- The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
- altri scritti intorno a Dante (vol. 3 , by Giovanni Boccaccio
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- Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 3 of 3)
- Author: Giovanni Boccaccio
- Editor: Domenico Guerri
- Release Date: December 7, 2014 [EBook #47566]
- Language: Italian
- Character set encoding: UTF-8
- *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA ***
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- NOTE DEL TRASCRITTORE:
- —Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
- —Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
- riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
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- SCRITTORI D’ITALIA.
- G. BOCCACCIO
- OPERE VOLGARI
- XIV
- GIOVANNI BOCCACCIO
- IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
- E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
- A CURA DI
- DOMENICO GUERRI
- VOLUME TERZO
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
- 1918
- PROPRIETÁ LETTERARIA
- GIUGNO MCMXVIII-49328
- III
- CONTINUAZIONE DEL COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”
- CANTO NONO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. XXXV]
- «Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in
- questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti
- come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel
- petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam
- credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che
- l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto
- dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver
- similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti:
- nella prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio
- entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele
- solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le
- tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone,
- e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse;
- nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive
- essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone
- come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire
- gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza
- quivi:—«Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta
- quivi: «E noi movemmo i piedi».
- Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la
- palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio
- tornare in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di
- Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, si come gli aveano
- i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole;
- ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto,
- quasi come vinto tornare in volta, invilí l’autore, temendo non gli
- convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione
- invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che
- quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole
- l’autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il
- colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato avea nel viso, per la
- turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse
- cagione all’autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú
- tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè
- nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno
- turbato che non era.
- E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio,
- ancora in conforto dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare
- che venga chi’l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice:
- «Attento si fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può
- comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino
- aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre
- a questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo»,
- discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè tenebroso,
- per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua natura non
- è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia
- folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.
- E cosí attendendo, cominciò a dire:—«Pure a noi converrá vincer la
- punga»—d’entrar nella cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad
- ascoltare:—«se... non... tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio
- le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza
- dell’orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali
- ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo
- incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta
- senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio
- loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio, soggiugne
- esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè
- al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente
- il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch’altri
- qui giunga»—il quale abbatta l’arroganza de’ dimòni che la porta
- serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente
- dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire
- alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.
- «Io vidi ben, sí com’el ricoperse Lo ’ncominciar», cioè le parole
- cominciate (quando disse:—«Se... non... tal ne s’offerse»—), «con
- l’altro che poi venne» (cioè col dire:—«Oh quanto tarda a me ch’altri
- qui giunga!»—), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non
- seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il
- suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l’autore
- perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva la parola
- tronca» (cioè «se... non... tal ne s’offerse), «Forse»; dice «forse»
- perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s’avesse inteso
- per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch’e’
- non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l’autore Virgilio
- aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer
- la punga, Se... non... tal ne s’offerse», che, dove essi vincer
- la punga non avesser potuto, che il prencipe dello ’nferno dovesse
- punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino
- quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti
- dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse
- loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle
- parole, all’autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato
- l’orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non
- era la ’ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi
- non possiam «vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne
- s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará
- sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion
- di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di quello
- che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da
- Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga», entrò l’autore
- in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
- —«In questo fondo della trista conca», dello ’nferno, il quale
- nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma
- essenziale dello ’nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e
- di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè
- cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?»—Pon qui l’autore
- il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha
- alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena
- la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è
- stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno
- cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca»
- vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro,
- percioché noi diremmo d’uno che molto bevesse: colui «cionca».
- «Questa quistion fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei:—Di rado
- Incontra»,—cioè avviene, «mi rispose,—che di nui», li quali nel primo
- cerchio dimoriamo, «Faccia ’l cammino alcun pel quale io vado», cioè
- discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui», dove noi
- siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón
- cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava
- l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi incantamenti.
- Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo
- libro, dove dice:
- _Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,
- effera damnarat nimiae pietatis Erictho,
- inque novos ritus pollutam duxerat artem_, ecc.;
- dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né
- mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire
- in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle
- incantazion de’ demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi
- loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere
- andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che
- esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ’l padre di lui
- e Cesare.
- «Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima
- di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale,
- partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch’ella mi fece»,
- questa Eritón, per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel
- muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di
- Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.
- Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de’
- congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian
- Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono,
- a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della
- battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti
- l’anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice,
- del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei
- tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente
- si comprende per Eusebio _in libro Temporum_; e, che istoria questa
- si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in
- fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in
- alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno
- l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno
- e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa
- veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza
- d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella
- pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di
- ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo
- essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere
- stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la
- quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono,
- compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro,
- diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí
- essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati
- d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate
- l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto
- piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le
- spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano
- scioccamente e in loro perdizione.]
- «Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú
- oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel,
- che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana
- alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel
- quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli,
- e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro
- della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal
- cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il
- quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
- «Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare,
- per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto
- mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva
- caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio
- aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua
- paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
- «Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in
- questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono
- per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta
- pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto,
- nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la
- cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde
- si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere,
- quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la
- quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí
- stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il
- luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare
- intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira»,—di coloro li quali
- contrariare n’hanno voluta l’entrata.
- «E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
- nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie
- infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello
- che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli
- dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale
- è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto»,
- cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo;
- «Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite,
- «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere
- ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata;
- «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in
- un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili
- aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
- «Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però
- sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata «_ydros_»;
- e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza
- dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel
- quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le
- serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo
- sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore
- pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda
- qualunque velenosissimo serpente.
- «Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono
- «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli
- in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «_ceras_» in
- greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè
- di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè
- circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il
- capo de’ capelli loro.
- «E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè
- le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno
- pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si
- piagnerá;—«Guarda,—mi disse,—le feroci Erine», cioè le feroci tre
- furie.
- E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal
- sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto
- della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone»,
- la terza furia,«è nel mezzo»—delle due nominate di sopra; «e tacque a
- tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
- «Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto;
- Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o
- mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo,
- «al poeta per sospetto».
- E quello, che esse gridavano, era:—«Venga Medusa», quella femmina la
- quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto»,—cioè di
- pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che
- altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive
- mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che
- sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule,
- o verso lui;—«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto»,—il qual ne fe’,
- quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono
- sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono,
- non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor
- danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il
- quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
- Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del
- quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente
- dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso
- della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di
- lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di
- maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo
- d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza
- moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non
- fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena,
- ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se
- non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir
- questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina,
- secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane
- di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato
- da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico
- di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava
- vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro
- e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese
- in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso
- Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui
- venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per
- la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato,
- ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
- —«Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo
- canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto
- dalle furie, e l’essere stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore
- la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati,
- accioché non la vedesse. Dice adunque:—«Volgiti indietro», accioché
- tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni
- il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo
- Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse:—Tieni chiuso il
- viso,—e dicegli la cagion perché: «Ché se ’l Gorgon», cioè Medusa
- chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare
- nol dice), «e tu ’l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso»,—nel
- mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti
- tornare né partirti di qui. «Cosí disse ’l maestro», come detto è, «ed
- egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò,
- «alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue
- ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere
- il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone
- si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non
- si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí
- chiuso il viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le
- tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si
- scrive che venne.
- «O voi, ch’avete gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’aurore, e,
- lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali
- hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che
- s’asconde Sotto ’l velame degli versi strani», la quale per certo è
- grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo
- canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente
- contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il
- velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra
- cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale;
- li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l’autore
- avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E
- chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno
- davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi
- volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto
- disusati a cosí fatto stile.
- [Lez. XXXVI]
- «E giá venia». Qui rientra l’autore nella materia principale, e
- comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive
- l’autore la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere
- stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venia», avendo
- mi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un
- fracasso», cioè un rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui
- tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso,
- «Non altrimenti fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da sé, come è il
- turbo o la bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai,
- secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali
- vi dissi essere due, cioè _typhon_ e _enephias_, e però qui reiterare
- non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori»,
- cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali
- chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero,
- non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento,
- in quanto si movea velocissimo con l’impeto del vento] «Che fier»,
- questo vento, «la selva», alla quale s’abbatte [le cui frondi percosse
- il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a
- ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva,
- «schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a
- questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va
- superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono,
- «e li pastori» con le lor greggi.
- «Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e
- disse:—Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo,
- «su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la
- quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di
- quelle che all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può
- assai chiaramente comprendere. Credere’ io che ella fosse alcuna fiamma
- usa continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo
- credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle
- delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo
- è piú acerbo»,—cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.
- «Come le rane». Qui dimostra l’autore, per una brieve comparazione,
- quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli
- dimostrava, facessero l’anime de’ dannati che quivi erano, e dice
- che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l’acqua si dileguan
- tutte», fuggendo, «Fin ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè
- s’ammonzicchia l’una sopra l’altra, ficcandosi nel loto del fondo
- dell’acqua, nella qual dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia»,
- usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello
- della idra, la quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica
- le rane, si come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille
- anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le
- rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché
- ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di Stige, dove
- esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante
- asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.
- E poi segue: «Dal volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per
- le nebbie che v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso,
- «Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga,
- si come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo
- dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò
- non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía.
- «E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.
- «Ben m’accors’io ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse
- quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati,
- che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che
- temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí
- come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea
- sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo ’nferno commuoversi
- alla venuta d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice:
- «E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare,
- appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’
- segno», a me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad
- esso», facendogli reverenza.
- «Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo
- meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far
- senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano.
- [E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza
- peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote, era
- commosso.]
- «Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella
- destra man portava, per la quale si disegna l’uficio del messo e
- l’autoritá di colui che ’l manda. [E, secondo che i santi vogliono,
- questo uficio commette Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie
- celesti, fuorché a’ cherubini non si legge essere stato commesso: e
- mentre che quello beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso,
- si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da «_aggelos_» _graece_,
- che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione,
- non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè
- «vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s’abbia.]
- «L’aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia
- di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col
- percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere
- tutto il mondo.
- —«O cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici
- di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come
- quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s’erano
- fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che
- bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro
- a loro. Dice adunque:—«O cacciáti dal ciel» per la lor superbia,
- «gente dispetta»,—cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su
- l’orribil soglia», della porta la quale era aperta,—«Onde», cioè da
- qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che
- voi fate, «in voi s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché
- ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia»,
- di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può
- esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire,
- conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha cresciuta
- doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo dello ’nferno,
- sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può
- muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di
- cozzo?»
- Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la
- divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro
- se non voler cozzare col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ’l
- muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo
- provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel
- decimosettimo canto del _Paradiso_. Ma, percioché qui, poeticamente
- parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che
- i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è
- nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che
- dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi
- qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la
- sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, _in libro
- De natura deorum_, scrive queste essere state figliuole d’Erebo e
- della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale
- vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par
- piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama
- Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo
- e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate»,
- dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo
- chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole
- andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza
- e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il
- libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto
- piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è
- intitolata _Edipo_, dove dice:
- _Fatis agimur, credite Fatis:
- non sollicitae possunt curae
- mutare rati stamina fusi.
- Quidquid patimur mortale genus,
- quidquid facimus, venit ex alto,
- servatque sua decreta colus
- Lachesis. Dura revoluta manu,
- omnia certo tramite vadunt,
- primusque dies dedit extremum.
- Non illa deo vertisse licet,
- quae nexa suis currunt causis.
- It cuique ratus, prece non ulla
- mobilis, ordo; multis ipsum
- timuisse nocet: multi ad fatum
- venere suum, dum Fata timent_, ecc.
- E questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume,
- dove introduce Giove cosí parlante a Venere:
- _...tu sola insuperabile Fatum,_
- _nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum
- tecta trium: cernes illic molimine vasto
- ex aere, et solido rerum tabularia ferro:
- quae neque concursum caeli, neque fulminis iram,
- nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas.
- Invenies illic incisa adamante perenni
- Fata tui generis_, ecc.
- Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere
- queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state
- da’ poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la
- diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che
- un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state
- attribuite al servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio
- dice, nelle sue _Mitologie_, queste essere attribuite al servigio di
- Plutone, iddio dello ’nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo
- l’opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi,
- secondo una significazion di quelle.]
- [E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo
- nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa
- fata s’appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato,
- accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come
- esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione»
- o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato
- fuori in luce, Lachesis l’ha a ricevere e trarlo avanti nella vita.
- Atropos è detta ab «_a_», _quod est_ «_sine_», e «_tropos_», _quod
- est_ «_conversio_», cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la
- quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è
- di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per
- opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense,
- filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e dell’opere
- di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama
- Cosmografia, scrive cosí: «_Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione
- temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem
- temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis
- habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat
- spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum,
- id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere.
- Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut
- sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet
- infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis,
- quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis
- habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus
- desit_», ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta
- è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei
- essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene, guidata e menata.]
- [Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa,
- se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta
- è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e,
- peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono
- figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che
- figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque,
- secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio
- padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo
- e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo,
- come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra
- profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la
- profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che
- occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la
- divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far
- dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente
- producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo
- e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della
- Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna
- cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo
- essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro
- alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla
- mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle
- attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo
- notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non
- intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]
- [Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e
- credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad
- alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «_for faris_», il quale sta per
- parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima
- parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel
- libro _De civitate Dei_: ma, come altra volta è detto, pare che egli
- abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di
- Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni
- la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto
- delle fate.]
- Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore:
- —«Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e
- ’l gozzo».—Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo
- si ragionò.
- «Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la
- strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché
- l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che
- meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso
- parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che
- erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato
- a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano,
- percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante
- D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è
- davante»: e cosí trapassò oltre.
- «E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo
- canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi
- vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque:
- «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri
- appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che
- contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color,
- contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine.
- «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore
- nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza
- alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
- «Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam
- tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal
- fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura
- di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta
- trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio
- intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da
- notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra,
- «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di
- duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati,
- per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali
- de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno,
- quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano
- avrá alcuna volta fine.]
- E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni,
- dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli».
- Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla
- foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano
- stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che
- Pomponio Mela nel secondo libro della sua _Cosmografia_ scrive, di
- quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né
- è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne
- viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale
- alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo
- lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno
- spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e
- poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara
- e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo,
- corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’
- quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome
- chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette
- in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo _De historia
- naturali_, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla
- fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere
- un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano
- stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella
- terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
- E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo:
- «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che
- Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con
- lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi
- capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia,
- sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro,
- Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di
- mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi
- divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li
- quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono _Carnares_. «Fanno i
- sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè
- incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle
- quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si
- lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la
- vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte
- arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e
- quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per
- avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e
- appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico,
- credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste
- dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già
- stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una
- parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti
- d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi
- la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle
- arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente
- tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual
- cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li
- morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio
- possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e
- che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo
- che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro
- sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che
- di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
- Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli
- e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí
- facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè
- eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
- E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli
- avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in
- fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «_evello
- evellis_», percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole
- seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali
- eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso,
- cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il
- quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri
- vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle
- arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si
- duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi
- giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
- E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed
- io:—Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da
- quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»?
- -la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si
- possono.
- [Lez. XXXVII]
- «Ed egli a me:—Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i
- prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome _ab_ «_haeresis_»
- _et_ «_arce_», _quod est_ «_princeps_», quasi «principe d’eresi».
- «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o
- delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono;
- e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella
- pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione
- di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente
- credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il
- quale sant’Agostino scrive _Degli eresiarci_, e delle qualitá de’ loro
- errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro,
- cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro
- errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali
- egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano,
- Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E
- mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion
- di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini
- che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti,
- ma esservi «Co’ lor seguaci», ed esservi «d’ogni setta» d’eretici.
- E chiamale «sètte», il qual nome viene da «_seco secas_», il qual
- vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla
- cattolica fede, e poi son divisi infra sé, si come coloro li quali
- niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi
- son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che
- hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore
- tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi
- non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo
- tempo questa perfidia.
- «Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in
- una medesima arca col prencipe loro.
- «E’ monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate
- sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro
- che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché
- in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo
- canto l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»;
- nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei»,
- «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi «_seorsum a
- pulchro_», percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi
- corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché
- «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai,
- essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche
- del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed
- è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle
- cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci
- viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo
- sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si
- dice «_tumba_», quasi «_tumulus bombans_», cioè cosa rilevata che
- rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’
- riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in
- esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo»,
- per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo,
- e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi
- «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi
- che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli
- antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto
- rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse
- stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo
- assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di
- chi v’è dentro seppellito, e dicesi da «_sarca_», _graece_, che tanto
- vuol dire quanto «carne», e «_paghos_», che tanto vuol dire quanto
- «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito.
- Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri,
- si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da
- Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie,
- fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie
- testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa;
- percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare
- a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo
- avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo
- e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che
- ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il
- piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio
- quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu
- tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di
- trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a
- levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana
- Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la
- quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero
- statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere
- il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve
- agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria,
- e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero.
- Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno
- che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi
- ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi
- s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto
- il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato
- da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo
- finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo
- fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto
- il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo»
- nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose
- sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son
- detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si
- soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e
- d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle
- quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi
- mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú
- e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della
- eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.
- E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur
- tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto»,
- Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e
- gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun
- pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi
- che quivi espediti erano.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- «Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’
- precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione,
- dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati
- siamo, e ne’ quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali
- supplici ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a
- discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono,
- accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e
- ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia
- perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di
- dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in
- parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive
- come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata
- l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il
- Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera
- della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la
- porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse,
- disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in
- doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto
- artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare),
- rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a dovere
- agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.
- È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che
- s’intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo,
- assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna
- altra cosa significare, che il luogo dello ’nferno nel quale si
- puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali
- discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige,
- della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni
- entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave
- perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le
- quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due
- cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti
- che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell’anime ostinate,
- le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima
- «tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire
- essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá;
- la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento,
- nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata
- per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza
- di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli
- altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la
- seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di
- caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere
- in alcuna laudevole forma.
- E chiama l’autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed
- esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi
- cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per
- lo trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali
- trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú
- profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E
- pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo
- trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali
- l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la
- vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi
- e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in
- costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di
- poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti,
- caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata
- l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il
- costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione
- udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu
- vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E
- cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire
- per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto
- ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non
- di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni
- lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer
- non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua
- perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si
- curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio e ancora la pena
- apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere,
- l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue
- tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente
- informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole
- avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione;
- s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti
- non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi,
- li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s’imprieme
- questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali
- orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il
- Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano
- d’occupare con questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e
- dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la
- sua origine conosciuta e dimostrata a noi.
- [Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da
- vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro
- effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le
- furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole
- d’Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono
- figliuole d’Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero
- figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo,
- il dimostra:
- _Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,
- quas et Tartaream nox intempesta Megaeram
- uno eodemque tulit partu,_ ecc.
- E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove
- e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:
- _Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis
- apparent, acuuntque metum mortalibus aegris
- si quando lethum horrificum morbosque deum rex
- molitur meritis, aut bello territat urbes_, ecc.
- E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra
- l’autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in
- diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per
- li versi di Lucano si comprende, quando dice:
- _Iam vos ego nomine vero_
- _eliciam, Stygiasque canes in luce superna
- destituam_, ecc.
- Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí
- come per Virgilio appare, dove dice:
- _... caeruleis unum de crinibus anguem_
- _coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit,
- quo furibunda domum monstro permisceat omnem_.
- E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio
- dicendo:
- _Eumenides tenuere faces de funere raptas_, ecc.
- E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato
- matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per
- Virgilio si può vedere:
- _At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,
- infelix crines scindit Iuturna solutos_, ecc.
- Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo
- non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi
- versi:
- _Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem
- obscoenae volucres: alarum verbera nosco_, ecc.
- Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali
- abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]
- [Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché
- dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]
- [Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie
- singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad
- Aletto appare per questi versi di Virgilio:
- _Cui tristia bella_
- _iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.
- Odit et ipse pater Pluton, odére sorores
- Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,
- tam saevae facies, tot pullulat atra colubris_.
- E un poco appresso séguita:
- _Tu potes unanimes armare in praelia fratres
- atque odiis versare domos; tu verbera tectis
- funereasque inferre faces; tibi nomina mille,
- mille nocendi artes_, ecc.
- A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi
- appare; e prima Virgilio dice di lei:
- _Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,
- et pavor et terror trepidoque insania vultu_, ecc.
- A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:
- _Suffusa veneno_
- _tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro
- ore vapor, quo longa sitis morbique famesque
- et populis mors una venit_, ecc.
- A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di
- Claudiano si può comprendere, dove nel libro _De laudibus Stiliconis_,
- dice:
- _Quam penes insani fremitus, animique prophanus
- error, et undantes spumis furialibus irae,
- non nisi quaesitum cognata caede cruorem,
- illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,
- quem dederint fratres_, ecc.]
- [Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione
- è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole
- sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste
- furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa
- pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá
- che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non
- avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion
- seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual
- perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da
- animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come
- il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore,
- convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente
- molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará
- di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può
- comprendere questo atto furioso esser nato dall’aver cacciata la
- letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo
- primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto
- «senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere
- avvenuto per ignoranzia d’animo: e la ignoranzia è similissima alla
- notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza,
- aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le
- furie esser figliuole d’Acheronte e della Notte.]
- [Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per
- lo ’nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato
- fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite
- anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par
- da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse,
- come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio,
- di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può
- cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia
- vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra
- di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio:
- «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie,
- quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual
- cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le
- guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si
- posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]
- [Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di
- queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto,
- secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo»,
- accioché per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal
- continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia,
- quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca
- vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, si come Fulgenzio
- medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo «_tritonphones_», il
- che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira dobbiamo
- intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con
- contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda
- fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme.
- La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice,
- questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale
- dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali
- si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d’impeti
- furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa
- non giustamente séguita o nasce l’inquietudine dell’animo; e dalla
- inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’
- romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati
- odii.]
- [Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno,
- cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché,
- pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o
- paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per
- desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo;
- e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente
- gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’ lor maggiori
- niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]
- [Appo noi, li quali siamo in mezzo tra ’l cielo e lo ’nferno (e perciò
- si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate
- «furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira
- incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché
- ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e
- però, parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo,
- pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo
- a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minor
- fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le piú delle
- volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser
- chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché,
- essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non
- riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]
- [Sono queste medesime, come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli
- eccelsi e grandi uomini, chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla
- crudeltá la quale essi, sí come potenti, per ogni menoma perturbazione
- usano ne’ minori.]
- [E sono ancora chiamate «ucceli» dalla velocitá del furore, percioché
- velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci
- dalla mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi
- «rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle
- marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa
- alcuna da’ superiori discordanti non paiono.]
- [Gli ufici loro attribuiti, percioché assai, per le molte cose
- dimostrate di loro e ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si
- possono comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí
- ancora gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere
- l’animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí
- orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e ancora
- ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare
- alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero:
- e per questo, sí come in luogo freddissimo e terreo, essere ogni
- attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il
- ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per questo artificiosamente
- fingere l’autore queste furie gridare, accioché in lui, posto nel luogo
- dove ha la tristizia di Stige e il furor degl’iracundi contemplato,
- possano col romor loro mettere, con paura, perturbazione, accioché per
- gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover
- ricevere quella impressione, che pare il debbia fare perpetuo cittadino
- d’inferno, cioè l’ostinazione. E quinci, discrive l’autore, essendo giá
- la perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui
- dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo
- degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere
- avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata
- dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo suo,
- veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere esser
- quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle
- meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa credenza
- paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come
- parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi, caggiono in
- ostinazione, e, se medesimi riputando dannati, continuamente di male in
- peggio adoperando procedono.
- [Lez. XXXVIII]
- Ma, percioché l’autor dice che questa ostinazione era dalle furie
- per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa
- Medusa sia da sentire, cioè come s’adatti alla ’ntenzione lei aver
- per l’ostinazione, piú tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E
- primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivono i poeti,
- e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]
- [Scrivono adunque, secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo
- di Nettuno e dio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole,
- delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza
- Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia
- la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale
- vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua
- _Cosmografia_, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali
- si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi
- che son cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano,
- dove scrive:
- _Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus accipit Oceanum demisso
- sole calentem, squalebant late Phorcynidos arva Medusae_, ecc.
- E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che, chiunque
- le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la
- maggior delle tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre
- ad ogni altra femmina bella; e intra l’altre cose piú ragguardevoli
- della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non
- solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro. Dallo splendore
- de’ quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di
- questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso. Ma
- Minerva, turbata della ignominia nella qual pareva il suo tempio venuto
- per questo adulterio, accioché non rimanesse impunita, dicono che i
- capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa,
- di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo
- per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di
- Perseo, in quei tempi valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover
- questa cosa mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava,
- e quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa,
- e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti.
- E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono,
- e poi al nostro proposito il recheremo.]
- [Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state
- figliuole di Forco; ma perché dette sieno figliuole d’un mostro marino,
- credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della
- quale non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di
- femmina, come l’altre nascono: ma di questo sia la quistione terminata.
- Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano
- Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò esser detto,
- perché esse tutte e tre fossero d’una medesima e igual bellezza, e
- per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro li quali le
- riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero
- un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello
- vedessero, cioè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno, niuna altra
- cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza delle cose, e
- però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte lucrative arti,
- per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in
- serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare le sustanze temporali,
- le quali per li capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci
- sollicitudini di coloro che l’hanno, percioché temono or di questa e or
- di quella cosa, ecc. Che esse convertissono in sassi coloro li quali le
- riguardavano, credo essere stato detto per ciò, che tanta e sí grande
- era la lor bellezza, che, come da alcuno veduta era, cosí diventava
- stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non
- altrimenti che se sasseo divenuto fosse.]
- [Gorgone furon chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice,
- essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta
- sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano
- le loro ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro
- uomini furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra».
- Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile
- e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché
- egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di
- queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è
- interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual solamente
- debilita l’animo di colui in cui cade; appresso dice che Euriale è
- interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o amenzia, la quale con
- un profondo timore sparge o disgrega l’animo debilitato; ultimamente
- dice che Medusa significa «oblivione», la qual non solamente turba
- l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e
- oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere
- sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto,
- chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava
- divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti, i quali per
- avventura non s’accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da
- sapere che sono alcuni li quali sempre tengon gli occhi della mente
- fissi nella loro bella moglie, ne’ lor figliuoli, ne’ lor be’ palagi,
- ne’ lor be’ giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni
- letizia di paradiso; altri tengono l’animo fisso a’ lor cavalli, a’
- lor fondachi, alle loro botteghe, a’ lor tesori; altri agli stati e
- agli onori publichi e a simili cose. E non s’accorgono che questo cotal
- riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni: da’
- quali e’ traggono quella durezza che gli convertisce in pietra, la
- quale è di complession fredda e secca: per la qual possiamo intendere
- questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá del
- prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né ricevono
- alcun seme, né fanno alcun frutto.
- Così adunque divenuti e caduti nella perseveranza del peccare, quasi
- della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano
- andare in qualunque colpa, dicendo sé sapere quel c’hanno, e non sapere
- quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra
- vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro
- avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun altro
- giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre ad ogni
- debito gli animi pongono a’ piaceri, li quali smisuratamente procuran
- d’avere, delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano, che cosa, che
- contro a questo piacer faccia, udir non possono. E, quantunque questo
- atto furioso non paia, egli è; percioché la perturbazione si prende
- nell’animo dalla nostra insaziabilitá; e però, non avendo né quello né
- tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna,
- e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono, di che a noi
- pare esser degni. E da questa perturbazione nascono gli stimoli, li
- quali il dí e la notte ne infestano a dover trovar modo come pervenir
- possiamo a quello che noi disideriamo; e da questi stimoli nascon
- le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo
- seguono gli atti e l’operazioni, le quali pognamo ad avere quello che
- bisogno non era. E questi, nel giudicio de’ savi uomini, piú tosto da
- furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci
- abituiamo, che né salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare;
- e cosí come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè
- ostinati cultivatori delle terrene cose.
- Era adunque a questo provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta
- nella mente dall’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per
- conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni,
- e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato
- dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté
- avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in
- quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro
- studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l’animo. Il che
- pregava il salmista quando diceva: «_Averte oculos meos, ne videant
- vanitatem_», cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali
- son tutte vane, come dice l’Ecclesiastes: «_Vanitas vanitatum et omnia
- vanitas_». E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che
- con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie
- gliele chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma
- delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè
- dall’appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder
- con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante volte
- questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l’uomo piú che il
- dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone veder non
- si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.
- E séguita, di questo, che a coloro, li quali con fermo animo seguitano
- la ragione, Iddio, dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il
- quale in questo luogo l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la
- porta. Ed è questo divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia,
- che ogni infernale arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l’anime
- de’ dannati, pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli
- fuggon davante, lasciando aperta e spedita la via a dover poter
- vedere e conoscere ciò che per la lor salute bisogna a coloro li
- quali sperano in lui. E questo credo che sia quello, al quale vedere
- l’autore sollecita gl’intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione
- a discernere distintamente le colpe de’ caduti nella ostinazione,
- e i tormenti dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si
- sappia guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda
- al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria
- pervenire.]
- Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato
- agli eresiarci. Sono gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge
- nel testo, in sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati;
- nel qual supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza degli eretici
- in questa vita, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque
- che, per le sepolture, l’autore vuol dimostrare di questi peccatori
- l’apparenza in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a
- credere al giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte
- falso, ne ’nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo
- uscire, o con difficultá n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici
- simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di
- marmi, d’intagli, d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a
- riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si
- truovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a
- riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in sé avere.
- E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone
- oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun
- buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione;
- ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per
- i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco,
- esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia
- dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio
- tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro
- esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’
- morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili a
- riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle
- opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sé
- il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor intrinseci sentimenti,
- molto piú sozzi e piú orribili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo
- assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri. E quinci
- estimo, percioché ne’ sepolcri, a’ quali li lor corpi simiglianti
- furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo
- seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori
- trassono; che l’ autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri
- piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false
- e riprovate opinioni, sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo,
- ostinatamente servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno
- senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.
- Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor
- voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá
- di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste
- mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto
- al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli
- eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente
- l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione
- menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di
- peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?
- Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a
- bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa
- è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di
- vedere e di sapere d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti
- altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre
- a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere
- ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono
- e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che
- vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi
- di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in
- questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non
- sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando,
- sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.
- Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se
- gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli
- altri bestiali si puniscono?
- E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli
- eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú
- puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi
- abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il
- peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da
- loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi
- piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere
- essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci
- lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo
- lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che
- piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono,
- bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a ciò,
- adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però
- pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli
- eretici.
- CANTO DECIMO
- [Lez. XXXIX]
- «Ora sen va per un segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo
- di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente
- in questo modo, che, avendo l’autore nella fine del canto superiore
- discritta la qualitá del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli
- è tormentato; nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio
- per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli
- avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne
- dice il suo procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio
- alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra
- come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse;
- ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo
- pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza
- quivi:—«O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».
- Dice adunque l’autore, continuandosi al fine del precedente canto,
- che «Ora», cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen
- va per un segreto calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi
- per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali
- dannati lá giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere
- usitata da gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri
- li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle
- bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati
- «calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte.
- «Tra ’l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè tra’ sepolcri,
- ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo mio maestro, ed
- io dopo le spalle», cioè appresso a lui, seguendolo.
- -«O virtú somma». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
- nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele
- solve. Dice adunque:—«O virtú somma», nelle quali parole l’autore
- intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie
- dell’anima è somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli
- cerchi dello ’nferno, «Mi volvi»,—menandomi, «cominciai,—com’a te
- piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami»,
- cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che io
- disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La gente,
- che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi veder?». E,
- volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita: «Giá son levati
- Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra che tutti erano
- aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’ sepolcri sia, «guardia
- face»,—per non esser veduto. E in queste parole par piú tosto domandar
- del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o no.
- «Ed egli a me». Qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non
- pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda
- se quegli che sono dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio
- gli risponde che essi saranno serrati tutti dopo il di del giudicio.
- Ma Virgilio gli dice questo, accioché esso comprenda e il presente
- tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore,
- quando serrati saranno i sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché,
- quanto il fuoco è piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli
- questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli
- risponde alla domanda. Dice adunque:—«Tutti saran serrati», questi
- sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafà», cioè della
- valle di Iosafà, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti,
- quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo
- ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesù
- Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno;
- e chiamasi quella valle di Iosafà, poco fuori di Gerusalem, da un re
- chiamato Iosafà, che fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle
- fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassù hanno lasciati»,
- quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero»,
- cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture
- sono, sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono
- alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e
- queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «_communis terra_»,
- percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa
- elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi
- seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».
- Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo
- a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero
- che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, percioché egli
- negò del tutto l’eternità dell’anima e tenne che quella insieme col
- corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e cosí ancora piú
- altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne
- ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali
- sodisfacessero all’appetito sensibile: sí come agli occhi era sommo
- bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor piaceva di
- vedere, cosí agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto
- di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo fosse ghiottissimo
- uomo; la quale estimazione non è vera, percioché nessun altro fu piú
- sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello diletto, nel quale
- poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam
- piú tosto dire il disiderio del mangiare, il qual, molto portato,
- adoperava che, non che il pane, ma le radici dell’erbe selvatiche
- meravigliosamente piacevano e con disiderio si mangiavano; e cosí,
- sostenuta lungamente la sete, non che i deboli vini, ma l’acqua, e
- ancora la non pura, piaceva e appetitosamente si beveva; e similmente
- di ciascuna altra cosa avveniva. E perciò non fu ghiotto, come molti
- credono; né fu perciò la sua sobrietá laudevole, in quanto a laudevol
- fine non l’usava. [Adunque per queste opinioni, separate del tutto
- dalla veritá, sí come eretico mostra l’autore lui in questo luogo esser
- dannato, e con lui tutti coloro li quali le sue opinioni seguitarono].
- Poi séguita l’autore: «Però», cioè per quello che detto t’ ho, che da
- questa parte son gli epicúri, «alla dimanda che mi faci», cioè se veder
- si possono quelle anime che nelle sepolture sono, «Quinc’entro», cioè
- tra queste sepolture, «satisfatto sarai tosto»; quasi voglia Virgilio
- dire: percioché tra questi epicúri sono de’ tuoi cittadini, li quali,
- sentendoti passare, ti si faranno vedere, di che fia satisfatto al
- disiderio tuo; «Ed al disio ancor, che tu mi taci».—Il qual disio,
- taciuto dall’autore, vogliono alcuni che fosse di sapere perché
- l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e le presenti non
- par che sappiano; la qual cosa gli mostra appresso messer Farinata.
- Ma io non so perché questo disiderio gli si dovesse esser venuto,
- conciosiacosaché niun altro vaticinio per ancora avesse udito se
- non quello che detto gli fu da Ciacco; salvo se dir non volessimo
- essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose future, e Filippo
- Argenti nol conobbe, essendo egli presente: ma questa non pare assai
- conveniente cagione da doverlo aver fatto dubitare, conciosiacosaché,
- come Ciacco il vide, il conoscesse, come davanti appare; e però, che
- che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere
- quel disio, il quale Virgilio dice qui che l’autor gli tace.
- «Ed io:—Buon duca, non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer
- poco», per non noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò
- disposto»,—ammonendomi di non dir troppo.
- —«O tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del
- presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo
- lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette
- cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche;
- appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e
- a lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre
- a questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli
- gli rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue
- parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse
- un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente come
- imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse. La
- seconda comincia quivi: «Ed el mi disse:—Volgiti»; la terza quivi:
- «Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse alla vista»; la quinta
- quivi: «Ma quell’altro»; la sesta quivi:—«Deh! se riposi»; la settima
- quivi: «Allor come di mia».
- Dice adunque nella prima cosí:—«O tosco». Dinomina qui colui, che
- queste parole dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo
- tanto compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè
- «toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare,
- forse conosceremo avere a render grazie a Dio che toscani, piú tosto
- che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la nobiltá delle
- province, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di
- gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque
- Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal levante
- terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e mette in
- mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e di ponente è
- chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno
- da diversi posti diversi termini, percioché alcuni dicono quella
- essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri la ristringono
- e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta, e sono
- ancor di quegli che vogliono lei finita essere da un piccolo fiumicello
- chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i pisani medesimi, forse piú
- nobile cosa estimando esser galli che toscani, hanno alcuna volta detto
- quella di ver’ ponente essere chiusa dal fiume nostro, cioè da Arno, il
- qual mette in mare poco sotto Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa
- dal mare Mediterraneo, il quale i greci chiamano Tirreno. E questa
- terminazione è secondo il presente tempo; percioché anticamente essa
- si stendeva, passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di
- quindi i galli, li quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron
- nome alla provincia, e chiamaronla Gallia.]
- [E fu Toscana, secondo che alcuni antichi scrivono, primieramente
- abitata da certi popoli li quali si chiamarono lidi, li quali,
- partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani,
- chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la
- provincia chiamata Lidia da Lido ed il mare fu chiamato il mar Tireno
- dall’altro fratello. E non solamente quello il quale bagna i termini
- di Toscana, ma, cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del
- Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora
- il chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio
- generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli
- loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati
- (e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili
- giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del
- sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano con
- incenso, e lo ’ncenso in latino si chiama «_thus_», furon chiamati
- «_tusci_», li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo
- dirivò il nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si
- vede, Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo
- tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e,
- appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra ogni
- altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo;
- e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá fu natio,
- esser da messer Farinata chiamato «tosco».]
- Séguita poi: «che per la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite,
- ardente tutta d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto»,
- cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio;
- «Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che io
- ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa manifesto»
- esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza, «natio, Alla qual
- forse fui troppo molesto».—Guarda, colui che parla, di dover per
- queste parole potere piú tosto ritenere l’autore, come davanti il
- priega; conciosiacosaché volentieri ne’ luoghi strani sogliano l’un
- cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da
- alcuna singular cosa son soprapresi, come qui faceva quella anima,
- dicendo forse essere stato alla cittá dell’autore troppo molesto. E
- dice avvedutamente qui questo spirito «forse», percioché, se assertive
- avesse detto sé essere stato troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe
- fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua cittá
- adoperare se non tutto bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre
- e alla patria; e il biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò
- disse lo spirito «forse», suspensivamente parlando, volendo questo
- «forse» s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al
- giudicio de’ quali per avventura non era da credere: sí come al
- giudicio de’ guelfi, sí come di nemici, non parea da dover credere
- contro al ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e
- nostra costui, nelle cose seguenti apparirá.
- «Subitamente questo suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo
- «suono» _improprie_, percioché propriamente «suono» è quello che
- procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono
- e simiglianti: «uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però
- m’accostai, Temendo, un poco piú al duca mio».
- «Ed el mi disse». Qui comincia la seconda particella della parte
- terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e
- sospignelo ad esso. Dice adunque: «Ed el mi disse:—Volgiti», inverso
- l’arca onde uscí il suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi la
- Farinata», cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è
- dritto», nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su»,
- cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne,
- [La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe;
- percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno
- cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno
- a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi
- è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in
- luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro
- delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan
- le natiche.] «Tutto il vedrai».—Per le quali parole di Virgilio,
- l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare
- questo messer Farinata.
- E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel
- suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el»,
- cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea,
- levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li
- quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva,
- «Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e
- in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo
- di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna
- fatica, pericolo o avversitá.
- «E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando
- elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon
- fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da
- credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il
- quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere
- animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo»,
- in quell’atto:—«Le parole tue sien cónte»,—cioè composte e ordinate a
- rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.
- [Lez. XL]
- «Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte
- principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata
- parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi
- fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze,
- d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il
- temporal valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della
- famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in
- Firenze, e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo
- stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale
- quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí
- ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi,
- suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto
- oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti
- tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse
- col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse
- tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma
- che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere
- di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate
- vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo
- peccato è dannato come eretico in questo luogo.
- Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui
- che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un
- poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è
- questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che
- sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò:—Chi
- fûr li maggior tui?»—cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se
- cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.
- «Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele
- apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri,
- onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú
- distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del _Paradiso_; «Ond’ei
- levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini
- quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer
- loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si
- dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.
- «Poi disse:—Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici,
- percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè
- a’ miei passati, «e a mia parte».
- [Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora
- si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e
- della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente,
- accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso,
- senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è
- lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di
- molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è
- chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio
- portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né
- il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte,
- pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il
- venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo
- avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice
- nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni,
- una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e
- delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui
- laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del
- _Purgatorio_; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse,
- cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai
- le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un
- barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole
- e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui
- trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo
- Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che
- a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della
- sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali
- questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona
- ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie
- operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del
- potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo
- dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú
- volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai
- potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il
- mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o
- che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli
- orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí
- morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò
- ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si
- levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in
- aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti,
- che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e
- Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’
- termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale
- udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e
- la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano
- la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti
- nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano
- similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome
- fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro
- li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa,
- mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver
- bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata
- la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro
- similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto
- di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne
- recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di
- Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini».
- Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella
- nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile
- cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le
- corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano,
- si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte
- degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E
- questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi
- dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano
- guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]
- «Sí che per due fiate gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze
- insieme con gli altri guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo
- ’mperador Federigo privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa
- e scomunicato, e trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire
- le parti della Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori,
- per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa
- e ghibellina nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze,
- alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a
- combattere insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in
- soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento
- cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun
- soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della
- cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli
- guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la novella
- come lo ’mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della
- cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze: e cosí furono a
- dí 7 di gennaio 1250.
- La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono
- sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero
- dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la
- piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che
- tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella
- come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade
- del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza,
- con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e
- poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi,
- tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi
- per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa
- dice l’autore:—«S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar
- d’ogni parte»,—dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui,—e l’una e l’altra
- fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti,
- li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda
- volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte»,—cioè
- del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né,
- per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia
- la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale
- l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna
- cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io
- rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si levò, «alla
- vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della sepoltura non
- coperchiata, della qual si poteva veder di fuori; «Un’ombra, lungo
- questa, insino al mento»: non si levò diritta in piè, come s’era levato
- messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea; «Credo che
- s’era inginocchion levata»; e cosi dovea essere, poiché piú non se ne
- vedea. «D’intorno mi guardò, come talento», cioè volontá, «Avesse di
- veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento»,
- cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse:—Se per questo
- cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere»,
- percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco»,
- non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di
- poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra,
- in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder
- lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via
- e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci
- vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?»—quasi voglia dire:
- conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come
- siè tu. «Ed io a lui:—Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza
- d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio,
- «per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro»,
- figliuolo, «ebbe a disdegno».—
- «Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio
- figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli
- epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome»,
- cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia
- a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.
- È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore,
- fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti,
- leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere
- che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene
- fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato.
- E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo
- e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio
- che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato
- ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí
- come esso medesimo mostra nella sua _Vita nuova_, e fu buon dicitore
- in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da
- molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E
- percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la
- singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente
- l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta
- gli fece la domanda che di sopra si disse.
- Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per
- la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò:—Come Dicesti, ’egli
- ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e
- però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce
- lome?»—del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i
- corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.
- «Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi
- alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»;
- segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere
- essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore
- non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare
- alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba
- piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora».
- Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’
- figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati
- sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di
- loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo».
- Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella
- quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era
- in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer
- Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua
- vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer
- Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel
- luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo»,
- volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua
- costa», cioè suo lato.
- —«E se,—continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea
- detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore;-«Egli han
- quell’arte»,—del tornare donde cacciati sono, «disse,—male appresa»,
- in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo
- letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.
- «Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui
- regge».
- A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato
- detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa
- Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra.
- E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è
- per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la
- sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per
- rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e
- però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non
- avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari,
- ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo
- della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna
- luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga,
- piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla
- quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso
- e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata
- la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e
- tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo,
- in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è
- veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che
- entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia,
- come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla
- quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si
- raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire
- che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.
- E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno
- quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte»,
- del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste
- parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe
- cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.
- «E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque
- pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello
- ’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i
- cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei»,
- cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»?— delle quali, poiché
- cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio
- si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che
- da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente
- tutti.
- «Ond’io a lui», risponde l’autore e dice:—«Lo strazio e ’l crudo
- scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè
- composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio»,
- cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e
- gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i
- romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro
- diliberazioni facevano.
- E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che
- l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col
- comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora
- era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun
- di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo,
- tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e
- altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso.
- Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data
- loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo
- di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di
- Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro
- sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte
- Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro
- all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi
- del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con
- messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini,
- entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque sbigottissero i
- fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente
- de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia cominciata, messer Bocca Abati,
- il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a
- messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il qual portava l’insegna
- del comune, levata la spada, ferí il detto messer Iacopo e tagliògli la
- mano, di che convenne la ’nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini
- del tutto rotti, senza segno e senza consiglio, furono sconfitti, e
- molta gran quantitá di loro e di loro amici furono in quella sconfitta
- uccisi; il sangue de’ quali n’andò infino in un fiume ivi vicino
- chiamato Arbia; e ciò fu a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa
- poi pienamente per tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in
- Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire,
- se non in disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state
- per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia
- colorata in rosso» del sangue de’ fiorentini.
- [Lez. XLI]
- E séguita: «Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno
- li quali minacciano,—«A ciò non fu’ io sol—disse», cioè a far questi
- trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché contro
- alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro
- agli altri, che ad adoperar questo fûr meco;—«né certo, Senza cagion
- con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a dover far quel che
- si fece: vogliendo per questo intendere che il comun di Firenze, il
- quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare
- ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua. Poi segue:
- «Ma fu’ io sol colá, dove sofferto», cioè acconsentito, «Fu per
- ciascun», fiorentino che a quello ragionamento si trovò, «di tôrre via
- Fiorenza», cioè di disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che
- essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi
- dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che
- alcuni altri cittadini.
- È il vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la
- sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella,
- si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre
- ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e cosí
- ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo stato di
- parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare
- a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra l’altre cose che
- in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu
- che la cittá di Firenze si disfacesse e recassesi a borghi, accioché
- ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare; e ciò
- era generalmente per tutti consentito, e ancora per li fiorentini
- che v’erano, fuor solamente per uno: e questi fu messer Farinata,
- il quale, levatosi ritto, con molte e ornate parole contradisse a
- questo, dicendo, nella fine di quelle, che, se altri non fosse che ciò
- vietasse, esso sarebbe colui che con la spada in mano, mentre la vita
- gli bastasse, il vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole,
- avendo riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua
- potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.
- —«Deh! se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della
- terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a
- messer Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí:—«Deh! se
- riposi mai vostra semenza»,—cioè i vostri discendenti; e in queste
- parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata, accioché piú
- benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo:
- «Prega’ io lui,—solvetemi quel nodo», cioè quel dubbio, «Che qui
- ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio giudicio, in tanto che io
- non ne posso veder quello che io disidero. «El par che voi», cioè
- anime dannate, «veggiate, se ben odo» quello che voi m’avete detto,
- e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò; veggiate
- «Dinanzi», cioè preveggiate, «quel che ’l tempo seco adduce», nel
- futuro, «E nel presente» tempo, «tenete altro modo»,—in quanto non par
- che cognosciate né veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché
- messer Farinata gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero,
- egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose
- future; e messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in
- che si dimostra che essi non conoscono le cose presenti.
- E messer Farinata gli risponde:—«Noi veggiam come quei c’ha mala
- luce, Le cose,—disse,—che ne son lontano». Suole questo vizio
- avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori li quali
- vengon dal cerebro, ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro
- alla virtú visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose
- propinque; ma, come la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi
- dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá
- riceve le forme obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla
- propinquitá della caligine infernale, non posson le cose propinque
- vedere; ma, ficcando con la meditazione l’acume dello ’ntelletto per
- le cose superiori, veggion le piú lontane. E come queste possan vedere
- o no, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente
- canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve
- della «cittá partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne
- splende», cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la
- grazia del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan»,
- le cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto». in quanto
- niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra noi
- discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di quella ci
- dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè di cosa che
- lassú si faccia. «Però comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che
- tutta morta, Fia nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia
- chiusa la porta»,—cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora
- seranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno
- piú uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito
- l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le
- quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi,
- secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo
- caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati nel profondo
- dello ’nferno.]
- «Allor, come di mia». Qui comincia la settima particula di questa
- terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a
- messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice:
- «Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non
- aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea;
- «Diss’io:—Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che
- ’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal
- vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi»,
- quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non
- gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error
- che m’avete soluto»,—qui poco di sopra.
- «E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di
- messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui
- stava», in quell’arca.
- «Dissemi:—Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con
- infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».
- Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di
- Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi
- amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per
- moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la
- quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota
- il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’
- discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e
- dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale
- andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase
- libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il
- qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza
- pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia
- e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come
- ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia,
- e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador
- di Roma.
- Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e
- virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere
- usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí
- come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre
- mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame
- di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la
- via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il
- soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar
- zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú
- sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come
- egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la
- Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia
- se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in
- Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto
- senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a
- Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una
- cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari
- la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé
- dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra,
- vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in
- piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case,
- come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi
- dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano
- tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia
- e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran
- guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare
- alcuna sua ragione alla Chiesa.
- Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli
- avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’
- quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o
- vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che
- egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa
- cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora
- prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni,
- ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome
- Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse;
- ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e
- subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la
- infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che
- fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile
- suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí
- scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni
- suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere
- che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo
- luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo»,
- percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.
- «E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual
- non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano
- degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza,
- voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il
- quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile
- che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse
- ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o
- altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici
- della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che
- potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro
- abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo
- rammarichío disse:—Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini.—Nella
- qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima
- fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice
- lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E
- degli altri mi taccio»—quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri
- contare.
- «Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente
- canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui,
- seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe
- detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’
- l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel
- parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea
- detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).
- «Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí
- andando, Mi disse:—Perché se’ tu si smarrito»?—cioè sbigottito; «Ed
- io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere
- esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.
- —«La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te,—mi comandò
- quel saggio,—Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò
- il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor
- parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi
- al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice,
- «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede»,
- cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita
- il viaggio»,—cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in
- queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre
- dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per
- questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí
- avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio
- vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.
- «Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il
- muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della
- cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce,
- «Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.
- Questo canto non ha allegoria alcuna.
- CANTO DECIMOPRIMO
- [Lez. XLII]
- «In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel
- principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino
- a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il
- quale è di sopra detto che, lasciando il muro della terra, cominciò
- ad andar per lo mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti:
- nella prima discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che
- vi trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta
- la esistenza dello ’nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le
- quali deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un
- dubbio a Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi
- sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di
- sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione,
- gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a
- Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella settima
- Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la seconda quivi:
- «Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io:—Maestro»; la quarta
- quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi:—«O sol, che sani»; la sesta
- quivi:—«Filosofia»; la settima quivi: «Ma seguimi oramai». Cominciando
- adunque alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del
- precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa». «Ripa»
- è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o pietre, la quale
- da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che o non presti, o
- presti con difficultá la scesa per sé di quell’altezza al luogo nel
- quale essa discende, sí come in assai parti si vede ne’ luoghi montuosi
- naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle
- cittá gli uomini artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa
- alta ripa, «facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che
- non artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le
- pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo, sí
- come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere alquanto
- andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore per «stipa» le
- cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come i naviganti le molte
- cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e da questo modo di parlare
- prendendo l’autore qui forma, vuol che s’intenda che, sotto il luogo
- dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori, in
- piú crudel pena che quegli li quali infino a quel luogo veduti avea. «E
- quivi per l’orribile soverchio Del puzzo che ’l profondo abisso», cioè
- inferno, «gitta», svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché
- men lo sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono
- «ad un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel
- cerchio degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in
- grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io vidi
- una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che diceva:
- ’Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in dimostrazione di
- chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio, «trasse Fotin della
- via dritta».—Dove è da sapere che questo Anastasio fu di nazione
- romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato Fortunato, e negli anni
- di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto papa, ma poco tempo visse
- nel papato; e avendo costui singulare famigliaritá con uno il quale fu
- chiamato Fotino, e che primieramente era stato diacono di Tessaglia
- e poi fu fatto vescovo di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto
- rimota dal mare, fu adunque da questo Fotino corrotto e tratto della
- cattolica fede, e cadde in una abbominevole eresia, della quale era
- stato inventore e seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di
- Fotino. Ed era la eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non
- essere stato figliuol di Dio, ma di Giuseppo, e ch’esso carnalmente
- giacendo con la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero
- che la Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto,
- come i cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il
- detto Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E,
- volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana,
- essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo resistendo;
- avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e undici mesi e
- ventitré dí, andato al segreto luogo dove le superfluitá del ventre si
- dipongono, per divino giudicio, sí come per tutti universalmente si
- credette, per le parti inferiori gittò e mandò fuori del corpo tutte le
- interiora, e cosí miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo
- l’autore estima lui essere stato eretico di quella eresia che detta è,
- e perciò qui dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui
- essere stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della
- fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati
- per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.
- «Lo nostro scender convien». Qui comincia la seconda parte di questo
- canto, nella quale l’autore discrive distintamente la esistenza dello
- ’nferno, e ancora la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo,
- trovare; e dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien
- che sia tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo:
- «Sí che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso»,
- dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato sará
- alquanto, «non fia riguardo»,—cioè non bisognerá di molto curarsene,
- «_quia assuetis non fit passio_». E nel vero e’ si vuole a cosí fatte
- cose andar con discrezione, percioché assai giá hanno gravissime
- alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi
- o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte,
- quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli
- odori o de’ puzzi.
- «Cosí il maestro», (_supple_), disse; «ed io:—Alcun compenso—Dissi
- lui—truova, che ’l tempo non passi Perduto». Questo fu ottimamente
- detto, e in ciò ciascuno dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non
- perder tempo, percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose
- noi abbiamo nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre
- cose sono della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo
- adoperare che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli»,
- rispuose:—«Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere
- la circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non
- aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto séguita
- quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover perder
- tempo, e dice:
- «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,—li quali tu puoi veder di
- sotto da te, «Cominciò poi a dir,—son tre cerchietti», cioè il settimo
- e l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di
- circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in grado»,
- cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano, «come» trovati
- hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti», questi tre cerchietti,
- «son pien di spirti maladetti», cioè dannati; «Ma, perché poi ti basti
- pur la vista», cioè il vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi
- come e perché son costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.
- «D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere:
- o è malizia corporale, o è malizia mentale. Malizia corporale è quella
- la quale noi generalmente chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»;
- e questa può essere ancora nelle cose insensibili, quando in esse
- naturalmente è alcun difetto, sí come alcuna volta è in uno albero,
- il quale nasce torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente
- biasimevole, secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual
- propriamente è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre
- anime sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai
- altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore mostra
- di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice «d’ogni
- malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa ultima;
- percioché la prima alcun odio non acquista in cielo, quantunque ella
- sia in terra in odio a colui che la patisce; e per tanto dice «odio»,
- perché l’operazioni, le quali seguono della malizia delle nostre menti,
- son malvagie e dispiacciono a Dio, il qual dimora in cielo; e quindi,
- perduta la sua grazia, meritiamo l’ira sua, la quale, perseverando
- noi nel male adoperare, diventa odio, se in esso male adoperare senza
- pentirci moiamo. «Ingiuria è il fine»; percioché quante volte i nostri
- maliziosi pensieri si mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non
- per fare ingiuria ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare
- ingiuria ad alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che
- riceve la ’ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste
- parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente si
- fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.
- E questo dimostrato, ne chiarisce in qual di questi due modi piú
- s’offenda Iddio, dicendo: «Ma perché frode è dell’uom proprio male»,
- cioè che in esso si crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio
- male» dell’uomo; «Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale
- non è proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori
- siano all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali
- se l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e però»,
- che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion detta, «stan
- di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono cerchio, li quali sono
- di sotto al settimo, nel quale intende dimostrare esser posti e dannati
- coloro, li quali per forza fanno ingiuria ad altrui, «e», percioché
- si stanno ne’ cerchi piú inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono
- oppressi da maggior tormenti.
- E, detto questo, viene alla prima parte della sua distinzione, cioè a
- dimostrare in quanti modi e a quante persone si possa fare per forza
- ingiuria altrui, e questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí
- dimostra il settimo cerchio esser distinto in tre parti come apparirá.
- Dice adunque: «Di violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno
- altrui ingiuria, «il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio
- de’ tre, li quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero
- de’ cerchi dello ’nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il
- distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son piene
- di violenti.
- E mostra la ragione perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma,
- perché si fa forza a tre persone», in se medesime diverse e separate,
- come apparirá; «in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo
- cerchio. E, detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali
- i violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio», il
- qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui solo
- adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi dobbiamo,
- appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo è la seconda
- persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare come noi medesimi.
- [È vero che in questo prossimo ha differenza da un prossimo ad un
- altro, percioché a tutti gli uomini, di che che setta, di che che
- nazion si sieno, secondo la legge naturale, siam prossimi; percioché
- tutti da un principio, cioè da’ primi parenti, proceduti siamo, e
- però tutti ci dobbiamo amare. Ma a questa generalitá si prepone una
- particularitá, percioché noi dobbiamo amare piú i cristiani che l’altre
- sètte; conciosiacosaché noi siamo da una medesima legge, da una
- medesima dottrina, da quegli medesimi sagramenti costretti insieme,
- dove dall’altre sètte noi siam separati. E, oltre a questa, pare ancora
- che questa particularitá riceva alcuna divisione, in quanto pare che
- ciascun debba piú amare colui che con congiunzione di piú prossimana
- consanguinitá è congiunto, che un altro piú lontano di parentela amare;
- e cosí potrebbe seguire che, quanto alcun dee piú strettamente amare un
- che un altro, piú gravemente pecchi, se in colui, che piú dee amare, fa
- violenza: ma questo si rimanga al presente.]
- «Si puone», cioè si puote, «Far forza»; e, detto questo, apre piú la
- sua intenzione, dicendo: «dico in loro», cioè nelle proprie persone de’
- detti tre, «ed in lor cose, com’udirai con aperta ragione».
- E cosí, di tre, paion divenute sei quelle cose nelle quali far si può
- violenza. E quali queste sieno, e in che maniera si possa in esse
- far violenza, distingue e dichiara, cosí cominciando dal prossimo: e
- dice che «Morte per forza», come uccidere col coltello, col veleno,
- col capestro, o col fuoco o in altra maniera, le quali son morti
- violente che si possono nel prossimo dar per forza; «e ferute dogliose
- Nel prossimo si dánno», cioè nella propria persona del prossimo; e
- quinci dimostra quello che violentemente s’adopera, o può adoperare,
- nelle sustanze del prossimo, dicendo: «e nel suo avere», cioè nelle
- sue possessioni e ricchezze, «Ruine», come è disfargli le case, «e
- incendi», come è ardergliele o ardergli le biade, e «tollette dannose»,
- come è il rubargli le sue cose, tôrgli la moglie, la figliuola, il
- bestiame e simili sustanze. E, questo dimostrato, piú particularmente
- narrandogli, dimostra in qual de’ tre gironi tormentati sieno, dicendo:
- «Odii», cioè coloro che odio portano al prossimo, volendo per questo
- s’intendano coloro in questo medesimo luogo esser dannati, li quali,
- quantunque queste violenze non facciano, le farebbon volentieri se
- potessono, e, perché piú non possono, hanno in odio il prossimo;
- «omicide, e ciascun che mal fiere» (dice «mal fiere», a distinguer da
- questi cotali coloro li quali, posti per esecutori della giustizia,
- giustamente uccidono e feriscono); «Guastatori», come sono incendiari
- e simili uomini, «e predón», cioè rubatori, corsari e tiranni e
- simiglianti, «tutti tormenta Lo giron primo», di questo primo cerchio,
- e tormentali «per diverse schiere», volendo che per questo s’intenda
- questi cotali peccatori esser piú e men tormentati, secondo che hanno
- piú o meno offeso, sí come apparirá lá dove tormentati gli discrive.
- E, mostrato della violenza che si può fare nel prossimo e nelle sue
- cose, dimostra quello che l’uom può fare in se medesimo e nelle sue
- cose, e quello che di ciò gli segua, e dice: «Puote uomo avere in sé
- man violenta», uccidendosi col coltello e col capestro, come molti
- hanno giá fatto, «E ne’ suoi beni», giucando quegli; «e però nel
- secondo Giron», de’ tre predetti, «convien che senza pro si penta»,
- sostenendo gravissimi tormenti. E, questo detto, se medesimo dichiara
- con piú aperto parlar, dicendo: «Qualunque priva sé del vostro mondo»,
- uccidendosi, come detto è, «Biscazza, e fonde», consuma, «la sua
- facultade», cioè la sua ricchezza, e, per conseguente, «E piagne»,
- d’aver cosí fatto, «lá dove esser dee giocondo», avendole guardate e
- servate come si convenia.
- E, mostrato della violenza, la quale l’uomo può fare in se medesimo e
- nelle sue cose, e quello che di ciò gli segua, viene a dimostrare come
- si possa far violenza a Dio e alle cose sue, e dice: «Puossi», da’
- violenti, «far forza nella deitade, Col cuor negando e bestemmiando
- quella», come molti, o adirati o per mostrar di non temere Iddio, non
- che altrui, fanno; «E», appresso, si può far forza nelle cose di Dio
- «spregiando natura e sua bontade», cioè adoperando contro alle naturali
- leggi, come assai bestialmente fanno; «E però lo minor giron», de’ tre
- predetti, ne’ quali il primo cerchio è distinto, «suggella Del segno
- suo», cioè de’ tormenti che in quel sono, «e Sogdoma e Caorsa». E vuole
- l’autore per questi nomi di queste due cittá intendere due spezie
- d’uomini, li quali offendono o fanno violenza a Dio nelle cose sue,
- cioè nella natura e nell’arte, le quali sono sue cose, sí come appresso
- mostrerà l’autore: e intende per «Sogdoma» coloro li quali contro alle
- leggi della natura con sesso non debito lussuriosamente adoperano; e
- per «Caorsa» intende gli usurai, li quali fanno violenza alle leggi
- della natura e al buon costume dell’arte.
- Ed accioché piú manifestamente appaia l’autore intender questo, è
- da sapere che Sogdoma, secondo si legge nel _Genesi_, fu una cittá
- vicina a Ierico in Soria, la qual fu abbondantissima di tutti i beni
- temporali; per la quale abbondanza i cittadini di quella in tanta
- viziosa vita trascorsono, che né legge divina né umana seguivano, e
- ogni vizio, quantunque detestabile fosse, era a ciascuno, secondo che
- piú gli piacea, lecito d’esercitare; e, tra gli altri, era in tutti
- generale il sogdomitico, per lo quale, e sí ancora per gli altri,
- meritaron l’ira di Dio. Il quale, essendo disposto a volerla insieme
- co’ cittadini sovvèrtere, prima il manifestò ad Abraam, il quale il
- pregò che non volesse fare a’ buoni sostener pena per le colpe de’
- malvagi; e, promettendo Iddio di perdonare a’ malvagi per amor de’
- buoni, se alquanti vi se ne trovassono, non sappiendovene Abraam
- trovare quantitá alcuna di quelli che domandati avea, fu contento al
- piacer di Dio. Per la qual cosa Iddio mandò due suoi angeli a Lot,
- nepote d’Abraam, il quale abitava in quella, ed era buono e onesto e
- santo uomo; e per loro gli comandò che di quella con la sua famiglia si
- dovesse partire, manifestandogli quello che di fare intendeva. Erano
- i due angeli, quando alla casa di Lot pervennero, in forma di due
- speziosissimi giovanetti, li quali da’ sogdomiti veduti, incontanente
- corsono alla casa di Lot, addomandando d’aver questi giovani. Lot, il
- quale sí come messi del suo Signore ricevuti li avea, non gli volle lor
- dare, ma per sodisfare all’impeto della lor lussuria, e per servare
- l’onore de’ giovani che a casa gli eran venuti, volle lor dare due
- sue belle figliuole vergini, le quali in casa aveva: ma essi, non
- volendole, e volendo far impeto nella casa, subitamente per divino
- giudicio tutti divennero ciechi. Lot con la famiglia sua poi uscí della
- cittá, secondo il comandamento fattogli, e incontanente sentí dietro
- a sé grandissima tempesta e orribili tuoni e folgori cader da cielo,
- le quali Sogdoma e’ suoi cittadini, e alcune altre terre le quali
- in simiglianti vizi peccavano, arsono e consumaron tutte, lasciando
- nondimeno, in detestabile memoria di sé, questo infame sopranome a
- tutti coloro li quali in vizio contro natura peccano.
- Caorsa è una cittá di Proenza, ovvero in Tolosana, secondo che si
- racconta, sí del tutto data al prestare a usura, che in quella non è
- né uomo né femmina, né vecchio né giovane, né piccol né grande che a
- ciò non intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor
- salario, ma se d’altra parte sei o otto denari venisser loro alle mani,
- tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo. Per la qual cosa è
- tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo
- noi, che, come l’uom dice d’alcuno:—Egli è caorsino,—cosí s’intende
- ch’egli sia usuraio.
- Séguita poi: «E chi spregiando Iddio col cuor favella», percioché in
- questo fa violenza alla divinitá, ché in altro non può; percioché andar
- non si può in cielo a far violenza a Dio nella persona, fassi adunque
- qui in quel che si può, bestemmiandolo, dispettandolo, avvilendolo e
- negandolo, come di sopra è detto.
- «La frode, ond’ogni coscienza». Poi che Virgilio ha pienamente
- mostrato all’autore i gironi del primo cerchio, e ancora quegli che in
- essi son tormentati, che sono la prima spezie d’uomini che a fine di
- fare ingiuria usano violenza; ed esso diviene a dimostrare la seconda
- spezie, la quale esso chiama i «fraudolenti», che non con violenza
- manifesta, come i sopradetti, ma con fraude e occultamente s’ingegnano
- di fare altrui ingiuria. Dice adunque: «La frode»; che cosa sia fraude
- si mostrerá appresso nel principio del diciassettesimo canto; «onde»,
- dalla quale, «ogni coscienza è morsa», cioè offesa, «Può l’uomo
- usare». Intende qui l’autore di dimostrare esser due spezie principali
- di fraude, delle quali dice l’una esser quella fraude la quale si
- commette contro a coloro li quali non si fidano di colui che poi con
- fraude l’inganna; e l’altra esser quella che si commette contra coloro
- li quali si fidano di colui che poi fraudolentemente gl’inganna; e
- perciò vuole queste due spezie di fraudolenti ne’ due seguenti cerchi,
- li quali sono li due ultimi dello ’nferno; e vuole nel superiore, il
- quale è il secondo de’ tre predetti, sien puniti que’ fraudolenti li
- quali ingannano chi di lor non si fida, e nell’inferiore, il quale è
- il piú profondo dello ’nferno, sien puniti i fraudolenti, li quali
- ingannano chi si fida di loro. E però dice: «Può l’uomo usare», fraude,
- «in colui», cioè contra colui, «che si fida», e questa è l’una spezie
- e la peggiore, «E», puolla ancora usare, «in quello che fidanza non
- imborsa». cioè con tra colui il quale non ha fidanza nel fraudolente.
- «Questo modo di dietro», cioè d’ingannare chi non si fida, «par che
- uccida», cioè offenda, «Pur lo vincol d’amor, che fa natura», cioè
- quel legame col quale la natura tutti ci lega e costrigne a doverci
- amare, in quanto tutti siamo animali d’una medesima spezie e discesi
- da un medesimo principio; «Onde», cioè per la qual cagione, «nel
- cerchio secondo», de’ tre di sopra dimostrati, che dice che son sotto
- quei sassi, «s’annida», cioè l’è data per istanza, sí come all’uccello
- il nido, «Ipocrisia, lusinghe e chi affattura; Falsitá, ladroneccio
- e simonia, Ruffian, baratti e simile lordura»: delle quali tutte
- partitamente si dirá, dove appresso de’ tormenti attribuiti ad esse si
- tratterá.
- «Per l’altro modo». cioè per l’usar frode in colui che d’altrui si
- fida, «quell’amor s’oblia», cioè si mette in non calere, «Che fa
- natura», del quale poco dianzi è detto, «e», obliasene, «quel», amore,
- «ch’è poi aggiunto», al naturale, o per amistá o per benefici ricevuti
- o per parentado; «Di che», cioè delle quali cose, «La fede spezial
- si cria», cioè la singulare e intera confidenza che l’un uomo prende
- dell’altro, per singulare amicizia congiuntogli: «Onde», cioè, e
- perciò, «nel cerchio minore», de’ tre sopra detti, «ov’è il punto»,
- cioè il centro, «Dell’universo» (piú volte s’è di sopra detto il centro
- della terra essere centro di tutto il mondo, cioè del cielo ottavo
- e degli altri cieli e degli elementi tutti), «in su che Dite siede»
- fondata, sí come tutte l’altre cittá e edifici, li fondamenti delle
- quali, se con diritta linea si tireranno al centro della terra, tutti
- si troveranno sovra quello esser fondati o fermati. O puossi intendere
- per lo Lucifero, il quale ha quel medesimo nome, secondo i poeti, che
- ha la cittá sua, cioè Dite, il quale, come nella fine del presente
- libro si vedrá, dimora sí in sul centro della terra bilanciato, che
- egli non può né piú in su farsi, né piú in giú scendere, percioché
- il piú in giú non v’è. Adunque, secondo che l’autor vuole, in questo
- cerchio ultimo, «Qualunque trade», cioè fraudolentemente adopera contro
- a colui che di lui si fida, «in eterno è consunto», cioè tormentato.
- E cosí ha ottimamente l’autore distinti e dichiarati i tre cerchi, li
- quali Virgilio dice essere sotto a quei sassi, li quali presente a sé
- gli dimostra.
- «Ed io:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto,
- nella quale l’autore muove un dubbio a Virgilio, domandando perché i
- peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá
- di Dite, piú che quegli de’ quali di sopra ha parlato; e primieramente
- concede assai bene essere stato dimostrato da lui quello che detto
- ha de’ tre cerchi inferiori, dicendo: «Ed io:—Maestro, assai chiaro
- procede La tua ragione», nel dimostrare, «ed assai ben distingue
- Questo baratro», cioè questo inferno, il quale è da quinci in giù,
- «e», similmente distingue bene, «il popol che ’l possiede», cioè i
- peccatori li quali in esso son tormentati. «Ma dimmi: Que’ della palude
- pingue», cioè gl’iracundi e gli accidiosi, li quali son tormentati
- nella palude di Stige, la quale cognomina «pingue» per la sua grassezza
- del loto e del fastidio il quale v’è dentro; e quegli «Che mena il
- vento», cioè i lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, «e»
- quegli «che batte la pioggia», cioè i golosi, li quali sono di sopra
- nel terzo cerchio, «E» quegli «che s’incontran con sí aspre lingue»,
- cioè gli avari e’ prodighi, li quali sono nel quarto cerchio (e dice
- «si scontran con sí aspre lingue», cioè mordaci, in quanto dicono
- l’un contro all’altro:—«Perché tieni?»—e«Perché burli?»—). «Perché
- non dentro della città roggia», cioè rossa per lo fuoco, il quale,
- facendola rovente, la fa di nera divenir rossa, «Son e’ puniti», come
- son costoro, de’ quali tu mi ragioni, «se Dio gli ha in ira?», cioè se
- Dio è adirato contro a loro; «E se non gli ha», in ira, «perché sono a
- tal foggia?»,—cioè puniti, come di sopra abbiam veduto.
- «Ed egli a me». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella
- quale Virgilio, mostrandogli la ragione per la quale quello avviene di
- che egli domanda, gli solve il dubbio mossogli. Dice adunque: «Ed egli
- a me» (_supple_), rispose, alquanto commosso e dicendo:—«Perché tanto
- delira,—Disse—lo ’ngegno tuo da quel ch’e’ suole?», cioè, perché
- esce tanto della diritta via piú che non suole? «_Lira lirae_» sí è il
- solco il quale il bifolco arando mette diritto co’ suoi buoi, e quinci
- viene «_deliro deliras_», il quale tanto viene a dire quanto «uscire
- dal solco»; e però, _metaphorice_ parlando, in ciascuna cosa uscendo
- della dirittura e della ragione, si può dire e dicesi «delirare».
- E cosí qui vuol Virgilio dire all’autore: tu suogli nelle cose
- dirittamente giudicare; questo perché avviene ora, che tu non giudichi
- cosí? E perché questo suole avvenire dall’una delle due cose (cioè il
- non giudicar dirittamente delle cose e però muoverne dubbio), o per
- ignoranza o per l’aver l’animo impedito d’altro pensiero, e perciò
- segue: «Ovver la mente», tua, «dove altrove mira?». E, questo déttogli,
- gli ricorda quello di che esso si dovea ricordare, ed, essendosene
- ricordato, non avrebbe mosso il dubbio, e dice: «Non ti rimembra di
- quelle parole, Con le quai la tua _Etica_ pertratta».
- _Etica_ è un libro, il quale Aristotile compose in filosofia morale,
- il quale Virgilio dice qui all’autore esser «suo», non perché suo
- fosse, come detto è, ma per darne a vedere questo libro fosse
- familiarissimo all’autore e ottimamente da lui inteso: e tratta
- Aristotile in piú luoghi di queste tre disposizioni, e massimamente nel
- settimo. E quinci segue: «Le tre disposizion», d’uomini, «che il ciel
- non vuole», cioè recusa, sí come reprobi e malvagi. E quinci dimostra
- quali quelle disposizioni sieno, dicendo: «Incontinenza»: questa è
- l’una per la qual noi dagli appetiti naturali inchinati e provocati,
- non potendo contenerci, pecchiamo e offendiamo Iddio; «malizia»: questa
- è l’altra disposizione la quale il ciel non vuole, e questa non procede
- da operazion naturale, ma da iniquità d’animo, ed è dirittamente contro
- alle virtù, secondo che Aristotile mostra nel sesto dell’_Etica_;
- ma in questa opera intende l’autore questa malizia esser gravissimo
- vizio e opposto alla bontà divina, come appresso apparirà; «e la matta
- Bestialitade?»: e questa è la terza disposizione che ’l ciel non vuole.
- Questo adiettivo «matta», pose qui l’autore piú in servigio della
- rima, che per bisogno che n’avesse la bestialità, percioché bestialità
- e mattezza si posson dire essere una medesima cosa. È adunque questa
- «bestialità» similmente vizio dell’anima opposto, secondo che piace ad
- Aristotile nel settimo dell’_Etica_, alla divina sapienza, il quale,
- secondo che l’autor mostra di tenere, non ha tanto di gravezza quanto
- la malizia, sí come nelle cose seguenti apparirà. «E come incontinenza
- Men Dio offende», che non fanno le due predette, «e piú biasimo
- accatta?» negli uomini, li quali il piú giudicano delle cose esteriori
- e apparenti, percioché le intrinseche e nascose son loro occulte, e per
- questo non le posson cosí biasimare e dannare; e i peccati, li quali
- noi commettiamo per incontinenza, son quasi tutti negli occhi degli
- uomini, dove gli altri due il piú stanno serrati nelle menti di coloro
- che li commettono, quantunque poi pure appaiono; e sono, oltre a ciò,
- piú rade volte commessi che quegli degli appetiti carnali, li quali
- continuamente ne ’nfestano. «Se tu riguardi ben questa sentenza», cioè
- che la incontenenza offenda meno Iddio che l’altre due; «E rechiti alla
- mente chi son quegli Che su di fuor», della cittá di Dite, «sostengon
- penitenza», per le colpe commesse; «Tu vedrai ben perché da questi
- félli». cioè malvagi, «Sien dipartiti», percioché tu conoscerai questi
- cotali, de’ quali io ti dico che di fuor di Dite son puniti, tutti
- esser peccatori, li quali hanno peccato per incontinenza; «e perché men
- crucciata La divina giustizia li martelli»,—cioè tormenti; e dice «men
- crucciata», imitando nel parlare il costume umano, il quale quanto piú
- di cruccio porta verso alcuno, tanto piú crudelmente il batte.
- —«O sol, che sani». Qui comincia la quinta parte di questo canto,
- nella quale l’autor muove un dubbio a Virgilio, e prima capta la
- benivolenza sua con una piacevole laude, la quale gli dá, dicendo:—«O
- sol, che sani ogni luce turbata». Sono le nostre luci alcuna volta
- turbate dalle tenebre notturne, percioché, stanti quelle, alcuna
- cosa veder non possiamo; sono, oltre a questo, turbate da’ vapor
- grossi surgenti della terra, li quali impediscono il riguardo di
- quello, e non lasciano andar molto lontano; sono ancora impedite e
- turbate dalle nebbie e da simili cose, le quali tutte il sole rimuove
- e purga, percioché col suo salire nel nostro emisperio esso caccia
- le tenebre notturne (e cosí pare per la sua luce essere agli occhi
- nostri restituito il benificio del vedere, il quale turbato aveva la
- notturna tenebra), poi co’ suoi raggi esso ogni vapore e ogni nebbia
- risolve, e con questo ne fa il cielo espedito a poter in ciascuna parte
- liberamente guardare, quanto alla virtú visiva è possibile: e cosí pare
- aver sanata, cioè nella sua propria virtú rivocata, ogni luce turbata
- da alcuno de’ predetti accidenti. Cosí adunque, _metaphorice_ parlando,
- dice l’autore a Virgilio, intendendo per la chiaritá delle sue
- dimostrazioni cessarsi della mente sua ogni dubbio, il quale offuscasse
- o impedisse la luce dello ’ntelletto; e però segue: «Tu mi contenti sí,
- quando tu solvi», cioè apri e dimostri la ragion delle cose, le quali,
- a me occulte, mi son cagion di dubitare; «Che non men che ’l saver,
- dubbiar m’aggrata», per udir le tue chiare dimostrazioni. «Ancora un
- poco indietro ti rivolvi,—Diss’io», e questo fa’, accioché tu mi
- dichiari,—«lá dove di’ ch’usura offende La divina bontade» (la qual
- cosa ha detta di sopra, quivi dove dice: «Del segno suo, e Sogdoma e
- Caorsa), e ’l groppo solvi»,—cioè il dubbio, il quale mostrava l’autor
- d’avere, in quanto non discernea perché l’usuraio offendesse la natura
- e l’arte, le quali son cose di Dio, come dimostrato è di sopra.
- —«Filosofia,—mi disse». Qui comincia la sesta parte del presente
- canto, nella quale l’autore mostra come da Virgilio gli sia soluto il
- dubbio mosso, dicendo:—«Filosofia,—mi disse», Virgilio,—«a chi la
- ’ntende, Nota», cioè dimostra, «non pure in una sola parte», ma in
- molte, «Come natura». È qui da sapere che, secondo piace a’ savi, egli
- è «_natura naturans_», e questa è Iddio, il quale è d’ogni cosa stato
- creatore e produttore; ed è «_natura naturata_», e questa è l’operazion
- de’ cieli potenziata e creata da Dio, per la quale ciò, che quaggiú si
- produce, nasce. E di questa seconda intende qui l’autore, dicendo che
- questa natura naturata «lo suo corso prende Dal divino intelletto», in
- quanto piú non adopera, se non quanto conosce essere della ’ntenzion di
- Dio; e percioché essa prende quindi il suo movimento all’operare, cosí
- ancora da quello, in quanto puote, prende la forma dell’operare: per la
- qual cosa l’autor dice: «e da sua arte». L’arte del divino intelletto
- è il producere ogni cosa perfetta e a certo e determinato fine; e in
- questo s’ingegna quanto può la natura d’imitarla, e fallo secondo la
- disposizione della materia suggetta, la quale, percioché è finita, non
- può ricevere intera perfezione, come riceve la materia sopra la quale
- se esercita la divina arte; ché, se ricevere la potesse la natura
- naturata, producerebbe cosí i nostri corpi perpetui, come l’arte divina
- produce l’anime. Nondimeno essa ogni cosa, la quale essa produce,
- produce a certo e determinato fine; ma non è questo fine della qualitá
- che è il fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso fa con la
- sua arte: percioché il fine al quale Iddio produce le cose, le quali
- esso compone. è ad essere eterne; ma la natura le produce al fine di
- dovere alcuna volta venir meno, cosí come veggiamo che fanno tutte le
- cose prodotte da lei.
- Segue adunque l’autore: «E se tu ben la tua _Fisica_ note», cioè
- riguardi e tieni a mente: e dice «la tua _Fisica_», come di sopra fece
- dell’_Etica_; percioché Aristotile, non l’autore, fu quegli che compose
- il libro della _Fisica_; «Tu troverrai», esser dimostrato, «non dopo
- molte carte», nel secondo libro di quella, «Che l’arte vostra», cioè
- quella che appo voi mortali se esercita, «quella», cioè la natura,
- «quanto puote Segue», in quanto, secondo che ne bastano le forze
- dello ’ngegno, c’ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esempio
- ricevono, fare ogni cosa simile alla natura, intendendo, per questo,
- che esse abbiano quegli medesimi effetti che hanno le cose prodotte
- dalla natura, e, se non quegli, almeno, in quanto si può, simili a
- quegli, sí come noi possiam vedere in alquanti esercizi meccanici.
- Sforzasi il dipintore che la figura dipinta da sé, la quale non è altro
- che un poco di colore con certo artificio posto sopra una tavola,
- sia tanto simile, in quello atto ch’egli la fa, a quella la quale
- la natura ha prodotta e naturalmente in quello atto si dispone, che
- essa possa gli occhi de’ riguardanti o in parte o in tutto ingannare,
- facendo di sé credere che ella sia quello che ella non è; similmente
- colui che fará una statua; e il calzolaio, quanto piú conforme fará
- la scarpetta al piede, miglior maestro è reputato: intendendo sempre
- in questo che, medianti questi esercizi e le forze degl’ingegni,
- séguiti quel frutto all’artefice che a noi séguita dell’operazion della
- natura, la quale in ogni sua operazione per alcuni mezzi, sí come
- per istrumenti a ciò atti, è fruttuosa. E perciò aggiugne l’autore
- le parole seguenti, dicendo l’arte nostra seguire la natura «come il
- maestro fa il discente», cioè come lo scolaro fa il maestro; per che
- dice Virgilio: «Sí che vostr’arte a Dio quasi è nepote», cioè figliuola
- della figliuola; percioché la natura è figliuola di Dio, in quanto sua
- creatura, e l’arte nostra è figliuola della natura, in quanto si sforza
- di somigliarla, come il figliuolo somiglia il padre. Ma dice «quasi», e
- questo dice peroché propriamente dir non si può la nostra arte essere
- nepote di Dio, percioché conviene che la successione sia simigliante a’
- suoi predecessori; il che della nostra arte dir non si può, in quanto
- ella è in molte cose difettiva, dove Iddio in tutte è perfettissimo.
- E, questo detto, per esemplo dimostra cosí dovere essere, come di
- sopra ha detto, dicendo: «Da queste due», cioè da natura e da arte,
- «se tu ti rechi a mente Lo _Genesi_», quello libro il quale è il
- primo della Bibbia, «dal principio», del mondo, «conviene» all’umana
- generazione, «Prender sua vita», dall’un di questi, cioè dall’arte;
- percioché Adam, secondo alcuni vogliono, fu lavorator di terra, e
- cosí Cain suo figliuolo, e Abel fu pastore, e, per doversi poter
- nell’opportunitá sostentare, preson queste arti; e cosí, mediante la
- terra e il bestiame, della fatica e dello ingegno loro traevano il
- frutto del quale si sostentavano; «ed avanzar la gente», prendendo
- questa parte della natura, la quale mediante le congiunzion de’ maschi
- e delle femmine, produce gli animali secondo la loro spezie; e cosí ad
- Adam e ad Eva convenne per la lor congiunzione avanzare, cioè producere
- e multiplicar la gente. Ma «perché l’usuriere»; chiamasi «usuriere»,
- percioché vende l’uso della cosa la qual di sua natura non può fare
- alcun frutto, cioè de’ danari: «altra via tiene», in quanto fa quello
- che detto è, cioè che i denari faccian frutto, li quali di sua natura
- in alcuno atto far non possono, e perciò tiene altra via che non fa la
- natura o l’arte; appare assai manifestamente che esso «Per sé», cioè
- dall’una parte, «natura» (_supple_) dispregia e ha a vile, «e per la»,
- cioè dall’altra parte, «sua seguace», cioè l’arte, la quale è, come di
- sopra è mostrato, seguace della natura, «Dispregia», e cosí offende
- le cose di Domeneddio, «poiché in altro pon la spene», cioè in altra
- spezie d’avanzare e d’accumular danari.
- [Lez. XLIII]
- «Ma seguimi oramai». Qui comincia la settima e ultima parte del
- presente canto, nella quale l’autore discrive per due dimostrazioni
- l’ora del tempo o del dí. Dice adunque Virgilio, poi che dichiarato
- ha il dubbio mossogli: «Ma seguimi oramai»; quasi voglia dire: assai
- abbiam parlato sopra la materia del tuo dubbio; aggiugnendo ancora:
- «ché ’l gir mi piace». E soggiugne piacergli l’andare per l’ora che
- era, la qual dimostra primieramente dal luogo del sole, il qual
- discrive esser propinquo all’orizzonte orientale del nostro emisperio,
- e cosí essere in sul farsi dí; e dimostralo per questa discrizione:
- «Che i Pesci guizzan», cioè quel segno del cielo il quale noi chiamiamo
- «Pesci».
- Ad evidenza della qual discrizione è da sapere che tra gli altri
- cerchi, li quali gli antichi filosofi immaginarono, e per esperienza
- compresero essere in cielo, n’è uno il quale si chiama «zodiaco»; ed è
- detto zodiaco da «_zoas_», _quod est_ «_vita_», in quanto da’ pianeti,
- li quali di quel cerchio, movendosi, non escono, prendon vita tutte le
- cose mortali; ed è questo cerchio non al diritto del cielo, ma alla
- schisa, in quanto egli si leva dal cerchio chiamato «equante», il qual
- divide igualmente il cielo in due parti: verso il polo artico ventitré
- gradi e un minuto, e altrettanto dalla parte opposita declina verso il
- polo antartico. E questo cerchio divisero gli antichi in dodici parti
- equali, le quali chiamaron «segni»; percioché in essi spazi figurarono
- con la immaginazione certi segni o figure, contenuti e distinti da
- certe stelle da lor conosciute in quel luogo, e quegli nominarono e
- conformarono a quegli effetti, a’ quali piú inchinevole quella parte
- del cielo a producere quaggiú tra noi cognobbono; e il primiero
- nominarono «Ariete», e il secondo «Tauro», e il terzo «Gemini», e cosí
- susseguentemente infino al dodicesimo, il quale nominaron «Pesci».
- È il vero che essi gli discrissero al contrario del movimento del
- cielo ottavo; e questo fecero, percioché, come il cielo ottavo con
- tutti gli altri cieli insieme si muove naturalmente da levante a
- ponente, cosí quegli segni, o l’ordine di quegli, procede da ponente a
- levante, percioché per esso cerchio, nel quale i predetti segni sono
- discritti, fanno lor corso tutti e sette i pianeti, e naturalmente
- vanno da ponente a levante: per la qual cosa segue che, essendo il sole
- nel segno d’Ariete e surgendo dall’emisperio inferiore al superiore,
- si leverá prima di lui il segno de’ Pesci, e in esso sará l’aurora;
- e cosí vuol qui l’autore dimostrare per i Pesci, li quali dice che
- guizzano, cioè surgono su per l’orizzonte orientale, dimostrar la
- prossima elevazion del sole, e cosí essere in su il farsi dí. Ma,
- percioché questa dimostrazione non bastava a dimostrar questo tanto
- pienamente (e la ragione è perché il segno de’ Pesci potrebbe essere
- stato in su l’orizzonte occidentale, e cosí dimostrerebbe esser vicino
- di doversi far notte), aggiunge l’autore la seconda dimostrazione, la
- quale stante, non può il segno de’ Pesci, essendo in su l’orizzonte,
- dimostrare altro se non il sole esser propinquo a doversi levare
- sopra ’l nostro emisperio; e avendo detto: «i Pesci guizzan su per
- l’orizzonte», cioè su per quel cerchio che divide l’uno emisperio
- dall’altro, il qual si chiama «orizzonte» (che tanto vuol dire quanto
- «finitore del nostro vedere», percioché piú oltre veder non possiamo),
- dice: «E ’l carro tutto sovra il coro giace».
- Ad intelletto della qual dimostrazione è da sapere che, comeché il
- vento non sia altro che un semplice spirito, creato da esalazioni
- della terra e da fredde nuvole esistenti nell’aere, egli ha nondimeno
- tanti nomi, quante sono le regioni dalle quali si conosce esser mosso,
- e quinci molti per molti nomi il nominarono; ma ultimamente pare per
- l’autoritá de’ navicanti, li quali piú con essi esercitano la loro
- arte, essere rimasi in otto nomi, e cosí dicono essere otto venti: de’
- quali il primo chiamano «settentrione» ovvero «tramontana», percioché
- da quella plaga del mondo spira verso il mezzodí; il seguente chiamano
- «vulturno» ovvero «greco», il quale è tra ’l settentrione e ’l levante;
- il terzo chiamano «euro» o «levante», percioché di levante spira verso
- ponente; il quarto chiamano «euro auster» ovvero «scilocco», il quale
- è tra levante e mezzodí; il quinto chiamano «austro» ovvero «mezzodí»,
- percioché dal mezzodí soffia verso tramontana; il sesto chiamano
- «libeccio» ovvero «gherbino», il quale è tra ’l mezzodí e ’l ponente;
- il settimo chiamano «zeffiro» ovvero «ponente», percioché di ver’
- ponente spira verso levante; l’ottavo chiamano «coro» ovvero «maestro»,
- il quale è tra ponente e tramontana. E chiamasi coro, percioché compie
- il cerchio, il quale viene ad essere in modo di coro, cioè di quella
- spezie di ballo il quale è chiamato «corea». Adunque dice l’autore
- sopra questo coro giacere allora, cioè esser tutto riversato, il carro;
- la qual cosa mai in quella stagione, cioè del mese di marzo, ad alcuna
- ora avvenir non può, né avviene, se non quando il sole è vicino a
- doversi levare; e cosí questa dimostrazione ne fa aver certa fede di
- quello che intenda l’autore per la primiera.
- Ed è questo carro un ordine di sette stelle assai chiare e belle,
- le quali si giran col cielo, non guari lontane alla tramontana; e
- per ciò sono chiamate «carro», perché le quattro son poste in figura
- quadrata a modo che è un carro, e le tre son poi distese, nella guisa
- che è il timone del carro, fuor del carro. E sono queste sette stelle
- poste nella figura d’uno animale, il quale gli antichi tra piú altri
- figurarono, immaginando essere in cielo, chiamato «Orsa maggiore», a
- differenza d’un’altra Orsa, la quale è ivi propinqua, e chiamasi «Orsa
- minore»; nella coda della quale è quella stella la qual noi chiamiamo
- «tramontana».
- E, poiché Virgilio gli ha per queste discrizioni mostrato ch’egli è
- vicino al dí (donde noi possiam comprendere giá l’autore essere stato
- in inferno presso di dodici ore, percioché egli si mosse in sul far
- della notte, come nel principio del secondo canto del presente libro
- appare), ed egli gli soggiugne un’altra cagione, per la quale l’andare
- omai gli piace, dicendo: «E’l balzo», di questa ripa, «via lá oltre»,
- lontan di qui, «si dismonta»,—volendo per questo, che non sia da star
- piú, poiché molta via resta ad andare.
- In questo canto non è cosa alcuna che nasconda allegoria.
- CANTO DECIMOSECONDO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. XLIV]
- «Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente
- canto al precedente assai evidentemente, percioché, avendogli
- mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dello ’nferno, e
- sollecitandolo a continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano
- a loro smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual
- fosse la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi
- il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la
- qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello
- trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di
- quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio
- gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse;
- nella quarta mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che ’l fiume
- circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice
- come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni
- e de’ rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato
- l’autore dall ’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La
- seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma ficca
- gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta quivi: «Noi
- ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si rivolse». Dice adunque:
- «Era lo loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove
- venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva», intendendo
- per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno distinzione tra
- «riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del fiume, e «ripa» gli argini
- che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in
- luoghi declivi, per li quali d’alcun luogo alto si scende al piú basso,
- come era in questo luogo. E dice questo luogo essere «alpestro», cioè
- senza alcun ordinato sentiero o via, sí come noi il piú veggiamo i
- trarupi dell’alpi e de’ luoghi salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch’è
- «tal, per quel ch’ivi er’anco», cioè per lo Minotauro, che in quel
- luogo giacea come appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe
- schiva», a doverlo riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo,
- nel dimostra per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella
- ruina, che nel fianco Di lá da Trento l’Adice percosse».
- È questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di
- Lombardia, verso Tiralli su per l’Adice, la quale alla sommitá d’un
- monte discende tutta in su la riva dell’Adice. E la cagione di questa
- ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose: o l’essere
- stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale,
- scendendo delle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con
- velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual non
- è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o veramente
- cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada,
- come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per mancamento di sostegno.
- È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre
- acqua, la quale, evaporando e umettando le parti superiori delle
- caverne, sempre le rodono e indeboliscono; per che avvien talvolta che,
- premute molto dal peso superiore, non potendolo sostener piú, cascano,
- e cosí casca quel che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le
- voragini, le quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.
- E avendo adunque l’autor detto: «l’Adice percosse», pone l’altre due
- cagioni per le quali poté avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per
- sostegno manco». È il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre
- della terra, il quale, essendo molto e volendo uscir del luogo nel
- quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall’una
- parte all’altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti
- tremare; ed è talvolta il triemito di tanta potenza, che egli fa cadere
- gli edifici e le cittá, alle quali egli è vicino.
- Séguita poi l’autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualitá
- del luogo, e dice: «Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde
- si mosse», quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia
- discoscesa, Ch’alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi
- su fosse», cioè sopra ’l monte: «Cotal di quel burrato»; «burrati»
- spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi alpigini
- e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo, dove
- venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte trarupato che
- dimostrato ha; «E ’n su la punta», cioè in su la sommitá, «della rotta
- lacca», cioè ripa, «L’infamia di Creti era distesa», cioè il Minotauro,
- la cui concezione fu sí fuori de’ termini naturali e abominevole, che
- all’isola di Creti, nella quale esso fu, secondo le favole, generato,
- ne seguí perpetua infamia; «Che fu concetta», questa infamia di
- Creti, «nella falsa vacca», cioè in una vacca di legno, come appresso
- dimostrerò.
- [È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro,
- dove si tratta di Minos, è detto, che, volendo Minos andare sopra gli
- ateniesi a vendicare la morte d’Androgeo, suo figliuolo, il quale essi
- e’ megarensi avevano per invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre,
- che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna
- vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli
- mandò un toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos
- che esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti
- suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del
- Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo marito, e
- agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con Marte, fece che
- Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s’innamorò di questo toro
- cosí bello; e, andato Minos ad Atene, ella pregò Dedalo, il quale era
- ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse
- giacere con questo toro. Per la qual cosa Dedalo fece una vacca di
- legno vota dentro, e, fatta uccidere una vacca, la qual parea che oltre
- ad ogni altra dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di
- quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro
- e stare in guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata
- da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si
- creò, e poi nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro.
- Il qual cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa
- forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata
- «laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali voleva
- far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed
- essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto Teseo, figliuolo
- d’Egeo, re d’Atene, e quivi dimorato alcun dí, e in quegli Adriana,
- figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di lui, e avendo avuta la
- sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl’insegnò
- come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro
- ad uno spago se ne tornasse fuori della prigione. La qual cosa Teseo
- fece; e, giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece
- incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa,
- la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d’un
- bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da
- Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito
- del laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente
- partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa
- favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il qual
- dice:]
- «E quando», quel Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse,
- Si come quei», si morde, «cui l’ira dentro fiacca», cioè rompe e divide
- dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente
- incrudelisce.
- Ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere
- qual sia la qualitá de’ peccatori, che nel cerchio dove discendono
- si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere
- bestiale, poiché, per l’animal preposto al luogo, convenientemente,
- sí per la generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive.
- Appresso è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio
- settimo opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è
- dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con
- atti o con parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per
- paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte
- sarebbe stato rimosso, se i buoni conforti e l’aiuto della ragione non
- l’avesse, nella persona di Virgilio, aiutato.
- Séguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa
- fiera bestia mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio
- desse di passare all’autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio
- gridò», cioè parlò forte verso il Minotauro: «—Forse Tu credi, che
- qui sia ’l duca d’Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti
- porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene.
- «Partiti, bestia», del luogo dove tu se’ per impedire il passo a
- costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non viene
- Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne Teseo, il
- qual t’uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per veder le vostre
- pene»,—di te e degli altri.
- E, queste parole dette, ne mostra l’autore per una comparazione quello
- che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel
- toro, che si slaccia», cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da
- coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, «in quella»,
- ora, «C’ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché,
- avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la ragione
- delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l’ordine dell’appetito, il
- quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e perciò non va, «ma
- qua e lá saltella», come l’impeto del dolore il sospigne; «Vid’io il
- Minotauro far cotale», cioè senza saper che si fare, o dove andare,
- andar saltando e furiando; «E quegli», cioè Virgilio, «accorto gridò»,
- cioè avvedutamente mi disse:—«Corri al varco», donde vedi si può
- discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava; «Mentre
- ch’è ’n furia, è buon che tu ti cale», quasi voglia dire: quando in
- furia non fosse, sarebbe piú difficile il poter discendere; e in
- ciò n’ammaestra alcuno altro consiglio non essere migliore, quando
- l’iracundo in tanta ira s’è acceso che furioso è divenuto, che il
- partirsi e lasciarlo stare.
- «Cosí prendemmo». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
- nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella
- scesa gli ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo
- il Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali
- erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose
- che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie’ piedi per
- lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e premeva,
- percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e però dice
- «nuovo carco», perché non era usato per quel cammino d’andare persona
- viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse.
- «Io giá pensando»: qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier
- dell’autore per avviso, non giá che altra certezza n’avesse, e però
- dice: «e que’ disse:—Tu pensi Forse a questa ruina, ch’è guardata Da
- quell’ira bestial, ch’io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo
- riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle
- alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E oltre
- a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe alcun dire:
- se quello Minotauro era iracundo, non pare che l’autore il dovesse in
- questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella palude di Stige,
- dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio assai ben si mostra
- soluto per l’adiettivo il quale dá a questa ira, chiamandola «ira
- bestiale». La quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i
- termini dell’ira umana, che ella è trasandata nella bestialitá, e per
- conseguente convertita in ostinato odio; e perciò attamente esser posta
- alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali.]
- Ma Virgilio, a solvere l’autore del suo pensiero [il qual, tacendo,
- confessa esser per quella cagione che Virgilio dice], comincia,
- continuandosi cosí: «Or vo’ che sappi che, l’altra fiata Ch’io discesi
- quaggiú nel basso inferno», come di sopra è stato detto nel canto nono,
- «Questa roccia non era ancor cascata»; e perciò gli dimostra quando
- avvisa che ella dovesse cascare, dicendo: «Ma certo poco pria, se ben
- discerno», immaginando, «Che venisse colui», cioè Cristo, «che la gran
- preda», cioè i santi padri, «Levò a Dite», cioè al principe de’ dimòni
- (il quale, quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è
- chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’_Eneida_, dove
- dice: «_inferni regia Ditis_»), «del cerchio su perno», cioè del limbo,
- il quale è il primo cerchio dello ’nferno.
- E perciò dice Virgilio:—Poco prima che venisse Cristo a spogliar il
- limbo,—percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in
- su la croce all’ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l’altre cose
- che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente tremò,
- che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando tutta,
- tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer
- maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo tempo fu
- poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l’anima di Cristo
- non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in paradiso, si
- come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette su
- la croce al ladrone: «_Amen, dico tibi, hodie mecum eris in paradiso_»,
- ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l’aurora,
- risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria
- coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò
- il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal tremuoto universale
- allo spogliar lo ’nferno, quanto fu tra l’ora nona del venerdí e la
- prima della domenica. E questo è quel «poco prima» che Virgilio dice
- qui.
- Poi séguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho
- giá dichiarato, cioè: «Da tutte parti», e in questo ne dimostra
- l’universalitá del tremuoto, «l’alta», cioè profonda, «valle feda»,
- puzzolente d’inferno, «Tremò sí», cioè oltremodo, «ch’io pensai che
- l’universo», cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».
- Qui è da ritornarsi alla memoria l’opinione, la quale di sopra
- raccontai nel canto quarto essere stata di Democrito, il qual tenne
- esser due princípi a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva
- in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le
- cose, la quale egli appellava «caos», e in questa materia diceva essere
- i semi di tutte le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa
- e distinta forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos e
- perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere
- odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate,
- quasi come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí: come
- ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, cosí dopo
- molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e
- riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale
- aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto
- ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e univa col
- suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli sentí questo
- tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito né avea udito da
- alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi credette che l’universo,
- cioè tutte le cose, sentissero questo amore, che detto è, e dovessersi
- ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma
- risoluto.
- E quinci, volendo mostrare questa non essere sua opinione, ma d’altrui,
- dice: «per lo quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi
- seguaci, «Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che
- di sopra è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale
- fu, «questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come
- appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal fece
- riverso», qual tu puoi vedere.
- [Lez. XLV]
- «Ma ficca gli occhi». Qui, finita la seconda parte, comincia la terza
- del presente canto, nella quale l’autor discrive come Virgilio gli
- mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse; e dice
- che, poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella
- roccia, alla quale esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle,
- ché s’approccia La riviera», cioè il fiume o ’l fosso, «del sangue, in
- la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo;
- «Qual che per violenza in altrui noccia»,—rubando o uccidendo; e cosí
- appare questa essere la prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra
- è detto. La qual riviera del sangue come l’autor vide, cosí contra i
- vizi, da’ quali si può comprendere questa spezie di violenza esser
- causata, leva la voce, ed esclamando dice:
- «O cieca cupidigia», cioè disiderio d’avere; e cosí apparirá radice di
- questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra,
- dove dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito
- d’avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a
- dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual
- si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza e
- bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori;
- percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono, o
- da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all’uccisione, e cosí
- fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue adunque:
- «Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in numero singulare,
- si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione,
- («O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla seconda parte («o ira
- folle»), «nella vita corta», cioè in questa vita mortale, la quale, per
- rispetto della eternitá, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe
- dire essere un batter di ciglia; «E nell’eterna poi», cioè in quella
- nella quale, cosí peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio
- dannati, «sí mal c’immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento
- de’ miseri, li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in
- questo condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa
- peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura
- compunzione e dolore.
- Ma poi che egli ha detto contro a’ due vizi, li quali son cagione
- della violenza che nelle cose e nella persona del prossimo si commette,
- ed egli piú appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i
- miseri son puniti, dicendo: «Io vidi un’ampia fossa», cioè un fiume,
- «in arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio,
- «abbraccia», col girar suo, «Secondo ch’avea detto la mia scorta». Dove
- questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse
- tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui averlo detto in
- alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l’autore non l’avere
- scritto. «E tra ’l piè della ripa», la quale circundava il luogo,
- «ad essa», fossa, «in traccia, Venien centauri armati di saette»,
- (_supple_) e d’archi (percioché invano si porteria la saetta, se l’uomo
- non avesse l’arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare a
- caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui posti,
- si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.
- «Vedendoci calar». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
- nella quale, poi che l’autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove
- si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’
- centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto
- per guida. Dice adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci»,
- percioché l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le
- pietre di quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i
- piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per
- maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire,] «calar»,
- cioè discendere, «ciascun», de’ centauri, «ristette, E della schiera
- tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed asticciuole», cioè
- saette, «prima elette», cioè tratte del turcasso o d’altra parte, ove
- per avventura le portavano. «E l’un», di que’ tre, «gridò da lungi:—A
- qual martiro Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci», ove
- voi siete, «se non», (_supple_) il direte, «l’arco tiro»;—quasi voglia
- dire: io vi saetterò.
- «Lo mio maestro disse:—La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel
- centauro il quale è preposto di voi. E poi, in detestazion della sua
- troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva
- fatto al Minotauro, dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí
- tosta»,—cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse:—Quegli», al quale io
- ho ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe’ di sé
- la vendetta egli stesso»,—posciaché fu morto.
- [Fu questo Nesso, tra’ centauri famosissimo, figliuolo d’Issione
- e d’una nuvola, come gli altri, ed essendo insieme co’ fratelli in
- Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di
- vivanda e vino, volle tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della
- quale si levò Teseo, amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava
- lapiti, e ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso,
- gli disse un de’ suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva
- vaticinare:—Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire,
- percioché la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercule.—Per
- la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e quivi allato ad un fiume
- chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo di
- Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta moglie
- d’Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la patria,
- trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e
- vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse
- prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira; e fattosi
- avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercule, disse: —Ercule, dove tu
- creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la
- groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira.—Alla qual
- profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando Ercule, Nesso
- con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a
- fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato, e pervenuto all’altra
- riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo.
- Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente, percioché sapea le
- saette d’Ercule tutte essere intinte nel sangue della idra, la quale
- uccisa avea, e casi essere velenosissime, pensò in vendetta della sua
- morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camiscia, la
- quale giá era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito della sua
- piaga, disse:—Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in
- riconoscenza del grande amore il quale io t’ho portato e porto, se non
- questa mia camiscia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli
- avvenga che Ercule in altra femmina ponga amore, dove tu possi fare
- vestirgli questo vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da
- ogni altra femmina, e ritornerallo in te.—Deianira, credendo questo
- dovere esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo,
- avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una
- giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito, re d’Etolia, occultamente
- adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a
- cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi e
- sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello, liquefatto,
- gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia addosso, che esso,
- composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò dentro e
- in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sé
- egli stesso.]
- [La bella Deianira fu figliuola d’Oeneo, re di Calidonia, e fu
- ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani
- nobili la disiderarono e domandaron per moglie; ma, dopo molte cose,
- essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad
- Ercule domandantela, nacque guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo
- Acheloo vinto da Ercule, ne rimase Ercule in pacifica possessione.
- Dice Teodonzio che la guerra, la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume,
- fu in questa maniera, che, rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e
- per questo molto alcuna volta per le piove la provincia, crescendo,
- guastasse, fu ad Ercule, addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre
- di lei, questa condizione, che egli la poteva avere dove recasse
- Acheloo in un solo alveo, e quello sí d’argini forti chiudesse, che
- egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule
- con grandissima fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato
- corso d’ Acheloo, ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è
- detto, che ad Ercule mandò la camiscia di Nesso.]
- «E quel», centauro, «di mezzo ch’al petto si mira. È ’l gran Chirone,
- il qual nudrí Achille». [Questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione,
- ma fu, secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira,
- comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della sua
- origine si recita questa favola: che Saturno, preso della bellezza
- di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice Servio, che,
- giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis, sua moglie, e
- perciò, accioché da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò
- in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo,
- partorí un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi
- in giú era cavallo; il qual cresciuto, se ne andò alle selve e in
- quelle abitò e in quelle nudrí Achille, come di sopra si disse, dove
- d’Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi, essendo stato dal
- padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe, sua figliuola
- profetante, predetto che esso ancora disidererebbe d’esser mortale;
- avvenne che, avendolo visitato Ercule, per caso gli cadde sopra il piè
- una delle saette d’Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano
- avvelenate nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed
- essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato,
- accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar
- gl’iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse morire: la
- qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo la morte sua
- fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco,
- ed è quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario.]
- «Quell’altro è Folo, che fu sí pien d’ira». Di questo Folo niuna cosa
- abbiamo se non che esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli
- altri centauri.
- «Dintorno al fosso», nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a
- mille a mille, Saettando quale anima», de’ miseri dannati, «si svelle
- Del sangue», cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste
- parole, e ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la
- violenza commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio
- voluto l’anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.
- «Noi ci appressammo a quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli
- «fiere», percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno
- strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la barba»,
- la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»; e ciò fece,
- accioché essa non impedisse le sue parole.
- «Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, Disse ai compagni:—Siete voi
- accorti Che quel di dietro», che era l’autore, «muove», co’ piedi, «ciò
- che tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de’ morti», cioè
- dell’anime partite da’ corpi morti.
- «E ’l mio buon duca, che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due
- nature», cioè l’umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione,
- «Rispose:—Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché
- egli è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien la
- valle buia», d’inferno; «Necessitá il conduce», in quanto, come altra
- volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella quale va l’autore,
- andare a chi vuole uscire della prigione del diavolo; «e non diletto»,
- ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.
- «Tal si partí da cantare _alleluia_»: e questa fu Beatrice, la quale,
- lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al
- soccorso dell’autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato
- detto.
- [«_Alleluia_» è dizione ebraica, e secondo alcuni è «_interiectio
- laetantis_»; ma Papia dice che «_alleluia_» in latino vuol dire «laude
- di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre
- a ciò, questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno:
- «cantate a colui il quale è», e cosí c’invita alla laude di questo
- Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a
- quegli iddii li quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci
- tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede
- e umanitá, e cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno
- loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte
- mostrare.]
- «Che mi commise quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare
- uom vivo per lo ’nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco
- avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi»,
- mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice:
- «Non è ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché
- nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi
- dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali
- son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor
- condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che
- trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú,
- per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la
- virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo»,
- cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e
- «Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui
- in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto
- che per l’aer vada»,—come fo io e gli altri.
- «Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio,
- «E disse a Nesso:—Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare,
- «s’altra schiera v’intoppa»,—cioè vi si scontra, di centauri.
- [Lez. XLVI]
- «Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella
- quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice
- l’autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene
- de’ tiranni e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta
- fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del
- sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte
- strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue
- bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli
- occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse:—E’ son tiranni»,
- quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier
- nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell’aver», del
- prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi
- si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle
- persone e nell’avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io
- ti dico che piangono, «è Alessandro».
- Non dice l’autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li
- quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono
- tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia
- voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo,
- chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.
- Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia,
- e d’Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non
- fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto,
- il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella
- dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo
- non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá
- Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli
- addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra;
- né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di
- Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso
- Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane
- di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si
- sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra
- contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede
- opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava
- non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con
- quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non
- solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E, pervenuto in
- Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di
- Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere
- i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi
- avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d’Asia; e,
- non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li
- tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti
- con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú
- volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e’
- figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato
- ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in
- Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi
- reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò
- in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate
- in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette
- opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si
- discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni,
- navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo gran pericolo
- vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali estimò piú
- valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in
- Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un re chiamato Ambigeri, lui,
- ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse; e di quindi
- venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume
- chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia,
- dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E, mentre
- che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori
- de’ cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di
- Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano
- in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte
- si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I romani non vi
- mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo _Ab urbe condita_
- quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto
- resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani
- e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato. Quivi in
- Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato
- veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne
- fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.
- Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai
- appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune
- degli uomini, ma de’ regni e delle libertá degli uomini, violentissimo;
- e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma
- ancora degli amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’
- conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote
- assai convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in
- questo ardentissimo sangue esser dannato.
- «E Dionisio fèro, Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo
- che Giustino scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo,
- e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia
- dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu
- adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro _De quaestionibus
- Tusculanis_, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e
- similmente d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo
- la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per
- che ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto
- che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo
- uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui,
- nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa
- e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana,
- chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi
- mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre riguardando
- andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso
- e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella
- domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose
- celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui
- essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e, come egli fosse
- sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna
- il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo
- di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto
- Dionisio in signore de’ siracusani, e tutti i cittadini a vederlo
- nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti;
- Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide, altamente
- disse:—Questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove;—il
- che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo
- per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del
- tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo
- che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra
- a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con
- grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e
- guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in
- compagnia quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta.
- Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di
- cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti
- debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto
- anni regnato.
- Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel
- modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo
- e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna
- giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del
- sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato
- con certi giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre
- ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali
- eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore,
- in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo. Della qual
- fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun
- barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a
- radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando,
- fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o
- di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i
- peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali
- l’una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá
- di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse
- che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la
- camera nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto
- un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato
- l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle
- comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante,
- salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di
- sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori
- di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna
- volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue
- ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza delle cose e la
- magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di
- lui; gli disse Dionisio una volta:—O Damocle, percioché io m’accorgo
- che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia
- fortuna?—Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo,
- comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi
- ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una
- ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi,
- li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e
- quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere
- soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a
- Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí
- ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato
- con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra
- la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle
- pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi
- servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano
- alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le
- preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con
- sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella
- beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua
- beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.
- Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de’
- beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego.
- Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e
- rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e
- avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi,
- li quali con lui erano:—Vedete voi come buon navicare sia conceduto
- dagl’iddii a’ sacrilegi?—E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio
- un mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno
- di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l
- verno troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’
- detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua
- d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove
- si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi piú
- mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era
- scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando le prendeva,
- sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti doni d’oro e care
- cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi
- sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano
- ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle;
- stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli
- preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti
- aver detto.
- E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto
- Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi, che ucciso avevano
- il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di
- tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la
- signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá
- pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici
- facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa
- tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a
- pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver
- l’animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro
- si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e
- ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né
- polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere
- da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá
- fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma,
- uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la
- cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i
- siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due,
- se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra
- a’ siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme,
- sperante d’arricchire della preda e della ruberia della cittá, di
- prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo
- stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna
- della battaglia, mandò ambasciadori a’ siracusani, promettendo che
- esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li
- quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i
- siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della cittá, esso,
- ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani,
- mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per
- la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e
- vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò
- esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni
- suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensi
- come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la
- ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi
- incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva
- rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi per forza
- menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui
- piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro; oltre a ciò
- li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere,
- e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta
- la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per
- segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che
- mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione
- contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto
- per patti fatti co’ siracusani, lasciata la signoria, povero e misero
- n’andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi
- alle piú infime e misere cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con
- vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si
- diede a insegnar giucare alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa
- vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua
- vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver
- del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e
- percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente
- l’autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti
- nel dimostra.
- «E quella fronte, c’ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama
- Musatto padovano in una sua tragedia _Ecerino_, ed è quello Azzolino,
- il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il
- cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli
- fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno
- nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la
- signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini
- e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente
- de’ padovani, de’ quali ad un’ora avendone nel prato di Padova
- rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di
- questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio,
- o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo
- segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo
- far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel
- palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva
- ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di
- sé.—Adunque—disse Azzolino,—avendomi il diavolo fatte molte grazie,
- io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di
- costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te,
- poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro,
- e nominatamente da mia parte gliele presenta.—E, fattolo menar lá
- col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente,
- avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere
- Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente essergli
- venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter
- passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto
- per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio,
- e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone
- in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né
- bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente
- seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come
- mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.
- [Lez. XLVII]
- «E quell’altro, ch’ è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu
- spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno
- che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu
- fatto per la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la
- violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con
- l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella
- la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e,
- appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne
- cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui
- stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l’autor
- mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo
- Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo
- figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d’Opizzo averlo
- conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo
- l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento», cioè morto, «dal
- figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide
- e rubatori il dimostra esser dannato.
- «Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò
- che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’
- disse:—Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo».—E
- vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a
- quel che dice.
- «Poco piú oltre il centauro s’affisse Sovr’una gente che ’nfino alla
- gola Parca che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo
- nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il
- quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da
- quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in
- questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di
- quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».
- «Mostrocci un’ombra dall’un canto sola. Dicendo:—Colei fesse in
- grembo a Dio, Lo cor, che ’n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion
- di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia
- il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo,
- fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a
- Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a
- riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon
- pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che,
- essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad
- udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il
- corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte;
- e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re
- Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme,
- quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa
- uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto
- avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte
- Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e,
- secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere
- disse:—Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro
- padre fu strascinato.—Per le quali parole il conte, tornato indietro,
- prese per li capelli il morto corpo d’ Arrigo, e quello villanamente
- strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo,
- senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte
- Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere
- in questo cerchio dannato. E in quanto l’autor dicesse «fesse»,
- intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè
- nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è
- in quella, dee casi essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora
- legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore
- essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor,
- che ’n su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte.
- Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con
- molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a
- Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di
- pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una
- colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato
- Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna,
- questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta
- al detto Arrigo e alla real casa d’Inghilterra. E quegli che dicono
- questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta
- statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: «_Cor
- gladio scissum do cui sanguineus sum_»; cioè: «io do il cuor fesso col
- coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d’un
- medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli
- altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l’autore che
- questo cuore d’ Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola»,
- cioè onora; e viene da _colo, colis_; e pertanto dice che egli s’onora,
- in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e
- alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte
- passano, riguardato.
- «Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente,
- «tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte
- del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per
- istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da
- una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla
- destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo
- digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché
- in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al
- battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere, e
- mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú
- vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre
- che seguono, comprendere, secondo il piú e ’l meno avere violentemente
- ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel
- sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto
- fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur non ne nomina alcuno.
- «Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor
- fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli
- che dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del
- fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo
- passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.
- E, passati che furono:—«Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti
- siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu
- vedi, non cuopre piú su che i piedi: «—Disse ’l centauro,—voglio
- che tu credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam
- venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo,
- «infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a
- quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché
- egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del
- sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia
- di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta,
- «Quell’Attila, che fu flagello in terra».
- Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re
- de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo
- fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la
- lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse
- cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in
- animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine
- de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro,
- con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella
- qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra,
- che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo
- predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la
- qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro
- al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda
- volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e
- terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombadia, similmente
- molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la
- quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san
- Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino
- a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa,
- avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia
- farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra
- esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece.
- Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú
- cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il
- Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare
- verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né
- per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura
- dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco
- appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in
- que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che
- egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila,
- il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta
- reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea;
- a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta,
- ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea
- veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano
- un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse
- quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e
- l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia;
- e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata
- Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa
- nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la
- notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come
- altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l’affogò,
- e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a
- Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte
- medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l’arco
- d’Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser
- morto, e la mattina seguente a piú de’ suoi amici il disse; e poi si
- ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto. Fu
- costui cognominato «_flagellum Dei_», e veramente egli fu flagello di
- Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze
- degl’italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale
- igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il
- capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte
- in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare
- e punire le iniquitá degl’ italiani, le quali in tanto ogni dovere
- eccedevano, che esse erano divenute importabili.
- Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila,
- li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano
- imperadore, il qual fu promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive
- Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu
- suo successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni
- di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino
- di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá
- regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in
- Italia da Giustino, sconfitto e morto.
- «E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali
- l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli
- epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore,
- pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché
- l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio
- facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del
- primo Pirro.
- Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille
- e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille
- morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato
- dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era
- solo e di notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui
- cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo
- che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante
- dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno,
- il qual fu tirato in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di
- quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza,
- trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite,
- suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse;
- e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio
- alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando
- all’etá né al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra
- l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie
- stata d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo
- consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli
- stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò
- una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de’ molossi, li quali
- dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo
- di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che
- alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena,
- stata sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo
- di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive.
- Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste
- gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive,
- essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far
- dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d’Ercule,
- la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra
- maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo,
- o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni
- in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari
- dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque
- nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote
- del tempio d’Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in
- vendetta della ingiuria fattagli d’Ermione.
- Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo
- d’Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase
- in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini,
- per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo
- di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí
- di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non
- fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio,
- e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re
- degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o
- per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili
- opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor
- grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender
- guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame
- occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo
- sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece
- figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono
- l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d’etá
- d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori,
- li quali infino all’etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual
- poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da’ tarentini venne in
- Italia contro a’ romani; e ancora chiamato in Cicilia da’ siragusani,
- quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso
- estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò
- in Epiro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone
- Antigono re. Poi, avendo giá levato l’animo a voler prendere il reame
- d’Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d’Argo in
- Acaia, fu d’in su le mura della cittá percosso d’un sasso, il quale
- l’uccise.
- Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia
- dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del
- primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può
- comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e
- crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque
- occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu
- nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore
- ne’ suoi esercizi.
- «E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere
- fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e
- Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio
- Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco
- Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e
- molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli,
- raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi
- tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad
- infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva
- di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna,
- intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a
- Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale
- essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella
- pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli
- eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica.
- Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente
- Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle
- parti d’Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia
- contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian
- Cesare ancora combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso
- Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo
- e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse
- in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente
- trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse
- Pompeo e’ suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e
- Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia.
- Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in
- Cicilia, e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al
- detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente
- commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di
- centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse
- diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte
- parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi,
- con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in
- Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio,
- e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò
- comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi,
- fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente
- preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento
- raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell’altrui sostanze e vago
- versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente,
- secondo che qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato.
- «Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col
- bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu
- messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione,
- e ladrone famosissimo ne’ suoi di, gran parte della marittima di Roma
- tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier
- Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente
- pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie
- operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle
- strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi
- veniva.
- «Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente
- canto, nella quale l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro
- dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte
- portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo:
- «Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato
- l’avea, «e ripassossi ’l guazzo», cioè quel fossato del sangue.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Lez. XLVIII]
- «Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi
- utili e sani consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie
- temporali intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i
- supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli
- l’ordine degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá
- de’ peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce
- a vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli
- che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente
- usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel
- cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l’autore
- accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma
- d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale
- primieramente presuppone l’autore essere stata vera la favola di
- sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú
- leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però,
- questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo
- Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai
- bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente
- de’ bestiali.]
- [Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse
- questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere
- come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella
- favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di
- Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima
- nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole.
- Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito concupiscibile e
- dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di
- complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole
- alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare
- il fervore dell’ira. Questi due appetiti, quantunque l’anima nostra
- infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione,
- non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non
- curando il consiglio della ragione, s’inchina a compiacere ad alcuno di
- questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia
- e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá
- ne’ vizi naturali. Da’ quali non correggendosi, le piú delle volte
- si suole lasciare sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti
- bestiali, li quali son fuori de’ termini degli appetiti naturali,
- percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di
- peccare carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci
- talvolta: ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione,
- pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura,
- come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si
- trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è l’uno
- de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo
- chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare ne’ disideri
- bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il
- Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell’uomo, in
- quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in
- quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali.]
- [I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella
- lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono,
- esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e
- appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono
- da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine,
- il quale serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di
- permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa
- bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo
- dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume
- ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno
- nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte
- divorano con denti leonini o d’altro feroce animale, quante le rubano,
- ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque
- molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L’altro
- costume di questa bestia dissi ch’era l’esser crudelissimo: il qual
- costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle
- proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente
- si vede, quantunque crudel cosa sia l’uccidere e il rubare altrui,
- quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch’è il confonder
- le cose proprie e all’uccidere se medesimo, percioché questo passa
- ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo
- costume ne disegna l’autore in questo animale la seconda spezie de’
- violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l’esser
- fieramente furioso: e questo terzo costume s’appropria ottimamente alla
- colpa della terza spezie de’ violenti, li quali, in quanto possono,
- fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle
- naturali leggi o contro al buon costume dell’arte adoperando: e contro
- a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la
- furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e
- renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo
- terzo costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]
- E, poiché la ragione ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi
- effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno
- quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e
- gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle
- cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali
- violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú
- e ’l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e,
- oltre a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina
- giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con
- saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue
- che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano
- e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in
- parte assai agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole
- che in quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi
- furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue
- umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la
- divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono
- a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia
- che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno
- punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si
- possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e
- soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa la giustizia saettare
- a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori
- de’ loro scellerati comandamenti, li quali l’autore intende per li
- centauri: [de’ quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa
- non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]
- [È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato
- Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui,
- secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo,
- e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde
- egli insuperbito per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di
- richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò
- a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di
- sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non
- altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con
- questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove,
- sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone,
- ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone:
- per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno,
- e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la
- quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se attentamente
- riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del
- tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché
- tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno
- saettino.]
- [Fu adunque, secondo le istorie de’ greci, Issione oltre modo
- disideroso d’occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si
- sforzò d’ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno
- intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna
- volta la ’ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea
- de’ regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e
- i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto
- di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che
- essa aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è
- fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, si come l’aere, si converte in
- tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion del
- sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e condensati
- nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa
- al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da
- alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è
- in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del
- sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere convertita in piova.
- Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra’
- termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in
- quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo
- per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si
- possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto
- colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come
- il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso
- comandi e sia ubbidito da’ suoi come è il re. Ma, si come tra ’l chiaro
- aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra
- ’l re e ’l tiranno: l’aere è risplendente e cosí è il nome reale,
- la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re
- è amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real
- trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria
- intorniato d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’
- sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi
- signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento
- de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura
- d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e il
- tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone l’anima
- sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali
- cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi
- e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere
- per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá,
- se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il
- tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla
- quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si
- risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]
- [Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella
- finzion della favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che
- Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire
- essere ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse,
- sí come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi,
- la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali,
- secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente
- paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a
- loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo
- tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo
- queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora
- Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna
- ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d’alcuno
- regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la
- nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de’ quali
- incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d’arme, di
- superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí
- come noi veggiamo essere i masnadieri e’ soldati e gli altri ministri
- delle scellerate cose, alle forze e alla fede de’ quali incontanente
- ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]
- [E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono
- essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di
- Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono
- cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati
- «centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios»
- in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento
- aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro
- sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú
- tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia
- potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del
- nome de’ centauri.]
- [E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli,
- racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò
- avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia
- fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga,
- il detto re comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li
- quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e
- giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel
- fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono
- da quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la
- parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano usi
- di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e
- mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la
- figurazion di costoro.]
- [Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro
- essere nati d’Issione, cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle
- sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi
- mostrammo; le quali sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali
- si mungono e traggono gli stipendi, de’ quali i soldati in loro
- disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le
- dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è
- impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere
- convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi
- cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze
- e le ingiurie a’ sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte
- sono ministri e facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí
- come costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí
- sieno alla lor punizione.
- Potrebbesi ancor dire che l’autor avesse voluto intendere, per
- gli stimoli delle saette de’ centauri ne’ violenti, s’intendessero
- le sollecitudini continue de’ tiranni, le quali si può credere che
- abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per
- l’avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al
- tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi
- suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma,
- comeché nella presente vita si sia, nell’altra si dee intendere le
- saette, da questi centauri saettate ne’ violenti, essere l’amaritudine
- della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie
- opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell’arme; e cosí
- coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono,
- con le mani de’ quali versarono il sangue del prossimo, rubarono
- le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori,
- tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.
- CANTO DECIMOTERZO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Lez. XLIX]
- «Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede
- qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella
- fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero
- alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e
- ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non
- essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrano per un bosco,
- della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo
- canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel
- quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la
- quale ebbe l’autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio
- si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli
- è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella
- terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a
- certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de’ primi
- equali; nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito che spezie
- di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla.
- La seconda comincia quivi: «E ’l buon maestro»; la terza quivi: «Noi
- eravamo»; la quarta quivi: «Quando ’l maestro».
- Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all’altra riva del fiume,
- «Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun
- sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere
- essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente
- non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di
- necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi
- viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, _per antiphrasim_,
- quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in
- latino sono chiamati «_sentes_», conciosiacosaché in essi sentieri
- alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri»
- dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché
- tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi
- e spine.]
- «Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco;
- e questa è l’altra cosa per la quale vuole l’autore si comprenda
- questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il
- quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e
- ’nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o
- abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero
- i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v’eran, ma stecchi con
- tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della
- salvatica qualitá del bosco.
- Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza
- d’esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due
- dimostrazioni: e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene
- di fiere salvatiche, conosciute dagl’italiani; e l’altra mostra dalla
- qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí
- aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi, «Quelle fiere selvagge»,
- le quali stanno nelle selve poste tra’ due confini, li quali appresso
- disegna; «che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè
- lavorati.
- Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio,
- in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle
- selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le
- selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e
- vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno
- i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due
- ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un
- braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel
- mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale
- appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi
- quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure
- tra’ due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli,
- nelle quali dice l’autore non essere «sí aspri sterpi», percioché
- sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose
- ch’e’ pruni: e i due termini, tra’ quali dice esser queste selve cosí
- orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto,
- il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci
- quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l’altro è Corneto, il
- quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il
- quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del
- padre di Dardano, re di Troia.
- Appresso, mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere
- il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra
- l’altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso
- fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie
- lor nido fanno»; e, accioché d’altra spezie d’uccelli non intendessimo,
- ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che
- cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno».
- E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come
- sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi
- umani, Piè con artigli e pennuto ’l gran ventre; Fanno lamenti in su
- gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché
- son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.
- Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i
- troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza
- della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo
- verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate
- Strofade; e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai,
- e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero
- uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti
- davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora
- bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione
- a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le
- spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro,
- chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse:
- —Voi, troiani, per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche
- guerra, e volete della loro patria cacciare l’arpie: ma io, secondo che
- io ho da Apollo, v’annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in
- Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell’ingiuria, la quale
- n’avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella
- voi mangerete le mense vostre.—Col quale «tristo annunzio di futuro
- danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia
- navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate
- Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le
- dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d’Arcadia,
- seguite da Zeto e d’Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento,
- fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate
- Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie
- si dirà alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del
- presente canto si dimostrerá.
- E cosí avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualitá di questo
- bosco, séguita: «E ’l buon maestro»; dove comincia la seconda parte
- di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale
- ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e
- parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi
- e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in
- nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella
- seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai e non vede da cui;
- nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva;
- nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta
- lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e
- domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella
- ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna
- se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La
- seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la
- quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E ’l tronco suo»; la
- sesta quivi: «S’egli avesse»; la settima quivi: «E ’l tronco:—Si»; la
- ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».
- Dice adunque: «E ’l buon maestro», disse:—«Avanti che piú entre»,
- infra questo bosco, «Sappi che se’ nel secondo girone»,—cioè nella
- seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda
- spezie de’ violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li
- lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire,—e
- sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione», sopra ’l quale si
- punisce la terza spezie de’ violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai
- Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono
- gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e
- dolersi.
- Per le quali parole l’autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia
- d’ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda
- principale di questo canto, nella quale l’autore si maraviglia d’udire
- trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d’ogni parte»,
- di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che ’l facesse,
- Per ch’io tutto smarrito m’arrestai». E questo smarrimento avvenne,
- percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono
- di que’ bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò
- che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli
- guai venivano, dicendo: «Io credo ch’ei credette», Virgilio, «ch’io
- credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que’ bronchi. Da
- gente che per noi si nascondesse».
- «Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda
- principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da
- questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo
- credere che esso credesse ecc.):—«Se tu tronchi Qualche fraschetta
- d’una d’este piante, Li pensier c’hai», cioè che quegli che traggono i
- guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran
- tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè
- invalido e impotente ad alcuna operazione.
- «Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo
- canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue:
- «Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po’ avante,
- E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era,
- come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.
- «E ’l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda
- di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e
- però dice: «E ’l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o
- ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco
- suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò:—Perché
- mi schiante?».—E queste parole paiono assai dimostrare la parte
- schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata,
- comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che
- fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno,
- per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò
- a gridar:—Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?».
- Quasi voglia qui l’autore mostrare avere i dannati compassione l’uno
- delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non
- sapeva che l’autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli
- nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo:
- «Uomini fummo», nell’altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa;
- «Ben dovrebb’esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi
- schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché
- crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso
- loro non s’usasse alcuna pietá.
- Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che
- maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d’un stizzo
- verde, ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro», capo, «geme»,
- acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma
- ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare:
- «E cigola per vento che va via».
- Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con
- le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò
- quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá
- del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il
- fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello, che v’è
- terreo, converte in terra. Ma dell’umido e dell’aere non avvien cosí,
- percioché, essendo l’umido, si come da suo contrario, cacciato dal
- fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li
- pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire
- fuori alcun romore: l’aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto,
- gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto
- insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza
- di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir
- vogliamo; e, convertito dall’impeto in vento, va via.
- Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva
- insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond’io
- lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e
- stetti come l’uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma
- Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e
- a sodisfare all’offeso e a rassicurar l’autore, dicendo:
- —«S’egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte
- principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è.
- Dice adunque:—«S’egli avesse potuto creder prima», che egli avesse
- schiantato questo ramuscello—«Rispose il duca mio,—anima lesa», cioè
- offesa, «Ciò c’ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con
- la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera
- cosí ordinare: «Il duca mio rispose.—O anima lesa, se egli avesse
- prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe
- egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa
- incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva,
- «mi fece Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa», cioè a schiantare quel
- ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè
- in luogo, «D’alcuna ammenda», all’offesa la qual fatta t’ha, «tua fama
- rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel
- mondo sú, dove tornar gli lece»,—cioè è lecito, sí come ad uomo che
- ancora vive e non è dannato.
- «E ’l tronco:—Sí». Qui comincia la settima parte della seconda
- principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e
- però comincia: «E ’l tronco:—Sí col dolce dir», cioè con la soavitá
- delle tue parole, «m’adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto
- m’imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch’io non posso
- tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e
- voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch’io un poco a ragionar
- m’inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente
- potrá rinfrescare la fama mia.
- «Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito
- chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna
- circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza
- la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella
- il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra
- la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai
- ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s’intenda questa
- sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle
- Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto
- sentimento e d’ingegno; e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso
- dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare
- quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto
- in cancelliere dell’imperador Federigo secondo, appo il quale con la
- sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello ’mperadore
- celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e
- grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto
- assai poteva apparire costui tanto potere dello ’mperadore, che nel
- suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli
- era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando
- essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale
- di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni
- dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere
- false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo ’mperadore
- questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo
- stato dello ’mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello ’mperadore
- rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace
- dimostrazione fatta dagl’invidi vedere allo ’mperadore, che esso vi
- prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in
- prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo
- dello ’mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente
- credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o
- altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo
- abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo
- signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male
- che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto
- gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto
- serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o
- perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar
- si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor
- s’accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il
- guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo:—Voi
- siete per me’ la chiesa di San Paolo in riva d’Arno;—il che poi che
- udito ebbe, disse al fanciullo:—Dirizzami il viso verso il muro della
- chiesa.—Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso
- impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso
- che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in
- questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi
- il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale
- disperazione l’autore, sí come contro a se medesimo violento, il
- dimostra in questo cerchio esser dannato.
- Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di
- Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il
- quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo ’mperadore di
- qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e
- serrano i serrami, cosí io apriva il volere e ’l non volere dell’animo
- di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí
- soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo
- quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni.
- E, questo detto, vuoi dimostrare che meritamente avea ogni altro
- tolto dal segreto dello ’mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso
- ufizio», cioè d’essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir
- lui essere l’imperadore, «Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi».
- Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol
- mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza
- fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera
- fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle
- quali si comprendono le qualitá de’ movimenti del cuore, e in queste
- piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore
- è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé
- averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí
- assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che
- gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d’altra cosa, ne
- fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione,
- la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi.
- E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua
- morte, dicendo: «La meretrice», cioè la ’nvidia, la quale perciò
- chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine
- le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo
- che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si
- sottomettono, cosí la ’nvidia aver per merito il disfacimento di colui
- al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non
- s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al
- luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poiché qui cosí
- efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che
- di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]
- [Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in
- questa forma:
- _... Domus est imis in vallibus huius_
- _abdita, sole carens, non ulli pervia vento:
- tristis et ignavi plenissima frigoris et quae
- igne vacet semper, caligine semper abundet._
- E poco appresso séguita:
- _... Videt intus edentem_
- _vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,
- invidiam, visamque oculis avertit: at illa
- surgit humo pigre, semesarumque relinquit
- corpora serpentum, passuque incedit inerti._
- E poco appresso:
- _Pallor in ore sedens, macies in corpore toto,
- nusquam recta acies, livent rubigine dentes,
- pectora felle virent, lingua est suffusa veneno:
- risus abest, nisi quem visi fecere dolores;
- nec fruitur somno, vigilantibus excita curis:
- sed videt ingratos, intabescitque videndo,
- successus hominum; carpitque et carpitur una:
- suppliciumque suum est_, ecc.]
- [Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno
- vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi
- veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il
- giudicio dello ’nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo
- ’nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno
- in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò,
- nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non
- luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna
- cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d’alcuno,
- ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, si come quello nel
- quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi
- cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de’ suoi
- pensieri e de’ suoi divisi appetiti, de’ quali, miseramente aspettando,
- esso pasce la dolorosa anima.]
- [Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa
- possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto
- colui che compreso n’è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al
- quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso
- sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta
- sia la forza della passione, la quale dentro l’affligge, in tanto
- che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la
- magrezza.]
- [E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne
- dimostra il giudicio dello ’nvidioso esser perverso, e contro ad ogni
- ragione e dirittura; e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il
- rado uso che allo ’nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli
- quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e
- l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira,
- ci si dichiara mai nel petto dello ’nvidioso seccarsi o venir meno,
- ma sempre vivere e starvi verde l’iracundia, la qual sempre, sí come
- offeso dall’altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento
- di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre
- bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello
- ’nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai
- stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto
- questo, non ride mai lo ’nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e
- sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse,
- con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i
- lieti avvenimenti degli uomini.]
- E, percioché nelle corti de’ gran prencipi han sempre di quegli che
- sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora
- che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione
- ricevuta per l’altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion
- riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú
- quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore questa
- meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte,
- dall’ospizio dello ’mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle
- corti.
- Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come
- qui nel testo si dimostra, dove dice l’autore: «La meretrice», cioè la
- ’nvidia, «che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti»,
- cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d’ogni uomo, cioè vizio
- deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè
- accese, «gli animi tutti», de’ cortigiani; «E gl’infiammati infiammâr
- sí Augusto», cioè lo ’mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti
- per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu
- privato della grazia dello ’mperadore e dell’uficio e del vedere, e
- cacciato via. «L’animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come
- di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e,
- «Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno
- d’avere ricevuta la repulsa dello ’mperadore; «Ingiusto fece me»,
- tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me
- giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove
- egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti
- opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto
- dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a
- purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale
- «nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel
- luogo convertito in pianta, «d’esto legno», nel quale voi mi vedete
- trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che
- fu d’onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver
- certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo
- riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del
- colpo, che ’nvidia mi diede»,—quello apponendomi che io mai fatto non
- avea.
- «Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché ’l si
- tace,—Disse ’l maestro mio,—non perder l’ora, Ma parla, e chiedi a
- lui s’altro ti piace»,—di sapere.
- «Ond’io a lui:—Domandal tu ancora Di quel che credi ch’a me
- satisfaccia, Ch’io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá
- m’accora»,—cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l’autore questa
- pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello
- ’nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva
- similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie,
- delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette,
- come di sopra appare.
- «Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda
- parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio
- come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice
- adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò»,
- a parlar Virgilio e dire:—«Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che
- ’l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace,
- ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia»,
- oltre alle cose che dette n’ hai, «Di dirne come l’anima si lega In
- questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi,
- S’alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si
- spiega»,—cioè si sviluppa o si scioglie.
- «Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte
- principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla
- dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda
- e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando
- parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventin bronchi,
- ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto;
- «e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori
- del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè:—«Brievemente sará
- risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla
- domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l’anima feroce»: è l’anima di
- quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera
- di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima
- adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è
- dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo
- ond’ella stessa s’è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo;
- «Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l’autore
- essere esaminatore delle colpe e giudicatore de’ luoghi a quelle
- convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio
- dello ’nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima
- mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l’è parte
- scelta», una piú che un’altra, nella quale ella debba il supplicio
- determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra»,
- la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come
- gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona
- terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di
- queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in
- vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’
- lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la
- vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la
- sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú
- cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli
- alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».
- «L’arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli
- l’arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole
- questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la
- qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che
- fanno l’arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser
- simile a quello che nella presente vita si dá a’ disleali e pessimi
- uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè
- rompendo e schiantando l’arpie le foglie di queste piante, fanno dolore
- all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi.
- E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia
- dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono; a tôr via
- il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo
- dolor sentono (e che l’autore aveva udita, senza vedere chi se la
- facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice
- che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al
- dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l’uscita alle dolorose
- voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.
- E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè
- «s’alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l’altre» anime
- verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi
- «verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono
- «spoglie» dell’anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo;
- «Ma non però, ch’alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie;
- cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna
- delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi
- non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch’uom
- si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta
- cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui»,
- cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre
- a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa,
- «Selva saran li nostri corpi», de’ quali io parlo, «appesi, Ciascuno al
- prun dell’ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua
- dimostrazione.
- [Lez. L]
- [Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo
- spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la
- qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi,
- e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l’ultima
- sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice
- che l’anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne’
- corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla
- nostra fede.]
- [È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole
- a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede,
- percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel _Paradiso_
- manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha
- qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti
- voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di
- recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui,
- sí come quello cotale, ch’è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il
- che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d’una opinione, la
- quale esso non teneva esser vera, compiacere a’ romani, li quali al
- suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro
- dell’_Eneida_ induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna
- volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili
- scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere,
- sua figliuola e madre d’Enea, sí come sollecita degli avvenimenti
- d’Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia,
- dove doveva essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato
- in Cartagine), tra l’altre cose le risponde cosí:
- _His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
- imperium sine fine dedi,_ ecc.;
- e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per
- iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello
- ch’essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí
- come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello ’mperio
- de’ romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della
- _Georgica_, dove dice:
- _Illum non populi fasces, non purpura regum
- Flexit,_ ecc.
- _Non res Romanae, perituraque regna_
- (_supple_) _Romana_, ecc. Il quale imitando l’autore, come in assai
- altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione
- erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa
- opinione ritrar coloro, che l’udiranno, dal detestabile peccato della
- disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura
- della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]
- [È il vero, che che a’ poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare
- che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua
- persona, né in altrui, raccontare o far raccontare _assertive_ alcuna
- erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par
- qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato
- raccontar questo errore.]
- [Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l’autore in
- questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di
- pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna
- coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di
- queste pene «pena illativa», e l’altra «pena privativa». La pena
- illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come
- è tagliargli alcun membro, o farlo d’alcuna spezie di morte morire;
- la pena privativa è quella la quale s’impone nelle cose esteriori di
- colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori,
- negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di
- parte d’alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi
- temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi
- uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque
- esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle
- fiere, questa non è pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui
- rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell’ucciso, questa
- infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia, peroché molto
- maggiore infamia è l’essersi ucciso che non è l’essere poi gittato via
- a guisa d’un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle
- sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva
- d’ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo
- bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se
- medesimo non s’è curato, non si curi d’alcuna altra sua cosa, e quella
- non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale
- è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí
- grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere
- che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa,
- sí come ella è nell’altre anime de’ dannati, e, oltre a ciò, vi sia
- la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si
- può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la
- divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il
- corpo loro, come l’altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il
- riaranno come l’altre. E se forse si domandasse: in che sentono però
- queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l’altre non
- l’hanno? Si può cosí dire: che, come l’anime de’ beati disiderano i
- corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle
- fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro
- insieme partefici della gloria; cosí l’anime dannate ardentemente
- disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti
- delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella
- dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e
- perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d’esser privati,
- sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però
- avvedutamente l’autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle
- anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior
- pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla
- veritá, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto].
- «Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente
- canto, nella quale, poi che l’autore n’ha dimostrato che pena abbian
- coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una
- spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui
- colpe non furono con quelle de’ primieri equali, percioché non in sé
- ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora
- al tronco attesi, Credendo ch’altro ne volesse dire», avendo egli
- finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d’un
- romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una
- comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente
- a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè
- quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta».
- Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in
- quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare
- quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si
- pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia
- cacciata, se n’avvede, per ciò «Ch’ode le bestie», le cacciate e quelle
- che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva,
- «stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de’ cani e
- dei cacciatori.
- «Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla
- sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran
- dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che
- rilegate erano in que’ bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra
- è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra
- cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá
- che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto
- impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati.
- E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli
- verdi d’álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi»
- _(supple)_, gridava:—«Ora accorri, accorri, Morte!»;—nelle quali
- parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura;
- «E l’altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo
- fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava»,
- dicendo:—«Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del
- Toppo».—
- Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane
- sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad
- una brigata d’altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata
- spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente
- con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò
- ch’egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi
- mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de’ fiorentini
- sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v’andarono.
- E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male
- ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono
- assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a
- salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli
- gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso
- d’esser ricchissimo, si mise in fra’ nemici, fra’ quali, come esso per
- avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare,
- gridava quell’altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí
- presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle
- lance, dalle quali fuggito non s’era, potendo; volendo in questo
- ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua
- misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto.
- E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo,
- il discrive l’autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la
- lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la
- morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d’un
- cespuglio», nato d’una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo,
- forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne,
- le quali il seguivano.
- «Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena
- Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch’uscisser di catena.
- In quel che s’appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un
- groppo di sé e d’un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel
- dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del
- dilacerato.
- «Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero
- delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s’era aggroppato,
- «che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de’
- rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che
- esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli
- la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piagnendo
- diceva, cioè:—«O Giacomo—dicea—da Sant’Andrea»; cosí mostra che
- fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.
- Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il
- quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò
- e gittò via; e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta che,
- disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca
- e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria,
- quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso
- molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che
- egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l’autore,
- sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo
- cerchio. E segue poi l’autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che
- dicea il cespuglio: «Che t’è giovato di me fare schermo?», quasi dica:
- niente, percioché tu non se’ scampato da’ denti delle cagne che ti
- seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io
- della tua vita rea?»—cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il
- tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?
- «Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo», cioè sopra questo cespuglio,
- «Disse:—Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero
- schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con
- sangue doloroso sermo?».—
- «E quegli a noi», disse:—«O anime, che giunte», cioè pervenute,
- «Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il
- quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e «C’ha le mie fronde sí
- da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio
- cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde
- egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione,
- dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».
- [Lez. LI]
- A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che
- alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta,
- era signor dell’ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la
- posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio
- Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e
- poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San
- Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre
- in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata
- la veritá evangelica, e lasciato da’ cittadini, divenuti cristiani,
- l’error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio.
- E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore,
- non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del
- ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani
- scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte
- quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta
- torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d’alcuni
- vaticíni de’ loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser
- fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo
- tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla
- cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece
- la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o
- che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in
- Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare;
- poi, riedificata al tempo dello ’mperio di Carlo magno, fu ripescata e
- ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di
- Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita,
- dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in
- capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo
- milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d’ogni uomo, non giá per molte
- gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la
- cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente
- ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi
- né si ritrovò né si ricercò.]
- Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu
- il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni
- Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore
- da’ cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in
- san Giovanni.
- «Ond’e’ per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni,
- «Sempre con l’arte sua la fará trista». In queste parole e nelle
- seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti
- antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con
- battaglie, le quali aspettano all’«arte sua», cioè al suo esercizio,
- abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura.
- [La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere
- che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna
- necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un
- malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre
- essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti
- pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo
- venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’
- nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha
- a dire di questa iniqua opinione, dicendo:] «E se non fosse che ’n
- sul passo d’Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor
- di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben
- dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era
- diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l’acque
- e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi,
- oltre al grosso de’ membri, né dell’uomo né del cavallo alcuna cosa
- si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola
- cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e
- grosso maestro; «Que’ cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra
- ’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè
- invano.
- Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di
- tanta potenza che, per l’esserle quella particella d’onor fatto,
- cioè d’esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia
- conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la
- quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata
- disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è
- grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la
- guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto
- o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d’alcuna, tutto
- il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare
- un’ora.]
- [Ma, percioché dice: «Sovra ’l cener che d’Attila rimase», è da sapere
- che, essendo Attila, re de’ goti, passato in Italia, in esterminio e
- ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia
- e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni
- Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra
- l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che,
- avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere,
- volse l’ingegno agl’inganni, e con molte e false promessioni prese gli
- animi de’ cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere
- loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla
- cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso
- dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini
- della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad
- uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una
- gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata, passava sotto il Capitolio.
- Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per
- avventura sarebbe sentita, se l’acqua della gora, al rimettere in
- Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che
- giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori
- del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad
- alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí,
- quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de’
- fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze,
- chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione,
- comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa
- convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di
- questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l’anno di
- Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata,
- cinquecentoventi anni.]
- [Poi piú volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di
- doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono
- impediti da’ fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, li quali
- estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire,
- sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in
- questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse
- in lor nome, e allo ’mperadore e al popolo di Roma, che con la lor
- forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro,
- e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti
- nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello
- ’mperadore e de’ romani, e ancora de’ discendenti degli antichi
- cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra
- l’arsioni rimase d’Attila, reedificata Firenze, e abitata l’anno di
- Cristo ottocentodue, all’entrata del mese d’aprile.]
- Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse,
- dice di che morte s’uccidesse, dicendo: «Io fe’ giubbetto», cioè
- forche, «a me delle mie case»,—e cosí mostra s’impicasse per la gola
- nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto»,
- percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della
- giustizia sono impiccati. Né è costui dall’autor nominato, credo per
- l’una delle due cagioni: o per riguardo de’ parenti che di questo
- cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e
- perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte;
- ovvero, percioché in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da
- Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa
- apporlo a qual piú gli piace di que’ molti.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Lez. LII]
- «Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel
- superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro, li
- quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per
- lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son
- coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose
- bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli
- che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere
- a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina
- giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e
- che delli loro rami e frondi l’arpie schiantando si pascono: di che
- intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi
- lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare
- i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere
- nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi
- rivestire al dí del giudicio, come tutte l’altre faranno.
- È adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l’autore
- a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime
- nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia
- «vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto
- cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale
- l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam
- noi con l’erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile.
- La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l’anima nostra, avanti
- che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a
- sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa
- potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in
- processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in
- questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le
- bestie e con gli uccelli e co’ pesci e con qualunque altro animale
- ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale
- da Dio n’è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione,
- di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non
- appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli
- organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti;
- e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.
- Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver
- cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá,
- non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché
- l’animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo
- essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza
- di tempo distenderlo; come che d’alcuni si legge essersi giá uccisi,
- non, _prima facie_, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come
- ne scrive Valerio Massimo, _De institutis antiquis_, di quella donna
- antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la
- fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non
- doverla vedere. Alcuni altri _ex proposito_ si sono uccisi per tedio
- della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di
- Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da’ suoi
- servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi
- uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel
- quale Platone scrive _Della eternitá dell’anima_, sfasciatosi e con le
- mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare
- il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente
- vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s’uccisono, sí
- come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in
- Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava
- la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla
- morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente
- e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel
- _Sogno di Scipione_, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».
- Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver
- perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali».
- Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile,
- quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion
- nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il
- quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí
- come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa
- o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure
- animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né
- ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l’autore in forma di
- vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono,
- cioè in forma d’albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di
- stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia
- vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e
- contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.
- Che l’arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser
- questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo
- «arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione
- della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime
- fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e
- rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí
- questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi
- e a far sentire il suo rammarichío. E non solamente gli attristano
- di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi:
- intendendo per questo l’abominevole atto della uccisione aver del tutto
- ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto
- delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante,
- vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare,
- come la quantitá de’ tormentatori s’accresce nidificando e figliando.
- [Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.]
- E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi
- uccisono.
- Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron
- le lor sustanzie, la qual dice che è l’essere i miseri da nere cagne
- seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere
- a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per
- lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sia n continuamente
- afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da
- amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che
- dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi
- cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono
- le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è
- la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le
- infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono
- o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere,
- cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata;
- correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte
- si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro
- spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla
- parte seconda.
- CANTO DECIMOQUARTO
- I
- SENSO LETTERALE
- «Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la
- continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine
- del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva
- aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i
- rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano
- lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra
- come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo
- cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, li quali contro a Dio e
- contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto
- in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual
- dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d’anime
- dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’
- dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta
- Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato
- avea; nella quinta l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse;
- nella sesta Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella
- settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve;
- nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada.
- La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io
- cominciai:—Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta
- quivi: «Or mi vien’ dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l’altro»; la
- settima quivi: «Ed io ancor:—Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse:
- —Omai».
- Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor,
- «del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo
- amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era,
- «ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali avevan
- lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del
- precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea, «a colui»,
- cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era giá fioco», per
- lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si
- parte Lo secondo giron dal terzo», che è all’uscire di questo bosco;
- ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello
- ’nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e
- rigida.
- «A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente
- parlando dichiara, e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in
- una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal
- suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito
- del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del
- settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto,
- «l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo,
- «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è
- circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel
- qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva
- circunda il luogo, nel quale dice pervennero.
- «Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte
- della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo
- di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena». È la rena una
- terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza
- della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e,
- secondo alcuni, è detta «arena» da «_areo ares_», che sta per «esser
- secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l’autor volere che
- venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per
- adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da «_haereo haeres_»,
- il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora
- dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono
- della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e appicca. Ma,
- come detto è, quella della quale l’autore intende qui, è della spezie
- prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli aggettivi della rena,
- come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo
- di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di
- terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice
- che era «Non d’altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena,
- «Che fu da’ piè di Caton giá soppressa».
- Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale
- dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia
- chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui
- romano uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente
- in odio le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare
- e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo,
- non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed
- essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il
- quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo,
- figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano
- quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá
- vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo
- era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua
- moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s’erano
- rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era
- intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise
- con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata
- la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare
- che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è
- la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva
- essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti
- pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l’andar
- troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene
- di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di
- serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per
- lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto
- malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si
- posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu
- tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d’ogni
- disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il
- secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.
- Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone
- e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto
- del _Purgatorio_, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque
- ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò,
- alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.
- [Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per
- tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra ’l cielo della luna e la
- terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana
- generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare,
- considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto;
- percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli
- uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se
- giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa
- opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si
- potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere
- stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione;
- ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi
- che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune
- altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente
- addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi
- corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in
- buona abitudine, e noi poi, col disordinatamente vivere, corrompiamo e
- facciamo infermi.]
- [E che non opera della natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia
- arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra
- volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo
- che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che,
- per opera d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme
- d’alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna,
- e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è
- dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá
- chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al
- mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e
- avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual
- cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere
- convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si
- sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo
- piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e,
- partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano,
- scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno
- profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può
- credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le
- quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d’Asia. E che ciò
- possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che
- Pomponio Mela scrive nella sua _Cosmografia_, nella quale, parlando
- della provincia o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di
- quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore
- e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti
- gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai
- ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò,
- venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella
- contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione,
- ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per
- accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e
- non atta all’uso umano.]
- [Lez. LIII]
- «O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
- nella quale, poiché l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel
- quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e
- dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio».
- [Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti
- altri fanno; percioché vendetta propriamente è quella che gli uomini
- disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da
- alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché
- Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima,
- stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver
- luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e
- assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se
- medesimi fanno, cioè che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore,
- che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non
- buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali
- insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa
- da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò,
- se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi
- diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando,
- è l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol
- «vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]
- «Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro,
- «Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude
- vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien
- tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende
- alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia,
- «diversa legge».
- E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna
- genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col
- viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta
- raccolta», con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di
- questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú
- molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella men,
- che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá;
- «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto
- il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento, Piovean di fuoco dilatate
- falde, Come di neve in alpe senza vento».
- Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello
- che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel
- luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra
- dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra lo
- suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».
- Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che
- l’una è detta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion
- questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno
- col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata
- da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di
- Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú
- occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro
- macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia
- letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor discrive
- qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo
- ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da’ raggi
- solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro,
- o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra
- l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale
- io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che
- di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d’Inghilterra e altri),
- e riguardando all’effetto, possiam comprendere l’autor per questo
- ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello ’nferno
- avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo
- dannati sono.
- Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che
- alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva
- come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide»,
- Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo
- fece «accioché ’l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’
- si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che
- con l’altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale
- ardore», quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la
- rena s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente
- si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad
- accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno
- strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo
- «focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender di
- questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri peccatori
- che sú vi stavano.
- «Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare,
- la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol
- qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e
- però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or
- quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella,
- «Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di
- nuovo piovea.
- «Io cominciai:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente
- canto, nella quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori
- che quivi son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi
- el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io
- cominciai:—Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri,
- Ch’all’entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo
- l’autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole
- vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in
- su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere
- la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la
- divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è
- quel grande, che non par che curi Lo ’ncendio», di queste fiamme, negli
- atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del
- tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle
- fiamme, che continuamente caggiano, «non par che ’l maturi»?—cioè
- l’aumili.
- «E quel medesmo, che si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui,
- Gridò:—Qual io fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette
- parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi
- e l’animo dell’ arrogante; e primieramente in quanto dice che giace
- «dispettoso e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi
- in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i
- presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo
- mostrare sé non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando;
- e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di
- commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale
- egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore
- della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato
- sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente
- orgoglioso, superbo e bestiale.
- E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè
- Iddio, secondo l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino
- all’ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè
- da’ quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí»,
- della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu
- fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta»,
- cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri,
- e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che
- folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i
- fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed,
- oltre a quegli, «Chiamando:—O buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,—a’ fabbri
- miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece alla pugna di Flegra», nella
- quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con
- tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe
- aver vendetta allegra»,—del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.
- [Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere
- che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto,
- Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di rea! verga egli
- portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con
- questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò,
- perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti,
- gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di
- tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi,
- uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio,
- nell’ottavo dell’_Eneida_, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e
- Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano,
- e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre
- parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie
- d’uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di
- corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani
- (li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la
- madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove,
- e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro,
- e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove
- combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli
- fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual
- cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol
- dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]
- Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di
- lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l’opinione di
- colui che dice, percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi
- estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o
- negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e
- che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a
- se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia
- è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero
- che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza
- d’uno imperadore e la bassezza d’un povero uomo, non pare lo ’mperadore
- dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e
- di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono
- prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da
- vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere,
- secondo che Stazio scrive nel suo _Thebaidos_, che poi che Edippo, re
- di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle
- e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia,
- che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l’uno regnasse, l’altro
- andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa
- toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e
- Pollinice se n’andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto
- e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il
- regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il
- re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei
- altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi
- giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v’erano,
- avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran
- rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e
- di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle
- mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite
- e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra
- le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo,
- tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte
- del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella
- cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli
- uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini,
- levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii che
- venissero a combatter con lui, dicendo:—O iddii, non è alcuna delle
- vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o
- Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso
- chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien’ tu, o Giove, piú
- tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d’occorrere alle mie
- forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le
- tue folgori contra di me! tu se’ pur forte a spaventare le paurose
- fanciulle co’ tuoni!—Le quali parole, e forse molte altre, mossero
- gl’iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a
- turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori,
- una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto
- acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual
- parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici:
- e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.
- Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da
- Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza,
- Tanto ch’io non l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo
- punto:—«O Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per
- martirio che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne
- la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la
- tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti rodi di
- te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito».—
- «Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
- nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale
- di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente
- gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato
- a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia»,
- cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí
- superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo:—Quel fu
- l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra
- è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e poco par
- che’l pregi; Ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto
- assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore, trasportando,
- _auctoritate poetica_, in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che
- s’intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi
- sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre
- il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.
- «Or mi vien’ dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
- nella quale l’autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e
- dice: «Or mi vien’ dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda
- che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata
- per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al
- bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’ li
- tenghi stretti»,—cioè accostati.
- [Lez. LIV]
- «Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del
- bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi
- raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando
- veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la
- sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso,
- perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale
- di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel
- prossimo.
- E appresso questo, per una comparazion di scrive la grandezza e ’l
- corso di quello, dicendo: «Quale del bulicame», cioè di quello lago
- bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il
- ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici».
- Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali
- dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come
- questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello
- volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello»,
- che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè
- le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l’acqua,
- «Fatte eran pietra, e i margini d’allato», come nel presente mondo
- fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli
- Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici», dove le pendici
- erano cosí divenute di pietra.
- —«Tra tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
- nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali,
- dicendo:-«Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi
- entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo,
- entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima
- porta dello ’nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.),
- «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo
- presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte
- fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta»,—cioè
- spegne.
- «Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non
- fu», ecc.), «Per ch’io ’l pregai che mi largisse», cioè donasse, «il
- pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la
- piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di
- cui largito m’aveva ’l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.
- Per lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli
- l’origine de’ detti fiumi, cosí:—«In mezzo ’l mar siede un paese
- guasto,—Diss’egli allora,—che s’appella Creta».
- Creti è una isola dell’ Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò
- dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra
- isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e
- cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché
- d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti
- e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu
- dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres».
- Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati
- molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e
- fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della
- contrada.
- E séguita: «sotto’ l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in
- questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che
- Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra
- mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è
- un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua
- signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo
- casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu
- il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non
- è; e però dice Giovenale,
- _Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam
- in terris_, ecc.
- «Una montagna v’è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua
- e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane
- e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe
- il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella».
- E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge
- che Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva
- vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta»,
- cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla,
- volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire
- e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle;
- «fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi
- allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea»,
- questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna
- allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo
- il fanciullo, vi si facesse rom ore da coloro alli quali raccomandato
- l’avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non
- fosse udito né conosciuto.
- [E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta
- di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che,
- avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in
- altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il
- quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era;
- il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle
- dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano
- a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli avesse
- ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa
- Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne
- che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis
- e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli,
- uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza
- fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e
- occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un
- popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E
- questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno
- non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine
- tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni
- battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore,
- accioché il pianto non fosse sentito.]
- E poi segue l’autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran
- veglio», cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte
- le spalle inver’ Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto
- posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio»,
- cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso
- ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro
- argento son le braccia e ’l petto», di questa statua, «Poi è di rame
- fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai
- piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d’altro metallo,
- «Salvo che ’l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come
- sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ’n su l’altro», cioè in sul
- sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in
- sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del
- corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore
- e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la
- bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello
- versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il
- calore del quale si crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.
- Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa
- statua, cioè quella ch’è d’ariento e quella di rame e quella di ferro e
- quella che è di terra cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella
- che è d’oro, «è rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola,
- «Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua,
- «accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale
- è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dello ’nferno. «Lor
- corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi
- siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia»,
- cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li
- quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si
- discende al profondo dello ’nferno: «Fanno», queste lagrime di sé,
- cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello ’nferno, del quale
- è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude
- della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto,
- la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e
- «Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello ’nferno,
- e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume
- all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor discrive esser
- vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’ violenti. «Poi sen
- va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello
- il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una
- «doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l’acque
- prestamente d’una parte ad un’altra; e però è detta «doccia» da questo
- verbo «_duco ducis_», il quale sta per «menare». Poi mostra questo
- rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al
- centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un
- fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello ’nferno; «e qual sia
- quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno»,
- percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non
- hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il
- qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo
- noi giuso; «però qui non si conta»,—come fatto sia. Quasi come se gli
- altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in
- luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti, dove Cocíto ancora
- veduto non ha.
- «Ed io a lui:—Se ’l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama
- «rigagno» da «_rigo rigas_», che sta per «rigare», e questo rio rigava
- la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come
- tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?»—cioè in
- questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi
- maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia in piú parti veduto di sopra,
- sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion
- di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi
- nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è
- apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra
- una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e
- faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione,
- conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual
- Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me:—Tu sai che ’l luogo è tondo»,
- cioè il luogo dello ’nferno, come piú volte di sopra è dimostrato;
- «E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú
- calando al fondo, Non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto», di questa
- ritonditá dello ’nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel
- rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo,
- «Non dee addur maraviglia al tuo volto»,—come che per avventura
- potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia
- dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di
- quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del
- cerchio, della quale ella scende.
- «Ed io ancor:—Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto,
- nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro
- fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio
- gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor:—Maestro, ove si truova
- Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono
- similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di Letè, senza
- dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’ che si fa d’esta
- piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali
- sono nella statua predetta.
- —«In tutte tue quistion certo mi piaci,—Rispose;—ma ’l bollor
- dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio
- settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia
- Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente»,
- l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente
- esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte.
- «Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di
- questa fossa», dello ’nferno: percioché in questo si scosta l’autore
- dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere
- in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá del monte di
- purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il
- pongono in inferno; percioché essi il pongono l’ultimo fiume dello
- ’nferno, e dicono che, quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e
- son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire,
- esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell’acqua di quello,
- dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne’
- Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli
- abitare l’anime de’ beati: e cosí l’autore il pone nella sommitá del
- purgatorio, accioché l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima
- béano di quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni
- fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il
- rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro
- beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice:—Tu il vedrai, «Lá dove
- vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta
- rimossa»,—per la penitenza.
- «Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente
- canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto,
- ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada.
- Dice adunque: «Poi disse:—Omai è tempo da scostarsi», scendendo o
- procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che
- diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son
- arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro
- ogni vapor si spegne»,—di questi che piovono, e perciò vi si puote
- senza cuocere andare.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Lez. LV]
- «Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti
- due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le
- colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due
- spezie de’ violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il
- prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono
- violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso,
- seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire
- la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza
- nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti
- divisi, si come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e
- appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le quali
- son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad
- un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e
- tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco,
- che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che
- coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono
- sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo
- ’ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali
- fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta
- rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e coloro, li quali contro
- all’arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati
- dalle fiamme che piovono. E. percioché, si come chiaro si vede, hanno
- la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di
- ciascuno dicessi l’allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú
- volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però,
- per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il
- dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí
- com’io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre
- le maniere de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella
- fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si
- finisce, come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno
- a ciò la ’ntenzion dell’autore.
- Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l’autore
- intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che
- in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno
- a ciò è prima da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire,
- avendo questa statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in
- altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida;
- e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la
- terracotta, de’ quali esso la forma; e similmente quello che voglia che
- noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli,
- fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e ultimamente
- quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.
- Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell’isola di
- Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché
- alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme.
- Intendendo adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare
- una dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo,
- e all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese,
- né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è
- chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella
- parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non
- è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune,
- se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.
- Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro
- emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono
- Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E
- primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del
- mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo
- verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo
- scilocco, infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi
- dissero quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il
- quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette
- nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con
- l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi
- per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce nel mare
- Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all’isola
- di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí
- la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale
- per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l’isola di
- Meroe, e venendose ne in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo
- inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla
- parte del levante infino all’isola di Creti. Poi confinano Affrica dal
- detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al
- mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana
- dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene
- in quello che ad Affrica appartiene infino all’isola di Creti, e
- quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver’
- ponente. Europa confinano dalla parte di ver’ levante dallo estremo
- del mare Egeo, e dallo stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e
- dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del
- fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale,
- il quale, dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra
- e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare
- Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata
- dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo
- Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano
- Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all’isola
- di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l’isola di
- Creti appare essere in su ’l confine di queste tre parti del mondo. E,
- dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere
- alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea
- meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in
- sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta
- l’isola di Creti, come dimostrato è.
- È il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel
- dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad
- alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò,
- quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello
- che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno
- piú manifesto senso, dico potersi per l’isola di Creti, posta in mezzo
- il mare, intendersi l’universal corpo di tutta la terra, la quale,
- come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle
- tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta
- circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti;
- e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l’autore
- intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai
- pienamente confermare il nome dell’isola, il quale esso appella Creta,
- conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí
- il nome si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore,
- in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso
- appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto
- al corpo, siamo che terra.
- Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni
- che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore
- disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá
- dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un
- gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol
- sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando
- ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla
- natura delle cose o dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo
- monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature
- mortali, l’umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla
- quale l’autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro
- all’esistenza, lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono
- in vari tempi concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua
- da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora
- que’ medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono,
- perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora
- del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il
- qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta
- dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non
- ha nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra
- essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor;
- percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi
- il suo regno e alcune sue successioni, in questa l’autore intende
- alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal
- principio del mondo infino al presente tempo.
- Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere
- d’un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi
- dimostrare, per l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion
- del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento
- anni, e per l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo;
- percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo
- sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al
- processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte,
- la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le
- spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per
- questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le
- quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio
- loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per
- questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice
- la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone
- specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí
- costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere
- de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso
- furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose periture fatte in
- qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili
- e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per
- dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio
- è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel
- tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.
- Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di
- terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di
- fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal
- membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale
- esso fosse. E noi intendiamo per lo _Genesi_ che nella prima creazione
- del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio,
- fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti
- doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della
- sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu
- tanto, quanto egli stette infra’ termini comandatigli da Dio; vuole
- l’autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d’oro, cioè
- carissimo e bello e puro, sí come l’oro è piú prezioso che alcuno
- metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d’oro, il primo stato
- dell’umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente
- carissimo.
- Dice appresso che puro argento sono le braccia e ’l petto di questa
- statua, volendo per questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido
- metallo che l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel
- colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi
- parenti, l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara
- che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il
- comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma,
- dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella
- terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual
- cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza
- della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di
- sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per
- l’oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l’oro.
- Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla ’nforcatura,
- volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la
- chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto
- che gli uomini, dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli
- ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a
- speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l’arti liberali
- e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro
- metallo che alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi
- piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma,
- percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell’altre
- gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí
- ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in
- cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta
- esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de’
- sopradetti.
- Appresso dice che questa statua dalla ’nforcatura in giú è tutta di
- ferro eletto, volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle
- predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente
- tutta l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza
- di quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro.
- E di questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo
- fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci
- discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’ macedoni
- e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle l’universale imperio
- del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza
- appiccata a’ re e a’ popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno
- principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette
- particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la
- terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia.
- E, percioché gl’istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura
- l’autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò,
- sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la
- guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.
- Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta,
- volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la
- cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto
- piú quanto i metalli predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è
- vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna
- fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con
- poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo
- ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la
- fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva
- unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne
- le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice
- il piè esser di questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del
- corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e,
- come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí
- sopra questa vii materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e
- perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è
- il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro,
- sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro,
- a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa,
- sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua
- si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in
- ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri sinistri,
- come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare,
- percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna
- gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi
- e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v’era fermato: e cosí
- ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia,
- non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo,
- appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell’_Apocalissi_ si
- legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno
- uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo
- percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha voluto in questa statua
- l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è
- dimostrato.
- Poi, deducendosi l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni
- parte di questa statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta
- d’una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo
- mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia
- detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza
- delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur
- ne’ presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino
- a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell’oro di
- questa statua è disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti
- di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della
- integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col
- malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e
- viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando in
- quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente
- al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie
- operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono
- state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette
- rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse
- colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone
- appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo
- discendere nella misera valle dello ’nferno, con coloro insieme li
- quali commesse l’hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua,
- fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende
- l’universale stato de’ dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo
- Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo
- Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene
- a’ dannati.
- È Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato
- «senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si
- conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione,
- avanti ad ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine,
- la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti
- di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è interpetrato
- «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá
- perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia
- perpetua; percioché, come l’uom si vede perdere, dove estimava o dove
- gli bisognava di guadagnare, incontanente s’attrista. Ma, percioché la
- tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il
- terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»;
- volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il
- peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente
- diviene nell’ardore della gravitá de’ supplici, li quali con tanta
- angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente
- diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato
- «pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene eternali alcuno,
- esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e
- questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove,
- cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee
- in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a
- questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi
- quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive,
- per li quali l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’
- ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e
- continuamente s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la
- presente vita persevererá.
- CANTO DECIMOQUINTO
- [Lez. LVI]
- «Ora cen porta l’un de’ duri margini», ecc. Continuasi l’autore al
- precedente canto, in quanto nella fine d’esso mostra che gli argini di
- quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi
- vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena
- dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l’uno delli
- detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti:
- nella prima discrive l’autore la qualitá del luogo, e massimamente
- degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con
- alcuna dimostrazion d’esempli, ad intendere; nella seconda dimostra
- come da una schiera d’anime dannate in quel luogo guatato fosse, e
- riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna
- futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá
- eravam dalla selva».
- Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l’un de’ duri margini». E
- in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare
- appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le
- navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono,
- ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi,
- se medesimi portando, andavano su per l’uno de’ detti margini. E dice
- «l’uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due.
- E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che
- ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello,
- erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun
- potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo ’ncendio delle
- fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E
- ’l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di
- molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo
- fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le
- dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l’acqua
- e gli argini», infra li quali s’inchiude. E sono questi argini grotte
- fatte per forza alle rive de’ fiumi, accioché, crescendo essi, l’acqua
- non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di
- questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente
- dicendo:
- «Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra
- poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l’isola
- d’Inghilterra; «Temendo ’l fiotto», del mare, «che ver’ lor s’avventa»,
- sospinto dall’impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo
- schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti,
- «perché ’l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne’ detti margini,
- senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che
- il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il
- moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí
- naturale, si muove due volte di levante inver’ ponente, e altrettante
- si torna di ponente inver’ levante; e quando di ver’ levante viene
- inver’ ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine
- a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per
- molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le
- quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel
- mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di
- Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»:
- e questo è quello del quale l’autore intende qui, e contro al quale
- dice che i fiamminghi fanno riparo.
- Appresso dimostra l’autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli
- argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la
- Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il
- qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che,
- dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il
- quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di
- Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della
- contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose
- la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una
- gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova
- infino al Friuli, e quella da’ suoi eneti, aggiunta una lettera al
- nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il
- qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale
- è una regione posta nell’Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La
- qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali
- non si risolvono infino a tanto che l’aere non riscalda, del mese di
- maggio o all’uscita d’aprile; e allora, risolvendosi, cascano l’acque
- di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se
- racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi
- argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta
- la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale
- v’ha grandissima quantitá. E perciò dice l’autore che i padovani,
- cioè quegli del distretto di Paùova, fanno simiglianti schermi che
- i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli»,
- cioè i campi e’ lavorii delle villate e delle castella, le quali per
- lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè
- la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la
- quale s’appropinqua. E, questi due esempli posti, dice che «A tale
- immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo
- questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí
- grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e’ padovani, «Qual che si
- fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.
- «Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra
- ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch’ io non avrei visto», cioè
- veduto, «dov’era, Per ch’io ’ndietro rivolto mi fossi», a riguardare;
- e ciò fu «Quando incontrammo d’anime», dannate, «una schiera»,
- cioè molte, «Che venien lungo l’argine», sopra’l quale andavamo,
- «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè
- nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè
- alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo
- la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o
- dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza
- delle cose bisognerebbe; «E si», cioè e cosí, «ver’ noi aguzzavan
- le ciglia. Come vecchio sartor fa nella oruna», dell’ago, quando il
- vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li
- quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson
- ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia,
- percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la
- virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo
- uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale
- era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè
- riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava,
- «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del
- vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte
- inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: _-«Qual
- maraviglia?»—(_supple_), è questa che io ti veggio qui.
- «Ed io, quando ’l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi
- ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato
- dall’incendio, il quale continuamente cadea; «Si» gli occhi ficcai,
- «che’l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese»,
- cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto;
- E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi:—Siete voi
- qui, ser Brunetto?»-quasi parlando _admirative_. «E quegli» (_supple_)
- pregò dicendo:—«O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave,
- «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d’aver me alquanto teco.
- Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in
- alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá
- fu notaria, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa
- sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per
- lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle
- avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare
- d’avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi
- lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato _Il
- tesoretto_, se n’andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi
- un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di
- molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale
- e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò _Il tesoro_; e
- ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l’autore il
- conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive,
- dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.
- Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori
- non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura
- alquanto innanzi l’autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia
- andar la traccia»,—di queste anime, le quali tutte ti riguardano,
- le qual forse l’autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne
- alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.
- «Io dissi lui:—Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto
- insieme; «E se volete che con voi m’asseggia», cioè ristea, «Faròl, se
- piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e
- maestro.
- —«O figliuol—disse» ser Brunetto—«qual di questa greggia», cioè di
- questa brigata, «S’arresta punto, giace poi cent’anni Senza arrostarsi,
- quando» (_supple_) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca.
- «Però va’ oltre: io ti verrò a’ panni», cioè appresso, «E poi», che io
- avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa
- brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi
- eterni danni»,—cioè il suo perpetuo tormento.
- «Io non osava scender della strada», cioè dell’argine, «Per andar par
- di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di
- lui fosse disceso; «ma ’l capo chino Tenea», verso di lui, «com’», il
- tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.
- «El cominciò:—Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino»
- sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l’ultimo di», cioè anzi
- la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che
- mostra ’l cammino?»—
- Alla qual domanda l’autor risponde:—«Lassú di sopra in la vita
- serena»,—cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo
- luogo, «Rispuos’io lui,—mi smarri’ in una valle».
- Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente
- libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice
- «mi smarri’», non dice mi «perde’», per darne a sentire che le cose
- perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili
- sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro,
- li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion
- perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l’hanno smarrita
- per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêentere e ravvedere,
- la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al
- disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l’autore, che non
- era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi
- smarrí’ in una valle».
- E dice che vi si smarrí: «Avanti che l’etá mia fosse piena».
- Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli
- uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo
- quinto continuamente, o alla statura dell’uomo, o alle forze corporali
- s’aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l’etá dell’uomo
- «piena». Dice adunque l’autore che esso, avanti che egli a questa etá
- pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende
- nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena
- pervenuto, si ravvedesse d’avere smarrita la via diritta e ritornasse
- in quella.
- «Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d’essa: e qui dimostra
- esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.
- «Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m’apparve,
- ritornando», io, «in quella», valle, si come uomo spaventato dalle
- tre bestie che davanti mi s’erano parate, «E riducemi a ca’», cioè a
- casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual
- sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e
- noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l’anime
- nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto,
- furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci
- siamo si come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione,
- è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena,
- mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per
- questo calle»,—cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato
- mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla
- chiarezza della veritá.
- «Ed egli a me:—Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole
- l’autore l’opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella
- nativitá d’alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere
- qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per
- cui fanno la elevazione. E tra l’altre cose che essi piú puntalmente
- riguardano, è l’ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá
- predetta sale sopra l’orizzonte orientale della regione; e, avuto
- questo grado, considerano qual de’ sette pianeti è piú potente in
- esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel
- dicono essere signore dell’ascendente e significatore della nativitá. E
- secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia,
- la quale allora v’ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per
- luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è
- stata fatta. E però vuol qui l’autore mostrare che la sua stella, cioè
- il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e
- si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose
- cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori
- e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli
- effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu
- déi adoperare, senza storti da ciò per caso che t’avvegna, tu «Non puoi
- fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che
- assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá,
- ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini
- e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa
- grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto
- dovergli avvenire: «Se ben m’accorsi nella vita bella», cioè nella
- presente.
- E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare
- che esso fosse astrolago, e per quell’arte comprendesse ne’ corpi
- superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser
- Brunetto, si come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli
- costumi e gli studi dell’autore esser tali, che di lui si dovesse
- quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo
- vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con
- gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover
- divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle,
- quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi
- credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá
- concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.
- «E s’io non fossi si per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di
- quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno»,
- intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale
- per la scienza si perviene. «Dato t’avrei all’opera conforto»,
- sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per
- te non potevi cognoscere.
- E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al
- ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli
- quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché
- esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la
- cagione, mostrando quella essere tale, che la ’ngiuria della fortuna,
- la quale gli s’apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a
- molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E
- dice: «Ma quello ’ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto
- fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da
- esso fatte verso coloro li quali l’avevano servito e onorato, e quasi
- trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo
- il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque
- cittá, accioché di tutti i fiorentini non s’intenda esser questa
- infamia d’ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo
- maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».
- Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella
- dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de’ discendenti
- di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d’Europa: la qual
- cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse
- l’edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai
- notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la
- parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma,
- fu per li romani disfatta, e parte de’ suoi cittadini ne vennero ad
- abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi
- si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di
- questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che,
- in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e
- la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che
- in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell’antica lor
- cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano
- Firenze essere stata contro al piacere de’ fiesolani reedificata, e
- abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono
- de’ discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta,
- l’abitavano.
- Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra’ fiesolani
- e’ fiorentini, le quali all’una parte e all’altra rincrescendo,
- vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e
- sicuramente usavano l’uno nella cittá dell’altro. Sotto la qual sicurtá
- i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono
- Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiati si i fiesolani con loro di
- dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole
- disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in
- Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si
- tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono
- gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono,
- insieme s’unirono. Nondimeno mostra qui l’autore, quella acerbezza
- antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in
- discendente de’ fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel
- popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del
- monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e
- «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e
- civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti
- si fará, per tuo ben far, nemico», si come quello al quale è in odio
- la vertú e l’operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico,
- seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor
- sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè
- non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol
- sotto questa metafora l’autore intendere non esser convenevole che tra
- uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un
- uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.
- [Lez. LVII]
- Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi.
- Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani
- al conquisto dell’isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e
- a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor
- cittá quasi vòta d’abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono
- di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi
- erano a que’ tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto
- quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di
- partire col detto comune la preda che dell’acquisto recassono. E,
- avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani
- tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio
- bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno,
- ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che
- posero dall’una parte le porti e dall’altra le due colonne coperte di
- scarlatto, e diedero le prese a’ fiorentini, li quali, senza troppo
- avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e
- spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come
- oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire
- alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le
- colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle
- abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate,
- e, accioché i fiorentini di ciò non s’ accorgessono, le vestirono di
- scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de’ fiorentini, esser
- loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai
- poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all’animo questa essere
- stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono,
- appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si
- verificassero ne’ nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!
- Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere
- avarissimi appare ne’ lor processi. E, se ad altro non apparisse,
- appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che
- con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo
- consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun
- bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la
- innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li
- componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e
- modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men
- possenti non si stendesse. Appresso, ne’ publici offici si fa prima
- la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della
- onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie,
- le baratterie, le simonie e l’altre disonestá moventi da quella; e,
- perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell’usure, delle falsitá,
- de’ tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre
- a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si
- comprende ne’ nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o
- veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella
- dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta
- la mala ventura o essere per averla. Parsi ne’ nostri ragionamenti,
- ne’ quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l’opere
- laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne
- e’ danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo,
- troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini
- siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro
- esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che
- alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa
- levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle ’mprese, e tanto di noi
- medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone;
- teneri piú che ’l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam
- furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le
- nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d’avvilirlo. De’ quali vizi, esso
- permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che
- non siam noi, ci troviamo sgannati.
- Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da’ lor costumi fa’
- che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il
- celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza,
- in amicizie di grandi uomini. «Che l’una parte e l’altra», cioè i
- fiesolani e’ fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che
- cacciato t’avranno: «ma lungi fia dal becco l’erba», cioè l’effetto
- dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie
- fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme»,
- cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor
- malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S’alcuna
- surge ancor nellor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la
- qual somiglia al letame, percioché di sopra l’ ha chiamate bestie; «In
- cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di
- que’ roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali
- vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per
- le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio
- (ma in ciò non sono io con l’autore d’una medesima opinione, percioché
- infino a’ tempi de’ primi imperadori era Roma ripiena della feccia
- di tutto il mondo, ed era dagl’imperadori preposta a’ nobili uomini
- antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia
- tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo
- non indecentemente, avendo riguardo a’ vizi de’ quali ne mostra esser
- maculati.
- —«Se fosse tutto pieno il mio dimando—Rispos’io lui,—voi non
- sareste ancora. Dell’umana natura», la quale per eterna legge ciò che
- nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi
- sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo
- dimanderebbe, perciò «Che in la mente m’è fitta», cioè con fermezza
- posta, «ed or m’accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine
- paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora
- ad ora. Mi mostravate come l’uom s’eterna», per lo bene e valorosamente
- adoperare. E cosí mostra l’autore che da questo ser Brunetto udisse
- filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni,
- insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto
- io l’abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr’io vivo,
- Convien che nella mia lingua si scema», percioché sempre vi loderò,
- sempre vi commenderò.
- «Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna,
- «scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo»,
- cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette
- Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s’a
- lei arrivo», chiosare e dichiarare e l’altre cose e quelle che dette
- m’avete. «Tanto vogl’io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non
- mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú
- pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch’alla fortuna», cioè a’
- casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere.
- «Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale
- è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata
- m’è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il
- suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e ’l
- villan la sua marra».—Queste parole dice per quello che ser Brunetto
- gli ha detto de’ fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali
- qui discrive in persona di villani, cioè d’uomini non cittadini, ma di
- villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani,
- come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano
- adopera la marra.
- «Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra,
- si volse indietro, e riguardommi. Poi disse:—Bene ascolta», cioè non
- invano ascolta, «chi la nota»,—con effetto, la parola la quale tu al
- presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.),
- volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di
- fare.
- «Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando
- vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co’
- quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per
- fama.
- «Ed egli a me:—Saper d’alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa
- risposta alla domanda che l’autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi
- voglia ser Brunetto dire (si come assai bene appare appresso): se io
- ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti
- furono uomini di nome e famosi. E, detto d’alcuno, «Degli altri fia
- laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v’ha si fatti
- uomini, che lo ’nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è,
- e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro,
- per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione
- n’assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché ’l tempo»,
- che conceduto m’è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto
- suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si
- converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi
- essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice:
- «In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati
- grandi e di gran fama, D’un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al
- mondo lerci», cioè brutti.
- Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser
- maculati di questo male. Il che puote avvenire l’aver piú destro,
- e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso
- mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l’usanza de’ giovani
- non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine
- è abominevole molto]; e, per questo comodo, questi cosí fatti uomini,
- cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro
- appetito non farebbono.
- «Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano
- della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e
- grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare
- a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due
- notabili libri: nell’uno trattò diffusamente e bene _Delle parti
- dell’orazione_, nell’altro sub brevitá trattò _Delle costruzioni_.
- Non lessi mai né udi’ che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io
- estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s’intendano coloro
- li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si
- crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e
- per l’etá temorosi e ubbidienti, cosí a’ disonesti come agli onesti
- comandamenti de’ lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse
- volte incappino in questa colpa.
- «E Francesco d’Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto,
- «S’avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.
- Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini,
- e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer
- Accorso chiosò tutto ’l _Corpo di ragion civile_, e furon le sue chiose
- tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s’usano per chiose
- ordinarie nel _Codice_ e negli altri libri legali. E questo messer
- Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove
- si crede che ultimamente morisse.
- Appresso dice che ancora v’avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che
- dal servo de’ servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue
- lettere chiama «servo de’ servi di Dio». E questo titolo primieramente
- per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo
- che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s’appartiene
- di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi
- di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea,
- predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue
- _Omelie_ appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il
- dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al
- popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá.
- Ma questo di cui qui l’autor dice, dice che «Fu trasmutato d’Arno in
- Bacchiglione».
- Dicesi costui essere stato un messer Andrea de’ Mozzi, vescovo di
- Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto
- peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano
- nel vulgo; per opera di messer Tommaso de’ Mozzi, suo fratello, il
- quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar
- dinanzi dagli occhi suoi e de’ suoi cittadini tanta abominazione, fu
- permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza.
- Il che l’autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è
- fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per
- Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per
- ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e
- quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò»,
- morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo
- vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omori
- corrotti, tutti i nervi della persona gli s’erano rattrappati, come in
- assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne’ piedi; e cosí per questa
- parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale
- morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa
- parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del
- corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro
- virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi
- tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono
- innanzi quando all’atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere
- dall’autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi
- malvagiamente gli protese.]
- «Di piú direi, ma ’l venir», al pari di te, «e ’l sermone Piú lungo
- esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch’io veggio,
- Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione.
- Gente vien, con la quale esser non deggio».
- [Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che
- contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati,
- e non osa l’una schiera esser con l’altra; e senza dubbio differenza
- ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie
- d’animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando
- due d’un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e
- similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che
- alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor
- poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l’uomo e la femmina,
- eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo
- la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si
- congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto
- o l’uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma
- ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam
- credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí
- i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti,
- e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o
- meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]
- E, dovendosi partire dall’autore, ultimamente gli dice: «Sieti
- raccomandato il mio _Tesoro_», cioè il mio libro, il quale io composi
- in lingua francesca, chiamato _Tesoro_: e questo vuole gli sia
- raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando
- quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo
- libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza
- della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori,
- né sperino mai quassú tornare, né d’inferno uscire, è pure da loro
- disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io
- vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo
- libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo
- possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi,
- dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata,
- e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo
- fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la
- poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro
- grandissimi difetti, de’ quali l’uno sta nello sciocco opinare che non
- sia guadagno altro che quello che empie la borsa de’ denari; e l’altro
- sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa
- sia la dolcezza della fama. E perciò m’aggrada di rintuzzare alquanto
- l’opinione asinina di questi cotali.]
- [Empiono la borsa o la cassa l’arti meccaniche, le mercatanzie, le
- leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno
- adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al
- guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna
- ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l’antiche
- istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini,
- e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l’arche
- d’oro e d’argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con
- grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta
- sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del
- nome suo: e questo basti aver detto dell’antiche. Delle piú ricenti non
- so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá
- di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d’alcuno che
- giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se
- pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli
- antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per
- la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col
- corpo e col nome loro s’è morta e convertita in fummo, quasi non fosse
- stata.]
- [Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi
- dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e
- farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a’ nobili
- ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non
- dirizza l’appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso
- e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle
- celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni
- sua potenzia, che l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome
- del suo divoto componitore. E, se eterno far noi puote, gli dá almeno
- per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo,
- lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi
- uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi
- e ancor ne’ moderni. E’ son passati oltre a duemila secento anni che
- Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza
- del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni
- lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare
- né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che
- essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e
- di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è
- sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua
- origine quistione: i re, gl’imperadori, e’ sommi prencipi mondani hanno
- sempre il suo nome quasi quello d’una deitá onorato, e infino a’ nostri
- dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi
- volumi, la gloria della sua fama.]
- [Io lascerò stare i fulgidi nomi d’Euripide, d’Eschilo, di Simonide,
- di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia
- maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto
- sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti,
- li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono;
- per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta
- eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d’un lutifigolo, con pari
- consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose
- mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian
- Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e
- sono l’opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé,
- e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma
- esse hanno con seco insieme infino ne’ dí nostri fatta non solamente
- venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i
- mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola,
- nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che
- pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un
- santuario non visitino e onorino.]
- [E, accioché io a’ nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo
- cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco
- Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera
- latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo
- il nome suo nelle bocche, non dico de’ prencipi cristiani, li quali i
- piú sono oggi idioti, ma de’ sommi pontefici, de’ gran maestri, e di
- qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro
- autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto
- la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati
- ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi
- che l’opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora
- perirá il nome loro, quando tutte l’altre cose mortali periranno.
- Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio?
- Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno
- cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s’accostano, o
- diranno che pur l’arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna?
- Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor
- non conosciute, e intorno a quelle s’avvolghino, le quali appena dalla
- bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi
- ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:
- _Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam._
- Ora, come io ho detto de’ poeti, cosí intendo di qualunque altro
- componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno
- meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale
- ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo
- _Tesoro_, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo.
- Poi segue: «e piú non cheggio»;—quasi dica: questo mi sará assai.
- «Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a
- Verona ’l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i
- veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini
- ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si
- mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché,
- partendosi ser Brunetto dall’autore, velocissimamente correa,
- l’assomiglia l’autore a questi cotali che quel drappo verde corrono:
- e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro»,
- cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti
- gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.
- L’allegoria del presente canto, cioè, come la pena, scritta per
- l’autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi
- con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si
- dirá di tutta questa spezie de’ violenti.
- CANTO DECIMOSESTO
- [Lez. LVIII]
- «Giá era il loco, ove s’udia il rimbombo». ecc. Continuasi il
- presente canto al superiore, in questa guisa: noi dobbiamo intendere
- che, partito ser Brunetto, l’autore e Virgilio incontanente con piú
- veloce passo cominciarono a continuare il lor cammino; il quale
- continuando, mostra l’autore, nel principio del presente canto, loro
- esser pervenuti in quella parte, dove il fiumicello, su per l’argine
- del quale andavano, cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno; e quindi
- séguita, discrivendo quello che, in quella parte, dove pervennero,
- vedesse. E dividesi il presente canto in nove parti: nella prima per
- alcun segno dimostra il luogo dove venissero; nella seconda dice come
- tre ombre, di lontano correndo verso loro, gli chiamavano; nella terza
- dice come Virgilio gl’impone che aspetti tre ombre le quali il venivan
- chiamando; nella quarta scrive chi questi tre fossero; nella quinta
- dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse; nella sesta dimostra
- una domanda fatta da loro e la sua risposta; nella settima pone un
- priego fattogli da loro e la lor partita; nella ottava come, piú avanti
- procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello; nella nona pone
- come, per opera di Virgilio, la Fraude venisse alla riva, alla quale
- essi erano pervenuti. E comincia la seconda quivi: «Quando tre ombre»;
- la terza quivi: «Alle lor grida»; la quarta quivi: «Ricominciâr, come
- noi»; la quinta quivi: «S’io fossi»; la sesta quivi:—«Se lungamente»;
- la settima quivi:—«Se l’altre volte»; la ottava quivi: «Io il
- seguiva»; la nona quivi: «Io avea una».
- Comincia adunque cosí: «Giá era il loco», al quale pervenuti eravamo,
- «ove s’udia il rimbombo Dell’acqua», cioè di quel fiumicello del
- quale ha detto di sopra; e chiamiam noi «rimbombo» quel suono, il
- quale rendono le valli, d’alcun suono che in esse si faccia; e questo
- rimbombo, perché l’acqua di quel fiumicello «cadea nell’altro giro»,
- cioè nel cerchio ottavo dello ’nferno; il quale rimbombo, dice
- l’autore, era «Simile a quel che l’arnie fanno rombo», cioè era simile
- a quel rombo che l’arnie fanno, cioè gli alvei o i vasi ne’ quali le
- pecchie fanno li lor fiari, il quale è un suon confuso, che simigliare
- non si può ad alcun altro suono.
- «Quando tre ombre». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
- nella qual, poi che l’autore ha discritto il luogo dove pervenuti
- erano, dice come Virgilio gl’impose che aspettasse tre ombre, le
- quali il venivan chiamando, e dice cosí: «Quando tre ombre insieme
- si partîro, Correndo», verso loro, «d’una turba», d’anime, «che
- passava», ivi vicino a loro, «Sotto la pioggia dell’aspro martíro»,
- cioè di quelle fiamme. «Venían ver’ noi», correndo; «e ciascuna
- gridava:—Sóstati tu, che all’abito ne sembri Essere alcun di nostra
- terra prava»,—cioè di Firenze. E puossi in queste parole comprendere,
- in quanto dicono che «all’abito ne sembri», che quasi ciascuna cittá
- aveva un suo singular modo di vestire distinto e variato da quello
- delle circunvicine; percioché ancora non eravam divenuti inghilesi né
- tedeschi, come oggi agli abiti siamo.
- «Aimè! che piaghe», cotture, come hanno quegli che con le tenaglie
- roventi sono attanagliati, «vidi ne’ lor membri, Ricenti e vecchie,
- dalle fiamme accese», fatte. «Ancor men duol, pur ch’io me ne
- rimembri», cioè ricordi. Suole l’autore nelle parti precedenti sempre
- mostrarsi passionato, quando vede alcuna pena, della quale egli si
- sente maculato: non so se qui si vuole che l’uomo intenda per questa
- compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa
- scellerata colpa; e però il lascio a considerare agli altri.
- «Alle lor grida», le quali chiamando facevano, «il mio dottor
- s’attese»; e, conosciutigli, «Volse il viso ver’ me, e:—Ora
- aspetta,—Disse;—a costor si vuole esser cortese», cioè d’aspettargli
- e d’udirgli. E in ciò mostra sentire costoro essere uomini autorevoli
- e famosi, li quali, quantunque dannati sieno, nondimeno quelle cose,
- che valorosamente operarono, gli fanno degni d’alcuna onorificenza. E
- poi segue: «E se non fosse il fuoco che saetta La natura del luogo», sí
- come la divina giustizia vuole, «io dicerei che meglio stesse a te»,
- andando loro incontro, «ch’a lor la fretta»,—di correr verso di te.
- «Ricominciâr, come noi ristemmo, ei», cioè essi, «L’antico verso», cioè
- chiamandoci; «e, quando a noi fûr giunti, Fêro una ruota di sé tutti e
- trei».
- «Qual soleano i campion far nudi ed unti, Avvisando lor presa e lor
- vantaggio». Usavano gli antichi, e massimamente i greci, molti giuochi
- e di diverse maniere, e questi quasi tutti facevano nelli lor teatri,
- accioché da’ circunstanti potessero esser veduti; e quella parte del
- teatro, dove questi giuochi facevano, chiamavan «palestra». E tra
- gli altri giuochi, usavano il fare alle braccia, e questo giuoco si
- chiamava «lutta». E a questi giuochi non venivano altri che giovani
- molto in ciò esperti, e ancora forti e atanti delle persone, e
- chiamavansi «atlete», li quali noi chiamiamo oggi «campioni»; e, per
- potere piú espeditamente questo giuoco fare, si spogliavano ignudi,
- accioché i vestimenti non fossero impedimento o vantaggio d’alcuna
- delle parti; ed, oltre a questo, accioché piú apertamente apparisse
- la virtú del piú forte, s’ugnevan tutti o d’olio o di sevo o di
- sapone: la quale unzione rendeva grandissima difficultá al potersi
- tenere, percioché ogni piccol guizzo, per opera dell’unzione, traeva
- l’uno delle braccia all’altro; e cosí unti, avanti che venissero al
- prendersi, si riguardavan per alcuno spazio, per prendere, se prender
- si potesse, alcun vantaggio nella prima presa. E questo è ciò che
- l’autore in questa comparazione vuol dimostrare.
- E poi, per compiere la comparazion, segue: «Prima che sien tra lor
- battuti e punti». Parla qui l’autore _metaphorice_, percioché a questo
- giuoco non interviene alcuna battitura o puntura corporale, ma mentale
- puote intervenire, in quanto colui, che ha il piggior del giuoco, è
- battuto e punto da vergogna.
- Poi segue: «Cosí, rotando», volgevansi questi tre in modo di ruota,
- per non istar fermi, e come che si volgessono, sempre tenevano il viso
- vòlto verso l’autore e con lui parlavano; e questo è quello che vuol
- dire: «ciascuna il visaggio Drizzava a me; sí che ’n contrario il collo
- Faceva a’ piè continuo viaggio»; in quanto il collo si torceva verso
- l’autore, ove i piedi talvolta si volgevano, e secondo che il moto
- circulare richiedeva, verso il sabbione.
- E, cosí rotandosi, cominciò l’un di loro a dire all’autore:—«E se
- miseria d’esto luogo sollo», cioè non tanto fermo, percioché di sopra
- la rena, la quale è di sua natura rara, è malagevole a fermare i piedi;
- «Rende in dispetto noi», facendoci parere degni d’essere avuti poco a
- pregio, e per conseguente, «e’ nostri prieghi,—Cominciò l’uno», di
- loro a dire, e, oltre a ciò,—«il tristo aspetto e brollo», in quanto
- siamo dal continuo fuoco cotti e disformati; ma, non ostante questa
- deformitá, «La fama nostra», la qual di noi nel mondo lasciammo, «il
- tuo animo pieghi», a compiacerne di questo, cioè «A dirne chi tu se’,
- che i vivi piedi Cosí sicuro per lo ’nferno freghi»; quasi voglia dire:
- percioché questo ne fa assai maravigliare.
- E, accioché esso renda l’autore liberale a dover far quello che
- addomanda, prima che la risposta abbia di ciò, che egli addomanda,
- nomina i compagni suoi e sé, dicendo: «Questi, l’orme di cui pestar mi
- vedi», dice di colui che davanti gli andava, l’orme del quale conveniva
- a lui, che il seguiva correndo, pestare, cioè scalpitare, «Tutto»,
- cioè posto, «che nudo e dipelato vada», percioché le fiamme, le quali
- cadevano accese, gli avevano tutta arsa la barba e’ capelli, e però
- dice «dipelato»; «Fu di grado maggior», di nobiltá di sangue e di stato
- e d’operazioni, «che tu non credi», vedendolo cosí pelato e cotto:
- «Nepote fu della buona Gualdrada», cioè figliuolo del figliuolo di
- questa Gualdrada, e cosí fu nepote.
- Questa Gualdrada, secondo che soleva il venerabile uomo Coppo di
- Borghese Domenichi raccontare, al qual per certo furono le notabili
- cose della nostra cittá notissime, fu figliuola di messer Bellincion
- Berti de’ Ravignani, nostri antichi e nobili cittadini: ed essendo per
- avventura in Firenze Otto quarto imperadore, e quivi per farla piú
- lieta della sua presenza andato alla festa di San Giovanni, avvenne che
- insieme con l’altre donne cittadine, sí come nostra usanza è, la donna
- di messer Berto venne alla chiesa, e menò seco questa sua figliuola,
- chiamata Gualdrada, la quale era ancor pulcella. E postesi da una parte
- con l’altre a sedere, percioché la fanciulla era di forma e di statura
- bellissima, quasi tutti i circunstanti si rivolsero a riguardarla, e
- tra gli altri lo ’mperadore, il quale, avendola commendata molto e di
- bellezza e di costumi, domandò messer Berto, il quale era davanti da
- lui, chi ella fosse. Al quale messer Berto, sorridendo, rispose:—Ella
- è figliuola di tale uomo, che mi darebbe il cuore di farlavi basciare,
- se vi piacesse.—Queste parole intese la fanciulla, sí era vicina a
- colui che le dicea, e, alquanto commossa della opinione che il padre
- aveva mostrata d’aver di lei, che ella, quantunque egli volesse, si
- dovesse lasciar basciare ad alcuno men che onestamente; levatasi in
- piede, e riguardato alquanto il padre, e un poco per vergogna mutata
- nel viso, disse:—Padre mio, non siate cosí cortese promettitore della
- mia onestá, ché per certo, se forza non mi fia fatta, non mi bascerá
- mai alcuno, se non colui il quale mi darete per marito.—Lo ’mperadore,
- che ottimamente la ’ntese, commendò maravigliosamente le parole e la
- fanciulla, affermando seco medesimo queste parole non poter d’altra
- parte procedere che da onestissimo e pudico cuore; e perciò subitamente
- venne in pensiero di maritarla. E, fattosi venir davanti un nobil
- giovane chiamato Guido Beisangue, che poi fu chiamato conte Guido
- vecchio, il quale ancora non avea moglie, e lui confortò e volle che la
- sposasse: e donògli in dote un grandissimo territorio in Casentino e
- nell’Alpi, e di quello lo intitolò conte. E questi poi di lei ebbe piú
- figliuoli, tra’ quali ebbe il padre di colui di cui qui si ragiona, il
- quale volle che nominato fosse Guido, percioché il primo suo figliuolo
- fu. E, percioché questa Gualdrada fu valorosa e onorabile donna, la
- cognomina qui l’autor «buona»; e perciò da lei dinomina il nipote,
- perché per avventura estimò lei essere stata donna da molto piú che il
- marito non fu uomo.
- Appresso questo, dice l’autore il nome di questo nepote della
- Gualdrada, dicendo: «Guido Guerra ebbe nome». Il sopranome di questo
- Guido si crede venisse da un disiderio innato d’arme, il quale si dice
- che era in lui, d’esser sempre in opere di guerra. «Ed in sua vita Fece
- col senno assai e con la spada».
- Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando
- combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada
- in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale
- ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò,
- dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s’ampliò
- molto.
- «L’altro, ch’appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio
- Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe
- esser gradita», percioché furon l’opere sue laudevoli.
- Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di
- graride animo e d’operazion commendabili e di gran sentimento in opera
- d’arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze
- che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo,
- sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna
- ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non
- creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.
- «Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento,
- «Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual
- non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato
- di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben
- riempie’ dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.
- «E certo La fiera moglie, piú ch’altro, mi nuoce», in ciò che io sia
- dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una
- donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere,
- come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva
- né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi
- da lei, stimolandolo l’appetito carnale, egli si diede alla miseria di
- questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna
- temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini
- curando che dell’ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella
- perdizione eterna avere questo supplicio.]
- [Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie,
- anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle
- si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa,
- assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender
- qualunque femmina, l’uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e
- battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale
- egli compose Contro a _Gioviniano eretico_, che Teofrasto, il qual fu
- solenne filosafo e uditore d’Aristotile, compose un libro il qual si
- chiama _De nuptiis_, e in parte di quello domanda se il savio uomo
- debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo,
- dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d’onesti parenti, e
- se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere;
- incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte
- nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa
- innanzi all’altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun
- che possa a’ libri e alla moglie servire.]
- [Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle
- donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l’oro, le gemme, le serve e
- gli arnesi delle camere. Appresso, dall’aver moglie procede che tutte
- le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella:—Donna
- cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da
- tutti, e io tapinella tra’ ragunamenti delle femmine sono avuta in
- dispetto.—Appresso:—Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina?
- Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien’ dal mercato, che
- m’hai tu recato?—E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che
- hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse
- incontanente suspicano che l’amore, che il marito porta ad alcuna altra
- persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella
- che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi
- della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che
- delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna
- la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze,
- potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è
- fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l’asino, il bue, il cane,
- e’ vilissimi servi, e ancora i vestimenti e’ vasi e le sedie e gli
- orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è
- mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]
- [Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la
- faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se
- ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l’uomo la
- chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri
- di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna
- altra persona d’amare il padre di lei, e qualunque altro parente o
- persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia
- in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo
- della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se
- per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio,
- incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e,
- dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in
- odio; e, se il marito non consentirá tosto a’ piacer suoi, di presente
- ricorre a’ veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú,
- vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl’indovini,
- e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori
- de’ preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella
- sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se
- egli vieterá che essi non v’entrino, incontanente la moglie si reputa
- ingiuriata, in ciò che il marito mostra d’aver sospeccion di lei. Ma
- che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica
- moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è
- mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica,
- alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella
- donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e
- avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e
- molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con
- minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si
- guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia
- da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla
- possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro
- col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de’ lor costumi, e certi
- sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa
- quella cosa la quale d’ogni parte è combattuta.]
- [E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e
- per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di
- lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la
- sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto
- meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo
- signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna,
- quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare
- e stanno dintorno all’uomo infermo gli amici e’ servi domestici,
- obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi
- imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci
- la sua sollecitudine, l’anima di colui ch’è infermo turbi infino alla
- disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá
- che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal
- letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s’egli avverrá che la
- moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova),
- piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei
- dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser
- solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che
- mai furono; ed ha l’animo libero, il quale in quella parte che piú
- gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá
- va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d’uomini, egli parla
- con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è
- solo.]
- [Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché ’l nome
- nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni
- aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi,
- partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro
- nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo
- del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo
- modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare
- in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono
- di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá,
- paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi
- son gli amici e i propinqui, li quali tu t’avrai eletti, che non son
- quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d’avere.]
- [Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per
- che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol
- pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò
- che da Teofrasto, possiam comprendere per l’esemplo del misero messer
- Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra
- essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran
- circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne
- alcuna si dispongono, percioché rade volte s’abbatte l’uomo a Lucrezia
- e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá
- udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la
- notte nel letto son diavoli.]
- [Lez. LIX]
- Poi séguita l’autore: «S’io fossi stato»; dove comincia la quinta
- parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste
- tre ombre sieno e ’l priego loro, dimostra quello che esso alle tre
- ombre dicesse. Dice adunque: «S’io fossi stato dal fuoco coperto», che
- non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell’argine,
- «tra lor di sotto, E credo che ’l dottor l’avria sofferto»,
- considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch’io
- mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura»,
- ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea
- ghiotto», cioè disideroso.
- «Poi cominciai:—Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che
- voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora
- cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia»,
- cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me,
- «Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per
- le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè
- degna d’onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son
- quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.
- Poi che l’autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo
- aveva detto («E se miseria d’esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde
- alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor
- dire se egli era della lor cittá, e dice:—«Di vostra terra sono»,
- cioè della cittá vostra, «e sembrami L’ovra di voi» laudevole (non il
- peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi
- ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali
- gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello
- che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l’amaritudine
- del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita
- a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva,
- dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo
- pe’ dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca»,
- cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond’io, per lo tuo
- me’, penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè
- infino al profondo dello ’nferno, «pria convien ch’io torni»,—cioè
- discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle
- cose precedenti stata mostrata.
- —«Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
- nella quale, poi che l’autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse,
- ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e
- dice:—«Se lungamente», cioè per molti anni, «l’anima conduca Le membre
- tue», cioè ti servi in vita—«rispose quegli allora», cioè messer
- Iacopo,—«E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura,
- disiderate molto da’ mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire
- quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che
- consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e
- lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par
- che riguardi piú all’onore della republica, all’altezza delle ’mprese,
- e ancora agli esercizi dell’arme, nelle quali costoro furono onorevoli
- e magnifici cittadini; «di’ se dimora, Nella nostra cittá, sí come
- suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n’è gita fuora», cioè
- partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la
- cagione che il muove a dubitare e a domandarne.
- «Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato
- molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri
- suoi pari, il trattar paci tra’ grandi e gentili uomini, trattar
- matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare
- gli animi de’ faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i
- moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con
- brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi
- séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima
- colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l’aver poche volte
- peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá
- co’ compagni», da’ quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne
- cruccia con le sue parole»,—dicendone che del tutto partita se n’è.
- Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada
- solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per
- ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o
- due l’anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme,
- non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora
- invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se
- avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata
- si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú
- onorevolmente ricevere, E tra loro sempre si ragionava di cortesia e
- d’opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda
- se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse,
- disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il
- qual visse sí lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza
- vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.
- E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta:—«La gente nuova,
- e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in
- te, sí che tu giá ten piagni.—Cosí gridai con la faccia levata».
- Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li
- quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come
- io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente
- per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore
- erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente,
- per l’esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti
- ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché,
- come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli
- altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto
- indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro
- alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e
- avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in
- quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran
- seguite: la qual cosa l’autore, sí come colui al qual toccava, turbato
- e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi,
- disse.
- «E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta»,
- fatta alla lor domanda, «Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata»,
- cioè turbati, dando piena fede alle parole.
- —«Se l’altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto,
- nella quale, poi che l’autore ha risposto alla lor domanda, ed egli
- pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo:—«Se
- l’altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al
- presente hai fatto,—«Risposer tutti,—il satisfare altrui, Felice te,
- che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d’esti luoghi
- bui», cioè oscuri dello ’nferno, «E torni a riveder le belle stelle»,
- su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui»,
- in inferno, «Fa’ che di noi alla gente favelle»,—non in dire come noi
- siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale
- dell’onore della nostra cittá, e duolci d’udire che cortesia o valor si
- sia partita di quella.
- «Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di
- sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano
- e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d’uomini che fuggissero a
- tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè
- parve che volassero. «Un _amen_», questa dizione «_amen_», la qual si
- dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno,
- «cosí», prestamente, «com’ei furon spariti, Per che al maestro parve di
- partirsi», poi s’eran partiti essi.
- «Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella
- quale, poi che l’autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite,
- dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel
- fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle
- tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell’acqua», la qual
- cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno, e però faceva suono, «n’era
- sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena
- uditi», l’un l’altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo
- fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d’una acqua che cade
- discendendo dell’Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per
- lo cammin dritto da Firenze a Forlí.
- «Come quel fiume, c’ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da
- monte Veso inver’ levante, Dalla sinistra costa d’Appennino». Monte
- Veso è un monte nell’Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza
- dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po.
- Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell’Alpi dalla
- parte di ver’ ponente, e d’Appennino di ver’ levante, e mette in mare
- per piú foci, e tra l’altre per quella di Primaro, presso a Ravenna;
- e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale
- nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l’uomo da Po inver’
- levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al
- piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone,
- percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi
- discende a Ravenna, e lungo le mura d’essa corre, e forse due miglia
- piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio
- cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l’autore
- che egli viene dalla sinistra costa d’Appennino. Intorno alla qual
- cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono
- che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a
- Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel
- monte ch’è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il
- Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte
- della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla
- sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver’
- mezzodí, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si
- lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze,
- Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo
- oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra
- d’Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato
- di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra
- similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina,
- dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al
- fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale
- è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare
- Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo
- principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante,
- sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il
- mare Adriano.
- Dice adunque l’autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che
- dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c’ha proprio
- cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra
- costa d’Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli
- che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino
- altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro,
- «da monte Veso inver’ levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po
- ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d’Appennino». E vuolsi questa
- lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c’ha prima proprio cammino
- da monte Veso inver’ levante dalla sinistra costa d’Appennino, Che si
- chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel
- basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome»,
- Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma
- Montone è chiamato.
- Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi
- _Forum Livii_, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era
- toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a
- dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor
- ciance d’una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse _in
- rerum natura_, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.
- «Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell’Alpe, per cadere ad una scesa».
- Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo
- chiamato l’Eremo, e, discendendo a guisa d’un fossato, giú cade non
- guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d’un balzo
- giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a
- tempo piovoso corre con piú acqua.
- «Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio
- di ciò che l’autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura
- trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l’abate
- del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli
- conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di
- questo luogo, dove quest’acqua cade, si come in luogo molto comodo agli
- abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno
- di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri,
- metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è
- quello che l’autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser
- ricetto», cioè stanza e abitazione.
- «Cosí giú d’una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell’acqua tinta»,
- di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che ’n poca ora avria
- l’orecchia offesa», percioché ’l troppo romore, a chi non è uso,
- offende e noia l’udire.
- «Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta»,
- quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle
- dipinta», quella bestia delle tre che ’l suo andare impediva. «Poscia
- che l’ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Si come ’l duca
- m’avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a
- lui aggroppata ed avvolta. Ond’e’ si volse ver’ lo destro lato. Ed
- alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in
- quell’alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per
- lo avviluppamento d’esso.
- Per la qual cosa l’autor dice:—«Ei pur convien che novitá
- risponda—Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio
- faceva,—«al nuovo cenno, Che ’l maestro con l’occhio si seconda», cioè
- segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l’occhio
- sopra l’acqua, e questo faceva piú credere all’autore che novitá
- dovesse rispondere.
- «Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color
- che non veggion pur l’opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran
- col senno!» In queste parole assai notabili, n’ammonisce l’autore e
- ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a’ savi
- uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre
- affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto
- pensiero spesse volte s’accorgono de’ nostri disidèri. E queste parole
- dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un
- picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé
- quello che egli disiderava, cioè Gerione.
- E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all’autore, il qual,
- seguendo, dice: «El disse a me:—Tosto verrá di sopra», a quest’acqua,
- «Ciò ch’io attendo, e», ciò, «che ’l tuo pensier sogna», cioè non certo
- vede, «Tosto convien ch’al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti.
- E, percioché quello, che seguir dee, pare all’autor medesimo una cosa
- incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e
- ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza
- dire, se la materia l’avesse patito.
- Dice adunque: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna», cioè che
- somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l’uom chiuder le
- labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui
- che ’l dice, «fa vergogna», a quel cotal che ’l dice; in quanto color,
- che l’odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo
- bugiardo.
- «Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia
- di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso
- questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che
- vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S’elle non
- sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se
- io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella
- grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui
- che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in
- fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di
- pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti;
- e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio
- potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve
- tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per
- le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li
- quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e
- quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l’ammaestramento di
- quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella
- presente _Commedia_ si posson dir «note» quelle parti estreme de’
- versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra
- se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E
- chiama l’autor qui questo suo libro _Commedia_, la quale è una spezie
- di poesia; e percioché d’essa nel principio della presente opera fu
- pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.
- Poi l’autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e
- continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch’io vidi per quell’aer
- grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde
- svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una
- figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la
- corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro».
- Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo
- dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion
- dimostra come questa figura notando venisse susa, e dice: «Sí come
- torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare,
- «Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l’áncora»: «l’áncora» è uno
- strumento di ferro, il quale dall’un de’ lati ha piú rampiconi, e
- dall’altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda
- giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch’aggrappa», cioè
- piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.
- Usano i marinari quando vengono ne’ porti con li lor legni, accioché
- il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte
- opposita alla terra, alcune ancore, e queste co’ rampiconi loro si
- ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale
- l’áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter
- discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l’áncora
- fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora
- seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o
- altro dove ella s’appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor
- legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l’ancora, come
- sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare
- fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e
- sviluppila da’ luoghi ove avviluppata è, accioché sÙ tirar si possa.
- Li quali poi, insú ritornando, fanno l’atto il quale qui l’autor dice
- che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno
- fatto da Virgilio. E l’atto di questo cotale dice che è: «Che ’nsu si
- stende», con le braccia, dalla spessezza dell’acqua aiutato a ritirarsi
- insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo
- inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza
- dell’acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.
- L’allegorie le quali in questo canto sono, cioè il supplicio di quelle
- anime dannate, con le quali l’autor mostra che lungamente parlasse,
- sono una medesima cosa con quella, la quale è nel canto quindicesimo,
- precedente a questo, e ancora con quella che è nel quattordicesimo;
- delle quali, percioché d’una medesima qualitá sono con quella che
- ancora è a recitare, e che è nel canto seguente, come altra volta di
- sopra è detto, si riserva a dimostrare dove appresso della terza spezie
- di coloro che a Dio e alle sue cose fanno violenza si tratterá: e però
- qui non curo dirne alcuna cosa. Appresso, quello che nella fine del
- presente canto si discrive della corda data a Virgilio dall’autore,
- e dello animale che, per lo cenno da Virgilio fatto, venne sopra ’l
- fiume, percioché ad un medesimo fine aspetta con quella fiera della
- quale l’ autor tratta nel principio del seguente canto, per non fare
- d’una medesima materia due diversi sermoni, riserverò a dire dove di
- quella fiera diremo.
- CANTO DECIMOSETTIMO
- [Lez. LX]
- —«Ecco la fiera con la coda aguzza», ecc. Il presente canto si
- continua col precedente assai evidentemente, in quanto nella fine del
- precedente ha dimostrato come, per lo segno fatto da Virgilio, vedesse
- sotto l’acqua una figura, la qual notando veniva insú, cioè verso la
- sommitá del fiume; e nel principio di questo dimostra questa figura
- esser pervenuta a riva. E dividesi il presente canto in tre parti:
- nella prima discrive la forma della figura venuta; nella seconda
- dimostra l’afflizione degli usurieri; nella terza dimostra come, salito
- sopra le spalle di quella figura, insieme con Virgilio fosse passato, e
- trasportato del settimo cerchio dello ’nferno nell’ottavo. La seconda
- comincia quivi: «Quivi ’l maestro»; la terza quivi: «Ed io, temendo».
- Comincia adunque cosí:—«Ecco la fiera»; chiamala «fiera» dal suo
- fiero e crudele effetto; «con la coda aguzza», cioè aguta e pugnente
- piú che alcun ferro, «che passa i monti», cioè le durissime e grandi
- cose, «e rompe i muri», della cittá e di qualunque fortezza, «e l’armi»
- (_supple_) passa e rompe di qualunque fortissimo e ardito cavaliere;
- «Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza»,—cioè corrompe e guasta col
- suo iniquo è fraudolente adoperare. E dice «ecco» _demonstrative_,
- percioché, allora quando Virgilio cominciò a parlare, giugneva questa
- fiera sopra l’acqua del fiume dal lato loro. «Si cominciò», come
- detto è, «lo mio duca a parlarmi». Poi dice: «Ed accennolle», poi che
- cosí ebbe detto, «che venisse a proda», cioè sopra la riva del fiume,
- «Vicino al fin de’ passeggiati marmi». Pon qui la spezie per lo genere,
- cioè «marmi» per «pietre»: è il marmo, come noi veggiamo, una spezie
- di pietra bianchissima e forte. E dice «passeggiati marmi», percioché,
- passeggiando, eran venuti su per l’argine del fiume infin quivi; il
- qual argine ha di sopra dimostrato che era divenuto pietra: vuol dunque
- qui dire che Virgilio le fece cenno che ella venisse insino al luogo
- dove essi, passeggiando, erano pervenuti.
- «E quella sozza immagine di froda». Manifesta l’autore qui di che cosa
- questa fiera fosse immagine, e dice che era «di froda»: la qual froda
- che cosa sia si dimostrerá appresso. «Sen venne», per lo cenno fattole
- da Virgilio, «ed arrivò», cioé mise sopra la riva, «la testa e ’l
- busto», cioè il rimanente del corpo; «Ma ’n su la riva non trasse la
- coda»; e cosí mostra che quella si rimanesse coperta nell’acqua.
- «La faccia sua», di questa fiera, «era faccia d’uom giusto, Tanto
- benigna», mansueta e piacevole, «avea di fuor la pelle», cioè
- l’apparenza; «E d’un serpente» era «tutto l’altro fusto», della persona
- di questa fiera. «Due branche», cioè due piedi artigliati, come
- veggiamo che a’ dragoni si dipingono, «avea pelose infin l’ascelle»,
- cioè infino sotto le ditella; «Lo dosso e ’l petto ed amendue le
- coste», cioè tutto il corpo, fuor che la testa e ’l collo e la coda,
- «Dipinte avea», ornate, come naturalmente hanno molti animali, «di
- nodi», cioè di composti, li quali parevano nodi, «e di rotelle», di
- figure ritonde.
- «Con piú color sommesse e sopraposte», a variazion dell’ornamento, «Non
- fer mai drappi tartari né turchi», li quali di ciò sono ottimi maestri,
- si come noi possiam manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi, li
- quali veramente sono si artificiosamente tessuti, che non è alcun
- dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti, non che piú
- belli.
- Sono i tartari.........................
- ................................
- IV
- ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA “DIVINA COMMEDIA” DI DANTE ALIGHIERI
- ALL’INFERNO
- «Nel mezzo del cammin di nostra vita»,
- smarrito in una valle l’autore,
- e la sua via da tre bestie impedita,
- Virgilio, dei latin poeti onore,
- 5 da Beatrice gli apparve mandato
- liberator del periglioso errore.
- Dal qual poi che aperto fu mostrato
- a lui di sua venuta la cagione,
- e ’l tramortito spirto suscitato,
- 10 senza piú far del suo andar quistione,
- dietro gli va, ed entra in una porta
- ampia e spedita a tutte persone.
- Adunque, entrati nell’aura morta,
- l’anime triste vider di coloro
- 15 che senza fama usâr la vita corta;
- io dico de’ cattivi: eran costoro
- da moscon punti, e senza alcuna posa
- correndo givan, con pianto sonoro.
- Quindi, venuti sopra la limosa
- 20 riva d’un fiume, vide anime assai,
- ciascuna di passar volenterosa.
- A cui Caròn:—Per qui non passerai!—
- di lontan grida; appresso, un gran baleno
- gli toglie il viso e l’ascoltar de’ guai.
- 25 Dal qual tornato in sé, di stupor pieno,
- di lá da l’acqua in piú cocente affanno,
- non per la via che l’anime teniéno,
- si ritrovò; e quindi avanti vanno,
- e pargoletti veggon senza luce
- 30 pianger, per l’altrui colpa, eterno danno.
- Dietro alle piante poi del savio duce
- passa con altri quattro in un castello,
- dove alcun raggio di chiarezza luce.
- Quivi vede seder sovr’un pratello
- 35 spiriti d’alta fama, senza pene,
- fuor che d’alti sospiri, al parer d’ello.
- Da questo loco discendendo, viene
- dove Minós esamina gli entranti,
- fier quanto a tanto officio si conviene.
- 40 Quivi le strida sente e gli alti pianti
- di quei che furon peccator carnali,
- infestati da venti aspri e sonanti,
- dove Francesca e Polo li lor mali
- contano. E quindi Cerbero latrante
- 45 vede sopra a’ gulosi, infra li quali
- Ciacco conosce; e, procedendo avante,
- truova Plutone, e’ prodighi e gli avari
- vede giostrar con misero sembiante.
- Che sia Fortuna e la cagion de’ vari
- 50 suoi movimenti Virgilio gli schiude:
- e, discendendo poi con passi rari,
- truovan di Stige la nera palude,
- la qual risurger vede di bollori,
- da’ sospir mossi d’alme in essa nude,
- 55 dove gli accidiosi peccatori,
- e gl’iracundi, gorgogliando in quella,
- fanno sentir li lor grevi dolori.
- Sopra una fiamma poi doppia fiammella
- subito vede, ed una di lontano
- 60 surgere ancora e rispondere ad ella.
- Quivi Flegias, adirato, il pantano
- oltre gli passa, nel qual vede strazio
- far di Filippo Argenti, e non invano.
- E appena era di tal mirare sazio,
- 65 ch’a piè della cittá di Dite giunti,
- senza esser lor d’entrarvi dato spazio,
- si vide, e quindi da disdegno punti
- per la porta serrata lor nel petto
- da li spiriti piú da Dio disiunti.
- 70 E mentre quivi stavan con sospetto,
- le tre Furie infernai sovra le mura
- Tesifon, vider, Megera ed Aletto.
- Appresso, acciò che l’orribil figura
- del Gorgon non vedesse, il buon maestro
- 75 gli occhi gli chiuse, e fennegli paura.
- Di scender poi per lo cammin silvestro,
- per cui la porta subito s’aprio,
- mostra, e ’l passare a loro in quella, destro.
- Quivi dolenti strida ed alte udio,
- 80 che de’ sepolcri uscivano affocati,
- de’ qual pieno era tutto il loco rio:
- in quegli essere intese i trascutati
- eresiarci, e tutti quelli ancora
- ch ’a Epicuro dietro sono andati.
- 85 Lì, ragionando, picciola dimora
- con Farinata e con un altro face,
- ch’alquanto a l’arca pareva di fora.
- Disegna poi come lo ’nferno giace,
- da indi in giú, distinto in tre cerchietti,
- 90 e poi dimostra con ragion vivace
- perché dentro alle mura i maladetti
- spiriti sien di Due, e nel suo cerchio,
- piú che color che ha di sopra detti.
- Centauri truova poi sovr’al coperchio
- 95 d’un’altra valle sovra Flegetonte,
- nel qual chi fe’ al prossimo soverchio
- bollir vede per tutto; e perché cónte
- le vie salvagge, a passar la riviera
- Nesso gli fa della sua groppa ponte.
- 100 Oltre passati, in una selva fiera
- di spirti, in bronchi noderosi e torti
- mutati, entraron per via straniera.
- Tutti se stessi i miseri avien morti,
- che li piangean, divenuti bronconi;
- 105 dove gli fe’ Pier delle Vigne accorti
- delle dolenti lor condizioni
- e delle sue; e nella selva stessa,
- dopo gli uditi miseri sermoni,
- da nere cagne un’anima rimessa
- 110 vide sbranare, e seppe a tal martiro
- dannato chi la sustanzia, commessa
- all’util suo, biscazza. E quindi giro
- piú giú, dove piovean fiamme di foco,
- fuor della selva, sovra un sabbion diro;
- 115 lá dove Campaneo, curante poco,
- vider giacer sotto la pioggia grave
- con piú molti arroganti; e ’n questo loco,
- seguendo, mostra con rima soave
- d’una statua, ch’ è di piú metalli,
- 120 l’acqua cadere in quelle valli prave,
- e quattro fiumi per piú intervalli
- nel mondo occulto fare, infino al punto
- piú basso assai che tutte l’altre valli.
- Poi ser Brunetto abbrusciato e consunto
- 125 sotto l’orribil pioggia correr vede,
- col quale alquanto, parlando, congiunto,
- di sua futura vita prende fede.
- Poi, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi,
- Iacopo Rusticucci, infino al piede
- 130 di lui venuti, a’ lor nuovi dimandi
- sodisfa presto; e quinci procedette
- dove anime trovò con tasche grandi
- sedere a collo, sotto le fiammette,
- di loro alcuni a l’arme conoscendo
- 135 stati usurieri, e per tre render sette.
- Poi, sovra Gerion giú discendendo,
- in Malebolge vene, ove i baratti
- in diece vede, senza pro piangendo.
- De’ quali i primi da dimòn son tratti
- 140 con grandi scoreggiate per lo fondo,
- scherniti e lassi, vilmente disfatti;
- lá dove alcun ch’avea veduto al mondo
- vi riconobbe, ch’era bolognese,
- Venedico, e ruffiano; a cui secondo
- 145 Iason venia, che tolse il ricco arnese
- a’ colchi. E quindi Alesso Interminelli
- in uno sterco vide assai palese
- pianger le sue lusinghe; e quindi quelli
- che sottosopra in terra son commessi
- 150 per simonia; e li par che favelli
- con un papa Nicola; ed, oltre ad essi,
- travolti vede quei che con fatture
- gabbarono non ch’altrui, ma se istessi.
- Quindi discendon lá ove l’oscure
- 155 pegole bollon chi baratteria
- vivendo fece, e di quelle misture,
- mentre che van con fiera compagnia
- di diece diavol, parla un che fu tratto
- da Graffiacan per la cottola via,
- 160 sé navarrese dicendo e baratto;
- quinci com’el fuggi delle lor mani
- racconta chiaro, e de’ diavoli il fatto.
- Sotto le cappe rance i pianti vani
- degl’ipocriti poi racconta, e mostra
- 165 Anna e ’l suo suocer nelli luoghi strani
- crocifissi giacer. Poi, nella chiostra
- di Malebolge seguente, brogliare
- fra’ serpi vede della gente nostra,
- quivi dannati per lo lor furare:
- 170 Agnolo e ’l Cianfa ed altri e Vanni Fucci;
- li quai mirabilmente trasformare,
- dopo nuovi atti, parlamenti e crucci,
- e d’uomo in serpe, e poi di serpe in uomo,
- in guisa tal, che mai vista non fucci,
- 175 discrive. E poi chi mal consiglio, comoda,
- come Ulisse, in fiamme acceso andando,
- vede riprender dattero per pomo.
- Pria con Ulisse, e poscia ragionando
- col conte Guido, passa; e, pervenuto
- 180 su l’altra bolgia, vede gente andando
- tutta tagliata sovente e minuto,
- per lo peccato della scisma reo
- da lor nel mondo falso in suso avuto.
- Lì Maometto fesso discernéo,
- 185 e quel Beltram che giá tenne Altaforte,
- e Curio e ’l Mosca, e molti qual potéo.
- Appresso vide piú misera sorte
- degli alchimisti fracidi e rognosi,
- u’ seppe da Capocchio l’agra morte,
- 190 e Mirra e Gianni Schicchi e piú lebbrosi
- vide, ed i falsator per fiera sete
- ritruopichi fumare stando oziosi:
- tra’ quali in quella inestricabil rete
- vide Sinón, ed il maestro Adamo
- 195 garrir con lui, come legger potete.
- Quindi, lasciando l’uno e l’altro gramo,
- dal mezzo in su gli figli della terra
- uscir d’un pozzo vede, ed al richiamo
- del gran poeta intramendue gli afferra
- 200 Anteo, e lor sovr’al freddo Cocito
- posa, nel quale in quattro parti serra
- il ghiaccio i traditor: quivi ghermito
- Sassol de’ Mascheron nella Caina,
- e ’l Camiscion de’ Pazzi, ebbe sentito.
- 205 Poscia nell’Antenora, ivi vicina,
- tra gli altri dolorosi vide il Bocca,
- e di Gian Soldanier l’alma meschina,
- ed altri molti, ch’ora a dir non tocca,
- si come l’arcivescovo Ruggieri,
- 210 ed il conte Ugolino, anima sciocca.
- Piú oltre andando pe’ freddi sentieri,
- spiriti truova nella Ptolomea
- giacer riversi ne’ ghiacci severi.
- Quivi, racconta, l’alma si vedea
- 215 di Brancadoria e di frate Alberico,
- che senza pro de’ frutti si dolea.
- Appresso vede l’Avversario antico
- nel centro fitto, e Iuda Scariotto,
- e Cassio e Bruto, di Cesar nemico,
- 220 nell’infima Iudecca star di sotto.
- Quindi, pe’ velli del fiero animale
- discendendo, e salendo, il duca dotto
- lui di fuor tira da cotanto male
- per un pertugio, onde le cose belle
- 225 prima rivide, e per cotali scale
- usciron quindi «a riveder le stelle».
- AL PURGATORIO
- «Per correr miglior acqua alza le vele»
- qui lo autore, e, seguendo Virgilio,
- pe’ dolci pomi sale e lascia il fiele.
- Catón primier, fuor dell’eterno esilio,
- 5 truovano e seco parlan, procedendo;
- poi dánno effetto al suo santo consilio.
- Su la marina vede, discendendo
- nell’aurora, piú anime sante,
- e ’l suo Casella, al cui canto attendendo,
- 10 mentre l’anime nuove tutte quante
- givan con lor, rimorsi da Catone,
- fuggendo al monte ne girono avante.
- Incerti quivi della regione,
- truovan Manfredi ed altri, che moriro
- 15 per colpa fuor di nostra comunione
- col perder tempo, adequare il martiro
- alla lor colpa; e quindi, ragionando,
- del solar corso gli solve il desiro
- l’alto poeta sedendosi, quando
- 20 Belacqua vider per negghienza starsi;
- e giá levati verso l’alto andando,
- Bonconte ed altri molti incontro farsi
- vider, li quali infino all’ultim’ora,
- uccisi, a Dio penáro a ritornarsi.
- 25 Quindi Sordel trovar sol far dimora,
- il qual, poi che l’autor molto ha parlato
- contro ad Italia, il gran Virgilio onora.
- Poi mena loro in un vallone ornato
- d’erbe e di fior, nel qual, cantando, addita,
- 30 a Virgilio Sordello stando allato,
- spiriti d’alta fama in questa vita,
- tra’ quai discesi, il Gallo di Gallura
- riceve l’autor; quindi, finita
- del di la luce, vede dell’altura
- 35 due angeli con due spade affocate
- discender ad aver di costor cura.
- Poscia, dormendo, con penne dorate
- gli par che ’n alto un’aquila nel porti
- d’infino al foco; quindi, alte levate
- 40 le luci, spaventato, da’ conforti
- fatto sicur di Virgilio, Lucia
- gli mostra quivi loro avere scorti.
- Del purgatorio gli addita la via,
- dove venuti, qual fosse disegna
- 45 la porta, e’ gradi onde a quel si salía,
- chi fosse il portinaio, che veste tegna,
- e quai fosser le chiavi, e che scrivesse
- nella sua fronte, e che far si convegna
- a chi passa lá dentro pone _expresse_.
- 50 E quindi come en la prima cornice
- dichiara con fatica si giugnesse;
- ed intagliate in alta parte dice
- di quella istorie d’umiltá verace:
- poi spirti carchi dall’una pendice
- 55 vede venir cantando, ed orar pace
- per sé e per altrui, purgando quello
- che ne’ mortal superbia sozzo face;
- tra’ quali Umberto ed Odorisi, ad ello
- appresso, e simil Provinzan Silvani
- 60 piangendo vide sotto il fascio fello.
- Oltre passando pe’ sentieri strani,
- sotto le piante sue effigiati
- vide gli altieri spiriti mondani.
- Da uno splendido angiolo invitati
- 65 piú leggier salgono al giron secondo,
- perché li «P» l’autor trovò scemati.
- Lí alte voci, mosse dal profondo
- ardor di caritá, udir volanti
- per l’aere puro del levato mondo;
- 70 e poi che giunti furon piú avanti,
- videro spirti cigliati sedere,
- vestiti di ciliccio tutti quanti,
- perché la invidia lor tolse il vedere:
- Guido del Duca, Sapia e Rinieri
- 75 da Calvol truova lí piangere, e vere
- cose racconta di tutti i sentieri
- onde Arno cade, e simil di Romagna;
- quindi altri suon sentiron piú severi.
- Ed oltre su salendo la montagna,
- 80 da un altro angelo invitati foro,
- parlando dell’orribile magagna
- d’invidia, e dell’opposito, fra loro,
- e, di sé tratto andando, vide cose
- pacefiche in aspetto; né dimoro
- 85 fe’ guari in quelle, che ’n caliginose
- parti del monte entraron, dove l’ira
- molti piangean con parole pietose.
- Quivi gli mostra Marco quanto mira
- nostra potenzia sia, e quanto possa
- 90 di sua natura, e quanto dal ciel tira.
- Appresso usciti dall’aria grossa,
- imaginando vede crudi effetti
- venuti in molti da ira commossa.
- Quivi gl’invia un angel; per che, stretti
- 95 alla grotta amendue, a non salire
- dalla notte vegnente fur costretti.
- Posti a sedere incominciaro a dire
- insieme dell’amor del bene scemo,
- che ’n quel giron s’empieva con martire,
- 100 dove, sí come noi veder potemo,
- distintamente Virgilio ragiona
- come si scemi in uno ed altro estremo,
- che sia amor, del quale ogni persona
- tanto favella, e come nasca in noi.
- 105 L’abate li di San Zen da Verona
- con altri assai correndo vede poi
- e con lui parla, e seguel nell’oscuro
- tempo, con altri retro a’ passi suoi,
- come sentendo si rifá maturo
- 110 d’accidia l’acerbo. Indi ne mostra
- come, dormendo in sul macigno duro,
- qual fosse vide la nemica nostra,
- e come da noi partasi, e, sdormito,
- come venisse nella quinta chiostra,
- 115 fattogli a ciò da uno angel lo ’nvito.
- Quivi giacendo assai spiriti truova,
- che d’avarizia piangon l’acquisito
- in giú rivolti e, perch’el non sen mova
- alcun, legati tutti; e quivi parla
- 120 con un papa dal Fiesco; appresso pruova
- l’onesta povertá, ed a lodarla
- Ugo Ciappetta induce, i cui nepoti
- nascer dimostra tutti atti a schifarla,
- pien d’avarizia e d’ogni virtú vòti;
- 125 e come poscia contro alla nequizia,
- passato il dí, cantando, vi si noti.
- Quindi, per tutto, novella letizia,
- ed il monte tremare infino al basso
- dimostra, mosso da vera giustizia.
- 130 Qui truova Stazio non a lento passo
- salire in su, al qual Virgilio chiede
- della cagion del triemito del sasso.
- la quale Stazio assegna; indi succede
- al priego suo ancora a nominarsi.
- 135 Quindi, com’uom ch’appena quel che vede
- crede, dichiara Stazio avanti farsi
- ad onorar Virgilio, e gli fa chiaro
- lui, per contrario peccato agli scarsi,
- aver per molti secoli l’amaro
- 140 monte provato. E giá nel cerchio sesto,
- parlando insieme, uno albero trovâro
- donde una voce lor disse il modesto
- gusto di molti; e, piú propinqui fatti,
- chiaro s’avvider ch’ogni ramo in questo
- 145 albero è vòlto in giú, e d’alto tratti
- vider cader liquor di foglia in foglia,
- e sotto ad esso spirti macri e ratti
- vider venir piú che per altra soglia
- dell’erto monte, e pure in sú la vista
- 150 alli pomi tenean, che sí gl’invoglia.
- Cosí andando infra la turba trista,
- raffigurollo l’ombra di Forese:
- con lui favella; e della gente mista
- piú riconobbe, e, tra gli altri, il lucchese
- 155 Bonagiunta Orbiccian; poi una voce
- all’albero appressarsi lor difese.
- Un angel quinci al martiro che cuoce
- gl’invita, ed essi, per l’ora che tarda
- era, ciascun n’andava sú veloce,
- 160 mostrando Stazio a lui, se ben si guarda,
- nostra generazione, e come l’ombra
- prenda sembianza di corpo bugiarda,
- e come sia da passione ingombra:
- e, sí andando, pervennero al foco,
- 165 prima che ’l santo monte facesse ombra;
- lungo ’l qual trapassando per un poco
- d’un sentieruolo udîr voci nemiche
- al vizio di lussuria, ed in quel loco
- piú anime conobbe, che ’mpudiche
- 170 furon vivendo, e Guido Guinizelli
- gli mostra Arnaldo in sí aspre fatiche.
- Ma, poi che s’è dipartito da elli,
- a trapassar lo foco i cari duci
- confortan lui, ch’appena in mezzo a quelli
- 175 il trapassò. Di quindi a l’alte luci
- salir gl’invita uno angel che cantava,
- pria s’ascondesser li raggi caduci.
- Vede nel sonno poi Lia che s’ornava
- di fior la testa, cantando parole
- 180 nelle quali essa chi fosse mostrava.
- Quindi levato nel levar del sole,
- Virgilio di sé stesso il fa maestro,
- sul monte giunti, e può far ciò che vuole.
- Venuti adunque nel loco silvestro
- 185 truova una selva, ed in quella si spazia
- su per lo lito di Letè sinestro.
- Vede una donna, che a lui di grazia
- parla e con verissime ragioni:
- del fiume il moto e dell’aura il sazia.
- 190 Di quinci a vie piú alte ammirazioni
- venuto, sette candelabri e molte
- genti precedere un carro, i timoni
- del qual traeva, con l’alie in sú vòlte,
- un grifon d’oro, quanto uccel vedeasi,
- 195 l’altro di carne, alle cui rote accolte
- da ogni parte una danza moveasi
- di certe donne, e nel mezzo Beatrice
- del tratto carro splendida sedeasi.
- Da cosí alta vista e sí felice
- 200 percosso, da Virgilio con Istazio
- esser lasciato lagrimando dice.
- Appresso questo non per lungo spazio,
- con agre riprension la donna il morde,
- senza aver luogo a ricoprir mendazio;
- 205 per che le sue virtú quasi concorde
- li venner meno, e cadde, né sentisse
- pria ch’alle sue orecchi, ad altro sorde,
- pervenne:—Tiemmi;—onde, anzi ch’egli uscisse,
- da una donna tratto per lo fiume,
- 210 l’acqua convenne che egli inghiottisse.
- Poi quattro donne, secondo il costume
- di loro, il ricevettero, e menârlo
- di Beatrice avanti al chiaro lume.
- Qual gli paresse il suo viso, pensarlo
- 215 ciascun che ’ntende può; poi la virtute
- gli mancò qui a poter divisarlo.
- I casi avversi appresso, e la salute
- della Chiesa di Dio, sotto figmento
- delle future come delle sute
- 220 cose, disegna; poi il cominciamento
- di Tigri e d’Eufrate vede in cima
- del monte, e con Matelda va contento,
- e con Istazio, ad Eunòe prima;
- donde bagnato, e rimenato a quelle
- 225 donne beate, finisce la rima,
- «puro e disposto a salire alle stelle».
- AL PARADISO
- «La gloria di Colui che tutto move»
- in questa parte mostra l’autore
- a suo poder, qual ei la vide e dove.
- Ed invocato d’Apollo l’ardore,
- 5 di sé incerto, retro a Beatrice
- pe’ raggi sen salí del suo splendore
- nel primo ciel, lá, onde a ciascun dice,
- men sofficiente, che retro a sua barca
- piú non si metta fra ’l regno felice.
- 10 E mentre avanti cantando travarca,
- de’ segni della luna fa quistione
- alla sua guida, e quella se ne scarca.
- Poi c’ha udita la sua opinione,
- e, premettendo alcuna esperienza,
- 15 chiaro nel fa con aperta ragione,
- Piccarda vede, e della sua essenza
- nel primo cielo «per manco di voto»
- con lei favella; e, della sua presenza
- partita, Beatrice a lui divoto
- 20 qual violenza il voto manco faccia
- distingue ed apre; e simil gli fa noto
- perché gli paia i cieli aprir le braccia
- a diversi diversi, e come siéno
- però presenti alla divina faccia;
- 25 quindi, con viso ancora piú sereno,
- se sodisfare a’ voti permutando
- si possa o no, a lui dichiara appieno;
- e nel ciel di Mercurio ragionando
- veloci passan. Lí Giustiniano
- 30 prima di sé sodisfá al dimando;
- appresso, quanto lo ’mperio romano
- sotto il segno dell’aquila facesse
- gli mostra in parte, e poi a mano a mano,
- parlando seco, volle ch’el sapesse
- 35 Romeo in quella luce gloriarsi,
- che fe’ quattro reine di contesse.
- Induce poi Beatrice a dichiararsi,
- «come giusta vendetta giustamente
- fosse vengiata»; e quindi trasportarsi
- 40 nel terzo ciel, veggendo piú lucente
- la donna sua, s’avvide. Ivi con Carlo
- Martel favella, il quale apertamente
- gli solve ciò che ’l mosse a dimandarlo,
- come di dolce seme nasca amaro;
- 45 quindi Cunizza viene a visitarlo,
- e del futuro alquanto gli fa chiaro
- sovra i lombardi, e con Folco favella,
- che gli mostra Raab. Indi montâro
- nella spera del sole, onde una bella
- 50 danza di molti spiriti beati
- vede far festa, e nel girarsi snella;
- de’ quai gli furon molti nominati
- da Tommaso d’Aquin, che di Francesco
- molto gli parla poi e dei suoi frati.
- 55 Poi scrive un cerchio sovraggiugner fresco
- a questo, e ’n quel parlar Bonaventura
- da Bagnoreo del calagoresco
- Domenico, nel qual fu tanta cura
- della fé nostra e dell’orto divino,
- 60 quanta mai fosse in altra creatura.
- Poi rincomincia Tommaso d’Aquino
- com’egli intenda: «Non surse il secondo»
- di Salamone, e con chiaro latino
- gliele dimostra, ed un lume giocondo
- 65 l’accerta lor, piú lieti e piú lucenti,
- come i lor corpi riavran del mondo.
- Quindi nel quinto ciel di lucolenti
- spiriti vede una mirabil croce,
- della quale un de’ suoi primi parenti
- 70 gli fa carezze, e con soave voce
- gli si discuopre, e mostra quale stato
- Fiorenza avesse, quando nel feroce
- e labil mondo fu da pria creato;
- quindi le schiatte piú di nome degne
- 75 nomina tutte, da lui dimandato.
- Poi gli fa chiare le parole pregne
- di Farinata, e ’n purgatoro udite,
- a lui mostrando del futuro insegne.
- Appresso ancor con parole espedite
- 80 gli nomina di quei santi fulgori
- Iosuè, Iuda, Carlo e piú, scolpite
- da lui nel nominar per gli splendori
- cresciuti. E quindi nel Giove sen sale,
- dove un’aquila fanno i santi ardori
- 85 di sé mirabile e bella, la quale
- gli solve il dubbio d’un che nato sia
- su lito, senza udire o bene o male
- di Dio, mostrando quel che di lui fia;
- quindi Davit e Traiano e Rifeo
- 90 gli mostra, ed altri en la sua luce dia.
- Poi ’l chiarisce d’un dubbio che si feo
- in lui, de’ due che appaion pagani
- nel primo aspetto. Quindi uno scaleo,
- salito nel Saturno, di sovrani
- 95 lumi ripien discerne, onde altro scende
- ed altro sale, e con Pier Damiani
- ragiona lí; e qual quivi risplende
- gli parla e noma piú contemplativi
- quel Benedetto onde Casin dipende.
- 100 Sal nell’ottavo del poscia di quivi,
- e, nel segno de’ Gemini venuto,
- le sette spere ed i corpi passivi
- si vede sotto i piè. Poi conosciuto
- Cefas, sua fede e suo creder confessa,
- 105 da lui richesto, a lui tutto compiuto.
- Con voce appresso lucolenta e spressa
- al baron di Galizia la speranza
- dice che è, e che spetta per essa;
- indi venire a cosí alta danza
- 110 Giovanni mostra, il qual del corpo morto
- di lui di terra il cava d’ogni erranza.
- Poi seguitando, al suo domando accorto,
- che cosa sia la caritá, risponde,
- e qual da lei gli proceda conforto.
- 115 Appresso scrive come alle gioconde
- luci s’aggiunse quel padre vetusto
- che prima fu da Dio creato, e donde
- tutti nascemmo, e per lo cui mal gusto
- tutti moiamo: il qual del suo uscire
- 120 laonde posto fu, e quanto giusto
- in quello stesse, e quanto il gran desire
- di quella gloria avesse, e la dimora
- quanto fu lunga qui dopo ’l fallire
- gli conta, ed altre cose. Indi colora,
- 125 quasi infiammato, il vicaro di Dio
- contr’a’ pastor che ci governano ora.
- Poi come nel ciel nono sen salío
- discrive, dove l’angelica festa
- in nove cerchi vede e ’l suo disio;
- 130 di lor natura lí gli manifesta
- con sermon lungo assai mirabil cose,
- e della turba che ne cadde mesta.
- Poi vede le milizie gloriose
- del nuovo e dell’antico Testamento,
- 135 che bene ovrando a Dio si fêro spose
- nel ciel piú alto sovra il fermamento,
- dove ’l solio d’Enrico ancor vacante
- discerne. E quivi lui, che stava attento
- a riguardar le creature sante,
- 140 lascia Beatrice, ed in loco di lei
- Bernardo con lo sguardo il guida avante,
- dove, poi c’ha orazione a lei,
- cui seder vede dove la sortiro
- gli merti suoi, gli è mostrata colei
- 145 che sposa antica fu del primo viro,
- Rachel, Sara, Rebecca e ’l gran Giovanni,
- che pria il deserto, e poi provò il martíro.
- Appresso poi in piú sublimi scanni
- Francesco ed Agostino e Benedetto,
- 150 e quei che trapassar ne’ teneri anni,
- vede, de’ quali il dottor sopra detto,
- dico Bernardo, ragionando ad ello,
- caccia ogni dubbio fuor del suo concetto.
- Quindi il santo grazioso e bello
- 155 piú ch’altro di Maria gli mostra il viso,
- e davanti da lei quel Gabriello
- che ’l decreto recò di paradiso
- della nostra salute, tanto lieto
- che qui per non poter ben nol diviso:
- 160 onesto l’uno e l’altro e mansueto.
- Adamo e Pietro e poi il vangelista
- Giovanni lí seder vede, ripleto
- d’alta letizia, e quindi il gran legista
- Moisé vede, e poi Lucia ed Anna;
- 165 e punto fa alla gioiosa vista.
- Appresso, acciò che la divina manna
- discenda in lui, e faccial poderoso
- a veder ciò per che ciascun s’affanna,
- umile quanto può, nel grazioso
- 170 cospetto della Madre d’ogni grazia,
- insieme col dottor di lei focoso
- orando, priega che la vista sazia
- del primo Amor gli sia, e per lo lume,
- che senza fine profondo si spazia,
- 175 ficca degli occhi suoi il forte acume;
- poi, disegnando quanto ne raccolse,
- termine pone al suo alto volume,
- mostrando come in quel tutto si volse
- l’alto disio ed alle cose belle,
- 180 e come ogni altro appetito gli tolse
- «l’Amor che muove il sole e l’altre stelle».
- V
- RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- INFERNO
- Comincia la prima parte della _Cantica_, overo _Comedia_, chiamata
- _Inferno_, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, e di
- quella prima parte il canto primo. Nel quale l’autore mostra sé
- smarrito in una valle e impedito da tre bestie, e come Virgilio,
- apparitogli, se gli offerse per duca a trarlo di quel luogo,
- mostrandogli per qual via.
- Comincia il canto secondo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore, fatta la
- sua invocazione, muove un dubbio a Virgilio della sua andata. Il quale
- Virgilio, mostrandogli chi ’l mosse, e come tre benedette curan di lui
- nel cielo, gliel solve, e rassicuralo, ed entrano in cammino.
- Comincia il canto terzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore mostra come
- in quello entrasse e vedesse i cattivi piagnendo correr forte, trafitti
- da vespe e da mosconi; e appresso come molte anime s’adunavano alla
- riva d’Acheronte, le quali tutte Caron passava, ma lui passar non volle.
- Comincia il canto quarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor mostra come
- si ritrovò nel primo cerchio di quello; e quivi scrive esser quegli che
- per difetto di battesimo son dannati, e dichiaragli Virgilio come giá
- n’avea veduti trarre alquanti. Poi, venuti loro incontro quattro poeti,
- con loro entrano in un castello, dove nobili uomini d’arme, filosofi e
- valorose donne vede.
- Comincia il canto quinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- discendendo nel secondo cerchio, truova Minos, e appresso i peccatori
- carnali da aspro vento percossi; e quivi con madonna Francesca da
- Polenta parla, e ode come con Paolo de’ Malatesti si congiugnesse per
- amore.
- Comincia il canto sesto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor discende nel
- terzo cerchio, nel quale sotto grave pioggia son tormentati i gulosi.
- Quivi truova Cerbero, e parla con Ciacco, il quale gli predice certe
- cose future a’ fiorentini divisi.
- Comincia il canto settimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- scendendo nel giron quarto, truova Plutone, e vede i prodighi e gli
- avari incontro a sé volger grandissimi sassi; e Virgilio gli dimostra
- che cosa è la Fortuna; e quindi, scendendo nel giron quinto, vede la
- padule di Stige, e in quella ode esser tormentati gl’iracundi e gli
- accidiosi.
- Comincia il canto ottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor mostra
- che, salito sopra la barca di Flegias, s’avventò alla banda di quella
- Filippo Argenti, e come, sospinto da Virgilio nell’acqua, fu straziato
- dagli altri spiriti; e appresso come, venuti alla porta di Dite, fu da’
- demòni serrata nel petto a Virgilio.
- Comincia il canto nono dello _’Nferno_. Nel quale, poi che Virgilio ha
- detto che altra volta fece quel cammino, gli mostra le tre Furie, e
- chiudegli gli occhi, accioché non vegga il Gorgone. E appresso scrive
- come messo di Dio fece aprir la porta, ed essi entraron dentro, e
- trovaro l’arche affocate degli eretici.
- Comincia il canto decimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor parla con
- Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio.
- Comincia il canto decimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale Virgilio
- mostra, dal luogo dove è in giú, lo ’nferno esser distinto in tre
- cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che
- quegli, che lasciati hanno, non son nella cittá di Dite racchiusi.
- Comincia il canto decimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale mostra
- l’autore come Virgilio facesse partire il minotauro, fattosi loro
- incontro, e rendegli la ragione d’una grotta caduta; e come truovano i
- centauri, e pervengono al fiume di Flegetone, nel quale vede bollire
- rubatori e tiranni; e poi Nesso il porta dall’altra parte.
- Comincia il canto decimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in
- bronchi, di ciò parlando con Piero dalle Vigne, e appresso coloro li
- quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati
- da cagne nere.
- Comincia il canto decimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor
- mostra sé esser venuto sovra un sabbione ardente, sopra il qual piovono
- continue fiamme, e dove si puniscono quegli che violentamente hanno
- adoperato incontro a Dio e contro alla natura, e avanti agli altri vede
- punir Campaneo. Poi gli dimostra Virgilio come d’una statua di diversi
- metalli si creano tutti i fiumi dello ’nferno.
- Comincia il canto decimoquinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore di
- scrive il tormento de’ sogdomiti, e truova ser Brunetto Latino, il
- quale gli predice alcuna cosa della sua futura vita.
- Comincia il canto decimosesto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor parla,
- in quel medesimo luogo che di sopra, con tre spiriti; poi, data una
- corda a Virgilio, mostra come egli, con quella pescando, facesse venir
- fuor Gerione.
- Comincia il canto decimosettimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- discrive la forma della fraude e il tormento degli usurieri, e come,
- saliti sovra Gerione, passarono il fiume.
- Comincia il canto decimottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore prima
- discrive come sia fatto Malebolge; e appresso mostra come i ruffiani
- siano con iscuriate battuti da demòni; e ultimamente come i lusinghieri
- piangano in uno sterco.
- Comincia il canto decimonono dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- disceso nella terza bolgia, dimostra qual sia il tormento de’
- simoniaci, e parla con papa Niccola, il quale gli predice d’alcun papa
- futuro simoniaco; e quindi esclama l’autore contro al detto papa.
- Comincia il canto vigesimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore discende
- nella quarta bolgia, nella qual truova coloro li quali vollero
- antivedere, fatturieri e maliosi, tutti travolti; e alcuna cosa parla
- della origine di Mantova.
- Comincia il canto vigesimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- venuto nella quinta bolgia, mostra come in una bogliente pegola si
- puniscano i barattieri e come in quella è gittato un lucchese; e come,
- volendo andare avanti, son dati loro dieci diavoli in compagnia.
- Comincia il canto vigesimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor
- discrive come i dimòni presero con gli uncini un navarrese, il quale,
- alcune cose raccontate, subito si gittò nella pegola; per lo qual
- ripigliare i demòni, volando sopra la pece, s’impegolarono.
- Comincia il canto vigesimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- scrive come, temendo de’ dimòni, li quali impacciati avean lasciati,
- Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl’ipocriti,
- vestiti di cappe rance.
- Comincia il canto vigesimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i
- ladroni, tormentati variamente da serpi, tra’ quali primieramente
- truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice.
- Comincia il canto vigesimoquinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini
- trasformarsi maravigliosamente in diverse forme.
- Comincia il canto vigesimosesto dello _’Nferno_. Nel quale mostra
- l’autore come pervenne all’ottava bolgia, nella qual dice esser puniti
- i frodolenti consiglieri in fiamme di fuoco; e qui vi ode da Ulisse il
- fine suo.
- Comincia il canto vigesimosettimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- nella sopradetta bolgia discrive aver trovato il conte Guido da Monte
- Feltro, a cui racconta lo stato di Romagna, e ode le colpe sue.
- Comincia il canto vigesimottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- dimostra nella nona bolgia con l’esser tutti tagliati punirsi i
- scismatici; e quivi, riconosciutine molti, parla con Beltram dal
- Bornio, e con certi altri.
- Comincia il canto vigesimonono dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- disceso nella decima bolgia, mostra primieramente come in quella,
- essendo maculati di rogna e di scabbia, si puniscano gli alchimisti; e
- quivi parla con Capocchio d’Arezzo; poi, piú avanti, mostra con altre
- pene punirsi ogni falsario.
- Comincia il canto trigesimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- continuando nella predetta bolgia, ne nomina alquanti, e tra gli altri
- maestro Adamo, discrivendo la riotta stata tra ’l maestro Adamo e Simon
- greco in sua presenza.
- Comincia il canto trigesimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- dimostra sé esser pervenuto al pozzo dello abisso, e quello essere
- intorniato di giganti, e sé con Virgilio essere da Anteo disposti nel
- nono ed ultimo cerchio dello ’nferno.
- Comincia il canto trigesimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale
- l’autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro
- che tradiscono i fratelli e’ congiunti, parlando con Camiscion de’
- Pazzi, n’ode piú nominare. E poi, procedendo nell’Antenora, dove in
- simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor cittá, truova
- Bocca degli Abati, il quale piú altri gli nomina dannati in quel
- luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro
- all’arcivescovo Ruggieri.
- Comincia il canto trigesimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
- udita la ragione e ’l modo della morte del conte Ugolino, procedendo
- nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader
- l’anime, parendo qua sú ancora il corpo vivo.
- Comincia il canto trigesimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
- passa nella Giudeca, e vede il Lucifero e Giuda Scariotto e altri
- spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a’ velli del Lucifero, si
- cala e esce dello ’nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a
- riveder le stelle.
- Qui finisce la prima parte della _Cantica_, over _Comedia_, di Dante
- Alighieri, chiamata _Inferno_.
- PURGATORIO
- Comincia la seconda parte della _Cantica_, overo _Comedia_, chiamata
- _Purgatorio_, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di
- quella seconda parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore,
- fatta la sua invocazione, discrive sotto qual parte del cielo sia
- la regione dove arrivò; e quindi, trovato Catone uticense e il suo
- cammin dimostratogli, ne va alla marina, dove Virgilio, secondo il
- comandamento di Catone, gli lava il viso e cignelo d’un giunco.
- Comincia il canto secondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore mostra
- come, essendo alla marina piú spiriti arrivati e smontati in terra, tra
- essi riconobbe il Casella, ottimo cantatore, al canto del quale mentre
- essi stavano tutti attenti, sopra venne Catone, dal quale ripresi,
- tutti verso il monte cominciarono a fuggire.
- Comincia il canto terzo del _Purgatoro_. Nel quale Virgilio mostra
- perché egli come Dante non faccia ombra. Appresso, al cominciar
- dell’erta, truovano il re Manfredi con piú altri, della porta del
- purgatoro schiusi a tempo, percioché morirono scomunicati.
- Comincia il canto quarto del _Purgatoro_. Nel quale Virgilio mostra la
- ragione all’autore, per che quivi dal sole sieno feriti in su l’ómero
- destro. Poi truova Belacqua con quegli che in sin lo stremo indugiaron
- la penitenza.
- Comincia il canto quinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra aver
- trovato Bonconte di Monte Feltro e altri assai, stati per forza uccisi
- e indugiatisi ad pentere in fino a l’ultima ora.
- Comincia il canto sesto del _Purgatoro_. Nel qual Virgilio solve a
- l’autore un dubbio mossogli del pregare che gli spiriti faceano che per
- lor si pregasse. Poi truovan Sordello da Mantova, e appresso l’autore
- parla contro ad Italia; e ultimamente contro a Fiorenza.
- Comincia il canto settimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
- come, poi s’ebber fatta festa insieme Virgilio e Sordello, che Sordello
- gli menasse in un grembo del monte, dove vide Ridolfo imperadore e piú
- altri magnifichi spiriti.
- Comincia il canto ottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
- come due angeli discesero da cielo a guardia del luogo dove erano; e
- appresso come truova giudice Nino e Currado marchese Malespina, con li
- quali alquanto parla.
- Comincia il canto nono del _Purgatoro_. Nel quale l’autor dimostra
- come, adormentatosi, gli parve da una aquila esser portato infino al
- fuoco; per che destatosi, si trovò presso alla porta del purgatoro,
- dove, secondo che Virgilio gli dice, l’avea portato una donna. E
- quindi dice sé essere andato alla detta porta, la quale discrive come
- fatta sia, e similmente uno angelo che sopra quella stava, e come gli
- scrivesse sette P nella fronte e dentro il mettesse.
- Comincia il canto decimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore dimostra
- che, entrato dentro a quello, vedesse intagliate nella ripa del monte
- certe istorie d’umiltá, e poi vedesse anime chinate sotto gravi pesi
- andare dintorno.
- Comincia il canto decimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
- come, trovati spiriti che sotto gravi pesi purgavano il peccato della
- superbia, parla con Uberto Aldobrandesco e con Odorigi da Gobbio; e
- alquanto grida contro alla vanagloria umana.
- Comincia il canto decimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- dimostra l’abbattimento di molti superbi essergli apparito scolpito
- nel pavimento; e appresso, invitati a salire nel secondo girone da uno
- angelo, gli è uno de’ sette P levato dalla fronte.
- Comincia il canto decimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore,
- venuto nel secondo girone dove si purga il peccato della ’nvidia, ode
- certe voci, mosse da caritá; poi truova spiriti a sedere, vestiti tutti
- di ciliccio e con gli occhi cigliati, tra’ quali Sapia gli favella.
- Comincia il canto decimoquarto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore nel
- predetto girone parla con Guido del Duca, il quale, abbominata la valle
- d’Arno, predice alcune cose del nepote di Rinier da Calvoli; e poi si
- duole di piú valenti uomini romagnuoli, venuti meno; poi ode voci in
- detestazion della ’nvidia.
- Comincia il canto decimoquinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
- mostra come, invitati da uno agnolo a salir nel terzo girone, Virgilio
- gli solve un dubbio, natogli per parole di Guido del Duca; poi mostra
- sé avere per vision vedute certe cose dimostranti mansuetudine, e, nel
- giron pervenuti, dice cominciarsi lor sopra un gran fummo.
- Comincia il canto decimosesto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
- come, entrato nel fummo del terzo girone, dove si purga il peccato
- dell’ira, truova Marco Lombardo, il quale ragiona con lui del mondo
- ch’è guasto e della cagione.
- Comincia il canto decimosettimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
- mostra come, vedute certe cose in visione, le quali sono in detestazion
- dell’ira, Virgilio gli aperse che cosa è amore e di quante spezie,
- essendo essi pervenuti nel quarto girone, dove si purga l’amore del
- bene scemo.
- Comincia il canto decimottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- mostra ancora come amore in noi si crea. E appresso ode cose ad
- incitare la sollecitudine; e poi parla con l’abate di San Zeno da
- Verona, e ultimamente ode cose in vitupèro della pigrizia.
- Comincia il canto decimonono del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- discrive una vision d’una femina contrafatta, veduta da lui; e appresso
- come perviene nel quinto girone, ove si purga il peccato dell’avarizia;
- e quivi truova peccatori a giacere vòlti in giú e legati, e parla con
- un papa di que’ dal Fiesco.
- Comincia il canto vigesimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore mostra
- d’aver parlato tra gli avari con Ugo Ciappetta, il quale gli dice
- come di lui son discesi li presenti reali di Francia, e, oltre a ciò,
- alcune vituperevoli opere fatte e che far debbono, e, oltre a ciò, gli
- mostra come il dí cantano laudevoli cose della povertá, e la notte
- vituperevoli dell’avarizia; e ultimamente come sentí tutto tremare il
- monte.
- Comincia il canto vigesimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
- mostra come Stazio, apparito tra loro, dice la cagion del tremar del
- monte, e poi se medesimo manifesta, e conosce Virgilio.
- Comincia il canto vigesimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- mostra come, venuti nel sesto girone, e andando Virgilio e Stazio
- ragionando di varie cose, trovarono uno albero nella strada, del quale
- sentîro certe voci venire verso loro, le quali sonavano in laude della
- sobrietá.
- Comincia il canto vigesimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- mostra purgarsi il vizio della gola; e, trovato Forese Donati, ode da
- lui certe cose, e, tra l’altre, alcune cose future, contra la disonestá
- delle donne fiorentine.
- Comincia il canto vigesimoquarto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore,
- continuando il suo ragionar con Forese, ode nominare piú altri spiriti
- che quivi erano, tra’ quali Bonagiunta Orbicciani gli predice lui
- doversi innamorare in Lucca, e similmente Forese il disfacimento
- d’alcun fiorentino. Poi truova un altro albero, e ode cose in vitupèro
- della gola, e da uno agnolo sono inviati al girone superiore.
- Comincia il canto vigesimoquinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- scrive come Stazio, per dichiarargli come si dimagri dove non è uopo
- di nudrimento, gli disegna come generati siamo, e come dopo la morte i
- nostri spiriti piglin corpo dell’aere. E appresso dice l’autore come
- nel settimo giron pervennero, nel quale in fiamme dice si purga il
- peccato della lussuria.
- Comincia il canto vigesimosesto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- mostra nelle fiamme aver piú spiriti veduti, e tra gli altri
- riconosciuto Guido Guinizelli e Arnaldo, e parlato con loro.
- Comincia il canto vigesimosettimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
- mostra come, passato un fuoco, e veduta la notte una visione, pervenne
- in su la sommitá del monte, dove Virgilio in suo arbitrio rimise che
- quel facesse che piú gli aggradisse.
- Comincia il canto vigesimottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- mostra come, pervenuto nel paradiso delle delizie, truova il fiume di
- Letè; e, parlando con una donna che da l’altra parte del fiume gli
- apparve, ode da lei la cagione che fa muovere le frondi degli alberi di
- quel luogo; e mostragli l’origine di Letè e d’Eunoè.
- Comincia il canto vigesimonono del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
- disegna come venir vedesse il celestial triunfo.
- Comincia il canto trigesimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- dimostra come Beatrice sopra il triunfal carro gli apparí, e come,
- essendo Virgilio partito, ella il chiamò per nome e gravemente il
- riprese, mostrando poi alle sante creature, che dintorno al carro
- erano, perché degno era di riprensione.
- Comincia il canto trigesimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- distesamente discrive la grave riprension fattagli da Beatrice, e il
- dolore che per quella sentí; e appresso come, fuor di sé essendo e
- risentendosi, si trovò tirato dalla donna, che prima trovata avea, nel
- fiume, e in quello da lei tuffato; e avendo dell’acqua bevuta, fu dalle
- quattro donne presentato a Beatrice, e come lei, levato dal viso il
- velo, apertamente vide.
- Comincia il canto trigesimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- discrive come il triunfo celeste si volse a tornare indietro, e come,
- ad un albero senza foglie smontata Beatrice del carro, esso vi fu
- legato dal grifone; e appresso come s’addormentò, e, svegliato, vide
- il grifone esser partito e Beatrice rimasa, la quale gli fa rimirare
- il carro, sopra ’l quale per figura vede certe cose alla Chiesa di Dio
- avvenute e che doveano avvenire.
- Comincia il canto trigesimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
- significa certe cose future a lui da Beatrice predette, e come, da
- Matelda bagnato in Eunoè, puro tornò a Beatrice.
- Qui finisce la seconda parte della _Cantica_, overo _Commedia_, di
- Dante Alighieri, chiamata _Purgatoro_.
- PARADISO
- Comincia la terza parte della Cantica, overo Comedia, chiamata
- Paradiso, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di
- questa terza parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore, poi
- che dimostrato ha sommariamente quello che in essa intende di trattare
- e fatta la sua invocazione, discrive come appresso a Beatrice se ne
- salisse nel primo cielo, e come ella gli solvesse un dubbio per lo suo
- veloce montare venutogli.
- Comincia il canto secondo del Paradiso. Nel quale l’autore, poi che a
- quegli che meno sofficienti sono alla presente considerazione ha detto
- che si rimangano, dimostra la cagione de’ segni bui, li quali nel corpo
- della luna veggiamo.
- Comincia il canto terzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore parla con
- madonna Piccarda; e ella gli solve un dubbio, mostrandogli ciascuna
- anima esser contenta nel luogo dove posta è in paradiso; e poi gli
- mostra Costanza imperadrice.
- Comincia il canto quarto del _Paradiso_. Nel quale Beatrice solve il
- dubbio della doppia volontá e del tornar dell’anime alle stelle.
- Comincia il canto quinto del _Paradiso_. Nel quale Beatrice dichiara
- all’autore se per alcuna permutazione si può adempiere il boto fatto. E
- quindi, saliti nel secondo cielo, vede l’autore molti spiriti gloriosi,
- de’ quali uno, offertoglisi, domanda chi el sia.
- Comincia il canto sesto del _Paradiso_. Nel quale Giustiniano
- imperadore se medesimo manifesta all’autore, mostrando appresso molte
- cose magnifiche fatte sotto il segno dell’aquila, e quanto falli chi
- quello senza giustizia s’apropri; e ultimamente dice quivi esser
- l’anima di Romeo.
- Comincia il canto settimo del _Paradiso_. Nel quale Beatrice chiarisce
- all’autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso
- perché a Dio, a rilevare l’umana generazione dalla colpa del primo
- padre, piacque piú di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente
- perché gli elementi sieno corruttibili.
- Comincia il canto ottavo del _Paradiso_. Nel quale l’autor mostra come
- salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale
- gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.
- Comincia il canto nono del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive come
- madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso
- Folco contro a’ pastori della Chiesa.
- Comincia il canto decimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive
- come nel cielo del sole pervenissero, dove gli parla Tommaso d’Aquino,
- e nominagli piú altri spiriti, li quali tutti furon gran letterati; e
- tra gli altri gli nomina Alberto di Cologna, Salomone e Boezio.
- Comincia il canto decimoprimo del _Paradiso_. Nel quale Tommaso
- d’Aquino mirabilmente commendando onora san Francesco.
- Comincia il canto decimosecondo del _Paradiso_. Nel quale Bonaventura
- da Bagnorea mirabilmente parla di san Domenico, e nomina piú altri
- beati spiriti, li quali quivi dice gloriarsi.
- Comincia il canto decimoterzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- mostra come san Tommaso d’Aquino gli chiarisse quello che di Salamon
- detto avea: «non surse il secondo».
- Comincia il canto decimoquarto del _Paradiso_. Nel quale primieramente
- l’autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universal
- resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente
- hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo
- salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.
- Comincia il canto decimoquinto del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico,
- e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e
- dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.
- Comincia il canto decimosesto del _Paradiso_. Nel quale messer
- Cacciaguida mostra all’autore quali fossero le piú notabili famiglie di
- Firenze al suo tempo.
- Comincia il canto decimo settimo del _Paradiso_. Nel quale messer
- Cacciaguida, domandato, predice all’autore il suo futuro esilio, e che
- per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e
- udite, a cui che elle si debbano parer gravi.
- Comincia il canto decimottavo del _Paradiso_. Nel quale messer
- Cacciaguida nomina piú famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi.
- E appresso l’autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive
- molti santi spiriti ne’ loro movimenti fare diverse figure di lettere,
- e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.
- Comincia il canto decimonono del _Paradiso_. Nel quale mostra l’autor
- dalla sopradetta aquila essergli dichiarato quello che creder [si de’]
- d’uno non battezzato e che mai di Cristo alcuna cosa non udí ragionare,
- ma per ogni altra cosa è buono; e ultimamente quello che contro a piú
- cristiani dicesse la predetta aquila.
- Comincia il canto vigesimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive
- come la detta aquila gli nominò alquanti degli spiriti che in essa
- erano gloriosi; e appresso gli mostrò come Traiano imperadore e Rifeo
- troiano, li quali da lei erano stati nominati, non moriron pagani come
- esso stimava.
- Comincia il canto vigesimoprimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor
- dimostra come, pervenuto nel settimo cielo, vide una scala altissima,
- per la quale salivano e scendevano molti spiriti; de’ quali venne a
- lui Pietro Dammiano, il quale, ad alcuna sua domanda avendo risposto,
- alcune cose dice contro a’ pastori della Chiesa.
- Comincia il canto vigesimosecondo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- narra come parlò con san Benedetto, il quale piú altri santi spiriti
- contemplativi gli nominò, e piú cose gli disse in vitupèro de’ presenti
- religiosi; poi dietro a lui su per la scala se ne salí nell’ottavo
- cielo; e quindi vòlto in giú, discrive quali vedesse la terra e tutti
- gli altri cieli.
- Comincia il canto vigesimoterzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla
- Vergine Maria.
- Comincia il canto vigesimoquarto del _Paradiso_. Nel quale l’autore,
- con san Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch’ e’ crede.
- Comincia il canto vigesimoquinto del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- scrive come, da sa’ Iacopo apostolo domandato, dice che cosa
- è speranza; e appresso come, essendo sopravenuto san Giovanni
- evangelista, ode da lui non essere in cielo alcuno altro col proprio
- corpo che Cristo e la madre.
- Comincia il canto vigesimosesto del _Paradiso_. Nel quale l’autore, a
- domanda di san Giovanni evangelista, dice che cosa è caritá; e appresso
- come, con Adam parlando, da lui ode quando creato fosse, quanto
- vivesse, e dove.
- Comincia il canto vigesimosettimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- primieramente racconta parole dette da san Piero contro alli moderni
- pastori; e appresso discrive come pervenisse nel nono cielo.
- Comincia il canto vigesimottavo del _Paradiso_. Nel quale l’autore di
- scrive la gloriosa festa de’ nove cori degli angeli.
- Comincia il canto vigesimonono del _Paradiso_. Nel quale Beatrice
- dimostra all’autore l’ordine della creazione delle cose; e appresso
- ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanitá
- d’assai moderni predicatori.
- Comincia il canto trigesimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore scrive
- sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d’un fiume,
- poi in forma d’una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia
- d’Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa
- gli predice.
- Comincia il canto trigesimoprimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
- dice come, in luogo di Beatrice, trovò san Bernardo, il quale gli
- mostrò lei sedere nel luogo a’ suoi meriti sortito; ed egli le fece
- orazione; poi, dicendogliel san Bernardo, volse gli occhi alla letizia
- de’ gloriosi.
- Comincia il canto trigesimosecondo del _Paradiso_. Nel quale l’autor
- narra come san Bernardo gli mostrasse la Vergine Maria e Eva e
- nominatamente piú altri santi uomini e donne, e la letizia dell’agnolo
- Gabriello, e poi lui ad orare con seco, per grazia impetrar, disponesse.
- Comincia il canto trigesimoterzo del _Paradiso_. Nel quale discrive
- l’autore l’orazione fatta da san Bernardo, e come con lo sguardo
- penetrasse alla divina essenzia; e fa fine.
- Qui finisce la terza e ultima parte della _Cantica_, overo
- _Commedia_, di Dante Alighieri, chiamata _Paradiso_.
- NOTA
- I
- VITA DI DANTE
- Il testo è riveduto sul cod. 104. 6 della Biblioteca capitolare di
- Toledo, il quale da tempo vien giudicato molto autorevolmente di mano
- del Boccaccio (cfr. M. BARBI, _Vita Nuova_ di Dante, 1907, p. LIV
- sg. per la descrizione del cod., e p. CLXXI sg. per la dimostrazione
- dell’autografia). Chi paragoni la presente edizione col testo critico
- di Fr. Macrí-Leone, vedrá quante lezioni risultino piú chiare e piú
- persuasive, in grazia appunto del codice toledano.
- Un’accurata revisione della punteggiatura, favorita anch’essa dal
- manoscritto, ha pure aiutato in piú punti a raggiungere una piú esatta
- interpetrazione del pensiero dell’autore.
- Si è mantenuto all’operetta il titolo tradizionale di _Vita di Dante_.
- Il codice toledano offrirebbe però questo titolo piú analitico: «_De
- origine vita studiis et moribus clarissimi viri Dantis Aligerii
- Florentini poëtae illustris et de operibus compositis ab eodem_»; e
- un’espressione del _Comento_ (presente ediz., I, 118) condurrebbe a
- intitolare l’operetta _Trattatello in laude di Dante_.
- La suddivisione dei paragrafi è generalmente quella assegnata dal
- citato codice.
- Dei sottotitoli quelli che corrispondono alle partizioni adottate nelle
- precedenti edizioni, sono riportati da queste o modificati; gli altri
- son nuovi. Il Boccaccio non usò sottotitoli.
- La grafia del ms. è stata rispettata fin quanto consentivano le norme
- di questa collezione[1].
- II
- REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
- Il testo del cosí detto _Secondo compendio_ è riveduto sul cod. L. V.
- 176 della Biblioteca Chigiana, giudicato di mano del Boccaccio, come
- quello toledano, e piú recente. A piè di pagina ho riportato dalla
- eccellente edizione di E. Rostagno (_La Vita di Dante, testo del cosí
- detto Compendio attribuito a_ G. B., Bologna, Zanichelli, 1899) quei
- tratti che il cosí detto _Primo compendio_ ha in piú o di lezione
- diversa. Son trascurate soltanto leggerissime differenze formali;
- sicché il lettore trova in questa edizione le due redazioni, si può
- dire, integralmente. Ho curato, dov’era possibile, che i capiversi
- agevolino i riscontri tra queste redazioni e la _Vita_.
- Ho stampato queste _Redazioni compendiose_ dopo la _Vita_, perché, come
- si comprende dal titolo stesso che do loro, io preferisco all’ipotesi,
- che fa di esse uno schema o traccia o primo getto della _Vita_, l’altra
- che tende a dimostrarle stesura piú tarda, come piú tardo sarebbe
- l’autografo chigiano, che contiene il _Secondo compendio_, rispetto al
- toledano, che contiene la _Vita_[2].
- Le differenze di contenuto, in quanto a sostanza biografica, dati,
- giudizi e apprezzamenti sui casi e sull’opera di Dante, e le novitá di
- distribuzione e di ordinamento della materia, non sono trascurabili; ma
- non bastano a dare una fisonomia diversa al lavoro, la quale si delinea
- assai nettamente per la omissione di esclamazioni, interrogazioni,
- apostrofi, ripetizioni e simili luoghi tipici di rettorica scolastica,
- che infiorano le pagine della _Vita_. Per via di tale sfrondamento,
- che al Boccaccio non dovette costare alcuna fatica, mentre lo stile
- lussureggiante della _Vita_ ci richiama ai romanzi giovanili, quello
- dei _Compendi_ si riavvicina al _Comento_, ch’è opera degli ultimi anni
- di lui.
- III
- COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- Il testo è riveduto sui quattro codici fiorentini Magliabechiani II.
- IV. 58 (M¹), II. I. 51 (M²)[3], VII. 1050 (S)[4] e Riccardiano 1053
- (R)[5], tutti del principio del secolo decimoquinto. Non si è tenuto
- conto del Magliab. VII. 805, che è una copia tratta da R dall’erudito
- settecentesco Anton Maria Biscioni.
- È materialmente sicuro che nessuno dei quattro codici è copia
- dell’altro, perché le molte omissioni, che tutti presentano (e che si
- spiegano quasi sempre pel ritorno della stessa parola a poche righe di
- distanza nella stessa colonna), non hanno riscontro a volta a volta
- negli altri tre.
- M¹ e R presentano una maggiore conformitá esteriore, perché recano
- chiose a margine e numeri progressivi delle lezioni, che mancano in M²
- e S; ma l’insieme dell’analisi porta a credere che sian tutti e quattro
- apografi di quel medesimo «originale», dal quale M¹ esplicitamente si
- afferma copiato a p. 71, e al quale si riferisce M² a c. 27 r, col.
- 2ª, allo stesso proposito del precedente, cioè per giustificare come
- la digressione sulla «fama» (pres. ediz., I, 215-217) non fosse stata
- copiata a suo posto[6].
- Altre prove piú o meno esplicite[7] dan modo di constatare che
- l’«originale» presentava frequenti aggiunte in calce o a margine o
- forse in intere pagine intercalate, le quali aggiunte non sempre
- conformemente i vari codici hanno inserito a loro posto, e talun d’essi
- ha talvolta trascurato.
- Son tutti maravigliosamente scorretti, nei nomi, nelle date, nelle
- citazioni latine, che l’amanuense di M², che sapeva poco di
- grammatica, sopprime addirittura, o taglia, o riduce male in italiano.
- La morfologia verbale e la fonetica son trattate individualmente a
- capriccio. Eppure, nonostante ciò, l’assiduo, paziente e accorto
- confronto dei quattro codici consente di ricostruire il testo
- dell’«originale» con abbastanza genuinitá e fedeltá.
- Senonché io mi sono dovuto persuadere che di tale «originale» i «24
- quaderni» e i «14 quadernetti», ne’ quali il B. lasciò, morendo, la
- contrastata ereditá delle sue lezioni di Santo Stefano di Badia,
- rappresentano una parte soltanto. Tutto il resto, che estensivamente
- può sommare a poco meno che altrettanto, è sviluppo di rimandi
- al proprio scritto biografico su Dante, che il B. lasciò segnati
- sull’autografo, e di altri consimili e piú numerosi rimandi alle
- proprie opere di erudizione, interpetrati con larghezza eccedente il
- proposito e con intelligenza inadeguata; è svolgimento di appunti
- e compimento di ragionamenti avviati; sono chiose teologiche e di
- dottrina chiesastica, per le quali non pare che il B. avesse né
- competenza né gusto; son tratti cavati da Eusebio, da Giustino, dal
- lessico di Papia e da altri volumi in uso nelle scuole; sono (e qui
- segnatamente è caduta in inganno la critica di questo testo nostra e
- straniera) pagine ricavate da altri commentatori di Dante, posteriori
- al Boccaccio.
- Una somma di prove e di indizi giustifica ed avvalora questa
- concezione: chiose duplicate e contrastanti; brani che si inseriscono
- senza alcun legame, tolti i quali il filo del ragionamento ripiglia;
- errori di traduzione letteralmente meccanica attraverso le cattive e
- spesso farraginose riduzioni dal De _genealogiis, De casibus virorum
- illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, fontibus_;
- altri volgari errori di traduzione e fraintendimento di testi quali
- l’_Epistola a Can Grande_, articoli dell’_Elementarium_ di Papia,
- ecc.; guasti dell’armonia della forma e alterazioni, scomposizione
- e disorganizzazione del pensiero nelle pagine desunte dallo scritto
- biografico su Dante[8]. Nel caso delle interferenze con altri
- commentatori (che son poi il Buti, Filippo Villani e l’Anonimo
- fiorentino), un’analisi stilistica non superlativamente difficile, né,
- io credo, leggermente opinabile, porta a constatare che vi mancano
- i modi e le forme del Boccaccio e vi si ritrovano invece i modi e
- le forme di quegli altri scrittori, piú o meno alterate, piú o meno
- peggiorate. Esempio tipico è quello del bravo e onesto Da Buti, che
- nella pagina che cita dal Boccaccia sul nome di _Commedia_ (la qual
- pagina nel testo del proemio del Boccaccio, quale ora è, non s’innesta
- grammaticalmente, ma emerge per forma, per dottrina e per organismo di
- pensiero), rimane, come doveva rimanere, inferiore al modello, mentre
- ragiona meglio e in piú bei periodi nelle altre pagine che confrontano
- e che non sono citate come desunte dal Boccaccio[9]. Filippo Villani
- trasse dal _De Genealogiis_, com’egli attesta citandolo, molte
- pagine e le ridusse ad uso di proemio al commento del primo canto
- dell’_Inferno_; e queste, con altre sue pagine, si ritrovano nel
- _Comento_, ch’egli non cita, e ch’è legittimo sospettare che non abbia
- conosciuto mai direttamente, perché niente ne imparò. Le lezioni
- errate dell’_Epistola a Can Grande_, che sono nel suo scritto[10],
- si ritrovan pure nel _Comento_, con altri errori di versione che,
- se dovessero essere imputati al Boccaccio, porterebbero a questa
- conclusione: ch’egli, traducendo in italiano, non s’accorgeva di dire
- spropositatamente pensieri consacrati in chiara dizione latina nella
- sua maggior opera di cultura. Le pagine che raffrontano tra il proemio
- dell’Anonimo (ch’è, si noti, uno scritto «composito» nettamente diviso
- in due parti) e quello del Boccaccio, sono, direi, senza stile, le une
- e le altre; potrá cercarsi se quelle raffazzonature (come la storia
- di «guelfo e ghibellino» a pp. 51-53 del III vol.) derivino da una
- fonte comune ad entrambi i testi.—Esaminando sui codici quei tratti
- che per un motivo o per l’altro dánno piú grave ragione di sospetto,
- si trova che le aggiunte materialmente comprovate e riconosciute
- per dichiarazioni esplicite (vedi sopra) O per via di confronti
- (omissioni e spostamenti) vi corrispondono tutte: e ciò vorrá dire che
- nell’originale quei tratti non s’inserivano nel testo; e dove manchi
- la prova materiale dell’aggiunta, si trova d’ordinario che quei tratti
- son piú scorretti, con varianti piú frequenti, con una fonetica e
- una morfologia piú del consueto irriducibili: la qual cosa stará a
- significare o un’altra mano di scrittura nell’originale o per lo meno
- una scrittura che riusciva per qualsivoglia cagione (perché piú minuta,
- o piú trascurata, o interposta) meno nitida.
- Sulla scorta di tal somma di prove e di indizii, scartate altre
- ipotesi, io mi son formata la convinzione che allo stato presente del
- testo del _Comento_ si sia arrivati attraverso due momenti costitutivi
- ben distinti:
- 1º Autografo del Boccaccio, tal quale è presumibile che fosse nella
- sua prima stesura, con le inevitabili correzioni, sostituzioni ed
- aggiunte interlineari o a margine o in calce di uno scritto di primo
- getto; e inoltre con molti rimandi ad altri scritti, specialmente
- propri, con pensieri e ragionamenti svolti soltanto parzialmente o
- accennati per tracce e sommari, dato che lo scopo era di preparazione a
- pubbliche lezioni;
- 2º Integrazione del materiale di detto autografo (che s’è poi
- risoluta in rimaneggiamento di molte parti, con grande accrescimento di
- mole), eseguita con le qualitá di un ecclesiastico maestro di scuola,
- non privo di cultura, ma scarso d’ingegno: un letterato mediocre.
- Potrá o no dimostrarsi che costui fosse quello stesso frate, di cui
- è fatto il nome nella rubrica iniziale di R: «Esposizioni sopra a
- Dante per lo egregio dottore maestro Grazia dell’ordine di santo
- Francesco»[11]. Potrá discutersi se le sue intenzioni siano state
- oneste (e pur non commendabili!), quali io le credo, giudicando il
- suo lavoro un esercizio letterario svolto con assiduitá, con ritorni,
- forse in relazione con la sua professione d’insegnante. Difatti,
- quant’è alle sue intenzioni, se nel testo del _Comento_, qual è
- venuto a risultare dopo il rifacimento, si ritrovano noti ricordi
- personali del certaldese, che non è ammissibile che questi sia tornato
- a redigere in quella forma (avendoli altrove espressi nello stile suo
- proprio); ci son pure altri ricordi personali che non possono essere
- del Boccaccio, né a lui da un falsario, che non fosse del tutto sciocco
- o dimentico, attribuiti. A p. 78 del vol. II di questa edizione si
- legge: «E se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi io non
- era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno pestifero
- del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
- peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de’ loro
- amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—Vienne, tale
- e tale—de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto
- dal chiamatore, s’eran morti e andatine appresso al chiamatore». Or
- qui scelga pure il lettore tra la lezione «non era» e quella «non
- c’era», ammesse entrambi dai codici[12]; spieghi come vuole lo strano
- errore, per cui, invece di 1348, vi si legge 1340: in definitiva dovrá
- pur consentire che un falsario consapevole non poteva far dire al
- Boccaccio di non essere ancor nato l’anno della peste, ovvero di non
- essersi trovato in Firenze, in contrasto con la replicata affermazione
- del _Decameron_ di aver visto «con i suoi occhi» quel che vi avvenne
- in quell’anno[13]. Tal prova par che basti a scagionare maestro
- Grazia, o chi altri sia, dall’accusa di aver falsato il Boccaccio per
- trarre in inganno il lettore[14]. Costui, anche se nato dopo l’anno
- della peste[15], poteva essere un uomo maturo sulla fine del ’300 e i
- primi del ’400, cioè subito dopo Filippo Villani e l’Anonimo, quando
- è presumibile che al manoscritto del Boccaccio toccasse la non lieta
- sorte di un revisore e rifacitore.
- Il manoscritto, ch’egli lasciò, sarebbe da ravvisare in quello
- che Lorenzo Ubaldini[16] dice che «era giá in potere di Lorenzo
- Guidetti mentovato nel suo poema dall’Ariosto», e ch’egli qualifica
- per l’originale del Boccaccio. Giacché, se il Riccardiano 1053, che
- porta lo stemma dei Gherardi, è parte della copia del ms. Guidetti,
- che l’Ubaldini stesso dice posseduta da un altro fiorentino,
- Lottieri Gherardi, e questa copia dá il testo integrato, se ne deve
- concludere che il ms. Guidetti, insieme con l’autografo del Boccaccio,
- conteneva l’autografo di maestro Grazia, e cioè che tutto il lavorio
- dell’integratore venne fatto direttamente sull’originale boccaccesco.
- In tal caso il codice riccardiano, come gli altri tre codici
- fiorentini, sarebbero tutti apografi dell’originale boccaccesco e del
- suo rifacitore allo stesso tempo.
- L’esame ch’io ne ho fatto non esclude questa conclusione,
- salvo la difficoltá materiale di frapporre e sovrapporre tanta
- scrittura a pagine scritte, senza pensare a fogli qua e lá intercalati.
- Sia chiaro tuttavia che anche se l’«originale» dei codici fiorentini
- non conteneva l’autografo del Boccaccio, ma una trascrizione, e anche
- se questa trascrizione fosse giá adattata alle esigenze del rifacimento
- e conglobata con esso, i criteri da seguire per la condotta di
- un’edizione del Comento permarrebbero in sostanza gli stessi.
- Tornando dunque alla presente edizione, essa, prima di ogni altra cosa,
- riproduce il testo qual è nei detti codici fiorentini, cioè il testo
- integrato. L’ultima edizione, quella del Milanesi (Le Monnier, 1863),
- sebbene sia molto migliore delle due precedenti (Napoli, Ciccarelli,
- 1724, con la falsa data di Firenze, e Moutier, 1831-2), e sia condotta
- sugli stessi codici, sui quali è condotta la presente, non è degna
- di un’opera che porta il nome del Boccaccio, come gli studiosi non
- ignorano. Vi si trovano pagine infedelmente trascritte, con omissioni,
- con parole fraintese, finanche con periodi che dánno un senso opposto
- a quello che devono avere. Altre e piú numerose pagine appaiono
- appena trascritte anziché interpetrate. L’interpunzione è quanto mai
- disordinata. Il lettore, che vorrá esaminare parallelamente l’ediz.
- Milanesi e la presente, di fronte a moltissimi tratti, si domanderá se
- non siano cosa nuova.
- Il Milanesi divise il _Comento_ in 60 lezioni; le edizioni precedenti
- dividevano invece il testo in capitoli, secondo la successione dei
- canti, e la piú parte dei capitoli in due parti, del senso letterale e
- del senso allegorico.
- Non vi può essere dubbio che l’intenzione dell’autore, come la vera
- fisonomia del suo lavoro, è meglio rispettata dalle edizioni del
- Ciccarelli e del Moutier, sulla fede dei codici. Difatti M¹, S e R
- segnano in modo evidente la divisione e suddivisione per capitoli,
- lasciando spazi in bianco e venendo a capo pagina, interponendo
- rubriche o segnandole o ripetendole a margine e dando rilievo alle
- iniziali. M² si contenta del capoverso e delle rubriche, che però sono
- omesse talvolta[17].
- Invece le note a margine, che segnano il numero progressivo delle
- lezioni, sono riferite soltanto da M¹ e R; ma talune mancano, altre
- non si corrispondono tra i due codici. In M¹ mancano i numeri 2, 7,
- 12, è ripetuto il 23 in luogo del 24, mancano 44, 45, 51, 52; in R,
- per la parte del testo ch’esso contiene, mancano 23, 24, 26, 27, 29,
- 33-35, 45, 51, 53, 60; non si corrispondono i numeri 25 e 30. Dunque il
- Milanesi, dividendo in lezioni il _Comento_ del Boccaccio, fece cosa
- arbitraria, in quanto i codici non offrono gli elementi necessari e
- sufficienti. Peggio ancora, diversi dei suoi inizi non corrispondono
- con quelli segnati dai codici: p. es. l’inizio della lezione 43
- dovrebbe esser segnato in corrispondenza al verso «La frode ond’ogni
- coscienza è morsa», sulla fede di ambedue i codici; e l’inizio della
- lezione 44 dove comincia la 43, sulla fede di R. D’altra parte, se si
- riflette che la materia del commento è organicamente distribuita tra la
- lettera e l’allegoria dei vari canti, la divisione in lezioni, anche
- nell’ipotesi che l’abbia segnata il Boccaccio, sarebbe da giudicare
- occasionale e secondaria; rammenterebbe quanta materia riuscí a
- svolgere il B. di giorno in giorno, non giá rappresenterebbe il piano
- dell’opera; anzi proverebbe che la stesura in iscritto riuscí piú volte
- diversa dalla lezione parlata, dovendosi giustificare la sproporzione
- ch’è tra lezioni di poche pagine ed altre che non finiscon mai. E
- sarebbe, per giunta, piú d’una volta assai poco felice.
- Insieme con l’edizione del testo del _Comento_, quale è dato dai
- codici, io ho voluto tentare di ricuperare il testo vero del Boccaccio,
- liberandolo dalle sovrapposizioni subite; e ciò col distinguere per
- mezzo di semplici[18] quei tratti che, alla prova dei codici, dei
- raffronti e dello stile, non giudico genuini. Parlo di tentativo,
- perché, all’atto pratico, questo lavoro di eliminazione, ovvio in
- alcuni casi, riesce in molti altri estremamente difficile e non dá
- (né, con gli elementi di cui disponiamo, potrebbe darla) la piena
- soddisfazione della certezza. Tra le altre difficoltá c’è questa: che,
- quando le aggiunte non sono semplicemente giustaposte, ma conglobate,
- ne restano mal sicuri i limiti, o sfuggono addirittura all’attenzione,
- o possono soltanto ingenerare dubbi irresolubili. E nel caso di
- riduzioni e rifacimenti da altre opere sue, in che guisa fissare il
- punto dove la penna e la foga e il tempo e la disposizione di spirito
- han tratto il Boccaccio a segnare un «_et caetera_»? Niente esclude
- che ci siano nel _Comento_ pagine rifatte o tradotte direttamente dal
- Boccaccio, accanto a pagine né tradotte né rifatte da lui stesso. E si
- deve pure ammettere che brani che conservano la fisonomia di aggiunte,
- tali fossero realmente nell’autografo del Boccaccia e di suo pugno.
- Delle numerose biografie, quelle intorno a nomi mitologici, che sono le
- piú frequenti e le piú sviluppate, provengono per la maggior parte dal
- _De Genealogiis_; le bibliche è raro che presentino garanzie di stile,
- e forse ho errato per eccesso di prudenza espungendone dal gruppo che
- se ne legge nel IV Canto (Adamo, Abel, Noé, Moisé ecc.) solamente la
- prima, sulla base dei raffronti col _De claris mulieribus_ (§ _De
- Eva_); e cosí pure le altre biografie, di letterati, di principi, di
- grandi peccatori, ecc. lasciano spesso molti dubbi o nell’insieme o
- nelle parti. I miei dubbi irresoluti si estendono oltre: p. es., le
- chiose svolgenti l’idea che Dante mostri compassione dei dannati quando
- lo rimorde coscienza di essere incorso negli stessi falli, trovo che
- sono tutte rescindibili: e, messe insieme, dánno una fisonomia morale
- dell’Alighieri ben diversa da quella ch’è delineata nella _Vita_.
- Tra le conclusioni piú certe, che dall’eseguito processo di
- eliminazione si possono trarre, c’è questa: che il Boccaccio non
- dettò un proemio al suo _Comento_. Sicuramente sue sono soltanto le
- pagine sul nome di _Comedia_; forse è suo anche il primo periodo,
- 1’«esordio». Il rimanente è accozzato da altri commenti e da altre
- opere boccaccesche. La mancanza del proemio si spiega pensando che
- il Boccaccio abbia desunto le prime lezioni dal proprio scritto
- biografico su Dante, e che, se volle discorrere della concezione pagana
- dell’inferno e offrirne il quadro mitologico e poetico, si servisse del
- _De Genealogiis_. Se tracciò appunti per riordinare e disporre a modo
- di lezioni siffatta materia, ch’egli possedeva da gran signore, tali
- appunti non paiono ormai ricuperabili attraverso il proemio composito
- di maestro Grazia[19].
- Cosí il testo del Boccaccio, sgombro del proemio non suo e liberato da
- ìntromissioni e sovrapposizioni, ripiglia parte del decoro che dovette
- avere, dettato da tanto maestro; molti ragionamenti riannodano le fila
- spezzate; l’eloquenza fluisce con meno sbalzi ed intoppi; il pensiero e
- la cultura dell’opera si risollevano all’altezza del nome ch’essa porta.
- IV
- GLI ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI
- I tre capitoli o ternari «ne’ quali il Boccaccio in forma poco o
- punto poetica, ma sempre chiara e fedele al soggetto, e qua e lá
- efficacemente sintetica, riassunse, o piuttosto stipò, la contenenza
- delle tre cantiche dantesche»[20] si leggono autografi nel giá
- ricordato codice Toledano, nel Chigiano L. VI. 213 e nel Riccardiano
- 1035, che sono stati tenuti presenti nella revisione del testo per
- questa edizione.
- Nel primo degli anzidetti codici la intitolazione è latina: _Argumentum
- super tota prima parte Comediae Dantis Aligherii Florentini, cui
- titulus est Infernus_, ecc.; negli altri due è volgare: _Brieve
- raccoglimento di ciò che in sé superficialmente contiene la lettera
- de la prima parte de la Cantica overo Comedia di Dante Alighieri di
- Firenze di Giovanni Boccaccio_, ecc.[21].
- V
- LE RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI
- Si leggono autografe nel codice Chigiano L. VI. 213, dove sono
- distribuite in testa ai singoli canti, copiati dal Boccaccio con grande
- accuratezza. Nel cod. giá Barberiniano 2191 ed ora Vaticano Barber.
- lat. 4071, della fine del sec. XIV, si leggono tutte di séguito, con la
- soscrizione «_Iohannes Boccacci de Certaldo Florentinus opus fecit_»;
- e di séguito si leggevano in quel ms. del Cinquecento, donde furono
- pubblicate, molto scorrette, nel 1843 a Venezia per la prima volta[22].
- Queste rubriche dovettero godere assai per tempo buona riputazione, se
- si pensò di trascriverle riunite come in un’operetta a sé, staccandole
- dai canti ai quali dovevano andar congiunte. Esse «potranno parere
- a chi non ne conosce altre delle antiche, una povera cosa, e certo
- non sono, né possono essere, capilavori d’arte; ma a chiunque abbia
- presenti quelle che di solito si leggono negli antichi codici della
- _Commedia_ parranno di tanto superiori ad esse, di quanto, poniamo,
- la struttura dell’ottava boccaccesca supera quella dell’ottava dei
- cantastorie popolari. È manifesto l’intendimento, e notevole l’abilitá,
- di compendiare e condensare con esattezza e chiarezza il contenuto
- sostanziale di ogni canto; e, d’altra parte, la espressione rivela
- assai spesso un particolare studio dell’eleganza; tutti pregi che
- mancano alle altre rubriche dantesche di quei tempi, poco degne davvero
- di Dante e del suo poema[23]».
- Con la _Vita_ e le _Redazioni compendiose_, col _Comento_, gli
- _Argomenti in terza rima_ e le _Rubriche in prosa_ vengono a
- raccogliersi per la prima volta in un sol corpo tutti gli scritti che
- il Boccaccio compose intorno alle vicende e alle opere del suo grande
- concittadino. Tale raccolta non sarebbe stata possibile senza gli studi
- precedenti del Rostagno, del Barbi e del Vandelli, giá additati in
- questa _Nota_: qui ripeto i nomi di quegli insigni studiosi, perché
- vada ad essi il merito che loro compete. In particolare esprimo la mia
- riconoscenza a Giuseppe Vandelli per la cordiale larghezza con cui
- egli ha messo a profitto di questa edizione la sua competenza e la sua
- singolare preparazione sui testi boccacceschi intorno a Dante, de’
- quali sono stati riconosciuti gli autografi. Pel testo del _Comento_,
- che questa edizione presenta in modo affatto nuovo e insospettato
- finora (con la necessaria conseguenza che la critica spesa attorno
- a quest’opera debba essere in parte rivista), mi è giovato «ad ora
- ad ora» manifestare le mie idee a Pio Rajna, a Francesco Torraca, ad
- Ernesto Giacomo Parodi, a Francesco Flamini, ad Achille Pellizzari,
- a Benedetto Croce, Cl. Paolo Savj-Lopez e ad altri maestri ed amici;
- ma ciò sia detto senza preoccupare o prevenire il loro giudizio, che,
- al pari di quello di ogni altro studioso, potrá esser definitivo
- soltanto sull’esame del lavoro compiuto. Fausto Nicolini, tra gli altri
- carichi, si è assunto quello di rivedere e rettificare la grafia e
- l’interpunzione; e la fatica della correzione delle bozze l’ha divisa
- molte volte con me, come cura familiare, Bianca Guerri Marcolongo,
- che ha pure collaborato alla compilazione dell’_Indice dei nomi_, nel
- quale, in servigio degli studiosi, ho voluto riportare le citazioni
- degli autori, numerosissime nel testo del _Comento_ (ma desunte per
- lo piú, in ispecie quelle dei classici, dal _De Genealogiis_ e dalle
- altre opere boccaccesche di erudizione), sulla guida fidata di Paget
- Toymbee[24].
- Devo aggiungere che questo lavoro, per il quale non ho risparmiato
- fatiche, è stato eseguito in condizioni assai sfavorevoli. Troncato
- allo scoppio della guerra, fu ripreso durante una lunga convalescenza,
- e condotto a termine tra il campo e la caserma, spesso senza alcun
- sussidio di libri, senza i miei appunti. E in questo tempo perdetti
- te, o Madre, che mi chiamavi al tuo capezzale nel giorno stesso in
- cui io, spezzato il braccio e passato il petto da parte a parte tra i
- reticolati sopra Polazzo, parvi dovere, secondo la legge di natura,
- soccombere, e pur prolungasti le tue dure sofferenze sino a che non
- giunsi a raccogliere l’ultimo bacio sulle tue labbra benedicenti. E
- perdetti anche te, o Pietro, su cui l’agra morte sorvolò tante volte al
- San Marco di Gorizia, per abbatterti contro le onde dell’Egeo, rigide
- d’inverno, dal Minas infausto; te, o Fratello, di cui quattro bimbi
- aspettano ancora le conosciute carezze. Nella memoria vostra, o Madre,
- o Fratello, do termine a queste pagine, di cui nessuna s’è chiusa senza
- un pensiero per Voi.
- INDICE DEI NOMI VOLUME III
- Abate di San Zeno, 246, 265.
- Abati (degli) Bocca, 59, 241, 262.
- Accorso (Accursio) (d’) Francesco, 203.
- Acheronte, 175, 186, 259.
- Acquacheta, fiume, 225.
- Adamo, 254, 270.
- —(maestro), 240, 262.
- Adimari, vedi Aldobrandi.
- Adrasto, 169.
- Adriana (Arianna), 90.
- Adriano V, papa (del Fiesco), 246, 265.
- (_Epistola di san Girolamo a sant’Agostino_)
- 194 (_De civitate Dei_, XVI. 2);
- Alberico (frate), 241, 263.
- Aldobrandeschi Umberto, 244, 264.
- Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 216, 238.
- Alessandro di Macedonia, 102, 165.
- Aletto, 10.
- Anastasio, papa, 68.
- Anna, sommo sacerdote, 239.
- Antenora, 241, 262.
- _Apocalissi_, 185.
- Appennino, 225 sg.
- Apuleio di Madaura, 17 (_Cosmographia_).
- Arbia, 58.
- Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 237, 260.
- Aristotile, 13;
- _Ethica_, 79 bis;
- _Fisica_, 82.
- Arli (Arles), cittá di Provenza, 20.
- Arnaldo, vedi Daniello.
- Arpie, 132.
- Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore, 255, 270.
- —d’Inghilterra, 111.
- _Atti degli Apostoli_, vedi _Apostoli_.
- Attila, 113 sg., 152 sg.
- Beatrice, 65, 201, 235, 248, 251 sg., 267 sg.
- Beisangue Guido, detto Guido vecchio, 215.
- Belacqua, 243, 263.
- Beltram di Altaforte (dal Bornio), 240, 262.
- Bernardo (san), 255, 270.
- Berti Bellincione, de’ Ravignani, 215.
- Bocca, vedi Abati.
- Bonaventura (san) da Bagnorea, 252, 268.
- —Bondelmonte, 53.
- —famiglia de’, 53.
- Bonconte di Montefeltro, 243.
- Borsiere Guglielmo, 222.
- Brancadoria, 241.
- Brenta, fiume, 191.
- brigata spendereccia senese, 148.
- Bruggia (Bruges), 190.
- Bruto Marco Giunio, 241.
- Cacciaguida, 253, 268.
- Caco, 262.
- Caina, 240, 262.
- Calvoli (da) Rinieri, 245, 265.
- Caorsa, 74 sg.
- Capaneo, 169 sg., 238, 261.
- Capocchio, 240, 262.
- Carlo IV, imperatore, 52.
- Caronte, 235, 259.
- Casella, 243, 263.
- Cassio, 241.
- Catone uticense, 156, 161 sg., 243, 263.
- Cavalcanti Guido, 56.
- —Cavalcante (de’), 55 sg.
- Cecina, fiume, 130 sg.
- Cefas, vedi Pietro (san).
- Celeno, vedi arpie.
- Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
- centauri, 123 sg.
- Chiarentana, 191.
- Ciacco, 236, 260.
- Ciampolo navarrese, 261.
- Ciappetta (Capeto) Ugo, 246, 265.
- Cicerone, vedi Tullio.
- Claudiano, 31 (_De laudibus Stiliconis_).
- Clemente V, papa, 270.
- Cocito, 176, 187, 240.
- Comedia, 228 sg.
- Coppo di Borghese Domenichi, 215.
- Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
- Corneto, 130 sg.
- Corneto (da) Rinieri, 119.
- Costanza, imperatrice, 268.
- Creta, 172, 179 sg.
- Cureti, 173.
- Curzio Quinto, 165.
- Damiani Piero (san), 253, 270.
- Damocle, 106.
- Daniello Arnaldo, 248, 266.
- Daniello, profeta, 182.
- Democrito, 94.
- Didone, II, 119 sg.
- Dionisio il vecchio, 104 sg.
- Dionisio il giovane, 107 sg.
- Dite, 27 sg., 237, 260.
- Donati, Forese, 247, 266.
- —Piccarda, 251, 268.
- Duca (del) Guido, 245, 265.
- Elsa, fiume, 171.
- Empoli, 60.
- Ennio, 207.
- Epicuro, 45.
- Erine (Erinni), 10, 29 sg., 237, 260.
- Eritone, 6 sg.
- Eschilo, 207.
- Este (da) Opizzo, 110.
- Eteocle, 169.
- Eunoè, 249, 266.
- Euripide, 207.
- Europa, regione, 179 sg.
- Eusebio (_Liber temporum_), 7.
- Evemero (_Istoria sacra_), 172, 173.
- Ferecide, 156.
- Fiesole, 197 sg.
- Flegetonte, 175 sg., 187, 237, 260.
- Flegias, 237, 260.
- Flegra, 167.
- Folco da Marsiglia, 252, 268.
- Folo, centauro, 99.
- Forlí, 226.
- Fotino, 68.
- Francesca da Rimini, 236, 259.
- Fucci Vanni, 240, 262.
- Fulgenzio, 17 (_Myth_.), 33, 37.
- Furie, vedi Erinni.
- Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio VIII.
- _Genesi_, 74 (XIX. 1-25), 83, 183.
- Gerione, 239, 261.
- Geronimo, vedi Girolamo.
- Gherardesca (della) Ugolino, 241, 263.
- Ghibellino, 52.
- Giacomo da Sant’Andrea di Padova, 149.
- Gianfigliazzi Luigi, 52.
- Giasone, 239.
- Gibilterra, 163.
- Giordano, conte, 59.
- Giovanni (san) evangelista, 254, 270. Vedi _Apocalissi_ e
- _Evangelio_.
- Giovenale, 172 (_Sat_., VI. 1-2).
- Girolamo (san), 217 (_Adversus Iovinianum_).
- Giuda Scariotto, 241, 263.
- Giudecca, 241, 263.
- Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
- Giunone, 123 sg.
- Giustiniano, 252, 268.
- Giustino, 21 (XXXII, 3),
- 102-4 (IX. 6. 7; XI. 6. 7. 8. 11; XII. 9. 10. 13. 14). 104 (XXXI. 1),
- 105 (XX, 1, 2, 3, 5),
- 107 (XXI, 1-5),
- 116, (XVII, 3),
- 117 (XXV, 3, 5).
- Gorgone, 10 sg., 35 sg., 204 (_Omelie_).
- Gualdrada, 215.
- Guelfo, 52.
- Guerra Guido, 216, 238.
- Guglielmo d’Inghilterra, 165.
- Guglielmo d’Oringa, 22.
- Guinizzelli Guido, 248, 266.
- Guzzante, cittá (Wissand), 190.
- Iacopo (san), 254 (barone di Galizia).
- Ida, monte di Creta, 173.
- India, 165.
- Innocenzo papa, 54.
- Interminelli Alessio, lucchese, 239, 261.
- Iosafá, 45.
- Issione, 123 sg.
- _Istoria sacra_, vedi Evemero.
- Italia, 21.
- Lamberti (de’) Mosca, 240.
- Lano di Siena, 148.
- Latino Brunetto, 192 sg.
- (_Tesoretto, Tesoro_), 205, 238, 261.
- Lattanzio, 99.
- Leon tessalo, vedi Pilato.
- Letè, 175 sg., 248, 266.
- Lia, 248.
- Lino, 207.
- Livio Tito, 103 (IX. 16. 17. 18),
- 191 (I, 1).
- Lucano, 6 (VI. 507-9),
- 30 (VI, 732-4),
- 36 (IX, 624-6).
- maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
- Maiolica (Maiorca), 198.
- —Paolo, 236, 259.
- Malespina Currado, 264.
- Manfredi, 54, 58 sg., 243, 263.
- Maometto, 240.
- Marco lombardo, 245, 265.
- Maria, 255, 270.
- Marte, 150 sg.
- Martello Carlo, 252, 268.
- Mascheron (de’) Sassol, 240.
- Matelda, 249, 267.
- Matilde, contessa di Toscana, 52 sg.
- Mausolo, re di Caria, 24.
- Medusa, vedi Gorgone.
- Megera, 10.
- Mela Pomponio, 20 (II. 5. §§ 79. 80),
- 35 (III, 9, § 99), 163 (I, 6, § 32).
- Minos, 236, 259.
- Minotauro, 89 sg.; 122 sg.
- Monforte (di) Guido, 111.
- Monte Aperti, 54, 59.
- Montefeltro (da) Guido, 240, 262.
- —Bonconte, 243, 264.
- Montone, vedi Acquacheta.
- Morruello, vedi Malespina.
- Mozzi (de’) Andrea, 204.
- —Tommaso, 204.
- Musatto padovano (_Ecerinis_), 109.
- Nesso, 97 sg., 260.
- Nevio, 207.
- Nicola papa, 239, 261.
- Oderisi da Gobbio, 244, 264.
- Omero, 207.
- Orazio, 17, vv. 7-8);
- 207.
- Orbicciani Bonagiunta, 247, 266.
- Orfeo, 207.
- Otto IV, imperatore, 215.
- Ovidio, 17, (_Metam_., XV. 807-14),
- 30 (_Metam_. VI. 430),
- 31 (_Metam_. IV. 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
- 139 (_Metam_. II. 761-4. 768-72. 775-82).
- Padova, 191.
- Paolo (san), 113-5 (_Hist. Rom_. XIV. §§ 1-13).
- _Paradiso_ (cantica), 16, 51, 145,
- Pasife, 90, 120.
- Pazzi (de’) Rinieri, 119.
- —Camiscion, 240, 262.
- —Iacopo del Vacca, 59.
- Persio, 66, 69-70).
- Petrarca Francesco, 208.
- Pietro (san), 254, 270.
- Piettola, 208.
- Pirro, figlio di Achille, 115.
- Pirro, re dell’Epiro, 116.
- Platone, 156.
- Plauto, 207.
- Plinio, 21 (_Hist. nat_., 5),
- 24-25 (_Hist. nat_. XXXVI. 4; non citato nel testo).
- Pola, 21.
- Polinice, 169.
- Prisciano, 203, 16.
- Proserpina, 10.
- _Proverbi_, vedi Salomone.
- Ptolomea, 241, 263.
- _Purgatorio_ (cantica), 52, 162.
- Quarnaro, 21.
- Rea, 173.
- Ridolfo, imperatore, 264.
- Rifeo, 253, 269.
- Rodano, 20.
- 206 sg.; 182 sg.
- Romano (da) Azzolino, 109.
- —Cunizza, 252, 268.
- Romeo, 252, 268.
- Rusticucci Iacopo, 216, 238.
- Salmista, 39 (_Ps._, CXVIII, 37).
- Salomone, 39 (_Eccles_., I, 2).
- Samuele, 7.
- San Benedetto (monastero di) dell’Alpe, 224 sg.
- Sapia, 245, 265.
- Sarno, fiume, 171.
- Schicchi Gianni, 240.
- Seneca, 16 (_Oedipus_, II. 178), 70.
- Sereno, 36.
- Servio, 36-37 (_Sup. Aen._, VI. 289, non citato nel testo),
- 99 (_Sup. Georg._, 93),
- 126 (_Sup. Georg._, 115).
- Sesto Pompeo, 117 sg.
- Siena, 58 sg.
- Silvani Provenzano, 244.
- Simonide poeta, 207.
- Sinone, 240, 262.
- Sofocle, 207.
- Sogdoma, 79 sg.
- Soldanieri Gianni, 241.
- Sordello, 244, 264.
- Stazio, 31 (_Theb._, I. 106-9),
- 169 (_Theb._, I, X),
- 246 sg., 266.
- Stige, 176, 186, 236, 260.
- Strofade, isole, 132.
- Tamigi, 110.
- Teodonzio, 16, 18, 29, 31, 35, 37, 98.
- Teofrasto (_De nuptiis_), 217, 220.
- Teognide, antichissimo istoriografo, 36.
- Terenzio, 207.
- Teseo, 10 sg.
- Tesifone, 10.
- Titani, 168.
- Tommaso d’Aquino, 252 sg., 268.
- Toppo (Pieve al), 148.
- Toscana, 47 sg.
- Traiano, imperatore, 253, 269.
- Trento, 88.
- Tullio Cicerone, 16 (_De nat, deor_. 17),
- 18 (_De nat. deor_. 17),
- 61 (_Div_., I. 23),
- 104 sg. (_Tusc._, V, 20),
- 157 (_Somnium Scipionis_).
- Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale, 64.
- —Ruggieri, arcivescovo, 241.
- Uberti Farinata, 49 sg., 237, 260.
- Ulisse, 240, 262.
- Umberto, vedi Aldobrandeschi.
- Valerio Massimo, 106 (I. 1 _ext._ 3),
- 156 (II, 6, § 7).
- Venedico, 239.
- Vigne (dalle) Piero, 136 sg.,238, 260.
- Villani Giovanni, 54, 59, 60 (_Cron._, VI. 77. 78. 81. non cit.),
- 109 (_Cron._, VI, 72),
- 111 (_Cron._, VII, 39, non cit.),
- 114 (_Cron._, II, 1, non cit.),
- 151 (_Cron._, I, 42),
- 153 (_Cron._, II, 1),
- 154 (_Cron._, 1),
- 197 (_Cron._, I, 31 sg., non cit.),
- 198 (_Cron._, IV, 31, non cit.).
- Virgilio, 191, 207 sg., 236.
- _Eneide_, I, 112 (II, 689-91),
- 120 (VI, 106),
- 123 (VI, 237-42),
- 124 (VI, 126),
- 125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
- 131 (VII, 810-11),
- 151 (I, 544-5),
- 154 (XI, 539 sg.),
- 156 (XII, 930 sg.),
- 184 (III, 56-7),
- 197 (I, 1, 8),
- 204-5 (VI, 1 sg.),
- 208 (VI, 127-31; 756-7),
- 215 (VI, 174, 234, I, 52),
- 239 (VI, 261),
- 251 (VI, 298-9),
- 253;
- 29 (XII, 845-7),
- 30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
- 31 (VII, 325-9, 335-8),
- 93 (IV, 106),
- 116 (III, 294-7),
- 145 (I, 278-9),
- 168 (VIII, 425).
- _Georgica_, I, 139;
- 145 (II, 495-6, 498).
- _Egloghe_, II, 10 (IV, 7).
- _Culice_, II, 33.
- Visconti Nino (Gallo di Gallura), 244, 264.
- _Vita nova_, 56.
- Viterbo, 110 sg.
- INDICE DEI NOMI
- Abacuc, profeta, II, 262 (_Hab_., II, 6, 9).
- Abate di San Zeno, III, 246, 265.
- Abati (degli) Bocca, III, 59, 241, 262.
- Abele, II, 15.
- Abramo, II, 17.
- Accorso (Accursio) (d’) Francesco, III, 203.
- Acheronte, I, 120, 250; III, 175, 186, 259.
- Achille, II, 130 sg.
- Acquacheta, fiume, III, 225.
- Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, II, 173 sg.
- Adamo, I, 119; II, 12; III, 254, 270.
- —(maestro), III, 240, 262.
- Adimari, vedi Aldobrandi.
- Adone, I, 180.
- Adrasto, III, 169.
- Adriana (Arianna), III, 90.
- Adriano V, papa (del Fiesco), III, 246, 265.
- Agostino (sant’), I, 146, 147
- (_Epistola di san Girolamo a sant’Agostino_)
- 194 (_De civitate Dei_, XVI. 2); II, 10 (_Sermone della
- nativitá di Cristo_),
- 61 (_Civ. Dei_, VIII 14),
- 66 (_Civ. Dei_, IV),
- 72 (_Civ. Dei_, VIII 2),
- 113 (_Civ. Dei_, V 8 9),
- 242; III, 19 (_Civ. Dei_, V 8 9),
- 23 (_De haeresibus_).
- Alberico (frate), III, 241, 263.
- Alberigo (_Poètria_), II, 221.
- Alberto magno, II, 21.
- Aldighieri di Ferrara, I, 7, 69.
- —figlio di Cacciaguida, I, 7, 69.
- Aldobrandeschi Umberto, III, 244, 264.
- Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, II, 179 sg.; III, 216, 238.
- Alessandro di Macedonia, I, 105; III, 102, 165.
- Aletto, III, 10.
- Alí, commentatore di Tolomeo (_Comento del Quadripartito_),
- II, 140.
- Alighieri, padre di Dante, I, 7, II, 69, 72.
- —Dante, I, 4, 5, 8, e _passim_; II, 262.
- —Gemma, moglie di Dante, II, 262.
- —Iacopo, I, 52, 97.
- —Piero, I, 52, 97.
- Amos, profeta, I, 182 (_Amos_, III, 8).
- Anassagora, II, 71.
- Anassalide, uditore di Platone, II, 66.
- Anassimandro lampsaceno, I, 201.
- Anastasio, papa, III, 68.
- Anna, sommo sacerdote, III, 239.
- Anselmo, arcivescovo di Canterbury (_De imagine mundi_), II, 41.
- Antenora, III, 241, 262.
- Anteo, I, 179; III, 240, 262.
- Antioco, re d’Asia e di Siria, I, 182.
- _Apocalissi_, I, 125 (XI, 7; IX, I, 2), 160, 169 (II, 7; III, 12);
- II, 202, 233, 235 (XVIII, 21); III, 185.
- Apollodoro, grammatico, II, 29.
- _Apostoli_ (_Atti degli_), I, 147, 148 (Act. ap., IX, 5;
- XXVI, 14).
- Appennino, III, 225 sg.
- Apuleio di Madaura, II, 62 (_De Deo Socratis liber_);
- III, 17 (_Cosmographia_).
- Arbia, III, 58.
- Archiloco di Paro, II, 29.
- Argenti Filippo de’ Cavicciuli, II, 276; III, 237, 260.
- Aristarco di Samotracia, grammatico, II, 28.
- Aristotile, I, 43, 75, 92, 105, 142, 200; II, 59 sg. (vita e opere),
- 66, 86, 186, 212, 241, 244; III, 13;
- _Ethica_, I, 117, 181, 211, 222; II, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
- III, 79 bis;
- _Meteora_, I, 242, 256; II, 4, 114;
- _Politica_, II, 108;
- _De anima_, II, 141;
- _Fisica_, III, 82.
- Arli (Arles), cittá di Provenza, III, 20.
- Arnaldo, vedi Daniello.
- Arno, I, 171.
- Arpie, III, 132.
- Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore, I, 22, 54, 79, 80, 100;
- III, 255, 270.
- —d’Inghilterra, III, 111.
- Ascanio (Iulio), I, 204.
- Asclepiade, filosofo, II, 68.
- _Aspidopia_, vedi Esiodo.
- Astiage, II, 177, 214.
- Atalante, edificatore di Fiesole, II, 40·
- —re di Mauritania, II, 40.
- _Atti degli Apostoli_, vedi _Apostoli_.
- Attila, I, 6, 68; III, 113 sg., 152 sg.
- Augusto, I, 31, 139, 140, 205, 207.
- Aulo Gellio, II, 62 (_Noctes Atticae_, II, 1), 63 (N. A., I, 17),
- 70 (N. A., II, 18).
- Averno (lago d’), I, 123, 125.
- Averrois, II, 61, 86.
- Avicenna, II, 85.
- Beatrice, I, 11, 13, 15, 48, 72 sg., 75, 81, 95, 118, 213 sg.;
- III, 65, 201, 235, 248, 251 sg., 267 sg.
- Beisangue Guido, detto Guido vecchio, III, 215.
- Belacqua, III, 243, 263.
- Beltram di Altaforte (dal Bornio), III, 240, 262.
- Bernardo (san), III, 255, 270.
- Bernardo Silvestre, autore del _Megacosmo_ e del _Microcosmo_,
- I, 233.
- Bersabé, I, 48.
- Berti Bellincione, de’ Ravignani, III, 215.
- Bianchi (setta dei), II, 171.
- Bocca, vedi Abati.
- Boezio, I, 141 (_De consolatione philosophiae_, I, _pr_. 1),
- 148 (_Cons_., I, pr. 1); II, 72 (_De musica_),
- 84 (_De geometria_),
- 113 (_Cons_., IV, _pr_. 6),
- 144, 215 (_Cons_., II, _pr._ 1),
- 237 (_Cons_., II, _met._ 5).
- Bologna, I, 9, 22, 26, 71, 79.
- Bonaventura (san) da Bagnorea, III, 252, 268.
- —Bondelmonte, III, 53.
- —famiglia de’, III, 53.
- Bonconte di Montefeltro, III, 243.
- Bonifazio VIII, papa, I, 46, 94, 246 sg.; II, 173.
- Borsiere Guglielmo, III, 222.
- Brancadoria, III, 241.
- Brandizio (Brindisi), I, 31.
- Brenta, fiume, III, 191.
- Brescia, I, 22, 79.
- brigata spendereccia senese, III, 148.
- Bruggia (Bruges), III, 190.
- Bruto Caio Giunio, II, 54.
- Bruto Marco Giunio, II, 7; III, 241.
- Cacciaguida, I, 7, 69; III, 253, 268.
- Caco, III, 262.
- Cadmo, re di Tebe, I, 202.
- Caina, II, 143; III, 240, 262.
- Caino, II, 15.
- Calano d’India, II, 178.
- Calcidio, II, 62 (_Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone_).
- Callimaco, biografo d’Omero, II, 24, 25, 27.
- Calvoli (da) Rinieri, III, 245, 265.
- Camilla, I, 154; II, 50.
- Camillo, I, 21, 29.
- Cancellieri di Pistoia, II, 171.
- Caorsa, III, 74 sg.
- Capaneo, I, 182; III, 169 sg., 238, 261.
- Capocchio, III, 240, 262.
- Cariddi, II, 203 sg.
- Carlo di Valois, I, 46; II, 173 sg.
- Carlo magno, I, 6, 69.
- Carlo IV, imperatore, III, 52.
- Caronte, I, 120, 251, 261; III, 235, 259.
- Casella, III, 243, 263.
- Casentino, I, 22, 74, 79.
- Cassio, II, 7; III, 241.
- Catellina (Catilina), I, 179.
- Catone uticense, III, 156, 161 sg., 243, 263.
- Cavalcanti Guido, II, 174; III, 56.
- —Cavalcante (de’), III, 55 sg.
- Cecina, fiume, III, 130 sg.
- Cefas, vedi Pietro (san).
- Celeno, vedi arpie.
- Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
- centauri, III, 123 sg.
- Cerbero, I, 120; II, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
- Cerchi (dei) famiglia, II, 170, 213; III, 223.
- —Vieri, II, 171 sg., 262.
- —Ricovero, II, 172.
- Cesare, I, 140, 205, 207; II, 46 sg., 87.
- Chiarentana, III, 191.
- Chiassi (pineta di), I, 128.
- Chirone, III, 96, 98 sg.
- Ciacco, II, 170, 264 sg.; III, 236, 260.
- Ciampolo navarrese, III, 261.
- Ciappetta (Capeto) Ugo, III, 246, 265.
- Cicerone, vedi Tullio.
- Claudiano, I, 29; III, 31 (_De laudibus Stiliconis_).
- Clearco, uditore di Platone, II, 66.
- Clemente V, papa, I, 22; III, 270.
- Cleopatra, I, 179; II, 124 sg.
- Cocito, III, 176, 187, 240.
- Comedia, I, 33, 49, 52, 53, 54, 60, 61, 62, 96, 98, 99, 105, 106, 111,
- 113, 118, 173; III, 228 sg.
- Convivio, I, 55, 100.
- Coppo di Borghese Domenichi, II, 276; III, 215.
- Coriolano, I, 21.
- Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, II, 41.
- Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
- Corneto, III, 130 sg.
- Corneto (da) Rinieri, III, 119.
- Corniglia (Cornelia), II, 58.
- Corvara (frate Pietro da), antipapa, I, 55.
- Costantino, imperatore, I, 170, 207.
- Costanza, imperatrice, III, 268.
- Crasso, I, 185.
- Creso, II, 214.
- Creta, III, 172, 179 sg.
- Crisippo, filosofo stoico, I, 251.
- Cureti, III, 173.
- Curzio Quinto, II, 26; III, 165.
- Dalila, I, 179.
- Damiani Piero (san), III, 253, 270.
- Damocle, III, 106.
- Danaidi, I, 122.
- Daniello Arnaldo, III, 248, 266.
- Daniello, profeta, I, 42, 91; III, 182.
- Danne (Dafne), I, 44, 93.
- David, I, 48; II, 18 e vedi Salmista.
- Democrito, II, 67; III, 94.
- Didone, I, 178, 180; II, 119 sg.
- Diogene, II, 69 sg.
- Dionisio areopagita (_Della celeste gerarchia_), I, 147.
- Dionisio il vecchio, III, 104 sg.
- Dionisio il giovane, III, 107 sg.
- Dioscoride, II, 74.
- Dite, I, 41, 125; III, 27 sg., 237, 260.
- Donati, famiglia de’, II, 170, 213.
- —Corso, II, 171.
- —Forese, III, 247, 266.
- —Piccarda, III, 251, 268.
- Duca (del) Guido, III, 245, 265.
- Eaco, I, 120. _Ecclesiaste_, vedi Salomone. _Ecclesiastico_;
- II, 242 (_Ecclesiasticus_, X 9).
- Elena, I, 179; II, 127 sg.
- Elettra, II, 40.
- Elisei, famiglia degli, I, 7, 69.
- Eliso, I, 41. _Eloquentia_ (_de_) _vulgari_, I, 55, 100.
- Elsa, fiume, III, 171.
- Empedocles, II, 72.
- Empoli, III, 60.
- Enea, I, 151, 204, 206, 208; II, 44, 87.
- Ennio, III, 207.
- Epicuro, III, 45.
- Epimenide, poeta, I, 147.
- Eraclito, II, 73.
- Eratostene, II, 28.
- Ercole, I, 41, 48, 89, 120; II, 97.
- Erine (Erinni), III, 10, 29 sg., 237, 260.
- Eritone, III, 6 sg.
- Ermolao, tiranno di Atene, II, 27.
- Erode, I, 48.
- Esaú, I, 249.
- Eschilo, III, 207.
- Esiodo (_Aspidopia_), I, 53.
- _Esodo_, I, 90
- (_Exod_., XIV 22), 235
- (_Exod_., XV 5, dal testo attribuito al Salmista).
- Este (da) Opizzo, III, 110.
- Eteocle, III, 169.
- Ettore, I, 30; II, 43.
- Euclide, I, 144; II, 83.
- Euforbo, istoriografo, II, 29.
- Eunoè, III, 249, 266.
- Eurialo, I, 155.
- Euripide, III, 207.
- Europa, amata da Giove, I, 48.
- Europa, regione, III, 179 sg.
- Eusebio (_Liber temporum_), I, 139, 207, 261; II, 9, 29, 30, 32,
- 33, 43, 54, 71, 72, 77, 95, 109, 123, 201, 268; III, 7.
- Eussimene (Anassimene), I, 201 (_Thelegumenon_).
- Evangelio, I, 122 (_Luc_., XVI 19-31), 168,
- (_Ioh_., XIV 6), 169,
- (_Math_., X 22; XX 6), I, 175,
- (_Ioh_., I 29), 230,
- (_Math_., VII 7), 257,
- (_Math_., VII 13); II, 9,
- (_Ioh_., XII 5), 37,
- (_Ioh_., XIII 13 14), 90,
- (_Math_., XXVIII 19; _Ioh_., I, 33; _Luc_., XII 50;
- _Marc_., XVI 16; _Ioh_., III 5; _Math_., XX 23), 183,
- (_Math_., XIX 24), 191,
- (_Luc_., XVI 19-31), 242,
- (_Luc_., XV 22), 252 (vedi Paolo, _ad Hebr_.); III, 32.
- Evemero (_Istoria sacra_), III, 172, 173.
- Ezechia re, I, 170.
- Ezechiel, I, 42, 91; II, 235 (Ezech., XI 19).
- Fabrizio, I, 29.
- Faggiuola (della) signori, I, 79.
- —Uguccione, I, 54, 99.
- Falacro, filosofo, II, 25.
- Fama, divinitá mitologica, I, 215 sg.
- Faro di Messina, II, 203.
- Febo, I, 44, 93.
- Federico II, imperatore, I, 7, 8, 69, 70; III, 53 sg., 62 sg.
- Federigo III, re di Sicilia, I, 54, 100.
- Ferecide, III, 156.
- Fiandra, II, 259.
- Fiesole, III, 197 sg.
- Filippo, re di Francia, I, 46.
- Fillide, I, 180.
- Filocoro, II, 29.
- _Filosofia_ (_Della_), opera di Clearco e Anassalide, II, 66.
- Firenze, I, 6, 22, 27, 47, 69; II, 172 e _passim_.
- Flegetonte, III, 175 sg., 187, 237, 260.
- Flegias, II, 267 sg., 283; III, 237, 260.
- Flegra, III, 167.
- Folco da Marsiglia, III, 252, 268.
- Folo, centauro, III, 99.
- Forlí, III, 226.
- Fotino, III, 68.
- Francesca da Rimini, II, 137 sg.; III, 236, 259.
- Frangiapani (famiglia de’), I, 6, 69.
- —Eliseo, I, 6, 69.
- Frescobaldi (Dino di m. Lambertuccio),
- I, 50, 96; II, 263, 265.
- Fucci Vanni, III, 240, 262.
- Fulgenzio, I, 121, 146 (_Mythologiae_), 200 (_Myth_.), 201;
- II, 230; III, 17 (_Myth_.), 33, 37.
- Furie, vedi Erinni.
- Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio
- VIII.
- Gaio Antonio, I, 179.
- Galeotto, II, 145.
- Galieno, I, 144; II, 85.
- Gallia, I, 6, 22.
- _Genesi_, I, 210 (XLIX, 27), 244 (XXV, 29-34), 261 (I, 3-4);
- II, 12 (I, 27), 15 (IV, 2-8), 19 (XXXII, 1-32), 176 (I, 26),
- 190 (III), 233 (III, 1, 14); III, 74 (XIX, 1-25), 83, 183.
- Geremia, profeta, I, 89; II, 92 (VIII, 7), 192.
- Gerione, III, 239, 261.
- Geronimo, vedi Girolamo.
- Gherardesca (della) Ugolino, III, 241, 263.
- Ghibellino, III, 52.
- Giacomo da Sant’Andrea di Padova, III, 149.
- Giandonati Arrigo, II, 179.
- Gianfigliazzi Luigi, III, 52.
- Giardino (Piero di m.), I, 52, 97, 128.
- Giasone, I, 178; III, 239.
- Gibilterra, III, 163.
- Giordano, conte, III, 59.
- Giovanni (san) evangelista, I, 91; III, 254, 270. Vedi _Apocalissi_ e
- _Evangelio_.
- Giovanni XXII, papa, I, 55, 100.
- Giove, I, 37, 40, 86, 112; III, 167, 173.
- Giovenale, I, 29, 145, 168 (_Sat_., X,349-50);
- II, 34, 67 (_Sat_., X, 33-35),
- 215 (_Sat_.,
- X, 365-6), 219 (_Sat_.,
- X, 365-6), 243 (_Sat_., XIV, 135-7);
- III, 172 (_Sat_., VI, 1-2).
- Girolamo (san), I, 141 (a Damaso papa _De filio prodigo_),
- 145 (_Def. pr._),
- 146 (_De f. pr_.),
- 147 (_QuaestionesHebraicae_),
- 194 (_Praefatio in Apocalypsim_);
- II, 60 (_Praefatio in librum II Chronicorum Eusebii_),
- 62 (_Epist. XXXV e Praefatio in Bibliam_),
- 83 (_Liber virorum illustrium_),
- 85 (_Quaest. Hebr._),
- 238 (_Epist. ad Rusticum_);
- III, 217 (_Adversus Iovinianum_).
- Giuda Scariotto, III, 241, 263.
- Giudecca, III, 241, 263.
- Giugurta, I, 182.
- Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
- II, 58.
- Giunone, I, 40; III, 123 sg.
- Giustiniano, II, 28; III, 252, 268.
- Giustino (_Historia_), I, 167 (III, 2);
- II, 51 (II, 4),
- 52 (XLIII, 1),
- 63 (II, 10);
- III, 21 (XXXII, 3),
- 102-4 (IX, 6, 7; XI, 6, 7, 8, 11; XII, 9, 10, 13, 14), 104 (XXXI, 1),
- 105 (XX, 1, 2, 3, 5),
- 107 (XXI, 1-5),
- 116, (XVII, 3),
- 117 (XXV, 3, 5).
- Golia, I, 182.
- Gorgone, III, 10 sg., 35 sg.
- Gregorio (san) papa, I, 39, 88,
- 163 (proemio de’ _Morali_), 232;
- II, 225 (_Innario_);
- III, 204 (_Omelie_).
- Gualdrada, III, 215.
- Guelfo, III, 52.
- Guerra Guido, III, 216, 238.
- Guglielmo d’Inghilterra, III, 165.
- Guglielmo d’Oringa, III, 22.
- Guinizzelli Guido, III, 248, 266.
- Guzzante, cittá (Wissand), III, 190.
- Iacopo (san), II, 242 (_Epist_., V, 1);
- III, 254 (barone di Galizia).
- Ida, monte di Creta, III, 173.
- Ierusalem, I, 89, 171.
- Iezzabel, I, 182.
- India, III, 165.
- _Inferno_ (cantica), I, 33, 50, 54, 99, 119 sg.
- Innocenzo III, papa, III, 54.
- Interminelli Alessio, lucchese, III, 239, 261.
- Iob, I, 160; II, 192 (VI, 6; XV, 16).
- Iole, I, 48.
- Iosafá, III, 45.
- Ippocrate, I, 144; II, 84.
- Isaac, II, 19.
- Isaia, profeta, I, 42, 119 (V, 14),
- 172, 175 (XI, 2-3); II, 96 (XL, 13),
- 192 (XXIV, 9).
- Isidoro (_Etymologiae_), I, 198, 199.
- Isopo, II, 243.
- Israel (Iacob), II, 18.
- Issione, I, 121; III, 123 sg.
- _Istoria sacra_, vedi Evemero.
- _Istorie scolastiche_ di Pietro Comestor, II, 65.
- Italia, I, 14, 22, 117, 154; III, 21.
- Lamberti (de’) Mosca, II, 179; III, 240.
- Lancellotto, II, 144.
- Lano di Siena, III, 148.
- Latino Brunetto, I, 117; III, 192 sg.
- (_Tesoretto, Tesoro_), 205, 238, 261.
- Latino, re dei laurenti, II, 52.
- Lattanzio, II, 74, 76 (_Divinarum institutionum_, I, 23),
- 201 (_Div. inst_., I, 11), 267; III, 99.
- Leon tessalo, vedi Pilato.
- Lavina, figlia di Latino, II, 54.
- Leontonio, ateniese, protettore di
- Omero, II, 27.
- Letè, III, 175 sg., 248, 266.
- Lia, III, 248.
- Libia, I, 14; III, 163.
- Licaone, I, 41, 89.
- Licurgo, I, 167.
- Lino, II, 78; III, 207.
- Linterno, I, 30.
- Livio Tito, I, 171;
- II, 45 (_Hist_., XL, 4);
- III, 103 (IX, 16, 17, 18),
- 191 (I, 1).
- Lodovico di Baviera, imperatore, I, 55, 100.
- Lombardia, I, 46, 79, 137 sg.
- Lucano, II, 25, 33,
- 57 (_Pharsalia_, II, 326 sg.),
- 87;
- III, 6 (VI, 507-9),
- 30 (VI, 732-4),
- 36 (IX, 624-6).
- Lucca, I, 74.
- Lucia, I, 220 sg.; III, 244.
- Lucrezia, II, 55, 87.
- Luna, I, 37, 86.
- Lunigiana, I, 22, 79.
- Maccabeo Giuda, I, 105.
- Macrobio, I, 121 (_Liber saturnaliorum_),
- 160 (_Comm. in Somnium SciPionis_, I, 2),
- 200 (Somn., II, 3);
- II, 124 (_Saturn_., V, 17).
- maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
- Magna (Allemagna), I, 22.
- Maiolica (Maiorca), III, 198.
- Malatesti Gianciotto, II, 137 sg.
- —Paolo, II, 137 sg.; III, 236, 259.
- Malespina Morruello, I, 22, 51, 54, 79, 96, 99; II, 263.
- —Currado, III, 264.
- Manfredi, III, 54, 58 sg., 243, 263.
- Mantova, I, 28, 138; III, 261.
- Maometto, II, 277; III, 240.
- Marco lombardo, III, 245, 265.
- Maria, III, 255, 270.
- Marte, III, 150 sg.
- Marcello Marco, console, I, 218.
- Martello Carlo, III, 252, 268.
- Marzia, moglie di Catone, II, 57.
- Mascheron (de’) Sassol, III, 240.
- Matelda, III, 249, 267.
- Matilde, contessa di Toscana, III, 52 sg.
- Mausolo, re di Caria, III, 24.
- Medusa, vedi Gorgone.
- Megera, III, 10.
- Mela Pomponio, I, 124 (_Chorographia_, I, 19, § 103),
- 151 (I, 18, § 93);
- II, 71 (I, 17, § 86);
- III, 20 (II, 5, §§ 79, 80),
- 35 (III, 9, § 99), 163 (I, 6, § 32).
- Melchisedech, I, 103.
- Menandro, I, 147.
- Metabo, I, 143.
- Mida, I, 185.
- Minos, I, 120; II, 106, 147 sg.; III, 236, 259.
- Minotauro, III, 89 sg.; 122 sg.
- Moisé, I, 40, 89; II, 16.
- _Monarchia_ (_De monarchia_), I, 54.
- Monforte (di) Guido, III, 111.
- Monte Aperti, III, 54, 59.
- Montefeltro (da) Guido, III, 240, 262.
- —Bonconte, III, 243, 264.
- Montone, vedi Acquacheta.
- Morrone (del) Piero, I, 246 sg.
- Morruello, vedi Malespina.
- Mozzi (de’) Andrea, III, 204.
- —Tommaso, III, 204.
- Musatto padovano (_Ecerinis_), III, 109.
- Muse, I, 198 sg.
- Museo, II, 77; III, 207.
- Nabucodonosor, 40, 89, 182.
- Napoli, I, 31, 139.
- Narsete, I, 138.
- Nepote Cornelio, II, 29.
- Neri (setta dei), II, 171.
- Nerone (_Troica_), II, 133.
- Nesso, III, 97 sg., 260.
- Nestore, I, 28.
- Nettuno, I, 41.
- Nevio, III, 207.
- Niccolaio, pastore di Smirna, I, 28.
- Niccolaio di Tamech (_Sopra il Tito Livio_), I, 171.
- Nicola III, papa, III, 239, 261.
- Nino, II, 117 sg.
- Niso, I, 155.
- Noé, II, 15.
- _Numeri_, II, 233 (XXI, 6-9).
- Oderisi da Gobbio, III, 244, 264.
- Omero, I, 24, 28, 31, 123 (Od., XI, 1-20),
- 197 (Od., I, 1-2),
- 203;
- II, 24 sg., 43, 127 (_Il_., XXIV, 765-7),
- 130(_Od_., IV, 1-18; Il., II, 683),
- 161 (_Il_., XIV, 214-17);
- III, 207.
- Orazio, I, 9, 29, 145, 147, 198 (_Ad Pisones_, 141-2);
- II, 29 sg., 34,
- 53 (_Carm_., III, 17, vv. 7-8);
- III, 207.
- Orbicciani Bonagiunta, III, 247, 266.
- Orbino, I, 22, 79.
- Orfeo, II, 74 sg.; III, 207.
- Origene, I, 264.
- Osea profeta, I, 174 (VI, 1).
- Ottaviano, vedi Augusto.
- Otto IV, imperatore, III, 215.
- Ovidio, I, 9, 29, 31, 197 (_Metam_., I, 1-3);
- II, 4 (_Metam_., XI, 623-5),
- 30 (_Tristia_, X, 3-4, 26, 21-22),
- 31 (opere),
- 32 (_Tristia_, II, 207, 103, 108),
- 40 (_Fasti_, IV, 169-78),
- 75 (_Metam_., X, 78-85),
- 86,
- 108 (_Metam_., VIII, 166-75),
- 134, 229 (_Metam_., V, 346 sg.);
- III, 17, (_Metam_., XV, 807-14),
- 30 (_Metam_., VI, 430),
- 31 (_Metam_., IV, 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
- 139 (_Metam_., II, 761-4, 768-72, 775-82).
- Padova, I, 22, 72; III, 191.
- Palamede, I, 202.
- Pantasilea, II, 50.
- Paolo (san), I, 147 (I _Cor_., XV, 33;_Tit_., I, 12),
- 165 (_Rom_., XIII, 11; _Ephes_., V, 14),
- 169 (I _Cor_., XV, 10; _Ephes_., V, 8),
- 170 (_Tit_., III, 5),
- 186 (_Gal_., V, 17),
- 205 (I _Cor_., X, 11),
- 209 (II _Cor_., XII, 4),
- 210;
- II, 82 (lettere a Seneca),
- 90 (I _Cor_., X, 1-2),
- 92 (I _Cor_., XIV, 38),
- 99 (I _Tim_., I, 13; II _Tim_., IV, 4;
- I _Cor_., XIV, 38), 192 (_Ephes_., V, 18),
- 238 (_Ephes_., V, 5).
- Paolo Diacono, I, 137 sg. (_Hist. Lang_., I, §§ 1-2;
- II, §§ 5, 10);
- III, 113-5 (_Hist. Rom_., XIV, §§ 1-13).
- Papia, lessicografo, I, 200; II, 73; III, 23, 100.
- _Paradiso_ (cantica), I, 54, 99, 118, 119, 159, 161, 214;
- II, 208; III, 16, 51, 145,
- Parche, II, 219; III, 16 sg.
- Pargoletta, I, 74.
- Parigi, I, 9, 22, 35, 71, 79, 84, 117.
- Paris, I, 48, 132 sg.
- Pasife, II, 107; III, 90, 120.
- Pazzi (de’) Rinieri, III, 119.
- —Camiscion, III, 240, 262.
- —Iacopo del Vacca, III, 59.
- Perini Dino, II, 264.
- Persio, I, 147; II, 34, 242 (_Sat_., III, 66, 69-70).
- Petrarca Francesco, I, 142 (_Epistola al fratello Gherardo_),
- 143 (_Bucolica_),
- 145, 178 (_Africa_, I, 1-2); II, 61; III, 208.
- Pierie, I, 27, 82.
- Pietro Lombardo (maestro delle sentenze), I, 169, 243.
- Pietro (san), III, 254, 270.
- Piettola, I, 31; III, 208.
- Pilato Leone (Leonzio Pilato), II, 24, 77, 232, 201, 227.
- Pirro, figlio di Achille, III, 115.
- Pirro, re dell’Epiro, III, 116.
- Pisa, I, 54, 99.
- Pisandro, fisico, I, 201.
- Pitagora, I, 200, 202.
- Platone, I, 75, 111 (_Timeo_),
- 141, 144 (_Republica_),
- 148;
- II, 66 sg.;
- III, 156.
- Plauto, I, 116, 177 (_Cistellaria_, a. II, sc. I, 1-12);
- II, 34; III, 207.
- Pleiadi, II, 40 sg.
- Plinio, II, 48 (_Hist. nat_., VII, 25),
- 85 (_Hist. nat_., XXIX, 2);
- III, 21 (_Hist. nat_., III, 5),
- 24-25 (_Hist. nat_., XXXVI, 4; non citato nel testo).
- Plutone, I, 41; II, 201, 227 sg.; III, 236, 260.
- Po, II, 139.
- Poggetto (del) Beltrando, cardinale, I, 55, 100.
- Poggi Leone, II, 262.
- —Andrea, II, 262 sg.
- Pola, III, 21.
- Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
- —Guido Novello, I, 23, 25, 27, 80, 82, 100.
- —Ostagio, I, 55.
- Polinice, III, 169.
- Portinari Beatrice, vedi Beatrice.
- —Folco, I, 9, 10, 72.
- Priamo, I, 30.
- Prisciano, III, 203.
- Pronapide, I, 196, 250 (_Protocosmos_);
- II, 25; III, 16.
- Proserpina, III, 10.
- _Proverbi_, vedi Salomone.
- Ptolomea, III, 241, 263.
- Publicola, I, 29.
- _Purgatorio_ (cantica), I, 54, 99, 118, 137, 158, 190, 219;
- II, 169, 200, 208; III, 52, 162.
- Quarnaro, III, 21.
- Rabano Mauro, II, 74 (_Liber originum_, XVIII, 4),
- 76 (_Orig_., XVIII, 4),
- 84 (_Orig_., XVIII, 5),
- 85 (_Orig_., XVIII, 5),
- 232.
- Rachele, II, 19.
- Radamanto, I, 120.
- Ravenna, I, 23, 24, 25, 27, 31, 32, 79, 82, 117.
- Rea, III, 173.
- Ridolfo, imperatore, III, 264.
- Rifeo, III, 253, 269.
- Roboam, I, 182.
- Rodano, III, 20.
- Rodopei, monti, I, 14.
- Roma, I, 6, 23, 30, 46, 54, 69, 100,
- 206 sg.; III, 182 sg.
- Romagna, I, 23, 26, 47, 80.
- Romano (da) Azzolino, III, 109.
- —Cunizza, III, 252, 268.
- Romeo, III, 252, 268.
- Rusticucci Iacopo, II, 179; III, 216, 238.
- Rutilio, I, 21.
- Saladino, II, 59.
- Salmista, I, 120 (_Ps._, CXIV, 3; LIV, 16),
- 122 (_Ps._, VI, 6),
- 128 (_Ps._, LXXXIX, 9-10),
- 165 (_Ps._, CXXVI. 2),
- 168 (_Ps._, I, 1; CXVIII, 29; CXVIII, 1; CIX, 7),
- 169 (_Ps._, XXII, 6; LXXX, 8),
- 170 (_Ps._, XXXII, 9; L),
- 174 (_Ps._, v, 5),
- 175 (_Ps._, XVIII, 4-5; CXX, 1),
- 227 (_Ps._, V, 9),
- 235 (_Ps._, XXIII, 3-4),
- 263 (_Ps._ XXXII, 9);
- II, 92 (_Ps._ XXXV, 4),
- 97 (_Ps._, XVIII, 4-5),
- 99 (_Ps._, LVII, 5-6),
- 184 (_Ps._, VIII, 8-9),
- 234 (_Ps._, CXVII, 22),
- 272 (_Ps._, IV., 5);
- III, 39 (_Ps._, CXVIII, 37).
- Salomone, I, 48;
- II, 192 (_Prov_., XX, 1),
- 272 (_Ecclesiastes_, I, 18);
- III, 39 (_Eccles_., I, 2).
- Salvatico, conte, I, 22, 79.
- Samuele, III, 7.
- San Benedetto (monastero di) dell’Alpe, III, 224 sg.
- San Giovanni (battistero di), I, 35, 94.
- Santa Lucia di Napoli, II, 221.
- Sapia, III, 245, 265.
- _Sapienza_ (_Liber sapientiae_), I, 198; II, 192.
- Sardanapalo, I, 180.
- Sarno, fiume, III, 171.
- Saturno, I, 37, 40, 86, 89.
- Scala (della) Alberto, I, 22.
- —Cane, I, 51, 53, 54, 57, 98, 100.
- Schicchi Gianni, III, 240.
- Scipione, I, 30, 105.
- Semiramis, II, 117 sg.
- Seneca, I, 123 (_Hercules furens_, III, 813-14);
- II, 4 (_Herc. fur_., IV, 1065-77),
- 33-34,
- 64 (_Epist. ad Lucilium_, VI),
- 67 (_Epist. ad Luc_., LXI),
- 69 (_De beneficiis_, I, 4),
- 70 (_De ira_, III, 38),
- 78 sg., 87,
- 140 (_Hippolytus_, I, 294-301),
- 192, (_Epist. ad Luc_., XXIV),
- 223 (_De sacris Aegyptiorum_),
- 229 (_Herc. fur_., III, 782-8),
- 239 (_Epist. ad Luc_., IV),
- 242 (_Epist. ad Luc_., XVII),
- 274 (_Thyestes_, II, 344 sg.);
- III, 16 (_Oedipus_, II, 178), 70.
- Sereno, III, 36.
- Servio, I, 137, 150, 261;
- II, 45 (_Sup. Aen._, I, 386; II, 801),
- 53 (_Sup. Aen._, XII, 164),
- 54 (_Sup. Aen._, VIII, 51; VI, 760),
- 133 (_Sup. Aen._, V, 370),
- 267;
- III, 36-37 (_Sup. Aen._, VI, 289, non citato nel testo),
- 99 (_Sup. Georg._, III, 93),
- 126 (_Sup. Georg._, III, 115).
- Sesto Pompeo, III, 117 sg.
- Sibilla, I, 123.
- Siena, I, 35; III, 58 sg.
- Silvani Provenzano, III, 244.
- Silvestro (san), papa, I, 208.
- Silvio, figlio di Enea e di Lavinia, I, 204.
- simbolo, I, 248.
- Simonide poeta, II, 177; III, 207.
- Simon mago, I, 182.
- Sinone, III, 240, 262.
- Socrate, I, 75; II, 61 sg.
- Sofocle, III, 207.
- Sogdoma, III, 79 sg.
- Soldanieri Gianni, III, 241.
- Solino, II, 76 (_De mirabilibus mundi_, X, 8),
- 126-27 (_De mir. mundi_,
- XXVII, 31, 41 (non citato nel testo).
- Solone, I, 3, 4, 43, 67, 103, 105.
- Sordello, III, 244, 264.
- Speusippo, nipote di Platone, II, 66.
- Spurima, giovane romano, II, 153.
- Stazio, I, 9, 123 (_Thebais_, I, 94-6),
- 158;
- II, 76 (_Theb._, V, 344, 435),
- 228 (_Theb._, VIII, 21-6),
- 254 (_Theb._, VIII, 739 sg.);
- III, 31 (_Theb._, I, 106-9),
- 169 (_Theb._, I, X),
- 246 sg., 266.
- Stige, II, 211; III, 176, 186, 236, 260.
- Strofade, isole, III, 132.
- Svetonio, I, 140 (_Vitae duodecim
- Caesarum_, II, § 1 non citato nel testo),
- 207 (_Vit_., II, §§ 1-4);
- II, 46 (_Vit_., I, § 13),
- 48-9 (_Vit_., I, §§ 56, 51, 49, 51, non citato nel testo).
- Tacito, Cornelio, II, 34 (_Annales_, XV, 56, 57; XV, 69, 70),
- 80 sg. (_Ann_., XII, I, 8; XIII, 2; XII, 67, 68; XIII, 16;
- XIV, 8, 63, 64, 60, 51; XIII, 2; XIV, 53-56, 65; XV, 60-65).
- Tale (Talete), II, 71.
- Tamigi, III, 110.
- Tantalo, I, 121, 185.
- Teodonzio, II, 76; III, 16, 18, 29, 31, 35, 37, 98.
- Teofrasto (_De nuptiis_), III, 217, 220.
- Teognide, antichissimo istoriografo, III, 36.
- Terenzio, I, 116, 148; II, 34, 163; III, 207.
- Tertullio, II, 65.
- Teseo, III, 10 sg.
- Tesifone, III, 10.
- Titani, III, 168.
- Tizio, I, 121.
- Tolomeo astronomo, I, 144; II, 84.
- Tommaso d’Aquino, III, 252 sg., 268.
- Toppo (Pieve al), III, 148.
- Torquato, I, 29.
- Tosa (della) Pino, cav. fiorentino, I, 55, 100.
- Toscana, I, 21, 22, 46, 79; III, 47 sg.
- Tosinghi, II, 213.
- Traiano, imperatore, III, 253, 269.
- Trento, III, 88.
- Tristano, II, 134 sg.
- Trogo Pompeo, II, 51.
- Tullio Cicerone, II, 28 (_Tusculanae quaestiones_, I, 39),
- 48 (_Brutus_, § 72),
- 62, (_Tusc._, II),
- 64 (_De senectute_, § 5),
- 68 (_Tusc._, V, 39),
- 71 (_Tusc._, I, 43),
- 77 sg.,
- 128 (_De inventione_, II, 1),
- 132 (_De divinatione_, I, 21),
- 140 (_De natura deorum_, III, 23),
- 177 sg. (_Div_., I, 27, 30),
- 232 (_In Verrem_, IV, 50),
- 239 (_De officiis_, III, 5),
- 242 (Off., I, 20);
- III, 16 (_De nat, deor_., III, 17),
- 18 (_De nat. deor_., III, 17),
- 61 (_Div_., I, 23),
- 104 sg. (_Tusc._, V, 20),
- 157 (_Somnium Scipionis_).
- Turno, I, 156.
- Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale, III, 64.
- —Ruggieri, arcivescovo, III, 241.
- Uberti Farinata, II, 179 sg.; III, 49 sg., 237, 260.
- Uguccione di Pisa, lessicografo, I, 125.
- Ulisse, III, 240, 262.
- Umberto, vedi Aldobrandeschi.
- Urbano IV, papa, I, 8, 70.
- Valerio Massimo, I, 218 (_Memorab_., I, 1, § 8);
- II, 58 (IV, 6, § 4, non citato nel testo),
- 61 (III, 4 _ext._ 1),
- 62 (VII, 2 _ext._ 1),
- 69 (IV, 3 _ext._ 4),
- 73 (III, 3 _ext._ 2, non cit.),
- 74 (III, 3 _ext._ 3),
- 83 (VIII, 12 _ext._ 1),
- 117 (IX, 3 _ext._ 4, non cit.),
- 153 (IV, 5 _ext._ 1, non cit.);
- 177 (I, 7 _ext._ 3; I, 5, non cit.);
- III, 106 (I, 1 _ext._ 3),
- 156 (II, 6, § 7).
- Varrone (_De origine linguae Latinae_), II, 53.
- Vecchio Testamento, I, 160.
- Venedico, III, 239.
- Verona, I, 22, 33, 79, 83; II, 262.
- Vigne (dalle) Piero, III, 136 sg.,238, 260.
- Villani Giovanni, I, 246 sg. (_Cronica_, VIII, 5, non
- citato nel testo);
- II, 173 (_Cron._, VIII, 39 sg.);
- III, 54, 59, 60 (_Cron._, VI, 77, 78, 81, non cit.),
- 109 (_Cron._, VI, 72),
- 111 (_Cron._, VII, 39, non cit.),
- 114 (_Cron._, II, 1, non cit.),
- 151 (_Cron._, I, 42),
- 153 (_Cron._, II, 1),
- 154 (_Cron._, III, 1),
- 197 (_Cron._, I, 31 sg., non cit.),
- 198 (_Cron._, IV, 31, non cit.).
- Virgilio, I, 9, 24, 29, 31, 54, 99, 105, 126,
- 137 (vita), 150 (opere),
- 203;
- III, 191, 207 sg., 236.
- _Eneide_, I, 112 (II, 689-91),
- 120 (VI, 106),
- 123 (VI, 237-42),
- 124 (VI, 126),
- 125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
- 131 (VII, 810-11),
- 151 (I, 544-5),
- 154 (XI, 539 sg.),
- 156 (XII, 930 sg.),
- 184 (III, 56-7),
- 197 (I, 1, 8),
- 204-5 (VI, 1 sg.),
- 208 (VI, 127-31; 756-7),
- 215 (VI, 174), 234 (I, 52),
- 239 (VI, 261),
- 251 (VI, 298-9),
- 253;
- II, 37 (I, 378),
- 39 (VI, 753-5),
- 46 (IV, 615-21; X, 606 sg.),
- 52 (VII, 45-8),
- 53 (XII, 164),
- 109 (VI, 422-3),
- 134 (X, 92),
- 142 (VI, 472-4),
- 168 (VI, 417-23)
- 169, 221 (VI, 323-4),
- 223, 228 (V, 548-9),
- 230 (VI, 563),
- 242 (III, 56-7),
- 268 (VI, 218-20, 412-14),
- 278 (VI, 552-8);
- III, 29 (XII, 845-7),
- 30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
- 31 (VII, 325-9, 335-8),
- 93 (IV, 106),
- 116 (III, 294-7),
- 145 (I, 278-9),
- 168 (VIII, 425).
- _Georgica_, I, 139;
- II, 75 (IV, 126-527);
- III, 145 (II, 495-6, 498).
- _Egloghe_, II, 10 (IV, 7).
- _Culice_, I, I, 33.
- Virgilio (del) Giovanni, I, 26, 55, 82, 100.
- Visconti Nino (Gallo di Gallura), III, 244, 264.
- visioni di profeti, I, 160.
- _Vita nova_, I, 12, 56, 73, 95, 100, 214; III, 56.
- Viterbo, III, 110 sg.
- _Vitis_ (_de_) _philosophorum_ (_Libellus
- de vita et moribus philosophorum_), II, 61.
- Xerse, I, 103.
- Zenobia, regina di Palmira, II, 153.
- Zenofane eracleopolita, I, 201.
- Zenone, II, 73 sg.
- Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, II, 68.
- FINE DEL TERZO ED ULTIMO VOLUME.
- INDICE
- Canto nono:
- I. Senso letterale p. 3
- II. Senso allegorico » 27
- Canto decimo » 43
- Canto decimoprimo » 67
- Canto decimosecondo:
- I. Senso letterale » 87
- II. Senso allegorico » 120
- Canto decimoterzo:
- I. Senso letterale » 129
- II. Senso allegorico » 155
- Canto decimoquarto:
- I. Senso letterale » 159
- II. Senso allegorico » 178
- Canto decimoquinto » 189
- Canto decimosesto » 211
- Canto decimosettimo » 231
- IV
- ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- All’_Inferno_ p. 235
- Al _Purgatorio_ » 243
- Al _Paradiso_ » 251
- V
- RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
- _Inferno_ p. 259
- _Purgatorio_ » 263
- _Paradiso_ » 267
- NOTA » 273
- INDICE DEI NOMI » 291
- FOOTNOTES:
- [1] Le rarissime [], che s’incontrano nel testo della _Vita di Dante_,
- colmano omissioni del ms. A p. 9 la parola «tratto» doveva essere
- intromessa, com’è suggerito dalla corrispondenza col _Compendio_ (p.
- 70); invece l’aggiunta «ordinar», mantenuta dalle precedenti edizioni a
- p. 36, senza corrispondenza con p. 85, è forse arbitraria.
- [2] Si vedano la prefazione del ROSTAGNO all’edizione
- sopra citata e lo studio di M. BARBI, _Qual’è la seconda
- redazione del«Trattatello» in laude di Dante_ (1913). Cfr. G.
- L. PASSERINI, nella prefazione a _Le vite di Dante_, Firenze,
- Sansoni, 1917, alcune mie pagine di recensione nella _Rassegna
- bibliografica_, a. XXV (1917), n. 3, e altre di G. VANDELLI,
- in _Bollettino della Societá dantesca italiana_, N. S., vol. XXIV,
- fasc. 4 (dec. 1917).
- [3] In questo codice sono rimaste in bianco parte della seconda col. di
- c. 81 r e le cc. 82-83. La lacuna va dalle parole «I cittadin, cioè i
- fiorentini, della cittá partita, peroché in que’ tempi Firenze», alle
- parole «Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo
- ordine: Ahi giustizia di Dio, chi stipa», cioè da p. 171 a p. 203 del
- II vol. di questa edizione; inoltre il detto codice si tronca alle
- parole «la cittá giá se ne dolea in quanto molti scandali e molti mali
- e uccisioni», in corrispondenza di p. 23, vol. III.
- [4] Da questo codice è stata asportata la c. 172, sicché esso presenta
- una lacuna tra le parole «È il Quarnaro un seno di mare il qual nasce
- del mare Adriano e va verso tramontana e quivi divide Italia dalla
- Schiavonia e chiamasi», in corrispondenza di p. 21, vol. III, e le
- parole «e quinci viene arcano, la cosa segreta», in corrispondenza di
- p. 24, vol. III.
- [5] Questo bel codice incomincia con le parole: «Galeotto fu il libro
- e chi lo scrisse. Scrivesi ne’ predetti romanzi che un prencipe» in
- corrispondenza di p. 145, vol. II. Probabilmente era diviso in due
- parti, delle quali la prima è andata perduta.
- [6] R, a c. 20 v., alle parole «e ’l Mosca, perché fu scismatico, nel
- ... canto» (pres. ediz., II, 180), omette fra «nel» e «canto» il numero
- che dovrebbe leggervisi, riempiendo lo spazio con un «nol dice», della
- medesima mano, in piú minuta scrittura; in S la stessa lacuna non è
- colmata; ed essa doveva trovarsi «nell’originale» di M¹, perché in
- quest’ultimo codice, a p. 235, il numero del canto apparisce scritto
- posteriormente alla riga e costretto a stento nello spazio lasciato
- prima in bianco. M² in questo caso non offre riscontri, perché il
- passo cade nella lunga lacuna segnalata di sopra.
- [7] Segnalo le seguenti, delle quali ho voluto lasciar traccia in
- questa edizione: I, 126-7 «Questo soluto, ne resta venire, ecc., _ut
- supra_.—Resta a venire all’ordine della lettura...»; _ib_., p. 159
- «si possono due ragioni dimostrare...», cui pur s’aggiunge una _terza_
- ragione a p. 161.
- [8] È giusto ch’io rammenti che, pur non avendo affacciato neanche io
- alcun sospetto sulla genuinitá del _Comento_ in ciascuna sua parte,
- ebbi però giá, dal solo esame stilistico, a rilevare che piú e piú
- tratti di quest’opera, e in sé e al confronto delle pagine o proprie
- o altrui, dalle quali il B. li avrebbe derivati, appariscono indegni
- del grande scrittore. Cfr. pp. 7, 9, 25-6 con la n. 2, del mio scritto
- _Caratteri e forma del Comento di G B. sopra la Commedia di D._ (Barga,
- 1913). Allora era il disagio dello studioso in cerca dei veri dati
- del suo problema: la prima stesura, la fretta, «la vecchiaia, che,
- se pur lascia valido il tronco, ne sfronda il verde» (_ib_., p. 10),
- erano un’impostazione provvisoria. I veri dati e la risoluzione si
- son presentati dopo a mano a mano, attraverso l’esame dei codici e la
- susseguente ripresa in esame del testo. Allo scritto cit., p. 4, n. 2,
- rimando per la bibliografia sul Comento: aggiungasi O. Bacci, _Il B.
- lettore di Dante_, Firenze, Sansoni, 1913.
- [9] Il fatto che il Buti avesse saccheggiato il proemio del Boccaccio,
- trasportandone nel suo tanta parte, non poteva non essere rilevato con
- meraviglia. Silvestro Centofanti, nella introduzione alla diligente
- edizione di Crescentino Giannini, s’ingegnò di scagionare il buon
- frate, ricorrendo per _extrema ratio_ all’«uso dei tempi». Ma la veritá
- è che l’uso dei tempi, per certo piú accondiscendente dell’uso nostro,
- non basta a spiegare un plagio che sviluppa tutto un sistema di idee,
- e che non ha riscontro nel séguito dell’opera, ove e il Boccaccio e
- Guido da Pisa e altri, quando accade che sian fonte dell’idea, non
- porgono insieme con essa l’espressione, e inoltre vengon citati,
- proprio come è citato il Boccaccio per il nome di _Commedia_, ch’è
- pagina sua (e cfr., nel séguito del testo, gli altri pochi rimandi che
- il Buti fa al certaldese). S’aggiunga che un’introduzione scolastica
- sviluppata su di uno schema che, ognuno che ne sappia, può riconoscere
- tradizionale, s’addice bene al Buti, maestro di grammatica, lettore
- nello Studio di Pisa, qualificato a ragione «il grammatico» tra gli
- antichi commentatori di Dante (C. Hegel, Ueber den historischen Werth
- der älteren Dante-Commentare, p. 54); al Boccaccio, scrittore grande e
- originale, no.
- [10] Cfr. «poliseno» (è però lezione che ha riscontro nelle stampe del
- _De Genealogiis_); cfr. «_iustitia praemiandi et puniendi_».
- [11] La rubrica è di altra mamo, ed è posteriore, ma del sec. XV.
- [12] M¹ e S leggono «non era» (M¹ è stato poi corretto da mano piú
- recente); R legge «non c’era»; in M² il passo cade nella lacuna
- segnalata di sopra.
- [13] In corrispondenza del passo sopra citato (singolarmente notevole
- per la questione di cronologia boccaccesca che vi è stata riconnessa),
- i codd. R (c. 19 r.) e M¹ (p. 232), oltre a riportare a margine alcuni
- versi del IV della _Georgica_ (219-227), recano, pure a margine, questo
- appunto o traccia, che nel testo non ha avuto sviluppo conforme:
- «Estimò Platone essere in ciascuna anima di qualunque animale alcuna
- parte di divina mente, il che appare nell’api—nelle formiche—nel
- cavallo d’Alessandro—ne’ leofanti—ne’ leoni—negli uomini». Il
- materiale delle pagine di cui fa parte il tratto sulla peste di Firenze
- è desunto dal _De casibus (§ De Astiage, § Pauca de somniis_).
- [14] Un altro ricordo personale del frate par quello del vol. III,
- 226 sg., circa il monastero di San Benedetto dell’Alpe. La medesima
- spiegazione, obbiettivamente esposta, si legge in Benvenuto da Imola.
- [15] Una annotazione di A. M. Salvini nel cod. R, in corrispondenza
- all’anno della peste, dice: «questo commentatore fiorí dopo la peste
- del 1348».
- [16] Citato dal De Batines.
- [17] Quali queste rubriche fossero originalmente, non è perspicuo. M¹
- scrive: «Capitolo primo della prima cantica della Commedia di Dante
- Alinghieri» (ma è d’altra mano che il testo); «Allegorie del cap.º
- primo dello ’nferno (corretto «della prima cantica») della Commedia di
- Dante Alinghieri»; «Cap.º IIº della prima cantica della Commedia di
- Dante» (d’altra mano), e a margine «Canto IIº» (della mano del testo);
- «Allegorie del IIº cap.º della Commedia di Dante (d’altra mano);
- «Cap. IIIº» (sulla linea e a margine); «Allegorie del IIIº cap.º»; e
- cosí di séguito, generalmente in quest’ultima forma.
- S’ha per ogni capitolo una di queste intestazioni: «Capitolo» (o
- «Canto»), «senso litterale», «senso allegorico», «senso morale»,
- «secondo la lettera», «allegorico», «litterale»; una volta sola, e
- questa a margine: «Primo cap.º secundum litteram».
- R scrive «Canto VI», «Canto VII» ecc., d’ordinario ripetendo quando
- incomincia il commento allegorico.
- [18] Ho tuttavia riprodotta a margine la numerazione delle lezioni giá
- adottata dal Milanesi per agevolare i riscontri.
- [19] In complesso io penso di avere espunto dal _Comento_ meno di
- quel che si debba; ma ciò non toglie che qualche tratto da me espunto
- non sia negato a torto al Boccaccio, specialmente negli inizi delle
- singole trattazioni. Giudichi caso per caso lo studioso; al quale, in
- mancanza della dimostrazione analitica a corredo del testo (il tipo
- della edizione non la ammetteva, ma potrá essere eseguita a parte),
- non dispiacerá ch’io gli tracci una guida sommaria per altre poche
- pagine oltre il proemio. Le prime, a mio giudizio, sono anch’esse
- contaminate con i commenti che il rifacitore si trovava fra mano per
- la compilazione del proemio. Poi le chiare pagine parafrastiche del
- Boccaccio finalmente compariscono, con poche intromesse piú o men bene
- riconoscibili (quella, ad es., su Virgilio mago, sproporzionata, se non
- estranea, al proposito, e affatto nuova nella concezione boccaccesca di
- Virgilio altrimenti nota), finché la parola «poeta» offre al rifacitore
- il destro di interpolare, raffazzonandole, piú pagine, della _Vita_
- e del _De Genealogiis_. Quindi ripigliano le pagine autentiche, con
- altre varie intromesse, sino alla seconda parte del commento di questo
- I canto, dov’è spiegato il senso allegorico; nella qual parte io credo
- che non si possa dubitare che la impostazione del discorso è del
- Boccaccio; ma si potrá dubitare se fosse meglio rescindere dall’inizio
- dello svolgimento delle idee generali sull’allegoria («In risponsione
- della qual cosa si possono due ragioni dimostrare..», I, 159) sino
- all’inizio della spiegazione del canto (I, 164), o tagliar via soltanto
- quella «terza ragione», che i codici provano non essere stata in una
- prima stesura, insieme con quel tratto sui quattro sensi, che l’analisi
- interna e il confronto col Boccaccio autentico (_De Genealogiis_, l. I,
- cap. IV) non consentono di giudicar genuino. E cosí di séguito.
- [20] Cfr G. VANDELLI e L. CASALI, Per _le nozze di
- Teresa Bertoldi con Umberto Monico_, Firenze, 1913, p. 17. In questo
- opuscolo è pubblicato di sul codice Toledano il capitolo relativo alla
- prima cantica.
- [21] La piú recente ristampa dei tre capitoli è stata quella curata da
- GIUSEPPE GIGLI, in _Antologia delle opere minori_ di G. B.,
- Firenze, Sansoni, 1907, pp. 301-320.
- [22] _Rubriche della Commedia di Dante Alighieri scritte in prosa,
- e breve raccoglimento in terzine di quanto si contiene nella stessa
- Commedia_. Edite da G. Comello con introduzione di E. CICOGNA
- e note di G. VELUDO, Venezia, tip. Cecchini e C., 1843, 8º,
- pp. 72 (per nozze Milan Massari-Comello).—L’opuscolo, sotto il titolo
- _Rubriche e breve raccoglimento della Commedia di Dante: scritture
- attribuite a G. B._, fu ristampato a cura di L. Pizzo _con prefazioni
- di_ E. CICOGNA _e osservazioni di_ G. VELUDO
- (Venezia, tip. Merlo, 1859, 16º, pp. 80).
- [23] G. VANDELLI, _Rubriche dantesche pubblicate di su
- l’autografo chigiano_, Firenze, Landi, 1908, 8º, pp. 31 (Nozze Corsini
- Ricasoli Firidolfi). Vedasi quivi per l’autografia del cod. Chigiano.
- [24] _Index of authors quoted by Boccaccio in his «Comento sopra
- la Commedia»: a contribution to the study of the sources of the
- Commentary,_ in _Miscellanea storica della Valdelsa_, a. XXI, fasc.
- 2-3, n. 60-61 (settembre 1913).
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