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  Directory : Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3
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  • The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
  • altri scritti intorno a Dante (vol. 3 , by Giovanni Boccaccio
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  • Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 3 of 3)
  • Author: Giovanni Boccaccio
  • Editor: Domenico Guerri
  • Release Date: December 7, 2014 [EBook #47566]
  • Language: Italian
  • Character set encoding: UTF-8
  • *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA ***
  • Produced by Giovanni Fini, Claudio Paganelli and the Online
  • Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images
  • generously made available by Editore Laterza and the
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  • NOTE DEL TRASCRITTORE:
  • —Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
  • —Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
  • riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
  • mantenuto nel terzo volume.
  • SCRITTORI D’ITALIA.
  • G. BOCCACCIO
  • OPERE VOLGARI
  • XIV
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
  • E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
  • A CURA DI
  • DOMENICO GUERRI
  • VOLUME TERZO
  • BARI
  • GIUS. LATERZA & FIGLI
  • TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
  • 1918
  • PROPRIETÁ LETTERARIA
  • GIUGNO MCMXVIII-49328
  • III
  • CONTINUAZIONE DEL COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”
  • CANTO NONO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. XXXV]
  • «Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in
  • questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti
  • come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel
  • petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam
  • credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che
  • l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto
  • dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver
  • similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti:
  • nella prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio
  • entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele
  • solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le
  • tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone,
  • e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse;
  • nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive
  • essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone
  • come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire
  • gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza
  • quivi:—«Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta
  • quivi: «E noi movemmo i piedi».
  • Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la
  • palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio
  • tornare in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di
  • Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, si come gli aveano
  • i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole;
  • ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto,
  • quasi come vinto tornare in volta, invilí l’autore, temendo non gli
  • convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione
  • invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che
  • quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole
  • l’autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il
  • colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato avea nel viso, per la
  • turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse
  • cagione all’autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú
  • tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè
  • nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno
  • turbato che non era.
  • E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio,
  • ancora in conforto dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare
  • che venga chi’l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice:
  • «Attento si fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può
  • comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino
  • aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre
  • a questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo»,
  • discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè tenebroso,
  • per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua natura non
  • è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia
  • folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.
  • E cosí attendendo, cominciò a dire:—«Pure a noi converrá vincer la
  • punga»—d’entrar nella cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad
  • ascoltare:—«se... non... tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio
  • le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza
  • dell’orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali
  • ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo
  • incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta
  • senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio
  • loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio, soggiugne
  • esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè
  • al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente
  • il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch’altri
  • qui giunga»—il quale abbatta l’arroganza de’ dimòni che la porta
  • serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente
  • dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire
  • alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.
  • «Io vidi ben, sí com’el ricoperse Lo ’ncominciar», cioè le parole
  • cominciate (quando disse:—«Se... non... tal ne s’offerse»—), «con
  • l’altro che poi venne» (cioè col dire:—«Oh quanto tarda a me ch’altri
  • qui giunga!»—), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non
  • seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il
  • suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l’autore
  • perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva la parola
  • tronca» (cioè «se... non... tal ne s’offerse), «Forse»; dice «forse»
  • perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s’avesse inteso
  • per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch’e’
  • non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l’autore Virgilio
  • aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer
  • la punga, Se... non... tal ne s’offerse», che, dove essi vincer
  • la punga non avesser potuto, che il prencipe dello ’nferno dovesse
  • punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino
  • quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti
  • dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse
  • loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle
  • parole, all’autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato
  • l’orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non
  • era la ’ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi
  • non possiam «vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne
  • s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará
  • sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion
  • di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di quello
  • che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da
  • Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga», entrò l’autore
  • in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
  • —«In questo fondo della trista conca», dello ’nferno, il quale
  • nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma
  • essenziale dello ’nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e
  • di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè
  • cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?»—Pon qui l’autore
  • il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha
  • alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena
  • la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è
  • stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno
  • cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca»
  • vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro,
  • percioché noi diremmo d’uno che molto bevesse: colui «cionca».
  • «Questa quistion fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei:—Di rado
  • Incontra»,—cioè avviene, «mi rispose,—che di nui», li quali nel primo
  • cerchio dimoriamo, «Faccia ’l cammino alcun pel quale io vado», cioè
  • discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui», dove noi
  • siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón
  • cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava
  • l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi incantamenti.
  • Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo
  • libro, dove dice:
  • _Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,
  • effera damnarat nimiae pietatis Erictho,
  • inque novos ritus pollutam duxerat artem_, ecc.;
  • dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né
  • mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire
  • in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle
  • incantazion de’ demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi
  • loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere
  • andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che
  • esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ’l padre di lui
  • e Cesare.
  • «Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima
  • di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale,
  • partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch’ella mi fece»,
  • questa Eritón, per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel
  • muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di
  • Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.
  • Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de’
  • congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian
  • Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono,
  • a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della
  • battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti
  • l’anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice,
  • del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei
  • tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente
  • si comprende per Eusebio _in libro Temporum_; e, che istoria questa
  • si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in
  • fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in
  • alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno
  • l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno
  • e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa
  • veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza
  • d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella
  • pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di
  • ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo
  • essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere
  • stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la
  • quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono,
  • compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro,
  • diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí
  • essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati
  • d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate
  • l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto
  • piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le
  • spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano
  • scioccamente e in loro perdizione.]
  • «Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú
  • oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel,
  • che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana
  • alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel
  • quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli,
  • e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro
  • della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal
  • cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il
  • quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
  • «Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare,
  • per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto
  • mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva
  • caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio
  • aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua
  • paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
  • «Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in
  • questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono
  • per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta
  • pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto,
  • nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la
  • cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde
  • si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere,
  • quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la
  • quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí
  • stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il
  • luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare
  • intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira»,—di coloro li quali
  • contrariare n’hanno voluta l’entrata.
  • «E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
  • nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie
  • infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello
  • che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli
  • dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale
  • è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto»,
  • cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo;
  • «Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite,
  • «alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere
  • ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata;
  • «Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in
  • un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili
  • aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
  • «Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però
  • sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata «_ydros_»;
  • e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza
  • dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel
  • quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le
  • serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo
  • sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore
  • pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda
  • qualunque velenosissimo serpente.
  • «Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono
  • «ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli
  • in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «_ceras_» in
  • greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè
  • di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè
  • circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il
  • capo de’ capelli loro.
  • «E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè
  • le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno
  • pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si
  • piagnerá;—«Guarda,—mi disse,—le feroci Erine», cioè le feroci tre
  • furie.
  • E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal
  • sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto
  • della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone»,
  • la terza furia,«è nel mezzo»—delle due nominate di sopra; «e tacque a
  • tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
  • «Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto;
  • Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o
  • mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo,
  • «al poeta per sospetto».
  • E quello, che esse gridavano, era:—«Venga Medusa», quella femmina la
  • quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto»,—cioè di
  • pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che
  • altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive
  • mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che
  • sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule,
  • o verso lui;—«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto»,—il qual ne fe’,
  • quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono
  • sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono,
  • non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor
  • danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il
  • quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
  • Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del
  • quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente
  • dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso
  • della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di
  • lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di
  • maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo
  • d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza
  • moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non
  • fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena,
  • ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se
  • non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir
  • questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina,
  • secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane
  • di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato
  • da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico
  • di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava
  • vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro
  • e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese
  • in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso
  • Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui
  • venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per
  • la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato,
  • ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
  • —«Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo
  • canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto
  • dalle furie, e l’essere stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore
  • la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati,
  • accioché non la vedesse. Dice adunque:—«Volgiti indietro», accioché
  • tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni
  • il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo
  • Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse:—Tieni chiuso il
  • viso,—e dicegli la cagion perché: «Ché se ’l Gorgon», cioè Medusa
  • chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare
  • nol dice), «e tu ’l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso»,—nel
  • mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti
  • tornare né partirti di qui. «Cosí disse ’l maestro», come detto è, «ed
  • egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò,
  • «alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue
  • ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere
  • il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone
  • si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non
  • si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí
  • chiuso il viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le
  • tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si
  • scrive che venne.
  • «O voi, ch’avete gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’aurore, e,
  • lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali
  • hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che
  • s’asconde Sotto ’l velame degli versi strani», la quale per certo è
  • grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo
  • canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente
  • contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il
  • velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra
  • cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale;
  • li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l’autore
  • avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E
  • chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno
  • davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi
  • volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto
  • disusati a cosí fatto stile.
  • [Lez. XXXVI]
  • «E giá venia». Qui rientra l’autore nella materia principale, e
  • comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive
  • l’autore la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere
  • stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venia», avendo
  • mi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un
  • fracasso», cioè un rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui
  • tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso,
  • «Non altrimenti fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da sé, come è il
  • turbo o la bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai,
  • secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali
  • vi dissi essere due, cioè _typhon_ e _enephias_, e però qui reiterare
  • non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori»,
  • cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali
  • chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero,
  • non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento,
  • in quanto si movea velocissimo con l’impeto del vento] «Che fier»,
  • questo vento, «la selva», alla quale s’abbatte [le cui frondi percosse
  • il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a
  • ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva,
  • «schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a
  • questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va
  • superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono,
  • «e li pastori» con le lor greggi.
  • «Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e
  • disse:—Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo,
  • «su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la
  • quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di
  • quelle che all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può
  • assai chiaramente comprendere. Credere’ io che ella fosse alcuna fiamma
  • usa continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo
  • credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle
  • delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo
  • è piú acerbo»,—cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.
  • «Come le rane». Qui dimostra l’autore, per una brieve comparazione,
  • quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli
  • dimostrava, facessero l’anime de’ dannati che quivi erano, e dice
  • che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l’acqua si dileguan
  • tutte», fuggendo, «Fin ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè
  • s’ammonzicchia l’una sopra l’altra, ficcandosi nel loto del fondo
  • dell’acqua, nella qual dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia»,
  • usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello
  • della idra, la quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica
  • le rane, si come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille
  • anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le
  • rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché
  • ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di Stige, dove
  • esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante
  • asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.
  • E poi segue: «Dal volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per
  • le nebbie che v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso,
  • «Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga,
  • si come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo
  • dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò
  • non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía.
  • «E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.
  • «Ben m’accors’io ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse
  • quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati,
  • che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che
  • temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí
  • come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea
  • sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo ’nferno commuoversi
  • alla venuta d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice:
  • «E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare,
  • appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’
  • segno», a me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad
  • esso», facendogli reverenza.
  • «Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo
  • meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far
  • senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano.
  • [E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza
  • peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote, era
  • commosso.]
  • «Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella
  • destra man portava, per la quale si disegna l’uficio del messo e
  • l’autoritá di colui che ’l manda. [E, secondo che i santi vogliono,
  • questo uficio commette Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie
  • celesti, fuorché a’ cherubini non si legge essere stato commesso: e
  • mentre che quello beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso,
  • si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da «_aggelos_» _graece_,
  • che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione,
  • non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè
  • «vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s’abbia.]
  • «L’aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia
  • di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col
  • percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere
  • tutto il mondo.
  • —«O cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici
  • di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come
  • quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s’erano
  • fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che
  • bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro
  • a loro. Dice adunque:—«O cacciáti dal ciel» per la lor superbia,
  • «gente dispetta»,—cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su
  • l’orribil soglia», della porta la quale era aperta,—«Onde», cioè da
  • qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che
  • voi fate, «in voi s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché
  • ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia»,
  • di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può
  • esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire,
  • conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha cresciuta
  • doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo dello ’nferno,
  • sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può
  • muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di
  • cozzo?»
  • Altra volta è stato detto di sopra il «fato» doversi intendere la
  • divina disposizione, contro alla quale volere adoperare non è altro
  • se non voler cozzare col muro, ché si rompe l’uomo la testa, e ’l
  • muro non si muove. [Né è però da credere che Domeneddio col suo
  • provedere ponga necessitá ad alcuno, come pienamente si tratterá nel
  • decimosettimo canto del _Paradiso_. Ma, percioché qui, poeticamente
  • parlando, l’autore dice «fate» in plurali, è da sapere, secondo che
  • i poeti scrivono, che queste fate son tre, delle quali la prima è
  • nominata Cloto, la seconda Lachesis, la terza Atropos; e, secondo che
  • dice Teodonzio, elle furon figliuole di Demogorgone e di Caos. (Vuolsi
  • qui recitare la favola di Pronapide dell’origine di queste fate, e la
  • sposizion di quella). Ma Tullio, il quale le chiama Parche, _in libro
  • De natura deorum_, scrive queste essere state figliuole d’Erebo e
  • della Notte; ma io m’accosto piú con l’opinione di Teodonzio, il quale
  • vuole queste esser create insieme con la natura naturata, il che par
  • piú conforme alla veritá. Queste medesime nel preallegato libro chiama
  • Tullio «fato», quel medesimo dicendo essere stato figliuolo d’Erebo
  • e della Notte. Seneca, in una epistola a Lucillo, le chiama «fate»,
  • dicendo nondimeno quello che scrive essere stato detto d’un filosofo
  • chiamato Cleante, il qual dice: «i fati (o le fate), menano chi vuole
  • andare, e chi non vuole andare tirano». Ma questa è malvagia sentenza
  • e da non credere, percioché, se cosí fosse, noi saremmo senza il
  • libero arbitrio; il che è falso. E questa medesima sentenza par molto
  • piú apertamente sentire Seneca tragedo, in quella tragedia la quale è
  • intitolata _Edipo_, dove dice:
  • _Fatis agimur, credite Fatis:
  • non sollicitae possunt curae
  • mutare rati stamina fusi.
  • Quidquid patimur mortale genus,
  • quidquid facimus, venit ex alto,
  • servatque sua decreta colus
  • Lachesis. Dura revoluta manu,
  • omnia certo tramite vadunt,
  • primusque dies dedit extremum.
  • Non illa deo vertisse licet,
  • quae nexa suis currunt causis.
  • It cuique ratus, prece non ulla
  • mobilis, ordo; multis ipsum
  • timuisse nocet: multi ad fatum
  • venere suum, dum Fata timent_, ecc.
  • E questo medesimo mostra Ovidio d’aver sentito nel suo maggior volume,
  • dove introduce Giove cosí parlante a Venere:
  • _...tu sola insuperabile Fatum,_
  • _nata, movere putas? Intres licet ipsa sororum
  • tecta trium: cernes illic molimine vasto
  • ex aere, et solido rerum tabularia ferro:
  • quae neque concursum caeli, neque fulminis iram,
  • nec metuunt ullas, tuta atque aeterna, ruinas.
  • Invenies illic incisa adamante perenni
  • Fata tui generis_, ecc.
  • Nelle quali autoritá predette si può manifestamente comprendere
  • queste tre sirocchie chiamarsi «fate» e «fato». E ch’elle sieno state
  • da’ poeti nominate tre, credo essere addivenuto piú per mostrare la
  • diversitá delle operazioni del fato che per intendere che piú che
  • un fato sia. Scrivono, oltre a questo, queste tre fate essere state
  • attribuite al servigio d’un iddio, chiamato Pan. È vero che Fulgenzio
  • dice, nelle sue _Mitologie_, queste essere attribuite al servigio di
  • Plutone, iddio dello ’nferno, e questo, credo, accioché noi sentiamo
  • l’opere di queste solamente intorno alle cose terrene esercitarsi,
  • secondo una significazion di quelle.]
  • [E dice il predetto Fulgenzio che la interpetrazione di questo
  • nome Cloto è tanto a dire quanto «evocazione»; percioché a questa
  • fata s’appartiene dare ad ogni seme, nel debito luogo gittato,
  • accrescimento, tanto che esso sia atto a dover venire in luce. E, come
  • esso medesimo dice, Lachesis vien tanto a dire quanto «pertrazione»
  • o vero «sorte»; percioché quello, che Cloto ha composto e chiamato
  • fuori in luce, Lachesis l’ha a ricevere e trarlo avanti nella vita.
  • Atropos è detta ab «_a_», _quod est_ «_sine_», e «_tropos_», _quod
  • est_ «_conversio_», cioè «senza conversione»; percioché ogni cosa, la
  • quale nasce, incontanente che ella è pervenuta al termine postole, è
  • di necessitá che ella caggia nelle mani della morte, dalla quale per
  • opera naturale niuna conversione è indietro. E Apuleio madaurense,
  • filosofo di non piccola autoritá, del significato de’ nomi e dell’opere
  • di queste tre fate, in quel libro il quale egli compose e chiama
  • Cosmografia, scrive cosí: «_Etiam tria Fata sunt, numero cum ratione
  • temporis faciente, si potestatem eorum ad eiusdem similitudinem
  • temporis referas: nam quod in fuso perfectum est, praeteriti temporis
  • habet speciem; et quod torquetur in digitis, momenti praesentis indicat
  • spatia; et quod nondum ex colo tractum est subactumque curae digitorum,
  • id futuri et consequentis saeculi posteriora videtur ostendere.
  • Haec illis conditio ex nominum eorumdem proprietate contingit: ut
  • sit Atropos praeteriti temporis fatum, quod ne Deus quidem faciet
  • infectum; futuri temporis Lachesis, a fine cognominata, quod et illis,
  • quae futura sunt, finem suum Deus dederit; Clotho praesentis temporis
  • habet curam, ut ipsis actionibus suadeat, ne cura solers rebus omnibus
  • desit_», ecc. Son di quegli che vogliono che Lachesis, come altra volta
  • è detto, sia quella cosa la qual noi chiamiam «fortuna», e da lei
  • essere ogni cosa, la quale a’ mortali avviene, guidata e menata.]
  • [Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa,
  • se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta
  • è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e,
  • peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono
  • figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che
  • figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque,
  • secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio
  • padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo
  • e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo,
  • come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra
  • profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la
  • profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che
  • occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la
  • divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far
  • dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente
  • producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo
  • e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della
  • Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna
  • cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo
  • essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro
  • alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla
  • mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle
  • attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo
  • notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non
  • intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]
  • [Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e
  • credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad
  • alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da «_for faris_», il quale sta per
  • parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima
  • parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel
  • libro _De civitate Dei_: ma, come altra volta è detto, pare che egli
  • abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di
  • Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni
  • la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto
  • delle fate.]
  • Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore:
  • —«Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e
  • ’l gozzo».—Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo
  • si ragionò.
  • «Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la
  • strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché
  • l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che
  • meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso
  • parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che
  • erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato
  • a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano,
  • percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante
  • D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è
  • davante»: e cosí trapassò oltre.
  • «E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo
  • canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi
  • vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque:
  • «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri
  • appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che
  • contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color,
  • contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine.
  • «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore
  • nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza
  • alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.
  • «Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam
  • tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal
  • fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura
  • di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta
  • trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio
  • intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da
  • notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra,
  • «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di
  • duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati,
  • per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali
  • de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno,
  • quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano
  • avrá alcuna volta fine.]
  • E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni,
  • dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli».
  • Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla
  • foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano
  • stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che
  • Pomponio Mela nel secondo libro della sua _Cosmografia_ scrive, di
  • quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né
  • è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne
  • viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale
  • alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo
  • lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno
  • spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e
  • poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara
  • e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo,
  • corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’
  • quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome
  • chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette
  • in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo _De historia
  • naturali_, nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla
  • fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere
  • un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano
  • stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella
  • terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.
  • E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo:
  • «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che
  • Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con
  • lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi
  • capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia,
  • sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro,
  • Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di
  • mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi
  • divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li
  • quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono _Carnares_. «Fanno i
  • sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè
  • incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle
  • quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si
  • lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la
  • vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte
  • arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e
  • quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per
  • avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e
  • appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico,
  • credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste
  • dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già
  • stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una
  • parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti
  • d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi
  • la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle
  • arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente
  • tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual
  • cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li
  • morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio
  • possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e
  • che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo
  • che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro
  • sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che
  • di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.
  • Dice adunque l’autore, continuandosi al primo detto, che come ad Arli
  • e a Pola la moltitudine delle sepolture fanno il luogo varo, «Cosí
  • facevan quivi d’ogni parte», cioè a destra e a sinistra, «Salvo», cioè
  • eccetto, «che ’l modo v’era piú amaro», qui, che ad Arli o a Pola.
  • E poi discrive come piú amaro v’era il modo, dicendo: «Che tra gli
  • avelli», cioè tra le sepolture le quali quivi erano, chiamate in
  • fiorentin volgare «avelli»; e credo vegna questo vocabolo da «_evello
  • evellis_», percioché la terra s’evelle del luogo dove l’uom vuole
  • seppellire alcun corpo morto; «fiamme erano sparte, Per le quali
  • eran sí del tutto accesi», quegli avelli, «Che ferro piú», acceso,
  • cioè rovente, «non chiede verun’arte», la quale di ferro lavori, il
  • quale lavorare non si può né riducere in quella forma la quale altri
  • vuole, se egli non è molto rovente. «Tutti li lor coperchi», di quelle
  • arche, «eran sospesi», cioè levati in alto, «E fuor n’uscivan si
  • duri lamenti», per lo grieve martiro fatti da’ miseri che dentro vi
  • giaceano, «Che ben parean di miseri e d’offesi».
  • E però l’autore si mosse a domandar Virgilio, dicendo: «Ed
  • io:—Maestro, quai son quelle genti, Che seppellite dentro da
  • quell’arche», cioè affocate, «Si fan sentir con gli sospir dolenti.»?
  • -la qual cosa dice l’autore, percioché veder non si lasciano, e non si
  • possono.
  • [Lez. XXXVII]
  • «Ed egli a me:—Qui son gli eresiarche». «Eresiarche» si chiamano i
  • prencipi dell’eretica pravitá, e dicesi questo nome _ab_ «_haeresis_»
  • _et_ «_arce_», _quod est_ «_princeps_», quasi «principe d’eresi».
  • «Eresi», secondo che dice Papia, son quegli li quali di Dio o
  • delle creature o di Cristo e della chiesa diversamente sentono;
  • e cosí, avendo conceputa alcuna perfidia di nuovo errore, quella
  • pertinacissimamente difendono. E di questi dopo la resurrezione
  • di Cristo furon molti che diversamente opinarono, e perversamente
  • credettero e insegnarono. E per quello che appaia in un libretto il
  • quale sant’Agostino scrive _Degli eresiarci_, e delle qualitá de’ loro
  • errori, mostra che infino a’ tempi suoi ne fossero novantaquattro,
  • cioè prencipi d’eresie, li quali tutti diversamente l’uno dall’altro
  • errarono, ed ebbero uditori e fautori della loro eresia: tra’ quali
  • egli annovera Simon mago, Macedonio, Manicheo, Arrio, Nestoriano,
  • Celestino e altri assai, li quali l’autore qui dice esser puniti. E
  • mostra ancora l’autor sentire esser con questi, che dopo la resurrezion
  • di Cristo furono, certi filosofi gentili, comeché di quegli non nomini
  • che Epicuro solo; e dice non solamente costoro quivi esser puniti,
  • ma esservi «Co’ lor seguaci», ed esservi «d’ogni setta» d’eretici.
  • E chiamale «sètte», il qual nome viene da «_seco secas_», il qual
  • vuol dire «dividere»; percioché essi primieramente son divisi dalla
  • cattolica fede, e poi son divisi infra sé, si come coloro li quali
  • niuno crede quello che l’altro. E poi segue: «e molto Piú che non credi
  • son le tombe carche», cioè piene; percioché stati ne sono di quegli che
  • hanno avuto grandissimo séguito, e tra gli altri Arrio, il cui errore
  • tenne molti imperadori e altri principi e popoli, in tanto che quasi
  • non eran piú cristiani cattolici che fossero gli arriani: e durò lungo
  • tempo questa perfidia.
  • «Simile qui con simile è sepolto»: e cosí pare che i seguaci sieno in
  • una medesima arca col prencipe loro.
  • «E’ monimenti», cioè le sepolture. Le quali per molti nomi chiamate
  • sono; e averne alcuna volta fatta menzione in ammaestramento di coloro
  • che nol sanno, non sará altro che utile. E qui viene in destro, perché
  • in luogo di supplicio son date agli eretici. Chiamale adunque in questo
  • canto l’autore: «sepolcri», «avelli», «arche», «tombe», «monimenti»;
  • nominansi ancora: «locelli», «tumuli», «sarcofagi» e «mausolei»,
  • «busti», «urne». Chiamasi adunque «sepolcro», quasi «_seorsum a
  • pulchro_», percioché è da cosa bella separato, conciosiacosaché i corpi
  • corrotti, li quali in essi sono, siano turpissima cosa a vedere. Perché
  • «avello» si chiami, è detto davanti. Chiamasi «arca», percioché assai,
  • essendo di pietra e di marmo, hanno quella forma che hanno l’arche
  • del legno, nelle quali molti conservano il grano e le cose loro; ed
  • è detta questa «arca», percioché ella ha a rimuovere il vedere delle
  • cose che dentro vi sono, o il ladro da poterle tôrre, e di quinci
  • viene «arcano», la cosa segreta. Chiamansi «tombe», percioché, essendo
  • sotterra luoghi concavi, par che risuonino o rimbombino; e perciò si
  • dice «_tumba_», quasi «_tumulus bombans_», cioè cosa rilevata che
  • rimbombi. Chiamasi «monimento», percioché «ammoniscono» la mente de’
  • riguardanti, recando loro a memoria la morte o il nome di colui che in
  • esso è seppellito. Chiamasi ancora «locello», quasi «piccol luogo»,
  • per rispetto del grande, il quale vivi vogliamo occupare e occupiamo,
  • e poi, morti, in picciolissimo luogo capiamo. Chiamasi «tumulo», quasi
  • «terra gonfiata e rilevata», sí come talvolta veggiamo sopra i corpi
  • che nuovamente sono seppelliti in terra; e, oltre a ciò, solevano gli
  • antichi fare sopra i corpi de’ nobili uomini alcuno edificio alquanto
  • rilevato, il quale avesse a dimostrare il luogo dove quel cotale fosse
  • stato seppellito; de’ quali noi veggiamo ancora oggi per lo mondo
  • assai. Chiamasi «sarcofago», percioché in esso si consuma la carne di
  • chi v’è dentro seppellito, e dicesi da «_sarca_», _graece_, che tanto
  • vuol dire quanto «carne», e «_paghos_», che tanto vuol dire quanto
  • «mangiare»; e in essi i vermini mangiano la carne del seppellito.
  • Chiamansi ancora «mausolei», e questa è nobile spezie di sepolcri,
  • si come son quegli de’ re e de’ gran principi; e chiamansi cosí da
  • Mausolo, re di Caria, al quale, morto, Artemisia reina, sua moglie,
  • fece una mirabile sepoltura. La quale, secondo che l’antiche storie
  • testimoniano, fu di spesa e di grandezza e d’artificio maravigliosa;
  • percioché Artemisia, ogni femminile avarizia posta giú, fece chiamare
  • a sé i quattro maggiori maestri d’intaglio e di edificare che al mondo
  • avesse a’ suoi tempi, i nomi de’ quali furono Scopas, Bryaxes, Timoteo
  • e Leochares; e fuori d’Alicarnasso, sua real cittá, comandò loro che
  • ordinassero, senza avere riguardo ad alcuna spesa, il piú nobile e il
  • piú magnifico sepolcro che far si potesse. Li quali, preso uno spazio
  • quadro, la cui lunghezza fu sessantatré piedi, la larghezza non fu
  • tanta, l’altezza fu centoquaranta, il circúito del quale cinsero di
  • trentasei maravigliose colonne; e quella parte, la quale era vòlta a
  • levante, dicono che intagliò Scopas, e quella che era a tramontana
  • Bryaxes, e quella che vòlta era in ponente lavorò Leochares, e la
  • quarta Timoteo; li quali in intagliare istorie e immagini, ovvero
  • statue, posero tanto studio e tanta arte, per dover ciascuno apparere
  • il migliore, che, molti secoli poi, assai agevolmente apparve
  • agl’intendenti questi maestri avere lavorato per disiderio di gloria,
  • e non per guadagno; e cosí infino al disiderato fine il produssero.
  • Appresso a’ quali vi venne un quinto artefice, di non minore ingegno
  • che i quattro primi, chiamato Yteron, il quale per ventiquattro gradi
  • ragguagliò la piramide, cioè la punta quadra superiore; e poi vi
  • s’aggiunse il sesto, chiamato Pythis, il quale nella sommitá di tutto
  • il dificio fece una quadriga, cioè un carro con quattro ruote, tirato
  • da quattro cavalli, con maraviglioso artificio composta. E in questo
  • finí il lavorio di tanta bellezza e sí magnifico, che lungo tempo
  • fu annoverato l’uno de’ sette miracolosi lavorii, li quali in tutto
  • il mondo essere allora si ragionavano. E da Mausolo fu «mausoleo»
  • nominato; e cosí, come detto è, ancora si nominano le maravigliose
  • sepolture de’ re. Chiamansi ancora i sepolcri, «busti», e questi son
  • detti da’ corpi «combusti», cioè arsi, sí come anticamente far si
  • soleano. E chiamansi «urne», le quali erano certi vasi di terra e
  • d’ariento e d’oro, secondo che color potevano che ciò facevano, nelle
  • quali, con diligenzia ricolta, la cenere d’alcun corpo arso dentro vi
  • mettevano. E questo basti aver de’ sepolcri detto. Séguita: «son piú
  • e men caldi», secondo la gravezza maggiore e minore del peccato della
  • eresia di quegli eretici che dentro vi son tormentati.
  • E detto questo degli eretici, mostra come avanti procedessero, pur
  • tra le sepolture, dicendo: «E poi ch’alla man destra si fu vòlto»,
  • Virgilio, «Passammo tra i martiri», cioè tra quelle sepolture, «e
  • gli alti spaldi». «Spaldo» in Romagna è chiamato uno spazzo d’alcun
  • pavimento espedito; e perciò dice che tra’ martiri passò, e tra’ luoghi
  • che quivi espediti erano.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • «Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Avendo l’autore ne’
  • precedenti canti, secondo, la dimostrazion fattagli dalla ragione,
  • dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati
  • siamo, e ne’ quali noi per incontinenzia vegnamo, e ancora quali
  • supplici ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a
  • discriver quegli li quali per bestialitá e per malizia si commettono,
  • accioché, cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e
  • ancora, se in essi caduti fossimo, ce ne dogliamo, e per penitenzia
  • perdono meritiamo; e parendogli opportuno, a dover questo fare, di
  • dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangono, e, in
  • parte, la cagione dalla quale par che provengano: primieramente scrive
  • come alla cittá di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata
  • l’entrata; e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il
  • Gorgone per doverlo far rimanere, e quinci perché quello per opera
  • della ragione non aveva potuto avere effetto, come e per cui fosse la
  • porta della cittá aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse,
  • disegna; e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in
  • doloroso tormento trovasse. E percioché a lui medesimo par sotto molto
  • artificioso velame aver queste cose nascose (come nel testo appare),
  • rende solleciti coloro li quali hanno sani gl’intelletti, a dovere
  • agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.
  • È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che
  • s’intenda per la cittá di Dite. Il che se perspicacemente riguarderemo,
  • assai ben potremo comprendere lui voler sentire questa cittá niuna
  • altra cosa significare, che il luogo dello ’nferno nel quale si
  • puniscono gli ostinati. E ciò dimostra in due cose, delle quali
  • discrive questo luogo essere circundato, cioè dalla padule di Stige,
  • della quale dice i fossi di questa cittá esser pieni, e impedire ogni
  • entrata, fuori che quella alla quale Flegiás dimonio con la sua nave
  • perducesse altrui; e, appresso, essa cittá aver le mura di ferro, le
  • quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due
  • cose sono da intendere due singulari proprietá degli spiriti maladetti
  • che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire dell’anime ostinate,
  • le quali in quello luogo in diversi supplici punite sono: ed è la prima
  • «tristizia», significata per Stige, percioché la tristizia si può dire
  • essere la prima radice della ostinazione, si come appresso apparirá;
  • la seconda è la «inflessibile fermezza» del malvagio proponimento,
  • nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato, e questa è significata
  • per le mura del ferro, la cui durezza è tanta e tale, che per forza
  • di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli
  • altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la
  • seconda qualitá degli animi degli ostinati, li quali né caldo alcuno di
  • caritá, né dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, né riducere
  • in alcuna laudevole forma.
  • E chiama l’autore questo luogo Dite, cioè «ricco» e «abbondante»; ed
  • esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di «gravi
  • cittadini», e di «grande stuolo», cioè moltitudine: percioché, per
  • lo trasandare nelle colpe, li piú de’ peccatori da’ peccati naturali
  • trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e cosí questa ultima e piú
  • profonda parte dello ’nferno è molto piú piena che la superiore. E
  • pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo
  • trasandar nelle colpe o per bestialitá o per malizia, delle quali
  • l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la
  • vuoi cognoscere; e però, trascorsi con abbandonate redine ne’ vizi
  • e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridutti in
  • costume; e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di
  • poterlo rimuovere si puote avere; e cosí indurati e sassei divenuti,
  • caggiono in questo miserabile luogo. Nel quale per ciò è vietata
  • l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, percioché il
  • costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione
  • udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione; all’autore fu
  • vietata, percioché nel vizio della ostinazione non era venuto. E
  • cosí, parendo a’ ministri del doloroso luogo lui non dover venire
  • per rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto
  • ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta non
  • di Dite, ma de lo ’ntelletto, da’ loro avversari, li quali con ogni
  • lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano che alcuno conoscer
  • non possa quello, che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua
  • perdizione, e quel seguire che sua salute sia. Ché per altro non si
  • curerebbe il demonio che l’uomo conoscesse il vizio e ancora la pena
  • apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere,
  • l’uomo si guarda di non cadere, e diviene piú costante contro alle sue
  • tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente
  • informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole
  • avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione;
  • s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, accioché piú avanti
  • non vada a quello che sua salute può essere. E percioché negli animi,
  • li quali sono in pendulo e spaventati, piú leggiermente s’imprieme
  • questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali
  • orribili a vedere, e con pianti e con rumore è da loro chiamato il
  • Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli rumori s’ingegnano
  • d’occupare con questo vizio il petto dell’autore: ma per l’opera e
  • dimostrazione della ragione ciò non avviene, anzi piú tosto è da lui la
  • sua origine conosciuta e dimostrata a noi.
  • [Alla qual dimostrazione voler con minor difficultá comprendere, è da
  • vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro
  • effetti, secondo che sentirono gli antichi poeti. Furono dunque, le
  • furie, tre, e, secondo che pare che tutti tengano, furono figliuole
  • d’Acheronte, fiume infernale, e della Notte; e che esse fossono
  • figliuole d’Acheronte il testimonia Teodonzio; e che esse fossero
  • figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale, cosí scrivendo,
  • il dimostra:
  • _Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,
  • quas et Tartaream nox intempesta Megaeram
  • uno eodemque tulit partu,_ ecc.
  • E, secondo che essi vogliono, queste son diputate al servigio di Giove
  • e di Plutone, sí come per Virgilio appare, dove scrive:
  • _Hae Iovis ad solium, saevique in limine regis
  • apparent, acuuntque metum mortalibus aegris
  • si quando lethum horrificum morbosque deum rex
  • molitur meritis, aut bello territat urbes_, ecc.
  • E i loro nomi sono Aletta, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra
  • l’autore. E, oltre a questi, hanno altri piú nomi, e massimamente in
  • diversi luoghi, percioché chiamate sono «cani infernali», sí come per
  • li versi di Lucano si comprende, quando dice:
  • _Iam vos ego nomine vero_
  • _eliciam, Stygiasque canes in luce superna
  • destituam_, ecc.
  • Sono, oltre a questo, appo noi chiamate «furie» dallo effetto loro, sí
  • come per Virgilio appare, dove dice:
  • _... caeruleis unum de crinibus anguem_
  • _coniicit, inque sinum praecordia ad intima subdit,
  • quo furibunda domum monstro permisceat omnem_.
  • E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio
  • dicendo:
  • _Eumenides tenuere faces de funere raptas_, ecc.
  • E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato
  • matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per
  • Virgilio si può vedere:
  • _At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,
  • infelix crines scindit Iuturna solutos_, ecc.
  • Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo
  • non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi
  • versi:
  • _Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem
  • obscoenae volucres: alarum verbera nosco_, ecc.
  • Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali
  • abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]
  • [Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché
  • dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]
  • [Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie
  • singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad
  • Aletto appare per questi versi di Virgilio:
  • _Cui tristia bella_
  • _iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.
  • Odit et ipse pater Pluton, odére sorores
  • Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,
  • tam saevae facies, tot pullulat atra colubris_.
  • E un poco appresso séguita:
  • _Tu potes unanimes armare in praelia fratres
  • atque odiis versare domos; tu verbera tectis
  • funereasque inferre faces; tibi nomina mille,
  • mille nocendi artes_, ecc.
  • A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi
  • appare; e prima Virgilio dice di lei:
  • _Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,
  • et pavor et terror trepidoque insania vultu_, ecc.
  • A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:
  • _Suffusa veneno_
  • _tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro
  • ore vapor, quo longa sitis morbique famesque
  • et populis mors una venit_, ecc.
  • A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di
  • Claudiano si può comprendere, dove nel libro _De laudibus Stiliconis_,
  • dice:
  • _Quam penes insani fremitus, animique prophanus
  • error, et undantes spumis furialibus irae,
  • non nisi quaesitum cognata caede cruorem,
  • illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,
  • quem dederint fratres_, ecc.]
  • [Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione
  • è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole
  • sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste
  • furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa
  • pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá
  • che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non
  • avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion
  • seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual
  • perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da
  • animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come
  • il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore,
  • convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente
  • molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará
  • di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può
  • comprendere questo atto furioso esser nato dall’aver cacciata la
  • letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo
  • primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto
  • «senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere
  • avvenuto per ignoranzia d’animo: e la ignoranzia è similissima alla
  • notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza,
  • aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le
  • furie esser figliuole d’Acheronte e della Notte.]
  • [Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per
  • lo ’nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato
  • fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite
  • anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par
  • da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse,
  • come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio,
  • di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può
  • cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia
  • vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra
  • di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio:
  • «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie,
  • quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual
  • cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le
  • guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si
  • posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]
  • [Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di
  • queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto,
  • secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo»,
  • accioché per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal
  • continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia,
  • quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca
  • vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, si come Fulgenzio
  • medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo «_tritonphones_», il
  • che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira dobbiamo
  • intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con
  • contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda
  • fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme.
  • La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice,
  • questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale
  • dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali
  • si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d’impeti
  • furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa
  • non giustamente séguita o nasce l’inquietudine dell’animo; e dalla
  • inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’
  • romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati
  • odii.]
  • [Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno,
  • cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché,
  • pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o
  • paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per
  • desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo;
  • e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente
  • gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’ lor maggiori
  • niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]
  • [Appo noi, li quali siamo in mezzo tra ’l cielo e lo ’nferno (e perciò
  • si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate
  • «furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira
  • incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché
  • ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e
  • però, parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo,
  • pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo
  • a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minor
  • fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le piú delle
  • volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser
  • chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché,
  • essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non
  • riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]
  • [Sono queste medesime, come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli
  • eccelsi e grandi uomini, chiamate «dire», cioè «crudeli», dalla
  • crudeltá la quale essi, sí come potenti, per ogni menoma perturbazione
  • usano ne’ minori.]
  • [E sono ancora chiamate «ucceli» dalla velocitá del furore, percioché
  • velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commoviamo, e fannoci
  • dalla mansuetudine trascorrere nel furore. «Arpie» son chiamate, quasi
  • «rapaci»; e percioché gli uomini di mare, e quegli ancora che alle
  • marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa
  • alcuna da’ superiori discordanti non paiono.]
  • [Gli ufici loro attribuiti, percioché assai, per le molte cose
  • dimostrate di loro e ancora per i versi medesimi che gli discrivono, si
  • possono comprendere, senza altrimenti aprirgli, trapasseremo; e cosí
  • ancora gli abiti loro orribili.] E possiamo per tante cose comprendere
  • l’animo, nel quale le turbazioni sono, e per conseguente tanti e sí
  • orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare e ancora
  • ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare
  • alcun luogo amore, né caritá di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero:
  • e per questo, sí come in luogo freddissimo e terreo, essere ogni
  • attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il
  • ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per questo artificiosamente
  • fingere l’autore queste furie gridare, accioché in lui, posto nel luogo
  • dove ha la tristizia di Stige e il furor degl’iracundi contemplato,
  • possano col romor loro mettere, con paura, perturbazione, accioché per
  • gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover
  • ricevere quella impressione, che pare il debbia fare perpetuo cittadino
  • d’inferno, cioè l’ostinazione. E quinci, discrive l’autore, essendo giá
  • la perturbazion venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui
  • dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo
  • degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere
  • avere ottenuto quello che disiderava; che la ostinazione, chiamata
  • dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo suo,
  • veniva. E deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere esser
  • quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle
  • meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa credenza
  • paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come
  • parve a Caino e a Giuda, e quinci, di quella disperandosi, caggiono in
  • ostinazione, e, se medesimi riputando dannati, continuamente di male in
  • peggio adoperando procedono.
  • [Lez. XXXVIII]
  • Ma, percioché l’autor dice che questa ostinazione era dalle furie
  • per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa
  • Medusa sia da sentire, cioè come s’adatti alla ’ntenzione lei aver
  • per l’ostinazione, piú tosto che alcuna altra cosa, chiamata. [E
  • primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivono i poeti,
  • e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire.]
  • [Scrivono adunque, secondo che Teodonzio afferma, che Forco, figliuolo
  • di Nettuno e dio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole,
  • delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza
  • Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni; e secondo che testimonia
  • la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale
  • vicendevolmente usavano; e, come scrive Pomponio Mela nella sua
  • _Cosmografia_, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali
  • si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli etiopi
  • che son cognominati esperidi. La qual cosa par che testimoni Lucano,
  • dove scrive:
  • _Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus accipit Oceanum demisso
  • sole calentem, squalebant late Phorcynidos arva Medusae_, ecc.
  • E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che, chiunque
  • le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la
  • maggior delle tre, sí come Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre
  • ad ogni altra femmina bella; e intra l’altre cose piú ragguardevoli
  • della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, li quali non
  • solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro. Dallo splendore
  • de’ quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di
  • questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso. Ma
  • Minerva, turbata della ignominia nella qual pareva il suo tempio venuto
  • per questo adulterio, accioché non rimanesse impunita, dicono che i
  • capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa,
  • di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo
  • per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di
  • Perseo, in quei tempi valoroso e potente giovane; laonde egli, a dover
  • questa cosa mostruosa tôr via, venne di Grecia lá dove Medusa dimorava,
  • e quivi, armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa,
  • e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti.
  • E veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono,
  • e poi al nostro proposito il recheremo.]
  • [Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state
  • figliuole di Forco; ma perché dette sieno figliuole d’un mostro marino,
  • credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della
  • quale non lasciava credere al vulgo ignorante lor potere esser nate di
  • femmina, come l’altre nascono: ma di questo sia la quistione terminata.
  • Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano
  • Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò esser detto,
  • perché esse tutte e tre fossero d’una medesima e igual bellezza, e
  • per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro li quali le
  • riguardavano. Altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero
  • un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello
  • vedessero, cioè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno, niuna altra
  • cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza delle cose, e
  • però nel tempio di Minerva, perché ella mostrò molte lucrative arti,
  • per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in
  • serpenti, niuna altra cosa vuole se non mostrare le sustanze temporali,
  • le quali per li capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci
  • sollicitudini di coloro che l’hanno, percioché temono or di questa e or
  • di quella cosa, ecc. Che esse convertissono in sassi coloro li quali le
  • riguardavano, credo essere stato detto per ciò, che tanta e sí grande
  • era la lor bellezza, che, come da alcuno veduta era, cosí diventava
  • stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non
  • altrimenti che se sasseo divenuto fosse.]
  • [Gorgone furon chiamate, percioché, secondo che Teodonzio dice,
  • essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta
  • sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano
  • le loro ricchezze, le quali il piú erano in terre, che dalli loro
  • uomini furon chiamate Gorgoni, il qual nome suona «cultrici di terra».
  • Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile
  • e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; percioché
  • egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per li nomi di
  • queste tre sorelle si dimostrano: e primieramente dice che Steno è
  • interpetrata «debilitá», cioè principio di paura, il qual solamente
  • debilita l’animo di colui in cui cade; appresso dice che Euriale è
  • interpetrata «lata profonditá», cioè stupore o amenzia, la quale con
  • un profondo timore sparge o disgrega l’animo debilitato; ultimamente
  • dice che Medusa significa «oblivione», la qual non solamente turba
  • l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e
  • oscuritá.] Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere
  • sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto,
  • chiamata la ostinazione, in quanto essa faceva chi la riguardava
  • divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti, i quali per
  • avventura non s’accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da
  • sapere che sono alcuni li quali sempre tengon gli occhi della mente
  • fissi nella loro bella moglie, ne’ lor figliuoli, ne’ lor be’ palagi,
  • ne’ lor be’ giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni
  • letizia di paradiso; altri tengono l’animo fisso a’ lor cavalli, a’
  • lor fondachi, alle loro botteghe, a’ lor tesori; altri agli stati e
  • agli onori publichi e a simili cose. E non s’accorgono che questo cotal
  • riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni: da’
  • quali e’ traggono quella durezza che gli convertisce in pietra, la
  • quale è di complession fredda e secca: per la qual possiamo intendere
  • questi cotali esser freddi del divino amore e della caritá del
  • prossimo, e in tanto secchi, in quanto i terreni secchi né ricevono
  • alcun seme, né fanno alcun frutto.
  • Così adunque divenuti e caduti nella perseveranza del peccare, quasi
  • della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano
  • andare in qualunque colpa, dicendo sé sapere quel c’hanno, e non sapere
  • quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra
  • vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro
  • avviene li quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niun altro
  • giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro li quali oltre ad ogni
  • debito gli animi pongono a’ piaceri, li quali smisuratamente procuran
  • d’avere, delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano, che cosa, che
  • contro a questo piacer faccia, udir non possono. E, quantunque questo
  • atto furioso non paia, egli è; percioché la perturbazione si prende
  • nell’animo dalla nostra insaziabilitá; e però, non avendo né quello né
  • tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna,
  • e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono, di che a noi
  • pare esser degni. E da questa perturbazione nascono gli stimoli, li
  • quali il dí e la notte ne infestano a dover trovar modo come pervenir
  • possiamo a quello che noi disideriamo; e da questi stimoli nascon
  • le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo
  • seguono gli atti e l’operazioni, le quali pognamo ad avere quello che
  • bisogno non era. E questi, nel giudicio de’ savi uomini, piú tosto da
  • furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci
  • abituiamo, che né salutevol consiglio, né altro ce ne può rivocare;
  • e cosí come se veduto avessimo il Gorgone, sassei diventiamo, cioè
  • ostinati cultivatori delle terrene cose.
  • Era adunque a questo provocata Medusa, accioché veduta, cioè ricevuta
  • nella mente dall’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per
  • conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizi terreni,
  • e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato
  • dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali. Ma ciò non poté
  • avvenire, percioché la ragione il fece volgere in altra parte che in
  • quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro
  • studio che a riguardare le vanitá temporali e a porvi l’animo. Il che
  • pregava il salmista quando diceva: «_Averte oculos meos, ne videant
  • vanitatem_», cioè con affetto riguardino le cose temporali; le quali
  • son tutte vane, come dice l’Ecclesiastes: «_Vanitas vanitatum et omnia
  • vanitas_». E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che
  • con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie
  • gliele chiuse. E non dobbiamo qui intendere degli occhi corporali, ma
  • delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè
  • dall’appetito irascibile e dal concupiscibile. Questi son da chiuder
  • con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante volte
  • questi appetiti raffreneranno e adopereranno che l’uomo piú che il
  • dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserá che il Gorgone veder non
  • si possa, cioè non si caggia nella ostinazione.
  • E séguita, di questo, che a coloro, li quali con fermo animo seguitano
  • la ragione, Iddio, dovunque lor bisogna, manda il suo sussidio: il
  • quale in questo luogo l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la
  • porta. Ed è questo divino aiuto di tanta virtú e di tanta potenzia,
  • che ogni infernale arroganza, i demòni, le Furie, il Gorgone e l’anime
  • de’ dannati, pieni di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli
  • fuggon davante, lasciando aperta e spedita la via a dover poter
  • vedere e conoscere ciò che per la lor salute bisogna a coloro li
  • quali sperano in lui. E questo credo che sia quello, al quale vedere
  • l’autore sollecita gl’intelletti sani, entrando poi dietro alla ragione
  • a discernere distintamente le colpe de’ caduti nella ostinazione,
  • e i tormenti dati a quelle, accioché da esse, cauto divenutone, si
  • sappia guardare, [e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda
  • al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria
  • pervenire.]
  • Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato
  • agli eresiarci. Sono gli eresiarci, sí come assai chiaro si legge
  • nel testo, in sepolture, da eterno e cocentissimo fuoco tormentati;
  • nel qual supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza degli eretici
  • in questa vita, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque
  • che, per le sepolture, l’autore vuol dimostrare di questi peccatori
  • l’apparenza in questa vita, accioché noi non siam troppo correnti a
  • credere al giudicio degli occhi nostri, il quale, essendo spesse volte
  • falso, ne ’nduce o può inducere in parte, della quale o non possiamo
  • uscire, o con difficultá n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici
  • simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di
  • marmi, d’intagli, d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a
  • riguardare; e questo dalle parti esteriori; e poi, aprendole, si
  • truovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a
  • riguardare, senza senso, senza potenza o virtú alcuna in sé avere.
  • E cosí gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone
  • oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun
  • buono uomo disiderata la loro amicizia e la loro conversazione;
  • ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli dentro, cioè per
  • i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco,
  • esso gli truova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia
  • dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio
  • tanto discordanti dalla veritá, che assai manifestamente appare loro
  • esser pieni di cose troppo piú abominevoli che l’ossa o i corpi de’
  • morti non sono. Percioché l’ossa de morti, quantunque sieno orribili a
  • riguardare, non possono ad alcun nuocere; ma il puzzo del veneno delle
  • opinioni degli eretici è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sé
  • il ricevono. E perciò gli eretici sono, ne’ lor intrinseci sentimenti,
  • molto piú sozzi e piú orribili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo
  • assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri. E quinci
  • estimo, percioché ne’ sepolcri, a’ quali li lor corpi simiglianti
  • furono, portarono la loro eretica pravitá, e quella di quegli traendo
  • seminarono e sparsono, e con esso loro molti stolti nelli loro errori
  • trassono; che l’ autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri
  • piagnessero insieme con li lor seguaci. E, percioché essi le lor false
  • e riprovate opinioni, sí come freddi dell’ardore dello Spirito santo,
  • ostinatamente servarono, credo voglia l’autore che nel fuoco eterno
  • senza pro si riscaldino, e la lor freddezza maturino.
  • Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir cosí: e’ pare che l’autor
  • voglia, nel canto decimoprimo di questo libro, che dentro alla cittá
  • di Dite si punisca solamente la bestialitá e la malizia; e queste
  • mostra punirsi in diversi cerchi, li quali discrive essere di sotto
  • al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli
  • eretici son puniti; e di fuori della cittá mostra punirsi solamente
  • l’incontinenzia; e di questi eretici non fa in questa distinzione
  • menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sé di
  • peccato: che spezie dunque diremo che questa sia?
  • Al qual dubbio si può cosí rispondere: la eresia spettare a
  • bestialitá, e in quella spezie inchiudersi; percioché bestial cosa
  • è estimare di se medesimo quello che estimar non si dee, cioè di
  • vedere e di sapere d’alcuna cosa piú che non veggono o sanno molti
  • altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati, e volere, oltre
  • a ciò, ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere
  • ragioni dimostrate da altrui. La qual cosa gli eretici sempre feciono
  • e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che
  • vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere che essi
  • di quella si vogliano rimuovere (sí come noi al presente veggiamo in
  • questi, li quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non
  • sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando,
  • sono stati arsi); e perciò meritamente reputar si posson bestiali.
  • Ma incontanente da questo surgerá un altro dubbio, e dirá alcuno: se
  • gli eretici son bestiali, perché non sono essi puniti piú giú dove gli
  • altri bestiali si puniscono?
  • E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli
  • eretici abbiano meno offeso Iddio che quegli bestiali che piú giú
  • puniti sono; e perciò qui e non piú giú si puniscono. E che essi
  • abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione: il
  • peccato, il quale gli eretici hanno commesso, non è stato commesso da
  • loro per dovere offendere Dio, anzi è stato commesso credendosi essi
  • piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere
  • essere rimovitrici di quegli errori, li quali pareva loro che non ci
  • lasciassono debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo
  • lasciassono debitamente onorare e adorare: lá dove i bestiali, che
  • piú giú si puniscono, disiderarono e sforzaronsi in quanto poterono,
  • bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio; e, oltre a ciò,
  • adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio. E però
  • pare questi cotali debitamente piú verso il centro esser puniti che gli
  • eretici.
  • CANTO DECIMO
  • [Lez. XXXIX]
  • «Ora sen va per un segreto calle», ecc. Seguendo il cominciato modo
  • di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente
  • in questo modo, che, avendo l’autore nella fine del canto superiore
  • discritta la qualitá del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli
  • è tormentato; nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio
  • per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli
  • avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose: primieramente ne
  • dice il suo procedere per lo luogo disegnato; appresso muove a Virgilio
  • alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve; oltre a questo ne mostra
  • come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse;
  • ultimamente dice come, tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo
  • pervenisse. La seconda comincia quivi: «O virtú somma»; la terza
  • quivi:—«O tosco»; la quarta quivi: «Indi s’ascose».
  • Dice adunque l’autore, continuandosi al fine del precedente canto,
  • che «Ora», cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, «sen
  • va per un segreto calle». Chiamalo «segreto», a dimostrare che pochi
  • per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro li quali
  • dannati lá giú ruinavano; e, per dimostrare quella via non essere
  • usitata da gente, la chiama «calle», il quale è propriamente sentieri
  • li quali sono per le selve e per li boschi, triti dalle pedate delle
  • bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e per ciò son chiamati
  • «calle», perché dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte.
  • «Tra ’l muro della terra», di Dite «e li martíri», cioè tra’ sepolcri,
  • ne’ quali martirio e pena sostenevano gli eretici, «Lo mio maestro, ed
  • io dopo le spalle», cioè appresso a lui, seguendolo.
  • -«O virtú somma». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
  • nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele
  • solve. Dice adunque:—«O virtú somma», nelle quali parole l’autore
  • intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenzie
  • dell’anima è somma virtú; «che per gli empi giri», cioè per i crudeli
  • cerchi dello ’nferno, «Mi volvi»,—menandomi, «cominciai,—com’a te
  • piace», percioché mai dal suo volere partito non s’era; «Parlami»,
  • cioè rispondimi, «e satisfammi a’ miei disiri», cioè a quello che io
  • disidero di sapere. Il che di presente soggiugne, dicendo: «La gente,
  • che per li sepolcri giace», cioè gli eretici, «Potrebbesi veder?». E,
  • volendo dire che si dovrebbon poter vedere, séguita: «Giá son levati
  • Tutti i coperchi», delle sepolture; e cosí mostra che tutti erano
  • aperti; e per questo segue: «e nessun», che ne’ sepolcri sia, «guardia
  • face»,—per non esser veduto. E in queste parole par piú tosto domandar
  • del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o no.
  • «Ed egli a me». Qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non
  • pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda
  • se quegli che sono dentro a’ sepolcri veder si possono, e Virgilio
  • gli risponde che essi saranno serrati tutti dopo il di del giudicio.
  • Ma Virgilio gli dice questo, accioché esso comprenda e il presente
  • tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore,
  • quando serrati saranno i sepolcri, che ora, che aperti sono, percioché,
  • quanto il fuoco è piú ristretto, piú cuoce. E nondimeno, mostratogli
  • questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli
  • risponde alla domanda. Dice adunque:—«Tutti saran serrati», questi
  • sepolcri, li quali tu vedi ora aperti, «Quando di Iosafà», cioè della
  • valle di Iosafà, nella qual si legge che, al dí del giudicio, tutti,
  • quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo
  • ad udir l’ultima sentenzia, e di quindi i giusti insieme con Gesù
  • Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno;
  • e chiamasi quella valle di Iosafà, poco fuori di Gerusalem, da un re
  • chiamato Iosafà, che fu sesto re de’ giudei, il quale in quella valle
  • fu seppellito; «qui torneranno, co’ corpi che lassù hanno lasciati»,
  • quando morirono, li quali, risurgendo, avranno ripresi. «Suo cimitero»,
  • cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture
  • sono, sí come generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono
  • alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e
  • queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi «_communis terra_»,
  • percioché quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa
  • elegge di seppellirsi; «da questa parte hanno Con Epicuro tutti i suoi
  • seguaci, Che l’anima col corpo morta fanno».
  • Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo
  • a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre d’Alessandro. È il vero
  • che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, percioché egli
  • negò del tutto l’eternità dell’anima e tenne che quella insieme col
  • corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e cosí ancora piú
  • altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono. Tenne
  • ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali
  • sodisfacessero all’appetito sensibile: sí come agli occhi era sommo
  • bene poter vedere quello che essi disideravano e che lor piaceva di
  • vedere, cosí agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto
  • di mangiare. Ed estiman molti che questo filosofo fosse ghiottissimo
  • uomo; la quale estimazione non è vera, percioché nessun altro fu piú
  • sobrio di lui; ma accioché egli sentisse quello diletto, nel quale
  • poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam
  • piú tosto dire il disiderio del mangiare, il qual, molto portato,
  • adoperava che, non che il pane, ma le radici dell’erbe selvatiche
  • meravigliosamente piacevano e con disiderio si mangiavano; e cosí,
  • sostenuta lungamente la sete, non che i deboli vini, ma l’acqua, e
  • ancora la non pura, piaceva e appetitosamente si beveva; e similmente
  • di ciascuna altra cosa avveniva. E perciò non fu ghiotto, come molti
  • credono; né fu perciò la sua sobrietá laudevole, in quanto a laudevol
  • fine non l’usava. [Adunque per queste opinioni, separate del tutto
  • dalla veritá, sí come eretico mostra l’autore lui in questo luogo esser
  • dannato, e con lui tutti coloro li quali le sue opinioni seguitarono].
  • Poi séguita l’autore: «Però», cioè per quello che detto t’ ho, che da
  • questa parte son gli epicúri, «alla dimanda che mi faci», cioè se veder
  • si possono quelle anime che nelle sepolture sono, «Quinc’entro», cioè
  • tra queste sepolture, «satisfatto sarai tosto»; quasi voglia Virgilio
  • dire: percioché tra questi epicúri sono de’ tuoi cittadini, li quali,
  • sentendoti passare, ti si faranno vedere, di che fia satisfatto al
  • disiderio tuo; «Ed al disio ancor, che tu mi taci».—Il qual disio,
  • taciuto dall’autore, vogliono alcuni che fosse di sapere perché
  • l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e le presenti non
  • par che sappiano; la qual cosa gli mostra appresso messer Farinata.
  • Ma io non so perché questo disiderio gli si dovesse esser venuto,
  • conciosiacosaché niun altro vaticinio per ancora avesse udito se
  • non quello che detto gli fu da Ciacco; salvo se dir non volessimo
  • essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose future, e Filippo
  • Argenti nol conobbe, essendo egli presente: ma questa non pare assai
  • conveniente cagione da doverlo aver fatto dubitare, conciosiacosaché,
  • come Ciacco il vide, il conoscesse, come davanti appare; e però, che
  • che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere
  • quel disio, il quale Virgilio dice qui che l’autor gli tace.
  • «Ed io:—Buon duca, non tegno nascosto A te mio dir, se non per dicer
  • poco», per non noiarti col troppo; «E tu m’hai non pur mò a ciò
  • disposto»,—ammonendomi di non dir troppo.
  • —«O tosco, che per la cittá». Qui comincia la terza parte del
  • presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo
  • lungamente parla l’autore. Nella qual terza parte l’autore fa sette
  • cose: primieramente discrive le parole uscite d’una di quelle arche;
  • appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata e
  • a lui il sospignesse; susseguentemente come con lui parlasse; oltre
  • a questo, come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa ed egli
  • gli rispondesse; poi mostra come messer Farinata, continuando le sue
  • parole, gli predicesse alcuna cosa; dopo questo, scrive come movesse
  • un dubbio a messer Farinata ed egli gliele solvesse; ultimamente come
  • imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse. La
  • seconda comincia quivi: «Ed el mi disse:—Volgiti»; la terza quivi:
  • «Com’io al piè»; la quarta quivi: «Allor surse alla vista»; la quinta
  • quivi: «Ma quell’altro»; la sesta quivi:—«Deh! se riposi»; la settima
  • quivi: «Allor come di mia».
  • Dice adunque nella prima cosí:—«O tosco». Dinomina qui colui, che
  • queste parole dice, l’autore dalla provincia, forse ancora non avendo
  • tanto compreso di qual cittá lo stimasse, e chiamal «tosco», cioè
  • «toscano». [Intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare,
  • forse conosceremo avere a render grazie a Dio che toscani, piú tosto
  • che di molte altre nazioni, esser ci fece, se la nobiltá delle
  • province, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di
  • gloria aggiugnere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque
  • Toscana una non delle meno nobili province d’Italia, dal levante
  • terminata dal Tevero fiume, il qual nasce in Appennino, e mette in
  • mare poco sotto la cittá di Roma; e di verso tramontana e di ponente è
  • chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno
  • da diversi posti diversi termini, percioché alcuni dicono quella
  • essere dalla foce della Macra divisa da Liguria, altri la ristringono
  • e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta, e sono
  • ancor di quegli che vogliono lei finita essere da un piccolo fiumicello
  • chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa (e i pisani medesimi, forse piú
  • nobile cosa estimando esser galli che toscani, hanno alcuna volta detto
  • quella di ver’ ponente essere chiusa dal fiume nostro, cioè da Arno, il
  • qual mette in mare poco sotto Pisa); di verso mezzodí è tutta chiusa
  • dal mare Mediterraneo, il quale i greci chiamano Tirreno. E questa
  • terminazione è secondo il presente tempo; percioché anticamente essa
  • si stendeva, passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di
  • quindi i galli, li quali seguir Brenno, cacciarono i toscani, e mutaron
  • nome alla provincia, e chiamaronla Gallia.]
  • [E fu Toscana, secondo che alcuni antichi scrivono, primieramente
  • abitata da certi popoli li quali si chiamarono lidi, li quali,
  • partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani,
  • chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la
  • provincia chiamata Lidia da Lido ed il mare fu chiamato il mar Tireno
  • dall’altro fratello. E non solamente quello il quale bagna i termini
  • di Toscana, ma, cominciandosi dal Fare di Messina infino alla foce del
  • Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno; e cosí ancora
  • il chiamano i greci. Poi cambiò la provincia il nome, dall’esercizio
  • generale di tutti quegli d’essa intorno all’atto del sacrificare alli
  • loro iddii, nel quale essi furono piú che altri popoli ammaestrati
  • (e perciò usaron lungo tempo i romani di mandare de’ lor piú nobili
  • giovani a dimorar con loro, per apprender da loro il rito del
  • sacrificare); e peroché essi quasi tutti li lor sacrifici facevano con
  • incenso, e lo ’ncenso in latino si chiama «_thus_», furon chiamati
  • «_tusci_», li quali per volgare son chiamati «toscani»: e da questo
  • dirivò il nome, il qual noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si
  • vede, Toscana piena di notabili cittá, in sé, tra l’altre, contenendo
  • tanto della cittá di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede, e,
  • appresso, questa nostra cittá, cioè Fiorenza, la qual tanto sopra ogni
  • altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo;
  • e però meritamente poté l’autore, il quale di questa cittá fu natio,
  • esser da messer Farinata chiamato «tosco».]
  • Séguita poi: «che per la cittá del foco», cioè per la cittá di Dite,
  • ardente tutta d’eterno fuoco, «Vivo ten vai, cosí parlando onesto»,
  • cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio;
  • «Piacciati di ristare in questo loco»; quasi voglia dire: tanto che io
  • ti possa vedere e possati parlare. «La tua loquela ti fa manifesto»
  • esser «Di quella nobil patria», cioè di Fiorenza, «natio, Alla qual
  • forse fui troppo molesto».—Guarda, colui che parla, di dover per
  • queste parole potere piú tosto ritenere l’autore, come davanti il
  • priega; conciosiacosaché volentieri ne’ luoghi strani sogliano l’un
  • cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da
  • alcuna singular cosa son soprapresi, come qui faceva quella anima,
  • dicendo forse essere stato alla cittá dell’autore troppo molesto. E
  • dice avvedutamente qui questo spirito «forse», percioché, se assertive
  • avesse detto sé essere stato troppo molesto alla sua cittá, si sarebbe
  • fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua cittá
  • adoperare se non tutto bene, conciosiacosaché noi nasciamo al padre
  • e alla patria; e il biasimare se medesimo è atto di stolto; e perciò
  • disse lo spirito «forse», suspensivamente parlando, volendo questo
  • «forse» s’intenda per l’esser paruto a molti lui esser molesto, al
  • giudicio de’ quali per avventura non era da credere: sí come al
  • giudicio de’ guelfi, sí come di nemici, non parea da dover credere
  • contro al ghibellino. Nondimeno come molesto fosse alla patria sua e
  • nostra costui, nelle cose seguenti apparirá.
  • «Subitamente questo suono», cioè questa voce; e pone questo vocabolo
  • «suono» _improprie_, percioché propriamente «suono» è quello che
  • procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono
  • e simiglianti: «uscío D’una dell’arche», le quali eran quivi: «però
  • m’accostai, Temendo, un poco piú al duca mio».
  • «Ed el mi disse». Qui comincia la seconda particella della parte
  • terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata, e
  • sospignelo ad esso. Dice adunque: «Ed el mi disse:—Volgiti», inverso
  • l’arca onde uscí il suono, «che fai?», cioè come fuggi tu? «Vedi la
  • Farinata», cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, «che s’è
  • dritto», nella sepoltura nella qual giacea; «dalla cintola in su»,
  • cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne,
  • [La quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe;
  • percioché gli uomini soleano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno
  • cinti sopra le natiche; e soleva essere la cintura istrumento opportuno
  • a tenere ristretta la larghezza de’ vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi
  • è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro, percioché, in
  • luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone, e, come per addietro
  • delle corone si solea ornar la fronte, cosí delle presenti si coronan
  • le natiche.] «Tutto il vedrai».—Per le quali parole di Virgilio,
  • l’autore, prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare
  • questo messer Farinata.
  • E però segue: «Io avea il mio viso», cioè la mia virtú visiva, «nel
  • suo», viso, cioè negli occhi suoi, «fitto», fiso riguardando: «Ed el»,
  • cioè messer Farinata, il quale io riguardava, «s’ergea», cioè surgea,
  • levandosi da giacere; ed ergevasi «col petto e con la fronte», li
  • quali l’uomo levandosi mette innanzi; il che messer Farinata faceva,
  • «Come avesse l’inferno in gran dispitto», cioè a vile e per niente: e
  • in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo
  • di grande animo, né averlo potuto, vivendo, piegare né rompere alcuna
  • fatica, pericolo o avversitá.
  • «E l’animose man»: diciamo allora le mani essere «animose», quando
  • elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon
  • fare; «del duca e pronte Mi pinser tra le sepolture a lui». Non è da
  • credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il
  • quale colui, che bene intende, prende per sospignere, cioè per essere
  • animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare; «Dicendo»,
  • in quell’atto:—«Le parole tue sien cónte»,—cioè composte e ordinate a
  • rispondere; quasi voglia dire: tu non vai a parlare ad ignorante.
  • [Lez. XL]
  • «Com’io al piè». Qui comincia la terza particula di questa terza parte
  • principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata
  • parlasse: dove, avanti che piú oltre si proceda, è da mostrare chi
  • fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze,
  • d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere, secondo il
  • temporal valore, da molto, e non solamente fu capo e maggiore della
  • famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in
  • Firenze, e quasi in tutta Toscana, sí per lo suo valore, e sí per lo
  • stato, il quale ebbe appresso l’imperadore Federigo secondo, il quale
  • quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sí
  • ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi,
  • suo figliuolo, con l’aiuto e col favore de’ quali teneva molto
  • oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi. E, secondo che molti
  • tennero, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse
  • col corpo, e per questo tenne che la beatitudine degli uomini fosse
  • tutta ne’ diletti temporali; [ma non seguí questa parte nella forma
  • che fece Epicuro, cioè di digiunare lungamente, per avere poi piacere
  • di mangiare del pan secco, ma fu disideroso di buone e di dilicate
  • vivande, e quelle, eziandio senza aspettar la fame, usò.] E per questo
  • peccato è dannato come eretico in questo luogo.
  • Dice adunque l’autore: «Com’io al piè della sua tomba fui»; appare qui
  • che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto; «Guardommi un
  • poco», forse per vedere se il conoscesse, «e poi quasi sdegnoso»; è
  • questo atto d’uomini arroganti, li quali quasi, ogni altra persona che
  • sé avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui; «Mi domandò:—Chi
  • fûr li maggior tui?»—cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se
  • cognosciuti gli avesse, posciaché lui non ricognoscea.
  • «Io, ch’era d’ubbidir disideroso, Non gliel celai, ma tutto gliele
  • apersi», dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri,
  • onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, sí come piú
  • distesamente si narrerá nel canto decimoquinto del _Paradiso_; «Ond’ei
  • levò le ciglia un poco in suso». Sogliono fare questo atto gli uomini
  • quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacer
  • loro, quasi, in quello levare il viso in su, di ciò che odono si
  • dolgano con Domeneddio o si dolgano di Domeneddio.
  • «Poi disse:—Fieramente fûro avversi», cioè contrari e nemici,
  • percioché guelfi erano, «A me», in singularitá, «e a’ miei primi», cioè
  • a’ miei passati, «e a mia parte».
  • [Era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora
  • si chiama «parte ghibellina», della qual parte, e della opposita, e
  • della loro origine, par di necessitá di parlare alquanto diffusamente,
  • accioché poi, dovunque se ne tratterá in questo libro appresso,
  • senza avere a replicare, s’intenda. Sono adunque in Italia, giá è
  • lungo tempo, perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di
  • molte famiglie e cittá e castella, due parti, delle quali l’una è
  • chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sí fervente odio
  • portato l’una all’altra, che né il gittar le proprie sustanze, né
  • il perder gli stati, né il metter se medesimi a pericolo e a morte,
  • pare che curati si sieno. E questi due nomi, secondo che recitava il
  • venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo
  • avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, lá dove dice
  • nacquero in questa forma. Fu in Italia, giá son passati dugento anni,
  • una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e
  • delle mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda, delle cui
  • laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del
  • _Purgatorio_; la quale, accioché alcun certo erede di lei rimanesse,
  • cercò di volersi maritare, e, non trovando in Italia alcuno che assai
  • le paresse conveniente a sé, mandò nella Magna; e qui trovatosi un
  • barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole
  • e per nobilitá di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui
  • trattare il matrimonio. La qual cosa sentendo un parente di questo
  • Gulfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che
  • a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della
  • sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali
  • questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona
  • ammaestrata in ciò, il quale adoperò, con sue malie e con sue malvagie
  • operazioni, cose, per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del
  • potere con alcuna femina giacere. Per lo qual malificio, essendo
  • dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato piú
  • volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai
  • potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il
  • mandò via, né poi volle marito giammai. Gulfo, tornatosi a casa, o
  • che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea, agli
  • orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e cosí
  • morí. Ma questa seconda malvagitá di Ghibellino, conosciuta, manifestò
  • ancor la prima: per le quali cose assai nobili uomini della Magna si
  • levarono a dover questa iniquitá vendicare; e cosí molti ne furono in
  • aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti,
  • che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi, Guelfo e
  • Ghibellino, guerreggiavano. Né stette questa maladizione contenta a’
  • termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia; la quale
  • udita dalla contessa Matelda, e conoscendo la innocenzia di Gulfo e
  • la iniquitá di Ghibellino, in aiuto di quegli che vendicar voleano
  • la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti
  • nobili uomini italiani. E, percioché per avventura in Italia erano
  • similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome
  • fossero, assai di quegl’italiani, che d’altro animo erano che coloro
  • li quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa,
  • mossi da questa ragione, che, se avvenisse agli avversari loro d’aver
  • bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi, con l’avere aiutata
  • la parte di Gulfo, aver dove ricorrere, e perciò, accioché a loro
  • similmente non fallasse ricorso, se bisognasse, andarono nell’aiuto
  • di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne
  • recarono questi sopranomi; cioè quegli, che in aiuto della parte di
  • Gulfo erano andati, si chiamaron «guelfi», e gli altri «ghibellini».
  • Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella
  • nostra cittá potentissima: e per la uccisione stata fatta d’un nobile
  • cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le
  • corna fuori, e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano,
  • si chiamaron «guelfi», de’ quali furon capo i Bondelmonti; e la parte
  • degli ucciditori si chiamò «ghibellina», e fúronne capo gli Uberti. E
  • questa è quella parte alla quale messer Farinata dice che gli antichi
  • dell’autore furono fieramente avversi, sí come uomini li quali erano
  • guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellini.]
  • «Sí che per due fiate gli dispersi», cioè gli cacciai di Firenze
  • insieme con gli altri guelfi. E questo fu, la prima volta, essendo lo
  • ’mperador Federigo privato d’ogni dignitá imperiale da Innocenzio papa
  • e scomunicato, e trovandosi in Lombardia, per abbattere e indebolire
  • le parti della Chiesa in Toscana mandò in Firenze suoi ambasciadori,
  • per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfa
  • e ghibellina nella cittá, e cominciaronsi per le contrade di Firenze,
  • alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a
  • combattere insieme e a danneggiarsi gravissimamente, e ultimamente in
  • soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento
  • cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, né avendo alcun
  • soccorso, a dí 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della
  • cittá, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli
  • guerreggiando la cittá. È vero che poi, venuta in Firenze la novella
  • come lo ’mperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della
  • cittá, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze: e cosí furono a
  • dí 7 di gennaio 1250.
  • La seconda volta ne furon cacciati quando i fiorentini furono
  • sconfitti a Monte Aperti da’ sanesi, per l’aiuto che’ sanesi ebbero
  • dal re Manfredi per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la
  • piccola masnada avuta da Manfredi, con la sua insegna, in parte che
  • tutti erano stati tagliati a pezzi, e la ’nsegna, ecc. La qual novella
  • come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade
  • del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettare alcuna forza,
  • con tutte le famiglie loro, a dí 13 di settembre 1260, se n’uscirono; e
  • poi, avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi,
  • tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono. De’ quali mai poi
  • per sua virtú o operazione non ve ne ritornò alcuno; per la qual cosa
  • dice l’autore:—«S’e’ fûr cacciati», i miei antichi da voi, «e’ tornar
  • d’ogni parte»,—dove ch’e’ si fossero, «Risposi lui,—e l’una e l’altra
  • fiata», come di sopra è stato mostrato: «Ma’ vostri», cioè gli Uberti,
  • li quali con gli altri ghibellini furon cacciati quando la seconda
  • volta vi ritornarono i guelfi, «non appreser ben quell’arte»,—cioè
  • del ritornare: percioché, come detto è, mai non ci ritornarono, né,
  • per quel che appaia, sono per ritornarci. «Allor surse». Qui comincia
  • la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale
  • l’autore mostra come un’altra anima surgesse e dimandasselo d’alcuna
  • cosa, ed egli le rispondesse; e però dice: «Allor», mentre io
  • rispondea, come detto è, a messer Farinata, «surse», si levò, «alla
  • vista scoperchiata», cioè infino a quella parte della sepoltura non
  • coperchiata, della qual si poteva veder di fuori; «Un’ombra, lungo
  • questa, insino al mento»: non si levò diritta in piè, come s’era levato
  • messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea; «Credo che
  • s’era inginocchion levata»; e cosi dovea essere, poiché piú non se ne
  • vedea. «D’intorno mi guardò, come talento», cioè volontá, «Avesse di
  • veder s’altri era meco; Ma, poi che’l sospicciar fu tutto spento»,
  • cioè poi che vide che io era solo. «Piangendo disse:—Se per questo
  • cieco Carcere», dello ’nferno, il quale meritamente chiama «carcere»,
  • percioché alcuno che v’entri mai uscir non ne puote; e chiamal «cieco»,
  • non perché cieco sia, percioché il luogo non ha attitudine niuna di
  • poter vedere né d’esser cieco, ma percioché ha a far cieco chi v’entra,
  • in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder
  • lume; «vai per altezza d’ingegno», avendo per quella saputo trovar via
  • e modo, per lo quale, senza ricevere offesa o doverci rimanere, tu ci
  • vai; «Mio figlio ov’è? e perché non è el teco?»—quasi voglia dire:
  • conciosiacosaché egli sia cosí di maraviglioso ingegno dotato, come
  • siè tu. «Ed io a lui:—Da me stesso non vegno»; cioè per l’altezza
  • d’ingegno che in me sia; «Colui che attende lá», e mostrò Virgilio,
  • «per qui mi mena», cioè per questo luogo, «Forse cui Guido vostro»,
  • figliuolo, «ebbe a disdegno».—
  • «Le sue parole» (cioè: se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio
  • figlio teco?) «e ’l modo della pena», cioè vederlo dannato tra gli
  • epicurei, «M’avevan di costui», che mi parlava, «giá detto il nome»,
  • cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: «Però fu la risposta», mia
  • a lui, «cosi piena», senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo.
  • È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore,
  • fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti,
  • leggiadro e ricco cavaliere, e seguí l’opinion d’Epicuro in non credere
  • che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene
  • fosse ne’ diletti carnali; e per questo, sí come eretico, è dannato.
  • E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo
  • e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio
  • che alcun nostro cittadino; e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato
  • ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, sí
  • come esso medesimo mostra nella sua _Vita nuova_, e fu buon dicitore
  • in rima: ma, percioché la filosofia gli pareva, sí come ella è, da
  • molto piú che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E
  • percioché messer Cavalcante conosceva lo ’ngegno del figliuolo, e la
  • singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente
  • l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta
  • gli fece la domanda che di sopra si disse.
  • Poi séguita l’autore e dice che, attristatosi messer Cavalcante per
  • la risposta udita, «Di subito drizzato, gridò:—Come Dicesti, ’egli
  • ebbe’?», il che si suol dire delle persone passate di questa vita, e
  • però segue: «non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi il dolce
  • lome?»—del sole; percioché gli occhi de’ morti non sono quanto i
  • corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume.
  • «Quando s’accorse», aspettando, «d’alcuna dimora Ch’io faceva dinanzi
  • alla risposta, cioè non rispondea cosí subitamente, «Supin ricadde»;
  • segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere
  • essergli venuta estimando che ’l figliuolo fosse morto, poiché l’autore
  • non gli rispondea cosí tosto; percioché gli uomini sogliono soprastare
  • alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale che ella non debba
  • piacere a colui che ha fatta la domanda: «e piú non parve fuora».
  • Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’
  • figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati
  • sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di
  • loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. «Ma quell’altro magnanimo».
  • Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella
  • quale, poi che l’autore ha mostrato come quello spirito, il quale s’era
  • in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer
  • Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua
  • vita futura. Dice adunque: «Ma quell’altro magnanimo», cioè messer
  • Farinata, «a cui posta», cioè a cui richiesta, «Restato m’era», in quel
  • luogo, «non mutò aspetto», per cosa che detta fosse, «Né mosse collo»,
  • volgendosi in giú alle parole di messer Cavalcante, «né piegò sua
  • costa», cioè suo lato.
  • —«E se,—continuando al primo detto», cioè a quello che di sopra avea
  • detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore;-«Egli han
  • quell’arte»,—del tornare donde cacciati sono, «disse,—male appresa»,
  • in quanto non tornano in Firenze, «Ciò mi tormenta piú che questo
  • letto», cioè che questo sepolcro acceso, nel quale io giaccio.
  • «Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna che qui
  • regge».
  • A dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato
  • detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno; e questa
  • Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra.
  • E tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è
  • per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, percioché la
  • sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali, per
  • rispetto delle cose superiori, si posson dire essere in inferno; e
  • però, intendendosi per la luna, è da sapere la luna di sua natura non
  • avere alcuna luce, sí come noi possiamo vedere negli ecclissi lunari,
  • ne’ quali ella non è veduta dal sole: per la interposizione del corpo
  • della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna
  • luce. E cosí, facendo il suo corso, quanto piú dal sol si dilunga,
  • piú veggiamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla
  • quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso
  • e bello; e cosí si mostra a noi essere «raccesa», cioè ralluminata
  • la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e
  • tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo,
  • in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è
  • veduto; e cosí se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che
  • entra sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia,
  • come dinanzi ho detto, a divenire ognora piú luminosa, infino alla
  • quintadecima; e brievemente in trecentocinquantaquattro di ella si
  • raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, per che possiam dire
  • che in quattro anni, pochi di piú, ella si raccenda cinquanta volte.
  • E però vuol qui, vaticinando, dire messer Farinata: egli non saranno
  • quattro anni, «Che tu saprai», per esperienza, «quanto quell’arte»,
  • del tornare chi è cacciato, «pesa», cioè è grave; volendo per queste
  • parole annunziargli che, avanti che quattro anni fossero, esso sarebbe
  • cacciato di Firenze: il che avvenne avanti che fossero due, o poco piú.
  • «E se tu mai nel dolce mondo», cioè in questo, il quale, quantunque
  • pieno d’amaritudine sia, è «dolce», cioè dilettevole, a rispetto dello
  • ’nferno; «regge», cioè torni, «Dimmi: perché quel popolo», cioè i
  • cittadini di Firenze, «è si empio», cioè crudele, «Incontr’ a’ miei»,
  • cioè agli Uberti, «in ciascuna sua legge»?— delle quali, poiché
  • cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio
  • si concedesse a’ cacciati di Firenze (se alcuna se ne fece mai), che
  • da quel cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente
  • tutti.
  • «Ond’io a lui», risponde l’autore e dice:—«Lo strazio e ’l crudo
  • scempio, Che fece l’Arbia colorata in rosso, Tali orazion», cioè
  • composizioni contro alla vostra famiglia, «fa far nel nostro tempio»,
  • cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni e
  • gli ordini e le leggi: il quale chiama «tempio», si come facevano i
  • romani, li quali chiamavano talvolta «tempio» il luogo dove le loro
  • diliberazioni facevano.
  • E accioché pienamente s’abbia lo ’ntelletto della risposta che
  • l’autore fa, è da sapere che, avendo il comun di Firenze guerra col
  • comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora
  • era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun
  • di Siena il conte Giordano con ottocento tedeschi, li quali avendo,
  • tenne messer Farinata segreto trattato con piú cittadini ghibellini e
  • altri, co’ quali compose quello che poi seguí, come si dirà appresso.
  • Poi con astuzia mandati frati minori, con falsa informazione data
  • loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro, che luogo
  • di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di
  • Siena, se ad oste v’andassero; trassero i fiorentini con ogni loro
  • sforzo fuori della cittá, sotto titolo di andare a fornire Monte
  • Alcino, e pervennero infino a Monte Aperti in Val d’Arbia: dove, contro
  • all’opinion di tutti, usciti loro allo ’ncontro i sanesi co’ tedeschi
  • del re Manfredi, e molti dell’oste de’ fiorentini, secondo che con
  • messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ fiorentini,
  • entrarono in quella de’ sanesi. Di che quantunque sbigottissero i
  • fiorentini, nondimeno, fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente
  • de’ sanesi; ed essendo giá la battaglia cominciata, messer Bocca Abati,
  • il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a
  • messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il qual portava l’insegna
  • del comune, levata la spada, ferí il detto messer Iacopo e tagliògli la
  • mano, di che convenne la ’nsegna cadesse; per la qual cosa i fiorentini
  • del tutto rotti, senza segno e senza consiglio, furono sconfitti, e
  • molta gran quantitá di loro e di loro amici furono in quella sconfitta
  • uccisi; il sangue de’ quali n’andò infino in un fiume ivi vicino
  • chiamato Arbia; e ciò fu a dí 4 di settembre 1260. La qual cosa saputa
  • poi pienamente per tutti, fu ed è cagione che, tornati i guelfi in
  • Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire,
  • se non in disfacimento e distruzion di loro. E per queste cose state
  • per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore che fece «l’Arbia
  • colorata in rosso» del sangue de’ fiorentini.
  • [Lez. XLI]
  • E séguita: «Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso», come color fanno
  • li quali minacciano,—«A ciò non fu’ io sol—disse», cioè a far questi
  • trattati contro al comun di Firenze; quasi voglia dire: comeché contro
  • alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro
  • agli altri, che ad adoperar questo fûr meco;—«né certo, Senza cagion
  • con gli altri», che a ciò tennero, «sarei mosso», a dover far quel che
  • si fece: vogliendo per questo intendere che il comun di Firenze, il
  • quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare
  • ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua. Poi segue:
  • «Ma fu’ io sol colá, dove sofferto», cioè acconsentito, «Fu per
  • ciascun», fiorentino che a quello ragionamento si trovò, «di tôrre via
  • Fiorenza», cioè di disfarla, «Colui che la difesi a viso aperto», che
  • essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire che egli e’ suoi
  • dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, piú che
  • alcuni altri cittadini.
  • È il vero che, poi che i ghibellini furon tornati in Firenze per la
  • sconfitta ricevuta a Monte Aperti, e i guelfi partitisi di quella,
  • si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre
  • ghibelline di Toscana, e molti altri nobili uomini ghibellini, e cosí
  • ancora piú gran cittadini di Firenze, per dovere riformare lo stato di
  • parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare
  • a chiunque contro a quella volesse adoperare; e tra l’altre cose che
  • in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu
  • che la cittá di Firenze si disfacesse e recassesi a borghi, accioché
  • ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare; e ciò
  • era generalmente per tutti consentito, e ancora per li fiorentini
  • che v’erano, fuor solamente per uno: e questi fu messer Farinata,
  • il quale, levatosi ritto, con molte e ornate parole contradisse a
  • questo, dicendo, nella fine di quelle, che, se altri non fosse che ciò
  • vietasse, esso sarebbe colui che con la spada in mano, mentre la vita
  • gli bastasse, il vieterebbe a chi far lo volesse. Per le quali parole,
  • avendo riguardo all’autoritá di tanto cavaliere, e ancora alla sua
  • potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare.
  • —«Deh! se riposi mai». Qui comincia la sesta particella della
  • terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a
  • messer Farinata, ed egli gliele solve. Dice adunque cosí:—«Deh! se
  • riposi mai vostra semenza»,—cioè i vostri discendenti; e in queste
  • parole alquanto capta la benivolenza di messer Farinata, accioché piú
  • benivolmente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo:
  • «Prega’ io lui,—solvetemi quel nodo», cioè quel dubbio, «Che qui
  • ha inviluppata mia sentenza», cioè il mio giudicio, in tanto che io
  • non ne posso veder quello che io disidero. «El par che voi», cioè
  • anime dannate, «veggiate, se ben odo» quello che voi m’avete detto,
  • e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò; veggiate
  • «Dinanzi», cioè preveggiate, «quel che ’l tempo seco adduce», nel
  • futuro, «E nel presente» tempo, «tenete altro modo»,—in quanto non par
  • che cognosciate né veggiate le cose presenti. E questo dice, percioché
  • messer Farinata gli avea detto che, avanti che quattro anni fossero,
  • egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose
  • future; e messer Cavalcante l’avea domandato se il figliuolo vivea, in
  • che si dimostra che essi non conoscono le cose presenti.
  • E messer Farinata gli risponde:—«Noi veggiam come quei c’ha mala
  • luce, Le cose,—disse,—che ne son lontano». Suole questo vizio
  • avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori li quali
  • vengon dal cerebro, ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro
  • alla virtú visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose
  • propinque; ma, come la virtú visiva si stende piú avanti, e lontanasi
  • dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con piú sinceritá
  • riceve le forme obiette. Cosí adunque i dannati, offuscati dalla
  • propinquitá della caligine infernale, non posson le cose propinque
  • vedere; ma, ficcando con la meditazione l’acume dello ’ntelletto per
  • le cose superiori, veggion le piú lontane. E come queste possan vedere
  • o no, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente
  • canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve
  • della «cittá partita». E séguita: «Cotanto», quanto odi, «ancor ne
  • splende», cioè presta di luce, «il sommo Duce», cioè Iddio, senza la
  • grazia del quale alcuna cosa non si può fare. «Quando s’appressan»,
  • le cose future, «n’è del tutto vano Nostro intelletto». in quanto
  • niuna cosa ne conosciamo; «e s’altri», o demonio o anima che tra noi
  • discenda, «non ci apporta», vegnendo dell’altra vita, e di quella ci
  • dica novelle, «Nulla sapem di vostro stato umano», cioè di cosa che
  • lassú si faccia. «Però comprender puoi», da ciò ch’io ti dico, «che
  • tutta morta, Fia nostra conoscenza da quel punto, Che del futuro fia
  • chiusa la porta»,—cioè dal dí del giudicio innanzi; percioché allora
  • seranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno
  • piú uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno fará transito
  • l’uno all’altro; né si faranno sopra la terra alcune operazioni, le
  • quali eziandio gli spiriti dannati possano laggiú riportare; [anzi,
  • secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo
  • caliginoso aere è pieno, saranno tutti rinchiusi e serrati nel profondo
  • dello ’nferno.]
  • «Allor, come di mia». Qui comincia la settima particula di questa
  • terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a
  • messer Farinata dicesse che dicesse a quello spirito caduto, e dice:
  • «Allor, come di mia colpa compunto», cioè pentuto di ciò che io non
  • aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuol vivea;
  • «Diss’io:—Or dicerete a quel caduto», cioè a messer Cavalcante, «Che
  • ’l suo nato», cioè Guido Cavalcanti, «è tra’ vivi», di questa mortal
  • vita, «ancor congiunto», e perciò ancora vive; «E s’io fu’ dianzi»,
  • quando me ne domandò, «alla risposta muto», cioè in quanto tacendo non
  • gli risposi, «Fat’ei saper che ’l fe’, perché pensava Gia nell’error
  • che m’avete soluto»,—qui poco di sopra.
  • «E giá il maestro mio mi richiamava; per ch’io pregai lo spirito», di
  • messer Farinata, «piú avaccio», piú tosto, «Che mi dicesse chi con lui
  • stava», in quell’arca.
  • «Dissemi:—Qui con piú di mille giaccio», quasi voglia dire con
  • infiniti. «Qua dentro», in quest’arca, «è il secondo Federico».
  • Questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore e nepote di
  • Federigo Barbarossa. Il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi
  • amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della Chiesa per
  • moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Cicilia, la
  • quale era monaca e giá d’etá di cinquantasei anni, ed ébbene in dota
  • il reame di Cicilia, il quale allora teneva Tancredi (il quale fu de’
  • discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la Chiesa), e
  • dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale
  • andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase
  • libero signor del reame. E della detta Gostanza generò un figliuolo, il
  • qual fu quel Federigo del qual diciamo. E, morendo la detta Gostanza
  • pochi anni appresso la nativitá del figliuolo, lui lasciò nelle braccia
  • e nella guardia della Chiesa, la quale con diligenza l’allevò, e come
  • ad etá perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Cicilia,
  • e non passò guari di tempo che, fattolo eleggere, il coronò imperador
  • di Roma.
  • Divenne costui maraviglioso uomo e in molte cose eccellente e
  • virtuoso, ma non durò guari in concordia con la Chiesa, per lo volere
  • usurpare le ragioni di quella. Poi, venuto in concordia con lei, sí
  • come ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre
  • mare; nel quale essendo occupato, la Chiesa gli fece tutto il reame
  • di Cicilia ribellare, e, oltre a ciò, scrisse il papa al soldano la
  • via la qual dovesse tenere a farlo di lá morire. Le quali lettere il
  • soldano, non per amor che portasse allo ’mperadore, ma per seminar
  • zinzania e malavoglienza tra lui e la Chiesa, accioché esso potesse piú
  • sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo ’mperadore. Le quali come
  • egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la
  • Chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia
  • se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondo che alcuni raccontano, in
  • Benevento, e brievemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto
  • senza alcuna arme il reame suo. E per dispetto della Chiesa mandò a
  • Tunisi per una gran quantitá di saracini, e diede loro per istanza una
  • cittá stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, comeché i volgari
  • la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sé
  • dall’una delle parti, la quale è alquanto piú rilevata che l’altra,
  • vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in
  • piè. I saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case,
  • come ciascun poté meglio; ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi
  • dimorarono, e moltiplicarono in tanta quantitá, che essi correvano
  • tutta la Puglia, quando voglia ne venía loro. Oltre a ciò, in Lombardia
  • e in Toscana indebolí forte i sudditi e la parte della Chiesa, e gran
  • guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno usare
  • alcuna sua ragione alla Chiesa.
  • Fu gran litterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli
  • avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine piú figliuoli, de’
  • quali, cosí de’ non legittimi, come de’ legittimi, fece da cinque o
  • vero sei re. Ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che
  • egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa
  • cittá; poi, avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi, allora
  • prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni,
  • ne fu cosí infermo portato in una terra di Puglia, la quale ha nome
  • Fiorenza. E quivi, crescendo la ’nfermitá, domandò dove egli fosse;
  • ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e
  • subitamente si giudicò morto, e cosí disse a’ suoi. Poi, comeché la
  • infermitá l’aggravasse forte, vogliono alcuni che l’ultima notte che
  • fece in terra, che ’l prenze Manfredi, per disidèro d’avere il mobile
  • suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca e facessel morire; e cosí
  • scomunicato e in contumacia di santa Chiesa finí in Fiorenza i giorni
  • suoi. E percioché egli, vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere
  • che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo
  • luogo esser dannato con gli epicúri, chiamandolo Federigo «secondo»,
  • percioché fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo.
  • «E ’l cardinale». Par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual
  • non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano
  • degli Ubaldini: e percioché egli fu uomo di singulare eccellenza,
  • voglia che, dicendo semplicemente «cardinale», s’intenda di lui. Il
  • quale, secondo che alcuni scrivono, tenne vita piú tosto signorile
  • che chericile; né fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse
  • ghibellino, quanto egli, in tanto che, senza curarsi che papa o
  • altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini, nemici
  • della Chiesa. E, avendo, senza guardarsi innanzi, aiutati in ciò che
  • potuto avea sempre i ghibellini, e in suo bisogno trovandosi da loro
  • abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo
  • rammarichío disse:—Se anima è, perduta l’ho per li ghibellini.—Nella
  • qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima
  • fosse, la qual dopo il corpo vivesse; per la qual cosa l’autore dice
  • lui con gli altri eretici epicúri essere in questo luogo dannato. «E
  • degli altri mi taccio»—quasi voglia dire: io te ne potrei molti altri
  • contare.
  • «Indi s’ascose». Qui comincia la quarta parte principale del presente
  • canto, nella quale l’autor dice come, tornato a Virgilio, dove con lui,
  • seguitandolo, pervenisse. Dice adunque: «Indi», cioè poi che cosí ebbe
  • detto, «s’ascose», nella sua arca, riponendosi a giacere, «ed io inver’
  • l’antico poeta volsi i passi», tornandomi a lui, «ripensando A quel
  • parlar che mi parea nimico», cioè a quel che messer Farinata gli avea
  • detto («Ma non cinquanta volte fia raccesa», ecc.).
  • «Elli», cioè Virgilio, «si mosse», veggendo me tornare, «e poi, cosí
  • andando, Mi disse:—Perché se’ tu si smarrito»?—cioè sbigottito; «Ed
  • io gli satisfeci al suo dimando», dicendogli quello che del mio dovere
  • esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.
  • —«La mente tua conservi quel ch’udito Hai contra te,—mi comandò
  • quel saggio,—Ed ora attendi qui», a quel ch’io ti vo’ dire, «e drizzò
  • il dito», quasi disegnando, come fanno coloro che piú vogliono le lor
  • parole impriemer nello ’ntelletto dell’uditore. «Quando sarai dinanzi
  • al dolce raggio», cioè alla chiara luce, «Di quella», cioè di Beatrice,
  • «il cui bell’occhio», cioè il santo e divino intelletto, «tutto vede»,
  • cioè il preterito, il presente e il futuro; «Da lei saprai di tua vita
  • il viaggio»,—cioè come ella dee andare e a che riuscire. E vuole in
  • queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre
  • dire il vero l’anime de’ dannati delle cose che sono a venire; e per
  • questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosí
  • avvenire; ma che, quando sará in cielo, da Beatrice, la quale in Dio
  • vede la veritá d’ogni cosa, saprá il vero di ciò che avvenir gli dee.
  • «Appresso volse a man sinistra», piegandosi, «il piede; Lasciammo il
  • muro», della terra, dilungandocene, «e gimmo inver’ lo mezzo», della
  • cittá dolente, «Per un sentier ch’ad una valle fiede», cioè riesce,
  • «Che ’nfin lassú facea spiacer suo lezzo», cioè suo puzzo.
  • Questo canto non ha allegoria alcuna.
  • CANTO DECIMOPRIMO
  • [Lez. XLII]
  • «In su l’estremitá d’un’alta ripa», ecc. Continuasi l’autore nel
  • principio di questo canto alla fine del precedente, come è usato infino
  • a qui di fare, e dimostra dove, seguendo Virgilio, pervenisse; il
  • quale è di sopra detto che, lasciando il muro della terra, cominciò
  • ad andar per lo mezzo. E dividesi il presente canto in sette parti:
  • nella prima discrive il luogo dove pervenuti si fermarono e quel che
  • vi trovarono; nella seconda discrive l’autore distintamente tutta
  • la esistenza dello ’nferno, e ancora le qualitá de’ peccatori, le
  • quali deono, procedendo, trovare; nella terza muove l’autore un
  • dubbio a Virgilio, perché piú i peccatori, che ne’ seguenti cerchi
  • sono, sieno puniti dentro alla cittá di Dite, che quegli de’ quali di
  • sopra ha parlato; nella quarta Virgilio, dimostrandogli la cagione,
  • gli solve il dubbio; nella quinta muove l’autore un altro dubbio a
  • Virgilio; nella sesta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella settima
  • Virgilio sollecita l’autore a seguitarlo. E comincia la seconda quivi:
  • «Lo nostro scender»; la terza quivi: «Ed io:—Maestro»; la quarta
  • quivi: «Ed egli a me»; la quinta quivi:—«O sol, che sani»; la sesta
  • quivi:—«Filosofia»; la settima quivi: «Ma seguimi oramai». Cominciando
  • adunque alla prima, dice che pervennero, andando come nella fine del
  • precedente canto ha detto, «In su l’estremitá d’un’alta ripa». «Ripa»
  • è, o artificiale o naturale ch’ella sia, o terreno o pietre, la quale
  • da alcuna altezza discenda al basso, sí diritta che o non presti, o
  • presti con difficultá la scesa per sé di quell’altezza al luogo nel
  • quale essa discende, sí come in assai parti si vede ne’ luoghi montuosi
  • naturalmente essere, o come per fortificamento delle castella e delle
  • cittá gli uomini artificiosamente fanno. E poi séguita: «Che», questa
  • alta ripa, «facevan gran pietre rotte in cerchio», e però appare che
  • non artificialmente fatta, ma per accidente era ruinata; ed erano le
  • pietre «rotte in cerchio», per la qualitá del luogo ch’è ritondo, sí
  • come piú volte è stato dimostrato; «Venimmo» dopo l’essere alquanto
  • andati, «sopra piú crudele stipa». Intende qui l’autore per «stipa» le
  • cose stipate, cioè accumulatamente poste, sí come i naviganti le molte
  • cose poste ne’ lor legni dicono «stivate»; e da questo modo di parlare
  • prendendo l’autore qui forma, vuol che s’intenda che, sotto il luogo
  • dove pervennero, erano stivate grandissime moltitudini di peccatori, in
  • piú crudel pena che quegli li quali infino a quel luogo veduti avea. «E
  • quivi per l’orribile soverchio Del puzzo che ’l profondo abisso», cioè
  • inferno, «gitta», svaporando in su, «Ci raccostammo indietro», accioché
  • men lo sentissimo che standovi dirittamente sopra; e dice s’accostarono
  • «ad un coperchio D’un grand’avello», percioché ancora erano nel
  • cerchio degli eretici, li quali di sopra mostra essere seppelliti in
  • grandissime sepolture ardenti; «ove», cioè al quale avello, «io vidi
  • una scritta», sí come veder si suole nelle sepolture; «Che diceva:
  • ’Anastasio papa guardo’», quasi l’avello parlasse in dimostrazione di
  • chi in lui era seppellito; «Lo qual», Anastasio, «trasse Fotin della
  • via dritta».—Dove è da sapere che questo Anastasio fu di nazione
  • romano, e figliuol d’uno il qual fu chiamato Fortunato, e negli anni
  • di Cristo quattrocentonovantanove fu eletto papa, ma poco tempo visse
  • nel papato; e avendo costui singulare famigliaritá con uno il quale fu
  • chiamato Fotino, e che primieramente era stato diacono di Tessaglia
  • e poi fu fatto vescovo di Gallo-Grecia, una contrada in Asia molto
  • rimota dal mare, fu adunque da questo Fotino corrotto e tratto della
  • cattolica fede, e cadde in una abbominevole eresia, della quale era
  • stato inventore e seminatore uno chiamato Acazio, singulare amico di
  • Fotino. Ed era la eresia questa: che questo Acazio affermava Cristo non
  • essere stato figliuol di Dio, ma di Giuseppo, e ch’esso carnalmente
  • giacendo con la Vergine Maria l’aveva acquistato; e cosí non era vero
  • che la Vergine Maria fosse vergine innanzi il parto e dopo il parto,
  • come i cattolici cristiani fermamente credono. Per la quale eresia il
  • detto Fotino fu dannato e rimosso dalla comunione de’ cristiani. E,
  • volendolo questo papa Anastasio riducere nella comunione cristiana,
  • essendosi contro a ciò levati molti santi padri, e a questo resistendo;
  • avvenne che, essendo il detto papa durato giá un anno e undici mesi e
  • ventitré dí, andato al segreto luogo dove le superfluitá del ventre si
  • dipongono, per divino giudicio, sí come per tutti universalmente si
  • credette, per le parti inferiori gittò e mandò fuori del corpo tutte le
  • interiora, e cosí miseramente nel luogo medesimo spirò. E per questo
  • l’autore estima lui essere stato eretico di quella eresia che detta è,
  • e perciò qui dimostra tra gli altri eretici esser dannato, dicendo lui
  • essere stato da Fotino predetto tratto della «via diritta», cioè della
  • fede cattolica, dalla quale n’è mostrato, e, credendola, siam menati
  • per la diritta via, la quale ne perduce in vita eterna.
  • «Lo nostro scender convien». Qui comincia la seconda parte di questo
  • canto, nella quale l’autore discrive distintamente la esistenza dello
  • ’nferno, e ancora la qualitá de’ peccatori, li quali deono, procedendo,
  • trovare; e dice: «Lo nostro scender», alle parti inferiori, «convien
  • che sia tardo», cioè adagio; e dimostra la ragion perché, dicendo:
  • «Sí che s’aúsi in prima», che noi vi giugniamo, «un poco il senso»,
  • dell’odorato, «Al tristo fiato», cioè puzzo, «e poi» che adusato sará
  • alquanto, «non fia riguardo»,—cioè non bisognerá di molto curarsene,
  • «_quia assuetis non fit passio_». E nel vero e’ si vuole a cosí fatte
  • cose andar con discrezione, percioché assai giá hanno gravissime
  • alterazioni ricevute per lo entrar subito in luoghi o molto odoriferi
  • o molto fetidi; percioché l’uno e l’altro offende il cerebro forte,
  • quando il senso di colui che entra in essi non è familiare o degli
  • odori o de’ puzzi.
  • «Cosí il maestro», (_supple_), disse; «ed io:—Alcun compenso—Dissi
  • lui—truova, che ’l tempo non passi Perduto». Questo fu ottimamente
  • detto, e in ciò ciascuno dovrebbe a suo potere dare opera, cioè di non
  • perder tempo, percioché, secondo che a Seneca piace, di quante cose
  • noi abbiamo nella presente vita, solo il tempo è nostro, tutte l’altre
  • cose sono della fortuna; e perciò con gran sollecitudine dobbiamo
  • adoperare che egli non ci passi tra le mani perduto. «Ed egli»,
  • rispuose:—«Vedi ch’a ciò penso». Nelle quali parole si può comprendere
  • la circunspezione del savio uomo, il quale mai alle cose opportune non
  • aspetta d’esser sollecitato: e, fattagli la risposta, tantosto séguita
  • quello che nel pensiero gli è venuto di fare, per non dover perder
  • tempo, e dice:
  • «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,—li quali tu puoi veder di
  • sotto da te, «Cominciò poi a dir,—son tre cerchietti», cioè il settimo
  • e l’ottavo e il nono: e chiamali «cerchietti», percioché sono di
  • circúito piccoli a rispetto di quegli di sopra: «Di grado in grado»,
  • cioè, discendendo, l’uno appresso l’altro si trovano, «come» trovati
  • hai «quei che lassi», di sopra da noi. «Tutti», questi tre cerchietti,
  • «son pien di spirti maladetti», cioè dannati; «Ma, perché poi ti basti
  • pur la vista», cioè il vedergli, quando ad essi perverremo, «Intendi
  • come e perché son costretti», gli spirti maladetti che dentro vi sono.
  • «D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista». Malizia è di due maniere:
  • o è malizia corporale, o è malizia mentale. Malizia corporale è quella
  • la quale noi generalmente chiamiamo «infermitá o difetto di corpo»;
  • e questa può essere ancora nelle cose insensibili, quando in esse
  • naturalmente è alcun difetto, sí come alcuna volta è in uno albero,
  • il quale nasce torto o noderoso, o con alcuna altra cosa meritamente
  • biasimevole, secondo la sua qualitá. O è malizia d’anima, la qual
  • propriamente è perversitá di pensiero e di disiderio che nelle nostre
  • anime sia; e questa è pessima spezie di malizia, percioché d’essa mai
  • altro che male non nasce, né può nascere. E perciò l’autore mostra
  • di fare questa distinzione nelle sue parole, in quanto dice «d’ogni
  • malizia ch’odio in cielo acquista», intendendo di questa ultima;
  • percioché la prima alcun odio non acquista in cielo, quantunque ella
  • sia in terra in odio a colui che la patisce; e per tanto dice «odio»,
  • perché l’operazioni, le quali seguono della malizia delle nostre menti,
  • son malvagie e dispiacciono a Dio, il qual dimora in cielo; e quindi,
  • perduta la sua grazia, meritiamo l’ira sua, la quale, perseverando
  • noi nel male adoperare, diventa odio, se in esso male adoperare senza
  • pentirci moiamo. «Ingiuria è il fine»; percioché quante volte i nostri
  • maliziosi pensieri si mettono ad esecuzione, mai non si mettono se non
  • per fare ingiuria ad alcuna persona; «ed ogni fin cotale», cioè di fare
  • ingiuria ad alcuno, «O con forza o con frode altrui», cioè colui che
  • riceve la ’ngiuria, «contrista», affligge e noia; mostrando in queste
  • parole due essere i modi ne’ quali per la malizia della nostra mente si
  • fa altrui ingiuria, cioè o violentemente o fraudolentemente.
  • E questo dimostrato, ne chiarisce in qual di questi due modi piú
  • s’offenda Iddio, dicendo: «Ma perché frode è dell’uom proprio male»,
  • cioè che in esso si crea, nasce e dilibera, e in questo è «proprio
  • male» dell’uomo; «Piú spiace a Dio», che non spiace la forza, la quale
  • non è proprio male dell’uomo, conciosiacosaché molte cose esteriori
  • siano all’uomo di necessitá per dovere potere usar la forza, le quali
  • se l’uomo non le si sentirá, non si metterá a doverla usare: «e però»,
  • che la fraude spiace a Dio piú che la forza, per la ragion detta, «stan
  • di sotto Gli frodolenti», nell’ottavo e nel nono cerchio, li quali sono
  • di sotto al settimo, nel quale intende dimostrare esser posti e dannati
  • coloro, li quali per forza fanno ingiuria ad altrui, «e», percioché
  • si stanno ne’ cerchi piú inferiori, «piú dolor gli assale», cioè sono
  • oppressi da maggior tormenti.
  • E, detto questo, viene alla prima parte della sua distinzione, cioè a
  • dimostrare in quanti modi e a quante persone si possa fare per forza
  • ingiuria altrui, e questi modi e persone dimostra esser tre: e cosí
  • dimostra il settimo cerchio esser distinto in tre parti come apparirá.
  • Dice adunque: «Di violenti», cioè di coloro li quali con forza fanno
  • altrui ingiuria, «il primo cerchio è tutto», cioè il primo cerchio
  • de’ tre, li quali mostra essere sotto quei sassi, il quale nel numero
  • de’ cerchi dello ’nferno è settimo; e dice, «è tutto», percioché il
  • distingue, come detto è, in tre parti, le quali tutte e tre son piene
  • di violenti.
  • E mostra la ragione perché in tre parti il distingua, dicendo: «Ma,
  • perché si fa forza a tre persone», in se medesime diverse e separate,
  • come apparirá; «in tre gironi è distinto e costrutto», questo primo
  • cerchio. E, detto questo, mostra quali sieno le tre persone, alle quali
  • i violenti o fanno o si sforzan di fare ingiuria, dicendo; «A Dio», il
  • qual noi dobbiamo amare e onorare sopra ogni altra cosa, e lui solo
  • adorare, e questi è l’una persona; «a sé» medesimo, cui noi dobbiamo,
  • appresso a Dio, amare piú che alcuna altra cosa, e questo è la seconda
  • persona; «al prossimo», il quale noi dobbiamo amare come noi medesimi.
  • [È vero che in questo prossimo ha differenza da un prossimo ad un
  • altro, percioché a tutti gli uomini, di che che setta, di che che
  • nazion si sieno, secondo la legge naturale, siam prossimi; percioché
  • tutti da un principio, cioè da’ primi parenti, proceduti siamo, e
  • però tutti ci dobbiamo amare. Ma a questa generalitá si prepone una
  • particularitá, percioché noi dobbiamo amare piú i cristiani che l’altre
  • sètte; conciosiacosaché noi siamo da una medesima legge, da una
  • medesima dottrina, da quegli medesimi sagramenti costretti insieme,
  • dove dall’altre sètte noi siam separati. E, oltre a questa, pare ancora
  • che questa particularitá riceva alcuna divisione, in quanto pare che
  • ciascun debba piú amare colui che con congiunzione di piú prossimana
  • consanguinitá è congiunto, che un altro piú lontano di parentela amare;
  • e cosí potrebbe seguire che, quanto alcun dee piú strettamente amare un
  • che un altro, piú gravemente pecchi, se in colui, che piú dee amare, fa
  • violenza: ma questo si rimanga al presente.]
  • «Si puone», cioè si puote, «Far forza»; e, detto questo, apre piú la
  • sua intenzione, dicendo: «dico in loro», cioè nelle proprie persone de’
  • detti tre, «ed in lor cose, com’udirai con aperta ragione».
  • E cosí, di tre, paion divenute sei quelle cose nelle quali far si può
  • violenza. E quali queste sieno, e in che maniera si possa in esse
  • far violenza, distingue e dichiara, cosí cominciando dal prossimo: e
  • dice che «Morte per forza», come uccidere col coltello, col veleno,
  • col capestro, o col fuoco o in altra maniera, le quali son morti
  • violente che si possono nel prossimo dar per forza; «e ferute dogliose
  • Nel prossimo si dánno», cioè nella propria persona del prossimo; e
  • quinci dimostra quello che violentemente s’adopera, o può adoperare,
  • nelle sustanze del prossimo, dicendo: «e nel suo avere», cioè nelle
  • sue possessioni e ricchezze, «Ruine», come è disfargli le case, «e
  • incendi», come è ardergliele o ardergli le biade, e «tollette dannose»,
  • come è il rubargli le sue cose, tôrgli la moglie, la figliuola, il
  • bestiame e simili sustanze. E, questo dimostrato, piú particularmente
  • narrandogli, dimostra in qual de’ tre gironi tormentati sieno, dicendo:
  • «Odii», cioè coloro che odio portano al prossimo, volendo per questo
  • s’intendano coloro in questo medesimo luogo esser dannati, li quali,
  • quantunque queste violenze non facciano, le farebbon volentieri se
  • potessono, e, perché piú non possono, hanno in odio il prossimo;
  • «omicide, e ciascun che mal fiere» (dice «mal fiere», a distinguer da
  • questi cotali coloro li quali, posti per esecutori della giustizia,
  • giustamente uccidono e feriscono); «Guastatori», come sono incendiari
  • e simili uomini, «e predón», cioè rubatori, corsari e tiranni e
  • simiglianti, «tutti tormenta Lo giron primo», di questo primo cerchio,
  • e tormentali «per diverse schiere», volendo che per questo s’intenda
  • questi cotali peccatori esser piú e men tormentati, secondo che hanno
  • piú o meno offeso, sí come apparirá lá dove tormentati gli discrive.
  • E, mostrato della violenza che si può fare nel prossimo e nelle sue
  • cose, dimostra quello che l’uom può fare in se medesimo e nelle sue
  • cose, e quello che di ciò gli segua, e dice: «Puote uomo avere in sé
  • man violenta», uccidendosi col coltello e col capestro, come molti
  • hanno giá fatto, «E ne’ suoi beni», giucando quegli; «e però nel
  • secondo Giron», de’ tre predetti, «convien che senza pro si penta»,
  • sostenendo gravissimi tormenti. E, questo detto, se medesimo dichiara
  • con piú aperto parlar, dicendo: «Qualunque priva sé del vostro mondo»,
  • uccidendosi, come detto è, «Biscazza, e fonde», consuma, «la sua
  • facultade», cioè la sua ricchezza, e, per conseguente, «E piagne»,
  • d’aver cosí fatto, «lá dove esser dee giocondo», avendole guardate e
  • servate come si convenia.
  • E, mostrato della violenza, la quale l’uomo può fare in se medesimo e
  • nelle sue cose, e quello che di ciò gli segua, viene a dimostrare come
  • si possa far violenza a Dio e alle cose sue, e dice: «Puossi», da’
  • violenti, «far forza nella deitade, Col cuor negando e bestemmiando
  • quella», come molti, o adirati o per mostrar di non temere Iddio, non
  • che altrui, fanno; «E», appresso, si può far forza nelle cose di Dio
  • «spregiando natura e sua bontade», cioè adoperando contro alle naturali
  • leggi, come assai bestialmente fanno; «E però lo minor giron», de’ tre
  • predetti, ne’ quali il primo cerchio è distinto, «suggella Del segno
  • suo», cioè de’ tormenti che in quel sono, «e Sogdoma e Caorsa». E vuole
  • l’autore per questi nomi di queste due cittá intendere due spezie
  • d’uomini, li quali offendono o fanno violenza a Dio nelle cose sue,
  • cioè nella natura e nell’arte, le quali sono sue cose, sí come appresso
  • mostrerà l’autore: e intende per «Sogdoma» coloro li quali contro alle
  • leggi della natura con sesso non debito lussuriosamente adoperano; e
  • per «Caorsa» intende gli usurai, li quali fanno violenza alle leggi
  • della natura e al buon costume dell’arte.
  • Ed accioché piú manifestamente appaia l’autore intender questo, è
  • da sapere che Sogdoma, secondo si legge nel _Genesi_, fu una cittá
  • vicina a Ierico in Soria, la qual fu abbondantissima di tutti i beni
  • temporali; per la quale abbondanza i cittadini di quella in tanta
  • viziosa vita trascorsono, che né legge divina né umana seguivano, e
  • ogni vizio, quantunque detestabile fosse, era a ciascuno, secondo che
  • piú gli piacea, lecito d’esercitare; e, tra gli altri, era in tutti
  • generale il sogdomitico, per lo quale, e sí ancora per gli altri,
  • meritaron l’ira di Dio. Il quale, essendo disposto a volerla insieme
  • co’ cittadini sovvèrtere, prima il manifestò ad Abraam, il quale il
  • pregò che non volesse fare a’ buoni sostener pena per le colpe de’
  • malvagi; e, promettendo Iddio di perdonare a’ malvagi per amor de’
  • buoni, se alquanti vi se ne trovassono, non sappiendovene Abraam
  • trovare quantitá alcuna di quelli che domandati avea, fu contento al
  • piacer di Dio. Per la qual cosa Iddio mandò due suoi angeli a Lot,
  • nepote d’Abraam, il quale abitava in quella, ed era buono e onesto e
  • santo uomo; e per loro gli comandò che di quella con la sua famiglia si
  • dovesse partire, manifestandogli quello che di fare intendeva. Erano
  • i due angeli, quando alla casa di Lot pervennero, in forma di due
  • speziosissimi giovanetti, li quali da’ sogdomiti veduti, incontanente
  • corsono alla casa di Lot, addomandando d’aver questi giovani. Lot, il
  • quale sí come messi del suo Signore ricevuti li avea, non gli volle lor
  • dare, ma per sodisfare all’impeto della lor lussuria, e per servare
  • l’onore de’ giovani che a casa gli eran venuti, volle lor dare due
  • sue belle figliuole vergini, le quali in casa aveva: ma essi, non
  • volendole, e volendo far impeto nella casa, subitamente per divino
  • giudicio tutti divennero ciechi. Lot con la famiglia sua poi uscí della
  • cittá, secondo il comandamento fattogli, e incontanente sentí dietro
  • a sé grandissima tempesta e orribili tuoni e folgori cader da cielo,
  • le quali Sogdoma e’ suoi cittadini, e alcune altre terre le quali
  • in simiglianti vizi peccavano, arsono e consumaron tutte, lasciando
  • nondimeno, in detestabile memoria di sé, questo infame sopranome a
  • tutti coloro li quali in vizio contro natura peccano.
  • Caorsa è una cittá di Proenza, ovvero in Tolosana, secondo che si
  • racconta, sí del tutto data al prestare a usura, che in quella non è
  • né uomo né femmina, né vecchio né giovane, né piccol né grande che a
  • ciò non intenda; e non che altri, ma ancora le serventi, non che il lor
  • salario, ma se d’altra parte sei o otto denari venisser loro alle mani,
  • tantosto gli dispongono e prestano ad alcun prezzo. Per la qual cosa è
  • tanto questo lor miserabile esercizio divulgato, e massimamente appo
  • noi, che, come l’uom dice d’alcuno:—Egli è caorsino,—cosí s’intende
  • ch’egli sia usuraio.
  • Séguita poi: «E chi spregiando Iddio col cuor favella», percioché in
  • questo fa violenza alla divinitá, ché in altro non può; percioché andar
  • non si può in cielo a far violenza a Dio nella persona, fassi adunque
  • qui in quel che si può, bestemmiandolo, dispettandolo, avvilendolo e
  • negandolo, come di sopra è detto.
  • «La frode, ond’ogni coscienza». Poi che Virgilio ha pienamente
  • mostrato all’autore i gironi del primo cerchio, e ancora quegli che in
  • essi son tormentati, che sono la prima spezie d’uomini che a fine di
  • fare ingiuria usano violenza; ed esso diviene a dimostrare la seconda
  • spezie, la quale esso chiama i «fraudolenti», che non con violenza
  • manifesta, come i sopradetti, ma con fraude e occultamente s’ingegnano
  • di fare altrui ingiuria. Dice adunque: «La frode»; che cosa sia fraude
  • si mostrerá appresso nel principio del diciassettesimo canto; «onde»,
  • dalla quale, «ogni coscienza è morsa», cioè offesa, «Può l’uomo
  • usare». Intende qui l’autore di dimostrare esser due spezie principali
  • di fraude, delle quali dice l’una esser quella fraude la quale si
  • commette contro a coloro li quali non si fidano di colui che poi con
  • fraude l’inganna; e l’altra esser quella che si commette contra coloro
  • li quali si fidano di colui che poi fraudolentemente gl’inganna; e
  • perciò vuole queste due spezie di fraudolenti ne’ due seguenti cerchi,
  • li quali sono li due ultimi dello ’nferno; e vuole nel superiore, il
  • quale è il secondo de’ tre predetti, sien puniti que’ fraudolenti li
  • quali ingannano chi di lor non si fida, e nell’inferiore, il quale è
  • il piú profondo dello ’nferno, sien puniti i fraudolenti, li quali
  • ingannano chi si fida di loro. E però dice: «Può l’uomo usare», fraude,
  • «in colui», cioè contra colui, «che si fida», e questa è l’una spezie
  • e la peggiore, «E», puolla ancora usare, «in quello che fidanza non
  • imborsa». cioè con tra colui il quale non ha fidanza nel fraudolente.
  • «Questo modo di dietro», cioè d’ingannare chi non si fida, «par che
  • uccida», cioè offenda, «Pur lo vincol d’amor, che fa natura», cioè
  • quel legame col quale la natura tutti ci lega e costrigne a doverci
  • amare, in quanto tutti siamo animali d’una medesima spezie e discesi
  • da un medesimo principio; «Onde», cioè per la qual cagione, «nel
  • cerchio secondo», de’ tre di sopra dimostrati, che dice che son sotto
  • quei sassi, «s’annida», cioè l’è data per istanza, sí come all’uccello
  • il nido, «Ipocrisia, lusinghe e chi affattura; Falsitá, ladroneccio
  • e simonia, Ruffian, baratti e simile lordura»: delle quali tutte
  • partitamente si dirá, dove appresso de’ tormenti attribuiti ad esse si
  • tratterá.
  • «Per l’altro modo». cioè per l’usar frode in colui che d’altrui si
  • fida, «quell’amor s’oblia», cioè si mette in non calere, «Che fa
  • natura», del quale poco dianzi è detto, «e», obliasene, «quel», amore,
  • «ch’è poi aggiunto», al naturale, o per amistá o per benefici ricevuti
  • o per parentado; «Di che», cioè delle quali cose, «La fede spezial
  • si cria», cioè la singulare e intera confidenza che l’un uomo prende
  • dell’altro, per singulare amicizia congiuntogli: «Onde», cioè, e
  • perciò, «nel cerchio minore», de’ tre sopra detti, «ov’è il punto»,
  • cioè il centro, «Dell’universo» (piú volte s’è di sopra detto il centro
  • della terra essere centro di tutto il mondo, cioè del cielo ottavo
  • e degli altri cieli e degli elementi tutti), «in su che Dite siede»
  • fondata, sí come tutte l’altre cittá e edifici, li fondamenti delle
  • quali, se con diritta linea si tireranno al centro della terra, tutti
  • si troveranno sovra quello esser fondati o fermati. O puossi intendere
  • per lo Lucifero, il quale ha quel medesimo nome, secondo i poeti, che
  • ha la cittá sua, cioè Dite, il quale, come nella fine del presente
  • libro si vedrá, dimora sí in sul centro della terra bilanciato, che
  • egli non può né piú in su farsi, né piú in giú scendere, percioché
  • il piú in giú non v’è. Adunque, secondo che l’autor vuole, in questo
  • cerchio ultimo, «Qualunque trade», cioè fraudolentemente adopera contro
  • a colui che di lui si fida, «in eterno è consunto», cioè tormentato.
  • E cosí ha ottimamente l’autore distinti e dichiarati i tre cerchi, li
  • quali Virgilio dice essere sotto a quei sassi, li quali presente a sé
  • gli dimostra.
  • «Ed io:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto,
  • nella quale l’autore muove un dubbio a Virgilio, domandando perché i
  • peccatori, che ne’ seguenti cerchi sono, sieno puniti dentro alla cittá
  • di Dite, piú che quegli de’ quali di sopra ha parlato; e primieramente
  • concede assai bene essere stato dimostrato da lui quello che detto
  • ha de’ tre cerchi inferiori, dicendo: «Ed io:—Maestro, assai chiaro
  • procede La tua ragione», nel dimostrare, «ed assai ben distingue
  • Questo baratro», cioè questo inferno, il quale è da quinci in giù,
  • «e», similmente distingue bene, «il popol che ’l possiede», cioè i
  • peccatori li quali in esso son tormentati. «Ma dimmi: Que’ della palude
  • pingue», cioè gl’iracundi e gli accidiosi, li quali son tormentati
  • nella palude di Stige, la quale cognomina «pingue» per la sua grassezza
  • del loto e del fastidio il quale v’è dentro; e quegli «Che mena il
  • vento», cioè i lussuriosi, che son di sopra nel secondo cerchio, «e»
  • quegli «che batte la pioggia», cioè i golosi, li quali sono di sopra
  • nel terzo cerchio, «E» quegli «che s’incontran con sí aspre lingue»,
  • cioè gli avari e’ prodighi, li quali sono nel quarto cerchio (e dice
  • «si scontran con sí aspre lingue», cioè mordaci, in quanto dicono
  • l’un contro all’altro:—«Perché tieni?»—e«Perché burli?»—). «Perché
  • non dentro della città roggia», cioè rossa per lo fuoco, il quale,
  • facendola rovente, la fa di nera divenir rossa, «Son e’ puniti», come
  • son costoro, de’ quali tu mi ragioni, «se Dio gli ha in ira?», cioè se
  • Dio è adirato contro a loro; «E se non gli ha», in ira, «perché sono a
  • tal foggia?»,—cioè puniti, come di sopra abbiam veduto.
  • «Ed egli a me». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella
  • quale Virgilio, mostrandogli la ragione per la quale quello avviene di
  • che egli domanda, gli solve il dubbio mossogli. Dice adunque: «Ed egli
  • a me» (_supple_), rispose, alquanto commosso e dicendo:—«Perché tanto
  • delira,—Disse—lo ’ngegno tuo da quel ch’e’ suole?», cioè, perché
  • esce tanto della diritta via piú che non suole? «_Lira lirae_» sí è il
  • solco il quale il bifolco arando mette diritto co’ suoi buoi, e quinci
  • viene «_deliro deliras_», il quale tanto viene a dire quanto «uscire
  • dal solco»; e però, _metaphorice_ parlando, in ciascuna cosa uscendo
  • della dirittura e della ragione, si può dire e dicesi «delirare».
  • E cosí qui vuol Virgilio dire all’autore: tu suogli nelle cose
  • dirittamente giudicare; questo perché avviene ora, che tu non giudichi
  • cosí? E perché questo suole avvenire dall’una delle due cose (cioè il
  • non giudicar dirittamente delle cose e però muoverne dubbio), o per
  • ignoranza o per l’aver l’animo impedito d’altro pensiero, e perciò
  • segue: «Ovver la mente», tua, «dove altrove mira?». E, questo déttogli,
  • gli ricorda quello di che esso si dovea ricordare, ed, essendosene
  • ricordato, non avrebbe mosso il dubbio, e dice: «Non ti rimembra di
  • quelle parole, Con le quai la tua _Etica_ pertratta».
  • _Etica_ è un libro, il quale Aristotile compose in filosofia morale,
  • il quale Virgilio dice qui all’autore esser «suo», non perché suo
  • fosse, come detto è, ma per darne a vedere questo libro fosse
  • familiarissimo all’autore e ottimamente da lui inteso: e tratta
  • Aristotile in piú luoghi di queste tre disposizioni, e massimamente nel
  • settimo. E quinci segue: «Le tre disposizion», d’uomini, «che il ciel
  • non vuole», cioè recusa, sí come reprobi e malvagi. E quinci dimostra
  • quali quelle disposizioni sieno, dicendo: «Incontinenza»: questa è
  • l’una per la qual noi dagli appetiti naturali inchinati e provocati,
  • non potendo contenerci, pecchiamo e offendiamo Iddio; «malizia»: questa
  • è l’altra disposizione la quale il ciel non vuole, e questa non procede
  • da operazion naturale, ma da iniquità d’animo, ed è dirittamente contro
  • alle virtù, secondo che Aristotile mostra nel sesto dell’_Etica_;
  • ma in questa opera intende l’autore questa malizia esser gravissimo
  • vizio e opposto alla bontà divina, come appresso apparirà; «e la matta
  • Bestialitade?»: e questa è la terza disposizione che ’l ciel non vuole.
  • Questo adiettivo «matta», pose qui l’autore piú in servigio della
  • rima, che per bisogno che n’avesse la bestialità, percioché bestialità
  • e mattezza si posson dire essere una medesima cosa. È adunque questa
  • «bestialità» similmente vizio dell’anima opposto, secondo che piace ad
  • Aristotile nel settimo dell’_Etica_, alla divina sapienza, il quale,
  • secondo che l’autor mostra di tenere, non ha tanto di gravezza quanto
  • la malizia, sí come nelle cose seguenti apparirà. «E come incontinenza
  • Men Dio offende», che non fanno le due predette, «e piú biasimo
  • accatta?» negli uomini, li quali il piú giudicano delle cose esteriori
  • e apparenti, percioché le intrinseche e nascose son loro occulte, e per
  • questo non le posson cosí biasimare e dannare; e i peccati, li quali
  • noi commettiamo per incontinenza, son quasi tutti negli occhi degli
  • uomini, dove gli altri due il piú stanno serrati nelle menti di coloro
  • che li commettono, quantunque poi pure appaiono; e sono, oltre a ciò,
  • piú rade volte commessi che quegli degli appetiti carnali, li quali
  • continuamente ne ’nfestano. «Se tu riguardi ben questa sentenza», cioè
  • che la incontenenza offenda meno Iddio che l’altre due; «E rechiti alla
  • mente chi son quegli Che su di fuor», della cittá di Dite, «sostengon
  • penitenza», per le colpe commesse; «Tu vedrai ben perché da questi
  • félli». cioè malvagi, «Sien dipartiti», percioché tu conoscerai questi
  • cotali, de’ quali io ti dico che di fuor di Dite son puniti, tutti
  • esser peccatori, li quali hanno peccato per incontinenza; «e perché men
  • crucciata La divina giustizia li martelli»,—cioè tormenti; e dice «men
  • crucciata», imitando nel parlare il costume umano, il quale quanto piú
  • di cruccio porta verso alcuno, tanto piú crudelmente il batte.
  • —«O sol, che sani». Qui comincia la quinta parte di questo canto,
  • nella quale l’autor muove un dubbio a Virgilio, e prima capta la
  • benivolenza sua con una piacevole laude, la quale gli dá, dicendo:—«O
  • sol, che sani ogni luce turbata». Sono le nostre luci alcuna volta
  • turbate dalle tenebre notturne, percioché, stanti quelle, alcuna
  • cosa veder non possiamo; sono, oltre a questo, turbate da’ vapor
  • grossi surgenti della terra, li quali impediscono il riguardo di
  • quello, e non lasciano andar molto lontano; sono ancora impedite e
  • turbate dalle nebbie e da simili cose, le quali tutte il sole rimuove
  • e purga, percioché col suo salire nel nostro emisperio esso caccia
  • le tenebre notturne (e cosí pare per la sua luce essere agli occhi
  • nostri restituito il benificio del vedere, il quale turbato aveva la
  • notturna tenebra), poi co’ suoi raggi esso ogni vapore e ogni nebbia
  • risolve, e con questo ne fa il cielo espedito a poter in ciascuna parte
  • liberamente guardare, quanto alla virtú visiva è possibile: e cosí pare
  • aver sanata, cioè nella sua propria virtú rivocata, ogni luce turbata
  • da alcuno de’ predetti accidenti. Cosí adunque, _metaphorice_ parlando,
  • dice l’autore a Virgilio, intendendo per la chiaritá delle sue
  • dimostrazioni cessarsi della mente sua ogni dubbio, il quale offuscasse
  • o impedisse la luce dello ’ntelletto; e però segue: «Tu mi contenti sí,
  • quando tu solvi», cioè apri e dimostri la ragion delle cose, le quali,
  • a me occulte, mi son cagion di dubitare; «Che non men che ’l saver,
  • dubbiar m’aggrata», per udir le tue chiare dimostrazioni. «Ancora un
  • poco indietro ti rivolvi,—Diss’io», e questo fa’, accioché tu mi
  • dichiari,—«lá dove di’ ch’usura offende La divina bontade» (la qual
  • cosa ha detta di sopra, quivi dove dice: «Del segno suo, e Sogdoma e
  • Caorsa), e ’l groppo solvi»,—cioè il dubbio, il quale mostrava l’autor
  • d’avere, in quanto non discernea perché l’usuraio offendesse la natura
  • e l’arte, le quali son cose di Dio, come dimostrato è di sopra.
  • —«Filosofia,—mi disse». Qui comincia la sesta parte del presente
  • canto, nella quale l’autore mostra come da Virgilio gli sia soluto il
  • dubbio mosso, dicendo:—«Filosofia,—mi disse», Virgilio,—«a chi la
  • ’ntende, Nota», cioè dimostra, «non pure in una sola parte», ma in
  • molte, «Come natura». È qui da sapere che, secondo piace a’ savi, egli
  • è «_natura naturans_», e questa è Iddio, il quale è d’ogni cosa stato
  • creatore e produttore; ed è «_natura naturata_», e questa è l’operazion
  • de’ cieli potenziata e creata da Dio, per la quale ciò, che quaggiú si
  • produce, nasce. E di questa seconda intende qui l’autore, dicendo che
  • questa natura naturata «lo suo corso prende Dal divino intelletto», in
  • quanto piú non adopera, se non quanto conosce essere della ’ntenzion di
  • Dio; e percioché essa prende quindi il suo movimento all’operare, cosí
  • ancora da quello, in quanto puote, prende la forma dell’operare: per la
  • qual cosa l’autor dice: «e da sua arte». L’arte del divino intelletto
  • è il producere ogni cosa perfetta e a certo e determinato fine; e in
  • questo s’ingegna quanto può la natura d’imitarla, e fallo secondo la
  • disposizione della materia suggetta, la quale, percioché è finita, non
  • può ricevere intera perfezione, come riceve la materia sopra la quale
  • se esercita la divina arte; ché, se ricevere la potesse la natura
  • naturata, producerebbe cosí i nostri corpi perpetui, come l’arte divina
  • produce l’anime. Nondimeno essa ogni cosa, la quale essa produce,
  • produce a certo e determinato fine; ma non è questo fine della qualitá
  • che è il fine al quale Iddio produce le cose, le quali esso fa con la
  • sua arte: percioché il fine al quale Iddio produce le cose, le quali
  • esso compone. è ad essere eterne; ma la natura le produce al fine di
  • dovere alcuna volta venir meno, cosí come veggiamo che fanno tutte le
  • cose prodotte da lei.
  • Segue adunque l’autore: «E se tu ben la tua _Fisica_ note», cioè
  • riguardi e tieni a mente: e dice «la tua _Fisica_», come di sopra fece
  • dell’_Etica_; percioché Aristotile, non l’autore, fu quegli che compose
  • il libro della _Fisica_; «Tu troverrai», esser dimostrato, «non dopo
  • molte carte», nel secondo libro di quella, «Che l’arte vostra», cioè
  • quella che appo voi mortali se esercita, «quella», cioè la natura,
  • «quanto puote Segue», in quanto, secondo che ne bastano le forze
  • dello ’ngegno, c’ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esempio
  • ricevono, fare ogni cosa simile alla natura, intendendo, per questo,
  • che esse abbiano quegli medesimi effetti che hanno le cose prodotte
  • dalla natura, e, se non quegli, almeno, in quanto si può, simili a
  • quegli, sí come noi possiam vedere in alquanti esercizi meccanici.
  • Sforzasi il dipintore che la figura dipinta da sé, la quale non è altro
  • che un poco di colore con certo artificio posto sopra una tavola,
  • sia tanto simile, in quello atto ch’egli la fa, a quella la quale
  • la natura ha prodotta e naturalmente in quello atto si dispone, che
  • essa possa gli occhi de’ riguardanti o in parte o in tutto ingannare,
  • facendo di sé credere che ella sia quello che ella non è; similmente
  • colui che fará una statua; e il calzolaio, quanto piú conforme fará
  • la scarpetta al piede, miglior maestro è reputato: intendendo sempre
  • in questo che, medianti questi esercizi e le forze degl’ingegni,
  • séguiti quel frutto all’artefice che a noi séguita dell’operazion della
  • natura, la quale in ogni sua operazione per alcuni mezzi, sí come
  • per istrumenti a ciò atti, è fruttuosa. E perciò aggiugne l’autore
  • le parole seguenti, dicendo l’arte nostra seguire la natura «come il
  • maestro fa il discente», cioè come lo scolaro fa il maestro; per che
  • dice Virgilio: «Sí che vostr’arte a Dio quasi è nepote», cioè figliuola
  • della figliuola; percioché la natura è figliuola di Dio, in quanto sua
  • creatura, e l’arte nostra è figliuola della natura, in quanto si sforza
  • di somigliarla, come il figliuolo somiglia il padre. Ma dice «quasi», e
  • questo dice peroché propriamente dir non si può la nostra arte essere
  • nepote di Dio, percioché conviene che la successione sia simigliante a’
  • suoi predecessori; il che della nostra arte dir non si può, in quanto
  • ella è in molte cose difettiva, dove Iddio in tutte è perfettissimo.
  • E, questo detto, per esemplo dimostra cosí dovere essere, come di
  • sopra ha detto, dicendo: «Da queste due», cioè da natura e da arte,
  • «se tu ti rechi a mente Lo _Genesi_», quello libro il quale è il
  • primo della Bibbia, «dal principio», del mondo, «conviene» all’umana
  • generazione, «Prender sua vita», dall’un di questi, cioè dall’arte;
  • percioché Adam, secondo alcuni vogliono, fu lavorator di terra, e
  • cosí Cain suo figliuolo, e Abel fu pastore, e, per doversi poter
  • nell’opportunitá sostentare, preson queste arti; e cosí, mediante la
  • terra e il bestiame, della fatica e dello ingegno loro traevano il
  • frutto del quale si sostentavano; «ed avanzar la gente», prendendo
  • questa parte della natura, la quale mediante le congiunzion de’ maschi
  • e delle femmine, produce gli animali secondo la loro spezie; e cosí ad
  • Adam e ad Eva convenne per la lor congiunzione avanzare, cioè producere
  • e multiplicar la gente. Ma «perché l’usuriere»; chiamasi «usuriere»,
  • percioché vende l’uso della cosa la qual di sua natura non può fare
  • alcun frutto, cioè de’ danari: «altra via tiene», in quanto fa quello
  • che detto è, cioè che i denari faccian frutto, li quali di sua natura
  • in alcuno atto far non possono, e perciò tiene altra via che non fa la
  • natura o l’arte; appare assai manifestamente che esso «Per sé», cioè
  • dall’una parte, «natura» (_supple_) dispregia e ha a vile, «e per la»,
  • cioè dall’altra parte, «sua seguace», cioè l’arte, la quale è, come di
  • sopra è mostrato, seguace della natura, «Dispregia», e cosí offende
  • le cose di Domeneddio, «poiché in altro pon la spene», cioè in altra
  • spezie d’avanzare e d’accumular danari.
  • [Lez. XLIII]
  • «Ma seguimi oramai». Qui comincia la settima e ultima parte del
  • presente canto, nella quale l’autore discrive per due dimostrazioni
  • l’ora del tempo o del dí. Dice adunque Virgilio, poi che dichiarato
  • ha il dubbio mossogli: «Ma seguimi oramai»; quasi voglia dire: assai
  • abbiam parlato sopra la materia del tuo dubbio; aggiugnendo ancora:
  • «ché ’l gir mi piace». E soggiugne piacergli l’andare per l’ora che
  • era, la qual dimostra primieramente dal luogo del sole, il qual
  • discrive esser propinquo all’orizzonte orientale del nostro emisperio,
  • e cosí essere in sul farsi dí; e dimostralo per questa discrizione:
  • «Che i Pesci guizzan», cioè quel segno del cielo il quale noi chiamiamo
  • «Pesci».
  • Ad evidenza della qual discrizione è da sapere che tra gli altri
  • cerchi, li quali gli antichi filosofi immaginarono, e per esperienza
  • compresero essere in cielo, n’è uno il quale si chiama «zodiaco»; ed è
  • detto zodiaco da «_zoas_», _quod est_ «_vita_», in quanto da’ pianeti,
  • li quali di quel cerchio, movendosi, non escono, prendon vita tutte le
  • cose mortali; ed è questo cerchio non al diritto del cielo, ma alla
  • schisa, in quanto egli si leva dal cerchio chiamato «equante», il qual
  • divide igualmente il cielo in due parti: verso il polo artico ventitré
  • gradi e un minuto, e altrettanto dalla parte opposita declina verso il
  • polo antartico. E questo cerchio divisero gli antichi in dodici parti
  • equali, le quali chiamaron «segni»; percioché in essi spazi figurarono
  • con la immaginazione certi segni o figure, contenuti e distinti da
  • certe stelle da lor conosciute in quel luogo, e quegli nominarono e
  • conformarono a quegli effetti, a’ quali piú inchinevole quella parte
  • del cielo a producere quaggiú tra noi cognobbono; e il primiero
  • nominarono «Ariete», e il secondo «Tauro», e il terzo «Gemini», e cosí
  • susseguentemente infino al dodicesimo, il quale nominaron «Pesci».
  • È il vero che essi gli discrissero al contrario del movimento del
  • cielo ottavo; e questo fecero, percioché, come il cielo ottavo con
  • tutti gli altri cieli insieme si muove naturalmente da levante a
  • ponente, cosí quegli segni, o l’ordine di quegli, procede da ponente a
  • levante, percioché per esso cerchio, nel quale i predetti segni sono
  • discritti, fanno lor corso tutti e sette i pianeti, e naturalmente
  • vanno da ponente a levante: per la qual cosa segue che, essendo il sole
  • nel segno d’Ariete e surgendo dall’emisperio inferiore al superiore,
  • si leverá prima di lui il segno de’ Pesci, e in esso sará l’aurora;
  • e cosí vuol qui l’autore dimostrare per i Pesci, li quali dice che
  • guizzano, cioè surgono su per l’orizzonte orientale, dimostrar la
  • prossima elevazion del sole, e cosí essere in su il farsi dí. Ma,
  • percioché questa dimostrazione non bastava a dimostrar questo tanto
  • pienamente (e la ragione è perché il segno de’ Pesci potrebbe essere
  • stato in su l’orizzonte occidentale, e cosí dimostrerebbe esser vicino
  • di doversi far notte), aggiunge l’autore la seconda dimostrazione, la
  • quale stante, non può il segno de’ Pesci, essendo in su l’orizzonte,
  • dimostrare altro se non il sole esser propinquo a doversi levare
  • sopra ’l nostro emisperio; e avendo detto: «i Pesci guizzan su per
  • l’orizzonte», cioè su per quel cerchio che divide l’uno emisperio
  • dall’altro, il qual si chiama «orizzonte» (che tanto vuol dire quanto
  • «finitore del nostro vedere», percioché piú oltre veder non possiamo),
  • dice: «E ’l carro tutto sovra il coro giace».
  • Ad intelletto della qual dimostrazione è da sapere che, comeché il
  • vento non sia altro che un semplice spirito, creato da esalazioni
  • della terra e da fredde nuvole esistenti nell’aere, egli ha nondimeno
  • tanti nomi, quante sono le regioni dalle quali si conosce esser mosso,
  • e quinci molti per molti nomi il nominarono; ma ultimamente pare per
  • l’autoritá de’ navicanti, li quali piú con essi esercitano la loro
  • arte, essere rimasi in otto nomi, e cosí dicono essere otto venti: de’
  • quali il primo chiamano «settentrione» ovvero «tramontana», percioché
  • da quella plaga del mondo spira verso il mezzodí; il seguente chiamano
  • «vulturno» ovvero «greco», il quale è tra ’l settentrione e ’l levante;
  • il terzo chiamano «euro» o «levante», percioché di levante spira verso
  • ponente; il quarto chiamano «euro auster» ovvero «scilocco», il quale
  • è tra levante e mezzodí; il quinto chiamano «austro» ovvero «mezzodí»,
  • percioché dal mezzodí soffia verso tramontana; il sesto chiamano
  • «libeccio» ovvero «gherbino», il quale è tra ’l mezzodí e ’l ponente;
  • il settimo chiamano «zeffiro» ovvero «ponente», percioché di ver’
  • ponente spira verso levante; l’ottavo chiamano «coro» ovvero «maestro»,
  • il quale è tra ponente e tramontana. E chiamasi coro, percioché compie
  • il cerchio, il quale viene ad essere in modo di coro, cioè di quella
  • spezie di ballo il quale è chiamato «corea». Adunque dice l’autore
  • sopra questo coro giacere allora, cioè esser tutto riversato, il carro;
  • la qual cosa mai in quella stagione, cioè del mese di marzo, ad alcuna
  • ora avvenir non può, né avviene, se non quando il sole è vicino a
  • doversi levare; e cosí questa dimostrazione ne fa aver certa fede di
  • quello che intenda l’autore per la primiera.
  • Ed è questo carro un ordine di sette stelle assai chiare e belle,
  • le quali si giran col cielo, non guari lontane alla tramontana; e
  • per ciò sono chiamate «carro», perché le quattro son poste in figura
  • quadrata a modo che è un carro, e le tre son poi distese, nella guisa
  • che è il timone del carro, fuor del carro. E sono queste sette stelle
  • poste nella figura d’uno animale, il quale gli antichi tra piú altri
  • figurarono, immaginando essere in cielo, chiamato «Orsa maggiore», a
  • differenza d’un’altra Orsa, la quale è ivi propinqua, e chiamasi «Orsa
  • minore»; nella coda della quale è quella stella la qual noi chiamiamo
  • «tramontana».
  • E, poiché Virgilio gli ha per queste discrizioni mostrato ch’egli è
  • vicino al dí (donde noi possiam comprendere giá l’autore essere stato
  • in inferno presso di dodici ore, percioché egli si mosse in sul far
  • della notte, come nel principio del secondo canto del presente libro
  • appare), ed egli gli soggiugne un’altra cagione, per la quale l’andare
  • omai gli piace, dicendo: «E’l balzo», di questa ripa, «via lá oltre»,
  • lontan di qui, «si dismonta»,—volendo per questo, che non sia da star
  • piú, poiché molta via resta ad andare.
  • In questo canto non è cosa alcuna che nasconda allegoria.
  • CANTO DECIMOSECONDO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. XLIV]
  • «Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Continuasi il presente
  • canto al precedente assai evidentemente, percioché, avendogli
  • mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dello ’nferno, e
  • sollecitandolo a continuare il cammino, e mostratogli il balzo lontano
  • a loro smontarsi; qui ne dimostra come, a quello luogo pervenuti, qual
  • fosse la qualitá del luogo, per lo quale a scendere aveano. E dividesi
  • il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la
  • qualitá del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello
  • trovassero; nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di
  • quella scesa gli ragiona Virgilio; nella terza discrive come Virgilio
  • gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse;
  • nella quarta mostra come Virgilio parlasse a’ centauri che ’l fiume
  • circuivano, e fossenegli un conceduto per guida; nella quinta dice
  • come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni
  • e de’ rubatori; nella sesta e ultima come, avendo il centauro passato
  • l’autore dall ’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro. La
  • seconda comincia quivi: «Cosí prendemmo via»; la terza quivi: «Ma ficca
  • gli occhi»; la quarta quivi: «Vedendoci calar»; la quinta quivi: «Noi
  • ci movemmo»; la sesta e ultima quivi: «Poi si rivolse». Dice adunque:
  • «Era lo loco», ove la lettera si vuole cosí ordinare: «Lo loco, ove
  • venimmo a scender la riva, era alpestro». Dice la «riva», intendendo
  • per la «ripa»; e questo dico, percioché molti fanno distinzione tra
  • «riva» e «ripa», chiamando «riva» quella del fiume, e «ripa» gli argini
  • che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in
  • luoghi declivi, per li quali d’alcun luogo alto si scende al piú basso,
  • come era in questo luogo. E dice questo luogo essere «alpestro», cioè
  • senza alcun ordinato sentiero o via, sí come noi il piú veggiamo i
  • trarupi dell’alpi e de’ luoghi salvatichi. E, oltre a ciò, dice ch’è
  • «tal, per quel ch’ivi er’anco», cioè per lo Minotauro, che in quel
  • luogo giacea come appresso si dimostra; «Che ogni vista ne sarebbe
  • schiva», a doverlo riguardare. E, per piú aprirne la qualitá del luogo,
  • nel dimostra per un esempio, e dice che egli era tale, «Qual è quella
  • ruina, che nel fianco Di lá da Trento l’Adice percosse».
  • È questa una ruina, la qual si truova andando da Trento, cittá di
  • Lombardia, verso Tiralli su per l’Adice, la quale alla sommitá d’un
  • monte discende tutta in su la riva dell’Adice. E la cagione di questa
  • ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose: o l’essere
  • stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale,
  • scendendo delle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con
  • velocissimo e impetuoso corso, e cosí, percotendo il monte, il qual non
  • è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede; o veramente
  • cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada,
  • come assai ne caggion per lo mondo; o cadde per mancamento di sostegno.
  • È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre
  • acqua, la quale, evaporando e umettando le parti superiori delle
  • caverne, sempre le rodono e indeboliscono; per che avvien talvolta che,
  • premute molto dal peso superiore, non potendolo sostener piú, cascano,
  • e cosí casca quel che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le
  • voragini, le quali abbiamo udito o lette essere in alcun luogo avvenute.
  • E avendo adunque l’autor detto: «l’Adice percosse», pone l’altre due
  • cagioni per le quali poté avvenire, dicendo: «O per tremuoto, o per
  • sostegno manco». È il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre
  • della terra, il quale, essendo molto e volendo uscir del luogo nel
  • quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall’una
  • parte all’altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti
  • tremare; ed è talvolta il triemito di tanta potenza, che egli fa cadere
  • gli edifici e le cittá, alle quali egli è vicino.
  • Séguita poi l’autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualitá
  • del luogo, e dice: «Che da cima», cioè dalla sommitá, «del monte onde
  • si mosse», quella ruina della qual parla, «Al piano, è sí la roccia
  • discoscesa, Ch’alcuna via darebbe», a venir giuso al piano, «a chi
  • su fosse», cioè sopra ’l monte: «Cotal di quel burrato»; «burrati»
  • spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi alpigini
  • e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo, dove
  • venuti erano, «era la scesa» cotale, qual del monte trarupato che
  • dimostrato ha; «E ’n su la punta», cioè in su la sommitá, «della rotta
  • lacca», cioè ripa, «L’infamia di Creti era distesa», cioè il Minotauro,
  • la cui concezione fu sí fuori de’ termini naturali e abominevole, che
  • all’isola di Creti, nella quale esso fu, secondo le favole, generato,
  • ne seguí perpetua infamia; «Che fu concetta», questa infamia di
  • Creti, «nella falsa vacca», cioè in una vacca di legno, come appresso
  • dimostrerò.
  • [È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro,
  • dove si tratta di Minos, è detto, che, volendo Minos andare sopra gli
  • ateniesi a vendicare la morte d’Androgeo, suo figliuolo, il quale essi
  • e’ megarensi avevano per invidia ucciso; domandò a Giove, suo padre,
  • che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, sí come degna
  • vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui priego Giove gli
  • mandò un toro bianchissimo e bello, il qual toro piacque tanto a Minos
  • che esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armenti
  • suoi. Di che seguí che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del
  • Sole, percioché da lui era stato manifestato a Vulcano, suo marito, e
  • agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con Marte, fece che
  • Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s’innamorò di questo toro
  • cosí bello; e, andato Minos ad Atene, ella pregò Dedalo, il quale era
  • ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse
  • giacere con questo toro. Per la qual cosa Dedalo fece una vacca di
  • legno vota dentro, e, fatta uccidere una vacca, la qual parea che oltre
  • ad ogni altra dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di
  • quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro
  • e stare in guisa che, estimando il toro questa esser la vacca amata
  • da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiungimento dicono si
  • creò, e poi nacque, una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro.
  • Il qual cresciuto, e divenuto ferocissimo animale e di maravigliosa
  • forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata
  • «laberinto», e in quella mandava a lui tutti coloro li quali voleva
  • far crudelmente morire; e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed
  • essendovi, sí come in sorte toccato gli era, venuto Teseo, figliuolo
  • d’Egeo, re d’Atene, e quivi dimorato alcun dí, e in quegli Adriana,
  • figliuola di Minos e di Pasife, innamoratasi di lui, e avendo avuta la
  • sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl’insegnò
  • come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro
  • ad uno spago se ne tornasse fuori della prigione. La qual cosa Teseo
  • fece; e, giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece
  • incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa,
  • la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo, datogli d’un
  • bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da
  • Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e cosí uscito
  • del laberinto, con Adriana e con Fedra, sua sorella, occultamente
  • partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene. E cosí, predetta questa
  • favola, piú lievemente comprender si può il testo che segue, il qual
  • dice:]
  • «E quando», quel Minotauro, «vide noi», che venivamo, «se stesso morse,
  • Si come quei», si morde, «cui l’ira dentro fiacca», cioè rompe e divide
  • dalla ragione, dalla quale lasciato, in se medesimo bestialmente
  • incrudelisce.
  • Ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere
  • qual sia la qualitá de’ peccatori, che nel cerchio dove discendono
  • si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere
  • bestiale, poiché, per l’animal preposto al luogo, convenientemente,
  • sí per la generazione e sí per gli atti, la bestialitá si discrive.
  • Appresso è da comprendere quello nella entrata di questo cerchio
  • settimo opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è
  • dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun dimonio, il quale o con
  • atti o con parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per
  • paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio piú volte
  • sarebbe stato rimosso, se i buoni conforti e l’aiuto della ragione non
  • l’avesse, nella persona di Virgilio, aiutato.
  • Séguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa
  • fiera bestia mordendosi, a reprimer quella dicesse, accioché spazio
  • desse di passare all’autore, e però dice: «Lo savio mio Virgilio
  • gridò», cioè parlò forte verso il Minotauro: «—Forse Tu credi, che
  • qui sia ’l duca d’Atene», cioè Teseo, «Che su nel mondo la morte ti
  • porse?», come nella fine della favola detta di sopra si contiene.
  • «Partiti, bestia», del luogo dove tu se’ per impedire il passo a
  • costui che mi segue, «che questi», il qual tu vedi meco, «non viene
  • Ammaestrato dalla tua sorella», cioè Adriana, come venne Teseo, il
  • qual t’uccise, «Ma vassi», come è piacer di Dio, «per veder le vostre
  • pene»,—di te e degli altri.
  • E, queste parole dette, ne mostra l’autore per una comparazione quello
  • che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice: «Qual è quel
  • toro, che si slaccia», cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da
  • coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, «in quella»,
  • ora, «C’ha ricevuto giá il colpo mortale. Che gir non sa», percioché,
  • avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro e perduta la ragione
  • delle virtú sensitive, ed eziandio perduto l’ordine dell’appetito, il
  • quale a niun diterminato fine ora il sa menare, e perciò non va, «ma
  • qua e lá saltella», come l’impeto del dolore il sospigne; «Vid’io il
  • Minotauro far cotale», cioè senza saper che si fare, o dove andare,
  • andar saltando e furiando; «E quegli», cioè Virgilio, «accorto gridò»,
  • cioè avvedutamente mi disse:—«Corri al varco», donde vedi si può
  • discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava; «Mentre
  • ch’è ’n furia, è buon che tu ti cale», quasi voglia dire: quando in
  • furia non fosse, sarebbe piú difficile il poter discendere; e in
  • ciò n’ammaestra alcuno altro consiglio non essere migliore, quando
  • l’iracundo in tanta ira s’è acceso che furioso è divenuto, che il
  • partirsi e lasciarlo stare.
  • «Cosí prendemmo». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
  • nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella
  • scesa gli ragiona Virgilio. Dice adunque: «Cosí prendemmo via», essendo
  • il Minotauro in furia, «su per lo scarco, Di quelle pietre», le quali
  • erano dalla sommitá di quello scoglio cadute, come caggiono le cose
  • che talvolta si scaricano, «che spesso moviensi Sotto i mie’ piedi per
  • lo nuovo carco», cioè per me, il quale andando le caricava e premeva,
  • percioché era uomo: il che far non sogliono gli spiriti; e però dice
  • «nuovo carco», perché non era usato per quel cammino d’andare persona
  • viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse.
  • «Io giá pensando»: qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier
  • dell’autore per avviso, non giá che altra certezza n’avesse, e però
  • dice: «e que’ disse:—Tu pensi Forse a questa ruina, ch’è guardata Da
  • quell’ira bestial, ch’io ora spensi», come sia potuta avvenire, avendo
  • riguardo al luogo, nel quale tu non estimi dover potere esser quelle
  • alterazioni, le quali sono vicino alla superficie della terra. [E oltre
  • a ciò, percioché dice «da quella ira bestiale», potrebbe alcun dire:
  • se quello Minotauro era iracundo, non pare che l’autore il dovesse in
  • questo luogo discrivere, ma piú tosto di sopra nella palude di Stige,
  • dove punisce gli altri iracundi; ma questo dubbio assai ben si mostra
  • soluto per l’adiettivo il quale dá a questa ira, chiamandola «ira
  • bestiale». La quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i
  • termini dell’ira umana, che ella è trasandata nella bestialitá, e per
  • conseguente convertita in ostinato odio; e perciò attamente esser posta
  • alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali.]
  • Ma Virgilio, a solvere l’autore del suo pensiero [il qual, tacendo,
  • confessa esser per quella cagione che Virgilio dice], comincia,
  • continuandosi cosí: «Or vo’ che sappi che, l’altra fiata Ch’io discesi
  • quaggiú nel basso inferno», come di sopra è stato detto nel canto nono,
  • «Questa roccia non era ancor cascata»; e perciò gli dimostra quando
  • avvisa che ella dovesse cascare, dicendo: «Ma certo poco pria, se ben
  • discerno», immaginando, «Che venisse colui», cioè Cristo, «che la gran
  • preda», cioè i santi padri, «Levò a Dite», cioè al principe de’ dimòni
  • (il quale, quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è
  • chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’_Eneida_, dove
  • dice: «_inferni regia Ditis_»), «del cerchio su perno», cioè del limbo,
  • il quale è il primo cerchio dello ’nferno.
  • E perciò dice Virgilio:—Poco prima che venisse Cristo a spogliar il
  • limbo,—percioché, secondo che noi fermamente crediamo, Cristo morí in
  • su la croce all’ora nona del venerdí, nella quale ora, tra l’altre cose
  • che apparvero maravigliose, fu che la terra tutta universalmente tremò,
  • che per alcuno altro tremuoto mai avvenne; e allora, tremando tutta,
  • tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer
  • maraviglia se alcune delle sotterranee cascarono. E questo tempo fu
  • poco prima che Cristo scendesse al limbo, percioché l’anima di Cristo
  • non vi scese come del corpo di Cristo uscí, ma andò in paradiso, si
  • come assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette su
  • la croce al ladrone: «_Amen, dico tibi, hodie mecum eris in paradiso_»,
  • ecc. ecc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l’aurora,
  • risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria
  • coronato, percioché, risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò
  • il limbo: sí che egli fu tanto spazio di tempo dal tremuoto universale
  • allo spogliar lo ’nferno, quanto fu tra l’ora nona del venerdí e la
  • prima della domenica. E questo è quel «poco prima» che Virgilio dice
  • qui.
  • Poi séguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho
  • giá dichiarato, cioè: «Da tutte parti», e in questo ne dimostra
  • l’universalitá del tremuoto, «l’alta», cioè profonda, «valle feda»,
  • puzzolente d’inferno, «Tremò sí», cioè oltremodo, «ch’io pensai che
  • l’universo», cioè il mondo tutto, «Sentisse amor».
  • Qui è da ritornarsi alla memoria l’opinione, la quale di sopra
  • raccontai nel canto quarto essere stata di Democrito, il qual tenne
  • esser due princípi a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva
  • in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le
  • cose, la quale egli appellava «caos», e in questa materia diceva essere
  • i semi di tutte le cose; e quelle, che produtte vedevamo e avere certa
  • e distinta forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos e
  • perseverare nelle loro generazioni e spezie; e questo diceva essere
  • odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate,
  • quasi come da cosa non ben convenientesi con lei. Poi diceva cosí: come
  • ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, cosí dopo
  • molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e
  • riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale
  • aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto
  • ciascuna cosa, sí come insieme riconciliate, si ritornava e univa col
  • suo principio. E per questo dice Virgilio che, perché egli sentí questo
  • tremuoto universale, il qual mai piú non avea sentito né avea udito da
  • alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi credette che l’universo,
  • cioè tutte le cose, sentissero questo amore, che detto è, e dovessersi
  • ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma
  • risoluto.
  • E quinci, volendo mostrare questa non essere sua opinione, ma d’altrui,
  • dice: «per lo quale», amore, «è chi creda», cioè Democrito e i suoi
  • seguaci, «Piú volte il mondo in caos converso», nella maniera che
  • di sopra è detta. «E in quel punto», che questo tremuoto universale
  • fu, «questa vecchia roccia, Qui», dove noi siamo, «ed altrove», come
  • appresso si dirá nel ventunesimo canto del presente libro, «tal fece
  • riverso», qual tu puoi vedere.
  • [Lez. XLV]
  • «Ma ficca gli occhi». Qui, finita la seconda parte, comincia la terza
  • del presente canto, nella quale l’autor discrive come Virgilio gli
  • mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse; e dice
  • che, poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella
  • roccia, alla quale esso pensava, gli dice: «Ma ficca gli occhi a valle,
  • ché s’approccia La riviera», cioè il fiume o ’l fosso, «del sangue, in
  • la qual bolle»; e questo, percioché quel sangue era boglientissimo;
  • «Qual che per violenza in altrui noccia»,—rubando o uccidendo; e cosí
  • appare questa essere la prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra
  • è detto. La qual riviera del sangue come l’autor vide, cosí contra i
  • vizi, da’ quali si può comprendere questa spezie di violenza esser
  • causata, leva la voce, ed esclamando dice:
  • «O cieca cupidigia», cioè disiderio d’avere; e cosí apparirá radice di
  • questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra,
  • dove dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito
  • d’avere, inducer gli uomini alle violenze e alle ruberie. Poi segue a
  • dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual
  • si fa nel sangue del prossimo, dicendo: «o ira folle», cioè pazza e
  • bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori;
  • percioché i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar vogliono, o
  • da alcuna parola loro non grata commossi, vengono all’uccisione, e cosí
  • fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo. Segue adunque:
  • «Che sí ci sproni»; e questo «sproni», il quale è in numero singulare,
  • si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione,
  • («O cieca cupidigia»), e poi si riferisce alla seconda parte («o ira
  • folle»), «nella vita corta», cioè in questa vita mortale, la quale, per
  • rispetto della eternitá, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe
  • dire essere un batter di ciglia; «E nell’eterna poi», cioè in quella
  • nella quale, cosí peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio
  • dannati, «sí mal c’immolle», cioè ci bagni, come appare nel tormento
  • de’ miseri, li quali nel sangue bolliti sono. E vogliono alcuni, in
  • questo condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa
  • peccatore; e però, vedendo il giudicio di Dio, sentirsene per paura
  • compunzione e dolore.
  • Ma poi che egli ha detto contro a’ due vizi, li quali son cagione
  • della violenza che nelle cose e nella persona del prossimo si commette,
  • ed egli piú appieno discrive la qualitá del luogo, nella quale i
  • miseri son puniti, dicendo: «Io vidi un’ampia fossa», cioè un fiume,
  • «in arco torta, Come quella che tutto il piano», del settimo cerchio,
  • «abbraccia», col girar suo, «Secondo ch’avea detto la mia scorta». Dove
  • questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse
  • tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere lui averlo detto in
  • alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l’autore non l’avere
  • scritto. «E tra ’l piè della ripa», la quale circundava il luogo,
  • «ad essa», fossa, «in traccia, Venien centauri armati di saette»,
  • (_supple_) e d’archi (percioché invano si porteria la saetta, se l’uomo
  • non avesse l’arco), «Come solean nel mondo», quando vivevano, «andare a
  • caccia». Che animali sieno i centauri, e come nati, e perché qui posti,
  • si dimostrerá dove si dirá il senso allegorico.
  • «Vedendoci calar». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
  • nella quale, poi che l’autore ha dimostrata la qualitá del luogo dove
  • si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’
  • centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto
  • per guida. Dice adunque: «Vedendoci», i centauri; [e dice «vedendoci»,
  • percioché l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare, tutte le
  • pietre di quel trarupo, donde discendeva giú, sopra le quali poneva i
  • piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti; mosse i centauri per
  • maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire,] «calar»,
  • cioè discendere, «ciascun», de’ centauri, «ristette, E della schiera
  • tre si dipartiro», venendo verso loro, «Con archi ed asticciuole», cioè
  • saette, «prima elette», cioè tratte del turcasso o d’altra parte, ove
  • per avventura le portavano. «E l’un», di que’ tre, «gridò da lungi:—A
  • qual martiro Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci», ove
  • voi siete, «se non», (_supple_) il direte, «l’arco tiro»;—quasi voglia
  • dire: io vi saetterò.
  • «Lo mio maestro disse:—La risposta Farem noi a Chirón», cioè a quel
  • centauro il quale è preposto di voi. E poi, in detestazion della sua
  • troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva
  • fatto al Minotauro, dicendo: «Mal fu», per te, «la voglia tua sempre sí
  • tosta»,—cioè frettolosa. «Poi mi tentò e disse:—Quegli», al quale io
  • ho ora risposto, «è Nesso, Che morí per la bella Deianira, E fe’ di sé
  • la vendetta egli stesso»,—posciaché fu morto.
  • [Fu questo Nesso, tra’ centauri famosissimo, figliuolo d’Issione
  • e d’una nuvola, come gli altri, ed essendo insieme co’ fratelli in
  • Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli suoi insieme riscaldati di
  • vivanda e vino, volle tôrre la moglie a Peritoo; alla difesa della
  • quale si levò Teseo, amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava
  • lapiti, e ucciserne assai. Dalla qual zuffa fuggendo pauroso Nesso,
  • gli disse un de’ suoi compagni, chiamato Astilo, il quale sapeva
  • vaticinare:—Nesso, non ti bisogna cosí frettolosamente fuggire,
  • percioché la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercule.—Per
  • la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e quivi allato ad un fiume
  • chiamato Eveno abitando, amò Deianira, figliuola del re Oeneo di
  • Calidonia. La quale, come appresso si dirá, essendo divenuta moglie
  • d’Ercule, ed Ercule con lei insieme tornandosi verso la patria,
  • trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e
  • vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse
  • prestato a dover potere avere il disiderio suo di Deianira; e fattosi
  • avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercule, disse: —Ercule, dove tu
  • creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la
  • groppa mia ti passerò bene e salvamente di la Deianira.—Alla qual
  • profferta Ercule fu contento. Per la qual cosa, notando Ercule, Nesso
  • con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a
  • fuggir con essa; per la qual cosa Ercule turbato, e pervenuto all’altra
  • riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo.
  • Laonde Nesso, sentendosi ferito mortalmente, percioché sapea le
  • saette d’Ercule tutte essere intinte nel sangue della idra, la quale
  • uccisa avea, e casi essere velenosissime, pensò in vendetta della sua
  • morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camiscia, la
  • quale giá era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito della sua
  • piaga, disse:—Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in
  • riconoscenza del grande amore il quale io t’ho portato e porto, se non
  • questa mia camiscia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli
  • avvenga che Ercule in altra femmina ponga amore, dove tu possi fare
  • vestirgli questo vestimento, egli incontanente rimoverá il suo amore da
  • ogni altra femmina, e ritornerallo in te.—Deianira, credendo questo
  • dovere esser vero, prese la camiscia e guardolla; e ivi a certo tempo,
  • avendo Ercule quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una
  • giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito, re d’Etolia, occultamente
  • adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a
  • cacciare in sul monte Octa, e per la fatica della caccia riscaldatosi e
  • sudando forte, col sudore bagnò il sangue secco, e quello, liquefatto,
  • gli entrò per i pori, e misegli una sí fatta rabbia addosso, che esso,
  • composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò dentro e
  • in quel morí. E cosí fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sé
  • egli stesso.]
  • [La bella Deianira fu figliuola d’Oeneo, re di Calidonia, e fu
  • ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani
  • nobili la disiderarono e domandaron per moglie; ma, dopo molte cose,
  • essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad
  • Ercule domandantela, nacque guerra tra Acheloo ed Ercule; ma, essendo
  • Acheloo vinto da Ercule, ne rimase Ercule in pacifica possessione.
  • Dice Teodonzio che la guerra, la qual fu tra Ercule e Acheloo fiume,
  • fu in questa maniera, che, rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e
  • per questo molto alcuna volta per le piove la provincia, crescendo,
  • guastasse, fu ad Ercule, addomandante Deianira, posta da Oeneo, padre
  • di lei, questa condizione, che egli la poteva avere dove recasse
  • Acheloo in un solo alveo, e quello sí d’argini forti chiudesse, che
  • egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercule
  • con grandissima fatica fece, e cosí, essendo vincitore del geminato
  • corso d’ Acheloo, ebbe Deianira, Costei è quella di cui di sopra è
  • detto, che ad Ercule mandò la camiscia di Nesso.]
  • «E quel», centauro, «di mezzo ch’al petto si mira. È ’l gran Chirone,
  • il qual nudrí Achille». [Questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione,
  • ma fu, secondo che ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira,
  • comeché Lattanzio dica che la madre di lui fosse Pelopea; e della sua
  • origine si recita questa favola: che Saturno, preso della bellezza
  • di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondo che dice Servio, che,
  • giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis, sua moglie, e
  • perciò, accioché da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò
  • in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo,
  • partorí un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi
  • in giú era cavallo; il qual cresciuto, se ne andò alle selve e in
  • quelle abitò e in quelle nudrí Achille, come di sopra si disse, dove
  • d’Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi, essendo stato dal
  • padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe, sua figliuola
  • profetante, predetto che esso ancora disidererebbe d’esser mortale;
  • avvenne che, avendolo visitato Ercule, per caso gli cadde sopra il piè
  • una delle saette d’Ercule, le quali, come di sopra è detto, tutte erano
  • avvelenate nel sangue di quella idra lernea, la quale uccisa avea; ed
  • essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato,
  • accioché compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar
  • gl’iddii che il facessero mortale, accioché egli potesse morire: la
  • qual grazia gli fu conceduta. Laonde egli si morí, e dopo la morte sua
  • fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco,
  • ed è quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario.]
  • «Quell’altro è Folo, che fu sí pien d’ira». Di questo Folo niuna cosa
  • abbiamo se non che esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli
  • altri centauri.
  • «Dintorno al fosso», nel quale i violenti bollono nel sangue, «vanno a
  • mille a mille, Saettando quale anima», de’ miseri dannati, «si svelle
  • Del sangue», cioè esce, «piú che sua colpa sortille». E per queste
  • parole, e ancora per piú altre seguenti, appare che, secondo che la
  • violenza commessa è stata piú e men grave, ha la giustizia di Dio
  • voluto l’anime in quel sangue bogliente essere piú e meno tuffate.
  • «Noi ci appressammo a quelle fiere snelle», cioè leggieri; e chiamagli
  • «fiere», percioché sono mezzi uomini e mezze bestie. «Chirón prese uno
  • strale», cioè una saetta, «e con la cocca», di quello, «Fece la barba»,
  • la quale gli ricuopriva la bocca, «indietro alle mascelle»; e ciò fece,
  • accioché essa non impedisse le sue parole.
  • «Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, Disse ai compagni:—Siete voi
  • accorti Che quel di dietro», che era l’autore, «muove», co’ piedi, «ciò
  • che tocca?» andando. «Cosí non soglion fare i piè de’ morti», cioè
  • dell’anime partite da’ corpi morti.
  • «E ’l mio buon duca, che giá gli era al petto», pervenuto, «Ove le due
  • nature», cioè l’umana e la bestiale, «son consorti», per congiunzione,
  • «Rispose:—Ben è vero», che egli muove ogni cosa che tocca, percioché
  • egli è vivo, «e sí soletto», come tu mi vedi, «Mostrargli mi convien la
  • valle buia», d’inferno; «Necessitá il conduce», in quanto, come altra
  • volta è detto, è di necessitá in questa forma, nella quale va l’autore,
  • andare a chi vuole uscire della prigione del diavolo; «e non diletto»,
  • ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.
  • «Tal si partí da cantare _alleluia_»: e questa fu Beatrice, la quale,
  • lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al
  • soccorso dell’autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato
  • detto.
  • [«_Alleluia_» è dizione ebraica, e secondo alcuni è «_interiectio
  • laetantis_»; ma Papia dice che «_alleluia_» in latino vuol dire «laude
  • di Dio»; o vero che ella abbia ad espriemere «laudate Iddio»; e oltre
  • a ciò, questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno:
  • «cantate a colui il quale è», e cosí c’invita alla laude di questo
  • Iddio il quale è, percioché per addietro cantavamo, essendo gentili, a
  • quegli iddii li quali non erano: e l’altro modo è: «Iddio, benedicci
  • tutti in uno»; e questo percioché tutti siamo insieme in uno per fede
  • e umanitá, e cosí siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno
  • loro interpretazioni, le quali sarebbon molto lunghe, volendole tutte
  • mostrare.]
  • «Che mi commise quest’ufficio nuovo», e disusato, cioè d’accompagnare
  • uom vivo per lo ’nferno. E, déttogli questo, risponde alla domanda poco
  • avanti fatta da Nesso, quando domandò «a qual martíro venite voi»,
  • mostrandogli che essi non discendono ad alcun martíro, e però dice:
  • «Non è ladron», costui il qual io guido; e dice «ladrone», percioché
  • nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni; «né io anima fuia», quasi
  • dica: né io altresí son ladrone; percioché noi quelle femmine, le quali
  • son fure, noi chiamiam «fuie». E, poiché egli gli ha discoverta la lor
  • condizione, ed egli il priega gli dea alcun pedoto al cammino, e che
  • trapassi l’autore al valico del fossato, e dice: «Ma per quella virtú,
  • per cui io muovo Li passi miei per sí selvaggia strada», cioè per la
  • virtú di Dio, «Danne un de’ tuoi», centauri, «a cui noi siamo a provo»,
  • cioè allato; accioché da alcuno altro non possiamo essere impediti, e
  • «Che ne dimostri lá dove si guada», questo fiume, «E che porti costui
  • in su la groppa», accioché al passar non si cuoca, «Che non è spirto
  • che per l’aer vada»,—come fo io e gli altri.
  • «Chíron si volse in su la destra poppa», udito il priego di Virgilio,
  • «E disse a Nesso:—Torna, e si gli guida, E fa’ cansar», cioè cessare,
  • «s’altra schiera v’intoppa»,—cioè vi si scontra, di centauri.
  • [Lez. XLVI]
  • «Noi ci movemmo». Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella
  • quale, avendo Virgilio certificati i centauri della lor qualitá, dice
  • l’autore come, seguendo il centauro, esso dimostrasse loro le pene
  • de’ tiranni e de’ rubatori. E comincia: «Noi ci movemmo con la scorta
  • fida», cioè con Nesso, «Lungo la proda del bollor vermiglio», cioè del
  • sangue il quale in quella fossa bolliva, «Ove i bolliti faceano alte
  • strida», per lo dolore il qual sentivano. «Io vidi», in quel sangue
  • bogliente, «gente sotto infino al ciglio», cioè infino a tutti gli
  • occhi, «E’ l gran centauro», cioè Nesso, «disse:—E’ son tiranni»,
  • quegli che bollono e che fanno cosí alte strida, per ciò «Che dier
  • nel sangue», uccidendo ingiustamente il prossimo, «e nell’aver», del
  • prossimo, «di piglio», rubando e occupando come non dovevano. «Quivi
  • si piangon gli spietati danni», da questi cotali tiranni dati nelle
  • persone e nell’avere del prossimo; «Quivi», tra questi tiranni che io
  • ti dico che piangono, «è Alessandro».
  • Non dice l’autore quale, conciosiacosaché assai tiranni stati sieno, li
  • quali questo nome hanno avuto; e, peroché nel maggiore si contengono
  • tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere che egli abbia
  • voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò, di lui sentendo,
  • chi el fosse e delle sue opere succintamente diremo.
  • Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo, re di Macedonia,
  • e d’Olimpia, sua moglie, comeché alcuni voglian credere che egli non
  • fosse figliuolo di Filippo, ma piú tosto di Nettabo, re d’Egitto,
  • il qual, cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella
  • dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e come che questo
  • non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo giá
  • Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli
  • addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra;
  • né guari tempo visse, poiché, per quello che si credesse, per opera di
  • Olimpia egli fu da Pausania ucciso. Dopo la morte del quale, rimaso
  • Alessandro, sí come suo figliuolo, re di Macedonia, essendo giovane
  • di grande e d’ardente animo, primieramente i greci ribellantisi si
  • sottomise, e, disfatta la cittá di Tebe, a dare compimento alla guerra
  • contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede
  • opera; e, fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava
  • non movessero in Macedonia alcuna novitá, essendo egli lontano, con
  • quattromiladugento cavalieri e con trentadue migliaia di pedoni, non
  • solamente Asia, ma tutto il mondo ardí d’assalire. E, pervenuto in
  • Frigia, ed entrato in una cittá chiamata Gordia, e quivi nel tempio di
  • Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere
  • i legami di quello, percioché udito avea che gli oracoli antichi
  • avevan detto che, chi quegli sciogliesse, sarebbe signor d’Asia; e,
  • non trovando il modo da scioglierli, messo mano ad un coltello, li
  • tagliò, e cosí li sciolse. Quindi, passato il monte Tauro, in piú parti
  • con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo piú
  • volte combatté, e fu sempre vincitore, e, avendo presa la moglie e’
  • figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato
  • ucciso, prese Persia; e quindi, ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in
  • Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi
  • reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni, trapassò
  • in India. Quivi vinto Poro re e molte nazioni, e piú cittá edificate
  • in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette
  • opportuno, andò ad Agisine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si
  • discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni,
  • navicò agli ambri e a’ sicambri, li quali non senza suo gran pericolo
  • vinti, messi nelle sue navi molti de’ suoi, li quali estimò piú
  • valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in
  • Babilonia, ed esso pervenuto alla cittá d’un re chiamato Ambigeri, lui,
  • ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse; e di quindi
  • venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume
  • chiamato Indo; e quindi per terra venendone, se ne tornò a Babilonia,
  • dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E, mentre
  • che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato come gli ambasciadori
  • de’ cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di piú cittá di
  • Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardigna e di Cicilia, lui attendevano
  • in Babilonia, li quali, spaventati dalle gran cose che da lui fatte
  • si dicevano, disideravano la grazia e l’amistá sua. I romani non vi
  • mandarono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo _Ab urbe condita_
  • quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i romani avessero potuto
  • resistere alle sue forze o no; e per piú ragioni mostra che i romani
  • e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebber cacciato. Quivi in
  • Babilonia, da Cassandro, figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato
  • veleno, del quale infra pochi dí morí, e lasciò che il corpo suo ne
  • fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito.
  • Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai
  • appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune
  • degli uomini, ma de’ regni e delle libertá degli uomini, violentissimo;
  • e, oltre a ciò, crudelissimo ucciditore non solamente de’ nemici, ma
  • ancora degli amici, de’ quali giá caldo di vino e di vivanda, ne’
  • conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote
  • assai convenientemente credere l’autore aver voluto s’intenda lui in
  • questo ardentissimo sangue esser dannato.
  • «E Dionisio fèro, Che fe’ Cicilia aver dolorosi anni». Furono, secondo
  • che Giustino scrive, due Dionisi, l’un padre e l’altro figliuolo,
  • e ciascun fu pessimo uomo; né appar qui di quale l’autor si voglia
  • dire: e però direm di ciascuno quello che scritto se ne truova. Fu
  • adunque, secondo che Tullio scrive nel quinto libro _De quaestionibus
  • Tusculanis_, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e
  • similmente d’onesto luogo di Seragusa di Cicilia, del quale essendo
  • la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco; per
  • che ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto
  • che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo
  • uomo, oltre a ciascun altro del sangue greco. E avanti che costui,
  • nato e giá d’etá di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa
  • e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana,
  • chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi
  • mostrate tutte le stanze degl’iddii, le quali mentre riguardando
  • andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso
  • e litiginoso, legato con fortissime catene. Per la qual cosa ella
  • domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose
  • celestiali, chi colui fosse; dal quale le parve le fosse risposto colui
  • essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e, come egli fosse
  • sciolto, sarebbe disfacimento di molte cittá. Il qual sogno la donna
  • il di seguente in publico disse a molte persone. Ma poi in processo
  • di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto
  • Dionisio in signore de’ siracusani, e tutti i cittadini a vederlo
  • nella cittá venir corressono, come si suole a cosí fatti avvenimenti;
  • Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide, altamente
  • disse:—Questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove;—il
  • che poi, da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E cosí avendo
  • per la pestilenzia, la quale aveva gli eserciti dei cartaginesi del
  • tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondo
  • che scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra
  • a tutti i greci, li quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con
  • grandissimo esercito; e, fatti molti danni, e vinti i locresi, e
  • guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in
  • compagnia quelle reliquie de’ galli, li quali avevano Roma guasta.
  • Ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di
  • cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti
  • debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo giá trentotto
  • anni regnato.
  • Il quale, secondo che scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel
  • modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo
  • e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna
  • giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del
  • sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii. Ed essendo allevato
  • con certi giovanetti greci, l’usanza de’ quali il dovea trarre
  • ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli, li quali
  • eleggeva in servi, ogni sua fede pose. Ed essendo divenuto signore,
  • in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo. Della qual
  • fu tanto sollecito, che, non volendo, per téma, nelle mani d’alcun
  • barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a
  • radere, e a loro rader si faceva; e, poi che crebbero, sospettando,
  • fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiande e di noci o
  • di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i
  • peli della barba e quegli del capo. E, avendo due mogli, delle quali
  • l’una ebbe nome Aristomaten siragusana, e l’altra Dorida della cittá
  • di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse
  • che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E, avendo circundata la
  • camera nella qual dormia, d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto
  • un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato
  • l’uscio, cosí levava il ponte; e, non avendo ardire di fidarsi nelle
  • comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante,
  • salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di
  • sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori
  • di ciò che diceva, conciosiacosaché uno, nominato Damocle, alcuna
  • volta, parlando della felicitá di lui, raccontasse la copia delle sue
  • ricchezze, la signoria e la maestá e l’abbondanza delle cose e la
  • magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne piú beato di
  • lui; gli disse Dionisio una volta:—O Damocle, percioché io m’accorgo
  • che la vita mia ti piace e diléttati, vuogli provare chente sia la mia
  • fortuna?—Al quale avendo Damocle risposto sé sommamente disiderarlo,
  • comandò Dionisio che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi
  • ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una
  • ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi,
  • li quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e
  • quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere
  • soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a
  • Damocle pareva essere fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di cosí
  • ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato
  • con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra
  • la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle
  • pendesse: per la qual cosa Damocle, veduto quello, né a’ bellissimi
  • servidori, né al reale apparecchiamento riguardava, né stendeva la mano
  • alle dilicate vivande, e giá gli cominciavano a cadere di testa le
  • preziose ghirlande. Laonde egli caramente pregò Dionisio che egli, con
  • sua licenza, si potesse quindi partire, percioché piú non volea quella
  • beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua
  • beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui.
  • Fu, oltre a questo, costui non solamente occupatore e violento de’
  • beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego.
  • Esso, secondo che Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e
  • rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e
  • avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi,
  • li quali con lui erano:—Vedete voi come buon navicare sia conceduto
  • dagl’iddii a’ sacrilegi?—E, avendo tratto alla statua di Giove Olimpio
  • un mantello d’oro, il quale era di grandissimo peso, e messonele uno
  • di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l
  • verno troppo freddo; ma, quello che messo l’avea, era a ciascun de’
  • detti tempi piú atto; e cosí, levata la barba dell’oro alla statua
  • d’Esculapio, affermò non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove
  • si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi piú
  • mense d’oro e d’ariento, nelle quali, secondo il costume greco, era
  • scritto quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo, quando le prendeva,
  • sé usare de’ beni degl’iddii. E, oltre a ciò, molti doni d’oro e care
  • cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi
  • sosteneano, poste sopra quelle da coloro li quali li lor boti mandavano
  • ad esecuzione, prese piú volte, dicendo sé non rubarle, ma prenderle;
  • stolta cosa affermando, non prender quei beni, per li quali sempre gli
  • preghiamo, quando gli si porgono. E questo del primo Dionisio basti
  • aver detto.
  • E, venendo al secondo, scrive Giustino che, essendo il predetto
  • Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi, che ucciso avevano
  • il padre, sostituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di
  • tempo era maggiore che alcun altro suo figliuolo; il quale, come la
  • signoria ebbe presa, per potere aver piú ampio luogo alle crudeltá giá
  • pensate, in quanto poté si fece favorevole il popolo con piú benefici
  • facendogli; e parendoli giá quello avere assai, avanti ogni altra cosa
  • tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a
  • pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver
  • l’animo con titolo alcuno. E, levatisi questi davanti, quasi sicuro
  • si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e
  • ancora in gravissima infermitá degli occhi, intanto che né sole, né
  • polvere, né alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere
  • da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva giá
  • fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma,
  • uccidendo e facendo uccidere or questi e or quegli altri, tutta la
  • cittá riempie’ d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i
  • siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due,
  • se egli dovesse piú tosto o por giú la signoria o resistere con guerra
  • a’ siracusani; ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme,
  • sperante d’arricchire della preda e della ruberia della cittá, di
  • prender la guerra e di discender alla battaglia. Nella quale essendo
  • stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna
  • della battaglia, mandò ambasciadori a’ siracusani, promettendo che
  • esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con li
  • quali esso potesse trattare le convenzioni della pace; e, avendo i
  • siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della cittá, esso,
  • ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i siracusani,
  • mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la cittá: per
  • la qual cosa i cittadini difendendosi e combattendosi per tutto, e
  • vincendo la moltitudine dei cittadini la gente di Dionisio, e perciò
  • esso temendo di non essere nella ròcca assediato, se ne fuggí con ogni
  • suo reale arnese in Italia. E sí come sbandito ricevuto da’ locrensi
  • come compagno, sí come se giustamente in quella regnasse, occupò la
  • ròcca della cittá; e sí come in Siragusa era usato di fare, cosí quivi
  • incominciò ad esercitare la crudeltá; e alla sua libidine faceva
  • rapire le nobili donne de’ maggiori della cittá, e facevasi per forza
  • menare le vergini avanti il giorno delle nozze, e quando quanto a lui
  • piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro; oltre a ciò
  • li piú ricchi della cittá scacciava e rubava, o gli faceva uccidere,
  • e facendo cose ancora assai piú inique. Poi che sei anni ebbe tenuta
  • la signoria di Locri, non avendovi piú che rubare, occultamente e per
  • segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo piú crudele che
  • mai, e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione
  • contro a lui, fu nella ròcca della cittá assediato, dove costretto
  • per patti fatti co’ siracusani, lasciata la signoria, povero e misero
  • n’andò in esilio a Corinto; e quivi, per sicurtá della vita sua, datosi
  • alle piú infime e misere cose che poté, ne’ vilissimi luoghi e con
  • vilissimi uomini dimorava, male e vilmente vestito; e ultimamente si
  • diede a insegnar giucare alla palla a’ fanciulli; e in cosí fatta guisa
  • vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua
  • vita. Per le quali malvagitá e violenze, cosí nel sangue come nell’aver
  • del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo; e
  • percioché non come re ma come tiranni signoreggiarono: meritamente
  • l’autore qui, nel sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti
  • nel dimostra.
  • «E quella fronte, c’ha il pel cosí nero, È Azzolino». Costui chiama
  • Musatto padovano in una sua tragedia _Ecerino_, ed è quello Azzolino,
  • il quale noi chiamiamo Azzolino «di Romano», e cosí similmente il
  • cognomina il predetto Musatto; e, secondo scrive Giovanni Villani, egli
  • fu gentile uomo di legnaggio. Fu adunque costui potentissimo tiranno
  • nella Marca trivigiana, e, per quello che si sappia, egli tenne la
  • signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini
  • e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo, e massimamente
  • de’ padovani, de’ quali ad un’ora avendone nel prato di Padova
  • rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere. E di
  • questa arsione si dice questa novella: che, avendo egli un suo notaio,
  • o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo
  • segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo
  • far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel
  • palancato erano legati. Gli rispose ser Aldobrandino che di tutti aveva
  • ordinatamente il nome in un suo quaderno, il quale aveva appresso di
  • sé.—Adunque—disse Azzolino,—avendomi il diavolo fatte molte grazie,
  • io intendo di fargli un bello e un grande presente di tutte l’anime di
  • costoro che legati sono; né so chi questo si possa far meglio di te,
  • poiché di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro,
  • e nominatamente da mia parte gliele presenta.—E, fattolo menar lá
  • col suo quaderno, insieme con gli altri il fece ardere. Ultimamente,
  • avendo molte crudeltá operate, andando con molta gente per prendere
  • Melano, trovò al fiume d’Adda il marchese Palavicino con gente essergli
  • venuto all’incontro, e aver preso il ponte donde Azzolino credeva poter
  • passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto
  • per lo fiume, furono dai nemici ricevuti con loro grande svantaggio,
  • e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone
  • in Casciano, un castello ivi vicino, dove mai né mangiar volle, né
  • bere, né lasciarsi curare; e cosí si morí nel 1260, e fu onorevolmente
  • seppellito nel castello di Solcino. E percioché violentissimo fu, come
  • mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bollire e esser dannato.
  • [Lez. XLVII]
  • «E quell’altro, ch’ è biondo, È Opizzo da Esti, il qual per vero Fu
  • spento dal figliastro sú nel mondo». Questo Opizzo da Esti dice alcuno
  • che fu dei marchesi da Esti, li quali noi chiamiamo da Ferrara, e fu
  • fatto per la Chiesa marchese della Marca d’Ancona, nella quale, piú la
  • violenza che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con
  • l’aiuto di suoi amici occupò la cittá di Ferrara, e cacciò di quella
  • la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e,
  • appresso questo, per piú sicuramente signoreggiare, similmente ne
  • cacciò de’ suoi congiunti; ultimamente dice lui una notte esser costui
  • stato, da Azzo suo figliuolo, con un piumaccio affogato. Ma l’autor
  • mostra di voler seguire quello che giá da molti si disse, cioè questo
  • Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo
  • figliuolo; volendo questi cotali la marchesana moglie d’Opizzo averlo
  • conceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo
  • l’avesse: e perciò dice l’autore «Fu spento», cioè morto, «dal
  • figliastro». E, percioché violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide
  • e rubatori il dimostra esser dannato.
  • «Allor mi volsi al poeta», per veder quello che gli paresse di ciò
  • che il centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, «e que’
  • disse:—Questi ti sia or primo», cioè dimostratore, «ed io secondo».—E
  • vuole in questo affermar Virgilio che al centauro sia da dar fede a
  • quel che dice.
  • «Poco piú oltre il centauro s’affisse Sovr’una gente che ’nfino alla
  • gola Parca che di quel bullicame uscisse», tenendo tutto l’altro corpo
  • nascoso sotto il bogliente sangue. E chiamalo «bullicame» da un lago il
  • quale è vicino di Viterbo, il qual dicono continuamente bollire; e da
  • quello bollire o bollichío esser dinominato «bullicame»: e perdoché, in
  • questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di
  • quella, o pur per lo suo bollir medesimo, il nomina «bullicame».
  • «Mostrocci un’ombra dall’un canto sola. Dicendo:—Colei fesse in
  • grembo a Dio, Lo cor, che ’n su Tamigi ancor si cola». A dichiarazion
  • di questa parte è da sapere che, essendo tornati da Tunisi in Barberia
  • il re Filippo di Francia e il re Carlo di Cicilia e Adoardo e Arrigo,
  • fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a
  • Viterbo, dove la corte di Roma era allora nel 1270, e attendendo a
  • riposarsi e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon
  • pastore la Sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che,
  • essendo il sopradetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad
  • udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il
  • corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte;
  • e, senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio o al re
  • Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme,
  • quivi crudelmente uccise Arrigo predetto. Ed essendo giá della chiesa
  • uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto
  • avea; il quale rispose che egli aveva fatta la vendetta del conte
  • Simone, suo padre (il quale era stato ucciso in Inghilterra, e,
  • secondo che alcuni voglion dire, a sua gran colpa). A cui il cavaliere
  • disse:—Monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, percioché vostro
  • padre fu strascinato.—Per le quali parole il conte, tornato indietro,
  • prese per li capelli il morto corpo d’ Arrigo, e quello villanamente
  • strascinò infin fuori della chiesa; e, ciò fatto, montato a cavallo,
  • senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte
  • Rosso, suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere
  • in questo cerchio dannato. E in quanto l’autor dicesse «fesse»,
  • intende: aperse violentemente col coltello; «in grembo a Dio», cioè
  • nella chiesa, percioché la chiesa è abitazion di Dio, e, chiunque è
  • in quella, dee casi essere da ogni secular violenza sicuro, o ancora
  • legge o podestá, come se nel grembo di Dio fosse; e séguita l’autore
  • essere stato fesso «in grembo a Dio», da questo conte Guido, «Lo cuor,
  • che ’n su Tamigi ancor si cola», cioè d’Arrigo, ucciso dal detto conte.
  • Il quale Aduardo, suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con
  • molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a
  • Londra, fece mettere in un calice d’oro; e, fatta fare una statua di
  • pietra o di marmo che sia, o vero, secondo che alcuni altri dicono, una
  • colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato
  • Tamigi, pose nella mano della detta statua, o vero sopra la colonna,
  • questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta
  • al detto Arrigo e alla real casa d’Inghilterra. E quegli che dicono
  • questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta
  • statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice cosí: «_Cor
  • gladio scissum do cui sanguineus sum_»; cioè: «io do il cuor fesso col
  • coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo», cioè d’un
  • medesimo sangue: e in questo pareva e al padre e al fratello e agli
  • altri suoi domandar della violente morte vendetta. E dice l’autore che
  • questo cuore d’ Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, «si cola»,
  • cioè onora; e viene da _colo, colis_; e pertanto dice che egli s’onora,
  • in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignitá e
  • alla virtú di colui di cui fu, è da tutti quegli, che per quella parte
  • passano, riguardato.
  • «Poi vidi gente, che di fuor del rio», cioè a quel fiume bogliente,
  • «tenean la testa, ed ancor tutto il casso», cioè tutta quella parte
  • del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per
  • istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da
  • una pellicula, la quale igualmente si muove da ogni parte, cioè dalla
  • destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo
  • digesto discende alle parti inferiori; e chiamasi «casso», percioché
  • in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al
  • battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sé l’aere, e
  • mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtú
  • vitale nel cuore. E puossi in queste parole, e ancora in alcune altre
  • che seguono, comprendere, secondo il piú e ’l meno avere violentemente
  • ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia piú o meno pena in quel
  • sangue bogliente. Poi séguita: «E di costoro», li quali eran tanto
  • fuori del bollore, «assai riconobb’io», ma pur non ne nomina alcuno.
  • «Cosí», procedendo noi, «a piú a piú si facea basso», cioè con minor
  • fondo, «Quel sangue sí», in tanto «che copria pure i piedi:, a quegli
  • che dentro v’erano: «E quivi», dove egli era cosí basso, «fu del
  • fosso», cioè di quel fiume, «il nostro passo», cioè per quel luogo
  • passammo in un bosco, il quale nel seguente canto discrive.
  • E, passati che furono:—«Sí come tu da questa parte», dalla qual venuti
  • siamo, «vedi, Lo bullicame, che sempre si scema», tanto che, come tu
  • vedi, non cuopre piú su che i piedi: «—Disse ’l centauro,—voglio
  • che tu credi, Che da quest’altra», parte, lungo la quale noi non siam
  • venuti, «a piú a piú giú priema Lo fondo suo», e cosí si fa piú cupo,
  • «infin ch’e’ si raggiugne, Ove la tirannia convien che gema», cioè a
  • quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E, accioché
  • egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti del
  • sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo: «La divina giustizia
  • di qua», cioè da questa parte da te non veduta, «pugne», cioè tormenta,
  • «Quell’Attila, che fu flagello in terra».
  • Attila, secondo che scrive Paolo Diacono nelle sue Croniche, fu re
  • de’ goti al tempo di Marziano imperadore. Ed essendo egli, e un suo
  • fratello chiamato Bela, potentissimi signori, sí come quegli che per la
  • lor forza s’avevano molti reami sottomessi; accioché solo possedesse
  • cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela. E quindi, venutogli in
  • animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine
  • de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i romani incontro,
  • con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella
  • qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra,
  • che quasi ciascun rimase come sconfitto; e, secondo che scrive Paolo
  • predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la
  • qual cosa Attila, tornato nel regno, inanimato piú che prima contro
  • al romano imperio, restaurato nuovo esercito, passò di qua la seconda
  • volta, e, dopo lungo assedio, prese Aquileia, e poi piú altre cittá e
  • terre di Frigoli, e tutte le disolò: e passato in Lombadia, similmente
  • molte ne prese e disfece: ma quasi tutte, fuori che Modona, per la
  • quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ prieghi di san
  • Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino
  • a tanto che fuori ne fu, né egli né alcun de’ suoi; per la qual cosa,
  • avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia
  • farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra
  • esse, scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece.
  • Scrive nondimeno Paolo Diacono che, avendo Attila rubate e guaste piú
  • cittá in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il
  • Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare
  • verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere (non giá per amore né
  • per reverenza della cittá, la quale egli aveva in odio, ma per paura
  • dello esempio del re Alarico, il quale, andatovi e presa la cittá, poco
  • appresso morí): avvenne che Leone papa, santissimo uomo, il quale in
  • que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che
  • egli addomandò, ottenne. Di che maravigliandosi i baroni d’Attila,
  • il domandarono perché, oltre al costume suo usato, gli avea tanta
  • reverenza fatta, e, oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea;
  • a’ quali Attila rispuose sé non avere la persona del papa temuta,
  • ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea
  • veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano
  • un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse
  • quello che’l papa gli domandasse. Cosí adunque repressa la rabbia e
  • l’impeto d’Attila, senza appressarsi a Roma, se ne tornò in Pannonia;
  • e quivi, oltre a piú altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata
  • Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa
  • nuova moglie un convito grandissimo, bevé tanto vino in quello, che la
  • notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come
  • altra volta soleva fare, e fu in tanta quantitá, che egli l’affogò,
  • e cosí miseramente morí. La cui morte per sogno fu manifestata a
  • Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte
  • medesima nella quale morí Attila, gli parve in sogno vedere l’arco
  • d’Atti a esser rotto; per la qual cosa comprese Attila dovere esser
  • morto, e la mattina seguente a piú de’ suoi amici il disse; e poi si
  • ritrovò esser vero che propriamente quella notte Attila era morto. Fu
  • costui cognominato «_flagellum Dei_», e veramente egli fu flagello di
  • Dio in Italia: e ciò fu estimato, percioché, essendo ancora le forze
  • degl’italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale
  • igualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono piú a levare il
  • capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte
  • in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare
  • e punire le iniquitá degl’ italiani, le quali in tanto ogni dovere
  • eccedevano, che esse erano divenute importabili.
  • Sono, oltre a questo, molti che chiamano questo Attila, Totila,
  • li quali non dicon bene, percioché Attila fu al tempo di Marziano
  • imperadore, il qual fu promesso all’imperio di Roma, secondo che scrive
  • Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu
  • suo successore, fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni
  • di Cristo 529: per che appare Attila stato dinanzi a Totila vicino
  • di novanta anni; e, oltre a ciò, avendo Totila occupata Roma, e giá
  • regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in
  • Italia da Giustino, sconfitto e morto.
  • «E Pirro». Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali
  • l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo d’Eacida, re degli
  • epiroti. E, peroché ciascuno fu violento uomo e omicida e rubatore,
  • pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi; ma, perché
  • l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio
  • facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del
  • primo Pirro.
  • Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille
  • e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille
  • morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, ché, tirato
  • dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era
  • solo e di notte andato nel tempio d’Apolline timbreo; fu di costui
  • cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia. E, secondo
  • che scrive Virgilio, sí come ferocissimo giovane, non degenerante
  • dal padre, fu di quegli li quali entrarono nel cavallo del legno,
  • il qual fu tirato in Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di
  • quello uscito, e giá i greci essendo in Troia entrati per forza,
  • trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite,
  • suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse;
  • e, oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio
  • alla sepoltura del padre, e fugli conceduta: ed egli, non riguardando
  • all’etá né al sesso innocuo, crudelmente l’uccise. Poi, essendogli, fra
  • l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca, moglie
  • stata d’Ettore, ed Eleno, figliuolo di Priamo, e con questi per lo
  • consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia, e trovando essergli
  • stato, per l’assenza del padre e di lui, occupato il regno suo; occupò
  • una parte di Grecia, la qual si chiamava il regno de’ molossi, li quali
  • dal suo nome primieramente furono chiamati «pirride», e poi in processo
  • di tempo furono chiamati «epirote»: e giá quivi fermato, secondo che
  • alcuni scrivono, esso rapi Ermione, figliuola di Menelao e d’Elena,
  • stata sposata ad Oreste, figliuolo d’Agamennone; e ad Eleno, figliuolo
  • di Priamo, diede per moglie Andromaca, secondo che Virgilio scrive.
  • Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste
  • gli fosse tolta, non si sa certamente; ma, secondo che Giustino scrive,
  • essendo egli andato nel tempio di Giove dodoneo a sapere quello che far
  • dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana, nepote d’Ercule,
  • la rapi, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra
  • maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo,
  • o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni
  • in mare, divenne corsaro; e da lui furono, e ancor sono, i corsari
  • dinominati «pirrate»; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque
  • nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraude di Macareo, sacerdote
  • del tempio d’Apolline delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in
  • vendetta della ingiuria fattagli d’Ermione.
  • Il secondo Pirro, per piú mezzi disceso del primo, e figliuolo
  • d’Eacida, fu re degli epiroti. Questi, essendo piccol fanciullo, rimase
  • in Epiro, essendo stato cacciato Eacida, suo padre, da’ suoi cittadini,
  • per le troppo gravezze le quali lor poneva; fu in grandissimo pericolo
  • di morte, percioché, come gli epiroti avevan cacciato Eacida, cosí
  • di lui fanciullo cercavano per ucciderlo; e avvenuto sarebbe, se non
  • fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio,
  • e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe, moglie di Glauco, re
  • degl’illirii, la quale era del legnaggio del padre. Appo la quale, o
  • per la compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili
  • opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor
  • grazia che, saputo lá dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender
  • guerra con Cassandro, re di Macedonia, il quale, avendo il suo reame
  • occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo
  • sostenne la guerra, ma oltre a ciò, non avendo figliuoli, lui si fece
  • figliuolo adottivo. Per le quali cose mossi gli epiroti, trasmutarono
  • l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco ricevettono d’etá
  • d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori,
  • li quali infino all’etá perfetta il governassero e guardassero. Il qual
  • poi molte e notabili guerre fece; e chiamato da’ tarentini venne in
  • Italia contro a’ romani; e ancora chiamato in Cicilia da’ siragusani,
  • quella occupò. Ma, riuscendo tutto altro fine alle cose, che esso
  • estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa, se ne tornò
  • in Epiro; e quindi occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone
  • Antigono re. Poi, avendo giá levato l’animo a voler prendere il reame
  • d’Asia e di Siria, avvenne che, avendo assediata la cittá d’Argo in
  • Acaia, fu d’in su le mura della cittá percosso d’un sasso, il quale
  • l’uccise.
  • Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia
  • dire, non appare: ma io crederei che egli volesse piú tosto dire del
  • primo, che di questo secondo: percioché il primo, come assai si può
  • comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e
  • crudelissimo omicida e rapacissimo predone; questo secondo, quantunque
  • occupator di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu
  • nondimeno, secondo che Giustino e altri scrivono, giustissimo signore
  • ne’ suoi esercizi.
  • «E Sesto». Questi fu figliuolo di Pompeo magno, ma male nell’opere
  • fu simigliante a lui; percioché, poiché esso fu morto in Egitto, e
  • Gneo Pompeo, suo fratello, fu morto in Ispagna, essendo giá Giulio
  • Cesare similmente stato ucciso, e Ottavian Cesare insieme con Marco
  • Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’oficio del triumvirato, e
  • molti nobili uomini proscritti; sentendo sé esser del numero di quegli,
  • raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi
  • tolti dal servigio loro, e armate piú navi, si diede come corsaro ad
  • infestare il mare e a prendere e a rubare e ad uccidere quanti poteva
  • di quegli che delle sue parti non erano. E, tenendo Cicilia e Sardigna,
  • intrachiuse quasi sí il mare, che le opportune cose non potevano a
  • Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame. Col quale
  • essendosi poi paceficati li tre predetti prencipi, poco perseverò nella
  • pace; percioché, raccettando i fuggitivi, li quali erano rimasi degli
  • eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della republica.
  • Per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente
  • Menna, suo liberto, con sessanta navi, da lui ribellato, passò nelle
  • parti d’Ottaviano; appresso Statilio Tauro combatté in naval battaglia
  • contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo, e Ottavian
  • Cesare ancora combattendo contro a’ pompeiani gli sconfisse; appresso
  • Marco Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combatté contro a Pompeo
  • e contro a Democare e vinsegli, e nel terzo di trenta navi sommerse
  • in mare o prese; e Pompeo si fuggí a Messina, e Cesare incontanente
  • trapassò a Tauromena, e quivi nella prima giunta fieramente afflisse
  • Pompeo e’ suoi: e in quella rotta molte navi furono affondate, e
  • Pompeo, perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggí in Italia.
  • Poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in
  • Cicilia, e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al
  • detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente
  • commessa co’ nemici la battaglia, vinse i pompeiani e nel torno di
  • centosessantatré navi prese e affondò, e Pompeo si fuggí con forse
  • diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici. Che molte
  • parole? Colui, che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi,
  • con sei o con sette si fuggí in Asia. Ultimamente, sforzandosi in
  • Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio,
  • e avendo sentito come esso era stato vinto da Cesare, gli mandò
  • comandando che con pochi compagni venisse a lui; ma Pompeio fuggendosi,
  • fu da Tizio e da Furnio, antoniani duci, piú volte vinto, e ultimamente
  • preso e ucciso. Dopo il quale miserabile fine, percioché violento
  • raptore, corseggiando e guerreggiando, fu dell’altrui sostanze e vago
  • versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente,
  • secondo che qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato.
  • «Ed in eterno munge», questo fiume cosí bogliente, «Le lagrime che col
  • bollor disserra», cioè manda fuori, «a Rinier da Corneto». Questi fu
  • messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione,
  • e ladrone famosissimo ne’ suoi di, gran parte della marittima di Roma
  • tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore. «A Rinier
  • Pazzo». Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente
  • pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvagie
  • operazioni l’autore qui il discrive esser dannato. «Che fecero alle
  • strade tanta guerra», pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi
  • veniva.
  • «Poi si rivolse». Qui comincia la sesta e ultima parte del presente
  • canto, nella quale l’autore, poi che ha discritto ciò che dal centauro
  • dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte
  • portato, mostra come esso, ripassato il fiume, se ne tornasse, dicendo:
  • «Poi», che cosí ebbe detto, «si rivolse», al passo donde passato
  • l’avea, «e ripassossi ’l guazzo», cioè quel fossato del sangue.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Lez. XLVIII]
  • «Era lo loco, ove a scender la riva», ecc. Avendo la ragione co’ suoi
  • utili e sani consigli condotto l’autore, senza lasciarlo nelle miserie
  • temporali intignere l’affezion sua, per infino a qui, e mostratogli i
  • supplici che sostiene la eretica pravitá, e similmente disegnatogli
  • l’ordine degl’inferiori cerchi della prigione eterna, e la qualitá
  • de’ peccatori che in essi si puniscono; in questo canto il conduce
  • a vedere i tormenti della prima spezie de’ violenti, cioè di quegli
  • che nel sangue e nelle sustanzie del prossimo hanno bestialmente
  • usata forza. E, percioché in questo luogo primieramente entra nel
  • cerchio settimo, dove la matta bestialitá è punita, per farne l’autore
  • accorto, gli dimostra la ragione, in un dimonio discritto in forma
  • d’un Minotauro, in che consista la bestialitá. Ad evidenza della quale
  • primieramente presuppone l’autore essere stata vera la favola di
  • sopra narrata del Minotauro, accioché per questa presupposizione piú
  • leggermente si comprenda quello che di dimostrare intende; [e però,
  • questo presupposto, è da considerare qual sia la generazione di questo
  • Minotauro, e quali sieno i suoi costumi; e, questi considerati, assai
  • bene apparirá qual sia la qualitá della bestialitá, e per conseguente
  • de’ bestiali.]
  • [Dico adunque primieramente essere da riguardare in che forma fosse
  • questo animale generato, accioché per questo noi possiam conoscere
  • come negli uomini la bestialitá si crei. Fu adunque, sí come nella
  • favola si racconta, generato costui d’uomo e di bestia, cioè di
  • Pasife e d’un toro: dobbiamo adunque qui intendere per Pasife l’anima
  • nostra, figliuola del Sole, cioè di Dio Padre, il quale è vero sole.
  • Costei è infestata da Venere, cioè dall’appetito concupiscibile e
  • dallo irascibile, in quanto Venere, secondo dicono gli astrologi, è di
  • complessione umida e calda, e però per la sua umiditá è inchinevole
  • alle cose carnali e lascive, e per la sua caldezza ha ad escitare
  • il fervore dell’ira. Questi due appetiti, quantunque l’anima nostra
  • infestino e molestino, mentre essa segue il giudicio della ragione,
  • non la posson muovere a cosa alcuna men che onesta: ma come essa, non
  • curando il consiglio della ragione, s’inchina a compiacere ad alcuno di
  • questi appetiti o ad amenduni, ella cade nel vizio della incontinenzia
  • e giá pare avere ricevuto il veleno di Venere in sé, percioché transvá
  • ne’ vizi naturali. Da’ quali non correggendosi, le piú delle volte
  • si suole lasciare sospignere nell’amor del toro, cioè negli appetti
  • bestiali, li quali son fuori de’ termini degli appetiti naturali,
  • percioché, naturalmente, come mostrato è di sopra, disideriamo di
  • peccare carnalmente, e di mangiare e d’avere, e ancora d’adirarci
  • talvolta: ne’ quali appetiti se noi passiamo i termini della ragione,
  • pecchiamo per incontinenza, e, non trapassando i termini della natura,
  • come detto è, naturalmente pecchiamo; ma, come detto è, di leggieri si
  • trapassano questi termini naturali; percioché poi qualunque s’è l’uno
  • de’ due appetiti ha tratto il freno di mano alla ragione, non essendo
  • chi ponga modo agli stimoli, si lascia l’anima trasportare ne’ disideri
  • bestiali, e cosí si sottomette a questo toro, del quale nasce il
  • Minotauro, cioè il vizio della matta bestialitá generato nell’uomo, in
  • quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti e della bestia, in
  • quanto s’è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali.]
  • [I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella
  • lettera si comprenda, son tre: percioché, secondo i poeti scrivono,
  • esso fu crudelissimo, e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani, e
  • appresso fu maravigliosamente furioso; per li quali tre costumi sono
  • da intendere tre spezie di bestialitá. Ma, vogliendo seguire l’ordine,
  • il quale serva l’autore in punire queste colpe, n’è di necessitá di
  • permutare l’ordine il quale nel raccontare i tre costumi di questa
  • bestia è posto, e da cominciare da quel costume, il quale esser secondo
  • dicemmo, cioè dal divorare le carni umane. Il qual bestial costume
  • ottimamente si riferisce alla violenza, la quale i potenti uomini fanno
  • nelle sustanze e nel sangue del prossimo, le quali essi tante volte
  • divorano con denti leonini o d’altro feroce animale, quante le rubano,
  • ardono o guastano o uccidono ingiustamente: le quali cose quantunque
  • molti altri facciano, ferocissimamente adoperano i tiranni. L’altro
  • costume di questa bestia dissi ch’era l’esser crudelissimo: il qual
  • costume mirabilmente si conforma con coloro che usano violenza nelle
  • proprie cose e nelle loro persone, percioché, come assai manifestamente
  • si vede, quantunque crudel cosa sia l’uccidere e il rubare altrui,
  • quasi dir si puote esser niente per rispetto a ciò ch’è il confonder
  • le cose proprie e all’uccidere se medesimo, percioché questo passa
  • ogni crudeltá che usar si possa nelle cose mondane; e cosí per questo
  • costume ne disegna l’autore in questo animale la seconda spezie de’
  • violenti. Il terzo costume di questa bestia dissi che fu l’esser
  • fieramente furioso: e questo terzo costume s’appropria ottimamente alla
  • colpa della terza spezie de’ violenti, li quali, in quanto possono,
  • fanno ingiuria a Dio e alle sue cose, o bestemmiando lui, o contro alle
  • naturali leggi o contro al buon costume dell’arte adoperando: e contro
  • a Dio e contro alle sue cose non si commette senza furia, percioché la
  • furia ha ad accecare ogni sano consiglio della mente e ad accenderla e
  • renderla strabocchevole in ogni suo detto e fatto; e cosí per questo
  • terzo costume ne disegna la terza spezie de’ violenti.]
  • E, poiché la ragione ha mostrato all’autore la bestialitá e’ suoi
  • effetti, ed ella discendendo gli mostra a qual pena dannati sieno
  • quelli che nella prima spezie di violenza peccarono, cioè i tiranni e
  • gli altri che furono micidiali e rubatori e arditori e guastatori delle
  • cose del prossimo; e, sí come nel testo è dimostrato, questi cotali
  • violenti sono in un fiume di sangue boglientissimo, e, secondo il piú
  • e ’l meno aver peccato, sono piú e men tuffati in questo sangue; e,
  • oltre a ciò, accioché niuno non esca de’ termini postigli dalla divina
  • giustizia, vanno d’intorno a questo fiume centauri, con archi e con
  • saette, i quali, incontanente che alcuno uscisse piú fuori del sangue
  • che non si convenisse, quel cotale senza alcuna misericordia saettano
  • e costringono a dover rientrare sotto il sangue. Della qual pena è in
  • parte assai agevole a veder la cagione, percioché e’ par convenevole
  • che in quello, in che l’uomo s’è dilettato, in quello perisca: questi
  • furon sempre, sí come per le loro operazioni appare, vaghi del sangue
  • umano, e, percioché essi quello ingiustamente versarono, vuole la
  • divina giustizia che in esso tuffati piangano; e, percioché essi furono
  • a questa malvagia operazion ferventissimi, vuol similmente la giustizia
  • che per maggior fervore, cioè per lo bollir del sangue, sia in eterno
  • punito il loro: e, oltre a ciò, percioché queste violenze far non si
  • possono senza la forza di certi ministri, sí come sono masnadieri e
  • soldati e i seguaci de’ potenti uomini, gli fa la giustizia saettare
  • a questi cotali, stati nella presente vita loro ministri ed esecutori
  • de’ loro scellerati comandamenti, li quali l’autore intende per li
  • centauri: [de’ quali, peroché nella esposizion letterale alcuna cosa
  • non se ne disse, è qui da vedere un poco piú distesamente.]
  • [È dunque da sapere che in Tessaglia fu giá un grande uomo chiamato
  • Issione, figliuolo di Flegiás, del quale di sopra si disse; e costui,
  • secondo le poetiche favole, fu di grazia da Giove ricevuto in cielo,
  • e quivi fu fatto da lui segretario di lui e di Giunone. Laonde
  • egli insuperbito per l’oficio, il quale era grande, ebbe ardire di
  • richiedere Giunone di giacer con esso lei; la quale, dolutasi di ciò
  • a Giove, per comandamento di lui adornò in forma e similitudine di
  • sé una nuvola, e quella in luogo di sé concedette ad Issione, non
  • altrimenti che se sé medesima gli concedesse: il quale, giacendo con
  • questa nuvola, generò in lei i centauri. Ed essendo poi da Giove,
  • sdegnato della sua presunzione, gittato del cielo e in terra venutone,
  • ardí di gloriarsi appo gli uomini che esso era giaciuto con Giunone:
  • per la qual cosa turbato Giove il fulminò e mandonnello in inferno,
  • e quivi con molti e crudeli serpenti il fece legare ad una ruota, la
  • quale sempre si volge. L’allegoria della qual favola se attentamente
  • riguarderemo, assai bene cognosceremo che cosa sieno gli appetiti del
  • tiranno, e il tiranno, o di qualunque altro rapace uomo, ancoraché
  • tiranno chiamato non sia, e che cosa i centauri, e come essi il tiranno
  • saettino.]
  • [Fu adunque, secondo le istorie de’ greci, Issione oltre modo
  • disideroso d’occupare e possedere alcun regno, in tanto che egli si
  • sforzò d’ottenerlo per tirannia. Ora, come altra volta è detto, Giuno
  • intendono alcuna volta i poeti per lo elemento dell’aere, e alcuna
  • volta la ’ntendono per la terra, volendo lei ancora essere reina e dea
  • de’ regni e delle ricchezze; la quale, quando per la terra s’intende e
  • i regni li quali sono in terra, pare che mostrino avere in sé alquanto
  • di stabilitá; quinci intendendosi per aere, il quale è lucido, pare che
  • essa aggiunga a’ reami terreni alcuno splendore, il quale nondimeno è
  • fuggitivo e quasi vano, e leggiermente, si come l’aere, si converte in
  • tenebre. Oltre a ciò, la nuvola si crea nell’aere per operazion del
  • sole, de’ vapori dell’acqua e della terra umida surgenti e condensati
  • nell’aere; ed è la nuvola, cosí condensata, di sua natura caliginosa
  • al viso sensibile, e non si può prendere con mano, né è ancora da
  • alcuna radice fermata, e per questo leggiermente da qualunque vento è
  • in qua e in lá trasportata e impulsa, e alla fine o è dal calore del
  • sole risoluta in aere, o dal freddo dell’aere convertita in piova.
  • Che adunque vuol dire? Non dobbiamo per la nuvola, quantunque infra’
  • termini della deitá di Giunone creata sia, intendere regno, ma, in
  • quanto ella è in similitudine di Giunone apposta ad alcuno, diremo
  • per quella doversi intendere quello che violentemente in terra si
  • possiede; alla qual cosa è alcuna similitudine di regno, in quanto
  • colui, che violentemente possiede, signoreggia i suoi sudditi, come
  • il vero re i suoi; e cosí pare, mentre le forze gli bastano, che esso
  • comandi e sia ubbidito da’ suoi come è il re. Ma, si come tra ’l chiaro
  • aere e la condensata nuvola è grandissima differenza, cosí è intra
  • ’l re e ’l tiranno: l’aere è risplendente e cosí è il nome reale,
  • la nuvola è oscura e cosí è caliginosa la tirannia; il nome del re
  • è amabile, e quello del tiranno è odibile. Il re sale sopra il real
  • trono ornato degli ornamenti reali, e il tiranno occupa la signoria
  • intorniato d’orribili armi; il re per la quiete e per la letizia de’
  • sudditi regna, e il tiranno per lo sangue e per la miseria de’ sudditi
  • signoreggia; il re con ogn’ingegno e vigilanza cerca l’accrescimento
  • de’ suoi fedeli, e il tiranno per lo disertamento altrui procura
  • d’accrescere se medesimo; il re si riposa nel seno de’ suoi amici, e il
  • tiranno, cacciati da sé gli amici e i fratelli e’ parenti, pone l’anima
  • sua nelle mani de’ masnadieri e degli scellerati uomini. Per le quali
  • cose, sí come apparisce, diversissimi sono intra sé questi due nomi
  • e gli effetti di quegli; e perciò il re meritamente si può intendere
  • per l’aere splendido, ed essere con lui congiunta alcuna stabilitá,
  • se alcuna cosa si può dire stabile fra queste cose caduche; dove il
  • tiranno, per rispetto della real chiaritá, si può dir nuvola, alla
  • quale niuna stabilitá è congiunta, e perciò ancora che agevolmente si
  • risolve, o dal furore de’ sudditi o dalla negligenza degli amici.]
  • [Premesse adunque queste cose, leggermente quello che i poeti nella
  • finzion della favola d’Issione si potrá vedere. Dice la favola che
  • Issione fu assunto in cielo: nel qual noi allora ci possiam dire
  • essere ricevuti, quando noi con l’animo contempliamo le cose eccelse,
  • sí come sono le porpore e le corone de’ re, gli splendori egregi,
  • la esimia gloria, la non vinta potenza e i comodi de’ re, li quali,
  • secondo il giudicio degli stolti, sono infiniti; né indebitamente
  • paiono fatti segretari di Giove e di Giunone, quando quello, che a
  • loro appartiene, noi con presuntuoso animo riguardiamo; e allora siamo
  • tirati nel disiderio di giacere con Giunone, quando noi estimiamo
  • queste preeminenze reali essere altro che elle non sono; e allora
  • Issione richiede Giunone di giacer seco, quando, non procedente alcuna
  • ragione, il privato uomo ogni sua forza dispone per essere d’alcuno
  • regno signore. Ma che avviene a questo cotale? È apposta allora la
  • nuvola, avente la similitudine di Giunone: del congiugnimento de’ quali
  • incontanente nascono i centauri, li quali furono uomini d’arme, di
  • superbo animo e senza alcuna temperanza, e inchinevoli ad ogni male, sí
  • come noi veggiamo essere i masnadieri e’ soldati e gli altri ministri
  • delle scellerate cose, alle forze e alla fede de’ quali incontanente
  • ricorre colui il quale tirannescamente occupa alcun paese.]
  • [E dicono alcuni in singularitá di questi, li quali le favole dicono
  • essere stati generati da Issione, che essi furono nobili cavalieri di
  • Tessaglia, e i primi li quali domarono e infrenarono e cavalcarono
  • cavalli. E percioché cento ne ragunò Issione insieme, furono chiamati
  • «centauri», quasi «cento armati» o «cento Marti», percioché «inarios»
  • in greco viene a dire «Marte» in latino; ovvero piú tosto «cento
  • aure», percioché, sí come il vento velocemente vola, cosí costoro
  • sopra i cavalli velocemente correvano: ma questa etimologia è piú
  • tosto adattata a vocaboli latini che a grechi, e, quantunque ella paia
  • potersi tollerare, non credo però i greci avere questo sentimento del
  • nome de’ centauri.]
  • [E, percioché essi sono figurati mezzi uomini e mezzi cavalli,
  • racconta di loro Servio una cotal favola, in dimostrazione donde ciò
  • avesse principio; e dice che, essendo certi buoi d’un re di Tessaglia
  • fieramente stimolati da mosconi, e per questo essersi messi in fuga,
  • il detto re comandò a certi suoi uomini d’arme gli seguitassero; li
  • quali, non potendo appiè correre quanto i buoi, saliti a cavallo, e
  • giuntigli, gli volsono indietro, e abbeverando essi i lor cavalli nel
  • fiume di Peneo; e tenendo i cavalli le teste chinate nel fiume, furono
  • da quelli della contrada veduti solamente la persona dell’uomo e la
  • parte posteriore de’ cavalli; e da que’ cotali, li quali non erano usi
  • di ciò vedere, furono stimati essere uno animal solo, mezzo uomo e
  • mezzo cavallo; e dal rapportamento di questi trovò luogo la favola e la
  • figurazion di costoro.]
  • [Ma, tornando alla cagione della loro origine, sono detti costoro
  • essere nati d’Issione, cioè del tiranno e d’una nuvola, cioè delle
  • sustanze del regno ombratile, come di sopra per la nuvola disegnarsi
  • mostrammo; le quali sustanze sono i beni de’ sudditi, de’ quali
  • si mungono e traggono gli stipendi, de’ quali i soldati in loro
  • disfacimento e oppressione sono nutriti e sostenuti. E cosí per le
  • dette cose si può comprender del tiranno, il quale da se medesimo è
  • impotente, e della tirannia occupata, nascere i soldati, cioè essere
  • convocati dal tiranno in difesa di sé, accioché con la forza di questi
  • cotali soldati, essi possan fare, come veggiamo che fanno, le violenze
  • e le ingiurie a’ sudditi, delle quali essi soldati le piú delle volte
  • sono ministri e facitori:] e perciò vuole la divina giustizia che, cosí
  • come costoro furono strumento alle malvagie opere de’ tiranni, cosí
  • sieno alla lor punizione.
  • Potrebbesi ancor dire che l’autor avesse voluto intendere, per
  • gli stimoli delle saette de’ centauri ne’ violenti, s’intendessero
  • le sollecitudini continue de’ tiranni, le quali si può credere che
  • abbiano, sí per la non certa fede di cosí fatta gente, e sí ancora per
  • l’avere a trovar modo donde venga di che pagarli; e ancora intorno al
  • tenergli sí corti, che essi [non possano o] non facciano, ne’ sudditi
  • suoi, quello che esso solo vuol fare: e questo è faticoso molto. Ma,
  • comeché nella presente vita si sia, nell’altra si dee intendere le
  • saette, da questi centauri saettate ne’ violenti, essere l’amaritudine
  • della continua ricordazione, la quale hanno delle disoneste e malvagie
  • opere, le quali giá fecero con la forza della gente dell’arme; e cosí
  • coloro, nella cui fede vivendo si misero, nelle cui forze si fidarono,
  • con le mani de’ quali versarono il sangue del prossimo, rubarono
  • le sustanze temporali, occuparono la libertá, sono stimolatori,
  • tormentatori e faticatori delle loro anime nella perdizione eterna.
  • CANTO DECIMOTERZO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Lez. XLIX]
  • «Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede
  • qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella
  • fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero
  • alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e
  • ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non
  • essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrano per un bosco,
  • della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo
  • canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel
  • quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la
  • quale ebbe l’autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio
  • si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli
  • è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella
  • terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a
  • certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de’ primi
  • equali; nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito che spezie
  • di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla.
  • La seconda comincia quivi: «E ’l buon maestro»; la terza quivi: «Noi
  • eravamo»; la quarta quivi: «Quando ’l maestro».
  • Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all’altra riva del fiume,
  • «Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun
  • sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere
  • essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente
  • non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di
  • necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi
  • viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, _per antiphrasim_,
  • quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in
  • latino sono chiamati «_sentes_», conciosiacosaché in essi sentieri
  • alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri»
  • dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché
  • tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi
  • e spine.]
  • «Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco;
  • e questa è l’altra cosa per la quale vuole l’autore si comprenda
  • questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il
  • quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e
  • ’nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o
  • abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero
  • i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v’eran, ma stecchi con
  • tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della
  • salvatica qualitá del bosco.
  • Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza
  • d’esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due
  • dimostrazioni: e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene
  • di fiere salvatiche, conosciute dagl’italiani; e l’altra mostra dalla
  • qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí
  • aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi, «Quelle fiere selvagge»,
  • le quali stanno nelle selve poste tra’ due confini, li quali appresso
  • disegna; «che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè
  • lavorati.
  • Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio,
  • in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle
  • selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le
  • selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e
  • vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno
  • i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due
  • ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un
  • braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel
  • mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale
  • appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi
  • quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure
  • tra’ due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli,
  • nelle quali dice l’autore non essere «sí aspri sterpi», percioché
  • sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose
  • ch’e’ pruni: e i due termini, tra’ quali dice esser queste selve cosí
  • orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto,
  • il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci
  • quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l’altro è Corneto, il
  • quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il
  • quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del
  • padre di Dardano, re di Troia.
  • Appresso, mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere
  • il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra
  • l’altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso
  • fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie
  • lor nido fanno»; e, accioché d’altra spezie d’uccelli non intendessimo,
  • ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che
  • cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno».
  • E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come
  • sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi
  • umani, Piè con artigli e pennuto ’l gran ventre; Fanno lamenti in su
  • gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché
  • son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.
  • Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i
  • troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza
  • della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo
  • verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate
  • Strofade; e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai,
  • e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero
  • uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti
  • davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora
  • bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione
  • a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le
  • spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro,
  • chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse:
  • —Voi, troiani, per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche
  • guerra, e volete della loro patria cacciare l’arpie: ma io, secondo che
  • io ho da Apollo, v’annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in
  • Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell’ingiuria, la quale
  • n’avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella
  • voi mangerete le mense vostre.—Col quale «tristo annunzio di futuro
  • danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia
  • navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate
  • Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le
  • dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d’Arcadia,
  • seguite da Zeto e d’Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento,
  • fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate
  • Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie
  • si dirà alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del
  • presente canto si dimostrerá.
  • E cosí avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualitá di questo
  • bosco, séguita: «E ’l buon maestro»; dove comincia la seconda parte
  • di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale
  • ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e
  • parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi
  • e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in
  • nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella
  • seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai e non vede da cui;
  • nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva;
  • nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta
  • lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e
  • domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella
  • ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna
  • se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La
  • seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la
  • quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E ’l tronco suo»; la
  • sesta quivi: «S’egli avesse»; la settima quivi: «E ’l tronco:—Si»; la
  • ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».
  • Dice adunque: «E ’l buon maestro», disse:—«Avanti che piú entre»,
  • infra questo bosco, «Sappi che se’ nel secondo girone»,—cioè nella
  • seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda
  • spezie de’ violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li
  • lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire,—e
  • sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione», sopra ’l quale si
  • punisce la terza spezie de’ violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai
  • Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono
  • gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e
  • dolersi.
  • Per le quali parole l’autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia
  • d’ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda
  • principale di questo canto, nella quale l’autore si maraviglia d’udire
  • trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d’ogni parte»,
  • di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che ’l facesse,
  • Per ch’io tutto smarrito m’arrestai». E questo smarrimento avvenne,
  • percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono
  • di que’ bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò
  • che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli
  • guai venivano, dicendo: «Io credo ch’ei credette», Virgilio, «ch’io
  • credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que’ bronchi. Da
  • gente che per noi si nascondesse».
  • «Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda
  • principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da
  • questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo
  • credere che esso credesse ecc.):—«Se tu tronchi Qualche fraschetta
  • d’una d’este piante, Li pensier c’hai», cioè che quegli che traggono i
  • guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran
  • tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè
  • invalido e impotente ad alcuna operazione.
  • «Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo
  • canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue:
  • «Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po’ avante,
  • E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era,
  • come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.
  • «E ’l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda
  • di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e
  • però dice: «E ’l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o
  • ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco
  • suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò:—Perché
  • mi schiante?».—E queste parole paiono assai dimostrare la parte
  • schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata,
  • comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che
  • fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno,
  • per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò
  • a gridar:—Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?».
  • Quasi voglia qui l’autore mostrare avere i dannati compassione l’uno
  • delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non
  • sapeva che l’autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli
  • nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo:
  • «Uomini fummo», nell’altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa;
  • «Ben dovrebb’esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi
  • schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché
  • crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso
  • loro non s’usasse alcuna pietá.
  • Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che
  • maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d’un stizzo
  • verde, ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro», capo, «geme»,
  • acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma
  • ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare:
  • «E cigola per vento che va via».
  • Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con
  • le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò
  • quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá
  • del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il
  • fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello, che v’è
  • terreo, converte in terra. Ma dell’umido e dell’aere non avvien cosí,
  • percioché, essendo l’umido, si come da suo contrario, cacciato dal
  • fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li
  • pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire
  • fuori alcun romore: l’aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto,
  • gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto
  • insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza
  • di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir
  • vogliamo; e, convertito dall’impeto in vento, va via.
  • Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva
  • insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond’io
  • lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e
  • stetti come l’uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma
  • Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e
  • a sodisfare all’offeso e a rassicurar l’autore, dicendo:
  • —«S’egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte
  • principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è.
  • Dice adunque:—«S’egli avesse potuto creder prima», che egli avesse
  • schiantato questo ramuscello—«Rispose il duca mio,—anima lesa», cioè
  • offesa, «Ciò c’ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con
  • la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera
  • cosí ordinare: «Il duca mio rispose.—O anima lesa, se egli avesse
  • prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe
  • egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa
  • incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva,
  • «mi fece Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa», cioè a schiantare quel
  • ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè
  • in luogo, «D’alcuna ammenda», all’offesa la qual fatta t’ha, «tua fama
  • rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel
  • mondo sú, dove tornar gli lece»,—cioè è lecito, sí come ad uomo che
  • ancora vive e non è dannato.
  • «E ’l tronco:—Sí». Qui comincia la settima parte della seconda
  • principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e
  • però comincia: «E ’l tronco:—Sí col dolce dir», cioè con la soavitá
  • delle tue parole, «m’adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto
  • m’imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch’io non posso
  • tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e
  • voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch’io un poco a ragionar
  • m’inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente
  • potrá rinfrescare la fama mia.
  • «Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito
  • chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna
  • circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza
  • la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella
  • il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra
  • la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai
  • ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s’intenda questa
  • sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle
  • Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto
  • sentimento e d’ingegno; e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso
  • dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare
  • quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto
  • in cancelliere dell’imperador Federigo secondo, appo il quale con la
  • sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello ’mperadore
  • celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e
  • grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto
  • assai poteva apparire costui tanto potere dello ’mperadore, che nel
  • suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli
  • era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando
  • essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale
  • di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni
  • dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere
  • false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo ’mperadore
  • questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo
  • stato dello ’mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello ’mperadore
  • rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace
  • dimostrazione fatta dagl’invidi vedere allo ’mperadore, che esso vi
  • prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in
  • prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo
  • dello ’mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente
  • credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o
  • altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo
  • abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo
  • signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male
  • che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto
  • gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto
  • serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o
  • perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar
  • si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor
  • s’accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il
  • guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo:—Voi
  • siete per me’ la chiesa di San Paolo in riva d’Arno;—il che poi che
  • udito ebbe, disse al fanciullo:—Dirizzami il viso verso il muro della
  • chiesa.—Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso
  • impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso
  • che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in
  • questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi
  • il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale
  • disperazione l’autore, sí come contro a se medesimo violento, il
  • dimostra in questo cerchio esser dannato.
  • Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di
  • Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il
  • quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo ’mperadore di
  • qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e
  • serrano i serrami, cosí io apriva il volere e ’l non volere dell’animo
  • di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí
  • soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo
  • quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni.
  • E, questo detto, vuoi dimostrare che meritamente avea ogni altro
  • tolto dal segreto dello ’mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso
  • ufizio», cioè d’essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir
  • lui essere l’imperadore, «Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi».
  • Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol
  • mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza
  • fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera
  • fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle
  • quali si comprendono le qualitá de’ movimenti del cuore, e in queste
  • piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore
  • è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé
  • averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí
  • assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che
  • gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d’altra cosa, ne
  • fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione,
  • la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi.
  • E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua
  • morte, dicendo: «La meretrice», cioè la ’nvidia, la quale perciò
  • chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine
  • le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo
  • che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si
  • sottomettono, cosí la ’nvidia aver per merito il disfacimento di colui
  • al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non
  • s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al
  • luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poiché qui cosí
  • efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che
  • di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]
  • [Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in
  • questa forma:
  • _... Domus est imis in vallibus huius_
  • _abdita, sole carens, non ulli pervia vento:
  • tristis et ignavi plenissima frigoris et quae
  • igne vacet semper, caligine semper abundet._
  • E poco appresso séguita:
  • _... Videt intus edentem_
  • _vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,
  • invidiam, visamque oculis avertit: at illa
  • surgit humo pigre, semesarumque relinquit
  • corpora serpentum, passuque incedit inerti._
  • E poco appresso:
  • _Pallor in ore sedens, macies in corpore toto,
  • nusquam recta acies, livent rubigine dentes,
  • pectora felle virent, lingua est suffusa veneno:
  • risus abest, nisi quem visi fecere dolores;
  • nec fruitur somno, vigilantibus excita curis:
  • sed videt ingratos, intabescitque videndo,
  • successus hominum; carpitque et carpitur una:
  • suppliciumque suum est_, ecc.]
  • [Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno
  • vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi
  • veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il
  • giudicio dello ’nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo
  • ’nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno
  • in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò,
  • nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non
  • luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna
  • cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d’alcuno,
  • ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, si come quello nel
  • quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi
  • cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de’ suoi
  • pensieri e de’ suoi divisi appetiti, de’ quali, miseramente aspettando,
  • esso pasce la dolorosa anima.]
  • [Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa
  • possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto
  • colui che compreso n’è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al
  • quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso
  • sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta
  • sia la forza della passione, la quale dentro l’affligge, in tanto
  • che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la
  • magrezza.]
  • [E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne
  • dimostra il giudicio dello ’nvidioso esser perverso, e contro ad ogni
  • ragione e dirittura; e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il
  • rado uso che allo ’nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli
  • quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e
  • l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira,
  • ci si dichiara mai nel petto dello ’nvidioso seccarsi o venir meno,
  • ma sempre vivere e starvi verde l’iracundia, la qual sempre, sí come
  • offeso dall’altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento
  • di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre
  • bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello
  • ’nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai
  • stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto
  • questo, non ride mai lo ’nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e
  • sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse,
  • con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i
  • lieti avvenimenti degli uomini.]
  • E, percioché nelle corti de’ gran prencipi han sempre di quegli che
  • sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora
  • che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione
  • ricevuta per l’altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion
  • riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú
  • quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore questa
  • meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte,
  • dall’ospizio dello ’mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle
  • corti.
  • Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come
  • qui nel testo si dimostra, dove dice l’autore: «La meretrice», cioè la
  • ’nvidia, «che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti»,
  • cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d’ogni uomo, cioè vizio
  • deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè
  • accese, «gli animi tutti», de’ cortigiani; «E gl’infiammati infiammâr
  • sí Augusto», cioè lo ’mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti
  • per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu
  • privato della grazia dello ’mperadore e dell’uficio e del vedere, e
  • cacciato via. «L’animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come
  • di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e,
  • «Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno
  • d’avere ricevuta la repulsa dello ’mperadore; «Ingiusto fece me»,
  • tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me
  • giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove
  • egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti
  • opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto
  • dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a
  • purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale
  • «nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel
  • luogo convertito in pianta, «d’esto legno», nel quale voi mi vedete
  • trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che
  • fu d’onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver
  • certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo
  • riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del
  • colpo, che ’nvidia mi diede»,—quello apponendomi che io mai fatto non
  • avea.
  • «Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché ’l si
  • tace,—Disse ’l maestro mio,—non perder l’ora, Ma parla, e chiedi a
  • lui s’altro ti piace»,—di sapere.
  • «Ond’io a lui:—Domandal tu ancora Di quel che credi ch’a me
  • satisfaccia, Ch’io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá
  • m’accora»,—cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l’autore questa
  • pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello
  • ’nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva
  • similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie,
  • delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette,
  • come di sopra appare.
  • «Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda
  • parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio
  • come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice
  • adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò»,
  • a parlar Virgilio e dire:—«Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che
  • ’l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace,
  • ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia»,
  • oltre alle cose che dette n’ hai, «Di dirne come l’anima si lega In
  • questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi,
  • S’alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si
  • spiega»,—cioè si sviluppa o si scioglie.
  • «Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte
  • principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla
  • dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda
  • e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando
  • parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventin bronchi,
  • ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto;
  • «e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori
  • del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè:—«Brievemente sará
  • risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla
  • domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l’anima feroce»: è l’anima di
  • quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera
  • di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima
  • adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è
  • dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo
  • ond’ella stessa s’è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo;
  • «Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l’autore
  • essere esaminatore delle colpe e giudicatore de’ luoghi a quelle
  • convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio
  • dello ’nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima
  • mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l’è parte
  • scelta», una piú che un’altra, nella quale ella debba il supplicio
  • determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra»,
  • la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come
  • gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona
  • terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di
  • queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in
  • vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’
  • lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la
  • vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la
  • sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú
  • cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli
  • alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».
  • «L’arpie pascendo poi delle sue foglie»: che animali o vero uccelli
  • l’arpie sieno, si dirá dove il senso allegorico si sporrá. E qui vuole
  • questo spirito, poi che mostrato ha come quivi nascano, mostrare la
  • qualitá del lor tormento, il quale mostra che stea nel rompere che
  • fanno l’arpie delli loro ramuscelli: e cosí par quel tormento esser
  • simile a quello che nella presente vita si dá a’ disleali e pessimi
  • uomini, in quanto sono attanagliati; e cosí dice che «pascendo», cioè
  • rompendo e schiantando l’arpie le foglie di queste piante, fanno dolore
  • all’anime rilegate in quelle piante, come le tanaglie fanno a’ corpi.
  • E, percioché queste anime son tutte intorniate e chiuse dalla corteccia
  • dell’albero loro, e però d’alcuna parte spirar non possono; a tôr via
  • il dubbio da qual parte esse mandin fuori l’angoscia, la qual per lo
  • dolor sentono (e che l’autore aveva udita, senza vedere chi se la
  • facesse), detto che queste arpie, troncandole, «Fanno il dolore», dice
  • che esse similmente, con le rotture dello schiantare, fanno «ed al
  • dolor finestra», cioè dánno per quelle rotture l’uscita alle dolorose
  • voci, le quali esse, per lo dolore il qual sentono, mandan fuori.
  • E, questo dichiarato, dichiara la seconda parte della domanda, cioè
  • «s’alcuna mai da tai membri si spiega»; e dice: «Come l’altre» anime
  • verranno tutte il dí del giudicio a riprendere li lor corpi, cosí noi
  • «verrem per nostre spoglie», cioè per li nostri corpi, li quali sono
  • «spoglie» dell’anima, cosí come i vestimenti sono spoglie del corpo;
  • «Ma non però, ch’alcun», di noi, «se ne rivesta», di quelle spoglie;
  • cioè non però, quantunque noi vegniamo per li nostri corpi, che alcuna
  • delle nostre anime rientri in quegli. E la cagione perché alcuna di noi
  • non rientra nel corpo suo, è per ciò «Che non è giusto aver ciò ch’uom
  • si toglie»: noi, uccidendoci, ci togliemmo i corpi, e però non è giusta
  • cosa che noi gli riabbiamo. E per questo, senza rivestirglici, «Qui»,
  • cioè per questa selva, «gli strascineremo», cioè strazieremo; e, oltre
  • a ciò, poiché strascinati gli aremo, «e per la mesta», cioè dolorosa,
  • «Selva saran li nostri corpi», de’ quali io parlo, «appesi, Ciascuno al
  • prun dell’ombra sua molesta», cioè inimica. E in questo finisce la sua
  • dimostrazione.
  • [Lez. L]
  • [Ma qui è attentamente da riguardare, percioché, quello che questo
  • spirito dice, è dirittamente contrario alla verità cattolica, per la
  • qual noi abbiamo che tutti risurgeremo e riprenderemo i nostri corpi,
  • e con essi risuscitati verremo al giudicio universale a udire l’ultima
  • sentenzia; e chi dice «tutti», non eccettua alcuno, dove questi dice
  • che l’anime di coloro, che se medesimi uccisono, non rientreranno ne’
  • corpi, e per conseguente non risurgeranno, e cosí contradice alla
  • nostra fede.]
  • [È qui da credere che l’autore non ha qui fatte narrar queste parole
  • a questo spirito, sí come ignorante degli articoli della nostra fede,
  • percioché tutti esplicitamente gli seppe, sí come nel _Paradiso_
  • manifestissimamente appare; ma, dovendo questo error recitare, ha
  • qui usata una cautela poetica, la quale è che quante volte i poeti
  • voglion porre una opinione contraria alla veritá, essi si guardano di
  • recitarla essi in propria persona, ma inducono alcun altro, e a lui,
  • sí come quello cotale, ch’è indotto, tenesse, la fanno raccontare. Il
  • che Virgilio fa in alcun luogo: percioché, volendo d’una opinione, la
  • quale esso non teneva esser vera, compiacere a’ romani, li quali al
  • suo tempo erano nel colmo della loro grandezza, egli nel primo libro
  • dell’_Eneida_ induce Giove (non quel Giove, il quale esso alcuna
  • volta vuole intendere per lo vero Iddio, ma quello che i gentili
  • scioccamente credevano essere iddio), e dice che, parlandogli Venere,
  • sua figliuola e madre d’Enea, sí come sollecita degli avvenimenti
  • d’Enea (il quale era dalla fortuna del mare, volendo venire in Italia,
  • dove doveva essere il regno di lui e de’ suoi successori, trasportato
  • in Cartagine), tra l’altre cose le risponde cosí:
  • _His ego nec metas rerum, nec tempora pono:
  • imperium sine fine dedi,_ ecc.;
  • e non si cura Virgilio di far mentitore costui, il quale egli avea per
  • iddio falso e bugiardo. Ma in quelle parti ove essi vogliono quello
  • ch’essi estimano esser vero, essi in propria persona il profferano, sí
  • come Virgilio medesimo fa sopra questa medesima materia dello ’mperio
  • de’ romani, toccando alcuna cosa intorno alla fine del secondo della
  • _Georgica_, dove dice:
  • _Illum non populi fasces, non purpura regum
  • Flexit,_ ecc.
  • _Non res Romanae, perituraque regna_
  • (_supple_) _Romana_, ecc. Il quale imitando l’autore, come in assai
  • altre cose fa, fa a questo spirito dannato raccontare questa opinione
  • erronea; e ciò non fa senza cagione, ma il fa, volendo con questa
  • opinione ritrar coloro, che l’udiranno, dal detestabile peccato della
  • disperazione; percioché assai volte avviene gli uomini, piú per paura
  • della pena che per amor della virtú, guardarsi dalle cose scellerate.]
  • [È il vero, che che a’ poeti gentili giá conceduto si fosse, non pare
  • che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua
  • persona, né in altrui, raccontare o far raccontare _assertive_ alcuna
  • erronea cosa, e che contraria sia alla cattolica veritá; e però non par
  • qui assai essere scusato l’autore per aver fatto ad uno spirito dannato
  • raccontar questo errore.]
  • [Ma a questo si può cosí rispondere, accioché si conosca l’autore in
  • questo non avere errato: dobbiamo adunque sapere esser due maniere di
  • pena, nelle quali, o nell’una delle quali, la giustizia di Dio condanna
  • coloro che male hanno adoperato; e chiamasi l’una delle maniere di
  • queste pene «pena illativa», e l’altra «pena privativa». La pena
  • illativa si pone nella propria persona di colui che ha peccato, sí come
  • è tagliargli alcun membro, o farlo d’alcuna spezie di morte morire;
  • la pena privativa è quella la quale s’impone nelle cose esteriori di
  • colui il quale ha peccato, sí come nelle sue sustanze, negli onori,
  • negli stati, nella cittadinanza, privandolo d’alcuna di queste, o di
  • parte d’alcuna, o di tutte. E però si può dir qui: percioché le leggi
  • temporali non hanno in alcuna cosa potuto punire quegli che se medesimi
  • uccidono, percioché il corpo morto non può ricever pena; e, quantunque
  • esse vogliano che i corpi cosí uccisi sieno gittati a divorare alle
  • fiere, questa non è pena all’ucciso, ma è vergogna a chi di lui
  • rimane; e, se vogliam dire egli è infamia al nome dell’ucciso, questa
  • infamia perisce sotto l’occupazione di maggiore infamia, peroché molto
  • maggiore infamia è l’essersi ucciso che non è l’essere poi gittato via
  • a guisa d’un cane; oltre a ciò, le leggi temporali non possono nelle
  • sue cose punirlo, percioché chi se medesimo priva della vita, si priva
  • d’ogni altra sua cosa, sí che, perché le leggi facessero ogni suo
  • bene occupare, a lui non monta niente; e deesi credere che chi di se
  • medesimo non s’è curato, non si curi d’alcuna altra sua cosa, e quella
  • non si può dirittamente dir pena, la quale non affligge colui al quale
  • è imposta; e, volendo la divina giustizia che impunito non rimanga cosí
  • grande eccesso, quello, che non può far la temporale, si dee credere
  • che essa supplisce, e vuole che in questi cotali sia la pena illativa,
  • sí come ella è nell’altre anime de’ dannati, e, oltre a ciò, vi sia
  • la privativa. Ma, percioché ad alcuno passato di questa vita non si
  • può alcuna cosa tôrre che sua sia, se non solamente il corpo, vuole la
  • divina giustizia che questi cotali si credano non dovere riavere il
  • corpo loro, come l’altre anime riaranno, comeché nella veritá essi il
  • riaranno come l’altre. E se forse si domandasse: in che sentono però
  • queste anime dannate piú pena, avendo questa opinione, che l’altre non
  • l’hanno? Si può cosí dire: che, come l’anime de’ beati disiderano i
  • corpi loro, accioché, come essi furono in questa vita partefici delle
  • fatiche ad acquistar la gloria di vita eterna, cosí sieno con loro
  • insieme partefici della gloria; cosí l’anime dannate ardentemente
  • disiderano di riavere i corpi loro, accioché, sí come strumenti
  • delle loro malvagie operazioni furono in questa vita, cosí in quella
  • dannazione gli sentano punire, e sostenere pene come sostengono esse; e
  • perciò quegli, che di questo loro disiderio estimano d’esser privati,
  • sentono, oltre alla pena illativa, similmente la privativa. E però
  • avvedutamente l’autore fa questa opinione raccontare ad una di quelle
  • anime, alle quali la giustizia di Dio permette di stare in lor maggior
  • pena in questa erronea opinione; e cosí, senza aver detto contro alla
  • veritá, si può dir l’autore avere come cristian poeta scritto].
  • «Noi eravamo». Qui comincia la terza parte principale del presente
  • canto, nella quale, poi che l’autore n’ha dimostrato che pena abbian
  • coloro li quali nella propria persona usano violenza, ne dimostra una
  • spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori le cui
  • colpe non furono con quelle de’ primieri equali, percioché non in sé
  • ma nelle lor cose usarono violenza. E dice cosí: «Noi eravamo ancora
  • al tronco attesi, Credendo ch’altro ne volesse dire», avendo egli
  • finito di dire quello che di sopra è scritto, «Quando noi fummo d’un
  • romor sorpresi», il qual sentimmo farsi nella selva; e quinci per una
  • comparazione dimostra come soprappresi fossero, dicendo: «Similemente
  • a colui, che venire Sente il porco», salvatico, «e la caccia», cioè
  • quegli e cani e uomini che di dietro il cacciano, «alla sua posta».
  • Usano i cacciatori partirsi in diverse parti, e, cosí divisi, porsi in
  • quelle parti della selva, donde stimano dover potere, fuggendo, passare
  • quelle bestie le quali voglion pigliare; e queste cotali parti, dove si
  • pongono, chiamano «poste»; e però colui, alla cui posta viene la bestia
  • cacciata, se n’avvede, per ciò «Ch’ode le bestie», le cacciate e quelle
  • che cacciano, «e le frasche», cioè i rami e le frondi della selva,
  • «stormire», cioè far romore per lo stropiccío del porco e de’ cani e
  • dei cacciatori.
  • «Ed ecco», mentre essi stavano soprappresi dal romore, «due dalla
  • sinistra costa, Nudi e graffiati»: dice «nudi», percioché non eran
  • dalle cortecce degli alberi rivestiti, come eran quelle anime che
  • rilegate erano in que’ bronchi; e «graffiati» dice, percioché di sopra
  • è detto quel bosco esser pieno «di stecchi con tosco», e chi corre tra
  • cosí fatte piante, non potendo attendere a riguardarsi, è di necessitá
  • che si graffi; «fuggendo sí forte», cioè sí velocemente e con tanto
  • impeto, «Che della selva rompíeno ogni rosta», e però erano graffiati.
  • E questo vocabolo «rosta» usiam noi in cotali fraschette o ramicelli
  • verdi d’álbori, con le quali la state cacciam le mosche. «Quel dinanzi»
  • _(supple)_, gridava:—«Ora accorri, accorri, Morte!»;—nelle quali
  • parole dimostra o la gravezza della pena, o la grandezza della paura;
  • «E l’altro, cui pareva tardar troppo», cioè esser troppo lento nel suo
  • fuggire, per rispetto a colui che dinanzi a lui fuggiva, «Gridava»,
  • dicendo:—«Lano, sí non fûro accorte, Le gambe tue alle giostre del
  • Toppo».—
  • Ad intelligenza di queste parole è da sapere che Lano fu un giovane
  • sanese, il qual fu ricchissimo di patrimonio, e, accostatosi ad
  • una brigata d’altri giovani sanesi, la qual fu chiamata la Brigata
  • spendereccia, li quali similmente erano tutti ricchi, e, insiememente
  • con loro, non spendendo ma gittando, in piccol tempo consumò ciò
  • ch’egli avea, e rimase poverissimo. E, avvenendo per caso che i sanesi
  • mandarono certa quantitá di lor cittadini in aiuto de’ fiorentini
  • sopra gli aretini, fu costui del numero di quegli che v’andarono.
  • E, avendo fornito il servigio, e tornandosene a Siena assai male
  • ordinati e mal condotti, come pervennero alla Pieve al Toppo, furono
  • assaliti dagli aretini, e rotti e sconfitti; e nondimeno, potendosene a
  • salvamento venir Lano, ricordandosi del suo misero stato e parendogli
  • gravissima cosa a sostener la povertá, sí come a colui che era uso
  • d’esser ricchissimo, si mise in fra’ nemici, fra’ quali, come esso per
  • avventura disiderava, fu ucciso. E perciò, in modo di rimproverare,
  • gridava quell’altro spirito le sue gambe, cioè il suo corso, cosí
  • presto, cioè veloce, alle giostre dal Toppo, cioè agli scontri delle
  • lance, dalle quali fuggito non s’era, potendo; volendo in questo
  • ricordargli la cagione la quale il fece tardo al fuggire, cioè la sua
  • misera ed estrema povertá, nella quale per sua bestialitá era venuto.
  • E, percioché egli non fu prodigo, ma gittatore e dissipatore del suo,
  • il discrive l’autore in questo luogo. «E poiché forse gli fallía la
  • lena», cioè a questo spirito, che gridava rimproverando a Lano e la
  • morte e, per conseguente, la cagione della morte sua; «Di sé e d’un
  • cespuglio», nato d’una di quelle anime, «fece un groppo», cioè un nodo,
  • forse sperando per quello non doverlo di quivi poter muovere le cagne,
  • le quali il seguivano.
  • «Di dietro a loro», cioè a questi che fuggivano, «era la selva piena
  • Di nere cagne, bramose e correnti, Come veltri ch’uscisser di catena.
  • In quel che s’appiattò», cioè in questo secondo, che avea fatto un
  • groppo di sé e d’un cespuglio, «miser li denti», quelle cagne, «E quel
  • dilacerâro a brano a brano, Poi sen portâr quelle membra dolenti», del
  • dilacerato.
  • «Presemi allor lo mio duca per mano, E», lasciato stare maestro Piero
  • delle Vigne, «menommi al cespuglio», col quale colui s’era aggroppato,
  • «che piangea, Per le rotture sanguinenti», fattegli nello schiantar de’
  • rami, che avvenne nell’impeto delle cagne, «invano»: perciò dice che
  • esso piagneva invano, percioché non dovea per lo pianto suo minuirgli
  • la pena. E poi dimostra l’autore quello che questo spirito piagnendo
  • diceva, cioè:—«O Giacomo—dicea—da Sant’Andrea»; cosí mostra che
  • fosse nominato quello spirito, il quale le cagne avevano lacerato.
  • Fu adunque costui Giacomo della cappella di Santo Andrea di Padova, il
  • quale rimase di maravigliosa ricchezza erede, e quella tutta dissipò
  • e gittò via; e tra l’altre sue bestiali operazioni si racconta che,
  • disiderando di vedere un grande e bel fuoco, fece ardere una sua ricca
  • e bella villa; ultimamente divenne in tanta povertá e in tanta miseria,
  • quanto alcuno altro divenisse giammai. Laonde creder si può che esso
  • molte volte piagnesse quello che stoltamente avea consumato, e di che
  • egli dovea consolatamente poter vivere; e perciò il pone l’autore,
  • sí come peccatore che usò man violenta nelle proprie cose, in questo
  • cerchio. E segue poi l’autore il rammarichío del cespuglio, dicendo che
  • dicea il cespuglio: «Che t’è giovato di me fare schermo?», quasi dica:
  • niente, percioché tu non se’ scampato da’ denti delle cagne che ti
  • seguivano, e a me hai aggiunta pena. E ancor séguita: «Che colpa ho io
  • della tua vita rea?»—cioè, se tu sapesti, vivendo, sí mal governare il
  • tuo, che tu ne sii dannato a questa pena?
  • «Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo», cioè sopra questo cespuglio,
  • «Disse:—Chi fosti, che per tante punte», delle cime del suo albero
  • schiantate, «Soffi», cioè soffiando mandi fuor per quelle punte, «con
  • sangue doloroso sermo?».—
  • «E quegli a noi», disse:—«O anime, che giunte», cioè pervenute,
  • «Siete a veder lo strazio disonesto», fatto di quel peccatore, il
  • quale a questo mio bronco s’era aggroppato, e «C’ha le mie fronde sí
  • da me disgiunte, Ricoglietele al piè del tristo cesto», di questo mio
  • cespuglio. E quinci, senza nominarsi, dice solamente la cittá lá onde
  • egli fu, e ancora qual quella fosse mostra per alcuna circunscrizione,
  • dicendo: «Io fui della cittá che nel Batista Mutò il primo padrone».
  • [Lez. LI]
  • A dichiarazione delle quali parole è da sapere che, secondo che
  • alcuni hanno opinione, quando la cittá di Firenze fu da prima posta,
  • era signor dell’ascendente Marte; e per questo, coloro li quali la
  • posono, essendo pagani, presero per loro protettore e maggiore iddio
  • Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e
  • poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San
  • Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre
  • in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata
  • la veritá evangelica, e lasciato da’ cittadini, divenuti cristiani,
  • l’error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio.
  • E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore,
  • non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del
  • ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani
  • scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte
  • quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta
  • torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d’alcuni
  • vaticíni de’ loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser
  • fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo
  • tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla
  • cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece
  • la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o
  • che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in
  • Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare;
  • poi, riedificata al tempo dello ’mperio di Carlo magno, fu ripescata e
  • ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di
  • Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita,
  • dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in
  • capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo
  • milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d’ogni uomo, non giá per molte
  • gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la
  • cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente
  • ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi
  • né si ritrovò né si ricercò.]
  • Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu
  • il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni
  • Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore
  • da’ cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in
  • san Giovanni.
  • «Ond’e’ per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni,
  • «Sempre con l’arte sua la fará trista». In queste parole e nelle
  • seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti
  • antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con
  • battaglie, le quali aspettano all’«arte sua», cioè al suo esercizio,
  • abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura.
  • [La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere
  • che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna
  • necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un
  • malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre
  • essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti
  • pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo
  • venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’
  • nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha
  • a dire di questa iniqua opinione, dicendo:] «E se non fosse che ’n
  • sul passo d’Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor
  • di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben
  • dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era
  • diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l’acque
  • e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi,
  • oltre al grosso de’ membri, né dell’uomo né del cavallo alcuna cosa
  • si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola
  • cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e
  • grosso maestro; «Que’ cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra
  • ’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè
  • invano.
  • Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di
  • tanta potenza che, per l’esserle quella particella d’onor fatto,
  • cioè d’esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia
  • conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la
  • quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata
  • disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è
  • grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la
  • guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto
  • o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d’alcuna, tutto
  • il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare
  • un’ora.]
  • [Ma, percioché dice: «Sovra ’l cener che d’Attila rimase», è da sapere
  • che, essendo Attila, re de’ goti, passato in Italia, in esterminio e
  • ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia
  • e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni
  • Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra
  • l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che,
  • avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere,
  • volse l’ingegno agl’inganni, e con molte e false promessioni prese gli
  • animi de’ cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere
  • loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla
  • cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso
  • dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini
  • della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad
  • uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una
  • gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata, passava sotto il Capitolio.
  • Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per
  • avventura sarebbe sentita, se l’acqua della gora, al rimettere in
  • Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che
  • giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori
  • del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad
  • alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí,
  • quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de’
  • fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze,
  • chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione,
  • comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa
  • convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di
  • questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l’anno di
  • Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata,
  • cinquecentoventi anni.]
  • [Poi piú volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di
  • doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono
  • impediti da’ fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, li quali
  • estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire,
  • sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in
  • questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse
  • in lor nome, e allo ’mperadore e al popolo di Roma, che con la lor
  • forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro,
  • e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti
  • nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello
  • ’mperadore e de’ romani, e ancora de’ discendenti degli antichi
  • cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra
  • l’arsioni rimase d’Attila, reedificata Firenze, e abitata l’anno di
  • Cristo ottocentodue, all’entrata del mese d’aprile.]
  • Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse,
  • dice di che morte s’uccidesse, dicendo: «Io fe’ giubbetto», cioè
  • forche, «a me delle mie case»,—e cosí mostra s’impicasse per la gola
  • nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto»,
  • percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della
  • giustizia sono impiccati. Né è costui dall’autor nominato, credo per
  • l’una delle due cagioni: o per riguardo de’ parenti che di questo
  • cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e
  • perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte;
  • ovvero, percioché in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da
  • Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa
  • apporlo a qual piú gli piace di que’ molti.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Lez. LII]
  • «Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel
  • superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro, li
  • quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per
  • lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son
  • coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose
  • bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli
  • che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere
  • a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina
  • giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e
  • che delli loro rami e frondi l’arpie schiantando si pascono: di che
  • intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi
  • lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare
  • i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere
  • nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi
  • rivestire al dí del giudicio, come tutte l’altre faranno.
  • È adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l’autore
  • a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime
  • nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia
  • «vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto
  • cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale
  • l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam
  • noi con l’erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile.
  • La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l’anima nostra, avanti
  • che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a
  • sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa
  • potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in
  • processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in
  • questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le
  • bestie e con gli uccelli e co’ pesci e con qualunque altro animale
  • ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale
  • da Dio n’è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione,
  • di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non
  • appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli
  • organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti;
  • e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.
  • Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver
  • cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá,
  • non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché
  • l’animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo
  • essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza
  • di tempo distenderlo; come che d’alcuni si legge essersi giá uccisi,
  • non, _prima facie_, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come
  • ne scrive Valerio Massimo, _De institutis antiquis_, di quella donna
  • antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la
  • fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non
  • doverla vedere. Alcuni altri _ex proposito_ si sono uccisi per tedio
  • della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di
  • Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da’ suoi
  • servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi
  • uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel
  • quale Platone scrive _Della eternitá dell’anima_, sfasciatosi e con le
  • mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare
  • il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente
  • vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s’uccisono, sí
  • come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in
  • Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava
  • la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla
  • morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente
  • e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel
  • _Sogno di Scipione_, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».
  • Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver
  • perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali».
  • Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile,
  • quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion
  • nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il
  • quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí
  • come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa
  • o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure
  • animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né
  • ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l’autore in forma di
  • vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono,
  • cioè in forma d’albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di
  • stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia
  • vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e
  • contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.
  • Che l’arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser
  • questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo
  • «arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione
  • della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime
  • fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e
  • rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí
  • questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi
  • e a far sentire il suo rammarichío. E non solamente gli attristano
  • di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi:
  • intendendo per questo l’abominevole atto della uccisione aver del tutto
  • ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto
  • delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante,
  • vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare,
  • come la quantitá de’ tormentatori s’accresce nidificando e figliando.
  • [Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.]
  • E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi
  • uccisono.
  • Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron
  • le lor sustanzie, la qual dice che è l’essere i miseri da nere cagne
  • seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere
  • a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per
  • lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sia n continuamente
  • afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da
  • amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che
  • dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi
  • cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono
  • le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è
  • la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le
  • infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono
  • o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere,
  • cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata;
  • correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte
  • si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro
  • spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla
  • parte seconda.
  • CANTO DECIMOQUARTO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • «Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la
  • continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine
  • del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva
  • aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i
  • rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano
  • lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra
  • come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo
  • cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, li quali contro a Dio e
  • contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto
  • in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual
  • dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d’anime
  • dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’
  • dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta
  • Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato
  • avea; nella quinta l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse;
  • nella sesta Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella
  • settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve;
  • nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada.
  • La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io
  • cominciai:—Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta
  • quivi: «Or mi vien’ dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l’altro»; la
  • settima quivi: «Ed io ancor:—Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse:
  • —Omai».
  • Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor,
  • «del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo
  • amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era,
  • «ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali avevan
  • lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del
  • precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea, «a colui»,
  • cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era giá fioco», per
  • lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si
  • parte Lo secondo giron dal terzo», che è all’uscire di questo bosco;
  • ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello
  • ’nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e
  • rigida.
  • «A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente
  • parlando dichiara, e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in
  • una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal
  • suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito
  • del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del
  • settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto,
  • «l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo,
  • «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è
  • circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel
  • qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva
  • circunda il luogo, nel quale dice pervennero.
  • «Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte
  • della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo
  • di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena». È la rena una
  • terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza
  • della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e,
  • secondo alcuni, è detta «arena» da «_areo ares_», che sta per «esser
  • secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l’autor volere che
  • venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per
  • adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da «_haereo haeres_»,
  • il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora
  • dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono
  • della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e appicca. Ma,
  • come detto è, quella della quale l’autore intende qui, è della spezie
  • prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli aggettivi della rena,
  • come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo
  • di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di
  • terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice
  • che era «Non d’altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena,
  • «Che fu da’ piè di Caton giá soppressa».
  • Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale
  • dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia
  • chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui
  • romano uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente
  • in odio le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare
  • e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo,
  • non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed
  • essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il
  • quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo,
  • figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano
  • quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá
  • vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo
  • era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua
  • moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s’erano
  • rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era
  • intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise
  • con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata
  • la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare
  • che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è
  • la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva
  • essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti
  • pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l’andar
  • troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene
  • di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di
  • serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per
  • lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto
  • malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si
  • posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu
  • tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d’ogni
  • disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il
  • secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.
  • Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone
  • e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto
  • del _Purgatorio_, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque
  • ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò,
  • alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.
  • [Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per
  • tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra ’l cielo della luna e la
  • terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana
  • generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare,
  • considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto;
  • percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli
  • uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se
  • giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa
  • opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si
  • potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere
  • stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione;
  • ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi
  • che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune
  • altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente
  • addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi
  • corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in
  • buona abitudine, e noi poi, col disordinatamente vivere, corrompiamo e
  • facciamo infermi.]
  • [E che non opera della natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia
  • arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra
  • volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo
  • che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che,
  • per opera d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme
  • d’alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna,
  • e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è
  • dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá
  • chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al
  • mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e
  • avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual
  • cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere
  • convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si
  • sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo
  • piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e,
  • partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano,
  • scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno
  • profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può
  • credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le
  • quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d’Asia. E che ciò
  • possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che
  • Pomponio Mela scrive nella sua _Cosmografia_, nella quale, parlando
  • della provincia o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di
  • quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore
  • e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti
  • gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai
  • ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò,
  • venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella
  • contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione,
  • ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per
  • accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e
  • non atta all’uso umano.]
  • [Lez. LIII]
  • «O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
  • nella quale, poiché l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel
  • quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e
  • dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio».
  • [Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti
  • altri fanno; percioché vendetta propriamente è quella che gli uomini
  • disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da
  • alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché
  • Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima,
  • stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver
  • luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e
  • assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se
  • medesimi fanno, cioè che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore,
  • che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non
  • buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali
  • insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa
  • da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò,
  • se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi
  • diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando,
  • è l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol
  • «vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]
  • «Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro,
  • «Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude
  • vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien
  • tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende
  • alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia,
  • «diversa legge».
  • E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna
  • genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col
  • viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta
  • raccolta», con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di
  • questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú
  • molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella men,
  • che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá;
  • «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto
  • il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento, Piovean di fuoco dilatate
  • falde, Come di neve in alpe senza vento».
  • Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello
  • che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel
  • luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra
  • dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra lo
  • suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».
  • Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che
  • l’una è detta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion
  • questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno
  • col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata
  • da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di
  • Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú
  • occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro
  • macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia
  • letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor discrive
  • qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo
  • ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da’ raggi
  • solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro,
  • o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra
  • l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale
  • io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che
  • di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d’Inghilterra e altri),
  • e riguardando all’effetto, possiam comprendere l’autor per questo
  • ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello ’nferno
  • avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo
  • dannati sono.
  • Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che
  • alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva
  • come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide»,
  • Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo
  • fece «accioché ’l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’
  • si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che
  • con l’altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale
  • ardore», quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la
  • rena s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente
  • si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad
  • accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno
  • strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo
  • «focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender di
  • questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri peccatori
  • che sú vi stavano.
  • «Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare,
  • la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol
  • qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e
  • però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or
  • quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella,
  • «Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di
  • nuovo piovea.
  • «Io cominciai:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente
  • canto, nella quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori
  • che quivi son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi
  • el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io
  • cominciai:—Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri,
  • Ch’all’entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo
  • l’autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole
  • vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in
  • su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere
  • la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la
  • divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è
  • quel grande, che non par che curi Lo ’ncendio», di queste fiamme, negli
  • atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del
  • tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle
  • fiamme, che continuamente caggiano, «non par che ’l maturi»?—cioè
  • l’aumili.
  • «E quel medesmo, che si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui,
  • Gridò:—Qual io fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette
  • parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi
  • e l’animo dell’ arrogante; e primieramente in quanto dice che giace
  • «dispettoso e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi
  • in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i
  • presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo
  • mostrare sé non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando;
  • e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di
  • commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale
  • egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore
  • della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato
  • sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente
  • orgoglioso, superbo e bestiale.
  • E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè
  • Iddio, secondo l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino
  • all’ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè
  • da’ quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí»,
  • della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu
  • fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta»,
  • cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri,
  • e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che
  • folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i
  • fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed,
  • oltre a quegli, «Chiamando:—O buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,—a’ fabbri
  • miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece alla pugna di Flegra», nella
  • quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con
  • tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe
  • aver vendetta allegra»,—del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.
  • [Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere
  • che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto,
  • Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di rea! verga egli
  • portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con
  • questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò,
  • perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti,
  • gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di
  • tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi,
  • uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio,
  • nell’ottavo dell’_Eneida_, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e
  • Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano,
  • e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre
  • parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie
  • d’uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di
  • corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani
  • (li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la
  • madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove,
  • e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro,
  • e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove
  • combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli
  • fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual
  • cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol
  • dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]
  • Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di
  • lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l’opinione di
  • colui che dice, percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi
  • estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o
  • negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e
  • che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a
  • se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia
  • è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero
  • che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza
  • d’uno imperadore e la bassezza d’un povero uomo, non pare lo ’mperadore
  • dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e
  • di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono
  • prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da
  • vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere,
  • secondo che Stazio scrive nel suo _Thebaidos_, che poi che Edippo, re
  • di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle
  • e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia,
  • che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l’uno regnasse, l’altro
  • andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa
  • toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e
  • Pollinice se n’andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto
  • e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il
  • regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il
  • re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei
  • altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi
  • giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v’erano,
  • avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran
  • rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e
  • di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle
  • mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite
  • e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra
  • le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo,
  • tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte
  • del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella
  • cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli
  • uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini,
  • levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii che
  • venissero a combatter con lui, dicendo:—O iddii, non è alcuna delle
  • vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o
  • Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso
  • chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien’ tu, o Giove, piú
  • tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d’occorrere alle mie
  • forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le
  • tue folgori contra di me! tu se’ pur forte a spaventare le paurose
  • fanciulle co’ tuoni!—Le quali parole, e forse molte altre, mossero
  • gl’iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a
  • turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori,
  • una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto
  • acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual
  • parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici:
  • e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.
  • Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da
  • Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza,
  • Tanto ch’io non l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo
  • punto:—«O Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per
  • martirio che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne
  • la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la
  • tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti rodi di
  • te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito».—
  • «Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
  • nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale
  • di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente
  • gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato
  • a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia»,
  • cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí
  • superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo:—Quel fu
  • l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra
  • è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e poco par
  • che’l pregi; Ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto
  • assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore, trasportando,
  • _auctoritate poetica_, in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che
  • s’intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi
  • sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre
  • il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.
  • «Or mi vien’ dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
  • nella quale l’autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e
  • dice: «Or mi vien’ dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda
  • che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata
  • per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al
  • bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’ li
  • tenghi stretti»,—cioè accostati.
  • [Lez. LIV]
  • «Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del
  • bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi
  • raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando
  • veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la
  • sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso,
  • perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale
  • di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel
  • prossimo.
  • E appresso questo, per una comparazion di scrive la grandezza e ’l
  • corso di quello, dicendo: «Quale del bulicame», cioè di quello lago
  • bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il
  • ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici».
  • Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali
  • dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come
  • questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello
  • volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello»,
  • che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè
  • le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l’acqua,
  • «Fatte eran pietra, e i margini d’allato», come nel presente mondo
  • fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli
  • Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici», dove le pendici
  • erano cosí divenute di pietra.
  • —«Tra tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
  • nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali,
  • dicendo:-«Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi
  • entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo,
  • entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima
  • porta dello ’nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.),
  • «Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo
  • presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte
  • fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta»,—cioè
  • spegne.
  • «Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non
  • fu», ecc.), «Per ch’io ’l pregai che mi largisse», cioè donasse, «il
  • pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la
  • piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di
  • cui largito m’aveva ’l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.
  • Per lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli
  • l’origine de’ detti fiumi, cosí:—«In mezzo ’l mar siede un paese
  • guasto,—Diss’egli allora,—che s’appella Creta».
  • Creti è una isola dell’ Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò
  • dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra
  • isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e
  • cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché
  • d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti
  • e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu
  • dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres».
  • Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati
  • molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e
  • fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della
  • contrada.
  • E séguita: «sotto’ l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in
  • questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che
  • Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra
  • mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è
  • un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua
  • signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo
  • casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu
  • il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non
  • è; e però dice Giovenale,
  • _Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam
  • in terris_, ecc.
  • «Una montagna v’è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua
  • e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane
  • e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe
  • il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella».
  • E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge
  • che Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva
  • vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta»,
  • cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla,
  • volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire
  • e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle;
  • «fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi
  • allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea»,
  • questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna
  • allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo
  • il fanciullo, vi si facesse rom ore da coloro alli quali raccomandato
  • l’avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non
  • fosse udito né conosciuto.
  • [E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta
  • di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che,
  • avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in
  • altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il
  • quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era;
  • il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle
  • dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano
  • a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli avesse
  • ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa
  • Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne
  • che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis
  • e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli,
  • uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza
  • fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e
  • occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un
  • popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E
  • questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno
  • non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine
  • tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni
  • battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore,
  • accioché il pianto non fosse sentito.]
  • E poi segue l’autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran
  • veglio», cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte
  • le spalle inver’ Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto
  • posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio»,
  • cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso
  • ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro
  • argento son le braccia e ’l petto», di questa statua, «Poi è di rame
  • fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai
  • piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d’altro metallo,
  • «Salvo che ’l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come
  • sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ’n su l’altro», cioè in sul
  • sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in
  • sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del
  • corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore
  • e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la
  • bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello
  • versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il
  • calore del quale si crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.
  • Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa
  • statua, cioè quella ch’è d’ariento e quella di rame e quella di ferro e
  • quella che è di terra cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella
  • che è d’oro, «è rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola,
  • «Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua,
  • «accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale
  • è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dello ’nferno. «Lor
  • corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi
  • siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia»,
  • cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li
  • quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si
  • discende al profondo dello ’nferno: «Fanno», queste lagrime di sé,
  • cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello ’nferno, del quale
  • è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude
  • della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto,
  • la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e
  • «Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello ’nferno,
  • e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume
  • all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor discrive esser
  • vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’ violenti. «Poi sen
  • va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello
  • il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una
  • «doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l’acque
  • prestamente d’una parte ad un’altra; e però è detta «doccia» da questo
  • verbo «_duco ducis_», il quale sta per «menare». Poi mostra questo
  • rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al
  • centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un
  • fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello ’nferno; «e qual sia
  • quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno»,
  • percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non
  • hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il
  • qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo
  • noi giuso; «però qui non si conta»,—come fatto sia. Quasi come se gli
  • altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in
  • luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti, dove Cocíto ancora
  • veduto non ha.
  • «Ed io a lui:—Se ’l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama
  • «rigagno» da «_rigo rigas_», che sta per «rigare», e questo rio rigava
  • la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come
  • tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?»—cioè in
  • questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi
  • maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia in piú parti veduto di sopra,
  • sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion
  • di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi
  • nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è
  • apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra
  • una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e
  • faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione,
  • conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual
  • Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me:—Tu sai che ’l luogo è tondo»,
  • cioè il luogo dello ’nferno, come piú volte di sopra è dimostrato;
  • «E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú
  • calando al fondo, Non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto», di questa
  • ritonditá dello ’nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel
  • rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo,
  • «Non dee addur maraviglia al tuo volto»,—come che per avventura
  • potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia
  • dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di
  • quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del
  • cerchio, della quale ella scende.
  • «Ed io ancor:—Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto,
  • nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro
  • fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio
  • gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor:—Maestro, ove si truova
  • Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono
  • similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di Letè, senza
  • dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’ che si fa d’esta
  • piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali
  • sono nella statua predetta.
  • —«In tutte tue quistion certo mi piaci,—Rispose;—ma ’l bollor
  • dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio
  • settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia
  • Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente»,
  • l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente
  • esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte.
  • «Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di
  • questa fossa», dello ’nferno: percioché in questo si scosta l’autore
  • dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere
  • in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá del monte di
  • purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il
  • pongono in inferno; percioché essi il pongono l’ultimo fiume dello
  • ’nferno, e dicono che, quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e
  • son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire,
  • esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell’acqua di quello,
  • dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne’
  • Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli
  • abitare l’anime de’ beati: e cosí l’autore il pone nella sommitá del
  • purgatorio, accioché l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima
  • béano di quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni
  • fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il
  • rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro
  • beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice:—Tu il vedrai, «Lá dove
  • vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta
  • rimossa»,—per la penitenza.
  • «Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente
  • canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto,
  • ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada.
  • Dice adunque: «Poi disse:—Omai è tempo da scostarsi», scendendo o
  • procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che
  • diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son
  • arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro
  • ogni vapor si spegne»,—di questi che piovono, e perciò vi si puote
  • senza cuocere andare.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Lez. LV]
  • «Poiché la caritá del natio loco», ecc. Poiché l’autore ne’ precedenti
  • due canti, per dimostrazion della ragione, ha vedute e conosciute le
  • colpe e i supplici per quelle dati dalla divina giustizia alle due
  • spezie de’ violenti, cioè a coloro li quali usaron violenza verso il
  • prossimo e contro alle cose di quello, e a coloro li quali usarono
  • violenza nelle proprie persone e nelle loro medesime cose; esso,
  • seguitando la ragione, in questo canto ne dimostra come vedesse punire
  • la terza spezie dei violenti, cioè coloro li quali usaron violenza
  • nella deitá e nelle sue cose. E costoro dimostra esser in tre parti
  • divisi, si come contro a tre cose peccarono, cioè contro a Dio, e
  • appresso contro alla natura, e, oltre a ciò, contro all’arte, le quali
  • son cose di Dio. E, comeché in tre parti divisi sieno, nondimeno ad
  • un medesimo tormento esser dannati gli dimostra, in quanto tutte e
  • tre maniere sono in una ardentissima rena, e sotto continuo fuoco,
  • che piove loro addosso, tormentati; ma in tanto son differenti, che
  • coloro, li quali nella divinitá si sforzaron di far violenza, sono
  • sopra la detta rena ardente a giacere supini, sopra sé ricevendo lo
  • ’ncendio, il quale continuo cade loro addosso; e coloro, li quali
  • fecero violenza alla natura, sono in continuo movimento sopra la detta
  • rena, similmente sopra sé ricevendo l’arsura; e coloro, li quali contro
  • all’arte adoperarono, sempre sopra la detta rena seggono, infestati
  • dalle fiamme che piovono. E. percioché, si come chiaro si vede, hanno
  • la maggior parte del tormento comune, estimo, se separata mente di
  • ciascuno dicessi l’allegoria, si converrebbe una medesima cosa piú
  • volte ripetere, il che sarebbe tedioso e fatica superflua; e però,
  • per fuggire questo inconveniente, mi pare debba essere il migliore il
  • dovere in una sola parte di tutte e tre maniere trattare. E questo, sí
  • com’io credo, sará piú utile a dover dire nella fine di tutte e tre
  • le maniere de’ puniti, che nel principio o nel mezzo; e però nella
  • fine del canto diciassettesimo, nel quale di loro la dimostrazion si
  • finisce, come conceduto mi fia, m’ingegnerò d’aprire qual fosse intorno
  • a ciò la ’ntenzion dell’autore.
  • Appresso questo, è da dichiarare nel presente canto quello che l’autore
  • intenda per la statua la quale egli discrive, e per le rotture che
  • in essa sono, e per i quattro fiumi che da essa procedono; e intorno
  • a ciò è prima da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire,
  • avendo questa statua piú tosto figurata nell’isola di Creti che in
  • altra parte del mondo; appresso, perché nella montagna chiamata Ida;
  • e, oltre a ciò, quello che esso senta per i quattro metalli e per la
  • terracotta, de’ quali esso la forma; e similmente quello che voglia che
  • noi intendiamo per le fessure, le quali in ciascun degli altri metalli,
  • fuor che nell’oro, sono, e le lagrime che d’esse escono; e ultimamente
  • quello che egli per li quattro fiumi abbia voluto.
  • Dice adunque primieramente questa statua essere locata nell’isola di
  • Creti: la qual cosa senza grandissimo sentimento non dice, percioché
  • alla sua intenzione è ottimamente il luogo e il nome conforme.
  • Intendendo adunque l’autore di volere, poeticamente fingendo, fare
  • una dimostrazione, la quale cosí all’indiano come allo ispagnuolo,
  • e all’etiopo come all’iperboreo appartiene, e dalla quale né paese,
  • né regno, né nazione alcuna, dove che ella sopra la terra sia, non è
  • chiusa; estimò esser convenevol cosa quella dover fingere in quella
  • parte del mondo, la quale a tutte le nazioni fosse comune, ed egli non
  • è nel mondo alcuna parte, che a tutte le nazioni dir si possa comune,
  • se non l’isola di Creti, sí come io intendo di dimostrare.
  • Piacque agli antichi che tutto il mondo abitabile in questo nostro
  • emisperio superiore fosse in tre parti diviso, le quali nominarono
  • Asia, Europa e Affrica; e queste terminarono in questa guisa. E
  • primieramente Asia dissono essere terminata dalla parte superiore del
  • mare Oceano, cominciando appunto sotto il settentrione, e procedendo
  • verso il greco, e di quindi verso il levante, e dal levante verso lo
  • scilocco, infino all’Oceano etiopico posto sotto il mezzodí; e poi
  • dissero quella essere separata dall’Europa dal fiume chiamato Tanai, il
  • quale si muove sotto tramontana, e, venendone verso il mezzodí, mette
  • nel mar Maggiore; il qual similmente, queste due parti dividendo con
  • l’onde sue, e continovandosi per lo stretto di Costantinopoli, e quindi
  • per lo mare chiamato Propontide, e per lo stretto d’Aveo, esce nel mare
  • Egeo, il quale noi chiamiamo Arcipelago, e perviene infino all’isola
  • di Creti, la quale è in su lo stremo del detto mare; di verso mezzodí
  • la dividono dall’Affrica col corso del fiume chiamato Nilo, il quale
  • per l’Etiopia correndo, e venendo verso tramontana, lasciata l’isola di
  • Meroe, e venendose ne in Egitto, e quello col piú occidental suo ramo
  • inchiudendo in Asia, mette nel mare Asiatico, il quale perviene dalla
  • parte del levante infino all’isola di Creti. Poi confinano Affrica dal
  • detto corso del Nilo per terra, e dal mare Oceano etiopico, infino al
  • mare Oceano atalantico, il quale è in occidente; e di verso tramontana
  • dicono quella essere terminata dal mare Mediterraneo, il qual perviene
  • in quello che ad Affrica appartiene infino all’isola di Creti, e
  • quella bagna dalla parte del mezzodí, e in parte dalla parte di ver’
  • ponente. Europa confinano dalla parte di ver’ levante dallo estremo
  • del mare Egeo, e dallo stretto d’Aveo, e dal mar chiamato Proponto, e
  • dallo stretto di Costantinopoli, e dal mar Maggiore, e dal corso del
  • fiume Tanai; dalla parte di tramontana dall’Oceano settentrionale,
  • il quale, dichinando verso l’occidente, bagna Norvea, l’Inghilterra
  • e le parti occidentali di Spagna, insino lá dove comincia il mare
  • Mediterraneo; appresso di verso mezzodí dicono lei esser terminata
  • dal mare Mediterraneo, il quale è continuo col mare, il quale dicemmo
  • Affricano; e cosí come quello che verso Affrica si distende, chiamano
  • Affricano, cosí questo, Europico, il quale si stende infino all’isola
  • di Creti, dove dicemmo terminarsi il mare Egeo. E cosí l’isola di
  • Creti appare essere in su ’l confine di queste tre parti del mondo. E,
  • dovendo di cosa spettante a ciascuna nazione, come predetto è, fingere
  • alcuna cosa, senza alcun dubbio in alcuna altra parte non si potea
  • meglio attribuire la stanza alla essenza materiale della fizione che in
  • sui confini di tutte e tre le parti del mondo, sopra i quali è posta
  • l’isola di Creti, come dimostrato è.
  • È il vero che questa dimostrazione riguarda piuttosto al rimuovere quel
  • dubbio, che intorno alla esposizion litterale si potrebbe fare, che ad
  • alcun senso allegorico, che sotto la lettera nascoso sia: e perciò,
  • quantunque assai leggiermente veder si possa, per le cose dette, quello
  • che sotto la corteccia letterale è nascoso, nondimeno, per darne alcuno
  • piú manifesto senso, dico potersi per l’isola di Creti, posta in mezzo
  • il mare, intendersi l’universal corpo di tutta la terra, la quale,
  • come assai si può comprendere per li termini disegnati di sopra alle
  • tre parti del mondo, è posta nel mezzo del mare, in quanto è tutta
  • circundata dal mare Oceano, e cosí verrá ad essere isola come Creti;
  • e dagli abitanti in essa tutto quello è addivenuto, che l’autore
  • intende di dimostrare nella seguente sua fizione. E questo pare assai
  • pienamente confermare il nome dell’isola, il quale esso appella Creta,
  • conciosiacosaché «Creta» nulla altra cosa suoni che la «terra»; e cosí
  • il nome si conforma, come davanti dissi, all’intenzion dell’autore,
  • in quanto in Creti, cioè nella terra, prenda inizio quello che esso
  • appresso dimostra, cioè negli uomini, i quali nulla altra cosa, quanto
  • al corpo, siamo che terra.
  • Ma, per lasciare qualche cosa a riguardare all’altezza degl’ingegni
  • che appresso verranno, senza piú dir del luogo nel quale l’autore
  • disegna la sua fizione, passeremo a quello che appresso segue, lá
  • dove dice che in una montagna chiamata Ida sta diritta la statua d’un
  • gran veglio. Per la quale, secondo il mio giudicio, l’autore vuol
  • sentire la moltitudine della umana generazione, quella figurando
  • ad un monte, il quale è moltitudine di terra accumulata, o dalla
  • natura delle cose o dall’artificio degli uomini, e chiamasi questo
  • monte Ida, cioè formoso, in quanto, per rispetto dell’altre creature
  • mortali, l’umana generazione è cosa bellissima e formosa; dentro alla
  • quale l’autore dice esser diritto un gran veglio, percioché dentro
  • all’esistenza, lungamente perseverata dell’umana generazione, si sono
  • in vari tempi concreate le cose, le quali l’autor sente per la statua
  • da lui discritta, la quale per ciò dice stare eretta, perché ancora
  • que’ medesimi effetti, che, giá son piú migliaia d’anni, cominciarono,
  • perseverano. E, fatta la dimostrazione del luogo universale, e ancora
  • del particulare, discrive l’effetto formale della sua intenzione, il
  • qual finge in una statua simile quasi ad una, la quale Daniel profeta
  • dimostra essere stata veduta in sogno da Nabucdonosor re. Ma non
  • ha nella sua l’autor quella intenzione, la qual Daniello dimostra
  • essere in quella, la quale dice essere stata veduta da Nabucdonosor;
  • percioché, dove in quella Daniel dimostra a Nabucdonosor significarsi
  • il suo regno e alcune sue successioni, in questa l’autore intende
  • alcuni effetti seguíti in certe varietá di tempi, cominciate dal
  • principio del mondo infino al presente tempo.
  • Dice adunque primieramente questa statua, la qual discrive, essere
  • d’un uomo grande e vecchio, volendo per questi due adiettivi
  • dimostrare, per l’uno la grandezza del tempo passato dalla creazion
  • del mondo infino ai nostri tempi, la quale è di seimila cinquecento
  • anni, e per l’altro la debolezza e il fine propinquo di questo tempo;
  • percioché gli uomini vecchi il piú hanno perdute le forze, per lo
  • sangue il quale è in loro diminuito e raffreddato; e, oltre a ciò, al
  • processo della lor vita non hanno alcuno altro termine che la morte,
  • la quale è fine di tutte le cose. Appresso dice che tiene vòlte le
  • spalle verso Damiata, la quale sta a Creti per lo levante; volendo per
  • questo mostrare il natural processo e corso delle cose mondane, le
  • quali, come create sono, incontanente volgono le spalle al principio
  • loro, e cominciano ad andare e a riguardare verso il fine loro; e per
  • questo riguarda verso Roma, la quale sta a Creti per occidente. E dice
  • la guata come suo specchio: sogliono le piú delle volte le persone
  • specchiarsi per compiacere a se medesime della forma loro; e cosí
  • costui, cioè questo corso del tempo, guarda in Roma, cioè nelle opere
  • de’ romani, per compiacere a se medesimo di quelle le quali in esso
  • furon fatte, sí come quelle che, tra l’altre cose periture fatte in
  • qualunque parte del mondo, furono di piú eccellenzia e piú commendabili
  • e di maggior fama; e, oltre a ciò, si può dir vi riguardi per
  • dimostrarne che, poiché le gran cose di Roma e il suo potente imperio
  • è andato e va continuo in diminuzione, cosí ogni cosa dagli uomini nel
  • tempo fatta, similmente nel tempo perire e venir meno.
  • Susseguentemente dice questa statua esser di quattro metalli e di
  • terracotta, primieramente dimostrando questa statua avere la testa di
  • fino oro; volendo che, come la testa è nel corpo umano il principal
  • membro, cosí per essa noi intendiamo il principio del tempo e quale
  • esso fosse. E noi intendiamo per lo _Genesi_ che nella prima creazione
  • del mondo, nella quale il tempo, che ancora non era, fu creato da Dio,
  • fu similmente creato Adamo, per lo quale e per li suoi discendenti
  • doveva essere il tempo usato: e, percioché Adamo nel principio della
  • sua creazione ottimamente alcuno spazio di tempo adoperò, e questo fu
  • tanto, quanto egli stette infra’ termini comandatigli da Dio; vuole
  • l’autore esser la testa, cioè il cominciamento del tempo, d’oro, cioè
  • carissimo e bello e puro, sí come l’oro è piú prezioso che alcuno
  • metallo; e cosí intenderemo, per questa testa d’oro, il primo stato
  • dell’umana generazione, il quale fu puro e innocente, e per conseguente
  • carissimo.
  • Dice appresso che puro argento sono le braccia e ’l petto di questa
  • statua, volendo per questo disegnare che, quanto l’ariento è piú lucido
  • metallo che l’oro, in quanto egli è bianchissimo (e il bianco è quel
  • colore che piú ha di chiarezza); cosí, dopo la innocenza de’ primi
  • parenti, l’umana generazione essere divenuta piú apparente e piú chiara
  • che prima non era, intanto che, mentre i primi parenti servarono il
  • comandamento di Dio, essi furon soli e senza alcuna successione; ma,
  • dopo il comandamento passato, cacciati del paradiso, e venuti nella
  • terra abitabile, generaron figliuoli e successori assai, per la qual
  • cosa in processo di tempo apparve nella sua moltitudine la chiarezza
  • della generazione umana, la quale, quantunque piú bellezza mostrasse di
  • sé, non fu però cara né da pregiare quanto lo stato primo, figurato per
  • l’oro. E per questo la figura di metallo molto men prezioso che l’oro.
  • Oltre a ciò, dice questa statua esser di rame infino alla ’nforcatura,
  • volendone per questo dimostrare, in processo di tempo, dopo la
  • chiarezza della moltitudine ampliata sopra la terra, essere avvenuto
  • che gli uomini, dalla ammirazion de’ corpi superiori, e ancora dagli
  • ordinati effetti della natura nelle cose inferiori, cominciarono a
  • speculare, e dalla speculazione a formare le scienze, l’arti liberali
  • e ancora le meccaniche, per le quali, sí come il rame è piú sonoro
  • metallo che alcuno de’ predetti, divennero gli uomini fra se medesimi
  • piú famosi e di maggior rinomèa che quegli davanti stati non erano. Ma,
  • percioché, come per lo cognoscimento delle cose naturali e dell’altre
  • gli uomini divennero piú acuti e piú ammaestrati e piú famosi, cosí
  • ancora piú malvagi, adoperando le discipline acquistate piú tosto in
  • cose viziose che in laudevoli; è questa qualitá di tempo discritta
  • esser di rame, il quale è metallo molto piú vile che alcun de’
  • sopradetti.
  • Appresso dice che questa statua dalla ’nforcatura in giú è tutta di
  • ferro eletto, volendo per questo s’intenda esser, successivamente alle
  • predette, venuta una qualitá di tempo, nella quale quasi universalmente
  • tutta l’umana generazione si diede all’arme e alle guerre, con la forza
  • di quelle occupando violentamente l’uno la possessione dell’altro.
  • E di questi, secondo che noi abbiam per l’antiche istorie, il primo
  • fu Nino, re degli assiri, il quale tutta Asia si sottomise, e quinci
  • discesero l’arme a’ medi e a’ persi, e da questi a’ greci e a’ macedoni
  • e a’ cartaginesi e a’ romani, li quali con quelle l’universale imperio
  • del mondo si sottomisero. E similmente, essendosi questa pestilenza
  • appiccata a’ re e a’ popoli e alle persone singulari, quantunque alcuno
  • principal dominio oggi non sia, persevera nondimeno nelle predette
  • particulari la rabbia bellica, intanto che regione alcuna sopra la
  • terra non si sa, che da guerra e da tribulazione infestata non sia.
  • E, percioché gl’istrumenti della guerra il piú sono di ferro, figura
  • l’autore questa qualitá di tempo esser di ferro: volendo, oltre a ciò,
  • sentire che, sí come il ferro è metallo che ogni altro rode, cosí la
  • guerra essere cosa la quale ogni mondana sustanza rode e diminuisce.
  • Ultimamente dice il piè destro di questa statua esser di terracotta,
  • volendone primieramente per questo mostrare esser tempo venuto, la
  • cui qualitá è, oltre ad ogni altra di sopra discritta, vile, e tanto
  • piú quanto i metalli predetti sono d’alcun prezzo, e la terracotta è
  • vilissima; e, oltre a questo, che, essendo ne’ metalli detti alcuna
  • fermezza, alcuna natural forza, e la terracotta sia fragile, e con
  • poca difficultá si rompa e schianti e spezzi: cosí le cose di questo
  • ultimo tempo sian fragili, non solo naturalmente, ma ancora per la
  • fede venuta meno, la quale soleva esser vincolo e legame, che teneva
  • unite e serrate insieme le compagnie degli uomini. E, a dimostrarne
  • le cose temporali esser propinque al fine suo, primieramente ne dice
  • il piè esser di questa vil materia; il quale è l’ultimo membro del
  • corpo, percioché, oltre a quello, alcuno inferiore non abbiamo; e,
  • come esso è quello sopra il quale tutto il nostro corpo si ferma, cosí
  • sopra questa vii materia tutto il lungo corso del tempo si termina; e
  • perciò dice che il piè di questa statua, il quale è di terracotta, è
  • il destro, e che questa statua sopra quello, piú che sopra l’altro,
  • sta eretta, cioè fermata. Vuole adunque questo piede essere il destro,
  • a dimostrarne che ogni cosa naturalmente si ferma sopra quella cosa,
  • sopra la qual crede piú perseverare in essere; e perciò questa statua
  • si ferma piú in sul destro piè, percioché nel destro piè, e in
  • ciascuno altro membro destro, è piú di forza che ne’ membri sinistri,
  • come di sopra è dimostrato. Ma questa fermezza non può molto durare,
  • percioché, quantunque la terracotta sostenga alcun tempo alcuna
  • gravezza, nondimeno, perseverando pure il peso, ella scoppia e dividesi
  • e rompesi, e cosí cade e spezzasi ciò che sopra v’era fermato: e cosí
  • ne dimostra il corso del tempo. fermato sopra cosí fragile materia,
  • non dovere omai lungamente perseverare, ma, vegnendo il dí novissimo,
  • appresso il quale Domeneddio dee, secondo che nell’_Apocalissi_ si
  • legge, fare il ciel nuovo e la terra nuova, né piú si produceranno
  • uomini né altri animali, verrá la fine di questo tempo. Il qual tempo
  • percioché è stato comune ad ogni nazione, l’ha voluto in questa statua
  • l’autore dimostrare in luogo ad ogni nazion comune, come davanti è
  • dimostrato.
  • Poi, deducendosi l’autore alla intenzion sua finale, dice che ogni
  • parte di questa statua, fuori che quella la quale è d’oro, è rotta
  • d’una fessura, della quale gocciano lagrime, intendendo per questo
  • mostrarne perché tutto questo, che poetando ha discritto, abbia
  • detto, cioè per farne chiari da qual cagione nata sia l’abbondanza
  • delle miserie infernali. La qual cagione accioché non si creda pur
  • ne’ presenti secoli avere avuto origine, dice che incominciò infino
  • a quella qualitá di tempo, la quale appresso della testa dell’oro di
  • questa statua è disegnata, cioè dopo l’esser cacciati i primi parenti
  • di paradiso; volendo per questa rottura intendersi la rottura della
  • integritá della innocenza o della virtuosa e santa vita, le quali, col
  • malvagio adoperare e col trapassare i comandamenti di Dio, son rotte e
  • viziate: e da queste eccettua l’autore la parte dell’oro, mostrando in
  • quella non essere alcuna rottura, percioché fu tutta santa e obbediente
  • al comandamento divino. E cosí dobbiam comprendere che le malvagie
  • operazioni e inique degli uomini, di qualunque paese o regione, sono
  • state cagione e sono delle lagrime, le quali caggiono delle dette
  • rotture, cioè de’ dolori e delle afflizioni, le quali per le commesse
  • colpe dalla divina giustizia ricevono i dannati in inferno; mostrandone
  • appresso queste cotali lagrime, cioè mortali colpe, dal presente mondo
  • discendere nella misera valle dello ’nferno, con coloro insieme li
  • quali commesse l’hanno; e in inferno, cioè nella dannazion perpetua,
  • fare quattro fiumi, cioè quattro cose, per le quali si comprende
  • l’universale stato de’ dannati. E nomina questi quattro fiumi, il primo
  • Acheronte, il secondo Stige, il terzo Flegetonte, il quarto e ultimo
  • Cocíto: volendo per Acheronte intendere la prima cosa, la quale avviene
  • a’ dannati.
  • È Acheronte, come di sopra alcuna volta è stato detto, interpetrato
  • «senza allegrezza»: per la quale interpetrazione, assai chiaro si
  • conosce colui, il quale per lo suo peccato discende in perdizione,
  • avanti ad ogni altra cosa perdere l’allegrezza dell’eterna beatitudine,
  • la quale gli era apparecchiata, se voluto avesse seguire i comandamenti
  • di Dio. Appresso intende l’autore per Istige, il quale è interpetrato
  • «tristizia», quello che il misero peccatore, avendo per le sue iniquitá
  • perduta l’allegrezza di vita eterna, abbia acquistato, che è tristizia
  • perpetua; percioché, come l’uom si vede perdere, dove estimava o dove
  • gli bisognava di guadagnare, incontanente s’attrista. Ma, percioché la
  • tristizia non è termine finale della miseria del dannato, séguita il
  • terzo fiume chiamato Flegetonte, il quale è interpetrato «ardente»;
  • volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il
  • peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente
  • diviene nell’ardore della gravitá de’ supplici, li quali con tanta
  • angoscia il cuocono e cruciano e faticano, che esso incontanente
  • diviene nel quarto fiume, cioè nel Cocíto. Il quale è interpetrato
  • «pianto», percioché, trafiggendo l’ardore delle pene eternali alcuno,
  • esso incontanente comincia a piangersi e a dolersi e a rammaricarsi: e
  • questo pianto non è a tempo, anzi, sí come lo stagno mai non si muove,
  • cosí questo pianto infernale mai non si muove, sí come quello che dee
  • in perpetuo perseverare. E cosí, dal cominciamento del mondo insino a
  • questo dí, dalle malvagie operazion degli uomini si cominciarono questi
  • quattro miseri accidenti, li quali in forma di quattro fiumi discrive,
  • per li quali l’abbondanza delle miserie delle pene infernali e de’
  • ricevitori di quelle sono non solamente perseverate, ma aumentate, e
  • continuamente s’aumentano, e stanno e staranno infino a tanto che la
  • presente vita persevererá.
  • CANTO DECIMOQUINTO
  • [Lez. LVI]
  • «Ora cen porta l’un de’ duri margini», ecc. Continuasi l’autore al
  • precedente canto, in quanto nella fine d’esso mostra che gli argini di
  • quel ruscelletto, il quale per la rena arsiccia correa, fanno via a chi
  • vuole giú discendere, non essendo di quegli li quali sono a quella pena
  • dannati; e nel principio di questo dimostra come su per l’uno delli
  • detti argini con Virgilio andava. E dividesi questo canto in due parti:
  • nella prima discrive l’autore la qualitá del luogo, e massimamente
  • degli argini sopra li quali andava, la qualitá di quegli dando, con
  • alcuna dimostrazion d’esempli, ad intendere; nella seconda dimostra
  • come da una schiera d’anime dannate in quel luogo guatato fosse, e
  • riconosciuto da ser Brunetto Latino, e come con lui della sua fortuna
  • futura lungamente parlasse. E comincia questa seconda quivi: «Giá
  • eravam dalla selva».
  • Dice adunque primieramente: «Ora cen porta l’un de’ duri margini». E
  • in quanto dice «cen porta», parla impropriamente, percioché il portare
  • appartiene alle cose mobili, come sono i cavalli, gli uomini e le
  • navi e le carra e simili cose, e non alle cose che non si muovono,
  • ché san di quelle quei margini; e perciò si dee intendere che essi,
  • se medesimi portando, andavano su per l’uno de’ detti margini. E dice
  • «l’uno», percioché nel precedente canto ha mostrato quegli essere due.
  • E similmente dice «duri», perché questo ancora ha davanti mostrato, che
  • ambo le pendici, cioè gli argini o margini del predetto fiumicello,
  • erano divenuti di pietra. E, a rimuovere un dubbio, il quale alcun
  • potrebbe muovere, dicendo: come andavan costoro sotto lo ’ncendio delle
  • fiamme, le quali continuamente in quel luogo cadevano? segue e dice: «E
  • ’l fummo del ruscel», cioè che surgea del ruscello, come veggiamo di
  • molti fiumi e altre acque fare, «di sovra aduggia», cioè ricuoprendo
  • fa uggia, la quale, come nel precedente canto ha detto, ammorta le
  • dette fiamme che sopra esso cadessero, «Sí che dal fuoco salva l’acqua
  • e gli argini», infra li quali s’inchiude. E sono questi argini grotte
  • fatte per forza alle rive de’ fiumi, accioché, crescendo essi, l’acqua
  • non allaghi i campi vicini. E, accioché egli dea piú piena notizia di
  • questi argini, per due esempli dimostra la lor qualitá, primieramente
  • dicendo:
  • «Quale i fiamminghi tra Guzzante e Bruggia»; due terre di Fiandra
  • poste sopra il mare Oceano, il quale è tra Fiandra e l’isola
  • d’Inghilterra; «Temendo ’l fiotto», del mare, «che ver’ lor s’avventa»,
  • sospinto dall’impeto del moto naturale del mare Oceano, «Fanno lo
  • schermo», cioè il riparo, il quale è gli argini altissimi e forti,
  • «perché ’l mar si fúggia», cioè, poi che percosso ha ne’ detti margini,
  • senza piú venire avanti, si ritragga indietro. È qui da sapere che
  • il mare Oceano, essendone, secondo che alcuni vogliono, cagione il
  • moto della luna, sempre infra ventiquattro ore, le quali sono un dí
  • naturale, si muove due volte di levante inver’ ponente, e altrettante
  • si torna di ponente inver’ levante; e quando di ver’ levante viene
  • inver’ ponente, viene con tanto impeto, che esso, giugnendo alle marine
  • a lui contermine, si sospigne avanti infra terra in alcuni luoghi per
  • molto spazio, e cosí poi, ritraendosi, lascia quelle terre espedite, le
  • quali aveva occupate. E questo suo movimento entra con tanta forza nel
  • mare Mediterraneo, che in assai luoghi, e massimamente nella cittá di
  • Vinegia, si pare. E chiamano i navicanti questo movimento il «fiotto»:
  • e questo è quello del quale l’autore intende qui, e contro al quale
  • dice che i fiamminghi fanno riparo.
  • Appresso dimostra l’autore, per lo secondo esemplo, la qualitá degli
  • argini del detto fiumicello, dicendo: «E quale i padovan lungo la
  • Brenta». Padova è una cittá molto antica, la quale Tito Livio, il
  • qual fu cittadino di quella, e Virgilio e altri molti dicono che,
  • dopo la distruzione di Troia, fu composta da Anténore troiano, il
  • quale, partitosi da Troia, con certi popoli chiamati eneti, stati di
  • Paflagonia, quivi dopo lunga navigazione pervenne, e, cacciati della
  • contrada gli antichi abitanti, li quali si chiamavano euganei, compose
  • la detta cittá, e fu il suo nome Patavo; e, oltre a questo, occupò una
  • gran provincia, sí come da Padova infino a Bergamo e poi da Padova
  • infino al Friuli, e quella da’ suoi eneti, aggiunta una lettera al
  • nome loro, chiamò Venezia. Allato a questa cittá corre un fiume il
  • qual si chiama Brenta, e nasce nelle montagne di Chiarentana, la quale
  • è una regione posta nell’Alpi, che dividono Italia dalla Magna. La
  • qual contrada è freddissima, e caggionvi grandissime nevi, le quali
  • non si risolvono infino a tanto che l’aere non riscalda, del mese di
  • maggio o all’uscita d’aprile; e allora, risolvendosi, cascano l’acque
  • di quelle nella Brenta, e fannola maravigliosamente crescere; e, se
  • racchiusa non fosse, come discende al piano, infra alti e fortissimi
  • argini, li quali quelli della contrada fanno, essa allagherebbe tutta
  • la contrada, e guasterebbe le strade, le biade e il bestiame, del quale
  • v’ha grandissima quantitá. E perciò dice l’autore che i padovani,
  • cioè quegli del distretto di Paùova, fanno simiglianti schermi che
  • i fiamminghi, cioè argini, «Per difender lor ville e lor castelli»,
  • cioè i campi e’ lavorii delle villate e delle castella, le quali per
  • lo piano di Padova sono; e questo fanno «Anziché Chiarentana», cioè
  • la neve la quale è in Chiarentana, «il caldo senta», della state, la
  • quale s’appropinqua. E, questi due esempli posti, dice che «A tale
  • immagine», cioè similitudine, «eran fatti quelli», li quali lungo
  • questo fiumicello erano, «Tutto», cioè posto, «che né si alti né sí
  • grossi», come quegli che fanno i fiamminghi e’ padovani, «Qual che si
  • fosse, lo maestro félli», cioè gli fece.
  • «Giá eravam dalla selva rimossi», cioè dal bosco, del quale di sopra
  • ha detto nel canto decimoterzo; «Tanto, ch’ io non avrei visto», cioè
  • veduto, «dov’era, Per ch’io ’ndietro rivolto mi fossi», a riguardare;
  • e ciò fu «Quando incontrammo d’anime», dannate, «una schiera»,
  • cioè molte, «Che venien lungo l’argine», sopra’l quale andavamo,
  • «e ciascuna», di quelle, «Ci riguardava come suol da sera», cioè
  • nel crepuscolo, che non è dí e non è notte, «Guardare uno», cioè
  • alcuno, «altro», cioè alcuno altro, «sotto nuova luna», cioè essendo
  • la luna nuova, la quale, percioché poca luce puote ancora avere o
  • dare, non ne fa tanta dimostrazione quanto alla vera conoscenza
  • delle cose bisognerebbe; «E si», cioè e cosí, «ver’ noi aguzzavan
  • le ciglia. Come vecchio sartor fa nella oruna», dell’ago, quando il
  • vuole infilare. Questo avviene per difetto degli spiriti visivi, li
  • quali, o da grossezza o da altra cagione impediti, quando non posson
  • ben comprendere le cose opposite, ne stringono ad aguzzar le ciglia,
  • percioché in quello aguzzar le ciglia ristrignamo in minor luogo la
  • virtú visiva, e, cosí ristretta, diviene piú acuta e piú forte al suo
  • uficio; cosí dunque, dice, facevan quelle anime per lo luogo nel quale
  • era poca luce. «Cosí», come di sopra è dimostrato, «adocchiato», cioè
  • riguardato, «da cotal famiglia», quale era quella che quivi passava,
  • «Fui conosciuto da un», di loro, «che mi prese Per lo lembo», del
  • vestimento (è il lembo la estrema parte del vestimento, dalla parte
  • inferiore), «e gridò», questo cotal che mi prese, dicendo: _-«Qual
  • maraviglia?»—(_supple_), è questa che io ti veggio qui.
  • «Ed io, quando ’l suo braccio a me distese», prendendomi, «Gli occhi
  • ficcai», cioè fiso mirai, «per lo cotto aspetto», cioè abrusciato
  • dall’incendio, il quale continuamente cadea; «Si» gli occhi ficcai,
  • «che’l viso abrusciato», e però alquanto trasformato, «non difese»,
  • cioè non tolse, «La conoscenza sua», cioè di lui, «al mio intelletto;
  • E», perciò, «chinando la mano alla sua faccia, Rispuosi:—Siete voi
  • qui, ser Brunetto?»-quasi parlando _admirative_. «E quegli» (_supple_)
  • pregò dicendo:—«O figliuol mio, non ti dispiaccia», non ti sia grave,
  • «Ser Brunetto Latino un poco teco», cioè d’aver me alquanto teco.
  • Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in
  • alcune delle liberali arti e in filosofia, ma la sua principal facultá
  • fu notaria, nella quale fu eccellente molto: e fece di sé e di questa
  • sua facultá si grande stima, che, avendo, in un contratto fatto per
  • lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsitá, volle
  • avanti esser condannato per falsario che egli volesse confessare
  • d’avere errato; e poi, per isdegno partitosi di Firenze, e quivi
  • lasciato in memoria di sé un libro da lui composto, chiamato _Il
  • tesoretto_, se n’andò a Parigi, e quivi dimorò lungo tempo, e composevi
  • un libro, il quale è in volgar francesco, nel quale esso tratta di
  • molte materie spettanti alle liberali arti e alla filosofia morale
  • e naturale, e alla metafisica, il quale egli chiamò _Il tesoro_; e
  • ultimamente credo si morisse a Parigi. E, percioché mostra l’autore il
  • conoscesse per peccatore contro a natura, in questa parte il discrive,
  • dove gli altri pone che contro a natura bestialmente adoperarono.
  • Séguita adunque il priego suo, il quale ancora nelle parole superiori
  • non era compiuto, e dice: «Ritorna indietro»; eragli per avventura
  • alquanto innanzi l’autore, e perciò il priega che ritorni; «e lascia
  • andar la traccia»,—di queste anime, le quali tutte ti riguardano,
  • le qual forse l’autore con piú studioso passo seguiva per conoscerne
  • alcuna, e per domandare degli altri che a quella pena eran dannati.
  • «Io dissi lui:—Quanto posso ven preco», che noi siamo alquanto
  • insieme; «E se volete che con voi m’asseggia», cioè ristea, «Faròl, se
  • piace a costui», cioè a Virgilio, «ché va seco», come con mia guida e
  • maestro.
  • —«O figliuol—disse» ser Brunetto—«qual di questa greggia», cioè di
  • questa brigata, «S’arresta punto, giace poi cent’anni Senza arrostarsi,
  • quando» (_supple_) avviene che «il foca il feggia», cioè il ferisca.
  • «Però va’ oltre: io ti verrò a’ panni», cioè appresso, «E poi», che io
  • avrò alquanto ragionato teco, «raggiugnerò la mia masnada», cioè questa
  • brigata, con la quale al presente sono, e «Che va piangendo i suoi
  • eterni danni»,—cioè il suo perpetuo tormento.
  • «Io non osava scender della strada», cioè dell’argine, «Per andar par
  • di lui»; e la ragione era, perché egli si sarebbe cotto, se al pari di
  • lui fosse disceso; «ma ’l capo chino Tenea», verso di lui, «com’», il
  • tiene, «uom che riverente vada», appresso ad alcuno venerabile uomo.
  • «El cominciò:—Qual fortuna o destino»; vogliono alcuni che «destino»
  • sia alcuna cosa previsa e inevitabile; «Anzi l’ultimo di», cioè anzi
  • la morte, «quaggiú ti mena?» in inferno tra noi, «E chi è questi che
  • mostra ’l cammino?»—
  • Alla qual domanda l’autor risponde:—«Lassú di sopra in la vita
  • serena»,—cioè nel mondo, il quale è chiaro, per rispetto a questo
  • luogo, «Rispuos’io lui,—mi smarri’ in una valle».
  • Di questa valle è assai detto davanti nel primo canto del presente
  • libro, e perciò qui non bisogna di replicare. E qui notantemente dice
  • «mi smarri’», non dice mi «perde’», per darne a sentire che le cose
  • perdute non si ritruovan mai, ma le smarrite si, quantunque simili
  • sieno alle perdute, tanto quanto a ritrovar si penano: e cosí coloro,
  • li quali hanno perduta la diritta via per malizia o per dannazion
  • perpetua, mai piú in quella non rientrano; coloro, che l’hanno smarrita
  • per li peccati commessi, avendo spazio di potersi pêentere e ravvedere,
  • la posson ritrovare e rientrare in quella e procedere avanti al
  • disiderato termine. E, percioché di questi cotali era l’autore, che non
  • era perduto ma smarrito nella selva, come di sopra è detto, dice «mi
  • smarrí’ in una valle».
  • E dice che vi si smarrí: «Avanti che l’etá mia fosse piena».
  • Mostrato è stato, nel primo canto di questo libro, gli anni degli
  • uomini stendersi infino al settantesimo, e che infino al trentesimo
  • quinto continuamente, o alla statura dell’uomo, o alle forze corporali
  • s’aggiugne, e perciò in quello tempo si dice essere l’etá dell’uomo
  • «piena». Dice adunque l’autore che esso, avanti che egli a questa etá
  • pervenisse, si smarrí in quella valle: il che assai ben si comprende
  • nel predetto canto, percioché ivi mostra che, essendo alla etá piena
  • pervenuto, si ravvedesse d’avere smarrita la via diritta e ritornasse
  • in quella.
  • «Pur iermattina le volsi le spalle», partendomi d’essa: e qui dimostra
  • esser giá stato un dí naturale in questo suo pellegrinaggio.
  • «Questi», del quale voi mi domandate chi egli è, «m’apparve,
  • ritornando», io, «in quella», valle, si come uomo spaventato dalle
  • tre bestie che davanti mi s’erano parate, «E riducemi a ca’», cioè a
  • casa; e ottimamente dice «e riducemi a casa», per farne vedere qual
  • sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e
  • noi siamo tutti cittadini del cielo, percioché in quello l’anime
  • nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto,
  • furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci
  • siamo si come pellegrini e forestieri: e Virgilio, cioè la ragione,
  • è quella la quale, quando noi seguiamo i suoi consigli, ne rimena,
  • mostrandoci il cammino della veritá, alla nostra original casa. «Per
  • questo calle»,—cioè per questa via, la quale, come piú volte è stato
  • mostrato, è quella che ne fa i nostri errori conoscere e conduceci alla
  • chiarezza della veritá.
  • «Ed egli a me:—Se tu segui tua stella». Tocca in queste parole
  • l’autore l’opinione degli astrologhi, li quali sogliono talvolta nella
  • nativitá d’alcuni fare certe loro elevazioni, e per quelle vedere
  • qual sia la disposizion del cielo in quel punto che colui nasce, per
  • cui fanno la elevazione. E tra l’altre cose che essi piú puntalmente
  • riguardano, è l’ascendente, cioè il grado, il quale nella nativitá
  • predetta sale sopra l’orizzonte orientale della regione; e, avuto
  • questo grado, considerano qual de’ sette pianeti è piú potente in
  • esso; e quello che truovano essere di piú potenzia in quello, quel
  • dicono essere signore dell’ascendente e significatore della nativitá. E
  • secondo la natura di quel pianeto, e la disposizion buona e malvagia,
  • la quale allora v’ha nel cielo per congiunzioni o per aspetti o per
  • luogo, giudicano della vita futura di colui, per cui la elevazione è
  • stata fatta. E però vuol qui l’autore mostrare che la sua stella, cioè
  • il pianeto, il quale fu significatore della sua nativitá, fosse tale e
  • si disposta, che essa avesse a significar di lui mirabili e gloriose
  • cose, si come eccellenzia di scienza e di fama e benivolenza di signori
  • e altre simili. E però séguita ser Brunetto, e dice: se tu séguiti gli
  • effetti della tua stella, cioè quello adoperando che essa mostra che tu
  • déi adoperare, senza storti da ciò per caso che t’avvegna, tu «Non puoi
  • fallire al glorioso porto», cioè di pervenire in gloriosa fama. Il che
  • assai bene gli è avvenuto, percioché non solamente nella nostra cittá,
  • ma per gran parte del mondo, e nel cospetto di molti eccellenti uomini
  • e grandissimi prencipi, per questo suo libro egli è in maravigliosa
  • grazia e in fama quasi inestinguibile. E questo dice ser Brunetto
  • dovergli avvenire: «Se ben m’accorsi nella vita bella», cioè nella
  • presente.
  • E puossi per queste parole comprendere ser Brunetto voler dimostrare
  • che esso fosse astrolago, e per quell’arte comprendesse ne’ corpi
  • superiori ciò che egli al presente gli dice; o potrebbesi dire ser
  • Brunetto, si come uomo accorto, aver compreso in questa vita gli
  • costumi e gli studi dell’autore esser tali, che di lui si dovesse
  • quello sperare che esso gli dice; percioché, quando un valente uomo
  • vede un giovane continuar le scuole, perseverar negli studi, usare con
  • gli uomini scienziati, assai leggiermente puote estimare lui dover
  • divenire eccellente in iscienzia. Ma che questo gli venga dalle stelle,
  • quantunque Iddio abbia lor data assai di potenzia, nol credo; anzi
  • credo venga da grazia di Dio, il quale esso di sua propria liberalitá
  • concede a coloro, li quali, faticando e studiando, se ne fanno degni.
  • «E s’io non fossi si per tempo», cioè cosí tosto, «morto», cioè di
  • quella vita passato a questa, «Veggendo il cielo a te cosí benigno»,
  • intorno alle cose pertinenti alla scienza e alla fama, alla quale
  • per la scienza si perviene. «Dato t’avrei all’opera conforto»,
  • sollecitandoti e dimostrandoti di quelle cose, le quali tu ancora per
  • te non potevi cognoscere.
  • E, poi che ser Brunetto gli ha detto questo, accioché il conforti al
  • ben perseverare nel bene adoperare, ed egli si deduce a dimostrargli
  • quello che la fortuna gli apparecchia, cioè il suo esilio; e accioché
  • esso con minor noia ascolti quello che dir gli dee; gli premette la
  • cagione, mostrando quella essere tale, che la ’ngiuria della fortuna,
  • la quale gli s’apparecchia, non gli avverá per suo difetto, come a
  • molti avviene, ma per difetto di coloro li quali gliele faranno. E
  • dice: «Ma quello ’ngrato popolo e maligno», il quale è oggi divenuto
  • fiorentino; e chiamalo «ingrato», per certe operazioni precedenti, da
  • esso fatte verso coloro li quali l’avevano servito e onorato, e quasi
  • trattolo di servitudine e di miseria; e percioché il popolo, secondo
  • il romano costume, è universalmente tutta la cittadinanza di qualunque
  • cittá, accioché di tutti i fiorentini non s’intenda esser questa
  • infamia d’ingratitudine, distingue, dicendo sé dire di quel popolo
  • maligno, «Che discese di Fiesole ab antico».
  • Fiesole, secondo che alcuni vogliono, è antichissima cittá, e quella
  • dicono essere stata edificata da non so quale Atalante de’ discendenti
  • di Iafet, figliuol di Noé, prima che altra cittá d’Europa: la qual
  • cosa creder non posso che vera sia; nondimeno chi che si fosse
  • l’edificatore, o quando, ella fu, secondo cittá mediterranea, assai
  • notabile. E, secondo che questi medesimi dicono, avendo seguita la
  • parte di Catellina, quando congiurò contro alla salute publica di Roma,
  • fu per li romani disfatta, e parte de’ suoi cittadini ne vennero ad
  • abitare in Firenze, la quale per li romani in quegli medesimi tempi
  • si fece e fu abitata di romani: e cosí fu abitata primieramente di
  • questi due popoli, cioè di romani e di fiesolani. Poi vogliono che,
  • in processo di tempo, Firenze fosse disfatta da Attila flagello, e
  • la detta cittá di Fiesole reedificata, e cosí quegli fiesolani, che
  • in Firenze abitavano, essersi tornati ad abitare nell’antica lor
  • cittá. Poi susseguentemente, essendo imperadore Carlo magno, affermano
  • Firenze essere stata contro al piacere de’ fiesolani reedificata, e
  • abitata di romani e di quelle reliquie che per la contrada si trovarono
  • de’ discendenti di coloro, li quali, quando da Attila fu disfatta,
  • l’abitavano.
  • Appresso dicono essere state lunghe guerre e dannose tra’ fiesolani
  • e’ fiorentini, le quali all’una parte e all’altra rincrescendo,
  • vennero a lunghissime triegue, e, come finivano, le rinnovavano, e
  • sicuramente usavano l’uno nella cittá dell’altro. Sotto la qual sicurtá
  • i fiorentini, non guardandosi di ció i fiesolani, occuparono e presono
  • Fiesole, fuori che la ròcca; e, patteggiati si i fiesolani con loro di
  • dovere abitare in Firenze, e di due popoli divenire uno, fu Fiesole
  • disfatta al tempo del primo Arrigo imperadore; e i fiesolani tornati in
  • Firenze, di due segni comuni fecero uno, il quale ancora in Firenze si
  • tiene in un gran gonfalone bianco e vermiglio; e insieme raccomunarono
  • gli ufici publici, e con parentadi e con usanze, quanto poterono,
  • insieme s’unirono. Nondimeno mostra qui l’autore, quella acerbezza
  • antica e nimichevole animo esser sempre perseverata di discendente in
  • discendente de’ fiesolani, e ancora stare; e per questo dice che quel
  • popolo fiesolano, che in Firenze venne ad abitare. «E tiene ancor del
  • monte e del macigno»: «del monte», in quanto rustico e salvatico, e
  • «del macigno», in quanto duro e non pieghevole ad alcuno liberale e
  • civil costume. E, dice, questo cotal popolo disceso di Fiesole, «Ti
  • si fará, per tuo ben far, nemico», si come quello al quale è in odio
  • la vertú e l’operazioni degne di laude; e, di questo fartisi nimico,
  • seguirá che tu sarai cacciato di Firenze. «Ed è cagion», che tu da lor
  • sia cacciato, per ciò «che tra li lazzi sorbi, Si disconvien», cioè
  • non è convenevole, «fruttar», cioè fruttificare, «lo dolce fico». Vuol
  • sotto questa metafora l’autore intendere non esser convenevole che tra
  • uomini rozzi, duri, ingrati e di malvagia condizione, abiti e viva un
  • uom valoroso, di gentile animo e di grande eccellenzia.
  • [Lez. LVII]
  • Poi segue: «Vecchia fama nel mondo gli chiama orbi», cioè ciechi.
  • Della qual fama si dice esser cagione questo: che, andando i pisani
  • al conquisto dell’isola di Maiolica, la quale tenevano i saracini, e
  • a ciò andando con grandissimo navilio, e per questo lasciando la lor
  • cittá quasi vòta d’abitanti, non parendo loro ben fatto, pensarono
  • di lasciare la guardia di quella al comun di Firenze, del quale essi
  • erano a que’ tempi amicissimi. E, di ciò richiestolo, e ottenuto
  • quello che disideravano, promisono, dove vittoriosi tornassero, di
  • partire col detto comune la preda che dell’acquisto recassono. E,
  • avendo i fiorentini con grandissima onestá servata la cittá, e i pisani
  • tornando vincitori, ne recarono due colonne di porfido vermiglio
  • bellissimo, e porti, di tempio o della cittá che fossero, di legno,
  • ma nobilissimamente lavorate: e di queste fecero due parti, che
  • posero dall’una parte le porti e dall’altra le due colonne coperte di
  • scarlatto, e diedero le prese a’ fiorentini, li quali, senza troppo
  • avanti guardare, presono le colonne. Le quali venutene in Firenze, e
  • spogliate di quella veste scarlatta, si trovarono essere rotte, come
  • oggi le veggiamo davanti alla porta di San Giovanni. Or voglion dire
  • alcuni che i pisani, essendo certi che i fiorentini prenderebbono le
  • colonne, accioché essi non avesser netto cosí fatto guiderdone, quelle
  • abbronzarono, e in quello abbronzare, quelle esser cosí scoppiate,
  • e, accioché i fiorentini di ciò non s’ accorgessono, le vestirono di
  • scarlatto: e perciò, per questo poco accorgimento de’ fiorentini, esser
  • loro stato allora imposto questo sopranome, cioè ciechi, il quale mai
  • poi non ci cadde. Ma, quanto è a me, non va all’animo questa essere
  • stata la cagione, né quale altra si sia potuta essere non so. Seguono,
  • appresso, troppo piú disonesti cognomi: e volesse Iddio che non si
  • verificassero ne’ nostri costumi, piú che si verifichi il sopradetto!
  • Dice adunque: «Gente avara, invidiosa e superba». I fiorentini essere
  • avarissimi appare ne’ lor processi. E, se ad altro non apparisse,
  • appare al male osservare delle nostre leggi, le quali, ancora che
  • con difficultá alcuna se ne ottenga, guardando ciascuno che il suo
  • consentimento ha a prestare a confermazion di quella, non al comun
  • bene, ma alla sua particularitá; se pur si ferma, adoperando la
  • innata cupiditá, della quale tutti siam fieramente maculati, per li
  • componitor medesimi di quella, con astuzie diaboliche, si truova via e
  • modo che il suo valore diventa vano e frivolo, salvo se in alcuni men
  • possenti non si stendesse. Appresso, ne’ publici offici si fa prima
  • la ragion del guadagno che seguir ne dee a chi il prende, che della
  • onorevole e leale esecuzion di quello. Lascio stare le rivenderie,
  • le baratterie, le simonie e l’altre disonestá moventi da quella; e,
  • perché troppo sarebbe lungo il ragionamento, dell’usure, delle falsitá,
  • de’ tradimenti e di simili cose mi piace lasciare stare. Sono, oltre
  • a ciò, i fiorentini oltre ad ogni altra nazione invidiosi. Il che si
  • comprende ne’ nostri aspetti turbati, cambiati e dispettosi, come o
  • veggiamo o udiamo che alcuno abbia alcun bene; e per contrario nella
  • dissoluta letizia e festa, la qual facciamo sentendo alcuno aver avuta
  • la mala ventura o essere per averla. Parsi ne’ nostri ragionamenti,
  • ne’ quali noi biasimiamo, danniamo e vituperiamo i costumi e l’opere
  • laudevoli di qualunque buono uomo, raccontiamo i vitupèri e le vergogne
  • e’ danni di ciascheduno; parsi nelle operazioni, nelle quali noi siamo,
  • troppo piú che nelle parole, nocevoli. Che piú? Superbissimi uomini
  • siamo, in ogni cosa ci pare esser degni di dovere avanti ad ogni altro
  • esser preposti, facendo di noi maravigliose stime, non credendo che
  • alcuno altro vaglia, sappia o possa, se non noi. Andiamo con la testa
  • levata, nel parlare altieri e presuntuosi nelle ’mprese, e tanto di noi
  • medesimi ingannati, che sofferir non possiamo né pari né compagnone;
  • teneri piú che ’l vetro, per ogni piccola cosa ci turbiamo e divegnam
  • furiosi, e in tanta insania divegnamo, che noi ardiamo di preporre le
  • nostre forze a Dio, di bestemmiarlo e d’avvilirlo. De’ quali vizi, esso
  • permettendolo, non che da lui, ma bene spesso da molto men possente che
  • non siam noi, ci troviamo sgannati.
  • Poi segue ser Brunetto ammaestrandolo, e dice: «Da’ lor costumi fa’
  • che tu ti forbi», cioè ti servi immaculato. «La tua fortuna», cioè il
  • celeste corso, «tanto ben ti serba», in laudevole fama, in sufficienza,
  • in amicizie di grandi uomini. «Che l’una parte e l’altra», cioè i
  • fiesolani e’ fiorentini, «avranno fame Di te», cioè disiderio, poi che
  • cacciato t’avranno: «ma lungi fia dal becco l’erba», cioè l’effetto
  • dal disiderio, percioché essi non ti riavranno mai. «Faccian le bestie
  • fiesolane», cioè gli stolti uomini fiesolani, «strame Di lor medesme»,
  • cioè rodan se medesimi con li loro malvagi pensieri e con le lor
  • malvagie operazioni, «e non tocchin la pianta», per roderla, «S’alcuna
  • surge ancor nellor letame», cioè nel luogo della loro abitazione, la
  • qual somiglia al letame, percioché di sopra l’ ha chiamate bestie; «In
  • cui riviva», cioè per buone operazioni risurga, «la sementa santa, Di
  • que’ roman che vi rimaser»; volendo qui mostrare li romani, li quali
  • vennero ad abitar Firenze, essere stati quali furon quegli antichi, per
  • le cui giuste e laudevoli opere si ampliò e magnificò il romano imperio
  • (ma in ciò non sono io con l’autore d’una medesima opinione, percioché
  • infino a’ tempi de’ primi imperadori era Roma ripiena della feccia
  • di tutto il mondo, ed era dagl’imperadori preposta a’ nobili uomini
  • antichi, giá divenuti cattivi): «quando fu Fatto il nido di malizia
  • tanta»; e chiama qui Fiorenza «il nido di malizia tanta», e questo
  • non indecentemente, avendo riguardo a’ vizi de’ quali ne mostra esser
  • maculati.
  • —«Se fosse tutto pieno il mio dimando—Rispos’io lui,—voi non
  • sareste ancora. Dell’umana natura», la quale per eterna legge ciò che
  • nasce fa morire, «posto in bando», cioè di quella vita cacciato, anzi
  • sareste ancora vivo; e quinci gli dice la cagion perché esso questo
  • dimanderebbe, perciò «Che in la mente m’è fitta», cioè con fermezza
  • posta, «ed or m’accora», cioè mi va al cuore, «La cara buona imagine
  • paterna, Di voi», verso di me, «quando nel mondo», vivendo voi, «ad ora
  • ad ora. Mi mostravate come l’uom s’eterna», per lo bene e valorosamente
  • adoperare. E cosí mostra l’autore che da questo ser Brunetto udisse
  • filosofia, gli ammaestramenti della quale, si come santi e buoni,
  • insegnano altrui divenire eterno e per fama e per gloria. «E quanto
  • io l’abbo in grado», quello che giá mi dimostraste, «mentr’io vivo,
  • Convien che nella mia lingua si scema», percioché sempre vi loderò,
  • sempre vi commenderò.
  • «Ciò che narrate di mio corso», cioè della mia futura fortuna,
  • «scrivo», nella mia memoria, «E serbolo a chiosar con altro testo»,
  • cioè a dichiarare con quelle cose insieme, le quali gli avea predette
  • Ciacco e messer Farinata, «A donna», cioè a Beatrice, «che saprá, s’a
  • lei arrivo», chiosare e dichiarare e l’altre cose e quelle che dette
  • m’avete. «Tanto vogl’io che vi sia manifesto, Purché mia coscienza non
  • mi garra», cioè non mi riprenda, se per avventura alcuna ingiuria piú
  • pazientemente che il convenevole sostenessi, «Ch’alla fortuna», cioè a’
  • casi sopravvegnenti, «come vuol, son presto», a ricevere e a sostenere.
  • «Non è nuova agli orecchi miei tale arra», cioè tale annunzio, quale
  • è quello il quale mi fate, percioché da Ciacco e da messer Farinata
  • m’è stato predetto: «Però giri Fortuna la sua ruota», cioè faccia il
  • suo uficio di permutare gli onori e gli stati, «Come le piace, e ’l
  • villan la sua marra».—Queste parole dice per quello che ser Brunetto
  • gli ha detto de’ fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali
  • qui discrive in persona di villani, cioè d’uomini non cittadini, ma di
  • villa; e in quanto dice «la sua marra», intende che essi fiesolani,
  • come piace loro, il lor malvagio esercizio adoperino, come il villano
  • adopera la marra.
  • «Lo mio maestro allora in su la gota», cioè in su la parte «Destra,
  • si volse indietro, e riguardommi. Poi disse:—Bene ascolta», cioè non
  • invano ascolta, «chi la nota»,—con effetto, la parola la quale tu al
  • presente dicesti (cioè «giri Fortuna come le piace la sua rota», ecc.),
  • volendo per questo confortarlo a dover cosí fare, come esso dice di
  • fare.
  • «Né per tanto di men», cioè perché Virgilio cosí dicesse, «parlando
  • vommi, Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni», co’
  • quali egli poco davanti andava, «piú noti», a lui, «e piú sommi», per
  • fama.
  • «Ed egli a me:—Saper d’alcuno è buono». E fagli ser Brunetto questa
  • risposta alla domanda che l’autore fece, dicendo «e piú sommi»; quasi
  • voglia ser Brunetto dire (si come assai bene appare appresso): se io
  • ti volessi dire i piú sommi, sarebbe troppo lungo, percioché tutti
  • furono uomini di nome e famosi. E, detto d’alcuno, «Degli altri fia
  • laudevole tacerci». Volendo forse per questo dire: egli v’ha si fatti
  • uomini, che lo ’nfamargli di cosí vituperevole peccato, come questo è,
  • e per lo qual dannati sono, potrebbe esser nocivo; e, se non per loro,
  • per coloro li quali di loro son rimasi. Comeché egli altra ragione
  • n’assegni, perché sia laudevole il tacersi, dicendo: «Ché ’l tempo»,
  • che conceduto m’è star teco, «saria corto», piccolo o brieve, «a tanto
  • suono», cioè a cosí lungo ragionare, come, ragionando di costoro, si
  • converrebbe fare. E, questo detto, prima gli dice in generale chi
  • essi sono, poi discende a nominarne alcuno in particulare, e dice:
  • «In somma», cioè su brevitá, «sappi che tutti fûr cherci, E letterati
  • grandi e di gran fama, D’un peccato medesmo», cioè di sogdomia, «al
  • mondo lerci», cioè brutti.
  • Pare adunque, per queste parole, i cherici e gli scienziati esser
  • maculati di questo male. Il che puote avvenire l’aver piú destro,
  • e con minor biasimo, del mescolarsi in questa bruttura col sesso
  • mascolino che col femminino, [conciosiacosaché l’usanza de’ giovani
  • non paia disdicevole a qualunque onesto uomo, ove quella delle femmine
  • è abominevole molto]; e, per questo comodo, questi cosí fatti uomini,
  • cherici e letterati, piú in quel peccato caggiono che per altro
  • appetito non farebbono.
  • «Priscian sen va con quella turba grama», cioè dolente. Fu Prisciano
  • della cittá di Cesarea di Cappadocia, secondo che ad alcuni piace, e
  • grandissimo filosafo e sommo grammatico, il quale, venuto a dimorare
  • a Roma, ad istanzia di Giuliano apostata compose in grammatica due
  • notabili libri: nell’uno trattò diffusamente e bene _Delle parti
  • dell’orazione_, nell’altro sub brevitá trattò _Delle costruzioni_.
  • Non lessi mai né udi’ che esso di tal peccato fosse peccatore, ma io
  • estimo abbia qui voluto porre lui, accioché per lui s’intendano coloro
  • li quali la sua dottrina insegnano; del qual male la maggior parte si
  • crede che sia maculata, percioché il piú hanno gli scolari giovani, e
  • per l’etá temorosi e ubbidienti, cosí a’ disonesti come agli onesti
  • comandamenti de’ lor maestri; e per questo comodo si crede che spesse
  • volte incappino in questa colpa.
  • «E Francesco d’Accorso anche vedervi», tra loro avresti potuto,
  • «S’avessi avuto di tal tigna brama», cioè disiderio.
  • Messer Francesco fu figliuolo di messer Accorso, amenduni fiorentini,
  • e amenduni grandissimi e famosi dottori in legge, in tanto che messer
  • Accorso chiosò tutto ’l _Corpo di ragion civile_, e furon le sue chiose
  • tanto accette, che elle si posono e sono e ancora s’usano per chiose
  • ordinarie nel _Codice_ e negli altri libri legali. E questo messer
  • Francesco, mentre visse, sempre lesse ordinariamente in Bologna, dove
  • si crede che ultimamente morisse.
  • Appresso dice che ancora v’avrebbe potuto vedere «Colui [potei], che
  • dal servo de’ servi», cioè dal papa, il qual se medesimo nelle sue
  • lettere chiama «servo de’ servi di Dio». E questo titolo primieramente
  • per vera umiltá si pose san Gregorio primo, essendo papa, conoscendo
  • che a lui, e a ciascun che nella sedia di san Piero siede, s’appartiene
  • di ministrare e di servire nelle cose spirituali agli amici e servi
  • di Dio, quantunque menomi; la qual cosa esso sollecitamente facea,
  • predicando loro e aprendo la dottrina evangelica, sí come nelle sue
  • _Omelie_ appare, le quali sono le prediche sue, e il nome loro il
  • dimostra: percioché «omelia» non vuole altro dire, se non «sermone al
  • popolo». Come i successori suoi questo faccino, Dio ne sa la veritá.
  • Ma questo di cui qui l’autor dice, dice che «Fu trasmutato d’Arno in
  • Bacchiglione».
  • Dicesi costui essere stato un messer Andrea de’ Mozzi, vescovo di
  • Firenze, il quale e per questa miseria, nella quale forse era disonesto
  • peccatore, e per molte altre sue sciocchezze che di lui si raccontano
  • nel vulgo; per opera di messer Tommaso de’ Mozzi, suo fratello, il
  • quale era onorevole cavaliere e grande nel cospetto del papa, per levar
  • dinanzi dagli occhi suoi e de’ suoi cittadini tanta abominazione, fu
  • permutato dal papa, di vescovo di Firenze, in vescovo di Vicenza.
  • Il che l’autore per due fiumi discrive, cioè per Arno, il quale è
  • fiume, come si vede, che passa per mezzo la cittá di Firenze, e per
  • Bacchiglione, il qual fiume corre lungo le mura di Vicenza: e cosí per
  • ciascun di questi fiumi intende quella cittá donde fu trasmutato, e
  • quella nella quale fu trasmutato. «Ove», cioè in Vicenza, «lasciò»,
  • morendo, percioché in essa morí, «li mal protesi nervi». Era questo
  • vescovo sconciamente gottoso, in quanto che, per difetto degli omori
  • corrotti, tutti i nervi della persona gli s’erano rattrappati, come in
  • assai gottosi veggiamo, e nelle mani e ne’ piedi; e cosí per questa
  • parte del corpo, cioè per li nervi, intende tutto il corpo, il quale
  • morendo lasciò in Vicenza. [Altri vogliono altramente sentire in questa
  • parte, volendo per quello vocabolo «protesi», non di tutti i nervi del
  • corpo intendere, ma di quegli solamente li quali appartengono al membro
  • virile; dicendo che «proteso» suona «innanzi teso», il quale innanzi
  • tendere avviene in quegli nervi del viril membro, che si protendono
  • innanzi quando all’atto libidinoso si viene, e perciò dicono essere
  • dall’autore detti «mal protesi», percioché contro alle naturali leggi
  • malvagiamente gli protese.]
  • «Di piú direi, ma ’l venir», al pari di te, «e ’l sermone Piú lungo
  • esser non può»; e soggiugne la cagione, dicendo: «peroch’io veggio,
  • Lá», davanti a sé, «surger nuovo fummo», forse polverio, «dal sabbione.
  • Gente vien, con la quale esser non deggio».
  • [Appare per queste parole alcuna differenzia esser tra quegli che
  • contro a natura peccarono, poiché per diverse schiere son tormentati,
  • e non osa l’una schiera esser con l’altra; e senza dubbio differenza
  • ci è, percioché non solamente in una maniera e con una sola spezie
  • d’animali si commette. Commettesi adunque questo peccato quando
  • due d’un medesimo sesso a ciò si convengono, sí come due uomini, e
  • similmente quando due femmine; il che sovente avviene, e, secondo che
  • alcuni vogliono, esse primieramente peccarono in questo vizio, e da lor
  • poi divenne agli uomini. Commettesi ancora quando l’uomo e la femmina,
  • eziandio la propria moglie col marito, meno che onestamente, e secondo
  • la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si
  • congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto
  • o l’uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma
  • ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam
  • credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí
  • i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti,
  • e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o
  • meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]
  • E, dovendosi partire dall’autore, ultimamente gli dice: «Sieti
  • raccomandato il mio _Tesoro_», cioè il mio libro, il quale io composi
  • in lingua francesca, chiamato _Tesoro_: e questo vuole gli sia
  • raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando
  • quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo
  • libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza
  • della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori,
  • né sperino mai quassú tornare, né d’inferno uscire, è pure da loro
  • disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io
  • vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo
  • libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo
  • possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi,
  • dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata,
  • e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo
  • fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la
  • poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro
  • grandissimi difetti, de’ quali l’uno sta nello sciocco opinare che non
  • sia guadagno altro che quello che empie la borsa de’ denari; e l’altro
  • sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa
  • sia la dolcezza della fama. E perciò m’aggrada di rintuzzare alquanto
  • l’opinione asinina di questi cotali.]
  • [Empiono la borsa o la cassa l’arti meccaniche, le mercatanzie, le
  • leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno
  • adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al
  • guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna
  • ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l’antiche
  • istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini,
  • e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l’arche
  • d’oro e d’argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con
  • grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta
  • sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del
  • nome suo: e questo basti aver detto dell’antiche. Delle piú ricenti non
  • so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá
  • di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d’alcuno che
  • giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se
  • pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli
  • antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per
  • la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col
  • corpo e col nome loro s’è morta e convertita in fummo, quasi non fosse
  • stata.]
  • [Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi
  • dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e
  • farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a’ nobili
  • ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non
  • dirizza l’appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso
  • e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle
  • celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni
  • sua potenzia, che l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome
  • del suo divoto componitore. E, se eterno far noi puote, gli dá almeno
  • per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo,
  • lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi
  • uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi
  • e ancor ne’ moderni. E’ son passati oltre a duemila secento anni che
  • Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza
  • del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni
  • lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare
  • né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che
  • essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e
  • di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è
  • sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua
  • origine quistione: i re, gl’imperadori, e’ sommi prencipi mondani hanno
  • sempre il suo nome quasi quello d’una deitá onorato, e infino a’ nostri
  • dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi
  • volumi, la gloria della sua fama.]
  • [Io lascerò stare i fulgidi nomi d’Euripide, d’Eschilo, di Simonide,
  • di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia
  • maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto
  • sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti,
  • li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono;
  • per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta
  • eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d’un lutifigolo, con pari
  • consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose
  • mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian
  • Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e
  • sono l’opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé,
  • e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma
  • esse hanno con seco insieme infino ne’ dí nostri fatta non solamente
  • venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i
  • mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola,
  • nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che
  • pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un
  • santuario non visitino e onorino.]
  • [E, accioché io a’ nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo
  • cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco
  • Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera
  • latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo
  • il nome suo nelle bocche, non dico de’ prencipi cristiani, li quali i
  • piú sono oggi idioti, ma de’ sommi pontefici, de’ gran maestri, e di
  • qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro
  • autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto
  • la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati
  • ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi
  • che l’opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora
  • perirá il nome loro, quando tutte l’altre cose mortali periranno.
  • Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio?
  • Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno
  • cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s’accostano, o
  • diranno che pur l’arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna?
  • Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor
  • non conosciute, e intorno a quelle s’avvolghino, le quali appena dalla
  • bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi
  • ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:
  • _Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam._
  • Ora, come io ho detto de’ poeti, cosí intendo di qualunque altro
  • componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno
  • meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale
  • ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo
  • _Tesoro_, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo.
  • Poi segue: «e piú non cheggio»;—quasi dica: questo mi sará assai.
  • «Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a
  • Verona ’l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i
  • veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini
  • ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si
  • mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché,
  • partendosi ser Brunetto dall’autore, velocissimamente correa,
  • l’assomiglia l’autore a questi cotali che quel drappo verde corrono:
  • e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro»,
  • cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti
  • gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.
  • L’allegoria del presente canto, cioè, come la pena, scritta per
  • l’autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi
  • con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si
  • dirá di tutta questa spezie de’ violenti.
  • CANTO DECIMOSESTO
  • [Lez. LVIII]
  • «Giá era il loco, ove s’udia il rimbombo». ecc. Continuasi il
  • presente canto al superiore, in questa guisa: noi dobbiamo intendere
  • che, partito ser Brunetto, l’autore e Virgilio incontanente con piú
  • veloce passo cominciarono a continuare il lor cammino; il quale
  • continuando, mostra l’autore, nel principio del presente canto, loro
  • esser pervenuti in quella parte, dove il fiumicello, su per l’argine
  • del quale andavano, cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno; e quindi
  • séguita, discrivendo quello che, in quella parte, dove pervennero,
  • vedesse. E dividesi il presente canto in nove parti: nella prima per
  • alcun segno dimostra il luogo dove venissero; nella seconda dice come
  • tre ombre, di lontano correndo verso loro, gli chiamavano; nella terza
  • dice come Virgilio gl’impone che aspetti tre ombre le quali il venivan
  • chiamando; nella quarta scrive chi questi tre fossero; nella quinta
  • dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse; nella sesta dimostra
  • una domanda fatta da loro e la sua risposta; nella settima pone un
  • priego fattogli da loro e la lor partita; nella ottava come, piú avanti
  • procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello; nella nona pone
  • come, per opera di Virgilio, la Fraude venisse alla riva, alla quale
  • essi erano pervenuti. E comincia la seconda quivi: «Quando tre ombre»;
  • la terza quivi: «Alle lor grida»; la quarta quivi: «Ricominciâr, come
  • noi»; la quinta quivi: «S’io fossi»; la sesta quivi:—«Se lungamente»;
  • la settima quivi:—«Se l’altre volte»; la ottava quivi: «Io il
  • seguiva»; la nona quivi: «Io avea una».
  • Comincia adunque cosí: «Giá era il loco», al quale pervenuti eravamo,
  • «ove s’udia il rimbombo Dell’acqua», cioè di quel fiumicello del
  • quale ha detto di sopra; e chiamiam noi «rimbombo» quel suono, il
  • quale rendono le valli, d’alcun suono che in esse si faccia; e questo
  • rimbombo, perché l’acqua di quel fiumicello «cadea nell’altro giro»,
  • cioè nel cerchio ottavo dello ’nferno; il quale rimbombo, dice
  • l’autore, era «Simile a quel che l’arnie fanno rombo», cioè era simile
  • a quel rombo che l’arnie fanno, cioè gli alvei o i vasi ne’ quali le
  • pecchie fanno li lor fiari, il quale è un suon confuso, che simigliare
  • non si può ad alcun altro suono.
  • «Quando tre ombre». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
  • nella qual, poi che l’autore ha discritto il luogo dove pervenuti
  • erano, dice come Virgilio gl’impose che aspettasse tre ombre, le
  • quali il venivan chiamando, e dice cosí: «Quando tre ombre insieme
  • si partîro, Correndo», verso loro, «d’una turba», d’anime, «che
  • passava», ivi vicino a loro, «Sotto la pioggia dell’aspro martíro»,
  • cioè di quelle fiamme. «Venían ver’ noi», correndo; «e ciascuna
  • gridava:—Sóstati tu, che all’abito ne sembri Essere alcun di nostra
  • terra prava»,—cioè di Firenze. E puossi in queste parole comprendere,
  • in quanto dicono che «all’abito ne sembri», che quasi ciascuna cittá
  • aveva un suo singular modo di vestire distinto e variato da quello
  • delle circunvicine; percioché ancora non eravam divenuti inghilesi né
  • tedeschi, come oggi agli abiti siamo.
  • «Aimè! che piaghe», cotture, come hanno quegli che con le tenaglie
  • roventi sono attanagliati, «vidi ne’ lor membri, Ricenti e vecchie,
  • dalle fiamme accese», fatte. «Ancor men duol, pur ch’io me ne
  • rimembri», cioè ricordi. Suole l’autore nelle parti precedenti sempre
  • mostrarsi passionato, quando vede alcuna pena, della quale egli si
  • sente maculato: non so se qui si vuole che l’uomo intenda per questa
  • compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa
  • scellerata colpa; e però il lascio a considerare agli altri.
  • «Alle lor grida», le quali chiamando facevano, «il mio dottor
  • s’attese»; e, conosciutigli, «Volse il viso ver’ me, e:—Ora
  • aspetta,—Disse;—a costor si vuole esser cortese», cioè d’aspettargli
  • e d’udirgli. E in ciò mostra sentire costoro essere uomini autorevoli
  • e famosi, li quali, quantunque dannati sieno, nondimeno quelle cose,
  • che valorosamente operarono, gli fanno degni d’alcuna onorificenza. E
  • poi segue: «E se non fosse il fuoco che saetta La natura del luogo», sí
  • come la divina giustizia vuole, «io dicerei che meglio stesse a te»,
  • andando loro incontro, «ch’a lor la fretta»,—di correr verso di te.
  • «Ricominciâr, come noi ristemmo, ei», cioè essi, «L’antico verso», cioè
  • chiamandoci; «e, quando a noi fûr giunti, Fêro una ruota di sé tutti e
  • trei».
  • «Qual soleano i campion far nudi ed unti, Avvisando lor presa e lor
  • vantaggio». Usavano gli antichi, e massimamente i greci, molti giuochi
  • e di diverse maniere, e questi quasi tutti facevano nelli lor teatri,
  • accioché da’ circunstanti potessero esser veduti; e quella parte del
  • teatro, dove questi giuochi facevano, chiamavan «palestra». E tra
  • gli altri giuochi, usavano il fare alle braccia, e questo giuoco si
  • chiamava «lutta». E a questi giuochi non venivano altri che giovani
  • molto in ciò esperti, e ancora forti e atanti delle persone, e
  • chiamavansi «atlete», li quali noi chiamiamo oggi «campioni»; e, per
  • potere piú espeditamente questo giuoco fare, si spogliavano ignudi,
  • accioché i vestimenti non fossero impedimento o vantaggio d’alcuna
  • delle parti; ed, oltre a questo, accioché piú apertamente apparisse
  • la virtú del piú forte, s’ugnevan tutti o d’olio o di sevo o di
  • sapone: la quale unzione rendeva grandissima difficultá al potersi
  • tenere, percioché ogni piccol guizzo, per opera dell’unzione, traeva
  • l’uno delle braccia all’altro; e cosí unti, avanti che venissero al
  • prendersi, si riguardavan per alcuno spazio, per prendere, se prender
  • si potesse, alcun vantaggio nella prima presa. E questo è ciò che
  • l’autore in questa comparazione vuol dimostrare.
  • E poi, per compiere la comparazion, segue: «Prima che sien tra lor
  • battuti e punti». Parla qui l’autore _metaphorice_, percioché a questo
  • giuoco non interviene alcuna battitura o puntura corporale, ma mentale
  • puote intervenire, in quanto colui, che ha il piggior del giuoco, è
  • battuto e punto da vergogna.
  • Poi segue: «Cosí, rotando», volgevansi questi tre in modo di ruota,
  • per non istar fermi, e come che si volgessono, sempre tenevano il viso
  • vòlto verso l’autore e con lui parlavano; e questo è quello che vuol
  • dire: «ciascuna il visaggio Drizzava a me; sí che ’n contrario il collo
  • Faceva a’ piè continuo viaggio»; in quanto il collo si torceva verso
  • l’autore, ove i piedi talvolta si volgevano, e secondo che il moto
  • circulare richiedeva, verso il sabbione.
  • E, cosí rotandosi, cominciò l’un di loro a dire all’autore:—«E se
  • miseria d’esto luogo sollo», cioè non tanto fermo, percioché di sopra
  • la rena, la quale è di sua natura rara, è malagevole a fermare i piedi;
  • «Rende in dispetto noi», facendoci parere degni d’essere avuti poco a
  • pregio, e per conseguente, «e’ nostri prieghi,—Cominciò l’uno», di
  • loro a dire, e, oltre a ciò,—«il tristo aspetto e brollo», in quanto
  • siamo dal continuo fuoco cotti e disformati; ma, non ostante questa
  • deformitá, «La fama nostra», la qual di noi nel mondo lasciammo, «il
  • tuo animo pieghi», a compiacerne di questo, cioè «A dirne chi tu se’,
  • che i vivi piedi Cosí sicuro per lo ’nferno freghi»; quasi voglia dire:
  • percioché questo ne fa assai maravigliare.
  • E, accioché esso renda l’autore liberale a dover far quello che
  • addomanda, prima che la risposta abbia di ciò, che egli addomanda,
  • nomina i compagni suoi e sé, dicendo: «Questi, l’orme di cui pestar mi
  • vedi», dice di colui che davanti gli andava, l’orme del quale conveniva
  • a lui, che il seguiva correndo, pestare, cioè scalpitare, «Tutto»,
  • cioè posto, «che nudo e dipelato vada», percioché le fiamme, le quali
  • cadevano accese, gli avevano tutta arsa la barba e’ capelli, e però
  • dice «dipelato»; «Fu di grado maggior», di nobiltá di sangue e di stato
  • e d’operazioni, «che tu non credi», vedendolo cosí pelato e cotto:
  • «Nepote fu della buona Gualdrada», cioè figliuolo del figliuolo di
  • questa Gualdrada, e cosí fu nepote.
  • Questa Gualdrada, secondo che soleva il venerabile uomo Coppo di
  • Borghese Domenichi raccontare, al qual per certo furono le notabili
  • cose della nostra cittá notissime, fu figliuola di messer Bellincion
  • Berti de’ Ravignani, nostri antichi e nobili cittadini: ed essendo per
  • avventura in Firenze Otto quarto imperadore, e quivi per farla piú
  • lieta della sua presenza andato alla festa di San Giovanni, avvenne che
  • insieme con l’altre donne cittadine, sí come nostra usanza è, la donna
  • di messer Berto venne alla chiesa, e menò seco questa sua figliuola,
  • chiamata Gualdrada, la quale era ancor pulcella. E postesi da una parte
  • con l’altre a sedere, percioché la fanciulla era di forma e di statura
  • bellissima, quasi tutti i circunstanti si rivolsero a riguardarla, e
  • tra gli altri lo ’mperadore, il quale, avendola commendata molto e di
  • bellezza e di costumi, domandò messer Berto, il quale era davanti da
  • lui, chi ella fosse. Al quale messer Berto, sorridendo, rispose:—Ella
  • è figliuola di tale uomo, che mi darebbe il cuore di farlavi basciare,
  • se vi piacesse.—Queste parole intese la fanciulla, sí era vicina a
  • colui che le dicea, e, alquanto commossa della opinione che il padre
  • aveva mostrata d’aver di lei, che ella, quantunque egli volesse, si
  • dovesse lasciar basciare ad alcuno men che onestamente; levatasi in
  • piede, e riguardato alquanto il padre, e un poco per vergogna mutata
  • nel viso, disse:—Padre mio, non siate cosí cortese promettitore della
  • mia onestá, ché per certo, se forza non mi fia fatta, non mi bascerá
  • mai alcuno, se non colui il quale mi darete per marito.—Lo ’mperadore,
  • che ottimamente la ’ntese, commendò maravigliosamente le parole e la
  • fanciulla, affermando seco medesimo queste parole non poter d’altra
  • parte procedere che da onestissimo e pudico cuore; e perciò subitamente
  • venne in pensiero di maritarla. E, fattosi venir davanti un nobil
  • giovane chiamato Guido Beisangue, che poi fu chiamato conte Guido
  • vecchio, il quale ancora non avea moglie, e lui confortò e volle che la
  • sposasse: e donògli in dote un grandissimo territorio in Casentino e
  • nell’Alpi, e di quello lo intitolò conte. E questi poi di lei ebbe piú
  • figliuoli, tra’ quali ebbe il padre di colui di cui qui si ragiona, il
  • quale volle che nominato fosse Guido, percioché il primo suo figliuolo
  • fu. E, percioché questa Gualdrada fu valorosa e onorabile donna, la
  • cognomina qui l’autor «buona»; e perciò da lei dinomina il nipote,
  • perché per avventura estimò lei essere stata donna da molto piú che il
  • marito non fu uomo.
  • Appresso questo, dice l’autore il nome di questo nepote della
  • Gualdrada, dicendo: «Guido Guerra ebbe nome». Il sopranome di questo
  • Guido si crede venisse da un disiderio innato d’arme, il quale si dice
  • che era in lui, d’esser sempre in opere di guerra. «Ed in sua vita Fece
  • col senno assai e con la spada».
  • Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando
  • combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada
  • in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale
  • ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò,
  • dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s’ampliò
  • molto.
  • «L’altro, ch’appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio
  • Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe
  • esser gradita», percioché furon l’opere sue laudevoli.
  • Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di
  • graride animo e d’operazion commendabili e di gran sentimento in opera
  • d’arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze
  • che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo,
  • sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna
  • ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non
  • creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.
  • «Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento,
  • «Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual
  • non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato
  • di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben
  • riempie’ dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.
  • «E certo La fiera moglie, piú ch’altro, mi nuoce», in ciò che io sia
  • dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una
  • donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere,
  • come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva
  • né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi
  • da lei, stimolandolo l’appetito carnale, egli si diede alla miseria di
  • questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna
  • temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini
  • curando che dell’ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella
  • perdizione eterna avere questo supplicio.]
  • [Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie,
  • anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle
  • si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa,
  • assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender
  • qualunque femmina, l’uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e
  • battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale
  • egli compose Contro a _Gioviniano eretico_, che Teofrasto, il qual fu
  • solenne filosafo e uditore d’Aristotile, compose un libro il qual si
  • chiama _De nuptiis_, e in parte di quello domanda se il savio uomo
  • debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo,
  • dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d’onesti parenti, e
  • se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere;
  • incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte
  • nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa
  • innanzi all’altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun
  • che possa a’ libri e alla moglie servire.]
  • [Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle
  • donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l’oro, le gemme, le serve e
  • gli arnesi delle camere. Appresso, dall’aver moglie procede che tutte
  • le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella:—Donna
  • cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da
  • tutti, e io tapinella tra’ ragunamenti delle femmine sono avuta in
  • dispetto.—Appresso:—Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina?
  • Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien’ dal mercato, che
  • m’hai tu recato?—E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che
  • hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse
  • incontanente suspicano che l’amore, che il marito porta ad alcuna altra
  • persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella
  • che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi
  • della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che
  • delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna
  • la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze,
  • potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è
  • fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l’asino, il bue, il cane,
  • e’ vilissimi servi, e ancora i vestimenti e’ vasi e le sedie e gli
  • orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è
  • mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]
  • [Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la
  • faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se
  • ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l’uomo la
  • chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri
  • di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna
  • altra persona d’amare il padre di lei, e qualunque altro parente o
  • persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia
  • in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo
  • della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se
  • per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio,
  • incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e,
  • dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in
  • odio; e, se il marito non consentirá tosto a’ piacer suoi, di presente
  • ricorre a’ veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú,
  • vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl’indovini,
  • e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori
  • de’ preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella
  • sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se
  • egli vieterá che essi non v’entrino, incontanente la moglie si reputa
  • ingiuriata, in ciò che il marito mostra d’aver sospeccion di lei. Ma
  • che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica
  • moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è
  • mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica,
  • alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella
  • donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e
  • avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e
  • molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con
  • minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si
  • guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia
  • da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla
  • possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro
  • col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de’ lor costumi, e certi
  • sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa
  • quella cosa la quale d’ogni parte è combattuta.]
  • [E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e
  • per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di
  • lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la
  • sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto
  • meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo
  • signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna,
  • quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare
  • e stanno dintorno all’uomo infermo gli amici e’ servi domestici,
  • obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi
  • imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci
  • la sua sollecitudine, l’anima di colui ch’è infermo turbi infino alla
  • disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá
  • che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal
  • letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s’egli avverrá che la
  • moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova),
  • piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei
  • dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser
  • solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che
  • mai furono; ed ha l’animo libero, il quale in quella parte che piú
  • gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá
  • va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d’uomini, egli parla
  • con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è
  • solo.]
  • [Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché ’l nome
  • nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni
  • aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi,
  • partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro
  • nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo
  • del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo
  • modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare
  • in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono
  • di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá,
  • paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi
  • son gli amici e i propinqui, li quali tu t’avrai eletti, che non son
  • quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d’avere.]
  • [Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per
  • che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol
  • pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò
  • che da Teofrasto, possiam comprendere per l’esemplo del misero messer
  • Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra
  • essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran
  • circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne
  • alcuna si dispongono, percioché rade volte s’abbatte l’uomo a Lucrezia
  • e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá
  • udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la
  • notte nel letto son diavoli.]
  • [Lez. LIX]
  • Poi séguita l’autore: «S’io fossi stato»; dove comincia la quinta
  • parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste
  • tre ombre sieno e ’l priego loro, dimostra quello che esso alle tre
  • ombre dicesse. Dice adunque: «S’io fossi stato dal fuoco coperto», che
  • non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell’argine,
  • «tra lor di sotto, E credo che ’l dottor l’avria sofferto»,
  • considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch’io
  • mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura»,
  • ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea
  • ghiotto», cioè disideroso.
  • «Poi cominciai:—Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che
  • voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora
  • cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia»,
  • cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me,
  • «Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per
  • le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè
  • degna d’onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son
  • quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.
  • Poi che l’autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo
  • aveva detto («E se miseria d’esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde
  • alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor
  • dire se egli era della lor cittá, e dice:—«Di vostra terra sono»,
  • cioè della cittá vostra, «e sembrami L’ovra di voi» laudevole (non il
  • peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi
  • ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali
  • gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello
  • che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l’amaritudine
  • del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita
  • a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva,
  • dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo
  • pe’ dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca»,
  • cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond’io, per lo tuo
  • me’, penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè
  • infino al profondo dello ’nferno, «pria convien ch’io torni»,—cioè
  • discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle
  • cose precedenti stata mostrata.
  • —«Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
  • nella quale, poi che l’autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse,
  • ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e
  • dice:—«Se lungamente», cioè per molti anni, «l’anima conduca Le membre
  • tue», cioè ti servi in vita—«rispose quegli allora», cioè messer
  • Iacopo,—«E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura,
  • disiderate molto da’ mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire
  • quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che
  • consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e
  • lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par
  • che riguardi piú all’onore della republica, all’altezza delle ’mprese,
  • e ancora agli esercizi dell’arme, nelle quali costoro furono onorevoli
  • e magnifici cittadini; «di’ se dimora, Nella nostra cittá, sí come
  • suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n’è gita fuora», cioè
  • partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la
  • cagione che il muove a dubitare e a domandarne.
  • «Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato
  • molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri
  • suoi pari, il trattar paci tra’ grandi e gentili uomini, trattar
  • matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare
  • gli animi de’ faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i
  • moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con
  • brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi
  • séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima
  • colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l’aver poche volte
  • peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá
  • co’ compagni», da’ quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne
  • cruccia con le sue parole»,—dicendone che del tutto partita se n’è.
  • Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada
  • solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per
  • ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o
  • due l’anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme,
  • non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora
  • invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se
  • avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata
  • si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú
  • onorevolmente ricevere, E tra loro sempre si ragionava di cortesia e
  • d’opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda
  • se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse,
  • disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il
  • qual visse sí lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza
  • vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.
  • E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta:—«La gente nuova,
  • e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in
  • te, sí che tu giá ten piagni.—Cosí gridai con la faccia levata».
  • Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li
  • quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come
  • io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente
  • per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore
  • erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente,
  • per l’esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti
  • ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché,
  • come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli
  • altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto
  • indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro
  • alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e
  • avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in
  • quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran
  • seguite: la qual cosa l’autore, sí come colui al qual toccava, turbato
  • e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi,
  • disse.
  • «E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta»,
  • fatta alla lor domanda, «Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata»,
  • cioè turbati, dando piena fede alle parole.
  • —«Se l’altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto,
  • nella quale, poi che l’autore ha risposto alla lor domanda, ed egli
  • pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo:—«Se
  • l’altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al
  • presente hai fatto,—«Risposer tutti,—il satisfare altrui, Felice te,
  • che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d’esti luoghi
  • bui», cioè oscuri dello ’nferno, «E torni a riveder le belle stelle»,
  • su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui»,
  • in inferno, «Fa’ che di noi alla gente favelle»,—non in dire come noi
  • siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale
  • dell’onore della nostra cittá, e duolci d’udire che cortesia o valor si
  • sia partita di quella.
  • «Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di
  • sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano
  • e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d’uomini che fuggissero a
  • tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè
  • parve che volassero. «Un _amen_», questa dizione «_amen_», la qual si
  • dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno,
  • «cosí», prestamente, «com’ei furon spariti, Per che al maestro parve di
  • partirsi», poi s’eran partiti essi.
  • «Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella
  • quale, poi che l’autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite,
  • dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel
  • fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle
  • tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell’acqua», la qual
  • cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno, e però faceva suono, «n’era
  • sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena
  • uditi», l’un l’altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo
  • fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d’una acqua che cade
  • discendendo dell’Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per
  • lo cammin dritto da Firenze a Forlí.
  • «Come quel fiume, c’ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da
  • monte Veso inver’ levante, Dalla sinistra costa d’Appennino». Monte
  • Veso è un monte nell’Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza
  • dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po.
  • Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell’Alpi dalla
  • parte di ver’ ponente, e d’Appennino di ver’ levante, e mette in mare
  • per piú foci, e tra l’altre per quella di Primaro, presso a Ravenna;
  • e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale
  • nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l’uomo da Po inver’
  • levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al
  • piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone,
  • percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi
  • discende a Ravenna, e lungo le mura d’essa corre, e forse due miglia
  • piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio
  • cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l’autore
  • che egli viene dalla sinistra costa d’Appennino. Intorno alla qual
  • cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono
  • che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a
  • Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel
  • monte ch’è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il
  • Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte
  • della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla
  • sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver’
  • mezzodí, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si
  • lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze,
  • Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo
  • oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra
  • d’Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato
  • di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra
  • similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina,
  • dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al
  • fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale
  • è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare
  • Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo
  • principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante,
  • sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il
  • mare Adriano.
  • Dice adunque l’autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che
  • dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c’ha proprio
  • cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra
  • costa d’Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli
  • che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino
  • altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro,
  • «da monte Veso inver’ levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po
  • ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d’Appennino». E vuolsi questa
  • lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c’ha prima proprio cammino
  • da monte Veso inver’ levante dalla sinistra costa d’Appennino, Che si
  • chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel
  • basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome»,
  • Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma
  • Montone è chiamato.
  • Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi
  • _Forum Livii_, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era
  • toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a
  • dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor
  • ciance d’una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse _in
  • rerum natura_, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.
  • «Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell’Alpe, per cadere ad una scesa».
  • Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo
  • chiamato l’Eremo, e, discendendo a guisa d’un fossato, giú cade non
  • guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d’un balzo
  • giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a
  • tempo piovoso corre con piú acqua.
  • «Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio
  • di ciò che l’autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura
  • trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l’abate
  • del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli
  • conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di
  • questo luogo, dove quest’acqua cade, si come in luogo molto comodo agli
  • abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno
  • di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri,
  • metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è
  • quello che l’autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser
  • ricetto», cioè stanza e abitazione.
  • «Cosí giú d’una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell’acqua tinta»,
  • di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che ’n poca ora avria
  • l’orecchia offesa», percioché ’l troppo romore, a chi non è uso,
  • offende e noia l’udire.
  • «Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta»,
  • quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle
  • dipinta», quella bestia delle tre che ’l suo andare impediva. «Poscia
  • che l’ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Si come ’l duca
  • m’avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a
  • lui aggroppata ed avvolta. Ond’e’ si volse ver’ lo destro lato. Ed
  • alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in
  • quell’alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per
  • lo avviluppamento d’esso.
  • Per la qual cosa l’autor dice:—«Ei pur convien che novitá
  • risponda—Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio
  • faceva,—«al nuovo cenno, Che ’l maestro con l’occhio si seconda», cioè
  • segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l’occhio
  • sopra l’acqua, e questo faceva piú credere all’autore che novitá
  • dovesse rispondere.
  • «Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color
  • che non veggion pur l’opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran
  • col senno!» In queste parole assai notabili, n’ammonisce l’autore e
  • ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a’ savi
  • uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre
  • affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto
  • pensiero spesse volte s’accorgono de’ nostri disidèri. E queste parole
  • dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un
  • picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé
  • quello che egli disiderava, cioè Gerione.
  • E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all’autore, il qual,
  • seguendo, dice: «El disse a me:—Tosto verrá di sopra», a quest’acqua,
  • «Ciò ch’io attendo, e», ciò, «che ’l tuo pensier sogna», cioè non certo
  • vede, «Tosto convien ch’al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti.
  • E, percioché quello, che seguir dee, pare all’autor medesimo una cosa
  • incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e
  • ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza
  • dire, se la materia l’avesse patito.
  • Dice adunque: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna», cioè che
  • somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l’uom chiuder le
  • labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui
  • che ’l dice, «fa vergogna», a quel cotal che ’l dice; in quanto color,
  • che l’odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo
  • bugiardo.
  • «Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia
  • di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso
  • questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che
  • vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S’elle non
  • sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se
  • io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella
  • grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui
  • che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in
  • fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di
  • pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti;
  • e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio
  • potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve
  • tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per
  • le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li
  • quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e
  • quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l’ammaestramento di
  • quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella
  • presente _Commedia_ si posson dir «note» quelle parti estreme de’
  • versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra
  • se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E
  • chiama l’autor qui questo suo libro _Commedia_, la quale è una spezie
  • di poesia; e percioché d’essa nel principio della presente opera fu
  • pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.
  • Poi l’autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e
  • continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch’io vidi per quell’aer
  • grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde
  • svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una
  • figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la
  • corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro».
  • Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo
  • dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion
  • dimostra come questa figura notando venisse susa, e dice: «Sí come
  • torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare,
  • «Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l’áncora»: «l’áncora» è uno
  • strumento di ferro, il quale dall’un de’ lati ha piú rampiconi, e
  • dall’altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda
  • giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch’aggrappa», cioè
  • piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.
  • Usano i marinari quando vengono ne’ porti con li lor legni, accioché
  • il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte
  • opposita alla terra, alcune ancore, e queste co’ rampiconi loro si
  • ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale
  • l’áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter
  • discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l’áncora
  • fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora
  • seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o
  • altro dove ella s’appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor
  • legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l’ancora, come
  • sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare
  • fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e
  • sviluppila da’ luoghi ove avviluppata è, accioché sÙ tirar si possa.
  • Li quali poi, insú ritornando, fanno l’atto il quale qui l’autor dice
  • che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno
  • fatto da Virgilio. E l’atto di questo cotale dice che è: «Che ’nsu si
  • stende», con le braccia, dalla spessezza dell’acqua aiutato a ritirarsi
  • insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo
  • inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza
  • dell’acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.
  • L’allegorie le quali in questo canto sono, cioè il supplicio di quelle
  • anime dannate, con le quali l’autor mostra che lungamente parlasse,
  • sono una medesima cosa con quella, la quale è nel canto quindicesimo,
  • precedente a questo, e ancora con quella che è nel quattordicesimo;
  • delle quali, percioché d’una medesima qualitá sono con quella che
  • ancora è a recitare, e che è nel canto seguente, come altra volta di
  • sopra è detto, si riserva a dimostrare dove appresso della terza spezie
  • di coloro che a Dio e alle sue cose fanno violenza si tratterá: e però
  • qui non curo dirne alcuna cosa. Appresso, quello che nella fine del
  • presente canto si discrive della corda data a Virgilio dall’autore,
  • e dello animale che, per lo cenno da Virgilio fatto, venne sopra ’l
  • fiume, percioché ad un medesimo fine aspetta con quella fiera della
  • quale l’ autor tratta nel principio del seguente canto, per non fare
  • d’una medesima materia due diversi sermoni, riserverò a dire dove di
  • quella fiera diremo.
  • CANTO DECIMOSETTIMO
  • [Lez. LX]
  • —«Ecco la fiera con la coda aguzza», ecc. Il presente canto si
  • continua col precedente assai evidentemente, in quanto nella fine del
  • precedente ha dimostrato come, per lo segno fatto da Virgilio, vedesse
  • sotto l’acqua una figura, la qual notando veniva insú, cioè verso la
  • sommitá del fiume; e nel principio di questo dimostra questa figura
  • esser pervenuta a riva. E dividesi il presente canto in tre parti:
  • nella prima discrive la forma della figura venuta; nella seconda
  • dimostra l’afflizione degli usurieri; nella terza dimostra come, salito
  • sopra le spalle di quella figura, insieme con Virgilio fosse passato, e
  • trasportato del settimo cerchio dello ’nferno nell’ottavo. La seconda
  • comincia quivi: «Quivi ’l maestro»; la terza quivi: «Ed io, temendo».
  • Comincia adunque cosí:—«Ecco la fiera»; chiamala «fiera» dal suo
  • fiero e crudele effetto; «con la coda aguzza», cioè aguta e pugnente
  • piú che alcun ferro, «che passa i monti», cioè le durissime e grandi
  • cose, «e rompe i muri», della cittá e di qualunque fortezza, «e l’armi»
  • (_supple_) passa e rompe di qualunque fortissimo e ardito cavaliere;
  • «Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza»,—cioè corrompe e guasta col
  • suo iniquo è fraudolente adoperare. E dice «ecco» _demonstrative_,
  • percioché, allora quando Virgilio cominciò a parlare, giugneva questa
  • fiera sopra l’acqua del fiume dal lato loro. «Si cominciò», come
  • detto è, «lo mio duca a parlarmi». Poi dice: «Ed accennolle», poi che
  • cosí ebbe detto, «che venisse a proda», cioè sopra la riva del fiume,
  • «Vicino al fin de’ passeggiati marmi». Pon qui la spezie per lo genere,
  • cioè «marmi» per «pietre»: è il marmo, come noi veggiamo, una spezie
  • di pietra bianchissima e forte. E dice «passeggiati marmi», percioché,
  • passeggiando, eran venuti su per l’argine del fiume infin quivi; il
  • qual argine ha di sopra dimostrato che era divenuto pietra: vuol dunque
  • qui dire che Virgilio le fece cenno che ella venisse insino al luogo
  • dove essi, passeggiando, erano pervenuti.
  • «E quella sozza immagine di froda». Manifesta l’autore qui di che cosa
  • questa fiera fosse immagine, e dice che era «di froda»: la qual froda
  • che cosa sia si dimostrerá appresso. «Sen venne», per lo cenno fattole
  • da Virgilio, «ed arrivò», cioé mise sopra la riva, «la testa e ’l
  • busto», cioè il rimanente del corpo; «Ma ’n su la riva non trasse la
  • coda»; e cosí mostra che quella si rimanesse coperta nell’acqua.
  • «La faccia sua», di questa fiera, «era faccia d’uom giusto, Tanto
  • benigna», mansueta e piacevole, «avea di fuor la pelle», cioè
  • l’apparenza; «E d’un serpente» era «tutto l’altro fusto», della persona
  • di questa fiera. «Due branche», cioè due piedi artigliati, come
  • veggiamo che a’ dragoni si dipingono, «avea pelose infin l’ascelle»,
  • cioè infino sotto le ditella; «Lo dosso e ’l petto ed amendue le
  • coste», cioè tutto il corpo, fuor che la testa e ’l collo e la coda,
  • «Dipinte avea», ornate, come naturalmente hanno molti animali, «di
  • nodi», cioè di composti, li quali parevano nodi, «e di rotelle», di
  • figure ritonde.
  • «Con piú color sommesse e sopraposte», a variazion dell’ornamento, «Non
  • fer mai drappi tartari né turchi», li quali di ciò sono ottimi maestri,
  • si come noi possiam manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi, li
  • quali veramente sono si artificiosamente tessuti, che non è alcun
  • dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti, non che piú
  • belli.
  • Sono i tartari.........................
  • ................................
  • IV
  • ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA “DIVINA COMMEDIA” DI DANTE ALIGHIERI
  • ALL’INFERNO
  • «Nel mezzo del cammin di nostra vita»,
  • smarrito in una valle l’autore,
  • e la sua via da tre bestie impedita,
  • Virgilio, dei latin poeti onore,
  • 5 da Beatrice gli apparve mandato
  • liberator del periglioso errore.
  • Dal qual poi che aperto fu mostrato
  • a lui di sua venuta la cagione,
  • e ’l tramortito spirto suscitato,
  • 10 senza piú far del suo andar quistione,
  • dietro gli va, ed entra in una porta
  • ampia e spedita a tutte persone.
  • Adunque, entrati nell’aura morta,
  • l’anime triste vider di coloro
  • 15 che senza fama usâr la vita corta;
  • io dico de’ cattivi: eran costoro
  • da moscon punti, e senza alcuna posa
  • correndo givan, con pianto sonoro.
  • Quindi, venuti sopra la limosa
  • 20 riva d’un fiume, vide anime assai,
  • ciascuna di passar volenterosa.
  • A cui Caròn:—Per qui non passerai!—
  • di lontan grida; appresso, un gran baleno
  • gli toglie il viso e l’ascoltar de’ guai.
  • 25 Dal qual tornato in sé, di stupor pieno,
  • di lá da l’acqua in piú cocente affanno,
  • non per la via che l’anime teniéno,
  • si ritrovò; e quindi avanti vanno,
  • e pargoletti veggon senza luce
  • 30 pianger, per l’altrui colpa, eterno danno.
  • Dietro alle piante poi del savio duce
  • passa con altri quattro in un castello,
  • dove alcun raggio di chiarezza luce.
  • Quivi vede seder sovr’un pratello
  • 35 spiriti d’alta fama, senza pene,
  • fuor che d’alti sospiri, al parer d’ello.
  • Da questo loco discendendo, viene
  • dove Minós esamina gli entranti,
  • fier quanto a tanto officio si conviene.
  • 40 Quivi le strida sente e gli alti pianti
  • di quei che furon peccator carnali,
  • infestati da venti aspri e sonanti,
  • dove Francesca e Polo li lor mali
  • contano. E quindi Cerbero latrante
  • 45 vede sopra a’ gulosi, infra li quali
  • Ciacco conosce; e, procedendo avante,
  • truova Plutone, e’ prodighi e gli avari
  • vede giostrar con misero sembiante.
  • Che sia Fortuna e la cagion de’ vari
  • 50 suoi movimenti Virgilio gli schiude:
  • e, discendendo poi con passi rari,
  • truovan di Stige la nera palude,
  • la qual risurger vede di bollori,
  • da’ sospir mossi d’alme in essa nude,
  • 55 dove gli accidiosi peccatori,
  • e gl’iracundi, gorgogliando in quella,
  • fanno sentir li lor grevi dolori.
  • Sopra una fiamma poi doppia fiammella
  • subito vede, ed una di lontano
  • 60 surgere ancora e rispondere ad ella.
  • Quivi Flegias, adirato, il pantano
  • oltre gli passa, nel qual vede strazio
  • far di Filippo Argenti, e non invano.
  • E appena era di tal mirare sazio,
  • 65 ch’a piè della cittá di Dite giunti,
  • senza esser lor d’entrarvi dato spazio,
  • si vide, e quindi da disdegno punti
  • per la porta serrata lor nel petto
  • da li spiriti piú da Dio disiunti.
  • 70 E mentre quivi stavan con sospetto,
  • le tre Furie infernai sovra le mura
  • Tesifon, vider, Megera ed Aletto.
  • Appresso, acciò che l’orribil figura
  • del Gorgon non vedesse, il buon maestro
  • 75 gli occhi gli chiuse, e fennegli paura.
  • Di scender poi per lo cammin silvestro,
  • per cui la porta subito s’aprio,
  • mostra, e ’l passare a loro in quella, destro.
  • Quivi dolenti strida ed alte udio,
  • 80 che de’ sepolcri uscivano affocati,
  • de’ qual pieno era tutto il loco rio:
  • in quegli essere intese i trascutati
  • eresiarci, e tutti quelli ancora
  • ch ’a Epicuro dietro sono andati.
  • 85 Lì, ragionando, picciola dimora
  • con Farinata e con un altro face,
  • ch’alquanto a l’arca pareva di fora.
  • Disegna poi come lo ’nferno giace,
  • da indi in giú, distinto in tre cerchietti,
  • 90 e poi dimostra con ragion vivace
  • perché dentro alle mura i maladetti
  • spiriti sien di Due, e nel suo cerchio,
  • piú che color che ha di sopra detti.
  • Centauri truova poi sovr’al coperchio
  • 95 d’un’altra valle sovra Flegetonte,
  • nel qual chi fe’ al prossimo soverchio
  • bollir vede per tutto; e perché cónte
  • le vie salvagge, a passar la riviera
  • Nesso gli fa della sua groppa ponte.
  • 100 Oltre passati, in una selva fiera
  • di spirti, in bronchi noderosi e torti
  • mutati, entraron per via straniera.
  • Tutti se stessi i miseri avien morti,
  • che li piangean, divenuti bronconi;
  • 105 dove gli fe’ Pier delle Vigne accorti
  • delle dolenti lor condizioni
  • e delle sue; e nella selva stessa,
  • dopo gli uditi miseri sermoni,
  • da nere cagne un’anima rimessa
  • 110 vide sbranare, e seppe a tal martiro
  • dannato chi la sustanzia, commessa
  • all’util suo, biscazza. E quindi giro
  • piú giú, dove piovean fiamme di foco,
  • fuor della selva, sovra un sabbion diro;
  • 115 lá dove Campaneo, curante poco,
  • vider giacer sotto la pioggia grave
  • con piú molti arroganti; e ’n questo loco,
  • seguendo, mostra con rima soave
  • d’una statua, ch’ è di piú metalli,
  • 120 l’acqua cadere in quelle valli prave,
  • e quattro fiumi per piú intervalli
  • nel mondo occulto fare, infino al punto
  • piú basso assai che tutte l’altre valli.
  • Poi ser Brunetto abbrusciato e consunto
  • 125 sotto l’orribil pioggia correr vede,
  • col quale alquanto, parlando, congiunto,
  • di sua futura vita prende fede.
  • Poi, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi,
  • Iacopo Rusticucci, infino al piede
  • 130 di lui venuti, a’ lor nuovi dimandi
  • sodisfa presto; e quinci procedette
  • dove anime trovò con tasche grandi
  • sedere a collo, sotto le fiammette,
  • di loro alcuni a l’arme conoscendo
  • 135 stati usurieri, e per tre render sette.
  • Poi, sovra Gerion giú discendendo,
  • in Malebolge vene, ove i baratti
  • in diece vede, senza pro piangendo.
  • De’ quali i primi da dimòn son tratti
  • 140 con grandi scoreggiate per lo fondo,
  • scherniti e lassi, vilmente disfatti;
  • lá dove alcun ch’avea veduto al mondo
  • vi riconobbe, ch’era bolognese,
  • Venedico, e ruffiano; a cui secondo
  • 145 Iason venia, che tolse il ricco arnese
  • a’ colchi. E quindi Alesso Interminelli
  • in uno sterco vide assai palese
  • pianger le sue lusinghe; e quindi quelli
  • che sottosopra in terra son commessi
  • 150 per simonia; e li par che favelli
  • con un papa Nicola; ed, oltre ad essi,
  • travolti vede quei che con fatture
  • gabbarono non ch’altrui, ma se istessi.
  • Quindi discendon lá ove l’oscure
  • 155 pegole bollon chi baratteria
  • vivendo fece, e di quelle misture,
  • mentre che van con fiera compagnia
  • di diece diavol, parla un che fu tratto
  • da Graffiacan per la cottola via,
  • 160 sé navarrese dicendo e baratto;
  • quinci com’el fuggi delle lor mani
  • racconta chiaro, e de’ diavoli il fatto.
  • Sotto le cappe rance i pianti vani
  • degl’ipocriti poi racconta, e mostra
  • 165 Anna e ’l suo suocer nelli luoghi strani
  • crocifissi giacer. Poi, nella chiostra
  • di Malebolge seguente, brogliare
  • fra’ serpi vede della gente nostra,
  • quivi dannati per lo lor furare:
  • 170 Agnolo e ’l Cianfa ed altri e Vanni Fucci;
  • li quai mirabilmente trasformare,
  • dopo nuovi atti, parlamenti e crucci,
  • e d’uomo in serpe, e poi di serpe in uomo,
  • in guisa tal, che mai vista non fucci,
  • 175 discrive. E poi chi mal consiglio, comoda,
  • come Ulisse, in fiamme acceso andando,
  • vede riprender dattero per pomo.
  • Pria con Ulisse, e poscia ragionando
  • col conte Guido, passa; e, pervenuto
  • 180 su l’altra bolgia, vede gente andando
  • tutta tagliata sovente e minuto,
  • per lo peccato della scisma reo
  • da lor nel mondo falso in suso avuto.
  • Lì Maometto fesso discernéo,
  • 185 e quel Beltram che giá tenne Altaforte,
  • e Curio e ’l Mosca, e molti qual potéo.
  • Appresso vide piú misera sorte
  • degli alchimisti fracidi e rognosi,
  • u’ seppe da Capocchio l’agra morte,
  • 190 e Mirra e Gianni Schicchi e piú lebbrosi
  • vide, ed i falsator per fiera sete
  • ritruopichi fumare stando oziosi:
  • tra’ quali in quella inestricabil rete
  • vide Sinón, ed il maestro Adamo
  • 195 garrir con lui, come legger potete.
  • Quindi, lasciando l’uno e l’altro gramo,
  • dal mezzo in su gli figli della terra
  • uscir d’un pozzo vede, ed al richiamo
  • del gran poeta intramendue gli afferra
  • 200 Anteo, e lor sovr’al freddo Cocito
  • posa, nel quale in quattro parti serra
  • il ghiaccio i traditor: quivi ghermito
  • Sassol de’ Mascheron nella Caina,
  • e ’l Camiscion de’ Pazzi, ebbe sentito.
  • 205 Poscia nell’Antenora, ivi vicina,
  • tra gli altri dolorosi vide il Bocca,
  • e di Gian Soldanier l’alma meschina,
  • ed altri molti, ch’ora a dir non tocca,
  • si come l’arcivescovo Ruggieri,
  • 210 ed il conte Ugolino, anima sciocca.
  • Piú oltre andando pe’ freddi sentieri,
  • spiriti truova nella Ptolomea
  • giacer riversi ne’ ghiacci severi.
  • Quivi, racconta, l’alma si vedea
  • 215 di Brancadoria e di frate Alberico,
  • che senza pro de’ frutti si dolea.
  • Appresso vede l’Avversario antico
  • nel centro fitto, e Iuda Scariotto,
  • e Cassio e Bruto, di Cesar nemico,
  • 220 nell’infima Iudecca star di sotto.
  • Quindi, pe’ velli del fiero animale
  • discendendo, e salendo, il duca dotto
  • lui di fuor tira da cotanto male
  • per un pertugio, onde le cose belle
  • 225 prima rivide, e per cotali scale
  • usciron quindi «a riveder le stelle».
  • AL PURGATORIO
  • «Per correr miglior acqua alza le vele»
  • qui lo autore, e, seguendo Virgilio,
  • pe’ dolci pomi sale e lascia il fiele.
  • Catón primier, fuor dell’eterno esilio,
  • 5 truovano e seco parlan, procedendo;
  • poi dánno effetto al suo santo consilio.
  • Su la marina vede, discendendo
  • nell’aurora, piú anime sante,
  • e ’l suo Casella, al cui canto attendendo,
  • 10 mentre l’anime nuove tutte quante
  • givan con lor, rimorsi da Catone,
  • fuggendo al monte ne girono avante.
  • Incerti quivi della regione,
  • truovan Manfredi ed altri, che moriro
  • 15 per colpa fuor di nostra comunione
  • col perder tempo, adequare il martiro
  • alla lor colpa; e quindi, ragionando,
  • del solar corso gli solve il desiro
  • l’alto poeta sedendosi, quando
  • 20 Belacqua vider per negghienza starsi;
  • e giá levati verso l’alto andando,
  • Bonconte ed altri molti incontro farsi
  • vider, li quali infino all’ultim’ora,
  • uccisi, a Dio penáro a ritornarsi.
  • 25 Quindi Sordel trovar sol far dimora,
  • il qual, poi che l’autor molto ha parlato
  • contro ad Italia, il gran Virgilio onora.
  • Poi mena loro in un vallone ornato
  • d’erbe e di fior, nel qual, cantando, addita,
  • 30 a Virgilio Sordello stando allato,
  • spiriti d’alta fama in questa vita,
  • tra’ quai discesi, il Gallo di Gallura
  • riceve l’autor; quindi, finita
  • del di la luce, vede dell’altura
  • 35 due angeli con due spade affocate
  • discender ad aver di costor cura.
  • Poscia, dormendo, con penne dorate
  • gli par che ’n alto un’aquila nel porti
  • d’infino al foco; quindi, alte levate
  • 40 le luci, spaventato, da’ conforti
  • fatto sicur di Virgilio, Lucia
  • gli mostra quivi loro avere scorti.
  • Del purgatorio gli addita la via,
  • dove venuti, qual fosse disegna
  • 45 la porta, e’ gradi onde a quel si salía,
  • chi fosse il portinaio, che veste tegna,
  • e quai fosser le chiavi, e che scrivesse
  • nella sua fronte, e che far si convegna
  • a chi passa lá dentro pone _expresse_.
  • 50 E quindi come en la prima cornice
  • dichiara con fatica si giugnesse;
  • ed intagliate in alta parte dice
  • di quella istorie d’umiltá verace:
  • poi spirti carchi dall’una pendice
  • 55 vede venir cantando, ed orar pace
  • per sé e per altrui, purgando quello
  • che ne’ mortal superbia sozzo face;
  • tra’ quali Umberto ed Odorisi, ad ello
  • appresso, e simil Provinzan Silvani
  • 60 piangendo vide sotto il fascio fello.
  • Oltre passando pe’ sentieri strani,
  • sotto le piante sue effigiati
  • vide gli altieri spiriti mondani.
  • Da uno splendido angiolo invitati
  • 65 piú leggier salgono al giron secondo,
  • perché li «P» l’autor trovò scemati.
  • Lí alte voci, mosse dal profondo
  • ardor di caritá, udir volanti
  • per l’aere puro del levato mondo;
  • 70 e poi che giunti furon piú avanti,
  • videro spirti cigliati sedere,
  • vestiti di ciliccio tutti quanti,
  • perché la invidia lor tolse il vedere:
  • Guido del Duca, Sapia e Rinieri
  • 75 da Calvol truova lí piangere, e vere
  • cose racconta di tutti i sentieri
  • onde Arno cade, e simil di Romagna;
  • quindi altri suon sentiron piú severi.
  • Ed oltre su salendo la montagna,
  • 80 da un altro angelo invitati foro,
  • parlando dell’orribile magagna
  • d’invidia, e dell’opposito, fra loro,
  • e, di sé tratto andando, vide cose
  • pacefiche in aspetto; né dimoro
  • 85 fe’ guari in quelle, che ’n caliginose
  • parti del monte entraron, dove l’ira
  • molti piangean con parole pietose.
  • Quivi gli mostra Marco quanto mira
  • nostra potenzia sia, e quanto possa
  • 90 di sua natura, e quanto dal ciel tira.
  • Appresso usciti dall’aria grossa,
  • imaginando vede crudi effetti
  • venuti in molti da ira commossa.
  • Quivi gl’invia un angel; per che, stretti
  • 95 alla grotta amendue, a non salire
  • dalla notte vegnente fur costretti.
  • Posti a sedere incominciaro a dire
  • insieme dell’amor del bene scemo,
  • che ’n quel giron s’empieva con martire,
  • 100 dove, sí come noi veder potemo,
  • distintamente Virgilio ragiona
  • come si scemi in uno ed altro estremo,
  • che sia amor, del quale ogni persona
  • tanto favella, e come nasca in noi.
  • 105 L’abate li di San Zen da Verona
  • con altri assai correndo vede poi
  • e con lui parla, e seguel nell’oscuro
  • tempo, con altri retro a’ passi suoi,
  • come sentendo si rifá maturo
  • 110 d’accidia l’acerbo. Indi ne mostra
  • come, dormendo in sul macigno duro,
  • qual fosse vide la nemica nostra,
  • e come da noi partasi, e, sdormito,
  • come venisse nella quinta chiostra,
  • 115 fattogli a ciò da uno angel lo ’nvito.
  • Quivi giacendo assai spiriti truova,
  • che d’avarizia piangon l’acquisito
  • in giú rivolti e, perch’el non sen mova
  • alcun, legati tutti; e quivi parla
  • 120 con un papa dal Fiesco; appresso pruova
  • l’onesta povertá, ed a lodarla
  • Ugo Ciappetta induce, i cui nepoti
  • nascer dimostra tutti atti a schifarla,
  • pien d’avarizia e d’ogni virtú vòti;
  • 125 e come poscia contro alla nequizia,
  • passato il dí, cantando, vi si noti.
  • Quindi, per tutto, novella letizia,
  • ed il monte tremare infino al basso
  • dimostra, mosso da vera giustizia.
  • 130 Qui truova Stazio non a lento passo
  • salire in su, al qual Virgilio chiede
  • della cagion del triemito del sasso.
  • la quale Stazio assegna; indi succede
  • al priego suo ancora a nominarsi.
  • 135 Quindi, com’uom ch’appena quel che vede
  • crede, dichiara Stazio avanti farsi
  • ad onorar Virgilio, e gli fa chiaro
  • lui, per contrario peccato agli scarsi,
  • aver per molti secoli l’amaro
  • 140 monte provato. E giá nel cerchio sesto,
  • parlando insieme, uno albero trovâro
  • donde una voce lor disse il modesto
  • gusto di molti; e, piú propinqui fatti,
  • chiaro s’avvider ch’ogni ramo in questo
  • 145 albero è vòlto in giú, e d’alto tratti
  • vider cader liquor di foglia in foglia,
  • e sotto ad esso spirti macri e ratti
  • vider venir piú che per altra soglia
  • dell’erto monte, e pure in sú la vista
  • 150 alli pomi tenean, che sí gl’invoglia.
  • Cosí andando infra la turba trista,
  • raffigurollo l’ombra di Forese:
  • con lui favella; e della gente mista
  • piú riconobbe, e, tra gli altri, il lucchese
  • 155 Bonagiunta Orbiccian; poi una voce
  • all’albero appressarsi lor difese.
  • Un angel quinci al martiro che cuoce
  • gl’invita, ed essi, per l’ora che tarda
  • era, ciascun n’andava sú veloce,
  • 160 mostrando Stazio a lui, se ben si guarda,
  • nostra generazione, e come l’ombra
  • prenda sembianza di corpo bugiarda,
  • e come sia da passione ingombra:
  • e, sí andando, pervennero al foco,
  • 165 prima che ’l santo monte facesse ombra;
  • lungo ’l qual trapassando per un poco
  • d’un sentieruolo udîr voci nemiche
  • al vizio di lussuria, ed in quel loco
  • piú anime conobbe, che ’mpudiche
  • 170 furon vivendo, e Guido Guinizelli
  • gli mostra Arnaldo in sí aspre fatiche.
  • Ma, poi che s’è dipartito da elli,
  • a trapassar lo foco i cari duci
  • confortan lui, ch’appena in mezzo a quelli
  • 175 il trapassò. Di quindi a l’alte luci
  • salir gl’invita uno angel che cantava,
  • pria s’ascondesser li raggi caduci.
  • Vede nel sonno poi Lia che s’ornava
  • di fior la testa, cantando parole
  • 180 nelle quali essa chi fosse mostrava.
  • Quindi levato nel levar del sole,
  • Virgilio di sé stesso il fa maestro,
  • sul monte giunti, e può far ciò che vuole.
  • Venuti adunque nel loco silvestro
  • 185 truova una selva, ed in quella si spazia
  • su per lo lito di Letè sinestro.
  • Vede una donna, che a lui di grazia
  • parla e con verissime ragioni:
  • del fiume il moto e dell’aura il sazia.
  • 190 Di quinci a vie piú alte ammirazioni
  • venuto, sette candelabri e molte
  • genti precedere un carro, i timoni
  • del qual traeva, con l’alie in sú vòlte,
  • un grifon d’oro, quanto uccel vedeasi,
  • 195 l’altro di carne, alle cui rote accolte
  • da ogni parte una danza moveasi
  • di certe donne, e nel mezzo Beatrice
  • del tratto carro splendida sedeasi.
  • Da cosí alta vista e sí felice
  • 200 percosso, da Virgilio con Istazio
  • esser lasciato lagrimando dice.
  • Appresso questo non per lungo spazio,
  • con agre riprension la donna il morde,
  • senza aver luogo a ricoprir mendazio;
  • 205 per che le sue virtú quasi concorde
  • li venner meno, e cadde, né sentisse
  • pria ch’alle sue orecchi, ad altro sorde,
  • pervenne:—Tiemmi;—onde, anzi ch’egli uscisse,
  • da una donna tratto per lo fiume,
  • 210 l’acqua convenne che egli inghiottisse.
  • Poi quattro donne, secondo il costume
  • di loro, il ricevettero, e menârlo
  • di Beatrice avanti al chiaro lume.
  • Qual gli paresse il suo viso, pensarlo
  • 215 ciascun che ’ntende può; poi la virtute
  • gli mancò qui a poter divisarlo.
  • I casi avversi appresso, e la salute
  • della Chiesa di Dio, sotto figmento
  • delle future come delle sute
  • 220 cose, disegna; poi il cominciamento
  • di Tigri e d’Eufrate vede in cima
  • del monte, e con Matelda va contento,
  • e con Istazio, ad Eunòe prima;
  • donde bagnato, e rimenato a quelle
  • 225 donne beate, finisce la rima,
  • «puro e disposto a salire alle stelle».
  • AL PARADISO
  • «La gloria di Colui che tutto move»
  • in questa parte mostra l’autore
  • a suo poder, qual ei la vide e dove.
  • Ed invocato d’Apollo l’ardore,
  • 5 di sé incerto, retro a Beatrice
  • pe’ raggi sen salí del suo splendore
  • nel primo ciel, lá, onde a ciascun dice,
  • men sofficiente, che retro a sua barca
  • piú non si metta fra ’l regno felice.
  • 10 E mentre avanti cantando travarca,
  • de’ segni della luna fa quistione
  • alla sua guida, e quella se ne scarca.
  • Poi c’ha udita la sua opinione,
  • e, premettendo alcuna esperienza,
  • 15 chiaro nel fa con aperta ragione,
  • Piccarda vede, e della sua essenza
  • nel primo cielo «per manco di voto»
  • con lei favella; e, della sua presenza
  • partita, Beatrice a lui divoto
  • 20 qual violenza il voto manco faccia
  • distingue ed apre; e simil gli fa noto
  • perché gli paia i cieli aprir le braccia
  • a diversi diversi, e come siéno
  • però presenti alla divina faccia;
  • 25 quindi, con viso ancora piú sereno,
  • se sodisfare a’ voti permutando
  • si possa o no, a lui dichiara appieno;
  • e nel ciel di Mercurio ragionando
  • veloci passan. Lí Giustiniano
  • 30 prima di sé sodisfá al dimando;
  • appresso, quanto lo ’mperio romano
  • sotto il segno dell’aquila facesse
  • gli mostra in parte, e poi a mano a mano,
  • parlando seco, volle ch’el sapesse
  • 35 Romeo in quella luce gloriarsi,
  • che fe’ quattro reine di contesse.
  • Induce poi Beatrice a dichiararsi,
  • «come giusta vendetta giustamente
  • fosse vengiata»; e quindi trasportarsi
  • 40 nel terzo ciel, veggendo piú lucente
  • la donna sua, s’avvide. Ivi con Carlo
  • Martel favella, il quale apertamente
  • gli solve ciò che ’l mosse a dimandarlo,
  • come di dolce seme nasca amaro;
  • 45 quindi Cunizza viene a visitarlo,
  • e del futuro alquanto gli fa chiaro
  • sovra i lombardi, e con Folco favella,
  • che gli mostra Raab. Indi montâro
  • nella spera del sole, onde una bella
  • 50 danza di molti spiriti beati
  • vede far festa, e nel girarsi snella;
  • de’ quai gli furon molti nominati
  • da Tommaso d’Aquin, che di Francesco
  • molto gli parla poi e dei suoi frati.
  • 55 Poi scrive un cerchio sovraggiugner fresco
  • a questo, e ’n quel parlar Bonaventura
  • da Bagnoreo del calagoresco
  • Domenico, nel qual fu tanta cura
  • della fé nostra e dell’orto divino,
  • 60 quanta mai fosse in altra creatura.
  • Poi rincomincia Tommaso d’Aquino
  • com’egli intenda: «Non surse il secondo»
  • di Salamone, e con chiaro latino
  • gliele dimostra, ed un lume giocondo
  • 65 l’accerta lor, piú lieti e piú lucenti,
  • come i lor corpi riavran del mondo.
  • Quindi nel quinto ciel di lucolenti
  • spiriti vede una mirabil croce,
  • della quale un de’ suoi primi parenti
  • 70 gli fa carezze, e con soave voce
  • gli si discuopre, e mostra quale stato
  • Fiorenza avesse, quando nel feroce
  • e labil mondo fu da pria creato;
  • quindi le schiatte piú di nome degne
  • 75 nomina tutte, da lui dimandato.
  • Poi gli fa chiare le parole pregne
  • di Farinata, e ’n purgatoro udite,
  • a lui mostrando del futuro insegne.
  • Appresso ancor con parole espedite
  • 80 gli nomina di quei santi fulgori
  • Iosuè, Iuda, Carlo e piú, scolpite
  • da lui nel nominar per gli splendori
  • cresciuti. E quindi nel Giove sen sale,
  • dove un’aquila fanno i santi ardori
  • 85 di sé mirabile e bella, la quale
  • gli solve il dubbio d’un che nato sia
  • su lito, senza udire o bene o male
  • di Dio, mostrando quel che di lui fia;
  • quindi Davit e Traiano e Rifeo
  • 90 gli mostra, ed altri en la sua luce dia.
  • Poi ’l chiarisce d’un dubbio che si feo
  • in lui, de’ due che appaion pagani
  • nel primo aspetto. Quindi uno scaleo,
  • salito nel Saturno, di sovrani
  • 95 lumi ripien discerne, onde altro scende
  • ed altro sale, e con Pier Damiani
  • ragiona lí; e qual quivi risplende
  • gli parla e noma piú contemplativi
  • quel Benedetto onde Casin dipende.
  • 100 Sal nell’ottavo del poscia di quivi,
  • e, nel segno de’ Gemini venuto,
  • le sette spere ed i corpi passivi
  • si vede sotto i piè. Poi conosciuto
  • Cefas, sua fede e suo creder confessa,
  • 105 da lui richesto, a lui tutto compiuto.
  • Con voce appresso lucolenta e spressa
  • al baron di Galizia la speranza
  • dice che è, e che spetta per essa;
  • indi venire a cosí alta danza
  • 110 Giovanni mostra, il qual del corpo morto
  • di lui di terra il cava d’ogni erranza.
  • Poi seguitando, al suo domando accorto,
  • che cosa sia la caritá, risponde,
  • e qual da lei gli proceda conforto.
  • 115 Appresso scrive come alle gioconde
  • luci s’aggiunse quel padre vetusto
  • che prima fu da Dio creato, e donde
  • tutti nascemmo, e per lo cui mal gusto
  • tutti moiamo: il qual del suo uscire
  • 120 laonde posto fu, e quanto giusto
  • in quello stesse, e quanto il gran desire
  • di quella gloria avesse, e la dimora
  • quanto fu lunga qui dopo ’l fallire
  • gli conta, ed altre cose. Indi colora,
  • 125 quasi infiammato, il vicaro di Dio
  • contr’a’ pastor che ci governano ora.
  • Poi come nel ciel nono sen salío
  • discrive, dove l’angelica festa
  • in nove cerchi vede e ’l suo disio;
  • 130 di lor natura lí gli manifesta
  • con sermon lungo assai mirabil cose,
  • e della turba che ne cadde mesta.
  • Poi vede le milizie gloriose
  • del nuovo e dell’antico Testamento,
  • 135 che bene ovrando a Dio si fêro spose
  • nel ciel piú alto sovra il fermamento,
  • dove ’l solio d’Enrico ancor vacante
  • discerne. E quivi lui, che stava attento
  • a riguardar le creature sante,
  • 140 lascia Beatrice, ed in loco di lei
  • Bernardo con lo sguardo il guida avante,
  • dove, poi c’ha orazione a lei,
  • cui seder vede dove la sortiro
  • gli merti suoi, gli è mostrata colei
  • 145 che sposa antica fu del primo viro,
  • Rachel, Sara, Rebecca e ’l gran Giovanni,
  • che pria il deserto, e poi provò il martíro.
  • Appresso poi in piú sublimi scanni
  • Francesco ed Agostino e Benedetto,
  • 150 e quei che trapassar ne’ teneri anni,
  • vede, de’ quali il dottor sopra detto,
  • dico Bernardo, ragionando ad ello,
  • caccia ogni dubbio fuor del suo concetto.
  • Quindi il santo grazioso e bello
  • 155 piú ch’altro di Maria gli mostra il viso,
  • e davanti da lei quel Gabriello
  • che ’l decreto recò di paradiso
  • della nostra salute, tanto lieto
  • che qui per non poter ben nol diviso:
  • 160 onesto l’uno e l’altro e mansueto.
  • Adamo e Pietro e poi il vangelista
  • Giovanni lí seder vede, ripleto
  • d’alta letizia, e quindi il gran legista
  • Moisé vede, e poi Lucia ed Anna;
  • 165 e punto fa alla gioiosa vista.
  • Appresso, acciò che la divina manna
  • discenda in lui, e faccial poderoso
  • a veder ciò per che ciascun s’affanna,
  • umile quanto può, nel grazioso
  • 170 cospetto della Madre d’ogni grazia,
  • insieme col dottor di lei focoso
  • orando, priega che la vista sazia
  • del primo Amor gli sia, e per lo lume,
  • che senza fine profondo si spazia,
  • 175 ficca degli occhi suoi il forte acume;
  • poi, disegnando quanto ne raccolse,
  • termine pone al suo alto volume,
  • mostrando come in quel tutto si volse
  • l’alto disio ed alle cose belle,
  • 180 e come ogni altro appetito gli tolse
  • «l’Amor che muove il sole e l’altre stelle».
  • V
  • RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • INFERNO
  • Comincia la prima parte della _Cantica_, overo _Comedia_, chiamata
  • _Inferno_, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze, e di
  • quella prima parte il canto primo. Nel quale l’autore mostra sé
  • smarrito in una valle e impedito da tre bestie, e come Virgilio,
  • apparitogli, se gli offerse per duca a trarlo di quel luogo,
  • mostrandogli per qual via.
  • Comincia il canto secondo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore, fatta la
  • sua invocazione, muove un dubbio a Virgilio della sua andata. Il quale
  • Virgilio, mostrandogli chi ’l mosse, e come tre benedette curan di lui
  • nel cielo, gliel solve, e rassicuralo, ed entrano in cammino.
  • Comincia il canto terzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore mostra come
  • in quello entrasse e vedesse i cattivi piagnendo correr forte, trafitti
  • da vespe e da mosconi; e appresso come molte anime s’adunavano alla
  • riva d’Acheronte, le quali tutte Caron passava, ma lui passar non volle.
  • Comincia il canto quarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor mostra come
  • si ritrovò nel primo cerchio di quello; e quivi scrive esser quegli che
  • per difetto di battesimo son dannati, e dichiaragli Virgilio come giá
  • n’avea veduti trarre alquanti. Poi, venuti loro incontro quattro poeti,
  • con loro entrano in un castello, dove nobili uomini d’arme, filosofi e
  • valorose donne vede.
  • Comincia il canto quinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • discendendo nel secondo cerchio, truova Minos, e appresso i peccatori
  • carnali da aspro vento percossi; e quivi con madonna Francesca da
  • Polenta parla, e ode come con Paolo de’ Malatesti si congiugnesse per
  • amore.
  • Comincia il canto sesto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor discende nel
  • terzo cerchio, nel quale sotto grave pioggia son tormentati i gulosi.
  • Quivi truova Cerbero, e parla con Ciacco, il quale gli predice certe
  • cose future a’ fiorentini divisi.
  • Comincia il canto settimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • scendendo nel giron quarto, truova Plutone, e vede i prodighi e gli
  • avari incontro a sé volger grandissimi sassi; e Virgilio gli dimostra
  • che cosa è la Fortuna; e quindi, scendendo nel giron quinto, vede la
  • padule di Stige, e in quella ode esser tormentati gl’iracundi e gli
  • accidiosi.
  • Comincia il canto ottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor mostra
  • che, salito sopra la barca di Flegias, s’avventò alla banda di quella
  • Filippo Argenti, e come, sospinto da Virgilio nell’acqua, fu straziato
  • dagli altri spiriti; e appresso come, venuti alla porta di Dite, fu da’
  • demòni serrata nel petto a Virgilio.
  • Comincia il canto nono dello _’Nferno_. Nel quale, poi che Virgilio ha
  • detto che altra volta fece quel cammino, gli mostra le tre Furie, e
  • chiudegli gli occhi, accioché non vegga il Gorgone. E appresso scrive
  • come messo di Dio fece aprir la porta, ed essi entraron dentro, e
  • trovaro l’arche affocate degli eretici.
  • Comincia il canto decimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor parla con
  • Farinata, il quale alcuna cosa gli predice, e solvegli alcun dubbio.
  • Comincia il canto decimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale Virgilio
  • mostra, dal luogo dove è in giú, lo ’nferno esser distinto in tre
  • cerchi, e che gente si punisca in quegli, e assegna la ragione per che
  • quegli, che lasciati hanno, non son nella cittá di Dite racchiusi.
  • Comincia il canto decimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale mostra
  • l’autore come Virgilio facesse partire il minotauro, fattosi loro
  • incontro, e rendegli la ragione d’una grotta caduta; e come truovano i
  • centauri, e pervengono al fiume di Flegetone, nel quale vede bollire
  • rubatori e tiranni; e poi Nesso il porta dall’altra parte.
  • Comincia il canto decimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • mostra esser puniti quegli che se medesimi uccidono, trasformati in
  • bronchi, di ciò parlando con Piero dalle Vigne, e appresso coloro li
  • quali giucarono e guastarono i lor beni, dicendo loro essere sbranati
  • da cagne nere.
  • Comincia il canto decimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor
  • mostra sé esser venuto sovra un sabbione ardente, sopra il qual piovono
  • continue fiamme, e dove si puniscono quegli che violentamente hanno
  • adoperato incontro a Dio e contro alla natura, e avanti agli altri vede
  • punir Campaneo. Poi gli dimostra Virgilio come d’una statua di diversi
  • metalli si creano tutti i fiumi dello ’nferno.
  • Comincia il canto decimoquinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore di
  • scrive il tormento de’ sogdomiti, e truova ser Brunetto Latino, il
  • quale gli predice alcuna cosa della sua futura vita.
  • Comincia il canto decimosesto dello _’Nferno_. Nel quale l’autor parla,
  • in quel medesimo luogo che di sopra, con tre spiriti; poi, data una
  • corda a Virgilio, mostra come egli, con quella pescando, facesse venir
  • fuor Gerione.
  • Comincia il canto decimosettimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • discrive la forma della fraude e il tormento degli usurieri, e come,
  • saliti sovra Gerione, passarono il fiume.
  • Comincia il canto decimottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore prima
  • discrive come sia fatto Malebolge; e appresso mostra come i ruffiani
  • siano con iscuriate battuti da demòni; e ultimamente come i lusinghieri
  • piangano in uno sterco.
  • Comincia il canto decimonono dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • disceso nella terza bolgia, dimostra qual sia il tormento de’
  • simoniaci, e parla con papa Niccola, il quale gli predice d’alcun papa
  • futuro simoniaco; e quindi esclama l’autore contro al detto papa.
  • Comincia il canto vigesimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore discende
  • nella quarta bolgia, nella qual truova coloro li quali vollero
  • antivedere, fatturieri e maliosi, tutti travolti; e alcuna cosa parla
  • della origine di Mantova.
  • Comincia il canto vigesimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • venuto nella quinta bolgia, mostra come in una bogliente pegola si
  • puniscano i barattieri e come in quella è gittato un lucchese; e come,
  • volendo andare avanti, son dati loro dieci diavoli in compagnia.
  • Comincia il canto vigesimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale l’autor
  • discrive come i dimòni presero con gli uncini un navarrese, il quale,
  • alcune cose raccontate, subito si gittò nella pegola; per lo qual
  • ripigliare i demòni, volando sopra la pece, s’impegolarono.
  • Comincia il canto vigesimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • scrive come, temendo de’ dimòni, li quali impacciati avean lasciati,
  • Virgilio il ne portò nella sesta bolgia, dove trovarono gl’ipocriti,
  • vestiti di cappe rance.
  • Comincia il canto vigesimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • mostra come trapassasse nella settima bolgia, nella quale trova i
  • ladroni, tormentati variamente da serpi, tra’ quali primieramente
  • truova Vanni Fucci, il quale alcuna cosa gli predice.
  • Comincia il canto vigesimoquinto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • nella sopradetta bolgia mostra come, veduto Caco, vide certi fiorentini
  • trasformarsi maravigliosamente in diverse forme.
  • Comincia il canto vigesimosesto dello _’Nferno_. Nel quale mostra
  • l’autore come pervenne all’ottava bolgia, nella qual dice esser puniti
  • i frodolenti consiglieri in fiamme di fuoco; e qui vi ode da Ulisse il
  • fine suo.
  • Comincia il canto vigesimosettimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • nella sopradetta bolgia discrive aver trovato il conte Guido da Monte
  • Feltro, a cui racconta lo stato di Romagna, e ode le colpe sue.
  • Comincia il canto vigesimottavo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • dimostra nella nona bolgia con l’esser tutti tagliati punirsi i
  • scismatici; e quivi, riconosciutine molti, parla con Beltram dal
  • Bornio, e con certi altri.
  • Comincia il canto vigesimonono dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • disceso nella decima bolgia, mostra primieramente come in quella,
  • essendo maculati di rogna e di scabbia, si puniscano gli alchimisti; e
  • quivi parla con Capocchio d’Arezzo; poi, piú avanti, mostra con altre
  • pene punirsi ogni falsario.
  • Comincia il canto trigesimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • continuando nella predetta bolgia, ne nomina alquanti, e tra gli altri
  • maestro Adamo, discrivendo la riotta stata tra ’l maestro Adamo e Simon
  • greco in sua presenza.
  • Comincia il canto trigesimoprimo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • dimostra sé esser pervenuto al pozzo dello abisso, e quello essere
  • intorniato di giganti, e sé con Virgilio essere da Anteo disposti nel
  • nono ed ultimo cerchio dello ’nferno.
  • Comincia il canto trigesimosecondo dello _’Nferno_. Nel quale
  • l’autore, andando per la Caina, dove nel ghiaccio si puniscono coloro
  • che tradiscono i fratelli e’ congiunti, parlando con Camiscion de’
  • Pazzi, n’ode piú nominare. E poi, procedendo nell’Antenora, dove in
  • simil pena si puniscon coloro che tradiscon le lor cittá, truova
  • Bocca degli Abati, il quale piú altri gli nomina dannati in quel
  • luogo; e ultimamente vede il conte Ugolino rodere la testa di dietro
  • all’arcivescovo Ruggieri.
  • Comincia il canto trigesimoterzo dello _’Nferno_. Nel quale l’autore,
  • udita la ragione e ’l modo della morte del conte Ugolino, procedendo
  • nella Ptolomea, truova frate Alberigo, il quale gli dice quivi cader
  • l’anime, parendo qua sú ancora il corpo vivo.
  • Comincia il canto trigesimoquarto dello _’Nferno_. Nel quale l’autore
  • passa nella Giudeca, e vede il Lucifero e Giuda Scariotto e altri
  • spiriti; e quindi, appigliatosi Virgilio a’ velli del Lucifero, si
  • cala e esce dello ’nferno; e, per luoghi vacui procedendo, perviene a
  • riveder le stelle.
  • Qui finisce la prima parte della _Cantica_, over _Comedia_, di Dante
  • Alighieri, chiamata _Inferno_.
  • PURGATORIO
  • Comincia la seconda parte della _Cantica_, overo _Comedia_, chiamata
  • _Purgatorio_, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di
  • quella seconda parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore,
  • fatta la sua invocazione, discrive sotto qual parte del cielo sia
  • la regione dove arrivò; e quindi, trovato Catone uticense e il suo
  • cammin dimostratogli, ne va alla marina, dove Virgilio, secondo il
  • comandamento di Catone, gli lava il viso e cignelo d’un giunco.
  • Comincia il canto secondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore mostra
  • come, essendo alla marina piú spiriti arrivati e smontati in terra, tra
  • essi riconobbe il Casella, ottimo cantatore, al canto del quale mentre
  • essi stavano tutti attenti, sopra venne Catone, dal quale ripresi,
  • tutti verso il monte cominciarono a fuggire.
  • Comincia il canto terzo del _Purgatoro_. Nel quale Virgilio mostra
  • perché egli come Dante non faccia ombra. Appresso, al cominciar
  • dell’erta, truovano il re Manfredi con piú altri, della porta del
  • purgatoro schiusi a tempo, percioché morirono scomunicati.
  • Comincia il canto quarto del _Purgatoro_. Nel quale Virgilio mostra la
  • ragione all’autore, per che quivi dal sole sieno feriti in su l’ómero
  • destro. Poi truova Belacqua con quegli che in sin lo stremo indugiaron
  • la penitenza.
  • Comincia il canto quinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra aver
  • trovato Bonconte di Monte Feltro e altri assai, stati per forza uccisi
  • e indugiatisi ad pentere in fino a l’ultima ora.
  • Comincia il canto sesto del _Purgatoro_. Nel qual Virgilio solve a
  • l’autore un dubbio mossogli del pregare che gli spiriti faceano che per
  • lor si pregasse. Poi truovan Sordello da Mantova, e appresso l’autore
  • parla contro ad Italia; e ultimamente contro a Fiorenza.
  • Comincia il canto settimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
  • come, poi s’ebber fatta festa insieme Virgilio e Sordello, che Sordello
  • gli menasse in un grembo del monte, dove vide Ridolfo imperadore e piú
  • altri magnifichi spiriti.
  • Comincia il canto ottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
  • come due angeli discesero da cielo a guardia del luogo dove erano; e
  • appresso come truova giudice Nino e Currado marchese Malespina, con li
  • quali alquanto parla.
  • Comincia il canto nono del _Purgatoro_. Nel quale l’autor dimostra
  • come, adormentatosi, gli parve da una aquila esser portato infino al
  • fuoco; per che destatosi, si trovò presso alla porta del purgatoro,
  • dove, secondo che Virgilio gli dice, l’avea portato una donna. E
  • quindi dice sé essere andato alla detta porta, la quale discrive come
  • fatta sia, e similmente uno angelo che sopra quella stava, e come gli
  • scrivesse sette P nella fronte e dentro il mettesse.
  • Comincia il canto decimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore dimostra
  • che, entrato dentro a quello, vedesse intagliate nella ripa del monte
  • certe istorie d’umiltá, e poi vedesse anime chinate sotto gravi pesi
  • andare dintorno.
  • Comincia il canto decimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
  • come, trovati spiriti che sotto gravi pesi purgavano il peccato della
  • superbia, parla con Uberto Aldobrandesco e con Odorigi da Gobbio; e
  • alquanto grida contro alla vanagloria umana.
  • Comincia il canto decimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • dimostra l’abbattimento di molti superbi essergli apparito scolpito
  • nel pavimento; e appresso, invitati a salire nel secondo girone da uno
  • angelo, gli è uno de’ sette P levato dalla fronte.
  • Comincia il canto decimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore,
  • venuto nel secondo girone dove si purga il peccato della ’nvidia, ode
  • certe voci, mosse da caritá; poi truova spiriti a sedere, vestiti tutti
  • di ciliccio e con gli occhi cigliati, tra’ quali Sapia gli favella.
  • Comincia il canto decimoquarto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore nel
  • predetto girone parla con Guido del Duca, il quale, abbominata la valle
  • d’Arno, predice alcune cose del nepote di Rinier da Calvoli; e poi si
  • duole di piú valenti uomini romagnuoli, venuti meno; poi ode voci in
  • detestazion della ’nvidia.
  • Comincia il canto decimoquinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
  • mostra come, invitati da uno agnolo a salir nel terzo girone, Virgilio
  • gli solve un dubbio, natogli per parole di Guido del Duca; poi mostra
  • sé avere per vision vedute certe cose dimostranti mansuetudine, e, nel
  • giron pervenuti, dice cominciarsi lor sopra un gran fummo.
  • Comincia il canto decimosesto del _Purgatoro_. Nel quale l’autor mostra
  • come, entrato nel fummo del terzo girone, dove si purga il peccato
  • dell’ira, truova Marco Lombardo, il quale ragiona con lui del mondo
  • ch’è guasto e della cagione.
  • Comincia il canto decimosettimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
  • mostra come, vedute certe cose in visione, le quali sono in detestazion
  • dell’ira, Virgilio gli aperse che cosa è amore e di quante spezie,
  • essendo essi pervenuti nel quarto girone, dove si purga l’amore del
  • bene scemo.
  • Comincia il canto decimottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • mostra ancora come amore in noi si crea. E appresso ode cose ad
  • incitare la sollecitudine; e poi parla con l’abate di San Zeno da
  • Verona, e ultimamente ode cose in vitupèro della pigrizia.
  • Comincia il canto decimonono del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • discrive una vision d’una femina contrafatta, veduta da lui; e appresso
  • come perviene nel quinto girone, ove si purga il peccato dell’avarizia;
  • e quivi truova peccatori a giacere vòlti in giú e legati, e parla con
  • un papa di que’ dal Fiesco.
  • Comincia il canto vigesimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore mostra
  • d’aver parlato tra gli avari con Ugo Ciappetta, il quale gli dice
  • come di lui son discesi li presenti reali di Francia, e, oltre a ciò,
  • alcune vituperevoli opere fatte e che far debbono, e, oltre a ciò, gli
  • mostra come il dí cantano laudevoli cose della povertá, e la notte
  • vituperevoli dell’avarizia; e ultimamente come sentí tutto tremare il
  • monte.
  • Comincia il canto vigesimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
  • mostra come Stazio, apparito tra loro, dice la cagion del tremar del
  • monte, e poi se medesimo manifesta, e conosce Virgilio.
  • Comincia il canto vigesimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • mostra come, venuti nel sesto girone, e andando Virgilio e Stazio
  • ragionando di varie cose, trovarono uno albero nella strada, del quale
  • sentîro certe voci venire verso loro, le quali sonavano in laude della
  • sobrietá.
  • Comincia il canto vigesimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • mostra purgarsi il vizio della gola; e, trovato Forese Donati, ode da
  • lui certe cose, e, tra l’altre, alcune cose future, contra la disonestá
  • delle donne fiorentine.
  • Comincia il canto vigesimoquarto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore,
  • continuando il suo ragionar con Forese, ode nominare piú altri spiriti
  • che quivi erano, tra’ quali Bonagiunta Orbicciani gli predice lui
  • doversi innamorare in Lucca, e similmente Forese il disfacimento
  • d’alcun fiorentino. Poi truova un altro albero, e ode cose in vitupèro
  • della gola, e da uno agnolo sono inviati al girone superiore.
  • Comincia il canto vigesimoquinto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • scrive come Stazio, per dichiarargli come si dimagri dove non è uopo
  • di nudrimento, gli disegna come generati siamo, e come dopo la morte i
  • nostri spiriti piglin corpo dell’aere. E appresso dice l’autore come
  • nel settimo giron pervennero, nel quale in fiamme dice si purga il
  • peccato della lussuria.
  • Comincia il canto vigesimosesto del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • mostra nelle fiamme aver piú spiriti veduti, e tra gli altri
  • riconosciuto Guido Guinizelli e Arnaldo, e parlato con loro.
  • Comincia il canto vigesimosettimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
  • mostra come, passato un fuoco, e veduta la notte una visione, pervenne
  • in su la sommitá del monte, dove Virgilio in suo arbitrio rimise che
  • quel facesse che piú gli aggradisse.
  • Comincia il canto vigesimottavo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • mostra come, pervenuto nel paradiso delle delizie, truova il fiume di
  • Letè; e, parlando con una donna che da l’altra parte del fiume gli
  • apparve, ode da lei la cagione che fa muovere le frondi degli alberi di
  • quel luogo; e mostragli l’origine di Letè e d’Eunoè.
  • Comincia il canto vigesimonono del _Purgatoro_. Nel quale l’autor
  • disegna come venir vedesse il celestial triunfo.
  • Comincia il canto trigesimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • dimostra come Beatrice sopra il triunfal carro gli apparí, e come,
  • essendo Virgilio partito, ella il chiamò per nome e gravemente il
  • riprese, mostrando poi alle sante creature, che dintorno al carro
  • erano, perché degno era di riprensione.
  • Comincia il canto trigesimoprimo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • distesamente discrive la grave riprension fattagli da Beatrice, e il
  • dolore che per quella sentí; e appresso come, fuor di sé essendo e
  • risentendosi, si trovò tirato dalla donna, che prima trovata avea, nel
  • fiume, e in quello da lei tuffato; e avendo dell’acqua bevuta, fu dalle
  • quattro donne presentato a Beatrice, e come lei, levato dal viso il
  • velo, apertamente vide.
  • Comincia il canto trigesimosecondo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • discrive come il triunfo celeste si volse a tornare indietro, e come,
  • ad un albero senza foglie smontata Beatrice del carro, esso vi fu
  • legato dal grifone; e appresso come s’addormentò, e, svegliato, vide
  • il grifone esser partito e Beatrice rimasa, la quale gli fa rimirare
  • il carro, sopra ’l quale per figura vede certe cose alla Chiesa di Dio
  • avvenute e che doveano avvenire.
  • Comincia il canto trigesimoterzo del _Purgatoro_. Nel quale l’autore
  • significa certe cose future a lui da Beatrice predette, e come, da
  • Matelda bagnato in Eunoè, puro tornò a Beatrice.
  • Qui finisce la seconda parte della _Cantica_, overo _Commedia_, di
  • Dante Alighieri, chiamata _Purgatoro_.
  • PARADISO
  • Comincia la terza parte della Cantica, overo Comedia, chiamata
  • Paradiso, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di
  • questa terza parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore, poi
  • che dimostrato ha sommariamente quello che in essa intende di trattare
  • e fatta la sua invocazione, discrive come appresso a Beatrice se ne
  • salisse nel primo cielo, e come ella gli solvesse un dubbio per lo suo
  • veloce montare venutogli.
  • Comincia il canto secondo del Paradiso. Nel quale l’autore, poi che a
  • quegli che meno sofficienti sono alla presente considerazione ha detto
  • che si rimangano, dimostra la cagione de’ segni bui, li quali nel corpo
  • della luna veggiamo.
  • Comincia il canto terzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore parla con
  • madonna Piccarda; e ella gli solve un dubbio, mostrandogli ciascuna
  • anima esser contenta nel luogo dove posta è in paradiso; e poi gli
  • mostra Costanza imperadrice.
  • Comincia il canto quarto del _Paradiso_. Nel quale Beatrice solve il
  • dubbio della doppia volontá e del tornar dell’anime alle stelle.
  • Comincia il canto quinto del _Paradiso_. Nel quale Beatrice dichiara
  • all’autore se per alcuna permutazione si può adempiere il boto fatto. E
  • quindi, saliti nel secondo cielo, vede l’autore molti spiriti gloriosi,
  • de’ quali uno, offertoglisi, domanda chi el sia.
  • Comincia il canto sesto del _Paradiso_. Nel quale Giustiniano
  • imperadore se medesimo manifesta all’autore, mostrando appresso molte
  • cose magnifiche fatte sotto il segno dell’aquila, e quanto falli chi
  • quello senza giustizia s’apropri; e ultimamente dice quivi esser
  • l’anima di Romeo.
  • Comincia il canto settimo del _Paradiso_. Nel quale Beatrice chiarisce
  • all’autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso
  • perché a Dio, a rilevare l’umana generazione dalla colpa del primo
  • padre, piacque piú di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente
  • perché gli elementi sieno corruttibili.
  • Comincia il canto ottavo del _Paradiso_. Nel quale l’autor mostra come
  • salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale
  • gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.
  • Comincia il canto nono del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive come
  • madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso
  • Folco contro a’ pastori della Chiesa.
  • Comincia il canto decimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive
  • come nel cielo del sole pervenissero, dove gli parla Tommaso d’Aquino,
  • e nominagli piú altri spiriti, li quali tutti furon gran letterati; e
  • tra gli altri gli nomina Alberto di Cologna, Salomone e Boezio.
  • Comincia il canto decimoprimo del _Paradiso_. Nel quale Tommaso
  • d’Aquino mirabilmente commendando onora san Francesco.
  • Comincia il canto decimosecondo del _Paradiso_. Nel quale Bonaventura
  • da Bagnorea mirabilmente parla di san Domenico, e nomina piú altri
  • beati spiriti, li quali quivi dice gloriarsi.
  • Comincia il canto decimoterzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • mostra come san Tommaso d’Aquino gli chiarisse quello che di Salamon
  • detto avea: «non surse il secondo».
  • Comincia il canto decimoquarto del _Paradiso_. Nel quale primieramente
  • l’autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universal
  • resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente
  • hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo
  • salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.
  • Comincia il canto decimoquinto del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico,
  • e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e
  • dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.
  • Comincia il canto decimosesto del _Paradiso_. Nel quale messer
  • Cacciaguida mostra all’autore quali fossero le piú notabili famiglie di
  • Firenze al suo tempo.
  • Comincia il canto decimo settimo del _Paradiso_. Nel quale messer
  • Cacciaguida, domandato, predice all’autore il suo futuro esilio, e che
  • per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e
  • udite, a cui che elle si debbano parer gravi.
  • Comincia il canto decimottavo del _Paradiso_. Nel quale messer
  • Cacciaguida nomina piú famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi.
  • E appresso l’autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive
  • molti santi spiriti ne’ loro movimenti fare diverse figure di lettere,
  • e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.
  • Comincia il canto decimonono del _Paradiso_. Nel quale mostra l’autor
  • dalla sopradetta aquila essergli dichiarato quello che creder [si de’]
  • d’uno non battezzato e che mai di Cristo alcuna cosa non udí ragionare,
  • ma per ogni altra cosa è buono; e ultimamente quello che contro a piú
  • cristiani dicesse la predetta aquila.
  • Comincia il canto vigesimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor discrive
  • come la detta aquila gli nominò alquanti degli spiriti che in essa
  • erano gloriosi; e appresso gli mostrò come Traiano imperadore e Rifeo
  • troiano, li quali da lei erano stati nominati, non moriron pagani come
  • esso stimava.
  • Comincia il canto vigesimoprimo del _Paradiso_. Nel quale l’autor
  • dimostra come, pervenuto nel settimo cielo, vide una scala altissima,
  • per la quale salivano e scendevano molti spiriti; de’ quali venne a
  • lui Pietro Dammiano, il quale, ad alcuna sua domanda avendo risposto,
  • alcune cose dice contro a’ pastori della Chiesa.
  • Comincia il canto vigesimosecondo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • narra come parlò con san Benedetto, il quale piú altri santi spiriti
  • contemplativi gli nominò, e piú cose gli disse in vitupèro de’ presenti
  • religiosi; poi dietro a lui su per la scala se ne salí nell’ottavo
  • cielo; e quindi vòlto in giú, discrive quali vedesse la terra e tutti
  • gli altri cieli.
  • Comincia il canto vigesimoterzo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla
  • Vergine Maria.
  • Comincia il canto vigesimoquarto del _Paradiso_. Nel quale l’autore,
  • con san Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch’ e’ crede.
  • Comincia il canto vigesimoquinto del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • scrive come, da sa’ Iacopo apostolo domandato, dice che cosa
  • è speranza; e appresso come, essendo sopravenuto san Giovanni
  • evangelista, ode da lui non essere in cielo alcuno altro col proprio
  • corpo che Cristo e la madre.
  • Comincia il canto vigesimosesto del _Paradiso_. Nel quale l’autore, a
  • domanda di san Giovanni evangelista, dice che cosa è caritá; e appresso
  • come, con Adam parlando, da lui ode quando creato fosse, quanto
  • vivesse, e dove.
  • Comincia il canto vigesimosettimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • primieramente racconta parole dette da san Piero contro alli moderni
  • pastori; e appresso discrive come pervenisse nel nono cielo.
  • Comincia il canto vigesimottavo del _Paradiso_. Nel quale l’autore di
  • scrive la gloriosa festa de’ nove cori degli angeli.
  • Comincia il canto vigesimonono del _Paradiso_. Nel quale Beatrice
  • dimostra all’autore l’ordine della creazione delle cose; e appresso
  • ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanitá
  • d’assai moderni predicatori.
  • Comincia il canto trigesimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore scrive
  • sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d’un fiume,
  • poi in forma d’una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia
  • d’Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa
  • gli predice.
  • Comincia il canto trigesimoprimo del _Paradiso_. Nel quale l’autore
  • dice come, in luogo di Beatrice, trovò san Bernardo, il quale gli
  • mostrò lei sedere nel luogo a’ suoi meriti sortito; ed egli le fece
  • orazione; poi, dicendogliel san Bernardo, volse gli occhi alla letizia
  • de’ gloriosi.
  • Comincia il canto trigesimosecondo del _Paradiso_. Nel quale l’autor
  • narra come san Bernardo gli mostrasse la Vergine Maria e Eva e
  • nominatamente piú altri santi uomini e donne, e la letizia dell’agnolo
  • Gabriello, e poi lui ad orare con seco, per grazia impetrar, disponesse.
  • Comincia il canto trigesimoterzo del _Paradiso_. Nel quale discrive
  • l’autore l’orazione fatta da san Bernardo, e come con lo sguardo
  • penetrasse alla divina essenzia; e fa fine.
  • Qui finisce la terza e ultima parte della _Cantica_, overo
  • _Commedia_, di Dante Alighieri, chiamata _Paradiso_.
  • NOTA
  • I
  • VITA DI DANTE
  • Il testo è riveduto sul cod. 104. 6 della Biblioteca capitolare di
  • Toledo, il quale da tempo vien giudicato molto autorevolmente di mano
  • del Boccaccio (cfr. M. BARBI, _Vita Nuova_ di Dante, 1907, p. LIV
  • sg. per la descrizione del cod., e p. CLXXI sg. per la dimostrazione
  • dell’autografia). Chi paragoni la presente edizione col testo critico
  • di Fr. Macrí-Leone, vedrá quante lezioni risultino piú chiare e piú
  • persuasive, in grazia appunto del codice toledano.
  • Un’accurata revisione della punteggiatura, favorita anch’essa dal
  • manoscritto, ha pure aiutato in piú punti a raggiungere una piú esatta
  • interpetrazione del pensiero dell’autore.
  • Si è mantenuto all’operetta il titolo tradizionale di _Vita di Dante_.
  • Il codice toledano offrirebbe però questo titolo piú analitico: «_De
  • origine vita studiis et moribus clarissimi viri Dantis Aligerii
  • Florentini poëtae illustris et de operibus compositis ab eodem_»; e
  • un’espressione del _Comento_ (presente ediz., I, 118) condurrebbe a
  • intitolare l’operetta _Trattatello in laude di Dante_.
  • La suddivisione dei paragrafi è generalmente quella assegnata dal
  • citato codice.
  • Dei sottotitoli quelli che corrispondono alle partizioni adottate nelle
  • precedenti edizioni, sono riportati da queste o modificati; gli altri
  • son nuovi. Il Boccaccio non usò sottotitoli.
  • La grafia del ms. è stata rispettata fin quanto consentivano le norme
  • di questa collezione[1].
  • II
  • REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
  • Il testo del cosí detto _Secondo compendio_ è riveduto sul cod. L. V.
  • 176 della Biblioteca Chigiana, giudicato di mano del Boccaccio, come
  • quello toledano, e piú recente. A piè di pagina ho riportato dalla
  • eccellente edizione di E. Rostagno (_La Vita di Dante, testo del cosí
  • detto Compendio attribuito a_ G. B., Bologna, Zanichelli, 1899) quei
  • tratti che il cosí detto _Primo compendio_ ha in piú o di lezione
  • diversa. Son trascurate soltanto leggerissime differenze formali;
  • sicché il lettore trova in questa edizione le due redazioni, si può
  • dire, integralmente. Ho curato, dov’era possibile, che i capiversi
  • agevolino i riscontri tra queste redazioni e la _Vita_.
  • Ho stampato queste _Redazioni compendiose_ dopo la _Vita_, perché, come
  • si comprende dal titolo stesso che do loro, io preferisco all’ipotesi,
  • che fa di esse uno schema o traccia o primo getto della _Vita_, l’altra
  • che tende a dimostrarle stesura piú tarda, come piú tardo sarebbe
  • l’autografo chigiano, che contiene il _Secondo compendio_, rispetto al
  • toledano, che contiene la _Vita_[2].
  • Le differenze di contenuto, in quanto a sostanza biografica, dati,
  • giudizi e apprezzamenti sui casi e sull’opera di Dante, e le novitá di
  • distribuzione e di ordinamento della materia, non sono trascurabili; ma
  • non bastano a dare una fisonomia diversa al lavoro, la quale si delinea
  • assai nettamente per la omissione di esclamazioni, interrogazioni,
  • apostrofi, ripetizioni e simili luoghi tipici di rettorica scolastica,
  • che infiorano le pagine della _Vita_. Per via di tale sfrondamento,
  • che al Boccaccio non dovette costare alcuna fatica, mentre lo stile
  • lussureggiante della _Vita_ ci richiama ai romanzi giovanili, quello
  • dei _Compendi_ si riavvicina al _Comento_, ch’è opera degli ultimi anni
  • di lui.
  • III
  • COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • Il testo è riveduto sui quattro codici fiorentini Magliabechiani II.
  • IV. 58 (M¹), II. I. 51 (M²)[3], VII. 1050 (S)[4] e Riccardiano 1053
  • (R)[5], tutti del principio del secolo decimoquinto. Non si è tenuto
  • conto del Magliab. VII. 805, che è una copia tratta da R dall’erudito
  • settecentesco Anton Maria Biscioni.
  • È materialmente sicuro che nessuno dei quattro codici è copia
  • dell’altro, perché le molte omissioni, che tutti presentano (e che si
  • spiegano quasi sempre pel ritorno della stessa parola a poche righe di
  • distanza nella stessa colonna), non hanno riscontro a volta a volta
  • negli altri tre.
  • M¹ e R presentano una maggiore conformitá esteriore, perché recano
  • chiose a margine e numeri progressivi delle lezioni, che mancano in M²
  • e S; ma l’insieme dell’analisi porta a credere che sian tutti e quattro
  • apografi di quel medesimo «originale», dal quale M¹ esplicitamente si
  • afferma copiato a p. 71, e al quale si riferisce M² a c. 27 r, col.
  • 2ª, allo stesso proposito del precedente, cioè per giustificare come
  • la digressione sulla «fama» (pres. ediz., I, 215-217) non fosse stata
  • copiata a suo posto[6].
  • Altre prove piú o meno esplicite[7] dan modo di constatare che
  • l’«originale» presentava frequenti aggiunte in calce o a margine o
  • forse in intere pagine intercalate, le quali aggiunte non sempre
  • conformemente i vari codici hanno inserito a loro posto, e talun d’essi
  • ha talvolta trascurato.
  • Son tutti maravigliosamente scorretti, nei nomi, nelle date, nelle
  • citazioni latine, che l’amanuense di M², che sapeva poco di
  • grammatica, sopprime addirittura, o taglia, o riduce male in italiano.
  • La morfologia verbale e la fonetica son trattate individualmente a
  • capriccio. Eppure, nonostante ciò, l’assiduo, paziente e accorto
  • confronto dei quattro codici consente di ricostruire il testo
  • dell’«originale» con abbastanza genuinitá e fedeltá.
  • Senonché io mi sono dovuto persuadere che di tale «originale» i «24
  • quaderni» e i «14 quadernetti», ne’ quali il B. lasciò, morendo, la
  • contrastata ereditá delle sue lezioni di Santo Stefano di Badia,
  • rappresentano una parte soltanto. Tutto il resto, che estensivamente
  • può sommare a poco meno che altrettanto, è sviluppo di rimandi
  • al proprio scritto biografico su Dante, che il B. lasciò segnati
  • sull’autografo, e di altri consimili e piú numerosi rimandi alle
  • proprie opere di erudizione, interpetrati con larghezza eccedente il
  • proposito e con intelligenza inadeguata; è svolgimento di appunti
  • e compimento di ragionamenti avviati; sono chiose teologiche e di
  • dottrina chiesastica, per le quali non pare che il B. avesse né
  • competenza né gusto; son tratti cavati da Eusebio, da Giustino, dal
  • lessico di Papia e da altri volumi in uso nelle scuole; sono (e qui
  • segnatamente è caduta in inganno la critica di questo testo nostra e
  • straniera) pagine ricavate da altri commentatori di Dante, posteriori
  • al Boccaccio.
  • Una somma di prove e di indizi giustifica ed avvalora questa
  • concezione: chiose duplicate e contrastanti; brani che si inseriscono
  • senza alcun legame, tolti i quali il filo del ragionamento ripiglia;
  • errori di traduzione letteralmente meccanica attraverso le cattive e
  • spesso farraginose riduzioni dal De _genealogiis, De casibus virorum
  • illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, fontibus_;
  • altri volgari errori di traduzione e fraintendimento di testi quali
  • l’_Epistola a Can Grande_, articoli dell’_Elementarium_ di Papia,
  • ecc.; guasti dell’armonia della forma e alterazioni, scomposizione
  • e disorganizzazione del pensiero nelle pagine desunte dallo scritto
  • biografico su Dante[8]. Nel caso delle interferenze con altri
  • commentatori (che son poi il Buti, Filippo Villani e l’Anonimo
  • fiorentino), un’analisi stilistica non superlativamente difficile, né,
  • io credo, leggermente opinabile, porta a constatare che vi mancano
  • i modi e le forme del Boccaccio e vi si ritrovano invece i modi e
  • le forme di quegli altri scrittori, piú o meno alterate, piú o meno
  • peggiorate. Esempio tipico è quello del bravo e onesto Da Buti, che
  • nella pagina che cita dal Boccaccia sul nome di _Commedia_ (la qual
  • pagina nel testo del proemio del Boccaccio, quale ora è, non s’innesta
  • grammaticalmente, ma emerge per forma, per dottrina e per organismo di
  • pensiero), rimane, come doveva rimanere, inferiore al modello, mentre
  • ragiona meglio e in piú bei periodi nelle altre pagine che confrontano
  • e che non sono citate come desunte dal Boccaccio[9]. Filippo Villani
  • trasse dal _De Genealogiis_, com’egli attesta citandolo, molte
  • pagine e le ridusse ad uso di proemio al commento del primo canto
  • dell’_Inferno_; e queste, con altre sue pagine, si ritrovano nel
  • _Comento_, ch’egli non cita, e ch’è legittimo sospettare che non abbia
  • conosciuto mai direttamente, perché niente ne imparò. Le lezioni
  • errate dell’_Epistola a Can Grande_, che sono nel suo scritto[10],
  • si ritrovan pure nel _Comento_, con altri errori di versione che,
  • se dovessero essere imputati al Boccaccio, porterebbero a questa
  • conclusione: ch’egli, traducendo in italiano, non s’accorgeva di dire
  • spropositatamente pensieri consacrati in chiara dizione latina nella
  • sua maggior opera di cultura. Le pagine che raffrontano tra il proemio
  • dell’Anonimo (ch’è, si noti, uno scritto «composito» nettamente diviso
  • in due parti) e quello del Boccaccio, sono, direi, senza stile, le une
  • e le altre; potrá cercarsi se quelle raffazzonature (come la storia
  • di «guelfo e ghibellino» a pp. 51-53 del III vol.) derivino da una
  • fonte comune ad entrambi i testi.—Esaminando sui codici quei tratti
  • che per un motivo o per l’altro dánno piú grave ragione di sospetto,
  • si trova che le aggiunte materialmente comprovate e riconosciute
  • per dichiarazioni esplicite (vedi sopra) O per via di confronti
  • (omissioni e spostamenti) vi corrispondono tutte: e ciò vorrá dire che
  • nell’originale quei tratti non s’inserivano nel testo; e dove manchi
  • la prova materiale dell’aggiunta, si trova d’ordinario che quei tratti
  • son piú scorretti, con varianti piú frequenti, con una fonetica e
  • una morfologia piú del consueto irriducibili: la qual cosa stará a
  • significare o un’altra mano di scrittura nell’originale o per lo meno
  • una scrittura che riusciva per qualsivoglia cagione (perché piú minuta,
  • o piú trascurata, o interposta) meno nitida.
  • Sulla scorta di tal somma di prove e di indizii, scartate altre
  • ipotesi, io mi son formata la convinzione che allo stato presente del
  • testo del _Comento_ si sia arrivati attraverso due momenti costitutivi
  • ben distinti:
  • 1º Autografo del Boccaccio, tal quale è presumibile che fosse nella
  • sua prima stesura, con le inevitabili correzioni, sostituzioni ed
  • aggiunte interlineari o a margine o in calce di uno scritto di primo
  • getto; e inoltre con molti rimandi ad altri scritti, specialmente
  • propri, con pensieri e ragionamenti svolti soltanto parzialmente o
  • accennati per tracce e sommari, dato che lo scopo era di preparazione a
  • pubbliche lezioni;
  • 2º Integrazione del materiale di detto autografo (che s’è poi
  • risoluta in rimaneggiamento di molte parti, con grande accrescimento di
  • mole), eseguita con le qualitá di un ecclesiastico maestro di scuola,
  • non privo di cultura, ma scarso d’ingegno: un letterato mediocre.
  • Potrá o no dimostrarsi che costui fosse quello stesso frate, di cui
  • è fatto il nome nella rubrica iniziale di R: «Esposizioni sopra a
  • Dante per lo egregio dottore maestro Grazia dell’ordine di santo
  • Francesco»[11]. Potrá discutersi se le sue intenzioni siano state
  • oneste (e pur non commendabili!), quali io le credo, giudicando il
  • suo lavoro un esercizio letterario svolto con assiduitá, con ritorni,
  • forse in relazione con la sua professione d’insegnante. Difatti,
  • quant’è alle sue intenzioni, se nel testo del _Comento_, qual è
  • venuto a risultare dopo il rifacimento, si ritrovano noti ricordi
  • personali del certaldese, che non è ammissibile che questi sia tornato
  • a redigere in quella forma (avendoli altrove espressi nello stile suo
  • proprio); ci son pure altri ricordi personali che non possono essere
  • del Boccaccio, né a lui da un falsario, che non fosse del tutto sciocco
  • o dimentico, attribuiti. A p. 78 del vol. II di questa edizione si
  • legge: «E se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi io non
  • era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno pestifero
  • del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
  • peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de’ loro
  • amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—Vienne, tale
  • e tale—de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto
  • dal chiamatore, s’eran morti e andatine appresso al chiamatore». Or
  • qui scelga pure il lettore tra la lezione «non era» e quella «non
  • c’era», ammesse entrambi dai codici[12]; spieghi come vuole lo strano
  • errore, per cui, invece di 1348, vi si legge 1340: in definitiva dovrá
  • pur consentire che un falsario consapevole non poteva far dire al
  • Boccaccio di non essere ancor nato l’anno della peste, ovvero di non
  • essersi trovato in Firenze, in contrasto con la replicata affermazione
  • del _Decameron_ di aver visto «con i suoi occhi» quel che vi avvenne
  • in quell’anno[13]. Tal prova par che basti a scagionare maestro
  • Grazia, o chi altri sia, dall’accusa di aver falsato il Boccaccio per
  • trarre in inganno il lettore[14]. Costui, anche se nato dopo l’anno
  • della peste[15], poteva essere un uomo maturo sulla fine del ’300 e i
  • primi del ’400, cioè subito dopo Filippo Villani e l’Anonimo, quando
  • è presumibile che al manoscritto del Boccaccio toccasse la non lieta
  • sorte di un revisore e rifacitore.
  • Il manoscritto, ch’egli lasciò, sarebbe da ravvisare in quello
  • che Lorenzo Ubaldini[16] dice che «era giá in potere di Lorenzo
  • Guidetti mentovato nel suo poema dall’Ariosto», e ch’egli qualifica
  • per l’originale del Boccaccio. Giacché, se il Riccardiano 1053, che
  • porta lo stemma dei Gherardi, è parte della copia del ms. Guidetti,
  • che l’Ubaldini stesso dice posseduta da un altro fiorentino,
  • Lottieri Gherardi, e questa copia dá il testo integrato, se ne deve
  • concludere che il ms. Guidetti, insieme con l’autografo del Boccaccio,
  • conteneva l’autografo di maestro Grazia, e cioè che tutto il lavorio
  • dell’integratore venne fatto direttamente sull’originale boccaccesco.
  • In tal caso il codice riccardiano, come gli altri tre codici
  • fiorentini, sarebbero tutti apografi dell’originale boccaccesco e del
  • suo rifacitore allo stesso tempo.
  • L’esame ch’io ne ho fatto non esclude questa conclusione,
  • salvo la difficoltá materiale di frapporre e sovrapporre tanta
  • scrittura a pagine scritte, senza pensare a fogli qua e lá intercalati.
  • Sia chiaro tuttavia che anche se l’«originale» dei codici fiorentini
  • non conteneva l’autografo del Boccaccio, ma una trascrizione, e anche
  • se questa trascrizione fosse giá adattata alle esigenze del rifacimento
  • e conglobata con esso, i criteri da seguire per la condotta di
  • un’edizione del Comento permarrebbero in sostanza gli stessi.
  • Tornando dunque alla presente edizione, essa, prima di ogni altra cosa,
  • riproduce il testo qual è nei detti codici fiorentini, cioè il testo
  • integrato. L’ultima edizione, quella del Milanesi (Le Monnier, 1863),
  • sebbene sia molto migliore delle due precedenti (Napoli, Ciccarelli,
  • 1724, con la falsa data di Firenze, e Moutier, 1831-2), e sia condotta
  • sugli stessi codici, sui quali è condotta la presente, non è degna
  • di un’opera che porta il nome del Boccaccio, come gli studiosi non
  • ignorano. Vi si trovano pagine infedelmente trascritte, con omissioni,
  • con parole fraintese, finanche con periodi che dánno un senso opposto
  • a quello che devono avere. Altre e piú numerose pagine appaiono
  • appena trascritte anziché interpetrate. L’interpunzione è quanto mai
  • disordinata. Il lettore, che vorrá esaminare parallelamente l’ediz.
  • Milanesi e la presente, di fronte a moltissimi tratti, si domanderá se
  • non siano cosa nuova.
  • Il Milanesi divise il _Comento_ in 60 lezioni; le edizioni precedenti
  • dividevano invece il testo in capitoli, secondo la successione dei
  • canti, e la piú parte dei capitoli in due parti, del senso letterale e
  • del senso allegorico.
  • Non vi può essere dubbio che l’intenzione dell’autore, come la vera
  • fisonomia del suo lavoro, è meglio rispettata dalle edizioni del
  • Ciccarelli e del Moutier, sulla fede dei codici. Difatti M¹, S e R
  • segnano in modo evidente la divisione e suddivisione per capitoli,
  • lasciando spazi in bianco e venendo a capo pagina, interponendo
  • rubriche o segnandole o ripetendole a margine e dando rilievo alle
  • iniziali. M² si contenta del capoverso e delle rubriche, che però sono
  • omesse talvolta[17].
  • Invece le note a margine, che segnano il numero progressivo delle
  • lezioni, sono riferite soltanto da M¹ e R; ma talune mancano, altre
  • non si corrispondono tra i due codici. In M¹ mancano i numeri 2, 7,
  • 12, è ripetuto il 23 in luogo del 24, mancano 44, 45, 51, 52; in R,
  • per la parte del testo ch’esso contiene, mancano 23, 24, 26, 27, 29,
  • 33-35, 45, 51, 53, 60; non si corrispondono i numeri 25 e 30. Dunque il
  • Milanesi, dividendo in lezioni il _Comento_ del Boccaccio, fece cosa
  • arbitraria, in quanto i codici non offrono gli elementi necessari e
  • sufficienti. Peggio ancora, diversi dei suoi inizi non corrispondono
  • con quelli segnati dai codici: p. es. l’inizio della lezione 43
  • dovrebbe esser segnato in corrispondenza al verso «La frode ond’ogni
  • coscienza è morsa», sulla fede di ambedue i codici; e l’inizio della
  • lezione 44 dove comincia la 43, sulla fede di R. D’altra parte, se si
  • riflette che la materia del commento è organicamente distribuita tra la
  • lettera e l’allegoria dei vari canti, la divisione in lezioni, anche
  • nell’ipotesi che l’abbia segnata il Boccaccio, sarebbe da giudicare
  • occasionale e secondaria; rammenterebbe quanta materia riuscí a
  • svolgere il B. di giorno in giorno, non giá rappresenterebbe il piano
  • dell’opera; anzi proverebbe che la stesura in iscritto riuscí piú volte
  • diversa dalla lezione parlata, dovendosi giustificare la sproporzione
  • ch’è tra lezioni di poche pagine ed altre che non finiscon mai. E
  • sarebbe, per giunta, piú d’una volta assai poco felice.
  • Insieme con l’edizione del testo del _Comento_, quale è dato dai
  • codici, io ho voluto tentare di ricuperare il testo vero del Boccaccio,
  • liberandolo dalle sovrapposizioni subite; e ciò col distinguere per
  • mezzo di semplici[18] quei tratti che, alla prova dei codici, dei
  • raffronti e dello stile, non giudico genuini. Parlo di tentativo,
  • perché, all’atto pratico, questo lavoro di eliminazione, ovvio in
  • alcuni casi, riesce in molti altri estremamente difficile e non dá
  • (né, con gli elementi di cui disponiamo, potrebbe darla) la piena
  • soddisfazione della certezza. Tra le altre difficoltá c’è questa: che,
  • quando le aggiunte non sono semplicemente giustaposte, ma conglobate,
  • ne restano mal sicuri i limiti, o sfuggono addirittura all’attenzione,
  • o possono soltanto ingenerare dubbi irresolubili. E nel caso di
  • riduzioni e rifacimenti da altre opere sue, in che guisa fissare il
  • punto dove la penna e la foga e il tempo e la disposizione di spirito
  • han tratto il Boccaccio a segnare un «_et caetera_»? Niente esclude
  • che ci siano nel _Comento_ pagine rifatte o tradotte direttamente dal
  • Boccaccio, accanto a pagine né tradotte né rifatte da lui stesso. E si
  • deve pure ammettere che brani che conservano la fisonomia di aggiunte,
  • tali fossero realmente nell’autografo del Boccaccia e di suo pugno.
  • Delle numerose biografie, quelle intorno a nomi mitologici, che sono le
  • piú frequenti e le piú sviluppate, provengono per la maggior parte dal
  • _De Genealogiis_; le bibliche è raro che presentino garanzie di stile,
  • e forse ho errato per eccesso di prudenza espungendone dal gruppo che
  • se ne legge nel IV Canto (Adamo, Abel, Noé, Moisé ecc.) solamente la
  • prima, sulla base dei raffronti col _De claris mulieribus_ (§ _De
  • Eva_); e cosí pure le altre biografie, di letterati, di principi, di
  • grandi peccatori, ecc. lasciano spesso molti dubbi o nell’insieme o
  • nelle parti. I miei dubbi irresoluti si estendono oltre: p. es., le
  • chiose svolgenti l’idea che Dante mostri compassione dei dannati quando
  • lo rimorde coscienza di essere incorso negli stessi falli, trovo che
  • sono tutte rescindibili: e, messe insieme, dánno una fisonomia morale
  • dell’Alighieri ben diversa da quella ch’è delineata nella _Vita_.
  • Tra le conclusioni piú certe, che dall’eseguito processo di
  • eliminazione si possono trarre, c’è questa: che il Boccaccio non
  • dettò un proemio al suo _Comento_. Sicuramente sue sono soltanto le
  • pagine sul nome di _Comedia_; forse è suo anche il primo periodo,
  • 1’«esordio». Il rimanente è accozzato da altri commenti e da altre
  • opere boccaccesche. La mancanza del proemio si spiega pensando che
  • il Boccaccio abbia desunto le prime lezioni dal proprio scritto
  • biografico su Dante, e che, se volle discorrere della concezione pagana
  • dell’inferno e offrirne il quadro mitologico e poetico, si servisse del
  • _De Genealogiis_. Se tracciò appunti per riordinare e disporre a modo
  • di lezioni siffatta materia, ch’egli possedeva da gran signore, tali
  • appunti non paiono ormai ricuperabili attraverso il proemio composito
  • di maestro Grazia[19].
  • Cosí il testo del Boccaccio, sgombro del proemio non suo e liberato da
  • ìntromissioni e sovrapposizioni, ripiglia parte del decoro che dovette
  • avere, dettato da tanto maestro; molti ragionamenti riannodano le fila
  • spezzate; l’eloquenza fluisce con meno sbalzi ed intoppi; il pensiero e
  • la cultura dell’opera si risollevano all’altezza del nome ch’essa porta.
  • IV
  • GLI ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI
  • I tre capitoli o ternari «ne’ quali il Boccaccio in forma poco o
  • punto poetica, ma sempre chiara e fedele al soggetto, e qua e lá
  • efficacemente sintetica, riassunse, o piuttosto stipò, la contenenza
  • delle tre cantiche dantesche»[20] si leggono autografi nel giá
  • ricordato codice Toledano, nel Chigiano L. VI. 213 e nel Riccardiano
  • 1035, che sono stati tenuti presenti nella revisione del testo per
  • questa edizione.
  • Nel primo degli anzidetti codici la intitolazione è latina: _Argumentum
  • super tota prima parte Comediae Dantis Aligherii Florentini, cui
  • titulus est Infernus_, ecc.; negli altri due è volgare: _Brieve
  • raccoglimento di ciò che in sé superficialmente contiene la lettera
  • de la prima parte de la Cantica overo Comedia di Dante Alighieri di
  • Firenze di Giovanni Boccaccio_, ecc.[21].
  • V
  • LE RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI
  • Si leggono autografe nel codice Chigiano L. VI. 213, dove sono
  • distribuite in testa ai singoli canti, copiati dal Boccaccio con grande
  • accuratezza. Nel cod. giá Barberiniano 2191 ed ora Vaticano Barber.
  • lat. 4071, della fine del sec. XIV, si leggono tutte di séguito, con la
  • soscrizione «_Iohannes Boccacci de Certaldo Florentinus opus fecit_»;
  • e di séguito si leggevano in quel ms. del Cinquecento, donde furono
  • pubblicate, molto scorrette, nel 1843 a Venezia per la prima volta[22].
  • Queste rubriche dovettero godere assai per tempo buona riputazione, se
  • si pensò di trascriverle riunite come in un’operetta a sé, staccandole
  • dai canti ai quali dovevano andar congiunte. Esse «potranno parere
  • a chi non ne conosce altre delle antiche, una povera cosa, e certo
  • non sono, né possono essere, capilavori d’arte; ma a chiunque abbia
  • presenti quelle che di solito si leggono negli antichi codici della
  • _Commedia_ parranno di tanto superiori ad esse, di quanto, poniamo,
  • la struttura dell’ottava boccaccesca supera quella dell’ottava dei
  • cantastorie popolari. È manifesto l’intendimento, e notevole l’abilitá,
  • di compendiare e condensare con esattezza e chiarezza il contenuto
  • sostanziale di ogni canto; e, d’altra parte, la espressione rivela
  • assai spesso un particolare studio dell’eleganza; tutti pregi che
  • mancano alle altre rubriche dantesche di quei tempi, poco degne davvero
  • di Dante e del suo poema[23]».
  • Con la _Vita_ e le _Redazioni compendiose_, col _Comento_, gli
  • _Argomenti in terza rima_ e le _Rubriche in prosa_ vengono a
  • raccogliersi per la prima volta in un sol corpo tutti gli scritti che
  • il Boccaccio compose intorno alle vicende e alle opere del suo grande
  • concittadino. Tale raccolta non sarebbe stata possibile senza gli studi
  • precedenti del Rostagno, del Barbi e del Vandelli, giá additati in
  • questa _Nota_: qui ripeto i nomi di quegli insigni studiosi, perché
  • vada ad essi il merito che loro compete. In particolare esprimo la mia
  • riconoscenza a Giuseppe Vandelli per la cordiale larghezza con cui
  • egli ha messo a profitto di questa edizione la sua competenza e la sua
  • singolare preparazione sui testi boccacceschi intorno a Dante, de’
  • quali sono stati riconosciuti gli autografi. Pel testo del _Comento_,
  • che questa edizione presenta in modo affatto nuovo e insospettato
  • finora (con la necessaria conseguenza che la critica spesa attorno
  • a quest’opera debba essere in parte rivista), mi è giovato «ad ora
  • ad ora» manifestare le mie idee a Pio Rajna, a Francesco Torraca, ad
  • Ernesto Giacomo Parodi, a Francesco Flamini, ad Achille Pellizzari,
  • a Benedetto Croce, Cl. Paolo Savj-Lopez e ad altri maestri ed amici;
  • ma ciò sia detto senza preoccupare o prevenire il loro giudizio, che,
  • al pari di quello di ogni altro studioso, potrá esser definitivo
  • soltanto sull’esame del lavoro compiuto. Fausto Nicolini, tra gli altri
  • carichi, si è assunto quello di rivedere e rettificare la grafia e
  • l’interpunzione; e la fatica della correzione delle bozze l’ha divisa
  • molte volte con me, come cura familiare, Bianca Guerri Marcolongo,
  • che ha pure collaborato alla compilazione dell’_Indice dei nomi_, nel
  • quale, in servigio degli studiosi, ho voluto riportare le citazioni
  • degli autori, numerosissime nel testo del _Comento_ (ma desunte per
  • lo piú, in ispecie quelle dei classici, dal _De Genealogiis_ e dalle
  • altre opere boccaccesche di erudizione), sulla guida fidata di Paget
  • Toymbee[24].
  • Devo aggiungere che questo lavoro, per il quale non ho risparmiato
  • fatiche, è stato eseguito in condizioni assai sfavorevoli. Troncato
  • allo scoppio della guerra, fu ripreso durante una lunga convalescenza,
  • e condotto a termine tra il campo e la caserma, spesso senza alcun
  • sussidio di libri, senza i miei appunti. E in questo tempo perdetti
  • te, o Madre, che mi chiamavi al tuo capezzale nel giorno stesso in
  • cui io, spezzato il braccio e passato il petto da parte a parte tra i
  • reticolati sopra Polazzo, parvi dovere, secondo la legge di natura,
  • soccombere, e pur prolungasti le tue dure sofferenze sino a che non
  • giunsi a raccogliere l’ultimo bacio sulle tue labbra benedicenti. E
  • perdetti anche te, o Pietro, su cui l’agra morte sorvolò tante volte al
  • San Marco di Gorizia, per abbatterti contro le onde dell’Egeo, rigide
  • d’inverno, dal Minas infausto; te, o Fratello, di cui quattro bimbi
  • aspettano ancora le conosciute carezze. Nella memoria vostra, o Madre,
  • o Fratello, do termine a queste pagine, di cui nessuna s’è chiusa senza
  • un pensiero per Voi.
  • INDICE DEI NOMI VOLUME III
  • Abate di San Zeno, 246, 265.
  • Abati (degli) Bocca, 59, 241, 262.
  • Accorso (Accursio) (d’) Francesco, 203.
  • Acheronte, 175, 186, 259.
  • Acquacheta, fiume, 225.
  • Adamo, 254, 270.
  • —(maestro), 240, 262.
  • Adimari, vedi Aldobrandi.
  • Adrasto, 169.
  • Adriana (Arianna), 90.
  • Adriano V, papa (del Fiesco), 246, 265.
  • (_Epistola di san Girolamo a sant’Agostino_)
  • 194 (_De civitate Dei_, XVI. 2);
  • Alberico (frate), 241, 263.
  • Aldobrandeschi Umberto, 244, 264.
  • Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 216, 238.
  • Alessandro di Macedonia, 102, 165.
  • Aletto, 10.
  • Anastasio, papa, 68.
  • Anna, sommo sacerdote, 239.
  • Antenora, 241, 262.
  • _Apocalissi_, 185.
  • Appennino, 225 sg.
  • Apuleio di Madaura, 17 (_Cosmographia_).
  • Arbia, 58.
  • Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 237, 260.
  • Aristotile, 13;
  • _Ethica_, 79 bis;
  • _Fisica_, 82.
  • Arli (Arles), cittá di Provenza, 20.
  • Arnaldo, vedi Daniello.
  • Arpie, 132.
  • Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore, 255, 270.
  • —d’Inghilterra, 111.
  • _Atti degli Apostoli_, vedi _Apostoli_.
  • Attila, 113 sg., 152 sg.
  • Beatrice, 65, 201, 235, 248, 251 sg., 267 sg.
  • Beisangue Guido, detto Guido vecchio, 215.
  • Belacqua, 243, 263.
  • Beltram di Altaforte (dal Bornio), 240, 262.
  • Bernardo (san), 255, 270.
  • Berti Bellincione, de’ Ravignani, 215.
  • Bocca, vedi Abati.
  • Bonaventura (san) da Bagnorea, 252, 268.
  • —Bondelmonte, 53.
  • —famiglia de’, 53.
  • Bonconte di Montefeltro, 243.
  • Borsiere Guglielmo, 222.
  • Brancadoria, 241.
  • Brenta, fiume, 191.
  • brigata spendereccia senese, 148.
  • Bruggia (Bruges), 190.
  • Bruto Marco Giunio, 241.
  • Cacciaguida, 253, 268.
  • Caco, 262.
  • Caina, 240, 262.
  • Calvoli (da) Rinieri, 245, 265.
  • Caorsa, 74 sg.
  • Capaneo, 169 sg., 238, 261.
  • Capocchio, 240, 262.
  • Carlo IV, imperatore, 52.
  • Caronte, 235, 259.
  • Casella, 243, 263.
  • Cassio, 241.
  • Catone uticense, 156, 161 sg., 243, 263.
  • Cavalcanti Guido, 56.
  • —Cavalcante (de’), 55 sg.
  • Cecina, fiume, 130 sg.
  • Cefas, vedi Pietro (san).
  • Celeno, vedi arpie.
  • Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
  • centauri, 123 sg.
  • Chiarentana, 191.
  • Ciacco, 236, 260.
  • Ciampolo navarrese, 261.
  • Ciappetta (Capeto) Ugo, 246, 265.
  • Cicerone, vedi Tullio.
  • Claudiano, 31 (_De laudibus Stiliconis_).
  • Clemente V, papa, 270.
  • Cocito, 176, 187, 240.
  • Comedia, 228 sg.
  • Coppo di Borghese Domenichi, 215.
  • Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
  • Corneto, 130 sg.
  • Corneto (da) Rinieri, 119.
  • Costanza, imperatrice, 268.
  • Creta, 172, 179 sg.
  • Cureti, 173.
  • Curzio Quinto, 165.
  • Damiani Piero (san), 253, 270.
  • Damocle, 106.
  • Daniello Arnaldo, 248, 266.
  • Daniello, profeta, 182.
  • Democrito, 94.
  • Didone, II, 119 sg.
  • Dionisio il vecchio, 104 sg.
  • Dionisio il giovane, 107 sg.
  • Dite, 27 sg., 237, 260.
  • Donati, Forese, 247, 266.
  • —Piccarda, 251, 268.
  • Duca (del) Guido, 245, 265.
  • Elsa, fiume, 171.
  • Empoli, 60.
  • Ennio, 207.
  • Epicuro, 45.
  • Erine (Erinni), 10, 29 sg., 237, 260.
  • Eritone, 6 sg.
  • Eschilo, 207.
  • Este (da) Opizzo, 110.
  • Eteocle, 169.
  • Eunoè, 249, 266.
  • Euripide, 207.
  • Europa, regione, 179 sg.
  • Eusebio (_Liber temporum_), 7.
  • Evemero (_Istoria sacra_), 172, 173.
  • Ferecide, 156.
  • Fiesole, 197 sg.
  • Flegetonte, 175 sg., 187, 237, 260.
  • Flegias, 237, 260.
  • Flegra, 167.
  • Folco da Marsiglia, 252, 268.
  • Folo, centauro, 99.
  • Forlí, 226.
  • Fotino, 68.
  • Francesca da Rimini, 236, 259.
  • Fucci Vanni, 240, 262.
  • Fulgenzio, 17 (_Myth_.), 33, 37.
  • Furie, vedi Erinni.
  • Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio VIII.
  • _Genesi_, 74 (XIX. 1-25), 83, 183.
  • Gerione, 239, 261.
  • Geronimo, vedi Girolamo.
  • Gherardesca (della) Ugolino, 241, 263.
  • Ghibellino, 52.
  • Giacomo da Sant’Andrea di Padova, 149.
  • Gianfigliazzi Luigi, 52.
  • Giasone, 239.
  • Gibilterra, 163.
  • Giordano, conte, 59.
  • Giovanni (san) evangelista, 254, 270. Vedi _Apocalissi_ e
  • _Evangelio_.
  • Giovenale, 172 (_Sat_., VI. 1-2).
  • Girolamo (san), 217 (_Adversus Iovinianum_).
  • Giuda Scariotto, 241, 263.
  • Giudecca, 241, 263.
  • Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
  • Giunone, 123 sg.
  • Giustiniano, 252, 268.
  • Giustino, 21 (XXXII, 3),
  • 102-4 (IX. 6. 7; XI. 6. 7. 8. 11; XII. 9. 10. 13. 14). 104 (XXXI. 1),
  • 105 (XX, 1, 2, 3, 5),
  • 107 (XXI, 1-5),
  • 116, (XVII, 3),
  • 117 (XXV, 3, 5).
  • Gorgone, 10 sg., 35 sg., 204 (_Omelie_).
  • Gualdrada, 215.
  • Guelfo, 52.
  • Guerra Guido, 216, 238.
  • Guglielmo d’Inghilterra, 165.
  • Guglielmo d’Oringa, 22.
  • Guinizzelli Guido, 248, 266.
  • Guzzante, cittá (Wissand), 190.
  • Iacopo (san), 254 (barone di Galizia).
  • Ida, monte di Creta, 173.
  • India, 165.
  • Innocenzo papa, 54.
  • Interminelli Alessio, lucchese, 239, 261.
  • Iosafá, 45.
  • Issione, 123 sg.
  • _Istoria sacra_, vedi Evemero.
  • Italia, 21.
  • Lamberti (de’) Mosca, 240.
  • Lano di Siena, 148.
  • Latino Brunetto, 192 sg.
  • (_Tesoretto, Tesoro_), 205, 238, 261.
  • Lattanzio, 99.
  • Leon tessalo, vedi Pilato.
  • Letè, 175 sg., 248, 266.
  • Lia, 248.
  • Lino, 207.
  • Livio Tito, 103 (IX. 16. 17. 18),
  • 191 (I, 1).
  • Lucano, 6 (VI. 507-9),
  • 30 (VI, 732-4),
  • 36 (IX, 624-6).
  • maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
  • Maiolica (Maiorca), 198.
  • —Paolo, 236, 259.
  • Malespina Currado, 264.
  • Manfredi, 54, 58 sg., 243, 263.
  • Maometto, 240.
  • Marco lombardo, 245, 265.
  • Maria, 255, 270.
  • Marte, 150 sg.
  • Martello Carlo, 252, 268.
  • Mascheron (de’) Sassol, 240.
  • Matelda, 249, 267.
  • Matilde, contessa di Toscana, 52 sg.
  • Mausolo, re di Caria, 24.
  • Medusa, vedi Gorgone.
  • Megera, 10.
  • Mela Pomponio, 20 (II. 5. §§ 79. 80),
  • 35 (III, 9, § 99), 163 (I, 6, § 32).
  • Minos, 236, 259.
  • Minotauro, 89 sg.; 122 sg.
  • Monforte (di) Guido, 111.
  • Monte Aperti, 54, 59.
  • Montefeltro (da) Guido, 240, 262.
  • —Bonconte, 243, 264.
  • Montone, vedi Acquacheta.
  • Morruello, vedi Malespina.
  • Mozzi (de’) Andrea, 204.
  • —Tommaso, 204.
  • Musatto padovano (_Ecerinis_), 109.
  • Nesso, 97 sg., 260.
  • Nevio, 207.
  • Nicola papa, 239, 261.
  • Oderisi da Gobbio, 244, 264.
  • Omero, 207.
  • Orazio, 17, vv. 7-8);
  • 207.
  • Orbicciani Bonagiunta, 247, 266.
  • Orfeo, 207.
  • Otto IV, imperatore, 215.
  • Ovidio, 17, (_Metam_., XV. 807-14),
  • 30 (_Metam_. VI. 430),
  • 31 (_Metam_. IV. 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
  • 139 (_Metam_. II. 761-4. 768-72. 775-82).
  • Padova, 191.
  • Paolo (san), 113-5 (_Hist. Rom_. XIV. §§ 1-13).
  • _Paradiso_ (cantica), 16, 51, 145,
  • Pasife, 90, 120.
  • Pazzi (de’) Rinieri, 119.
  • —Camiscion, 240, 262.
  • —Iacopo del Vacca, 59.
  • Persio, 66, 69-70).
  • Petrarca Francesco, 208.
  • Pietro (san), 254, 270.
  • Piettola, 208.
  • Pirro, figlio di Achille, 115.
  • Pirro, re dell’Epiro, 116.
  • Platone, 156.
  • Plauto, 207.
  • Plinio, 21 (_Hist. nat_., 5),
  • 24-25 (_Hist. nat_. XXXVI. 4; non citato nel testo).
  • Pola, 21.
  • Polinice, 169.
  • Prisciano, 203, 16.
  • Proserpina, 10.
  • _Proverbi_, vedi Salomone.
  • Ptolomea, 241, 263.
  • _Purgatorio_ (cantica), 52, 162.
  • Quarnaro, 21.
  • Rea, 173.
  • Ridolfo, imperatore, 264.
  • Rifeo, 253, 269.
  • Rodano, 20.
  • 206 sg.; 182 sg.
  • Romano (da) Azzolino, 109.
  • —Cunizza, 252, 268.
  • Romeo, 252, 268.
  • Rusticucci Iacopo, 216, 238.
  • Salmista, 39 (_Ps._, CXVIII, 37).
  • Salomone, 39 (_Eccles_., I, 2).
  • Samuele, 7.
  • San Benedetto (monastero di) dell’Alpe, 224 sg.
  • Sapia, 245, 265.
  • Sarno, fiume, 171.
  • Schicchi Gianni, 240.
  • Seneca, 16 (_Oedipus_, II. 178), 70.
  • Sereno, 36.
  • Servio, 36-37 (_Sup. Aen._, VI. 289, non citato nel testo),
  • 99 (_Sup. Georg._, 93),
  • 126 (_Sup. Georg._, 115).
  • Sesto Pompeo, 117 sg.
  • Siena, 58 sg.
  • Silvani Provenzano, 244.
  • Simonide poeta, 207.
  • Sinone, 240, 262.
  • Sofocle, 207.
  • Sogdoma, 79 sg.
  • Soldanieri Gianni, 241.
  • Sordello, 244, 264.
  • Stazio, 31 (_Theb._, I. 106-9),
  • 169 (_Theb._, I, X),
  • 246 sg., 266.
  • Stige, 176, 186, 236, 260.
  • Strofade, isole, 132.
  • Tamigi, 110.
  • Teodonzio, 16, 18, 29, 31, 35, 37, 98.
  • Teofrasto (_De nuptiis_), 217, 220.
  • Teognide, antichissimo istoriografo, 36.
  • Terenzio, 207.
  • Teseo, 10 sg.
  • Tesifone, 10.
  • Titani, 168.
  • Tommaso d’Aquino, 252 sg., 268.
  • Toppo (Pieve al), 148.
  • Toscana, 47 sg.
  • Traiano, imperatore, 253, 269.
  • Trento, 88.
  • Tullio Cicerone, 16 (_De nat, deor_. 17),
  • 18 (_De nat. deor_. 17),
  • 61 (_Div_., I. 23),
  • 104 sg. (_Tusc._, V, 20),
  • 157 (_Somnium Scipionis_).
  • Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale, 64.
  • —Ruggieri, arcivescovo, 241.
  • Uberti Farinata, 49 sg., 237, 260.
  • Ulisse, 240, 262.
  • Umberto, vedi Aldobrandeschi.
  • Valerio Massimo, 106 (I. 1 _ext._ 3),
  • 156 (II, 6, § 7).
  • Venedico, 239.
  • Vigne (dalle) Piero, 136 sg.,238, 260.
  • Villani Giovanni, 54, 59, 60 (_Cron._, VI. 77. 78. 81. non cit.),
  • 109 (_Cron._, VI, 72),
  • 111 (_Cron._, VII, 39, non cit.),
  • 114 (_Cron._, II, 1, non cit.),
  • 151 (_Cron._, I, 42),
  • 153 (_Cron._, II, 1),
  • 154 (_Cron._, 1),
  • 197 (_Cron._, I, 31 sg., non cit.),
  • 198 (_Cron._, IV, 31, non cit.).
  • Virgilio, 191, 207 sg., 236.
  • _Eneide_, I, 112 (II, 689-91),
  • 120 (VI, 106),
  • 123 (VI, 237-42),
  • 124 (VI, 126),
  • 125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
  • 131 (VII, 810-11),
  • 151 (I, 544-5),
  • 154 (XI, 539 sg.),
  • 156 (XII, 930 sg.),
  • 184 (III, 56-7),
  • 197 (I, 1, 8),
  • 204-5 (VI, 1 sg.),
  • 208 (VI, 127-31; 756-7),
  • 215 (VI, 174, 234, I, 52),
  • 239 (VI, 261),
  • 251 (VI, 298-9),
  • 253;
  • 29 (XII, 845-7),
  • 30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
  • 31 (VII, 325-9, 335-8),
  • 93 (IV, 106),
  • 116 (III, 294-7),
  • 145 (I, 278-9),
  • 168 (VIII, 425).
  • _Georgica_, I, 139;
  • 145 (II, 495-6, 498).
  • _Egloghe_, II, 10 (IV, 7).
  • _Culice_, II, 33.
  • Visconti Nino (Gallo di Gallura), 244, 264.
  • _Vita nova_, 56.
  • Viterbo, 110 sg.
  • INDICE DEI NOMI
  • Abacuc, profeta, II, 262 (_Hab_., II, 6, 9).
  • Abate di San Zeno, III, 246, 265.
  • Abati (degli) Bocca, III, 59, 241, 262.
  • Abele, II, 15.
  • Abramo, II, 17.
  • Accorso (Accursio) (d’) Francesco, III, 203.
  • Acheronte, I, 120, 250; III, 175, 186, 259.
  • Achille, II, 130 sg.
  • Acquacheta, fiume, III, 225.
  • Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, II, 173 sg.
  • Adamo, I, 119; II, 12; III, 254, 270.
  • —(maestro), III, 240, 262.
  • Adimari, vedi Aldobrandi.
  • Adone, I, 180.
  • Adrasto, III, 169.
  • Adriana (Arianna), III, 90.
  • Adriano V, papa (del Fiesco), III, 246, 265.
  • Agostino (sant’), I, 146, 147
  • (_Epistola di san Girolamo a sant’Agostino_)
  • 194 (_De civitate Dei_, XVI. 2); II, 10 (_Sermone della
  • nativitá di Cristo_),
  • 61 (_Civ. Dei_, VIII 14),
  • 66 (_Civ. Dei_, IV),
  • 72 (_Civ. Dei_, VIII 2),
  • 113 (_Civ. Dei_, V 8 9),
  • 242; III, 19 (_Civ. Dei_, V 8 9),
  • 23 (_De haeresibus_).
  • Alberico (frate), III, 241, 263.
  • Alberigo (_Poètria_), II, 221.
  • Alberto magno, II, 21.
  • Aldighieri di Ferrara, I, 7, 69.
  • —figlio di Cacciaguida, I, 7, 69.
  • Aldobrandeschi Umberto, III, 244, 264.
  • Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, II, 179 sg.; III, 216, 238.
  • Alessandro di Macedonia, I, 105; III, 102, 165.
  • Aletto, III, 10.
  • Alí, commentatore di Tolomeo (_Comento del Quadripartito_),
  • II, 140.
  • Alighieri, padre di Dante, I, 7, II, 69, 72.
  • —Dante, I, 4, 5, 8, e _passim_; II, 262.
  • —Gemma, moglie di Dante, II, 262.
  • —Iacopo, I, 52, 97.
  • —Piero, I, 52, 97.
  • Amos, profeta, I, 182 (_Amos_, III, 8).
  • Anassagora, II, 71.
  • Anassalide, uditore di Platone, II, 66.
  • Anassimandro lampsaceno, I, 201.
  • Anastasio, papa, III, 68.
  • Anna, sommo sacerdote, III, 239.
  • Anselmo, arcivescovo di Canterbury (_De imagine mundi_), II, 41.
  • Antenora, III, 241, 262.
  • Anteo, I, 179; III, 240, 262.
  • Antioco, re d’Asia e di Siria, I, 182.
  • _Apocalissi_, I, 125 (XI, 7; IX, I, 2), 160, 169 (II, 7; III, 12);
  • II, 202, 233, 235 (XVIII, 21); III, 185.
  • Apollodoro, grammatico, II, 29.
  • _Apostoli_ (_Atti degli_), I, 147, 148 (Act. ap., IX, 5;
  • XXVI, 14).
  • Appennino, III, 225 sg.
  • Apuleio di Madaura, II, 62 (_De Deo Socratis liber_);
  • III, 17 (_Cosmographia_).
  • Arbia, III, 58.
  • Archiloco di Paro, II, 29.
  • Argenti Filippo de’ Cavicciuli, II, 276; III, 237, 260.
  • Aristarco di Samotracia, grammatico, II, 28.
  • Aristotile, I, 43, 75, 92, 105, 142, 200; II, 59 sg. (vita e opere),
  • 66, 86, 186, 212, 241, 244; III, 13;
  • _Ethica_, I, 117, 181, 211, 222; II, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
  • III, 79 bis;
  • _Meteora_, I, 242, 256; II, 4, 114;
  • _Politica_, II, 108;
  • _De anima_, II, 141;
  • _Fisica_, III, 82.
  • Arli (Arles), cittá di Provenza, III, 20.
  • Arnaldo, vedi Daniello.
  • Arno, I, 171.
  • Arpie, III, 132.
  • Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore, I, 22, 54, 79, 80, 100;
  • III, 255, 270.
  • —d’Inghilterra, III, 111.
  • Ascanio (Iulio), I, 204.
  • Asclepiade, filosofo, II, 68.
  • _Aspidopia_, vedi Esiodo.
  • Astiage, II, 177, 214.
  • Atalante, edificatore di Fiesole, II, 40·
  • —re di Mauritania, II, 40.
  • _Atti degli Apostoli_, vedi _Apostoli_.
  • Attila, I, 6, 68; III, 113 sg., 152 sg.
  • Augusto, I, 31, 139, 140, 205, 207.
  • Aulo Gellio, II, 62 (_Noctes Atticae_, II, 1), 63 (N. A., I, 17),
  • 70 (N. A., II, 18).
  • Averno (lago d’), I, 123, 125.
  • Averrois, II, 61, 86.
  • Avicenna, II, 85.
  • Beatrice, I, 11, 13, 15, 48, 72 sg., 75, 81, 95, 118, 213 sg.;
  • III, 65, 201, 235, 248, 251 sg., 267 sg.
  • Beisangue Guido, detto Guido vecchio, III, 215.
  • Belacqua, III, 243, 263.
  • Beltram di Altaforte (dal Bornio), III, 240, 262.
  • Bernardo (san), III, 255, 270.
  • Bernardo Silvestre, autore del _Megacosmo_ e del _Microcosmo_,
  • I, 233.
  • Bersabé, I, 48.
  • Berti Bellincione, de’ Ravignani, III, 215.
  • Bianchi (setta dei), II, 171.
  • Bocca, vedi Abati.
  • Boezio, I, 141 (_De consolatione philosophiae_, I, _pr_. 1),
  • 148 (_Cons_., I, pr. 1); II, 72 (_De musica_),
  • 84 (_De geometria_),
  • 113 (_Cons_., IV, _pr_. 6),
  • 144, 215 (_Cons_., II, _pr._ 1),
  • 237 (_Cons_., II, _met._ 5).
  • Bologna, I, 9, 22, 26, 71, 79.
  • Bonaventura (san) da Bagnorea, III, 252, 268.
  • —Bondelmonte, III, 53.
  • —famiglia de’, III, 53.
  • Bonconte di Montefeltro, III, 243.
  • Bonifazio VIII, papa, I, 46, 94, 246 sg.; II, 173.
  • Borsiere Guglielmo, III, 222.
  • Brancadoria, III, 241.
  • Brandizio (Brindisi), I, 31.
  • Brenta, fiume, III, 191.
  • Brescia, I, 22, 79.
  • brigata spendereccia senese, III, 148.
  • Bruggia (Bruges), III, 190.
  • Bruto Caio Giunio, II, 54.
  • Bruto Marco Giunio, II, 7; III, 241.
  • Cacciaguida, I, 7, 69; III, 253, 268.
  • Caco, III, 262.
  • Cadmo, re di Tebe, I, 202.
  • Caina, II, 143; III, 240, 262.
  • Caino, II, 15.
  • Calano d’India, II, 178.
  • Calcidio, II, 62 (_Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone_).
  • Callimaco, biografo d’Omero, II, 24, 25, 27.
  • Calvoli (da) Rinieri, III, 245, 265.
  • Camilla, I, 154; II, 50.
  • Camillo, I, 21, 29.
  • Cancellieri di Pistoia, II, 171.
  • Caorsa, III, 74 sg.
  • Capaneo, I, 182; III, 169 sg., 238, 261.
  • Capocchio, III, 240, 262.
  • Cariddi, II, 203 sg.
  • Carlo di Valois, I, 46; II, 173 sg.
  • Carlo magno, I, 6, 69.
  • Carlo IV, imperatore, III, 52.
  • Caronte, I, 120, 251, 261; III, 235, 259.
  • Casella, III, 243, 263.
  • Casentino, I, 22, 74, 79.
  • Cassio, II, 7; III, 241.
  • Catellina (Catilina), I, 179.
  • Catone uticense, III, 156, 161 sg., 243, 263.
  • Cavalcanti Guido, II, 174; III, 56.
  • —Cavalcante (de’), III, 55 sg.
  • Cecina, fiume, III, 130 sg.
  • Cefas, vedi Pietro (san).
  • Celeno, vedi arpie.
  • Celestino V, vedi Morrone (Piero del).
  • centauri, III, 123 sg.
  • Cerbero, I, 120; II, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
  • Cerchi (dei) famiglia, II, 170, 213; III, 223.
  • —Vieri, II, 171 sg., 262.
  • —Ricovero, II, 172.
  • Cesare, I, 140, 205, 207; II, 46 sg., 87.
  • Chiarentana, III, 191.
  • Chiassi (pineta di), I, 128.
  • Chirone, III, 96, 98 sg.
  • Ciacco, II, 170, 264 sg.; III, 236, 260.
  • Ciampolo navarrese, III, 261.
  • Ciappetta (Capeto) Ugo, III, 246, 265.
  • Cicerone, vedi Tullio.
  • Claudiano, I, 29; III, 31 (_De laudibus Stiliconis_).
  • Clearco, uditore di Platone, II, 66.
  • Clemente V, papa, I, 22; III, 270.
  • Cleopatra, I, 179; II, 124 sg.
  • Cocito, III, 176, 187, 240.
  • Comedia, I, 33, 49, 52, 53, 54, 60, 61, 62, 96, 98, 99, 105, 106, 111,
  • 113, 118, 173; III, 228 sg.
  • Convivio, I, 55, 100.
  • Coppo di Borghese Domenichi, II, 276; III, 215.
  • Coriolano, I, 21.
  • Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, II, 41.
  • Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
  • Corneto, III, 130 sg.
  • Corneto (da) Rinieri, III, 119.
  • Corniglia (Cornelia), II, 58.
  • Corvara (frate Pietro da), antipapa, I, 55.
  • Costantino, imperatore, I, 170, 207.
  • Costanza, imperatrice, III, 268.
  • Crasso, I, 185.
  • Creso, II, 214.
  • Creta, III, 172, 179 sg.
  • Crisippo, filosofo stoico, I, 251.
  • Cureti, III, 173.
  • Curzio Quinto, II, 26; III, 165.
  • Dalila, I, 179.
  • Damiani Piero (san), III, 253, 270.
  • Damocle, III, 106.
  • Danaidi, I, 122.
  • Daniello Arnaldo, III, 248, 266.
  • Daniello, profeta, I, 42, 91; III, 182.
  • Danne (Dafne), I, 44, 93.
  • David, I, 48; II, 18 e vedi Salmista.
  • Democrito, II, 67; III, 94.
  • Didone, I, 178, 180; II, 119 sg.
  • Diogene, II, 69 sg.
  • Dionisio areopagita (_Della celeste gerarchia_), I, 147.
  • Dionisio il vecchio, III, 104 sg.
  • Dionisio il giovane, III, 107 sg.
  • Dioscoride, II, 74.
  • Dite, I, 41, 125; III, 27 sg., 237, 260.
  • Donati, famiglia de’, II, 170, 213.
  • —Corso, II, 171.
  • —Forese, III, 247, 266.
  • —Piccarda, III, 251, 268.
  • Duca (del) Guido, III, 245, 265.
  • Eaco, I, 120. _Ecclesiaste_, vedi Salomone. _Ecclesiastico_;
  • II, 242 (_Ecclesiasticus_, X 9).
  • Elena, I, 179; II, 127 sg.
  • Elettra, II, 40.
  • Elisei, famiglia degli, I, 7, 69.
  • Eliso, I, 41. _Eloquentia_ (_de_) _vulgari_, I, 55, 100.
  • Elsa, fiume, III, 171.
  • Empedocles, II, 72.
  • Empoli, III, 60.
  • Enea, I, 151, 204, 206, 208; II, 44, 87.
  • Ennio, III, 207.
  • Epicuro, III, 45.
  • Epimenide, poeta, I, 147.
  • Eraclito, II, 73.
  • Eratostene, II, 28.
  • Ercole, I, 41, 48, 89, 120; II, 97.
  • Erine (Erinni), III, 10, 29 sg., 237, 260.
  • Eritone, III, 6 sg.
  • Ermolao, tiranno di Atene, II, 27.
  • Erode, I, 48.
  • Esaú, I, 249.
  • Eschilo, III, 207.
  • Esiodo (_Aspidopia_), I, 53.
  • _Esodo_, I, 90
  • (_Exod_., XIV 22), 235
  • (_Exod_., XV 5, dal testo attribuito al Salmista).
  • Este (da) Opizzo, III, 110.
  • Eteocle, III, 169.
  • Ettore, I, 30; II, 43.
  • Euclide, I, 144; II, 83.
  • Euforbo, istoriografo, II, 29.
  • Eunoè, III, 249, 266.
  • Eurialo, I, 155.
  • Euripide, III, 207.
  • Europa, amata da Giove, I, 48.
  • Europa, regione, III, 179 sg.
  • Eusebio (_Liber temporum_), I, 139, 207, 261; II, 9, 29, 30, 32,
  • 33, 43, 54, 71, 72, 77, 95, 109, 123, 201, 268; III, 7.
  • Eussimene (Anassimene), I, 201 (_Thelegumenon_).
  • Evangelio, I, 122 (_Luc_., XVI 19-31), 168,
  • (_Ioh_., XIV 6), 169,
  • (_Math_., X 22; XX 6), I, 175,
  • (_Ioh_., I 29), 230,
  • (_Math_., VII 7), 257,
  • (_Math_., VII 13); II, 9,
  • (_Ioh_., XII 5), 37,
  • (_Ioh_., XIII 13 14), 90,
  • (_Math_., XXVIII 19; _Ioh_., I, 33; _Luc_., XII 50;
  • _Marc_., XVI 16; _Ioh_., III 5; _Math_., XX 23), 183,
  • (_Math_., XIX 24), 191,
  • (_Luc_., XVI 19-31), 242,
  • (_Luc_., XV 22), 252 (vedi Paolo, _ad Hebr_.); III, 32.
  • Evemero (_Istoria sacra_), III, 172, 173.
  • Ezechia re, I, 170.
  • Ezechiel, I, 42, 91; II, 235 (Ezech., XI 19).
  • Fabrizio, I, 29.
  • Faggiuola (della) signori, I, 79.
  • —Uguccione, I, 54, 99.
  • Falacro, filosofo, II, 25.
  • Fama, divinitá mitologica, I, 215 sg.
  • Faro di Messina, II, 203.
  • Febo, I, 44, 93.
  • Federico II, imperatore, I, 7, 8, 69, 70; III, 53 sg., 62 sg.
  • Federigo III, re di Sicilia, I, 54, 100.
  • Ferecide, III, 156.
  • Fiandra, II, 259.
  • Fiesole, III, 197 sg.
  • Filippo, re di Francia, I, 46.
  • Fillide, I, 180.
  • Filocoro, II, 29.
  • _Filosofia_ (_Della_), opera di Clearco e Anassalide, II, 66.
  • Firenze, I, 6, 22, 27, 47, 69; II, 172 e _passim_.
  • Flegetonte, III, 175 sg., 187, 237, 260.
  • Flegias, II, 267 sg., 283; III, 237, 260.
  • Flegra, III, 167.
  • Folco da Marsiglia, III, 252, 268.
  • Folo, centauro, III, 99.
  • Forlí, III, 226.
  • Fotino, III, 68.
  • Francesca da Rimini, II, 137 sg.; III, 236, 259.
  • Frangiapani (famiglia de’), I, 6, 69.
  • —Eliseo, I, 6, 69.
  • Frescobaldi (Dino di m. Lambertuccio),
  • I, 50, 96; II, 263, 265.
  • Fucci Vanni, III, 240, 262.
  • Fulgenzio, I, 121, 146 (_Mythologiae_), 200 (_Myth_.), 201;
  • II, 230; III, 17 (_Myth_.), 33, 37.
  • Furie, vedi Erinni.
  • Gaetani Benedetto, vedi Bonifacio
  • VIII.
  • Gaio Antonio, I, 179.
  • Galeotto, II, 145.
  • Galieno, I, 144; II, 85.
  • Gallia, I, 6, 22.
  • _Genesi_, I, 210 (XLIX, 27), 244 (XXV, 29-34), 261 (I, 3-4);
  • II, 12 (I, 27), 15 (IV, 2-8), 19 (XXXII, 1-32), 176 (I, 26),
  • 190 (III), 233 (III, 1, 14); III, 74 (XIX, 1-25), 83, 183.
  • Geremia, profeta, I, 89; II, 92 (VIII, 7), 192.
  • Gerione, III, 239, 261.
  • Geronimo, vedi Girolamo.
  • Gherardesca (della) Ugolino, III, 241, 263.
  • Ghibellino, III, 52.
  • Giacomo da Sant’Andrea di Padova, III, 149.
  • Giandonati Arrigo, II, 179.
  • Gianfigliazzi Luigi, III, 52.
  • Giardino (Piero di m.), I, 52, 97, 128.
  • Giasone, I, 178; III, 239.
  • Gibilterra, III, 163.
  • Giordano, conte, III, 59.
  • Giovanni (san) evangelista, I, 91; III, 254, 270. Vedi _Apocalissi_ e
  • _Evangelio_.
  • Giovanni XXII, papa, I, 55, 100.
  • Giove, I, 37, 40, 86, 112; III, 167, 173.
  • Giovenale, I, 29, 145, 168 (_Sat_., X,349-50);
  • II, 34, 67 (_Sat_., X, 33-35),
  • 215 (_Sat_.,
  • X, 365-6), 219 (_Sat_.,
  • X, 365-6), 243 (_Sat_., XIV, 135-7);
  • III, 172 (_Sat_., VI, 1-2).
  • Girolamo (san), I, 141 (a Damaso papa _De filio prodigo_),
  • 145 (_Def. pr._),
  • 146 (_De f. pr_.),
  • 147 (_QuaestionesHebraicae_),
  • 194 (_Praefatio in Apocalypsim_);
  • II, 60 (_Praefatio in librum II Chronicorum Eusebii_),
  • 62 (_Epist. XXXV e Praefatio in Bibliam_),
  • 83 (_Liber virorum illustrium_),
  • 85 (_Quaest. Hebr._),
  • 238 (_Epist. ad Rusticum_);
  • III, 217 (_Adversus Iovinianum_).
  • Giuda Scariotto, III, 241, 263.
  • Giudecca, III, 241, 263.
  • Giugurta, I, 182.
  • Giulia, figliuola di Giulio Cesare,
  • II, 58.
  • Giunone, I, 40; III, 123 sg.
  • Giustiniano, II, 28; III, 252, 268.
  • Giustino (_Historia_), I, 167 (III, 2);
  • II, 51 (II, 4),
  • 52 (XLIII, 1),
  • 63 (II, 10);
  • III, 21 (XXXII, 3),
  • 102-4 (IX, 6, 7; XI, 6, 7, 8, 11; XII, 9, 10, 13, 14), 104 (XXXI, 1),
  • 105 (XX, 1, 2, 3, 5),
  • 107 (XXI, 1-5),
  • 116, (XVII, 3),
  • 117 (XXV, 3, 5).
  • Golia, I, 182.
  • Gorgone, III, 10 sg., 35 sg.
  • Gregorio (san) papa, I, 39, 88,
  • 163 (proemio de’ _Morali_), 232;
  • II, 225 (_Innario_);
  • III, 204 (_Omelie_).
  • Gualdrada, III, 215.
  • Guelfo, III, 52.
  • Guerra Guido, III, 216, 238.
  • Guglielmo d’Inghilterra, III, 165.
  • Guglielmo d’Oringa, III, 22.
  • Guinizzelli Guido, III, 248, 266.
  • Guzzante, cittá (Wissand), III, 190.
  • Iacopo (san), II, 242 (_Epist_., V, 1);
  • III, 254 (barone di Galizia).
  • Ida, monte di Creta, III, 173.
  • Ierusalem, I, 89, 171.
  • Iezzabel, I, 182.
  • India, III, 165.
  • _Inferno_ (cantica), I, 33, 50, 54, 99, 119 sg.
  • Innocenzo III, papa, III, 54.
  • Interminelli Alessio, lucchese, III, 239, 261.
  • Iob, I, 160; II, 192 (VI, 6; XV, 16).
  • Iole, I, 48.
  • Iosafá, III, 45.
  • Ippocrate, I, 144; II, 84.
  • Isaac, II, 19.
  • Isaia, profeta, I, 42, 119 (V, 14),
  • 172, 175 (XI, 2-3); II, 96 (XL, 13),
  • 192 (XXIV, 9).
  • Isidoro (_Etymologiae_), I, 198, 199.
  • Isopo, II, 243.
  • Israel (Iacob), II, 18.
  • Issione, I, 121; III, 123 sg.
  • _Istoria sacra_, vedi Evemero.
  • _Istorie scolastiche_ di Pietro Comestor, II, 65.
  • Italia, I, 14, 22, 117, 154; III, 21.
  • Lamberti (de’) Mosca, II, 179; III, 240.
  • Lancellotto, II, 144.
  • Lano di Siena, III, 148.
  • Latino Brunetto, I, 117; III, 192 sg.
  • (_Tesoretto, Tesoro_), 205, 238, 261.
  • Latino, re dei laurenti, II, 52.
  • Lattanzio, II, 74, 76 (_Divinarum institutionum_, I, 23),
  • 201 (_Div. inst_., I, 11), 267; III, 99.
  • Leon tessalo, vedi Pilato.
  • Lavina, figlia di Latino, II, 54.
  • Leontonio, ateniese, protettore di
  • Omero, II, 27.
  • Letè, III, 175 sg., 248, 266.
  • Lia, III, 248.
  • Libia, I, 14; III, 163.
  • Licaone, I, 41, 89.
  • Licurgo, I, 167.
  • Lino, II, 78; III, 207.
  • Linterno, I, 30.
  • Livio Tito, I, 171;
  • II, 45 (_Hist_., XL, 4);
  • III, 103 (IX, 16, 17, 18),
  • 191 (I, 1).
  • Lodovico di Baviera, imperatore, I, 55, 100.
  • Lombardia, I, 46, 79, 137 sg.
  • Lucano, II, 25, 33,
  • 57 (_Pharsalia_, II, 326 sg.),
  • 87;
  • III, 6 (VI, 507-9),
  • 30 (VI, 732-4),
  • 36 (IX, 624-6).
  • Lucca, I, 74.
  • Lucia, I, 220 sg.; III, 244.
  • Lucrezia, II, 55, 87.
  • Luna, I, 37, 86.
  • Lunigiana, I, 22, 79.
  • Maccabeo Giuda, I, 105.
  • Macrobio, I, 121 (_Liber saturnaliorum_),
  • 160 (_Comm. in Somnium SciPionis_, I, 2),
  • 200 (Somn., II, 3);
  • II, 124 (_Saturn_., V, 17).
  • maestro delle sentenze, vedi Pietro Lombardo.
  • Magna (Allemagna), I, 22.
  • Maiolica (Maiorca), III, 198.
  • Malatesti Gianciotto, II, 137 sg.
  • —Paolo, II, 137 sg.; III, 236, 259.
  • Malespina Morruello, I, 22, 51, 54, 79, 96, 99; II, 263.
  • —Currado, III, 264.
  • Manfredi, III, 54, 58 sg., 243, 263.
  • Mantova, I, 28, 138; III, 261.
  • Maometto, II, 277; III, 240.
  • Marco lombardo, III, 245, 265.
  • Maria, III, 255, 270.
  • Marte, III, 150 sg.
  • Marcello Marco, console, I, 218.
  • Martello Carlo, III, 252, 268.
  • Marzia, moglie di Catone, II, 57.
  • Mascheron (de’) Sassol, III, 240.
  • Matelda, III, 249, 267.
  • Matilde, contessa di Toscana, III, 52 sg.
  • Mausolo, re di Caria, III, 24.
  • Medusa, vedi Gorgone.
  • Megera, III, 10.
  • Mela Pomponio, I, 124 (_Chorographia_, I, 19, § 103),
  • 151 (I, 18, § 93);
  • II, 71 (I, 17, § 86);
  • III, 20 (II, 5, §§ 79, 80),
  • 35 (III, 9, § 99), 163 (I, 6, § 32).
  • Melchisedech, I, 103.
  • Menandro, I, 147.
  • Metabo, I, 143.
  • Mida, I, 185.
  • Minos, I, 120; II, 106, 147 sg.; III, 236, 259.
  • Minotauro, III, 89 sg.; 122 sg.
  • Moisé, I, 40, 89; II, 16.
  • _Monarchia_ (_De monarchia_), I, 54.
  • Monforte (di) Guido, III, 111.
  • Monte Aperti, III, 54, 59.
  • Montefeltro (da) Guido, III, 240, 262.
  • —Bonconte, III, 243, 264.
  • Montone, vedi Acquacheta.
  • Morrone (del) Piero, I, 246 sg.
  • Morruello, vedi Malespina.
  • Mozzi (de’) Andrea, III, 204.
  • —Tommaso, III, 204.
  • Musatto padovano (_Ecerinis_), III, 109.
  • Muse, I, 198 sg.
  • Museo, II, 77; III, 207.
  • Nabucodonosor, 40, 89, 182.
  • Napoli, I, 31, 139.
  • Narsete, I, 138.
  • Nepote Cornelio, II, 29.
  • Neri (setta dei), II, 171.
  • Nerone (_Troica_), II, 133.
  • Nesso, III, 97 sg., 260.
  • Nestore, I, 28.
  • Nettuno, I, 41.
  • Nevio, III, 207.
  • Niccolaio, pastore di Smirna, I, 28.
  • Niccolaio di Tamech (_Sopra il Tito Livio_), I, 171.
  • Nicola III, papa, III, 239, 261.
  • Nino, II, 117 sg.
  • Niso, I, 155.
  • Noé, II, 15.
  • _Numeri_, II, 233 (XXI, 6-9).
  • Oderisi da Gobbio, III, 244, 264.
  • Omero, I, 24, 28, 31, 123 (Od., XI, 1-20),
  • 197 (Od., I, 1-2),
  • 203;
  • II, 24 sg., 43, 127 (_Il_., XXIV, 765-7),
  • 130(_Od_., IV, 1-18; Il., II, 683),
  • 161 (_Il_., XIV, 214-17);
  • III, 207.
  • Orazio, I, 9, 29, 145, 147, 198 (_Ad Pisones_, 141-2);
  • II, 29 sg., 34,
  • 53 (_Carm_., III, 17, vv. 7-8);
  • III, 207.
  • Orbicciani Bonagiunta, III, 247, 266.
  • Orbino, I, 22, 79.
  • Orfeo, II, 74 sg.; III, 207.
  • Origene, I, 264.
  • Osea profeta, I, 174 (VI, 1).
  • Ottaviano, vedi Augusto.
  • Otto IV, imperatore, III, 215.
  • Ovidio, I, 9, 29, 31, 197 (_Metam_., I, 1-3);
  • II, 4 (_Metam_., XI, 623-5),
  • 30 (_Tristia_, X, 3-4, 26, 21-22),
  • 31 (opere),
  • 32 (_Tristia_, II, 207, 103, 108),
  • 40 (_Fasti_, IV, 169-78),
  • 75 (_Metam_., X, 78-85),
  • 86,
  • 108 (_Metam_., VIII, 166-75),
  • 134, 229 (_Metam_., V, 346 sg.);
  • III, 17, (_Metam_., XV, 807-14),
  • 30 (_Metam_., VI, 430),
  • 31 (_Metam_., IV, 484-5, attribuiti nel testo a Virgilio),
  • 139 (_Metam_., II, 761-4, 768-72, 775-82).
  • Padova, I, 22, 72; III, 191.
  • Palamede, I, 202.
  • Pantasilea, II, 50.
  • Paolo (san), I, 147 (I _Cor_., XV, 33;_Tit_., I, 12),
  • 165 (_Rom_., XIII, 11; _Ephes_., V, 14),
  • 169 (I _Cor_., XV, 10; _Ephes_., V, 8),
  • 170 (_Tit_., III, 5),
  • 186 (_Gal_., V, 17),
  • 205 (I _Cor_., X, 11),
  • 209 (II _Cor_., XII, 4),
  • 210;
  • II, 82 (lettere a Seneca),
  • 90 (I _Cor_., X, 1-2),
  • 92 (I _Cor_., XIV, 38),
  • 99 (I _Tim_., I, 13; II _Tim_., IV, 4;
  • I _Cor_., XIV, 38), 192 (_Ephes_., V, 18),
  • 238 (_Ephes_., V, 5).
  • Paolo Diacono, I, 137 sg. (_Hist. Lang_., I, §§ 1-2;
  • II, §§ 5, 10);
  • III, 113-5 (_Hist. Rom_., XIV, §§ 1-13).
  • Papia, lessicografo, I, 200; II, 73; III, 23, 100.
  • _Paradiso_ (cantica), I, 54, 99, 118, 119, 159, 161, 214;
  • II, 208; III, 16, 51, 145,
  • Parche, II, 219; III, 16 sg.
  • Pargoletta, I, 74.
  • Parigi, I, 9, 22, 35, 71, 79, 84, 117.
  • Paris, I, 48, 132 sg.
  • Pasife, II, 107; III, 90, 120.
  • Pazzi (de’) Rinieri, III, 119.
  • —Camiscion, III, 240, 262.
  • —Iacopo del Vacca, III, 59.
  • Perini Dino, II, 264.
  • Persio, I, 147; II, 34, 242 (_Sat_., III, 66, 69-70).
  • Petrarca Francesco, I, 142 (_Epistola al fratello Gherardo_),
  • 143 (_Bucolica_),
  • 145, 178 (_Africa_, I, 1-2); II, 61; III, 208.
  • Pierie, I, 27, 82.
  • Pietro Lombardo (maestro delle sentenze), I, 169, 243.
  • Pietro (san), III, 254, 270.
  • Piettola, I, 31; III, 208.
  • Pilato Leone (Leonzio Pilato), II, 24, 77, 232, 201, 227.
  • Pirro, figlio di Achille, III, 115.
  • Pirro, re dell’Epiro, III, 116.
  • Pisa, I, 54, 99.
  • Pisandro, fisico, I, 201.
  • Pitagora, I, 200, 202.
  • Platone, I, 75, 111 (_Timeo_),
  • 141, 144 (_Republica_),
  • 148;
  • II, 66 sg.;
  • III, 156.
  • Plauto, I, 116, 177 (_Cistellaria_, a. II, sc. I, 1-12);
  • II, 34; III, 207.
  • Pleiadi, II, 40 sg.
  • Plinio, II, 48 (_Hist. nat_., VII, 25),
  • 85 (_Hist. nat_., XXIX, 2);
  • III, 21 (_Hist. nat_., III, 5),
  • 24-25 (_Hist. nat_., XXXVI, 4; non citato nel testo).
  • Plutone, I, 41; II, 201, 227 sg.; III, 236, 260.
  • Po, II, 139.
  • Poggetto (del) Beltrando, cardinale, I, 55, 100.
  • Poggi Leone, II, 262.
  • —Andrea, II, 262 sg.
  • Pola, III, 21.
  • Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
  • —Guido Novello, I, 23, 25, 27, 80, 82, 100.
  • —Ostagio, I, 55.
  • Polinice, III, 169.
  • Portinari Beatrice, vedi Beatrice.
  • —Folco, I, 9, 10, 72.
  • Priamo, I, 30.
  • Prisciano, III, 203.
  • Pronapide, I, 196, 250 (_Protocosmos_);
  • II, 25; III, 16.
  • Proserpina, III, 10.
  • _Proverbi_, vedi Salomone.
  • Ptolomea, III, 241, 263.
  • Publicola, I, 29.
  • _Purgatorio_ (cantica), I, 54, 99, 118, 137, 158, 190, 219;
  • II, 169, 200, 208; III, 52, 162.
  • Quarnaro, III, 21.
  • Rabano Mauro, II, 74 (_Liber originum_, XVIII, 4),
  • 76 (_Orig_., XVIII, 4),
  • 84 (_Orig_., XVIII, 5),
  • 85 (_Orig_., XVIII, 5),
  • 232.
  • Rachele, II, 19.
  • Radamanto, I, 120.
  • Ravenna, I, 23, 24, 25, 27, 31, 32, 79, 82, 117.
  • Rea, III, 173.
  • Ridolfo, imperatore, III, 264.
  • Rifeo, III, 253, 269.
  • Roboam, I, 182.
  • Rodano, III, 20.
  • Rodopei, monti, I, 14.
  • Roma, I, 6, 23, 30, 46, 54, 69, 100,
  • 206 sg.; III, 182 sg.
  • Romagna, I, 23, 26, 47, 80.
  • Romano (da) Azzolino, III, 109.
  • —Cunizza, III, 252, 268.
  • Romeo, III, 252, 268.
  • Rusticucci Iacopo, II, 179; III, 216, 238.
  • Rutilio, I, 21.
  • Saladino, II, 59.
  • Salmista, I, 120 (_Ps._, CXIV, 3; LIV, 16),
  • 122 (_Ps._, VI, 6),
  • 128 (_Ps._, LXXXIX, 9-10),
  • 165 (_Ps._, CXXVI. 2),
  • 168 (_Ps._, I, 1; CXVIII, 29; CXVIII, 1; CIX, 7),
  • 169 (_Ps._, XXII, 6; LXXX, 8),
  • 170 (_Ps._, XXXII, 9; L),
  • 174 (_Ps._, v, 5),
  • 175 (_Ps._, XVIII, 4-5; CXX, 1),
  • 227 (_Ps._, V, 9),
  • 235 (_Ps._, XXIII, 3-4),
  • 263 (_Ps._ XXXII, 9);
  • II, 92 (_Ps._ XXXV, 4),
  • 97 (_Ps._, XVIII, 4-5),
  • 99 (_Ps._, LVII, 5-6),
  • 184 (_Ps._, VIII, 8-9),
  • 234 (_Ps._, CXVII, 22),
  • 272 (_Ps._, IV., 5);
  • III, 39 (_Ps._, CXVIII, 37).
  • Salomone, I, 48;
  • II, 192 (_Prov_., XX, 1),
  • 272 (_Ecclesiastes_, I, 18);
  • III, 39 (_Eccles_., I, 2).
  • Salvatico, conte, I, 22, 79.
  • Samuele, III, 7.
  • San Benedetto (monastero di) dell’Alpe, III, 224 sg.
  • San Giovanni (battistero di), I, 35, 94.
  • Santa Lucia di Napoli, II, 221.
  • Sapia, III, 245, 265.
  • _Sapienza_ (_Liber sapientiae_), I, 198; II, 192.
  • Sardanapalo, I, 180.
  • Sarno, fiume, III, 171.
  • Saturno, I, 37, 40, 86, 89.
  • Scala (della) Alberto, I, 22.
  • —Cane, I, 51, 53, 54, 57, 98, 100.
  • Schicchi Gianni, III, 240.
  • Scipione, I, 30, 105.
  • Semiramis, II, 117 sg.
  • Seneca, I, 123 (_Hercules furens_, III, 813-14);
  • II, 4 (_Herc. fur_., IV, 1065-77),
  • 33-34,
  • 64 (_Epist. ad Lucilium_, VI),
  • 67 (_Epist. ad Luc_., LXI),
  • 69 (_De beneficiis_, I, 4),
  • 70 (_De ira_, III, 38),
  • 78 sg., 87,
  • 140 (_Hippolytus_, I, 294-301),
  • 192, (_Epist. ad Luc_., XXIV),
  • 223 (_De sacris Aegyptiorum_),
  • 229 (_Herc. fur_., III, 782-8),
  • 239 (_Epist. ad Luc_., IV),
  • 242 (_Epist. ad Luc_., XVII),
  • 274 (_Thyestes_, II, 344 sg.);
  • III, 16 (_Oedipus_, II, 178), 70.
  • Sereno, III, 36.
  • Servio, I, 137, 150, 261;
  • II, 45 (_Sup. Aen._, I, 386; II, 801),
  • 53 (_Sup. Aen._, XII, 164),
  • 54 (_Sup. Aen._, VIII, 51; VI, 760),
  • 133 (_Sup. Aen._, V, 370),
  • 267;
  • III, 36-37 (_Sup. Aen._, VI, 289, non citato nel testo),
  • 99 (_Sup. Georg._, III, 93),
  • 126 (_Sup. Georg._, III, 115).
  • Sesto Pompeo, III, 117 sg.
  • Sibilla, I, 123.
  • Siena, I, 35; III, 58 sg.
  • Silvani Provenzano, III, 244.
  • Silvestro (san), papa, I, 208.
  • Silvio, figlio di Enea e di Lavinia, I, 204.
  • simbolo, I, 248.
  • Simonide poeta, II, 177; III, 207.
  • Simon mago, I, 182.
  • Sinone, III, 240, 262.
  • Socrate, I, 75; II, 61 sg.
  • Sofocle, III, 207.
  • Sogdoma, III, 79 sg.
  • Soldanieri Gianni, III, 241.
  • Solino, II, 76 (_De mirabilibus mundi_, X, 8),
  • 126-27 (_De mir. mundi_,
  • XXVII, 31, 41 (non citato nel testo).
  • Solone, I, 3, 4, 43, 67, 103, 105.
  • Sordello, III, 244, 264.
  • Speusippo, nipote di Platone, II, 66.
  • Spurima, giovane romano, II, 153.
  • Stazio, I, 9, 123 (_Thebais_, I, 94-6),
  • 158;
  • II, 76 (_Theb._, V, 344, 435),
  • 228 (_Theb._, VIII, 21-6),
  • 254 (_Theb._, VIII, 739 sg.);
  • III, 31 (_Theb._, I, 106-9),
  • 169 (_Theb._, I, X),
  • 246 sg., 266.
  • Stige, II, 211; III, 176, 186, 236, 260.
  • Strofade, isole, III, 132.
  • Svetonio, I, 140 (_Vitae duodecim
  • Caesarum_, II, § 1 non citato nel testo),
  • 207 (_Vit_., II, §§ 1-4);
  • II, 46 (_Vit_., I, § 13),
  • 48-9 (_Vit_., I, §§ 56, 51, 49, 51, non citato nel testo).
  • Tacito, Cornelio, II, 34 (_Annales_, XV, 56, 57; XV, 69, 70),
  • 80 sg. (_Ann_., XII, I, 8; XIII, 2; XII, 67, 68; XIII, 16;
  • XIV, 8, 63, 64, 60, 51; XIII, 2; XIV, 53-56, 65; XV, 60-65).
  • Tale (Talete), II, 71.
  • Tamigi, III, 110.
  • Tantalo, I, 121, 185.
  • Teodonzio, II, 76; III, 16, 18, 29, 31, 35, 37, 98.
  • Teofrasto (_De nuptiis_), III, 217, 220.
  • Teognide, antichissimo istoriografo, III, 36.
  • Terenzio, I, 116, 148; II, 34, 163; III, 207.
  • Tertullio, II, 65.
  • Teseo, III, 10 sg.
  • Tesifone, III, 10.
  • Titani, III, 168.
  • Tizio, I, 121.
  • Tolomeo astronomo, I, 144; II, 84.
  • Tommaso d’Aquino, III, 252 sg., 268.
  • Toppo (Pieve al), III, 148.
  • Torquato, I, 29.
  • Tosa (della) Pino, cav. fiorentino, I, 55, 100.
  • Toscana, I, 21, 22, 46, 79; III, 47 sg.
  • Tosinghi, II, 213.
  • Traiano, imperatore, III, 253, 269.
  • Trento, III, 88.
  • Tristano, II, 134 sg.
  • Trogo Pompeo, II, 51.
  • Tullio Cicerone, II, 28 (_Tusculanae quaestiones_, I, 39),
  • 48 (_Brutus_, § 72),
  • 62, (_Tusc._, II),
  • 64 (_De senectute_, § 5),
  • 68 (_Tusc._, V, 39),
  • 71 (_Tusc._, I, 43),
  • 77 sg.,
  • 128 (_De inventione_, II, 1),
  • 132 (_De divinatione_, I, 21),
  • 140 (_De natura deorum_, III, 23),
  • 177 sg. (_Div_., I, 27, 30),
  • 232 (_In Verrem_, IV, 50),
  • 239 (_De officiis_, III, 5),
  • 242 (Off., I, 20);
  • III, 16 (_De nat, deor_., III, 17),
  • 18 (_De nat. deor_., III, 17),
  • 61 (_Div_., I, 23),
  • 104 sg. (_Tusc._, V, 20),
  • 157 (_Somnium Scipionis_).
  • Turno, I, 156.
  • Ubaldini (degli) Ottaviano, cardinale, III, 64.
  • —Ruggieri, arcivescovo, III, 241.
  • Uberti Farinata, II, 179 sg.; III, 49 sg., 237, 260.
  • Uguccione di Pisa, lessicografo, I, 125.
  • Ulisse, III, 240, 262.
  • Umberto, vedi Aldobrandeschi.
  • Urbano IV, papa, I, 8, 70.
  • Valerio Massimo, I, 218 (_Memorab_., I, 1, § 8);
  • II, 58 (IV, 6, § 4, non citato nel testo),
  • 61 (III, 4 _ext._ 1),
  • 62 (VII, 2 _ext._ 1),
  • 69 (IV, 3 _ext._ 4),
  • 73 (III, 3 _ext._ 2, non cit.),
  • 74 (III, 3 _ext._ 3),
  • 83 (VIII, 12 _ext._ 1),
  • 117 (IX, 3 _ext._ 4, non cit.),
  • 153 (IV, 5 _ext._ 1, non cit.);
  • 177 (I, 7 _ext._ 3; I, 5, non cit.);
  • III, 106 (I, 1 _ext._ 3),
  • 156 (II, 6, § 7).
  • Varrone (_De origine linguae Latinae_), II, 53.
  • Vecchio Testamento, I, 160.
  • Venedico, III, 239.
  • Verona, I, 22, 33, 79, 83; II, 262.
  • Vigne (dalle) Piero, III, 136 sg.,238, 260.
  • Villani Giovanni, I, 246 sg. (_Cronica_, VIII, 5, non
  • citato nel testo);
  • II, 173 (_Cron._, VIII, 39 sg.);
  • III, 54, 59, 60 (_Cron._, VI, 77, 78, 81, non cit.),
  • 109 (_Cron._, VI, 72),
  • 111 (_Cron._, VII, 39, non cit.),
  • 114 (_Cron._, II, 1, non cit.),
  • 151 (_Cron._, I, 42),
  • 153 (_Cron._, II, 1),
  • 154 (_Cron._, III, 1),
  • 197 (_Cron._, I, 31 sg., non cit.),
  • 198 (_Cron._, IV, 31, non cit.).
  • Virgilio, I, 9, 24, 29, 31, 54, 99, 105, 126,
  • 137 (vita), 150 (opere),
  • 203;
  • III, 191, 207 sg., 236.
  • _Eneide_, I, 112 (II, 689-91),
  • 120 (VI, 106),
  • 123 (VI, 237-42),
  • 124 (VI, 126),
  • 125 (VI, 577-8, 269, 273, 671),
  • 131 (VII, 810-11),
  • 151 (I, 544-5),
  • 154 (XI, 539 sg.),
  • 156 (XII, 930 sg.),
  • 184 (III, 56-7),
  • 197 (I, 1, 8),
  • 204-5 (VI, 1 sg.),
  • 208 (VI, 127-31; 756-7),
  • 215 (VI, 174), 234 (I, 52),
  • 239 (VI, 261),
  • 251 (VI, 298-9),
  • 253;
  • II, 37 (I, 378),
  • 39 (VI, 753-5),
  • 46 (IV, 615-21; X, 606 sg.),
  • 52 (VII, 45-8),
  • 53 (XII, 164),
  • 109 (VI, 422-3),
  • 134 (X, 92),
  • 142 (VI, 472-4),
  • 168 (VI, 417-23)
  • 169, 221 (VI, 323-4),
  • 223, 228 (V, 548-9),
  • 230 (VI, 563),
  • 242 (III, 56-7),
  • 268 (VI, 218-20, 412-14),
  • 278 (VI, 552-8);
  • III, 29 (XII, 845-7),
  • 30 (XII, 849-52; VII, 346-8; XII, 869-70, 875-6),
  • 31 (VII, 325-9, 335-8),
  • 93 (IV, 106),
  • 116 (III, 294-7),
  • 145 (I, 278-9),
  • 168 (VIII, 425).
  • _Georgica_, I, 139;
  • II, 75 (IV, 126-527);
  • III, 145 (II, 495-6, 498).
  • _Egloghe_, II, 10 (IV, 7).
  • _Culice_, I, I, 33.
  • Virgilio (del) Giovanni, I, 26, 55, 82, 100.
  • Visconti Nino (Gallo di Gallura), III, 244, 264.
  • visioni di profeti, I, 160.
  • _Vita nova_, I, 12, 56, 73, 95, 100, 214; III, 56.
  • Viterbo, III, 110 sg.
  • _Vitis_ (_de_) _philosophorum_ (_Libellus
  • de vita et moribus philosophorum_), II, 61.
  • Xerse, I, 103.
  • Zenobia, regina di Palmira, II, 153.
  • Zenofane eracleopolita, I, 201.
  • Zenone, II, 73 sg.
  • Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, II, 68.
  • FINE DEL TERZO ED ULTIMO VOLUME.
  • INDICE
  • Canto nono:
  • I. Senso letterale p. 3
  • II. Senso allegorico » 27
  • Canto decimo » 43
  • Canto decimoprimo » 67
  • Canto decimosecondo:
  • I. Senso letterale » 87
  • II. Senso allegorico » 120
  • Canto decimoterzo:
  • I. Senso letterale » 129
  • II. Senso allegorico » 155
  • Canto decimoquarto:
  • I. Senso letterale » 159
  • II. Senso allegorico » 178
  • Canto decimoquinto » 189
  • Canto decimosesto » 211
  • Canto decimosettimo » 231
  • IV
  • ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • All’_Inferno_ p. 235
  • Al _Purgatorio_ » 243
  • Al _Paradiso_ » 251
  • V
  • RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA»
  • _Inferno_ p. 259
  • _Purgatorio_ » 263
  • _Paradiso_ » 267
  • NOTA » 273
  • INDICE DEI NOMI » 291
  • FOOTNOTES:
  • [1] Le rarissime [], che s’incontrano nel testo della _Vita di Dante_,
  • colmano omissioni del ms. A p. 9 la parola «tratto» doveva essere
  • intromessa, com’è suggerito dalla corrispondenza col _Compendio_ (p.
  • 70); invece l’aggiunta «ordinar», mantenuta dalle precedenti edizioni a
  • p. 36, senza corrispondenza con p. 85, è forse arbitraria.
  • [2] Si vedano la prefazione del ROSTAGNO all’edizione
  • sopra citata e lo studio di M. BARBI, _Qual’è la seconda
  • redazione del«Trattatello» in laude di Dante_ (1913). Cfr. G.
  • L. PASSERINI, nella prefazione a _Le vite di Dante_, Firenze,
  • Sansoni, 1917, alcune mie pagine di recensione nella _Rassegna
  • bibliografica_, a. XXV (1917), n. 3, e altre di G. VANDELLI,
  • in _Bollettino della Societá dantesca italiana_, N. S., vol. XXIV,
  • fasc. 4 (dec. 1917).
  • [3] In questo codice sono rimaste in bianco parte della seconda col. di
  • c. 81 r e le cc. 82-83. La lacuna va dalle parole «I cittadin, cioè i
  • fiorentini, della cittá partita, peroché in que’ tempi Firenze», alle
  • parole «Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo
  • ordine: Ahi giustizia di Dio, chi stipa», cioè da p. 171 a p. 203 del
  • II vol. di questa edizione; inoltre il detto codice si tronca alle
  • parole «la cittá giá se ne dolea in quanto molti scandali e molti mali
  • e uccisioni», in corrispondenza di p. 23, vol. III.
  • [4] Da questo codice è stata asportata la c. 172, sicché esso presenta
  • una lacuna tra le parole «È il Quarnaro un seno di mare il qual nasce
  • del mare Adriano e va verso tramontana e quivi divide Italia dalla
  • Schiavonia e chiamasi», in corrispondenza di p. 21, vol. III, e le
  • parole «e quinci viene arcano, la cosa segreta», in corrispondenza di
  • p. 24, vol. III.
  • [5] Questo bel codice incomincia con le parole: «Galeotto fu il libro
  • e chi lo scrisse. Scrivesi ne’ predetti romanzi che un prencipe» in
  • corrispondenza di p. 145, vol. II. Probabilmente era diviso in due
  • parti, delle quali la prima è andata perduta.
  • [6] R, a c. 20 v., alle parole «e ’l Mosca, perché fu scismatico, nel
  • ... canto» (pres. ediz., II, 180), omette fra «nel» e «canto» il numero
  • che dovrebbe leggervisi, riempiendo lo spazio con un «nol dice», della
  • medesima mano, in piú minuta scrittura; in S la stessa lacuna non è
  • colmata; ed essa doveva trovarsi «nell’originale» di M¹, perché in
  • quest’ultimo codice, a p. 235, il numero del canto apparisce scritto
  • posteriormente alla riga e costretto a stento nello spazio lasciato
  • prima in bianco. M² in questo caso non offre riscontri, perché il
  • passo cade nella lunga lacuna segnalata di sopra.
  • [7] Segnalo le seguenti, delle quali ho voluto lasciar traccia in
  • questa edizione: I, 126-7 «Questo soluto, ne resta venire, ecc., _ut
  • supra_.—Resta a venire all’ordine della lettura...»; _ib_., p. 159
  • «si possono due ragioni dimostrare...», cui pur s’aggiunge una _terza_
  • ragione a p. 161.
  • [8] È giusto ch’io rammenti che, pur non avendo affacciato neanche io
  • alcun sospetto sulla genuinitá del _Comento_ in ciascuna sua parte,
  • ebbi però giá, dal solo esame stilistico, a rilevare che piú e piú
  • tratti di quest’opera, e in sé e al confronto delle pagine o proprie
  • o altrui, dalle quali il B. li avrebbe derivati, appariscono indegni
  • del grande scrittore. Cfr. pp. 7, 9, 25-6 con la n. 2, del mio scritto
  • _Caratteri e forma del Comento di G B. sopra la Commedia di D._ (Barga,
  • 1913). Allora era il disagio dello studioso in cerca dei veri dati
  • del suo problema: la prima stesura, la fretta, «la vecchiaia, che,
  • se pur lascia valido il tronco, ne sfronda il verde» (_ib_., p. 10),
  • erano un’impostazione provvisoria. I veri dati e la risoluzione si
  • son presentati dopo a mano a mano, attraverso l’esame dei codici e la
  • susseguente ripresa in esame del testo. Allo scritto cit., p. 4, n. 2,
  • rimando per la bibliografia sul Comento: aggiungasi O. Bacci, _Il B.
  • lettore di Dante_, Firenze, Sansoni, 1913.
  • [9] Il fatto che il Buti avesse saccheggiato il proemio del Boccaccio,
  • trasportandone nel suo tanta parte, non poteva non essere rilevato con
  • meraviglia. Silvestro Centofanti, nella introduzione alla diligente
  • edizione di Crescentino Giannini, s’ingegnò di scagionare il buon
  • frate, ricorrendo per _extrema ratio_ all’«uso dei tempi». Ma la veritá
  • è che l’uso dei tempi, per certo piú accondiscendente dell’uso nostro,
  • non basta a spiegare un plagio che sviluppa tutto un sistema di idee,
  • e che non ha riscontro nel séguito dell’opera, ove e il Boccaccio e
  • Guido da Pisa e altri, quando accade che sian fonte dell’idea, non
  • porgono insieme con essa l’espressione, e inoltre vengon citati,
  • proprio come è citato il Boccaccio per il nome di _Commedia_, ch’è
  • pagina sua (e cfr., nel séguito del testo, gli altri pochi rimandi che
  • il Buti fa al certaldese). S’aggiunga che un’introduzione scolastica
  • sviluppata su di uno schema che, ognuno che ne sappia, può riconoscere
  • tradizionale, s’addice bene al Buti, maestro di grammatica, lettore
  • nello Studio di Pisa, qualificato a ragione «il grammatico» tra gli
  • antichi commentatori di Dante (C. Hegel, Ueber den historischen Werth
  • der älteren Dante-Commentare, p. 54); al Boccaccio, scrittore grande e
  • originale, no.
  • [10] Cfr. «poliseno» (è però lezione che ha riscontro nelle stampe del
  • _De Genealogiis_); cfr. «_iustitia praemiandi et puniendi_».
  • [11] La rubrica è di altra mamo, ed è posteriore, ma del sec. XV.
  • [12] M¹ e S leggono «non era» (M¹ è stato poi corretto da mano piú
  • recente); R legge «non c’era»; in M² il passo cade nella lacuna
  • segnalata di sopra.
  • [13] In corrispondenza del passo sopra citato (singolarmente notevole
  • per la questione di cronologia boccaccesca che vi è stata riconnessa),
  • i codd. R (c. 19 r.) e M¹ (p. 232), oltre a riportare a margine alcuni
  • versi del IV della _Georgica_ (219-227), recano, pure a margine, questo
  • appunto o traccia, che nel testo non ha avuto sviluppo conforme:
  • «Estimò Platone essere in ciascuna anima di qualunque animale alcuna
  • parte di divina mente, il che appare nell’api—nelle formiche—nel
  • cavallo d’Alessandro—ne’ leofanti—ne’ leoni—negli uomini». Il
  • materiale delle pagine di cui fa parte il tratto sulla peste di Firenze
  • è desunto dal _De casibus (§ De Astiage, § Pauca de somniis_).
  • [14] Un altro ricordo personale del frate par quello del vol. III,
  • 226 sg., circa il monastero di San Benedetto dell’Alpe. La medesima
  • spiegazione, obbiettivamente esposta, si legge in Benvenuto da Imola.
  • [15] Una annotazione di A. M. Salvini nel cod. R, in corrispondenza
  • all’anno della peste, dice: «questo commentatore fiorí dopo la peste
  • del 1348».
  • [16] Citato dal De Batines.
  • [17] Quali queste rubriche fossero originalmente, non è perspicuo. M¹
  • scrive: «Capitolo primo della prima cantica della Commedia di Dante
  • Alinghieri» (ma è d’altra mano che il testo); «Allegorie del cap.º
  • primo dello ’nferno (corretto «della prima cantica») della Commedia di
  • Dante Alinghieri»; «Cap.º IIº della prima cantica della Commedia di
  • Dante» (d’altra mano), e a margine «Canto IIº» (della mano del testo);
  • «Allegorie del IIº cap.º della Commedia di Dante (d’altra mano);
  • «Cap. IIIº» (sulla linea e a margine); «Allegorie del IIIº cap.º»; e
  • cosí di séguito, generalmente in quest’ultima forma.
  • S’ha per ogni capitolo una di queste intestazioni: «Capitolo» (o
  • «Canto»), «senso litterale», «senso allegorico», «senso morale»,
  • «secondo la lettera», «allegorico», «litterale»; una volta sola, e
  • questa a margine: «Primo cap.º secundum litteram».
  • R scrive «Canto VI», «Canto VII» ecc., d’ordinario ripetendo quando
  • incomincia il commento allegorico.
  • [18] Ho tuttavia riprodotta a margine la numerazione delle lezioni giá
  • adottata dal Milanesi per agevolare i riscontri.
  • [19] In complesso io penso di avere espunto dal _Comento_ meno di
  • quel che si debba; ma ciò non toglie che qualche tratto da me espunto
  • non sia negato a torto al Boccaccio, specialmente negli inizi delle
  • singole trattazioni. Giudichi caso per caso lo studioso; al quale, in
  • mancanza della dimostrazione analitica a corredo del testo (il tipo
  • della edizione non la ammetteva, ma potrá essere eseguita a parte),
  • non dispiacerá ch’io gli tracci una guida sommaria per altre poche
  • pagine oltre il proemio. Le prime, a mio giudizio, sono anch’esse
  • contaminate con i commenti che il rifacitore si trovava fra mano per
  • la compilazione del proemio. Poi le chiare pagine parafrastiche del
  • Boccaccio finalmente compariscono, con poche intromesse piú o men bene
  • riconoscibili (quella, ad es., su Virgilio mago, sproporzionata, se non
  • estranea, al proposito, e affatto nuova nella concezione boccaccesca di
  • Virgilio altrimenti nota), finché la parola «poeta» offre al rifacitore
  • il destro di interpolare, raffazzonandole, piú pagine, della _Vita_
  • e del _De Genealogiis_. Quindi ripigliano le pagine autentiche, con
  • altre varie intromesse, sino alla seconda parte del commento di questo
  • I canto, dov’è spiegato il senso allegorico; nella qual parte io credo
  • che non si possa dubitare che la impostazione del discorso è del
  • Boccaccio; ma si potrá dubitare se fosse meglio rescindere dall’inizio
  • dello svolgimento delle idee generali sull’allegoria («In risponsione
  • della qual cosa si possono due ragioni dimostrare..», I, 159) sino
  • all’inizio della spiegazione del canto (I, 164), o tagliar via soltanto
  • quella «terza ragione», che i codici provano non essere stata in una
  • prima stesura, insieme con quel tratto sui quattro sensi, che l’analisi
  • interna e il confronto col Boccaccio autentico (_De Genealogiis_, l. I,
  • cap. IV) non consentono di giudicar genuino. E cosí di séguito.
  • [20] Cfr G. VANDELLI e L. CASALI, Per _le nozze di
  • Teresa Bertoldi con Umberto Monico_, Firenze, 1913, p. 17. In questo
  • opuscolo è pubblicato di sul codice Toledano il capitolo relativo alla
  • prima cantica.
  • [21] La piú recente ristampa dei tre capitoli è stata quella curata da
  • GIUSEPPE GIGLI, in _Antologia delle opere minori_ di G. B.,
  • Firenze, Sansoni, 1907, pp. 301-320.
  • [22] _Rubriche della Commedia di Dante Alighieri scritte in prosa,
  • e breve raccoglimento in terzine di quanto si contiene nella stessa
  • Commedia_. Edite da G. Comello con introduzione di E. CICOGNA
  • e note di G. VELUDO, Venezia, tip. Cecchini e C., 1843, 8º,
  • pp. 72 (per nozze Milan Massari-Comello).—L’opuscolo, sotto il titolo
  • _Rubriche e breve raccoglimento della Commedia di Dante: scritture
  • attribuite a G. B._, fu ristampato a cura di L. Pizzo _con prefazioni
  • di_ E. CICOGNA _e osservazioni di_ G. VELUDO
  • (Venezia, tip. Merlo, 1859, 16º, pp. 80).
  • [23] G. VANDELLI, _Rubriche dantesche pubblicate di su
  • l’autografo chigiano_, Firenze, Landi, 1908, 8º, pp. 31 (Nozze Corsini
  • Ricasoli Firidolfi). Vedasi quivi per l’autografia del cod. Chigiano.
  • [24] _Index of authors quoted by Boccaccio in his «Comento sopra
  • la Commedia»: a contribution to the study of the sources of the
  • Commentary,_ in _Miscellanea storica della Valdelsa_, a. XXI, fasc.
  • 2-3, n. 60-61 (settembre 1913).
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  • altri scritti intorno a Dante (vol. 3 , by Giovanni Boccaccio
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