narsia (scalpedra di), II, 162.
- Nastagio (frate), I, 206.
- — v. Onesti (degli) Nastagio.
- Natan, II, 245-251.
- Neerbale, I, 258, 262.
- Negro, v. Pontecarraro (da) messer Negro.
- Neifile, I, 18, 22, 40, 44, 73, 78, 177, 181, 263, 321, 326, 372, 377; II, 12, 14, 76. 83, 99, 103, 202, 206, 233, 2 37
- Nello, II, 198-202, 207, 208, 211, 212.
- — (di), v. Gianni di Nello.
- Nerbona (di), v. Gerardo (maestro) di Nerbona, Giletta di Nerbona.
- Neri, v. Pegolotti Neri, Uberti (degli) messer Neri, Vannini Neri.
- Niccola (messer) da San Lepidio, II, 124.
- Niccolò da Cigliano, II, 174; v. Salabaetto.
- — da Grigliano, I, 114.
- — v. Cornacchini Niccolò.
- Niccolosa, II, 207, 209, 212, 213.
- — II, 214, 216-218.
- Niccoluccio, v. Caccianemico Niccoluccio.
- Nicostrato, II, 83, 84, 86-92.
- Ninetta, I, 296-301.
- Non-mi-blasmate-se-voi-piace (messer) patriarca di Ierusalem, II, 30.
- Nonna, v. Pulci (de’) monna Nonna.
- Norrueca (ciancianfera di), II, 162.
- Nuta, II, 28, 29.
- Nuto, I, 187, 188.
- — v. Buglietti Nuto. Onesti (degli) Nastagio, I, 389-394.
- Oretta (madonna), II, 5-7, 10.
- Oria (dell’) Ruggeri, I, 377, 381.
- — (d’), v. Guasparrin (messer) d’Oria.
- Ormisda, I, 351-353.
- Orsini, I, 361, 365.
- Orso (d*), v. Antonio (messere) d’Orso vescovo di Firenze.
- Osbech (imperadrice d’), II, 162.
- — re de’ turchi, I, 135, 136.
- Ottaviano Cesare, II, 275, 276, 290; v. Augusto.
- Paganino da Monaco, v. Mare (da) Paganino.
- Palemone, II, 97.
- Palermini Aldobrandino, I, 225-228, 234-239— Rinuccio, II, 190-194.
- Pampinea, I, 7, 18, 21, 22-25, 67, 68, 84, 92, 178, 192, 197, 285, 286, 294, 377; II, 5, 6, 10, 14, 36, 67, 70, 132, 154, 159, 218, 220, 224, 268, 275.
- Panago (conte, conti da), II, 315, 316, 318.
- Panfilo, I, 22, 25, 27, 40, 122, 143, 206, 211, 264, 310, 317, 343, 354; II, 14, 16, 18, 37, 83, 106, in, 185, 186, 213, 218, 232, 235, 237.
- Paolo, v. Traversaro Paolo (messer).
- Parmeno, I, 25, 26.
- Pasimunda, I, 347, 348, 350-353.
- Pasquino, I, 317-320.
- Pavia (da), v. Giacomino da Pavia.
- Pegolotti Federigo, II, 43-46.
- — Neri, II, 43
- Perdicone, II, 274, 275.
- Pericone da Visalgo, I, 125-128.
- Peronella, II, 46-50.
- Perotto, I, 147, 148, 153-157 v. Luigi.
- Perugia (da), v. Andreuccio da Perugia.
- Piagenza (da), v. Ambruogiuolo da Piagenza.
- Piccarda (monna), II, 119.
- Piero di Fiorentino, II, 17, 18.
- Pietro, I, 97, 100.
- — I, 383-387; v. Teodoro.
- — (re) d’Araona, I, 115, 121; II, 268-271, 275.
- — da Tresanti, II, 228-231.
- — del Canigiano, II, 180, 183.
- — di Vinciolo, I, 401, 404, 406-408.
- — v. Boccamazza Pietro.
- Pinuccio, II, 214-218.
- Pirro, II, 83-88, 90-92.
- Pistoia (da), v. Cino (messer) da Pistoia.
- Pizzini Biagio, II, 26.
- Poggio (dal), v. Binguccio dal Poggio.
- Pontecarraro (da) messer Negro, I, 311, 315. 316.
- Pontriemoli (da), v. Faziuolo da Pontriemoli.
- Porco, v. Guccio Porco.
- Porcograsso, II, 163; v. Ipocrasso.
- Prato (da), v. Cepparello (ser) da Prato.
- Presto Giovanni, II, 162.
- Primasso, I, 55, 57-59.
- Procida (di), v. Gian (messer) di Procida, Gian di Procida, Giannotto di Procida, Landolfo di Procida.
- Provenza (conte di), I, 329.
- Publio Ambusto, II, 289.
- — Quinzio Fulvo, II, 276, 282.
- Puccini Bernardo, II, 268, 269, 272, 274.
- Puccino, I, 318; v. Stramba (lo). Puccio di Rinieri, Puccio (frate), I, 206, 207, 209-211.
- Pugliesi (de’) Rinaldo, II, 19-21.
- Pulci (de’) monna Nonna, II, 10-12.
- Quintiliano, II, 25.
- Quinzi, II, 285.
- Quinzio Fulvo, v. Publio Quinzio Fulvo, Tito Quinzio Fulvo.
- Quirino (da ca’) madonna Lisetta, I, 287, 288, 290-292.
- Rabatta (da) messer Forese, II, 14-16, 18.
- Ratta (della) messer Dego, II, 10.
- Restagnone, I, 296-300.
- Restituta, I, 377.
- Ribi, II, 125, 126.
- Riccardo (messer) di Chinzica, I, 170-176, 330.
- Ricciardo, I, 211; v. Zima (il).
- — v. Manardi Ricciardo, Minutolo Ricciardo.
- Rinaldo d’Asti, I, 78-84.
- — (frate), II, 50-55, 96.
- — v. Pugliesi (de’) Rinaldo.
- Rinieri, II, 133, 135, 143, 150.
- — (di), v. Puccio di Rinieri.
- Rinucci Alesso (messerei, II, 11.
- Rinuccio, 7. Palermini Rinuccio.
- Rossiglione Guiglielmo (messer), I, 326-329.
- — (conte di), v. Beltramo conte di Rossiglione, Isnardo conte di Rossiglione.
- Ruberto (re), II, 10.
- — II, 76-78.
- Ruem (arcivescovo di), I, 56.
- Rufolo Landolfo, I, 92-95, 97.
- Ruggeri, I, 301.
- — d’Aieroli, I, 330, 331, 333-337 — v. Figiovanni (de’) messer Ruggeri, Oria (dell’) Ruggeri.
- Rustico monaco, I, 258-263.
- Saggio (del), v. Maso del Saggio, Salabaetto, II, 174-184; v. Niccolò da Cignatio.
- Saladino (il), I, 44-47; II, 291-295, 297, 299-305, 307.
- Salamoile, II, 22, 27, 31, 223-228.
- Salerno (prencipe di, prenze di), v.
- Tancredi prencipe di Salerno.
- Saliceto (da), v. Guasparruolo (messer) da Saliceto.
- Sai uzzo (marchese di), v. Gualtieri marchese di Saluzzo.
- Salvestra, I, 321-325.
- Sandro, v. Agolanti Sandro.
- San Lepidio (da), v. Niccola (messer) da San Lepidio.
- San Lodeccio (da), v. Filippo da San Lodeccio.
- Santaiiore (conti di), II, 241.
- Saullo Gigliuozzo, I, 360, 361.
- Scacciato (lo), I, 110, 120, 122.
- Scala (della), v. Cane (messer) della Scala.
- Scalza Michele, II, 16-18.
- Scantiadio, II, 191-195.
- Scimmione (maestro), II, 201; v. Simone (maestro) da Villa.
- Scoiaio, II, 324.
- Scotto, v. Michele Scotto.
- Scozia (re di), I, 90.
- Scrignario Giannello, II, 47-50.
- Seneca, II, 27.
- Senzaterra, v. Carlo Senzaterra (messer).
- Severino (di), v. Giannole di Severino.
- Sicofante, II, 4.
- Sicurano da Finale, I, 165-169; v. Zinevra (madonna).
- Siena (da), v. Mico da Siena.
- Sighieri Leonardo, I, 321.
- Sighinolfo Filippello, I, 216-220.
- Simona, I, 317-320. Simona (monna), I, 409.
- Simone (maestro) da Villa, Simone (maestro), II, 158, 159, 198, 200, 202; v. Scimmione (maestro).
- Sirisco, I, 25.
- Sismonda (monna), II, 76, 79, 80.
- Sofionia, II, 275-287, 290, 291.
- Spagna (re di), II, 237, 245, 251; v. Anfonso re di Spagna.
- Spina, I, 114, 115, 117-119, 122.
- — Geri (messer), II, 5-9.
- Spinelloccio di Tavena, II, 155-159.
- Stecchi, I, 74-77.
- Strá (di),z/. Torello (messer) di Strá.
- Stramba (lo), I, 318-320; v. Puccino.
- Stratilia, I, 25.
- Tacco (di), v. Ghino di Tacco.
- Talano d’Imolese, II, 218-220, 224.
- Tancredi prencipe di Salerno, Tancredi prenze di Salerno, I, 275, 276, 278-280, 284, 285.
- Tavena (di), v. Spinelloccio di Tavena.
- Tebaldo (messer), I, 85.
- Tedaldo, I, 85.
- — v. Ehsei (degli) Tedaldo.
- Teodoro, I, 383, 387-389; v. Pietro.
- Tessa (monna), II, 43, 44.
- — (monna), II, 116, 117, 132, 200, 202, 208, 211, 212.
- Teudelinga, I, 192.
- Tindaro, I, 25; II, 3-5, 38, 97.
- Tingoccio, v. Mini Tingoccio.
- Tito Quinzio P’ulvo, II, 275-282, 285-291.
- Tofano, II, 55-59.
- Topo, v. Lippo Topo.
- Torello (messer) di Dignes, II, 300.
- — messer di Strá, II, 291-308.
- Traversari, I, 389, 392.
- Traversaro Paolo (messer), I, 390, 393
- Tresanti (da), v. Pietro da Tresanti.
- Troilo, II, 3.
- Tullio, II, 25.
- Tunisi (re di), I, 301-303, 305, 357; v. Meriabdelá re di Tunisi.
- Tura (di), v. Meuccio di Tura.
- Uberti, II, 17.
- — (degli) messer Neri, II, 263-267.
- Ughetto, I, 296, 298-300.
- Usimbalda (madonna), II, 196.
- Vaibona (di) messer Lizio, I, 367, 369-371.
- Vallecchio (da), II, 164.
- Vannaccena, II, 163; v. Avicena.
- Vannini Neri, II, 17, 18.
- Varrone, v. Marco Vairone.
- Veglio della montagna (lo), I, 244.
- Venere, I, 127.
- Verdiana (santa), I, 402.
- Vergellesi (de’) messer Francesco, I, 211, 214.
- Vieri, v. Cerchi (de’) messer Vieri.
- Villa (da), v. Simone (maestro) da Villa.
- Villamagna (da), v. Gherardo (san) da Villamagna.
- Vinciolo (di), v. Pietro di Vinciolo.
- Vinegia (doge di), II, 162.
- Violante, I, 147, 148, 156; v. Giannetta.
- — I, 383, 386, 388.
- Visalgo (da), v. Pericone da Visalgo.
- Zeppa di Mino, II, 155-158.
- Zima (il), I, 211-216; v. Ricciardo.
- Zinevra (madonna), I, 163, 166, 168, 169; v. Sicurano da Finale.
- * * *
- INDICE DEI NOMI DI LUOGO
- * * *
- Abruzzi, II, 30, 112.
- Acaia, II, 84, 290.
- Acri, I, 166; II, 299.
- Aguamorta, I, 140.
- Alagna, I, 361, 363.
- Alba, I, 165.
- Alessandria, I, 45, 114, 124, 138, 158, 165, 167; II, 106, 297, 299, 301.
- Altopascio, II, 28.
- Amalfi, I, 331, 334; v. Costa d’Amalfi.
- Ancona, I, 225.
- Antiochia, II, 225, 227.
- Arcipelago, I, 94.
- Arezzo, II, 56.
- Argo, II, 84.
- Arimino, II, 60.
- Arno, II, 9, 141, 150, 168, 172, 221.
- Ascesi, I, 287.
- Asinaio, v. Monte Asinaio.
- Atene, I, 132, 134; II, 276, 288, 326.
- Babilonia, I, 44.
- Baila, I, 138, 139, 141.
- Barberia, I,258,301,355,356; II, 301.
- Barletta, II, 229.
- Benevento, I, 110.
- Berlinzone, II, 112; — Bengodi (contrada di), 112, 115.
- Bitonto, II, 231.
- Bologna, I, 65, 78, 244; II, 71, 75, 159, 167-169, 173, 252-254, 313, 316, 318, 326.
- Bonconvento, II, 202, 203, 206.
- Borgogna, I, 30.
- Braccio di san Giorgio, II, 30.
- Brandizio, I, 97.
- Brescia, I, 311.
- Brettinoro, I, 367.
- Bruggia, I, 87.
- Buffia, II, 30.
- Calatabellotta, II, 274.
- Calavria, I, 378.
- Calese, I, 146, 147.
- Camerata, II, 43, 207.
- Campi, I, 396.
- Candia, I, 298.
- Capsa, I, 258, 261, 262.
- Cartagine, I, 303.
- Castel Guiglielmo, I, 78, 80.
- Castello a mare di Stabia, II, 263.
- Cattaio, II, 245.
- Ceflfalú, II, 274.
- Certaldo, II, 25.
- Chiarenza, I, 128-130.
- Chiassi, I, 389, 390.
- Chios, I, 135.
- Cicilia, I, 98, 101, 104, 109, 116, 119-122, 301, 302, 305, 354, 383; II, 174, 268, 301.
- Cifalonia, I, 94.
- Cipri, I, 63, 93, 137, 141, 142, 225, 234, 344, 347-349, 354! 294.
- Corniglia, II, 242.
- Cornovaglia (contea di), I, 92.
- Corsignano, II, 204, 206.
- Costa d’Amalfi, I, 93.
- Costantinopoli, I, 94, 227.
- Cremona, I, 375.
- Creti, I, 141, 294, 297, 298, 344, 349, 353; II, 301.
- Egina, I, 135.
- Egitto, I, 139; II, 28, 292.
- Erminia, I, 138, 383, 387.
- Faenza, I, 372, 375.
- Famagosta, I, 139, 140.
- Fano, I, 372, 375.
- Ferrara, I, 78; II, 183.
- Fiandra, I, 287.
- Fiesole, II, 43, 45, 119, 122.
- Firenze, I, 10, 17, 78, 86, 87, 92, 224-226, 249, 253, 256, 271, 272, 317, 322, 395; II, 7, 10, 15, 17, 18, 23, 31, 42, 43, 46, 70, 82, 108, 109, 111, 114., 118, 124, 126, 127, 130, 132, 133, 153, 159, 164, 180, 183, 190, 199, 209, 211, 213-215, 218, 220, 263, 318, 321; — Baldacca, II, 30; — Borgo de’ greci, II, 30; — Cacavincigli, II, 164, 168; — Camaldoli, II, 207;— Canto alla macina, II, 116; — Civillari, II, 168, 171; — Corso degli Adimari, II, 24; — Faenza (monistero delle donne di), II, 114; — Mercato Vecchio, II, 200; — Ognissanti (prato d’), II, 171; — Orto San Michele, II, 23; — Parione, II, 30; — Porta San Piero, II, 11, 46; — Ripole (donne di), II, 171; — San Brancazio, I, 206; — San Brancazio (contrada di), II, 42; — San Gallo, I, 318; II, 160; — San Gallo (porta a), II, 115, 116; — San Giovanni (chiesa di), II, 24, 112; — San Paolo (chiesa di), I, 320; — Santa Croce, I, 54; — Santa Lucia dal prato, II, 139; — Santa Maria a Verzaia, II, 126; — Santa Maria della Scala, II, 171; — Santa Maria Maggiore, II, 17; — Santa Maria Novella (chiesa di), I, 17; II, 43. 169, 321; — Santa Maria Novella (piazza nuova di), II, 170; — Santa Maria Ughi, II, 7; — Santa Reparata, II, 24; — Sardigna, II, 30; — Via del cocomero, II, 159
- Forlimpopoli, II, 165.
- Francia, I, 28, 29, 51, 141, 327, 390; II, 70; — (reame di), I, 144, 146, 249.
- Frioli, II, 258.
- Gaeta, I, 93.
- Gales, I, 148, 153.
- Garbo (reame del), II, 30.
- Genova, I, 51, 53, 60 62, 113, 120, 158, 159, 161-167, 169, 203, 297; II, 105, 299, 301.
- Gergenti, I, 100.
- Granata, I, 303, 357.
- Guascogna, I, 62, 63.
- Gurfo, I, 92, 95, 97.
- Ierusalem, II, 225.
- Imola, I, 286.
- India,. II, 129; — India Pastinaca, II, 30.
- Inghilterra, I, 86, 87, 92, 143, 147, 148, 154; II, 70.
- Irlanda, I, 148.
- Ischia, I, 377, 378, 382.
- Ispagna, I, 296, 390; II, 238.
- Italia, I, 56, 60, 87, 93, 159; II, 28, 238.
- Laiazzo, I, 387, 389; II, 225.
- Lamporecchio, I, 186.
- Laterina, II, 168.
- Legnaia, II, 160.
- Lerici, I, 121.
- Lipari, I, 119, 354-356, 359, 360.
- Lombardia, I, 192; II, 196, 252, 292, 300, 301, 303.
- Londra, I, 86, 147, 148, 154.
- Lunigiana, I, 47, 109, 113, 114, 239.
- Magra, I, 113.
- Maiolica, I, 124, 125, 127, 139.
- Marca, Marca d’Ancona, II, 203, 206.
- Marsilia, I, 295.
- Melano, I, 211,214-216; II, 55, 104, 292.
- Messina, I, 303, 306, 307, 309; II, 178.
- Minerva (la), I, 378.
- Modona, II, 251, 252, 254.
- Monaco, I, 172; II, 182.
- Monpulier, I, 257.
- Monte Asinaio, I, 271.
- Montemorello, II, 31, 113.
- Montenero, I, 171; II, 4.
- Montesone, II, 160.
- Montisci, II, 113.
- Montughi, II, 17.
- Mugello, li, 14, 15.
- Mugnone, II, 111, 113-117, 132, 211, 214.
- Napoli, I, 97, 99, 102, 109, no, 217, 39, 377, 378; II, 47, 179, 182, 183, 267; — Avorio (contrada), II, 47; — Malpertugio (contrada), I, 99; — Ruga catalana, I, 105.
- Nazarette, II, 26.
- Palermo, I, 100, 101, 103, 122, 303, 378-380; II, 173, 174, 180, 183, 268; — Cuba (la), I, 378-380.
- Parigi, I, 29, 40, 42, 43, 57, 92, 153, 157, 158, 163, 167,206,250, 321-323; II, 70, 133, 134, 137, 139, 145, 167, 294, 326; — Nostra Dama di Parigi, I, 43.
- Parnaso, I, 269, 273, 274.
- Partia, II, 50.
- Passignano, II, 166.
- Pavia, I, 192, 375; II, 291-295, 297, 299, 301, 302, 304; — San Pietro in Cieldoro (chiesa di), II, 299, 304.
- Peretola, II, 12, 164.
- Persia, II, 254, 255.
- Perugia, I, 97, 98, 100, 101, 109, 401, 404.
- Piccardia, I, 147.
- Pisa, I, 170-172, 175, 176; II, 179.
- Pistoia, I, 211; II, 190, 191, 195.
- Ponte all’oca, II, 223, 226, 228.
- Ponzo, I, 110, 113.
- Prato, li, 19, 104.
- Procida, I, 378.
- Provenza, I, 295, 326.
- Puglia, II, 229, 268; — (regno di), I, 112.
- Radicofani, II, 241.
- Ravello, I, 93, 97.
- Ravenna, I, 171, 389, 390, 393.
- Reggio, I, 93.
- Rodi, I, 136, 137, 294, 300, 344, 348-350.
- Roma, I, 41, 87, 90, 91, 360, 361, 365, 366, 387, 389; II, 172, 241, 244, 275, 276, 282, 285-288, 314; — (imperio di), I, 143; II, 276; — Capitolio, II, 285.
- Romagna, I, 367, 372, 389; II, 214.
- Romania, I, 128, 130.
- Rossiglione, I, 252, 253, 257.
- Salerno, I, 93, 330, 334; II, 174.
- Saluzzo, II, 316.
- San Gimignano, I, 306.
- Sardigna, I, 124, 246, 303, 304.
- Scalea (la), I, 378, 379.
- Scozia, I, 92, 143; II, 161.
- Sepolcro (il), I, 63, 226; II, 70, 71.
- Settignano, II, 113.
- Siena, II, 51, 93, 155, 203-206, 241; — (bagni di), II, 241; — Camollia, II, 155; — Camporeggi, II, 94; — Porta Salaia, II, 93.
- Sinigaglia, II, 122.
- Smirre (le), I, 135, 136.
- Spagna, v. Ispagna.
- Stabia, v. Castello a mare di Stabia.
- Stanforda, I, 148.
- Susa, I, 354-357.
- Tebaida, I, 258.
- Terra di menzogna, II, 30.
- Terrasanta, I, 63; II, 292.
- Tesino, II, 292.
- Torrenieri, II, 205.
- Toscana, I, 28, 88, 211, 240, 252, 395; II, 25, 28, 238-240.
- Trani, I, 97.
- Trapani, I, 305, 356, 383, 384, 386, 387.
- Trivigi, I, 74, 77.
- Truffia, II, 30.
- Tunisi, I, 302, 303, 354, 355, 359; — (reame di), I, 357.
- Udine, II, 258.
- Ustica, I, 305.
- Valdarno di sopra, II, 140.
- Valdelsa, II, 25.
- Valle delle donne, II, 34, 37, 41.
- Varlungo, II, 106, 107.
- Verona, I, 56, 78.
- Vignone, II, 106.
- Vinegia, I, 286, 292; II, 30; — Rialto (il), I, 292, 293; — San Marco (piazza di), I, 293.
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