- The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
- altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio
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- Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)
- Author: Giovanni Boccaccio
- Editor: Domenico Guerri
- Release Date: December 7, 2014 [EBook #47565]
- Language: Italian
- Character set encoding: UTF-8
- *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA ***
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- NOTE DEL TRASCRITTORE:
- —Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
- —Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
- riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
- mantenuto nel terzo volume.
- SCRITTORI DʼITALIA
- G. BOCCACCIO
- OPERE VOLGARI
- XIII
- GIOVANNI BOCCACCIO
- IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
- E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
- A CURA DI
- DOMENICO GUERRI
- VOLUME SECONDO
- BARI
- GIUS. LATERZA & FIGLI
- TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
- 1918
- PROPRIETÁ LETTERARIA
- GIUGNO MCMXVIII—49327
- III
- CONTINUAZIONE
- DEL
- COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"
- CANTO QUARTO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Nota: Lez. XI]
- «Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente
- canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del
- precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un
- vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento,
- il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel
- principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto.
- E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto
- gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda,
- procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti,
- pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E
- questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».
- Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona
- violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si
- fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione,
- la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ
- comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ
- ministri della giustizia punito nellʼaltra.
- «Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un
- costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri
- indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle
- virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual,
- volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:
- _Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
- pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
- fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc._
- E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, _in
- tragedia Herculis furentis_, dove dice:
- _.....tuque o domitor,_
- _somne, malorum, requies animi,
- pars humanae melior vitae,
- volucer, matris genus Astreae,
- frater durae languidae Mortis,
- veris miscens falsa, futuri
- certus et idem pessimus auctor:
- pater o rerum, portus vitae,
- lucis requies noctisque comes,
- qui par regi famuloque venis,
- placidus, fessum lenisque fovens:
- pavidum Leti genus humanum
- cogis longam discere mortem, ecc._
- Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la
- camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun
- disiderasse.
- «Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso,
- la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo;
- e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora
- il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per
- lʼarterie al cerebro.
- «Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli,
- quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni
- della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come
- Aristotile mostra nel terzo libro della sua _Meteora_; percioché,
- essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate,
- sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che,
- per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per
- quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá,
- chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo.
- Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della
- esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual
- cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che
- era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano
- tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo
- «tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è
- stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.
- «Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste
- parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti.
- «E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si
- faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non
- fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché
- non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé
- divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore
- il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le
- parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè
- «Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva
- dove il sonno lʼavea preso.
- «Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era,
- e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai»,
- cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come
- esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente
- canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore
- tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza,
- «profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre
- allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè
- agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè
- verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna
- cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza
- delle tenebre e della nebbia.
- —«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte
- del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per
- non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e
- questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere
- deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda
- quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa
- due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti
- di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati
- infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e
- femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio
- gli solve. E comincia questa seconda quivi:—«Dimmi maestro mio», ecc.
- Dice adunque cosí:—«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre
- infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo»,—cioè in
- inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural
- luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto»,
- cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna
- delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono
- le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali
- vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E
- qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí
- per compassione.—«Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai
- secondo»,—cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare,
- renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni
- ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è
- buono e valoroso duca.
- «Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto»,
- riguardandolo nel viso, «Dissi:—Come verrò», io appresso, «se tu», che
- vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi»,
- cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come
- nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel
- secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi.—
- «Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse:—«Lʼangoscia delle genti»,
- onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio
- dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè
- compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi
- che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia
- questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore
- che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per
- compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.
- «Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché
- la via lunga ne sospigne»—a dover andare. «Cosí si mise», procedendo,
- «e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel
- limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.
- «Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea
- comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È
- il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato,
- il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se
- cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi
- e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí
- lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
- dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i
- sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual
- cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura
- eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura»
- un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il
- testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni
- moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»),
- «facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento
- non maggiore che il tremare.
- «E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non
- eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca
- stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava
- dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza
- di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere
- avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè
- moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali
- «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che
- perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di
- genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di
- femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto
- dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto
- è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali
- una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula,
- la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non
- mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe
- questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella
- presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno,
- al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento;
- anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che
- è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione
- del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in
- alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo,
- è conceduto.]
- «Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per
- ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da
- doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare;
- percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto
- pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non
- grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa
- domandato non lʼavea) «a me» disse:—«Tu non dimandi, Che spiriti
- son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso
- fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che
- meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col
- farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ
- che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che
- tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun
- bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo
- bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione
- è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo
- Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «_Amen, amen, dico
- tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest
- intrare in regnum Dei_». È adunque il battesimo una regenerazion nuova,
- per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti,
- nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio,
- dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento
- valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza
- esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte
- della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che
- è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ
- quali dodici è il battesimo uno.
- Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso
- medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi
- parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le
- sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e
- mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna;
- perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto
- non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di
- Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a
- prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti
- dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di
- coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e
- fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto
- deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E
- di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io
- medesmo»: percioché Virgilio, si come in _libro Temporum_ dʼEusebio
- si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui
- introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta
- di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí
- alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone _Della nativitá
- di Cristo_, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi
- scritti nella quarta egloga della sua _Buccolica_, dove dice:
- _Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
- magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
- Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
- iam nova progenies caelo delabitur alto._
- Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere
- santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per
- avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso
- quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al
- popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che
- uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non
- adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti
- al cristianesmo salvarsi.]
- «Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o
- vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente
- adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali
- o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere
- in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme
- vivemo in disio»:—il quale disio non è altro che di vedere Iddio,
- nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa
- cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e
- noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere
- speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e
- perciò, quantunque _prima facie_ paia non molto gravosa pena essere il
- disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora
- piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna
- intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per
- Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno
- agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando
- coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte
- mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino
- alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello
- astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono
- segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale
- per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi
- immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran
- sospesi», dallʼardore del lor desiderio.
- —«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella
- della prima parte della seconda division principale, nella quale
- lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice
- adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore».—Assai lʼonora lʼautore
- per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che
- fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la
- quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed
- intende, in questa domanda, non di voler sapere deʼ santi padri che da
- Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la
- domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta
- fu per la venuta di Cristo, alcun altro nʼuscí mai: quasi per questo
- voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che,
- se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli
- sʼingegnerebbe dʼadoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a
- salute.] «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che
- vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la
- nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene
- i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio
- ciò che nella divina Scrittura nʼè scritto, son nondimeno di quegli
- che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non
- credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla
- fede debita alle Scritture; e però cosí le cose passate, come quelle
- che venir debbono, senza cercarne testimonianza dʼalcuno, si vogliono
- fermamente credere e semplicemente confessare].—«Uscicci mai», di
- questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera
- pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella
- mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse
- salute: «O per lʼaltrui», opera, [o fatta o che far si possa per
- lʼavvenire,] «che poi fosse beato?»—uscendo di qui e sagliendo in vita
- eterna.
- «Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè
- intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva
- la domanda generale, «Rispose:—Io era nuovo in questo stato». Dice
- «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati,
- dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni
- erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo,
- nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi
- venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio
- non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente»,
- percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun
- altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la
- potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era,
- questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda
- dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al
- limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto,
- che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce:
- donde si scrive che «_habitantibus in umbra mortis lux orta est eis_».
- «Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo. [Adamo fu, sí come
- noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto
- di creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte
- del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
- damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò
- nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo lʼanima dotata di
- libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era
- immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e
- secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale
- tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni.
- E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé
- intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro,
- dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né deʼ piedi,
- ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di
- perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:—Questa è osso
- dellʼossa mie, e per costei lascerá lʼuomo il padre e la madre, ed
- accosterassi alla moglie.—La qualʼè tratta dal suo costato, per darne
- ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dellʼuomo,
- lʼavea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e
- guerra senza pace e senza triegua, come lʼodierne mogli odo che sono,
- ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte
- le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al
- lor piacere, ma del frutto dʼuno albero solo, il qual vʼera, cioè di
- quello «della scienza del bene e del male», sʼastenessero, percioché,
- se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí
- dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma lʼantico nostro
- nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere
- quelle sedie, le quali per la ruina sua e deʼ suoi compagni evacuate
- erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, sʼella mangiasse
- del frutto proibito, ella non morrebbe, ma sʼaprirebbero gli occhi
- suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la
- qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo,
- incontanente sʼapersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano
- ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si
- nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di
- paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú
- figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, dʼetá di
- novecentotrenta anni si morí.]
- [Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno:—Tu hai detto
- davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam
- fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale?—A
- questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che
- Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle
- creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono
- semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li
- quali tutti sono di semplice materia creati: ma lʼuomo non fu cosí;
- anzi fu creato di materia composta, sí come è dʼanima e di corpo,
- e perciò non è perpetuo come sono le predette creature.—Ma quinci
- può sorgere unʼaltra obiezione, e dirsi: egli è vero che lʼuomo è
- composto dʼanima e di corpo, e queste due cose amendue furon create
- da Dio; perchʼè dunque lʼanima perpetua, e ʼl corpo mortale? Dirò
- allora lʼanima essere stata da Dio composta di materia semplice, come
- furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del
- semplice elemento della terra, senza alcuna mistura dʼaltro elemento,
- sí come dʼacqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta
- fare la statura dellʼuomo, fu adunque fatta del limo della terra,
- avente alcuna mistura dʼacqua. Non che io non creda che a Dio fosse
- stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa
- fece tutte le cose, ma la commistione deʼ corpi ne mostra quegli essere
- stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva
- lʼanima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di
- quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa
- corruzione e morte deʼ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo
- Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire
- alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che
- peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai
- risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson
- morire, se non come lʼanima nostra, la quale, quantunque peccasse col
- corpo dʼAdamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo,
- al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata
- minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno
- che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio,
- si vuole ricorrere, aʼ teologi ed aʼ sufficientissimi litterati, la
- scienza deʼ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si
- distende.]
- «DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il
- primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia.
- Leggesi nel _Genesi_ Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam,
- essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che
- appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due
- cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche
- sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per
- far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le
- spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle
- sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a
- Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel
- fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel
- viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre
- eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello
- sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto
- a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La
- qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al
- fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non
- prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone
- ed ucciselo.
- «E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini
- sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio,
- conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre
- suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse
- unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali
- vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale
- sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel
- torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra
- lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque
- che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò
- fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò
- con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il
- diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio.
- E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto
- del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo
- figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ
- fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero
- il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed
- essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di
- questa vita.
- «Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo
- stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei
- maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché
- bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo
- tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto
- un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che
- passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua
- menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che
- divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le
- sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e,
- fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi
- dentro il picciol fanciullo che piangea, disse:—Questi dee essere
- deʼ figliuoli delle ebree.—Allora la fanciulla, che il vasello
- seguiva, disse:—Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che
- il balisca?—A cui la donna disse:—Vaʼ.—Ed ella andò e menò la
- madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna,
- la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che
- figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli
- batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e
- quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una
- fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di
- Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo
- dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non
- volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli
- mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che
- accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché
- egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con
- loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la
- sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in
- tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono
- salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle
- vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il
- mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto,
- e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero
- loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra,
- subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo
- sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo,
- esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio;
- ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e
- gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro
- quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato
- in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali
- erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del
- monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista».
- Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá
- di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab
- di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua
- sepoltura.
- «Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá
- deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria.
- Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne
- in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima
- dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come
- annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre,
- un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che
- gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando
- esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in
- mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il
- figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso
- il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni
- era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la
- sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui
- fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote,
- primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re
- e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ
- suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale,
- essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli
- seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione
- di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara,
- sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da
- «_pater_», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a
- dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».
- «E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e
- levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato
- era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso
- col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta
- gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo,
- il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale
- ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli
- meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per
- moglie. Racquistò lʼarca _foederis_, la quale al popolo dʼIsrael era
- stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga
- persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio;
- ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in
- Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re.
- E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli,
- e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo
- figliuolo.
- «E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo
- prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi
- a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la
- quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso
- di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito
- sʼera, sí come nel _Genesi_ si legge, tutta una notte fece con un uomo
- da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser
- vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo:—Lasciami.—Al qual Giacob
- rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui
- domandò come era il nome suo, a cui esso rispose:—Io son chiamato
- Iacob.—E quellʼuomo disse:—Non fia cosí: il tuo nome sará Israel,
- percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai
- contro agli altri uomini.—E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele
- indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa
- cagione i giudei non mangiano di nervo.
- «Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi
- nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro
- femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e
- ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal
- quale aveva origine tratta.
- «E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li
- consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac,
- suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute
- gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí
- come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban,
- fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole,
- Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo
- sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli
- dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed
- essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data,
- la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte
- preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di
- che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada
- non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú
- etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo,
- similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri
- sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel.
- E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui
- tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.
- Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu
- costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea
- e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso
- per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto,
- era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto,
- giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo
- con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la
- morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e
- nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne
- portassero.
- «E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia,
- Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a
- questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è
- vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi»,
- cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran
- salvati;»—e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora
- non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo,
- furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del
- diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene
- adoperare, la porta del paradiso.
- [Nota: Lez. XII]
- «Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della
- seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo
- avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel
- cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella
- prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice
- come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice
- come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide
- i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli
- quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»;
- la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta
- compagnia».
- Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei
- dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»;
- e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire,
- dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad
- intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono
- dʼalberi.
- «Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati,
- «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli
- fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee
- intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il
- destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra
- dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per
- alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io
- vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte
- dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun
- lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía».
- Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume,
- vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo
- ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due
- maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon
- tali, che per gran cose conosciuti fossero.
- «Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí»,
- nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel
- lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè
- onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel
- quale eravamo.
- —«O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li
- quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che
- onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni
- scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro,
- commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove
- è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼ_Etica_
- dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono
- in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine,
- le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle
- cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da
- noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per
- avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è
- detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe
- infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate
- da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono
- consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni
- che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle
- adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che
- egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí
- come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra
- ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che
- aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere
- adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di
- quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale
- arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene
- allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste
- lode dallʼautore attribuite gli sono.]
- «Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual
- vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per
- «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino
- a qui abbiam veduti, «gli diparte?»—in quanto hanno alcuna luce, dove
- quegli, che passati sono, non hanno.
- «E quegli», cioè Virgilio, disse «a me:—Lʼonrata», cioè lʼonorata,
- «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor
- suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture
- degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati
- sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli
- avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo.—[Intorno
- alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina
- giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né
- alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda,
- sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica
- umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero
- Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non
- meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro
- che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
- adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque
- il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò
- alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che
- la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano
- nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro
- onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia
- nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]
- «Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda
- principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti
- onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi
- rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A
- differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto
- esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa
- per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra
- cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi,
- secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè
- da me, «udita», cosí fatta:—«Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa,
- per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la
- dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed
- assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale
- adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga
- trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da
- lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua»,
- cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita»,—quando andò al soccorso
- dellʼautore, come di sopra è dimostrato.
- «Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro
- grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire»,
- come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna:
- «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della
- sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza
- di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi
- e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera
- o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá
- sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser
- di leggiere animo e di volubile.
- «Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire:—Mira colui con quella
- spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella
- vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava,
- cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in
- mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di
- guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto
- nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl
- seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.
- «Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi
- dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo
- greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle
- scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché
- in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in
- publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice
- dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come
- che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si
- sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per
- la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia
- insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando
- ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato
- suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon,
- Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono
- onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò
- fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove
- stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo
- cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero
- un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro
- iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per
- molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse
- ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi
- il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú
- chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di
- credere Lucano dove dice:
- _Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,_
- dicendo dʼOmero.
- Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo
- vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura
- intervenne, nascendo egli, il quale disse:—Colui che al presente
- nasce morrá cieco;—e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale
- nome è composto _ab_ «_o_», che in latino viene a dire «io», e «_mi_»,
- che in latino viene a dire «non», ed «_ero_», che in latino viene a
- dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e,
- come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi
- dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli
- studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo
- udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in
- quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i
- famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí
- poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo
- chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto
- perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e
- quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere.
- E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi
- variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano
- ancora alquanti, e massimamente la _Iliade_, distinta in ventiquattro
- libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani
- infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose
- similmente lʼ_Odissea_, in ventiquattro libri partita, nella quale
- tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo
- il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude
- deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora
- un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero
- guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa
- e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion
- deglʼiddii, e composene uno chiamato _Egam_, la materia del quale non
- trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ
- quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza
- degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle
- materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini.
- E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua
- _Iliade_ appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro
- macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò
- in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello
- molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima
- per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi
- baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole
- stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile
- riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse
- loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non
- vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento
- dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono,
- cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea
- che la _Iliada_ dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.
- [Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu
- di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o
- povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un
- pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri
- panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non
- aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse
- per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era
- volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu
- di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto
- animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna
- volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in
- Atene ed avendo parte della sua _Iliade_ recitata, il vollero gli
- ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva
- scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo
- gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che
- per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo,
- credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse
- un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale
- dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono
- ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza
- vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro
- il cui titolo fu _De verbositate Atheniensium_, nel quale egli morse
- fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla
- altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da
- Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che,
- per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma
- sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior
- regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa,
- turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo
- in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo
- vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il
- fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]
- [Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente
- cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo
- lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano,
- forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se
- preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero
- che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non
- aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo
- i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole,
- e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in
- essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli
- aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti
- rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed
- essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per
- caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel
- cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí.
- Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ
- pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della
- quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito;
- onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella
- onorevolmente il seppellirono].
- Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia,
- né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in
- tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato
- maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue
- _Quistioni tusculane_ scrive Tullio cosí di lui: «_Traditum est etiam
- Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae
- regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna
- quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita
- expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?_»,
- ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le
- sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui
- il nostro autore il chiama «poeta sovrano».
- [Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare
- padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto
- regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che
- egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere
- stato dopo lʼemigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di
- Lacedemonia e Latino Silvio re dʼAlba. Altri voglion che fosse dopo
- questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio
- re dʼAlba. Filocoro dice che egli fu aʼ tempi di Archippo, il quale
- era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni
- dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la
- ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento
- di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano
- Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni:
- e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni,
- regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del
- quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta,
- perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero,
- quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non
- per la sua preeminenza singulare].
- [Nota: Lez. XIII]
- «Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai
- umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e
- «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun
- servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e
- chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia,
- e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore
- perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi
- ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente
- in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si
- possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia
- dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre,
- il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò,
- fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate,
- nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò
- similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e
- fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il
- quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti
- da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei;
- percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio _libri Temporum_
- dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in
- versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò
- Orazio in un suo libro, il quale è nominato _Ode_. Compose, oltre a
- ciò, un libro chiamato _Poetria_, nel quale egli ammaestra coloro,
- li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir
- debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente
- comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle _Pistole_ e nei
- _Sermoni_, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò
- dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro
- predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette
- anni, secondo Eusebio dice _in libro Temporum_, lʼanno trentasei dello
- ʼmperio dʼOttaviano Augusto.
- «Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di
- Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si
- chiama _De tristibus_, testimonia, dicendo:
- _Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
- milia qui decies distat ab Urbe novem._
- E, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ dice, egli nacque nella
- patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu
- di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza
- maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della
- scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro,
- il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva
- un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua
- natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse
- studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in
- soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per
- la qual cosa esso dice nel detto libro:
- _Quidquid conabar scribere, versus erat._
- Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
- _Saepe pater dixit:—Studium quid inutile temptas?
- Maeonides nullas ipse reliquit opes.—_
- Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto
- alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria,
- se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente
- meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu
- ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa
- comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e,
- oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.
- Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello
- che chiamiamo lʼ_Epistole_. Appresso ne compose uno, partito in tre, il
- quale alcuno chiama _Liber amorum_, altri il chiamano _Sine titulo_: e
- può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla
- che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata
- da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine
- titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa
- intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra,
- e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un
- libro, il quale egli intitolò _De fastis et nefastis_, cioè deʼ dí neʼ
- quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era,
- narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in
- che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari;
- e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi:
- e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o
- che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale
- è partito in tre, e chiamasi _De arte amandi_, dove egli insegna e
- aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un
- altro, il quale intitolò _De remedio_, dove egli sʼingegna dʼinsegnare
- disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in
- versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta.
- Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo
- distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel
- libro _De tristibus_, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe
- spazio dʼemendarlo.
- Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione
- dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa
- lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata
- Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla
- morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore
- nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama _Phasis_. E in
- questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello _De
- tristibus_, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli
- intitolò _In Ibin_. Composevi quello che egli intitola _De Ponto_, e
- tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
- La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come
- egli scrive nel libro _De tristibus_, mostra fosse lʼuna delle due o
- amendue; e questo mostra scrivendo:
- _Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error._
- La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian
- Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta
- avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:
- _Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?_
- Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo
- convenirgliele tacere, quivi:
- _Alterius facti culpa silenda mihi est._
- La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro _De arte
- amandi_, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi
- deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol
- molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver
- meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono
- lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella
- la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
- Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli.
- Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di
- Tiberio Cesare, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ scrive, nella
- predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
- Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato
- rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo
- mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta
- la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far
- motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il
- costrinse a morire.
- «E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio _in libro
- Temporum_ scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba,
- donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di
- Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
- carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di
- laudevole ingegno molto, sí come nel libro _Delle guerre cittadine_
- tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso
- in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché
- si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito,
- leggendo, del suo libro, dovette una volta dire:—Che dite? mancaci
- cosa alcuna ad essere equale al Culice?—Culice fu un libretto metrico,
- il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia
- laudevole e bello, non è però da comparare allʼ_Eneida_: e quantunque
- Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí
- fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa
- pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼ_Eneida_;
- della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu
- costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in
- tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun
- letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano
- costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli
- stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e
- la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu
- determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma
- piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce
- esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il
- tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il
- satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello
- di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse,
- maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane
- uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta
- contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti
- altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che
- Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere
- tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ
- congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non
- accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti
- né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era
- colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere
- accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual
- cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio
- commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le
- vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori
- divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi
- di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per
- perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò,
- ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.
- «Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene»,
- cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè
- quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce
- «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome
- dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi
- quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si
- convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò,
- non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto
- Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse,
- Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano
- le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la
- venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re
- deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è
- onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima
- professione, come costoro erano con Virgilio.
- «Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi
- Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene
- a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati
- coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il
- qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che
- lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma
- i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender
- per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e
- maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale
- senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole
- seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila
- vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il
- canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni
- altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in
- fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si
- verificasse.
- «E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per
- lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno»,
- che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi
- fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando
- lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano
- coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini
- infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
- salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi,
- come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata
- fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso
- commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice,
- «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma
- quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da
- credere, percioché lʼautore non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il
- dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno
- deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza
- alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente,
- e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie
- conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere
- la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora
- per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale
- prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il
- vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che
- fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte
- un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar
- gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti
- interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma
- i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa
- che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una
- letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non
- è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver
- detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu.
- Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa
- scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir
- «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia
- dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare
- che ci piaccia quello che ci dispiace.
- «E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo
- contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu
- questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra
- loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali
- conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella
- sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui
- sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti,
- io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice,
- percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno
- redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno
- non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual
- cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta
- sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun
- suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per
- Virgilio pel primo dellʼ_Eneida_, laddove esso discrive Enea essere
- stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo
- in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in
- un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:
- _Sum pius Aeneas, fama super aethera notus._
- Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a
- dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo
- uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né
- è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo?
- Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá,
- rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse
- taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non
- sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago,
- della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che,
- avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non
- di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama
- conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse
- taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli,
- mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo,
- cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in
- terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette
- loro in ammaestramento, disse queste parole:—«Voi mi chiamate Maestro
- e Signore, e fate bene, percioché io sono».—Direm noi in questo Cristo
- aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo
- no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che
- era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò
- le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti
- ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato
- lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi
- aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro
- maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le
- parole seguenti dove dice:—«E se io, il quale voi chiamate Maestro e
- Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete
- voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho
- fatto a voi, e cosí similmente fate voi»,—ecc. Adunque è talvolta di
- necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto
- peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.
- [Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente
- opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore
- dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose
- dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui
- lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello
- stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia
- fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]
- «Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della
- seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti
- entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di
- quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque
- poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di
- sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio
- di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello»,
- cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose,
- «colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano
- dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il
- che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse,
- poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello»,
- cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato dʼalte mura, Difeso
- intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello,
- «passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura
- stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette
- cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate
- le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da
- intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè,
- né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere
- puote intrare.
- «Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor
- primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender
- si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina
- una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi
- tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá
- dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio
- soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
- cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non
- corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti»,
- in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso
- riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan
- rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora
- nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci
- soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta
- piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo.
- «Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel
- luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto
- dellʼ_Eneida_, ove dice:
- _Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
- et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
- adversos legere, et venientum discere vultus, ecc._
- «In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»;
- percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si
- potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.
- «Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento.
- Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di
- fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa,
- come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
- comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura;
- il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati»,
- da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro
- li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle
- loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti,
- «in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser
- maggiore.
- [Nota: Lez. XIV]
- «Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere
- che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di
- quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ
- quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di
- contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la
- quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera
- molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo.
- Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere
- stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in
- autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono
- lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se
- non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá,
- ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie,
- chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come
- detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ
- poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in
- cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato
- Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo _De fastis_ cosí:
- _Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
- quae septem dici, sex tamen esse solent,_
- _Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
- nam Steropen Marti concubuisse ferunt,_
- _Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
- Maian et Electron Taygetenque lovi:_
- _septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
- Poenitet: et facti sola pudore latet._
- _Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
- non tulit, ante oculos opposuitque manum._
- Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e
- però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini
- «virgiliane». Anselmo, _in libro De imagine mundi_, dice che queste
- stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla
- quantitá, percioché «_plion_» in greco viene a dire «moltitudine» in
- latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i
- virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata
- di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione
- alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette
- stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle
- stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome,
- furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo.
- Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole
- è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con
- la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí
- sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano
- nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende
- per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non
- fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse,
- lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata:
- adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa
- sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di
- Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui
- denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere
- quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione
- forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n»
- al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni
- e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si
- truovano.
- Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí
- tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver
- letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno
- di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non
- solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata:
- della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io
- estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie
- (e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii,
- le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata
- splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in
- piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai
- manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per
- cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano,
- figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse
- diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo,
- edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio,
- che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia,
- parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in
- Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere,
- essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il
- disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in
- Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor
- discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e
- pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli;
- e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di
- quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato
- Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver
- data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí
- infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.
- Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di
- cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito
- il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché,
- conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo dʼElettra,
- cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano
- fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo
- questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di
- cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano
- fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto
- Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e
- Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi
- turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi,
- dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore
- Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del
- reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi
- cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno
- uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato
- figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni
- erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi
- chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio
- _in libro Temporum_, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in
- Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí
- adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di
- Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come
- detto è, puose in questo luogo primiera.
- «Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ
- quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini.
- Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:
- «Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di
- Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza
- corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare
- nella _Iliada_ dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie
- avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi
- di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo,
- suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e
- Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da
- Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual
- cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise,
- e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò
- con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta
- amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese
- fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad
- Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto
- poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo,
- che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro
- suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e
- quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura,
- infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua
- tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e,
- portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di
- tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.
- «Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise
- troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente,
- non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia,
- splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie,
- e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso
- uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando
- egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non
- pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la
- salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con
- Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore
- degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai
- greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella
- quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e
- andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti
- navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in
- quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e
- similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni
- piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò
- in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea,
- nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come
- Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi,
- sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia
- aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la
- sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si
- partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani.
- Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le
- navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui
- fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol
- poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in
- Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato,
- per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá
- sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari
- lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago
- dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far
- dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di
- Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa
- fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto
- nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto
- meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò
- dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e
- su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da
- Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino
- re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina,
- la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re
- deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte
- battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno.
- Ma alcuni altri sentono altrimenti.
- Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio
- che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro
- Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso
- Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che,
- avendo Enea avuta vittoria deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume
- chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né
- mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca
- Virgilio nel quarto dellʼ_Eneida_, dove pone le bestemmie mandategli da
- Didone, dicendo:
- _At bello audacis populi vexatus, et armis,
- finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
- auxilium imploret, videatque indigna suorum
- funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
- tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
- sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
- Hoc precor,_ ecc.
- E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel
- libro decimo dellʼ_Eneida_ finge che Giunone, sollecita di Turno, nel
- mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da
- Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata
- seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene
- che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso
- cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della
- contrada deificato e chiamato Giove indigete.
- «Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare,
- disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa
- della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice,
- denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse
- tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio
- _in libro Duodecim Caesarum_ dice, quando egli uscí candidato di casa
- sua, egli lasciò la madre, e dissele:—Io non tornerò a te se non
- pontefice massimo;—e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice
- massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi
- passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e
- da quel cotale cognominato Cesare _ab caesura_, cioè dalla tagliatura
- stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero,
- tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre
- nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte
- della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con
- poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella
- disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma
- tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso
- quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia
- venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel
- tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco
- si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era,
- avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da
- pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si
- crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò:
- e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad
- alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed
- essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia,
- ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ
- popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con
- loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo
- piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando
- il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu
- negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
- venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito
- sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue
- in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli
- fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie,
- e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette
- il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò
- in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove
- Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in
- Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto
- stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ
- pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto,
- di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua
- fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò
- deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse
- Plinio, in libro _De naturali historia_, che egli personalmente fu in
- cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne
- dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto
- dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in
- Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente:
- e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza
- che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano
- credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo
- poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
- diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua
- gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini:
- né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né
- nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci
- furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».
- Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque
- suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e
- leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri
- metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu
- grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente
- a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza
- addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu
- delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto;
- percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia
- trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio,
- Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo;
- ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la
- figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse.
- Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella
- della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di
- Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon
- questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando
- egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato:—Cesare si
- sottomise Gallia, e Nicomede Cesare;—ed altri dicevano:—Ecco Cesare,
- che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si
- sottomise Cesare.—Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu
- detto da molti:—Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il
- calvo adultero.—E nella persona di lui proprio furon gittate queste
- parole:—Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso
- in prestanza.—
- Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la
- republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo,
- dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere
- lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il
- conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare
- continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale
- lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro
- dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ
- senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a
- lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser
- re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato
- con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò
- Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
- procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta
- poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter
- esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare
- si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire.
- E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno
- questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra
- sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo,
- Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia,
- sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere,
- né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi
- seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte
- di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga
- dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi
- della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di
- ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la
- morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi,
- accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o
- di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a
- casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante,
- disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede
- fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i
- congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della
- corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo
- lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo
- arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel
- vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra
- quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero
- in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome
- sia «Giulia».
- [Nota: Lez. XV]
- «Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli
- occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da
- «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia
- aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a
- significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli
- ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore,
- o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti
- veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.
- «Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo
- canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla
- nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante
- perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo
- quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.
- «E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle
- donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per
- se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo
- tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle
- quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo,
- scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia,
- quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani
- di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di
- Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata
- insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia,
- allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati
- i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e
- per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno:
- avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi
- furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto
- al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero
- animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e
- quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando
- la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero.
- Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero
- giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé
- ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano,
- non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per
- la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita:
- e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa
- rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli
- uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo
- cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta
- pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero
- questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini,
- e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli
- maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano
- e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o
- a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare
- cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano.
- E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro
- nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose,
- lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo
- era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella
- con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte
- legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi,
- venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa
- privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi
- chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto
- «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina
- e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro
- imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale
- fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa
- donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore,
- figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e,
- per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle
- sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté
- quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse,
- Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la
- salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che
- alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella,
- che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.
- «Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino».
- Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di
- Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio
- nellʼ_Eneida_ dice:
- _...Rex arva Latinus et urbes
- iam senior longa placidas in pace regebat.
- Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
- accepimus._
- Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno,
- cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando
- Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada
- di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento
- nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato
- figliuolo. Ma Servio _Sopra Virgilio_ dice che, secondo Esiodo, in
- quello libro il quale egli compose chiamato _Aspidopia_, che Latino
- fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e
- però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino,
- «_Solis avi specimen_», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice
- il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché
- Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe)
- essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú
- Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni
- varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della
- madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi,
- allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:
- _...et innantem Maricae_
- _littoribus tenuisse Lirim;_
- e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non
- procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli
- antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser
- Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era
- scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di
- sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che
- egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia
- fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea
- e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro
- il quale egli scrive _De origine linguae latinae_, dice che Pallanzia,
- figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono
- alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da
- quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile
- succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá
- promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella
- quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima
- battaglia.
- «Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola
- di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e
- temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso
- vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un
- pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente:
- e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio
- Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma
- poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta
- la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle
- cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che
- senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli
- fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio _in libro Temporum_
- dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe
- nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato
- Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.
- «Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile
- uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il
- suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino
- Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire
- contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo:
- e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi
- di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché
- facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi
- il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco
- nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di
- lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora
- avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e
- i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in
- ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e
- in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi
- la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case
- con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole
- esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra;
- e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma,
- trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non
- ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di
- quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane
- chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia,
- e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro
- insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva
- di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna
- dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri.
- Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il
- quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli
- nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di
- voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire
- alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da
- lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione
- della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che
- tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente
- nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto,
- disse:—Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai
- motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente.—Ma per questo non
- tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir
- non voleva, le disse:—Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò,
- e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che
- io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia
- trovata.—Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in
- tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere
- stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però,
- quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo
- pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.
- Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena
- di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare
- Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto:
- li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la
- domandò Collatino:—Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le
- cose nostre?—A cui Lucrezia rispose:—Che salvezza può esser nella
- donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo
- che di te.—E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino
- era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli
- altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno
- la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser
- contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia,
- ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello,
- disse:—Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá
- impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi
- impudica.—E detto questo, e posto il petto sopra la punta del
- coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata,
- entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e
- Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del
- fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá
- di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli.
- Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando
- che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello
- del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi
- nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo
- a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli
- andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione
- dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono
- incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e
- il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel
- campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto
- Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e
- ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al
- re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il
- ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli,
- appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che
- piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu
- lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo,
- Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere
- il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un
- palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi
- in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque
- mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino
- invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una
- parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al
- quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ
- due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ
- figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata
- la battaglia degli altri, gridò:—Questi è colui che mʼha del regno
- cacciato;—e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli
- sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui.
- Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il
- colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne
- che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni
- morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ
- nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto,
- lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore
- della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia,
- fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi,
- onorevolmente fu seppellito.
- «Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.
- «Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune
- storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di
- lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e
- venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia,
- lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone
- uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in
- lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro
- servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo
- che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non
- dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò
- di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la
- qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú
- ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto
- Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare
- e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone,
- e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per
- moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro
- che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di
- questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di
- Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione
- ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse
- servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per
- suo marito.
- «Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia
- figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata
- Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei
- moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che,
- essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo,
- suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono,
- era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che
- sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo
- sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna
- violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave
- dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che
- nel ventre avea, e quindi morirsi.
- «E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato
- lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate,
- la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia
- deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello
- Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di
- Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente
- moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro
- fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie
- di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non
- solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le
- guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere
- essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli
- affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano
- manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto,
- dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il
- vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede
- e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.
- «E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di
- Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú
- addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in
- fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di
- vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor
- costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini,
- ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente
- cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa
- da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci
- di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
- sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico,
- e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore
- e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli
- non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si
- nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.
- «Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere
- piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno,
- Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo
- appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica
- famiglia».
- Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re
- di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la
- madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide
- vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti
- dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu,
- dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono
- alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io
- ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma
- in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per
- che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto
- errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui
- primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ
- libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto,
- fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero,
- e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro
- ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire
- filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo
- filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di
- Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí
- per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio
- con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando
- alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce
- alcuna volta disse:—Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio.—Visse
- appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali
- parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di
- quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non
- conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione
- di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né
- meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico,
- quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti
- morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi:
- _Etica, Politica_ ed _Iconomica_; né delle cose naturali alcuna ne
- lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a
- ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo
- intendimento, sí come nella sua _Metafisica_ appare. E, brevemente,
- egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i
- quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si
- sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone:
- la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio
- e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri.
- Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte,
- o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un
- grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco
- Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo
- lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette
- nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini
- la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse
- Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque,
- se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta
- la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che,
- oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita.
- Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré
- anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di
- stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel
- luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri
- dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e
- maggior di tutti.
- «Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».
- Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima
- condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio
- Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica _De patientia_, il padre
- suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe
- nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e
- quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia,
- alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte
- paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che
- si legge nel libro _De vitis philosophorum_; ma santo Agostino, nel
- libro ottavo _De civitate Dei_, scrive che egli fu uditore dʼArchelao,
- il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto
- tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto
- deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli
- ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio
- nel libro secondo delle _Quistioni tusculane_: e in tanta sublimitá di
- scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato
- quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di
- tenere Apulegio, e similmente Calcidio _Sopra il primo libro del Timeo
- di Platone_, e come Agostino nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
- egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio
- predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il
- quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò.
- Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente
- dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro
- errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo.
- Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli
- fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni
- perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo _Noctium
- Atticarum_, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino
- al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col
- corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel
- principio della meditazione gli poneva.
- Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque
- in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo
- parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua
- trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia,
- nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «_hoc
- scio, quod nescio_». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile
- filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò.
- Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la
- colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non
- solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
- giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito,
- e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di
- Socrate e disse:—Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare
- per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che
- io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non
- ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli
- sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa.—Al quale
- Socrate umilmente rispose:—Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che
- alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa:
- io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro
- che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del
- dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do;
- e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu
- abbi me per tuo.—Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo
- portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non
- essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente
- mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due
- mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il
- dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei
- stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui
- piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da
- Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio
- _in libro undecimo Noctium Atticarum_, perché egli non la mandava via,
- conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per
- la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli
- aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le
- quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe
- ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della
- casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il
- quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa
- disse:—Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere.—
- Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane
- uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico;
- il che detto a Socrate, disse:—Questi può esser savio uomo dʼaver
- lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi
- degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre.—Era,
- oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli
- per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e
- massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il
- naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá
- dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli
- volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse;
- di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il
- batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione
- sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che
- solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori
- suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone
- e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi
- di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo
- e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo
- una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai
- infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo
- animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per
- bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli
- ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti
- musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse:—Maestro, che
- è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere
- alle menome cose musicali?—Al quale egli dimostrò sé estimare esser
- meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla
- saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché,
- secondo scrive Tullio nel libro _De senectute_, egli era giá dʼetá
- di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli
- appellò _Panaletico_.
- Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu
- grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere
- indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi
- adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile
- animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli
- ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali
- erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle
- mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti
- trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e
- servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta
- cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse
- li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia
- servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di
- novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da
- un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi
- a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio
- avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da
- Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire
- la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale
- sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo
- Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la
- riprese dicendo:—Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi
- morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o
- avvenga che io giustamente condannato sia.—E, bevuto la venenata
- composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò
- dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per
- la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi
- discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo
- si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri,
- disse:—Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone.—E poi disse:—Se,
- poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia
- ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che,
- partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire.—Né guari stette che
- egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi
- gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro,
- e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle
- Istorie _scolastiche_ si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e
- morí regnante il re Assuero.
- [Nota: Lez. XVI]
- «E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu
- figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie;
- e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro
- legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di
- Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la
- sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide,
- stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo
- libro della _Filosofia_ scrivono, finsero Perissione, madre di lui,
- essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per
- questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi
- estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza,
- la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni
- altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta
- soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che
- umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che
- a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo
- egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono
- trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti
- che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa
- offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che
- Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina
- lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere
- un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da
- esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí
- seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea.
- E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale
- soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si
- può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura
- eloquenza.
- Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla
- ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate,
- secondo che Agostino racconta nel quarto della _Cittá di Dio_, navicò
- in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare.
- E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in
- Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai
- agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu
- fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ
- tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi
- uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte
- cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a
- ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla
- concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto
- domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai
- eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta,
- chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano
- consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni
- altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a
- domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi,
- visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a
- Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e
- scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ
- suoi uditori solennissimi filosofi.
- «Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli
- stanno».
- «Democrito» (_supple_) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo
- sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al
- re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito,
- che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte
- del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di
- sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al
- popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso,
- secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere
- di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta
- della cagione, rispose:—Io rido della sciocchezza di tutti quegli li
- quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo
- tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare,
- né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora.—Costui, percioché estimò
- il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento
- degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli
- occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere
- le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile
- al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse
- dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era
- dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl
- guidava: benché Tullio, nel quinto delle _Quistioni tusculane_, dice
- questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro
- filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio
- e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse
- unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso
- estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio
- o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di
- tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto
- suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non
- secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta,
- ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in
- quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico,
- si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte
- si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava
- «tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi
- formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo,
- costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore
- di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per
- le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser
- creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel
- quinto libro delle _Quistioni tusculane_ dice: «_Democritus, luminibus
- amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona,
- mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva
- poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione
- rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu
- oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non
- viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate
- consisteret_».
- «Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda
- aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di
- Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di
- ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò
- a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza
- altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e
- una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò
- via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni
- cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle
- case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e
- diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva
- una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel
- tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco
- senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva
- tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi
- continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione
- istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare
- in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano
- onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di
- cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.
- Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli;
- per che non sará altro che utile lʼaverne alcuna raccontata. Dice
- Seneca, nel libro quinto deʼ _Benefici_, che Alessandro, re di
- Macedonia, sʼingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con
- grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le
- quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior
- signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che
- egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto
- donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto
- alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole,
- e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello,
- che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli
- togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio,
- tiranno di Siragusa, molto cercato dʼaverlo, né mai venir fatto gli
- era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare
- lʼincendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad
- una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato
- Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli
- disse:—Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe
- al presente lavare coteste lattughe;—quasi volesse dire:—Tu averesti
- deʼ fanti e deʼ servidori, che te le laverebbono.—A cui Diogene
- subitamente rispose:—Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe
- come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.—Altra volta,
- essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il
- viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima
- di dipinture e dʼoro e dʼaltre care cose, e non che le mura eʼ palchi,
- ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, sʼaccostò
- a colui che menato lʼaveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che
- presenti erano, dissero:—Perché hai tu fatto cosí, Diogene?—Aʼ quali
- Diogene prestamente rispose:—Percioché io non vedeva in questa casa
- parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.—Oltre a
- ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dellʼ_Ira_, avvenne
- che, leggendo Diogene del vizio dellʼira, un giovane gli sputò nel
- viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando lʼingiuria,
- niunʼaltra cosa disse, se non:—Io non mʼadiro, ma io dubito se sará
- bisogno o no dʼadirarsi.—Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno
- sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale
- sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: —Per certo coloro, che
- dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati.—Fu, secondo
- che Aulo Gellio scrive _in primo libro Noctium Atticarum_, Diogene
- una volta preso: e, volendolo colui, che preso lʼaveva, vendere,
- venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al
- quale Diogene rispose:—Io so comandare agli uomini liberi.—E,
- accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della
- vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle _Quistioni
- tusculane_, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale
- si morí, fu domandato da alcuno deʼ discepoli suoi, quello che voleva
- si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente
- rispose:—Gittatelo al fosso.—Alla qual risposta colui, che domandato
- avea, seguí:—Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche
- e gli uccelli ti manuchino?—Al quale Diogene rispose:—Pommi allato
- il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli.—A cui questo
- addimandante disse:—O come gli caccerai, che non gli sentirai?—Disse
- allora Diogene:—Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché
- eʼ mi mangino?—E cosí si morí: il dove non so.
- «Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore
- di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i
- costumi e le maniere deʼ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si
- fuggí dʼAtene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la
- signoria deʼ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue
- possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate daʼ pruni e da
- malvage piante, disse:—Se io avessi voluto guardar queste, io avrei
- perduto me.—Questi nella morte dʼun suo figliuolo, assai della sua
- fortezza dʼanimo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli
- nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:—Niuna
- cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva
- che colui, che di me era nato, era mortale.—Ed essendo infermo di
- quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla
- cittá, fu domandato se gli piacesse dʼessere portato a morire nella
- cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che
- altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla
- cittá in inferno.
- «E Tale». Tale fu asiano, figliuolo dʼuno che si chiamò Essamite,
- sí come Eusebio scrive _in libro Temporum_; e, secondo che Pomponio
- Mela dice nel primo libro della _Cosmografia_, egli fu dʼuna cittá
- chiamata Mileto, la quale fu in una provincia dʼAsia, chiamata Ionia:
- e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
- egli fu prencipe deʼ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in
- quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
- non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli
- predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe
- la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi
- chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò lʼordine, il quale
- ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua
- opinione che lʼacqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti
- gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano
- procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra.
- E, percioché esso fu deʼ primi filosofi di Grecia e, avanti che il
- nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei
- altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo
- daʼ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola dʼoro, ed
- essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente
- mandata a lui; fu di tanta e sì discreta umiltá, che ricevere non la
- volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni
- scrivono, dʼaver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare
- i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e
- forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri
- lasciando, essendo giá dʼetá di settantotto anni, morí. Ma, secondo
- che scrive Eusebio _in libro Temporum_, pare che egli vivesse anni
- novantadue. Fiorí neʼ tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia
- lʼimperio deʼ medi.
- «Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo
- piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine
- degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli
- solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova
- che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano
- lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta
- di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo
- nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale
- per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane
- seguiva il suo nemico, dimenticato lʼodio, si ritenne ad ascoltarlo.
- Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna
- di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco,
- e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante
- Artaserse.
- «Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di
- lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli
- compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti
- da lui, che pochi eran coloro li quali potessero deʼ suoi testi trar
- frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o
- quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai
- mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di
- Democrito.
- E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu
- nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale
- lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque
- lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace
- e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá
- vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti
- in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa,
- soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza
- prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi
- accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per
- salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni
- i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La
- qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender
- Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali
- fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone
- alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú
- col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal
- guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò
- a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani
- circustanti: e quantunque dʼetá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue
- parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore,
- uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E
- questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.
- Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una
- medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare.
- Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel
- terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il
- quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli
- che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone
- tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati,
- disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava,
- ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che,
- cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti,
- né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ
- circustanti amici del tiranno ucciso fosse.
- «E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e
- che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il
- quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride
- dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse,
- non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che
- esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di
- ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser
- fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i
- frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.
- «E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, _in libro Divinarum
- institutionum in gentiles_ scrive, fu figliuolo dʼApolline e di
- Calliope musa, e a costui scrive Rabano, _in libro Originum_, che
- Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea
- composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti
- scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva
- fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli
- diventar mansuete. Di costui, nel quarto della _Georgica_, racconta
- Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata
- Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore
- tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo,
- cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con
- certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la
- volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo,
- pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per
- che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso
- morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo
- discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a
- cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
- conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in
- compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare
- la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli
- rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro
- rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto
- sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe,
- senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto
- disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire
- sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla.
- Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé;
- laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei
- perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita
- celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo
- il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a
- confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le
- femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in
- tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco,
- che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e
- coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e
- isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino
- nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente
- divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua
- cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre
- imagini celestiali.
- Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere
- stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che
- Solino, _De mirabilibus mundi_, afferma, questi cotali ciconi infino
- nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di
- loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti
- che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia
- a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle
- quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza
- grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di
- volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo
- Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati
- argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi
- sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di
- Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo
- Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero
- padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte
- di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato
- Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello
- faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ
- quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice
- Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco,
- e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ
- cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto
- patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite:
- e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni
- degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora
- dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando
- questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine
- loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si
- prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro.
- Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte,
- e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva
- esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo
- grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito
- di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio _in libro
- Temporum_ scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato
- discepolo dʼOrfeo.
- «Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine
- fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ
- popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché
- si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi,
- giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo
- lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I
- suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque
- in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò
- ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si
- possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri.
- Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼ_Arte vecchia_ e la
- _Nuova_. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro
- chiamato _De oratore_, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò
- che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici
- libri, sì come quello _De officiis, Delle quistion tusculane, De
- natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus,
- De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De
- amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis_ ed altri più: e
- lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna
- memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari
- e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in
- tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu
- fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato
- pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da
- certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione
- ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella
- tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo
- pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ
- romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto.
- E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed
- essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato
- in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di
- quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove
- Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi
- di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da
- Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta.
- Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la
- sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio
- che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel
- campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e
- la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella
- testa che la sua avea liberata da morte.
- «Lino» (_supple_) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in
- musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e
- nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti
- teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu
- aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e
- Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste
- regnarono in Micena ed Egeo in Atene.
- «E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza
- dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo
- appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio
- Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo;
- percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che
- Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della
- cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali
- lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre
- di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni
- dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e
- massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse,
- venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica,
- nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta
- uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e
- presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di
- Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone
- Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito
- neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai
- giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente
- di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi,
- chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte
- facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la
- setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in
- quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi
- alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose
- molti e laudevoli libri, sí come il libro _De beneficiis_, quello
- _De ira_, quello _De clementia_ a Nerone, quello _De tranquillitate
- animi_, quello _De remediis fortuitorum_, quello _De quæstionibus
- naturalibus_, quello _De quatuor virtutibus_, quello _De consolatione
- ad Elviam_ e altri piú. Ma sopra tutti fu quello _Delle pistole a
- Lucillo_, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a
- persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello
- ancora che si chiama _Le declamazioni_. Compose, oltre a questi, un
- altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che
- morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello
- discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da
- Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non
- paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe
- fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da
- lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e
- della sua poca laudevol vita.
- Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto
- dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei
- posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone,
- figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina e discepolo di
- questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun
- dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale
- men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
- Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina,
- sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie,
- rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente
- apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una
- gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva
- per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto
- dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo
- di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed
- avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli,
- lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono
- sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo
- Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte
- le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e
- in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli
- il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando
- che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece.
- Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò
- del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a
- fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo
- ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.
- Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone
- da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ
- centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile
- giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo
- morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria
- malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la
- sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che
- scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue _Storie_,
- tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro
- miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte
- pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò
- dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina
- sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli,
- gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno,
- chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed
- esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare
- fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato,
- che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di
- riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute
- del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno
- non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo
- non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente
- avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole,
- presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale
- Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose:
- niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta
- nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che
- tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il
- quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno
- deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca
- senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole
- del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò
- Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato
- gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
- lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò
- era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono,
- essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e
- della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora
- con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in
- fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove
- per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno
- alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di
- Nerone; e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl
- fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato
- lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con
- forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno
- passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il
- sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene
- delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita
- sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire
- scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che
- dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi
- troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido
- amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva
- apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li
- membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse
- al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua
- molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú
- prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita
- questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore.
- E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna
- pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico,
- arso il corpo suo.
- Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio
- Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca
- aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone
- ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse
- dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú
- fosse stato eletto allʼaltezza del principato.
- Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non
- sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no:
- conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo
- e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata
- singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno
- nellʼultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali,
- bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per
- cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita,
- perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a
- confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte
- di lui da san Girolamo _in libro Virorum illustrium_, nel quale scrive
- cosí: «_Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus,
- et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem
- in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae
- leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus,
- cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se
- dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic
- ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone
- interfectus est_».
- [E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua
- salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú
- caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore;
- parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che
- esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale
- i nostri santi chiamano «_flaminis_», non essendo rigenerato secondo
- il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito
- santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore,
- cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana
- generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di
- Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi
- a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in
- questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile,
- come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello
- crederne che gli pare.]
- [Nota: Lez. XVII]
- «Euclide geometra» (_supple_) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né
- di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo,
- nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo
- di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama
- sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro
- filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle _Teoremate_
- in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
- ottimamente scritto.
- «E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che
- opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato
- di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri
- credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché
- alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la
- incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore,
- sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ
- tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso
- in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse,
- o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo
- astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che
- venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼ_Almagesto_,
- il _Quadripartito_, e ʼl _Centiloquio_, e molte tavole a dovere con
- le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor
- movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi
- che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.
- «Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano _in libro XVIII Originum_
- scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia,
- nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo
- e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un
- fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura
- lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa
- egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e
- lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli
- ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò
- la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che
- Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui,
- investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò;
- appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato
- dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella
- ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di
- Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo
- carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li
- quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi
- petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera
- concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di
- questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che
- Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò
- lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che
- alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la
- quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte
- della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo _De
- historia naturali_, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte
- stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo
- Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano,
- nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento
- anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può
- dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo
- nelle _Questioni del Genesi_ che, avendo una femmina partorito un bel
- figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita
- sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare,
- non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la
- qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta
- di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo,
- fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione
- e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse
- novantacinque anni, e poi si morí.
- [«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione
- nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo
- prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro
- non ne so.]
- «E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove
- primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte
- da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove
- primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu
- scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad
- Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene
- a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano,
- al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e
- dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che
- appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni
- ottantasette, finío la vita sua.
- «Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna;
- altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno,
- intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e
- metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che
- quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non
- seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni
- altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ
- Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera
- dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per
- divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento
- prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e
- dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.
- Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa
- quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa
- raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore
- a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio
- quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali
- che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne
- nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
- raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare
- loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai
- cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il
- quale è intitolato _Sine titulo_, assai chiaro può vedere lui essere
- stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a
- questo, nel libro il quale egli compuose _De arte amandi_, dá egli
- pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi
- Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana
- incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom
- fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle
- sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno,
- nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi
- del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che
- Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse,
- e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il
- tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è
- gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è,
- fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá;
- rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente
- occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata.
- Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna
- fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato
- non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale,
- come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo,
- adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello.
- E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra
- lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere
- appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore
- a se medesimo contradire.
- Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere:
- essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle
- convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e
- queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama
- che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti
- e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese
- sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra
- gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere
- conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo
- non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse, né
- in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere
- in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o
- vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e
- gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende
- esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per
- virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe,
- quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque
- fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato,
- e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose
- peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.
- «Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti
- uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché
- molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può,
- dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti,
- «il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti
- dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non
- solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che
- vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien
- meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le
- particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia,
- si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.
- «La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della
- seconda parte principale della suddivisione del presente canto,
- dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti,
- e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio
- e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si
- scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale
- venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta»,
- aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun
- tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí
- come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori.
- «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che
- luca», cioè faccia lume.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso
- allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del
- precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come
- talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi
- e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo
- dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e
- di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in
- lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal
- mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto,
- cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
- quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga
- con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede,
- dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio
- è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è
- manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per
- lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena
- ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel
- mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per
- questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá
- il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo
- peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo
- nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]
- [Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale
- sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo
- cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno,
- e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è
- qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle
- quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé
- furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo
- dice san Paolo: «_Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare
- transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare_». La
- seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente
- neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice
- nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «_Euntes ergo, docete omnes gentes,
- et baptizate eos_», ecc. La terza maniera si chiama «_flaminis_», cioè
- di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «_Super quem
- videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat_». E
- di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni
- ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa
- usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come
- cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere
- che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «_sanguinis_»,
- e di questa dice lʼEvangelio: «_Baptismo habeo baptizari, et quomodo
- coarcor, usque dum perficiatur_?» E in questo credo esser battezzati
- coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di
- pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare,
- e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli
- uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire.
- Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: _Esodo_: «_Divisa
- est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris_». Nel
- secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali
- dice lʼEvangelio: «_Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit_».
- Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono,
- e di questi dice lʼ Evangelio: «_Nisi quis renatus fuerit ex aqua et
- Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum_». Nel quarto sono
- battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «_Calicem
- quidem meum bibetis_», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio
- dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá
- Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi
- battesimi battezzato fosse.]
- Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per
- difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia
- al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto
- commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori
- si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che
- con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come
- i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire,
- cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati
- dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli
- sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta
- nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione
- recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu
- commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti;
- punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per
- alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della
- giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola
- gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza
- dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è
- gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono
- intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai
- ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente
- disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ
- quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno
- esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto
- dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena
- la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente,
- trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se
- morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema
- miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che
- alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre
- maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e
- come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.] [Intorno
- alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare
- che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra
- opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli
- li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a
- quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove,
- par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla
- ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio,
- e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol
- fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali
- anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in
- ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore
- abbia tanto bene opinato.]
- [Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente
- neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non
- scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata
- redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia:
- «_Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël
- autem me non cognovit_». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello
- che san Paolo dice: «_Ignorans, ignorabitur_», e massimamente a quegli
- deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «_Noluit intelligere,
- ut bonum ageret_». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a
- questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né
- lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará
- nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «_Non novi vos, discedite a me,
- operarii iniquitatis_». La qual cosa accioché avvenir non possa, con
- ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio,
- e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna
- maniera scusarsi.]
- [Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia
- riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori
- giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra
- ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza _facti_» ed
- alcunʼaltra «ignoranza _iuris_». E vogliono che ignoranza _facti_
- sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
- pervenuta alla notizia degli uomini: _verbi gratia_, il papa col
- collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge
- fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna
- cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante
- questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o
- vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza
- _facti_, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe
- manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno
- indovinare.]
- [Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam
- sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo
- secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi
- che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala,
- e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare
- e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il
- debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando
- non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi
- dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per
- dire e per giurare:—Io non fui mai in parte dove questa proibizion
- si facesse;—percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento
- dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli
- con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta,
- cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza
- iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per
- la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di
- seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si
- possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza _facti_, e
- per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ
- nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza _facti_, si può in
- questa maniera comprendere.]
- [Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura
- cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale,
- che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della
- gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in
- diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non
- solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e
- ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui
- il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava
- ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono.
- Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni,
- che piú di sentimento cominciarono a prendere «_a naturali_», una
- brieve legge aggiunsero, cioè:—Non far quello ad altrui, che tu non
- volessi che fosse fatto a te.—E da questa nacque un modo di vivere
- piú universale, il quale essi chiamarono «_ius gentium_»: per lo quale
- assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ
- popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo
- quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano
- alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano
- e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte
- nazioni.]
- [Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad
- alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare
- le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender
- regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della
- sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che
- fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi
- diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli
- altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò
- e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa
- medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam.
- Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in
- grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il
- rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli
- re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi
- delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e
- menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se
- non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava;
- Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due
- tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il
- popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge,
- che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo
- Eusebio _in libro Temporum_, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno
- del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno
- quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo
- tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in
- Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi,
- morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza
- cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto,
- e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo
- la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue
- guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime
- avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome
- acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si
- dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati,
- tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]
- [Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali
- sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si
- dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le
- leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge
- data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di
- vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che
- Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o
- con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo?
- Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne
- alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé
- per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si
- dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi
- della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto
- queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della
- futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo
- io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
- Isaia: «_Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius
- fuit_?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il
- dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici
- dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo,
- come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non
- fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la
- loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza
- facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso,
- presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere
- questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe
- ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto
- che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo
- gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean
- veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui
- essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate
- le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti
- guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva,
- e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan
- però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non
- facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della
- quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro
- dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e
- magnificarono per loro Iddio?]
- [Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro
- annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita
- che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non
- chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire
- i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire:—Iona
- fu mandato da Dio a Ninive;—ma esso non andò ad ammaestrargli della
- legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe.
- E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono
- reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser
- sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in
- quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si
- debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non
- fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí,
- quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella
- celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che
- viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo
- esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per
- lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita
- eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini
- arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il
- salmista; «_Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces
- eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae
- verba eorum_». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni,
- e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni
- e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le
- nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede
- alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per
- quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia
- intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma
- speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto,
- se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non
- furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano
- indovinare.]
- [Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli
- e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro
- sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare,
- eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello
- che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio,
- furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente
- vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze,
- lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni
- altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno
- di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben
- fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo
- con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si
- dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di
- Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di
- ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne
- dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]
- [Se forse volessero alcuni dire:—Cosí come per forza dʼingegno essi
- adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e
- la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei,
- gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per
- conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli
- che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli
- ammaestrassero—potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto
- gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan
- tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo
- ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli
- affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo
- pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí
- essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in
- cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá
- rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e
- desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla
- loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione,
- non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli
- ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei
- e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non
- potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di
- fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]
- [Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che
- Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data
- manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la
- loro ignoranza, sí come ignoranza _facti_, si debba potere scusare?
- E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che
- quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li
- quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che
- par che san Paolo voglia, quando scrive: «_Servus nesciens vel ignorans
- voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis_»; e in altra
- parte: «_Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci_».]
- [_De ignorantia iuris_ non dico cosí; percioché, come di sopra
- dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata
- e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la
- ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e
- supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non
- lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata
- per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro
- virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la
- sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma
- a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è
- Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali
- io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente
- nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo:
- «_A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur_», ecc. E
- il salmista: «_Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non
- exaudirent voces_», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola,
- che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «_ignorans
- ignorabitur_», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno,
- che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto
- alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]
- [Nota: Lez. XVIII]
- Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso
- da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura
- che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E,
- secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono
- della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo,
- cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due
- spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie
- deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i
- naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la
- cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini
- e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí
- eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino
- il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale
- circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose,
- dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non
- si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo
- bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze,
- i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima
- apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose
- si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che
- non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come
- lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono
- aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili
- come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno;
- oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in
- quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor
- questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad
- intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a
- rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò,
- chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien
- passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non
- con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni
- e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente
- scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua,
- cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella,
- e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria
- Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per
- la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili:
- li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e
- disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche
- degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello,
- cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè
- con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar
- quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si
- perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò
- con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le
- quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano
- gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava,
- al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ
- liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle
- rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse
- intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i
- predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ
- quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la
- dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano
- le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si
- solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno
- da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol
- divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne
- alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la
- grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la
- rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a
- ciascuno.
- Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi
- cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il
- qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato
- della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè
- daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro
- che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è
- verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte
- dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui
- il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini,
- e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ
- quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere
- deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque
- facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito,
- con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti
- i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante
- dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di
- coloro che son degni di laude.
- Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini
- dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al
- quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole,
- che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa
- è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare
- ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare
- le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose
- opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o
- dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla
- battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
- ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare
- è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia,
- li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
- nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno
- tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si
- riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina
- militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in
- quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne,
- le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici
- discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non
- gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre
- nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi
- filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e
- delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo
- stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre
- ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito,
- nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare;
- trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di
- servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori,
- acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli,
- dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune
- dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei
- nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella
- iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno
- adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ
- filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece
- lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose
- donne in compagnia deʼ solenni filosafi.
- CANTO QUINTO
- I
- SENSO LETTERALE
- «Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come
- negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose:
- e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli,
- partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori
- di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci
- nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra
- come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in
- questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua
- alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda
- parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ
- peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e
- in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella
- pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi
- puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar
- gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza
- quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la
- quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che
- lʼuno spirto».
- Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da
- queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio
- primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno;
- e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio,
- «che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion
- perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e,
- quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che
- ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor»,
- in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in
- sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè
- a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non
- avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il
- superiore, egli è molto maggior di pena.
- «Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor
- mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori;
- e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di
- trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare
- del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui
- trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i
- peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte
- quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando:—«Guai
- a voi, anime prave», ecc.;—nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli
- spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e
- ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque:
- «Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo
- Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e
- ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola
- dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e
- fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con
- operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto,
- fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle
- pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli
- avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e
- bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si
- mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine
- piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo
- per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal
- disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente
- portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare,
- e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine,
- paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto
- piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando,
- il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi,
- ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di
- tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos,
- divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata
- Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole,
- intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
- neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza
- oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per
- invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos,
- avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per
- andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al
- padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a
- essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual
- fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro
- bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come
- Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello
- per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti,
- per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio
- dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i
- megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re
- deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli
- ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise
- e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose
- imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette
- liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui
- che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali in anniversario
- dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli
- ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro
- a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del
- Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che
- Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza
- averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed
- ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta
- ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e
- di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e
- mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria
- della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo
- ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del
- laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non
- fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di
- mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva
- nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza
- dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro
- cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna
- di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno
- ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti
- andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire,
- se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto
- per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che
- per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che
- Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di
- Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio
- liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò
- Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte
- alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia,
- e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano
- incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che
- Aristotile scrive nella _Politica_, fu dalle figliuole di Crocalo
- ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ
- cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti,
- fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí
- Virgilio:
- _Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum conciliumque vocat,
- vitasque et crimina discit,_ ecc.
- Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá
- dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di
- quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú
- della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime
- nʼè parte mescolata.
- Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire
- gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente
- persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della
- eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina,
- dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su
- una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea
- per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti,
- li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun
- segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti
- figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella
- in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza
- avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi
- re di Creti, secondo che scrive Eusebio _in libro Temporum_, la prese
- per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto.
- E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser
- figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o
- perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale
- noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa,
- che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente
- giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute
- non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo
- se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò
- che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori,
- mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto
- da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che
- esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono
- avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio
- non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli
- apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in
- Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la
- guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in
- Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta.
- Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno,
- percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam
- dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose
- le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò
- uficio di giudice.
- Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore
- delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi
- «orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia».
- Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo
- albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú
- caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo
- Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo
- esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare
- delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il
- luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare,
- senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita
- qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene
- che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la
- esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e,
- dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato.
- E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia
- mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere
- una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che
- ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè
- secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda
- sua.
- Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto
- lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice:
- «Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator
- dannato («_quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille_»),
- «Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta
- sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa,
- cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non
- potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli
- occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò
- che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè
- Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni
- opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno,
- cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá
- di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede
- qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia
- conveniente alla sua colpa.
- «Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia
- messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace,
- esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il
- centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti
- e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande
- intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna
- anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di
- doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi,
- esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e,
- mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole
- attende alla esaminazione.
- «Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è,
- la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di Dio è molta: e queste
- cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra,
- come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
- quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e
- poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di
- questo giudice.
- —«O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie
- di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che
- vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno,—«Disse Minos a me, quando mi
- vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto
- offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime
- deʼ dannati:—«Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra
- in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»:
- volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione
- il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia
- saputo salvare. Quasi voglia dire:—Virgilio non ha saputo salvar sé,
- dunque come credi tu che egli salvi te?—Sentiva giá questo dimonio
- per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso
- fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor
- non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso
- dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza
- dellʼentrare»,—la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro
- entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo
- dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole
- esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna
- volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non
- sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a
- salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede
- loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma
- cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto
- miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed
- inganno.
- Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui:—Perché pur gride?» Non poté
- sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione, conoscendo che
- egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse
- per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con
- parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di
- spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale
- andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.
- E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si
- dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova
- nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa
- dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio _in libro De
- consolatione_ ditermina, fato non è altro che disposizione della
- divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo
- par sentire santo Agostino nel quinto _De civitate Dei_; il quale, poi
- che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «_Sententiam
- tene, linguam comprime_»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma
- schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione.
- E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché
- allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor
- tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto
- si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero
- avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto
- fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li
- quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni
- e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e
- sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si
- può traʼ savi ogni vocabolo usare.
- «Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria
- di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si
- puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote
- ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»;—quasi dica:—A te non
- sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo.—
- «Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
- qual dissi si conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si
- punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo
- Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino
- a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza
- udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le
- dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali
- si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto
- mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere
- percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si
- muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova,
- delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.
- «Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè
- risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti,
- il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che
- noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice:
- «come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto»,
- cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá
- deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
- mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»:
- e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a
- discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo
- è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono
- confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor
- del mare.
- «La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato
- parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e
- rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo
- bene, chiama Aristotile nella _Meteora_ «_enephias_», il quale è
- causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti
- in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna
- nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con
- impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido
- e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli
- abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide
- uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto;
- anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e
- quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a
- tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che
- lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá
- della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo
- luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato
- perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa
- quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua
- rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»:
- per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento
- che detto è, cioè _enephias_; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in
- questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio
- dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon
- pena.
- Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso
- e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla
- ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida»,
- comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri;
- «Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra
- la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che
- questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi
- bestemmiano Iddio.
- «Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la
- qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo
- tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che
- a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator
- carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E,
- come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun
- peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá;
- vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda
- singularmente per li lussuriosi.
- Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una
- comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i
- peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e
- dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo
- tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli
- e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di
- passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in
- quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme:
- «Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali»,
- cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di
- lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno
- contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a
- questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai»,
- questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna
- volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor
- pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.
- «E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una
- brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella
- parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento
- menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor
- lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per
- parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma
- di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé»,
- medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale
- essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno
- lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li
- quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo
- guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera.
- «Per chʼio dissi:—Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí
- gastiga?»-cioè tormenta, impetuosamente portandole.
- —«La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
- nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a
- questa pena. Dice adunque:—«La prima di color», che cosí son portati,
- e «di cui novelle Tu vuoʼ saper»—, cioè la condizione e la cagione
- perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta—Fu
- imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle
- quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí
- rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno
- a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che
- lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece
- «in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché
- questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via
- «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste
- operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il
- vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge»,
- appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito,
- dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino
- visse.
- Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali
- fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua
- istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione,
- non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere
- stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli
- assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette
- costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
- Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta
- Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne
- che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la
- donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí
- grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato,
- pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere
- i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi
- e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in
- alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso
- ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e
- similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del
- figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E, per poter meglio
- celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale
- essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi
- velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare
- alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a
- tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo
- sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo
- acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare,
- e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato
- da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo
- debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí
- India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era
- stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in
- molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi
- esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle
- predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot
- edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella
- tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile
- grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e
- posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia
- carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere.
- E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le
- trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato
- che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo
- figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato
- stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi
- gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti,
- con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai
- dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto
- la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta
- non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí
- animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua
- grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati
- avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia, la quale
- nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile
- operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e
- disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá
- testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli
- giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che
- quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere.
- Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri,
- i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che
- affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo:
- e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo
- servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento,
- il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e
- di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo.
- Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto
- il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni,
- lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse,
- ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o
- perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera
- di lei il privasse del regno.
- Appresso, pur di lei seguendo, dice lʼautore: «Tenne la terra, che ʼl
- soldan corregge», la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia,
- non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da
- una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale dʼEgitto,
- la quale edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella
- assalí Egitto. Se ella lʼoccupò o no, non so.
- «Lʼaltra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che
- sʼancise amorosa», cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con
- altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.
- Vuole lʼautore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei
- essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della
- quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente
- Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re deʼ
- fenici. Il quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e
- lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani deʼ suoi sudditi, li quali
- in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era,
- diêro per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba,
- il quale era sacerdote dʼErcule, il quale sacerdozio era, dopo il
- reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente
- sʼamarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa
- Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo lʼavarizia del cognato, ogni
- suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto allʼorecchie
- di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare,
- e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo
- Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo
- di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni
- feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata
- Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini deʼ
- fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi
- navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del
- luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli
- fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi,
- quegli che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle
- navi sacchi pieni di rena e guardarli bene. Ed essendo con coloro, li
- quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto
- mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero
- gittati in mare. E, come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i
- marinai e gli altri, lagrimando disse:—Io, facendo gittare in mare
- tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale
- io ho lungamente disiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi
- amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito punto, che,
- come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli
- fará crudelmente me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco
- insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di
- non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno.—La qual cosa udendo i
- miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria,
- nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone, agevolmente
- sʼaccordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse
- di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi
- a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina
- trovarono, persolventi secondo il costume loro li primi gustamenti di
- Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli deʼ giovani che con
- lei erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito
- nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta
- la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover
- seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi
- partitasi, e pervenuta nel lito affricano, costeggiando la marina deʼ
- massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco
- appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo
- esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo aʼ marinai faticati,
- prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale per disiderio di
- vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate,
- cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro
- essere a grado aʼ paesani, ed essendone ancora confortati da quegli
- dʼUtica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque
- Didone udisse per alcuni, che seguita lʼavevano, Pigmaleone fieramente
- minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E,
- accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler fare, non
- piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da
- quegli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta
- dividere, assai piú che alcuno estimato non avrebbe, occupò di terreno.
- E, quivi fatti eʼ fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò
- Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i
- compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi
- credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura
- della cittá, le torri eʼ templi, il porto e gli edifici cittadini
- saliron su, e apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora
- potente e a difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il
- modo del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata
- reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e
- della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re deʼ
- mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio dʼaverla
- per moglie; e, fatti alcuno deʼ principi di Cartagine chiamare, la
- dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse, esso
- disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo
- il fermo proposito di lei di sempre servar castitá, temetton forte
- le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone, domandantene, ciò
- che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare
- la vita e i costumi barbari e dʼapprendere quegli deʼ fenici. Perciò
- voleva alquanti di loro che in ciò lʼammaestrassero; e, dove questi
- non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E
- però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con
- lui andar si volesse, temevan forte non quello avvenisse che il re
- minacciava. Non sʼaccorse la reina dellʼastuzia, la quale usavano
- coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse:—O nobili
- cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi
- nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino
- colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il
- richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute
- della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi
- rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá.—Come i nobili
- uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve
- loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle
- la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina
- ebbe udita, cosí sʼaccorse se medesima avere contro a sé data la
- sentenzia e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí
- dʼopporsi allo ʼnganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
- seco prese quel consiglio che allʼonestá della sua pudicizia le parve
- di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella andrebbe
- volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a dovere
- andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta parte della
- cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella
- facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola lʼanimo di
- Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di
- vestimento bruno, e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro
- consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e, aspettante tutta
- la moltitudine deʼ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse
- di sotto aʼ vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato
- Sicheo, disse:—O ottimi cittadini, cosí come voi volete, io vado al
- mio marito.—E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con
- grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata,
- versando il castissimo sangue, passò di questa vita.
- Virgilio non dice cosí, ma scrive nello _Eneida_ che, avendo Pigmaleone
- occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone,
- Sicheo lʼapparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmaleone
- avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la
- confortò che ella si partisse di quel paese. Per la qual cosa ella
- prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far Cartagine,
- Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a
- Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta
- dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta, si partí per
- venire in Italia: di che ella per dolore sʼuccise. La quale opinione
- per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse.
- Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno dopo il disfacimento
- di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu
- distrutta lʼanno del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il
- detto Eusebio scrive essere opinione dʼalcuni, Cartagine essere stata
- fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola,
- dopo Troia disfatta, centoquarantatrè anni, che fu lʼanno del mondo
- quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata
- fatta da Didone lʼanno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora
- appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine
- essere stata fatta lʼanno del mondo quattromilatrecentoquarantasette.
- Deʼ quali tempi, alcuno non è conveniente coʼ tempi dʼEnea: e perciò
- non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio _in libro Saturnaliorum_
- del tutto il contradice, mostrando la forza dellʼeloquenza esser tanta,
- che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa
- di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu
- adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo,
- sʼuccise. Ma lʼautore séguita qui, come in assai cose fa, lʼopinion di
- Virgilio, e per questo si convien sostenere.
- «Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo lʼautore aver posto questo
- aggettivo a costei, a differenza di piú altre Cleopatre che furono,
- delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di
- questo vizio, come costei, della qual qui intende.
- Cleopatras fu reina dʼEgitto e, per molti re medianti, trasse origine
- da Tolomeo, figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei
- essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re dʼEgitto. Altri dicono
- il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re dʼEgitto,
- il quale, essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro
- figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al
- tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il
- maggior deʼ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie
- Cleopatra, sua sirocchia, e di piú di che lʼaltra, insieme dopo la
- morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione.
- Ma, ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e
- fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá
- Pompeo magno quasi tutta lʼAsia costretta ad ubbidire aʼ romani,
- venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor
- fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra,
- come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa, avvenne
- che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto
- uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria,
- e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece
- davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti
- al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran
- fidanza, percioché bella femmina fu, ornata di reali vestimenti
- comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli
- occhi e con gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che,
- avendo Cesare piú notti comuni avute con lei, ed essendo giá il
- giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno,
- che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il
- reame dʼEgitto, menatane Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché
- per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque
- Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si
- diede che dar si possa disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar
- tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne
- amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi dʼEgitto e le sagre
- case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo,
- essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e
- da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in
- forma dʼonorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese
- e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa,
- accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere
- Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita
- fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato nella sua
- dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e dʼArabia,
- li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande
- ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla alquanto, le diede
- di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato Antonio,
- il quale andava in Partia, infino al fiume dʼEufrate, e tornandosene,
- ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco
- davanti per opera dʼAntonio stato coronato di quel reame: lá dove ella
- non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua
- dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli
- sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare
- da dosso ad Antonio lʼignominia di costei, diliberò dʼucciderla; ma,
- dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò
- tornare in Egitto. Dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in
- fuga daʼ parti sʼera tornato, essendo in lei lʼardor cresciuto del
- signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio
- di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che egli gliele promise. Ed
- essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per
- lʼavere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia dʼOttaviano,
- e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale,
- ornata con vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e,
- sú montátivi, nʼandarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
- combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere
- provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover
- vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
- la vela dʼoro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale
- incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti
- pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a
- dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo
- molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace,
- le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano
- usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi
- presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter
- pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi avea,
- e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era da
- Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá dʼanimo sofferendo di
- dover divenire spettaculo deʼ romani, vestendosi i reali ornamenti,
- lá se nʼentrò dove il suo Antonio giaceva morto, e, postasi a giacere
- allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose
- una spezie di serpenti, chiamati «ypnali», il veleno deʼ quali ha ad
- inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto: e cosí addormentata
- si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di
- ritenerla in vita, fatti venir alcuni di queʼ popoli che si chiamano
- «psilli», e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e
- tirar fuori lʼavvelenato sangue daʼ serpenti; ma ciò fu fatica perduta,
- percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.
- Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta,
- e dʼaltra spezie di morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non,
- nellʼapparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con
- la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato
- di bere né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad
- altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della
- sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il
- dí davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e
- in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa,
- che ella lo ʼnvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
- quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea:
- e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e
- disse:—Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con
- queste tue disusate pregustazioni tu mostri dʼaver sospetta: e però, se
- io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo
- nʼho, e tu me nʼhai data cagione;—e quindi mostratogli lo ʼnganno, il
- quale adoperato avea neʼ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e
- guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a
- lui vietato che non bevesse; e cosí lei vogliono esser morta. La prima
- opinione è piú vulgata: senza che, a quella sʼaggiugne che, avendo
- Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano
- comandò che compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.
- «Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto
- reo Tempo si volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale
- per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga
- dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena
- fu rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette
- Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nellʼultimo libro della
- sua _Iliade_ dimostra, là dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di
- Ettore, fa dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni
- appo Priamo eʼ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa
- parola. È il vero che di questi venti anni non fu lʼassedio continuato
- intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere
- li dieci primi essersi consumati e nel raddomandare Elena, il che piú
- volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa
- contro aʼ troiani, e nel dar ordine e nel fare lʼapparecchio delle cose
- opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto
- peggiori che i primi, percioché in essi furono dintorno ad Ilione fatte
- molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo
- assai.
- Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda,
- moglie di Tindaro, re dʼOebalia, e lui dicono in forma di cigno,
- con lei bellissima donna e madre dʼElena, esser giaciuto, narrando
- in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei
- essere stata figliuola di Tindaro, re dʼOebalia, e di Leda, e sirocchia
- di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad
- ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la
- penna faticò il divino ingegno dʼOmero, ma ella ancora molti solenni
- dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra
- gli altri, sí come Tullio nel secondo dellʼ_Arte vecchia_ scrive,
- fu Zeusis eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi
- contemporanei e molti deʼ predecessori trapassò. Questi, condotto
- con grandissimo prezzo daʼ croteniesi a dover la sua effigie col
- pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica
- dʼanimo tutte le forze dello ʼngegno suo; e, non avendo alcun altro
- esemplo, a tanta operazione, che i versi dʼOmero e la fama universale
- che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esempio
- assai discreto: percioché primieramente si fece mostrare tutti i beʼ
- fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi
- elesse cinque, e delle bellezze deʼ visi loro e della statura e
- abitudine deʼ corpi, aiutato daʼ versi dʼOmero, formò nella mente sua
- una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto lʼarte potè seguire
- lʼingegno, dipinse, lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla
- posteritá per vera effigie dʼElena. Nel quale artificio, forse si poté
- abbattere lʼindustrioso maestro alle lineature del viso, al colore e
- alla statura del corpo: ma come possiam noi credere che il pennello e
- lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza
- di tutto il viso, e lʼaffabilitá, e il celeste riso, e i movimenti
- vari della faccia, e la decenza delle parole, e la qualitá degli atti?
- Il che adoperare è solamente oficio della natura. E, percioché queste
- cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare
- la penna loro, la finsero figliuola di Giove, accioché per questa
- divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore
- degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale
- la volantile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi
- cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá
- della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia
- e della splendida fronte e della gola dʼavorio, e le delizie del
- virginal petto, con le altre parti nascose daʼ vestimenti. Da questa
- tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo dʼEgeo, re dʼAtene,
- tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare,
- secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua
- etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la
- troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure
- alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un dubbio,
- conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo sʼaccordino, che
- Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser
- stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra, madre di Teseo, non
- essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi fratelli,
- raddomandantila. Altri dicono che Teseo lʼavea raccomandata a Proteo,
- re dʼEgitto, e che esso in assenza di Teseo lʼaveva renduta aʼ
- fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura, fu maritata a
- Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato
- in Creti, fu da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in
- Troia, e, secondo che alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri
- dicono che ella fu dal detto Paris rapita dʼunʼisola chiamata Citerea,
- dove ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume
- antico, vegghiava la notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio
- faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che affermano
- senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del
- vegghiare, e come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le
- vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo
- stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello:
- e, per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo lʼordine del
- trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante
- dʼandarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando
- vide il tempo atto al disiderio deʼ greci, con un torchio acceso diede
- lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e
- ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri
- la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua
- volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e diede il cenno
- aʼ greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia, da
- noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo
- re onorevolmente ricevuti; e, oltre a questo, essendo da diversi casi
- ritenuti, lʼottavo anno dopo la distruzione dʼIlione, tornarono in
- Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua _Odissea_, che Telemaco,
- figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa
- dir gli sapesse dʼUlisse, gli trovò far festa e nozze grandissime,
- avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato
- Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi
- ricorda aver trovato.
- «E vidi ʼl grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine»,
- della sua vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio
- dʼApollo timbreo lʼassalirono e uccisono; nel quale Ecuba lʼaveva
- occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli
- per moglie Polissena.
- [Nota: Lez. XIX]
- Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze,
- ecc. non fu invitata la dea della discordia, ecc.; e fu dʼuna cittá
- di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella _Iliada_, chiamata Ptia:
- il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu
- portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte e paziente delle
- fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero
- nellʼonde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il
- quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che
- lo allevasse. Il quale il nutricò, non in quella forma che gli altri
- tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo
- solamente di medolla dʼossa di bestie prese da lui; e questo faceva,
- accioché egli, per continuo esercizio, si facesse forte e destro a
- sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere
- stato nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e
- «_chilos_», che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato
- senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare
- certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata
- rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne
- seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, sʼingegnò di
- schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente,
- e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone
- il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un
- re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato
- che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse
- una vergine, gliele diede che il guardasse tra le figliuole. Ma questo
- non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di Licomede,
- cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò,
- si giacque; e per la comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad
- alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto.
- E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un
- figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero
- tutti fatta congiurazione contro aʼ troiani, avendo per risponso avuto
- non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare
- di lui, con la sagacitá dʼUlisse fu trovato e menato a Troia: dove
- andando, prese piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola
- del sacerdote dʼApolline, la qual donò ad Agamennone, e unʼaltra, che
- presa nʼavea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto,
- per risponsi deglʼiddii, che Agamennone avesse la sua restituita al
- padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille,
- non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse
- combattere contro aʼ troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente
- malmenati daʼ troiani, avendo egli concedute le sue armi e il carro
- a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato
- sʼarmò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo
- senza sepoltura dodici dí, e ultimamente rendutolo a Priamo, e poi
- perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore,
- suspicò Ecuba costui non doverle alcuno deʼ figliuoli lasciare, per
- che con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua
- figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú non prendere arme
- contro aʼ troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché
- neʼ tempi delle tregue veduta lʼavea, ed eragli oltre ad ogni altra
- femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba,
- secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel
- tempio dʼApollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura dʼIlione,
- credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso,
- gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente
- ammaestrato nellʼarte del saettare, aperto lʼarco, il ferí dʼuna saetta
- nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser
- ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde e fu
- ucciso, e poi seppellito sopra lʼuno deʼ promontori di Troia, chiamato
- Sigeo.
- «Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro,
- fu figliuolo di Priamo e di Ecuba, del quale Tullio _in libro De
- divinatione_ scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della
- quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una
- facellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a
- Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo,
- il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea
- di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo
- comandò che il figliuolo che nascesse, ella il facesse gittar via.
- Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un
- bel fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento
- di Priamo, gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori
- del re, che lʼallevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella
- selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto
- grande, quivi primieramente usò la dimestichezza dʼuna ninfa del luogo
- chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, deʼ quali chiamò lʼuno
- Dafne e lʼaltro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva,
- addivenne un grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque
- persona con maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto
- quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris,
- quasi «eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che
- Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e
- Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non vʼera
- stata chiamata, preso un pomo dʼoro, vi scrisse sú che fosse dato alla
- piú degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di
- che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come
- a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione
- grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle
- dare, ma disse loro:—Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo
- chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna.—Per
- la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una
- parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a lui la
- lor quistione, dicendo Giunone:—Io sono dea deʼ regni: se tu dirai
- me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di
- molti.—Dʼaltra parte diceva Pallade:—Io sono dea della sapienza: se
- tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere.—Venere
- similemente diceva:—Io sono dea dʼamore: se tu dai, come a piú degna,
- il pomo a me, io ti farò avere lʼamore e la grazia della piú bella
- donna del mondo.—Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione,
- egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa,
- come appresso si dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio
- dice essere stato da Nerone raccontato nella sua _Troica_, fortissimo,
- intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a
- Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi
- dʼessere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo
- mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che
- Paris, che giá daʼ suoi nutritori saputo lʼavea, gridò forte:—Io son
- tuo fratello;—che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le
- quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella
- casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò,
- che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto
- spezie dʼambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove
- alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue _Pistole_, che esso
- fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in
- Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della
- bellezza dʼElena essere andato in Isparten, e quella avere combattuta
- il primo anno del regno dʼAgamennone, non essendovi Castore né Polluce,
- fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano
- menata Ermione, figliuola di Menelao e dʼElena. E cosí, avendo presa la
- cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i
- tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual
- cosa assai elegantemente tôcca Virgilio, quando dice:
- _Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter?_ ecc.
- E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver
- meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú
- bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia
- menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in
- lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa
- rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel
- quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo
- Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.
- Séguita poi: «Tristano».
- Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re
- Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti
- romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men
- che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per
- la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde
- vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò,
- e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò
- il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti
- insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli
- ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.
- «E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille»,
- quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»;
- «Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente
- chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte;
- percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.
- «Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
- nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena
- parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne
- antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui
- quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che
- noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ
- dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle
- medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla
- giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover
- temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci
- ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose
- adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via
- di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione,
- quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun
- peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E,
- avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai:—Poeta,
- volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella
- bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri»,—cioè con
- minor fatica volanti. «Ed egli a me:—Vedrai quando saranno», menati
- dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor,
- che i mena», qual che quello amor si sia, «ed eʼ verranno», qui, da
- quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl
- vento a noi gli piega, Muovi la voce»—cioè priega come detto tʼho.
- Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a
- dire in questa guisa:—«O anime affannate», dal tormento e dalla noia
- di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega»,—cioè se voi
- potete.
- «Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con
- quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali
- colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate,
- «Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce
- nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura
- per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal
- voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra
- guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi
- due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano
- per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer
- maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè
- sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere
- che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí:—«O animal grazioso e
- benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente
- pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri
- della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per
- lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno»,
- quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque
- toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è
- nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la
- tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro
- mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e
- che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a
- vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl
- vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non
- cʼinfesta.
- [Nota: Lez. XX]
- «Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza
- essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri.
- Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse,
- e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa
- nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei
- fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e
- di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
- Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e
- composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse,
- piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado;
- e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per
- moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca,
- a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad
- alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a
- messer Guido:—Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete
- modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire
- scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè
- dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio
- sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per
- marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener
- questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci
- un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome
- di Gianciotto.—Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi
- dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa,
- quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer
- Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo
- quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò
- segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato.
- Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto,
- con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e
- piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini
- per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di
- lá entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio dʼuna finestra a
- madonna Francesca, dicendole:—Madonna, quegli è colui che dee esser
- vostro marito;—e cosí si credea la buona femmina; di che madonna
- Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi
- artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna
- a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina
- seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che
- si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò
- rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale
- come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che
- lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo
- quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile
- ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí
- fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza,
- ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá,
- quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual
- cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui,
- e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando
- volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente
- turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto
- Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato
- allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata
- era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per
- che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per
- fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si
- scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo
- suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse
- ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi
- giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad
- un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo
- giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi
- trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente
- sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno
- stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene,
- accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo
- tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo
- stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che
- egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della
- donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato
- Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna,
- ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni
- lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo.
- Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente,
- seppelliti e in una medesima sepoltura.
- Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine
- cominciando:—«Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di
- Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini,
- quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ
- nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al
- quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che
- essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle
- montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso
- il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi
- discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si
- divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra
- ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara,
- similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso
- Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro,
- mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che,
- mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette
- in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.
- «Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni
- il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte;
- e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice
- essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga
- pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo
- volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola
- dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò.
- Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore
- dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione,
- è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che
- questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu
- figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro _De natura
- deorum_ testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze,
- sí come per Seneca appare nella tragedia dʼ_Ipolito_, nella quale dice:
- _Et iubet caelo superos relicto
- vultibus falsis habitare terras.
- Thessali Phoebus pecoris magister
- egit armentum, positoque plectro
- impari tauros calamo vocavit.
- Induit formas quotiens minores,
- ipse, qui caelum nebulasque ducit?
- Candidas ales modo movit alas,_ ecc.
- E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare
- sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra
- materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam
- dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi
- corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche,
- prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché,
- secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
- precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno,
- Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e
- trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora
- nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere
- essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del
- _Quadripartito_ che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere
- insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a
- concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e
- alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto
- come questo cotal vede alcuna femmina, la quale daʼ sensi esteriori
- sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è
- portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene
- alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella
- alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella
- spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè
- allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle
- spezie, sí come Aristotile scrive _in libro De anima_. Quivi, cioè in
- questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
- sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui,
- nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá
- di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa
- cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria
- la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore
- ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza
- ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien
- sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e
- a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna
- volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente
- si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere
- generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra
- è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione
- secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse,
- questa passione non si genererebbe.
- Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come
- vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò,
- e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato
- e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè
- flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella
- passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e
- ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in
- compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale
- io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel
- quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.
- [Nota: Lez. XXI]
- «Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza
- dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene
- dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel
- canto ventiduesimo, dicendo:
- amore
- acceso da virtú, sempre altro accese,
- pur che la fiamma sua paresse fuore.
- Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade
- volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè
- a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene,
- può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente
- ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá
- i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si
- dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non
- perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato
- ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di
- costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun
- che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza,
- «Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu
- fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io
- lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di
- Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼ_Eneida_, Sicheo perseverare
- nellʼamor di Didone, dove dice:
- _Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
- in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
- respondet curis aequatque Sichaeus amorem_, ecc.
- [Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché
- la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato
- abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli
- porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente
- sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole,
- a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.]
- «Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in
- un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del
- presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale
- peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli
- sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal
- peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si
- puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò
- dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise
- lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci
- spense»,—cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il
- qual si può dire «spegner di vita».
- «Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna
- Francesca, parlante per sé e per Polo.
- «Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí
- dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha
- udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta
- mi disse:—Che pense?»—quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad
- altro.—
- «Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire:—«O
- lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da
- speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto
- disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al
- doloroso passo!»—della morte.
- «Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai:—Francesca, i tuoi
- martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio»,
- cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè
- quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come»,
- cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli
- amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire
- il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te,
- «i dubbiosi disiri?»—Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti,
- percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno ami lʼaltro e
- lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino
- a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.
- «Ed ella a me:—Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»:
- chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per
- rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama
- «miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è:
- e questo assai chiaro testimonia Boezio, _in libro De consolatione_,
- dicendo: «_Summum infortunii genus est, fuisse felicem_»; «e ciò
- sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della
- narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore
- di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma,
- se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro
- amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor
- gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore,
- madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella
- radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui
- lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor
- tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei
- che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per
- diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose
- raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú
- composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor
- lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere
- stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del
- re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre
- cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente
- adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere
- gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno
- impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun
- lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal
- volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che,
- da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono
- e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo
- un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio
- mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata
- letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto
- amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior
- cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia
- diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto
- di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che,
- quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si
- comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la
- prima volta il prendono.
- «Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi
- che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante,
- sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore
- di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti
- proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale
- egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento
- seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire
- questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando
- con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro
- della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí
- vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed
- ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra
- Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui
- che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe
- esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo
- avante»:—assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa,
- i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo
- seguitasse.
- «Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del
- presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel
- ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè
- madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro
- piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che di pietade»,
- per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio
- morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta
- forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il
- cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze
- sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche
- parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal
- suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta
- di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto
- per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in
- quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal colpa ha
- commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale
- egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- «Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha
- il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati
- per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo
- piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá
- delle colpe piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la
- divina giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono.
- E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos
- gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra
- in questo cerchio secondo esser dannati queʼ peccatori, li quali,
- oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il
- concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi
- cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua intenzione.
- Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona
- di Minos, la severitá della divina giustizia. Intorno alla qual
- dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché piú in
- questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia
- dimostrata; la seconda, perché piú in persona di Minos che dʼun altro.
- Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra
- parte dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú,
- la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, quantunque
- questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli
- uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle
- quali ella del tutto è schifa dʼintramettersi, estimando ottimamente
- fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non
- le pare quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno,
- essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di
- malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere
- degli animali, neʼ quali non è alcuna ragione. E queste cotali
- operazioni son quelle deʼ furiosi e deʼ mentacatti e deʼ fanciulli
- e deglʼignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali
- fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e,
- dove elezione e volontá esser non può intorno allʼadoperare, non pare
- che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a
- questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni altri, se
- non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o ignoranti,
- come è dimostrato; intorno aʼ quali se la giustizia non sʼinterpone,
- era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di sopra a
- loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe stata
- oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo
- luogo dimostrata, eʼ ne seguivano altri inconvenienti. Primieramente
- pare che avessero potuto deʼ peccatori, che alle piú profonde parti
- dello ʼnferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi
- nelle parti dellʼinferno che state fossero superiori al luogo dove
- stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono stati secondo le
- colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima
- giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera dʼAcheronte,
- similmente gli farebbe pronti a discendere infino lá dove ella fosse,
- ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto giú
- quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e
- cosí sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate: il che è
- contro agli effetti della giustizia. E però ottimamente in questa parte
- la discrive lʼautore, nella quale niuna cosa deʼ superiori sʼimpaccia;
- né hanno, quelli che neʼ cerchi piú alti esser debbono, a discender
- giuso; né può alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in
- su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che
- non gli convenga venire alla sua esaminazione.
- È nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e
- per tutto distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle
- fare alcuna esaminazione o inquisizione deʼ nostri meriti o delle
- nostre colpe, come alla giustizia deʼ mortali bisogna; percioché, nel
- cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere
- sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e
- discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si
- possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi aʼ
- nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali
- effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.
- Resta a vedere perché piú in persona di Minos che dʼalcun altro
- ministro infernale ne sia dimostrata questa giustizia; [e con questo
- è da vedere quello che lʼautore abbia voluto sentire in ciò che egli
- fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi
- giudíci. E avanti allʼaltre cose, pare,] richeggionsi neʼ ministri
- della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma
- singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere
- prudente al ministro della giustizia, accioché egli per la prudenza
- cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a vedere quello che
- di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di
- minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che
- abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la
- qualitá deʼ tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che muova o
- susciti un romore neʼ tempi della guerra, quando gli stati delle cittá
- stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono
- in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli conosca la qualitá deʼ
- luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio o
- in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota
- e non molto frequentata dallʼusanza degli uomini. Conviensi, per la
- prudenza, che egli sappia discernere i movimenti di quegli che peccano,
- di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili
- cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a
- ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia.
- Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da quello, che
- conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non
- priego, non amore, non odio, non prezzo, non lusinga o cose simili a
- queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse, mai
- giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto
- ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser
- severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla gratificazione.
- Puossi infraʼ processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri
- della giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú allʼuna parte
- che allʼaltra esser grazioso; la qual cosa nelle cose e neʼ tempi
- debiti non è vizio, ma è segno dʼequitá dʼanimo nel giudicante; fuori
- deʼ tempi debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in
- servare strettamente lʼordine della ragione, e di quello per cagione
- alcuna non uscire; e massimamente neʼ giudici di Dio, il quale insino
- allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua
- misericordia nʼaspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se
- prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere,
- e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire,
- essendo la sua sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá
- dee qui il ministro della sua giustizia quella mandare ad esecuzione.
- Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere
- neʼ processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di
- lui da coloro li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli
- fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi
- aʼ popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente,
- ridusse per sua industria a vivere sotto il giogo della giustizia. Che
- egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da quello
- che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del
- Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò
- che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá
- della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua
- severitá in Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megarensi, la quale, da
- disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí il
- padre, e fecel signor di Megara e a lui se nʼandò; per la qual cosa,
- quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo
- fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei, sí come
- ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si
- gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo
- in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta severitá servò,
- che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli
- riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa,
- dopo la sua morte, estimarono gli uomini, neʼ loro errori, lui essere
- appo lʼanime dʼinferno eletto a quel medesimo ufficio esercitare tra
- loro che in questa vita traʼ suoi esercitava, sí come nella esposizione
- letterale si dimostrò.
- Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos
- in questo luogo figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina
- giustizia dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno
- allʼesecuzione deʼ suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda
- essere lʼultimo membro e lʼultima parte del corpo di qualunque animale,
- al quale la natura lʼha conceduta; e, quantunque ella serva a piú cose
- gli animali che lʼhanno, alla presente materia non intende lʼautore
- altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della
- vita nostra, secondo la qualitá della quale si forma il giudicio della
- divina giustizia: percioché, quantunque lʼuomo sia scelleratamente
- vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle
- malfatte cose, e con buona compunzione e con puro cuore, si rivolge
- alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa e
- giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli nʼè dimostrato
- per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale
- col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il quale avendo tutti i
- dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti allʼora
- della sua morte, con contrito cuore, non dicendo altro che:—«_Miserere
- mei, Domine, cum veneris in regnum tuum_»,—il fece la misericordia
- di Dio degno dʼudire dalla bocca di Cristo:—«Amen _dico tibi, hodie
- mecum eris in Paradiso_»:—né è dubbio alcuno che a queste parole non
- seguisse lʼeffetto; e cosí solamente allʼultima parte della vita,
- cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí in
- contrario, essendo Giuda Scariotto stato deʼ discepoli di Cristo, e
- usato con lui, e avendo la sua dottrina udita, quantunque male poi
- adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia
- di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se
- medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al
- profondo dello ʼnferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con
- le colpe piú gravi, con le quali eʼ muore, del luogo il quale eʼ dee in
- inferno avere, è dimostratore.]
- [Nota: Lez. XXII]
- Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá deʼ dannati
- in questo secondo cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia
- conforme il supplicio, il quale lʼautore ne dimostra essere lor dato
- dalla divina giustizia.
- Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato
- leggendo la lettera, i lussuriosi. Intorno al vizio deʼ quali è da
- sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita
- ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la
- natura avvedutamente, accioché, per lʼatto del coito, ciascuno animale
- generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di quello; e, se
- questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto
- verrebber meno i generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra
- e ʼl mare di possessori. È vero che ellʼha in ciascun altro animale,
- che nellʼuomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non
- perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né
- raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti
- deʼ maschi loro se non alcuna volta lʼanno, e questa non si prolunga
- in molti dí, infraʼ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli
- alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o
- come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non vogliono.
- Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli conobbe
- animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando
- e quanto sʼappartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi
- ricorda dʼaver letto che appo coloro, li quali mondanamente vivono,
- alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una
- femmina: e questa fu una donna dʼArabia, reina deʼ palmireni, chiamata
- Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato, suo marito, essersi
- voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in
- ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei,
- piú accostare nol si lasciava infino a tanto che ella non conosceva se
- conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva
- unʼaltra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo
- ʼl parto, piú non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di
- questa reina, o come gli uomini in questo usino il giudicio della
- ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove
- essi, la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il
- quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che
- possono o sanno in contrario si sforzano.
- Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale,
- quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro
- mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che
- di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a
- disiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli,
- per non esser cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse
- con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si
- guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto
- lʼavessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa fu
- questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i moderni
- giovani fanno tutto il contrario: i costumi deʼ quali avere alquanto
- morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser piacevole
- ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare
- stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo
- appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina,
- in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger quellʼaltro altrove,
- in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e
- azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica
- lasciandogli crescere, attrecciandogli, avvolgendosegli alla testa, e
- talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto
- chericile raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare
- epa del petto, non in suʼ lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come
- gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e aʼ calzamenti portare le
- punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono
- le donne, e trarle neʼ lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e
- di quelle non mani, ma branche piú tosto dʼorso cacciare. Né voʼ dire
- deʼ cappuccini, coʼ quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti
- si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, coʼ quali quasi
- sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato.
- E lascerò stare gli atti, gli andamenti, eʼ portamenti, il cantare,
- il carolare, e cosí le promesse eʼ doni, deʼ quali si può però piú
- tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e a un solo
- lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia,
- percioché con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano,
- mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che
- non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale
- è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo
- è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle
- donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse,
- guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che
- egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da
- dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco
- di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non
- sará da queʼ cotali differenza alcuna daʼ bruti animali. Ingegnossi la
- natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti
- del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, queʼ membri dei quali
- mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a ciò, lʼuso, della
- vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla natura, secondo che
- ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli coʼ vestimenti,
- e quantunque o necessitá o usanza lʼaltre parti del corpo scoperte
- patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani,
- che scoperte le sofferí. Glʼindiani, gli etiopi, i garamanti e gli
- altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano, quantunque
- da soperchio caldo sforzati sieno dʼandare ignudi, quelle parti in
- alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dichʼio
- glʼindiani e gli etiopi, li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume?
- Quegli popoli, li quali abitano lʼisole ritrovate (gente, si può dire,
- [fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte,
- né costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente
- vivono), di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica
- tessute o annodate piu tosto, fanno ostaculi, coʼ quali quelle parti
- nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati neʼ
- liti, quantunque faticati e percossi dallʼonde sieno, nondimeno, non
- curandosi di tutto lʼaltro corpo perché ignudo sia, quella parte, se
- con altro non hanno, sʼingegnano di ricoprire con le mani. I poveri
- uomini, aʼ quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono
- che rimanga scoperta. I mentacatti eʼ furiosi e gli ebbri, mentre
- che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che queʼ membri in
- aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza,
- ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito
- e aʼ conforti del nemico dellʼumana generazione sospignere, che non
- altramenti col viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione
- avesser fatta o facessono.
- Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume,
- ragioni vie piú vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo
- primieramente:—Noi seguiamo lʼusanze dellʼaltre nazioni: cosí fanno
- glʼinghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi eʼ provenzali.—Non
- sʼavveggono i miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion
- confessino. Solevano glʼitaliani, mentre che le troppe delicatezze
- non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge eʼ costumi eʼ modi del
- vivere a tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá,
- la nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dovʼeʼ segue, se
- dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi,
- da quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi,
- dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava,
- né sapeva, né saprebbe, se non quanto daglʼitaliani fu lor dimostrata
- (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo,
- confessiamo dʼesser noi i servi, dʼesser coloro che viver non sappiamo
- se da loro non apprendiamo; e cosí dʼaver loro per maggiori e per piú
- nobili e per piú costumati. O miseri! non sʼaccorgono questi cotali da
- quanta gran viltá dʼanimo proceda che un italiano séguiti i costumi di
- cosí fatte genti.
- E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto
- costume tôrre i giovani, neʼ quali è il fervor del sangue e le forze,
- eʼ dovrebbe esser la grandezza dellʼanimo, se non un giusto sdegno;
- non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi dʼaver mai
- seguitato o seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa
- adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono
- dʼesser nelle lor brutte invenzioni deglʼitaliani imitate.
- Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono
- che i vestimenti lunghi glʼimpedivano e non gli lasciavano nelle
- cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano e dʼogni
- ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro,
- li quali piú lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante
- sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che troppo sarebbe
- lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure
- alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto coʼ panni
- lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con lʼarme in dosso
- ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor
- facesser noia i panni lunghi, neʼ quali erano in continovi e grandi
- esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser di necessitá agli
- uomini, gli quali sono in fatti dʼarme, lʼavere i panni corti, come a
- coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che
- vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi e chʼegli hanno
- le natiche tonde e grosse le cosce. O dissensati! Solevansi i giovani
- vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e
- oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse
- avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun
- altro che i romani similmente gli portavano corti come essi fanno. E
- nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova
- per scrittura che io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di
- marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano
- il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali
- fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste
- io credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne
- vidi, che, o daʼ vestimenti o dallʼarmadure, non fosse almeno infino
- al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai
- manifestamente, si vede che assai mal procede lʼargomento che i panni
- lunghi impediscano.
- E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io
- unʼaltra delle lor savie ragioni non discriva, percioché estimano
- quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli dʼogni loro
- disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne
- mostran loro con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza
- di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi
- vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito
- medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata,
- dove ella è abominevole traʼ sensati. Ma non pensano i miseri quanto
- scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé
- ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli
- occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti deʼ figliuoli
- esser mosse, come lʼaltre femmine si muovono; conciosiacosaché la
- natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo allʼonestá
- della parentela. Nel vero io non lʼardirei affermare, quantunque
- giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire che, se ciò
- non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è
- cagione il vituperevole costume deʼ figliuoli; né discrederò che, quel
- che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta
- terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non sʼaccorgono i
- dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine
- disiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate
- e nellʼaltre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte
- caggiano neʼ lacciuoli scioccamente tesi da loro, rade volte avviene
- che, da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti dʼuomini
- non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le
- sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle
- tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente
- sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che loro ancora non saria
- di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che,
- lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo,
- le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre deʼ pensieri, ma le parole
- men che oneste deʼ non cauti padri aver loro prima strupatore che
- marito trovato.
- Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque
- biasimevole sia molto alle donne mostrare con le poppe il petto, non
- sono perciò le poppe deʼ membri osceni e che nascondere del tutto si
- deano; percioché, se di quegli fossono, non lʼavrebbe la natura poste
- in cosí aperta e patente parte del corpo come è il petto, anzi si
- sarebbe ingegnata dʼoccultarle, come gli altri fece. Oltre a questo,
- le poppe sono aʼ sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle
- sieno quelle, onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando
- i nostri primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non
- nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come
- Adam, fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono
- quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di
- mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di
- Dio, che creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio
- si vergognano, né degli uomini. [Similmente, quando i predetti di
- paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon lor
- fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle
- fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali,
- partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di se
- medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro
- scostumaggine dir le donne:—Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella
- nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove
- quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre.—]
- È vero che, quantunque il costume deʼ giovani nella parte mostrata
- biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle
- donne, le quali dʼaltra parte, non potendo nascondere il fervore
- inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte
- sʼingegnano, in ciò chʼelle possono, di quello adoperare che possa
- provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro
- congiugnimenti. Elle si dipingono, elle sʼadornano, elle si azzimano,
- e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano; ballano,
- cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove
- dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare
- i costumi.
- Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio
- solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne
- il destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non
- contenti solamente aʼ portamenti, ma con gli odori arabici, con le
- cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con
- vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre
- cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna
- assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E
- cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la
- quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e
- contro allʼamor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora
- di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine, sí come
- colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua lʼossa, guasta
- lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa lʼingegno, debilita il vedere
- e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte deʼ giovani
- e amica delle femmine, madre di bugie, nemica dʼonestá, guastamento
- di fede, conforto deʼ vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e
- abominazione e vituperio deʼ vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere
- Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando
- piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di
- volere che uno fosse contento dʼuna e una dʼuno; il che poi nella legge
- data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento
- vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e
- ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé lʼonestá
- publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole,
- e similemente i padri eʼ figliuoli, e gli adultèri essendo stati
- proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli
- e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai,
- cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai
- propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con
- queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le
- femmine le quali aʼ divini servigi avessero sagrate le nostre leggi.
- Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque
- in questa colpa caggendo per incontenenza molto sʼoffenda Iddio,
- secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave.
- E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra
- le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle
- quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle
- distintamente mostrare.]
- [Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa
- spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»;
- il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente
- commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata,
- quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle deʼ
- templi e deʼ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente
- quelle le quali eran fatte a sostentamento deʼ gradi deʼ teatri; i
- quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si
- ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano,
- prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare
- opera al loro disonesto servigio con quegli aʼ quali piaceva: e cosí
- da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè
- «fornicazione».]
- [Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e
- questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da
- «stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si
- commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono
- sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente
- appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta
- presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è
- questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo
- medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte
- si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con
- questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata
- la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo
- peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può,
- di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore,
- tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]
- [Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra
- obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa
- spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè
- «_adulterium, alterius ventrem terens_»: cioè lʼadulterio è il priemere
- lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale
- non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è
- premuto, ma del marito di lei.]
- [Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o
- tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra:
- e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha
- sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi
- questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura
- di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con
- piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti,
- che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata
- «_ceston_», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «_Et a
- pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia
- ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia,
- blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium_», ecc.
- E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere
- ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste
- nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa
- sua cintura detta «_ceston_», a dimostrazione che quegli, li quali
- per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno
- allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente
- alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non
- legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va
- a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura,
- chiamata «_ceston_»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono
- «incesto», cioè fatta senza questo _ceston_: ma questa generalitá è
- stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque
- lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente
- sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí
- vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il
- commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato
- «stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché
- questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio
- risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non
- si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove
- nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]
- [Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro
- alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da
- una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò
- dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha
- molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non
- dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce
- troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente
- libro.]
- [È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio,
- e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel
- supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente
- che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno
- le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente
- priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]
- Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che
- piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è
- naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti
- mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta
- se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti
- offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale
- è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a
- Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.
- Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
- nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne
- dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la
- quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a
- ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli
- piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli
- a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno,
- se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero,
- e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle
- cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la
- concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che
- la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «_Sine Cerere et
- Baccho friget Venus_».
- Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito,
- dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del
- vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che
- in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá
- contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito.
- E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò
- che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa
- la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e
- perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e
- le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la
- qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da
- lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore
- impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per
- molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e
- per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna
- volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta
- né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata,
- dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla,
- se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne,
- accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere
- tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente
- consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto
- di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali,
- ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la
- divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna
- allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e
- molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser,
- fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata
- impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore
- e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello
- eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in
- quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò
- aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli
- affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi,
- che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta,
- percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di
- giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro
- riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi
- insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno
- nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi
- disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non
- iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si
- vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.
- CANTO SESTO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Nota: Lez. XXIII]
- «Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti
- ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli,
- nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di
- madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento,
- nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo
- cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella
- prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che
- Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse;
- nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse
- qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso
- autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a
- Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove
- pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza
- quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta
- quivi: «Noi aggirammo».
- Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la
- qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale
- per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è
- mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca
- e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta
- della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel
- secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto
- a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri
- che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi
- muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in
- quella, «e come che io mi guati».
- «Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non
- vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia
- per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e
- per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere
- coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova»,
- sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa
- piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che
- queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo,
- nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia
- in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in
- questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso
- si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè
- queste tre cose.
- «Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero
- essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio
- dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello
- ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore
- qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio
- sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole»,
- percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra
- lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che
- quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha
- vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl
- ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate
- le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con
- quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.
- «Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino
- spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso,
- «come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti
- dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli
- offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato
- ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun
- mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia,
- «i miseri profani».
- «Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu
- sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo,
- nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu
- sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in
- altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può
- dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre
- seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era
- con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la
- via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali
- dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono
- rimasi profani.
- «Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto,
- nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore
- dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ
- cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo
- voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion
- fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi
- ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero
- verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci
- scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore
- questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra,
- percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono
- chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre
- bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e
- mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo».
- Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.
- «E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue
- spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa
- con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le
- pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»;
- «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre,
- come di sopra è mostrato.
- E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al
- comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual
- è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è
- propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno
- altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom
- vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li
- quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza
- piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è
- da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer»,
- cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran
- tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel
- cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol
- potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel
- sesto dellʼ_Eneida_ scrive:
- _Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
- personat, adverso recubans immanis in antro.
- Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
- melle soporatam et medicalis frugibus offam
- obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
- corripit obiectam, atque immania terga resolvit
- fusus humi, totoque ingens extenditur antro,_ ecc.
- «Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
- quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato
- in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose
- addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio
- ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave
- pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e
- ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».
- Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli
- occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore
- essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼ_Eneida_
- fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso
- sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro
- supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse,
- se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in
- apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá,
- che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá
- nel canto venticinquesimo del _Purgatorio_, dove questa materia si
- tratta.
- «Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna,
- chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come
- lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».
- E disse cosí:—«O tu, che seʼ per questo inferno tratto»,—cioè menato,
- «Mi disse,—riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire:—Guatami, e
- vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere;—e la
- ragione è questa, che—«Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato,
- «chʼio disfatto»,—cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa
- composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento
- dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú
- uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse,
- e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.
- «Ed io a lei», cioè a quella anima:—«Lʼangoscia, che tu hai», dal
- tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor
- della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non
- par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi
- chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí
- fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia»,
- cioè maggiore, «nulla è sí spiacente».—
- «Ed egli a me», rispuose cosí:—«La tua cittá», cioè Firenze, della
- qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá
- trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella
- non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si
- versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia
- procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in
- Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e
- massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la
- ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ
- Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi
- disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come
- vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei
- tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi,
- e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi,
- avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta
- che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con
- dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino,
- «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama
- «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato
- dimorava.
- [Nota: Lez. XXIV]
- «Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non
- del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come
- egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore
- di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e
- massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e
- beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente
- se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo
- vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo,
- egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e
- affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri
- da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola,
- Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi
- rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale,
- agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia
- «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual
- vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per
- infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa
- colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí
- come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.
- «Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta
- perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu
- credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte
- queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena
- stanno», che fo io, e «Per simil colpa»—cioè per lo vizio della gola:
- «e», detto questo, «piú non feʼ parola».
- «Io gli risposi», cioè gli dissi:—«Ciacco, il tuo affanno», il quale
- tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto,
- «chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di
- lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò
- che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar
- mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo,
- mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure
- alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non
- pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne
- dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno
- i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in
- queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna
- si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ
- Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso
- Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era
- in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè
- giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non
- alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta
- discordia assalita».—Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle
- quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.
- «Ed egli a me» (_supple_) rispose alla prima:—«Dopo lunga tencione»,
- cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè
- fedirannosi e ucciderannosi insieme.
- Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni
- delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e
- cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi
- in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani
- dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero
- a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a
- sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente,
- cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani
- venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito
- Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso,
- di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il
- malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili
- riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.
- «E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia»,
- percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo
- della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati
- uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli
- erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non
- erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per
- avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá
- lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la
- parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in
- esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali
- del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la
- parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento
- dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta
- offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute
- daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú
- gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché
- poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.
- «Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte
- selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá,
- «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole
- circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto,
- li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo
- alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E
- dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del
- sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare,
- il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla
- parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa
- Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli
- piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a
- Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta
- cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo
- i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non
- avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per
- la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo,
- il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di
- Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a
- Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti
- i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato
- il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono,
- anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono
- da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella
- parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia
- infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi
- questa istoria vuole pienamente sapere, legga la _Cronica_ di Giovanni
- Villani, percioché in essa distesamente si pone.]
- Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale
- sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé
- piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra
- di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che
- avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi
- e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata
- igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace,
- avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois:
- ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla
- parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose
- da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per
- questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer
- Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra
- appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed
- elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel
- 1300, piaggiava.
- «Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti»,
- il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra»,
- parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua
- in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti»,
- cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della
- parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi
- ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come
- coloro fanno alli quali pare ricever torto.
- «Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta
- dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra
- tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno,
- sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde
- che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor
- medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima
- setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio
- creduto.
- «Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori
- accesi».—Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dallʼautore
- di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia
- assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè
- superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per
- le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male
- accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò
- la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere
- stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di
- messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere,
- ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri
- ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose,
- le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò,
- vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro,
- che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia,
- stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni
- e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia
- sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice
- essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si
- conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna
- altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra,
- cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano
- caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura
- corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon
- nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati
- fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata
- invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere
- per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá;
- il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro
- avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi
- i cuori a discordia e a male adoperare.
- «Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento;
- e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e
- cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor
- medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo
- esilio. [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí,
- che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose
- future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare
- che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a
- dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione
- del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna
- cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual
- veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio
- ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le
- quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
- buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente
- conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia
- furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati
- fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro
- creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata
- in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto
- piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto
- perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí
- similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a
- sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter
- salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella
- lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro
- siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio,
- sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero
- arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste
- cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo,
- in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá,
- la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente
- delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere:
- per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro
- addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute,
- pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi
- nel principio del Genesi: «Dixit Deus:—Faciamus _hominem ad imaginem
- et similitudinem nostram_».—E se fece egli questo, che il fece, dunque
- abbiam noi le cose predette.]
- [È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo,
- percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio:
- percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi
- né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
- membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma
- possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura
- intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò
- chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre
- ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come
- che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni
- nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne
- sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare
- vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo,
- rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina
- mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e
- ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra
- _in libro De divinatione_, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne
- dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna
- viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra
- navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel
- sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il
- quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli
- parve, dormendo, vedere, e udire da lui:—Simonide, non salire sopra
- la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con
- quegli che su vi fieno in questo viaggio.—Per la qual cosa Simonide
- sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato
- quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due,
- dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane,
- sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia?
- parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta
- Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva
- una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E
- di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per
- certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe
- mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato
- libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente
- infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole,
- piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per
- lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar
- lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá
- vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo,
- ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio,
- famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver
- nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé
- morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli
- altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato
- Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di
- Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea
- fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa
- facesse, gli rispose:—Io ti vedrò di qui a pochi dí;—e quindi, fatto
- accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in
- Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non
- era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero
- del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
- peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro
- amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—vienne, tale e
- tale,—deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto
- dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per
- la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e
- quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno,
- come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo
- avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che
- esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare,
- quando del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú
- la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore
- aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle
- cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio
- moveano, volevan mostrare.]
- [È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua
- divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá;
- ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede
- alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua
- miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia
- gli debbono aggiugnere.]
- «Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi:—«Ancor», oltre a ciò che detto
- mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi
- facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio»,
- Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ
- volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori
- giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino;
- «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.
- Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini
- di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in
- singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.
- «E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e
- onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè
- ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove
- sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli
- conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se
- non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale
- seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere
- Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli
- attosca»,—cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.
- «E quegli» (_supple_) rispose:—«Ei son», coloro deʼ quali tu domandi,
- «tra lʼanime piú nere».
- Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra
- creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso;
- e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non
- pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che
- noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá,
- che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore
- oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore
- domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne
- la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice
- «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia
- Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá
- di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel
- decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo.
- I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá,
- che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo
- dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai
- vedere».
- «Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole
- comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando
- questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna,
- altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla
- mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste
- parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la
- quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno
- non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio
- lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di
- qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti
- dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo»,—alle cose
- delle quali domandato mʼhai.
- «Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea
- lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e
- dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di
- coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di
- vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con
- essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima
- pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto
- hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di
- Dio.
- «E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto:—«Piú non si
- desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che
- i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna
- cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa
- levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di
- qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con
- altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá:—«_Surgite, mortui, et
- venite ad iudicium_»;—«Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati,
- «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni
- podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il
- vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di
- loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto
- giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il
- quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli
- animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro
- che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si
- turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui
- che meritamente gli riprende.]
- E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la
- trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba»,
- cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di
- ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua
- carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza,
- [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma
- accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le
- colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e,
- ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè
- risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza
- di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati:—«_Ite maledicti in ignem
- aeternum_»,—ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente
- loro.
- «Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
- nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion
- di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo»,
- lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la
- quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza
- ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a
- passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che
- molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco
- la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra
- fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e
- sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.
- «Perchʼio dissi:—Maestro», continuandomi a quello che della futura
- vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste
- anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio
- nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente
- sieno, «o saran sí cocenti»,—come sono al presente?
- «Ed egli a me» (_supple_) rispose:—«Ritorna a tua scienza», alla
- filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene,
- e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché
- noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose
- piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno
- perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente
- un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura,
- dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi
- molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita,
- dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno
- riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.
- «Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati,
- «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in
- bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta:
- e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo
- per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti,
- dice lʼautore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque
- non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto
- riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli
- riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento
- di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá»,
- cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia,
- «essere aspetta»,—in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti,
- molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i
- corpi riprenderanno.
- «Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale
- lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella
- strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come
- molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure
- intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si
- disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi
- trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.
- Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno
- il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto,
- come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali
- in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono
- il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo
- Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare
- in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le
- quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo
- che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in
- Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza
- scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato
- vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè
- allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze
- male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono
- in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse
- impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si
- possono grandissime nostre nemiche, ecc.]
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Nota: Lez. XXV]
- «Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo
- canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua
- alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come
- i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina
- giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il
- peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e
- non _e converso_, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come
- il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.
- A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello
- che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano
- cominceremo.
- Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e,
- separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi
- su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e
- gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto
- fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al
- suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di
- paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise
- alli lor piedi, sí come dice il salmista: «_Omnia subiecisti sub
- pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres
- caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris_»; e, come
- queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di
- sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier
- fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e
- visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi
- della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi
- popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque
- piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e
- mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano
- gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a
- ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli
- non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore,
- delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne,
- vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto
- o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna
- ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la
- loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti,
- i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime
- genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri
- arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan
- via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi;
- le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti
- impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e
- i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero
- di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava;
- ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata
- lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra
- loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano
- intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali
- alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine
- salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e,
- senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani
- robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e
- riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non
- malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti
- di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá
- discrivono, «aurea» si potea chiamare.
- Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò
- tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e quinci il
- disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale
- appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il
- ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare
- il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con
- appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le
- cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e
- quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali,
- e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in
- dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti
- ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del
- mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli
- uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la
- terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar
- daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi
- princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí
- come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli
- assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come
- lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí
- la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori,
- ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni
- cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto
- questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di
- quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né
- Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano;
- e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno,
- re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il
- cuocere divenne, di mestiere, arte.
- È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno
- esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda,
- sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non
- fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere
- aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e
- quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi,
- faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a
- poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale
- non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria
- dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a
- doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí
- come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi
- si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia
- saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore
- noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo
- forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di
- fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.
- Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in
- Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le
- ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del
- romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che
- alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si
- sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non
- che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero
- in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari
- irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le
- cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto
- di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri
- lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle
- cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre
- misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro
- deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il
- naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie
- deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al
- disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma
- dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti
- modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie
- di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá
- deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie
- gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché
- piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno
- introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi
- i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò,
- mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non
- cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come
- Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo
- della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si
- trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ
- vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore
- deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta
- di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto
- questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e
- discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ
- passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella
- molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella
- con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa
- appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel
- tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente
- Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio,
- nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume
- mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa
- colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti
- delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco
- insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la
- quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma
- pure alcuna cosa ne dirò.
- È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a
- me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa,
- né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere
- non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici
- trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ
- debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ
- poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni
- arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici,
- ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si
- fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni
- convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense
- pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a
- dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile,
- quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni
- convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le
- confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini
- non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna,
- dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso
- artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande,
- [i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ
- taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante
- e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra
- le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca
- non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe,
- le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or
- volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente
- avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta,
- che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori,
- queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da
- ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste
- e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri
- sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come
- i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole
- riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono
- intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua,
- millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non
- potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia
- il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato;
- e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato
- della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá
- cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio
- deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta,
- o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali
- i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o
- avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.
- Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli
- da esso molto offeso sia.
- Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è
- assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente.
- Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano,
- essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo,
- e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze
- dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato
- vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto,
- convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi,
- tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e
- contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali,
- per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan
- le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli
- occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore,
- le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il
- fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo,
- tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano.
- Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano,
- urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica
- simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane,
- gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie,
- ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam
- comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della
- gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ
- publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata
- cagione.
- I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi,
- gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo
- furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò,
- per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna,
- se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le
- quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua
- primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la
- sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di
- mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi
- sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il
- dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello
- Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in
- inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in
- far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio
- sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino
- dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle,
- furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta
- gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi,
- né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino
- deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi.
- Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo
- da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito.
- Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole
- recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel
- e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie,
- ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí,
- spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito
- di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto
- bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole
- di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta
- bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.
- Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola
- stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò
- riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si
- puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali
- lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi
- senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza
- intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di
- questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono
- per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di
- gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro
- che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del
- bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i
- dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano,
- non avendo riguardo a quello che contro a questo nel _Libro della
- Sapienza_ ammaestrati siamo, nel quale si legge: «_Ne intuearis vinum,
- cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo
- mordebit, ut coluber_». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie
- di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid _potest quis gustare,
- quod gustatum affert mortem_?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere
- stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato.
- È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente
- testifica Ieremia, dicendo: «_Venter mero aestuans, facile despumat in
- libidinem_»; e Salomon dice: «_Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa
- ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens_»; e san
- Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente
- ammaestrandoci, dice: «_Nolite inebriari vino, in quo est luxuria_». È
- ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi
- che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta
- e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana:
- di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono
- tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui,
- sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La
- terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette
- cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano
- il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob:
- «_Bibunt indignationem, quasi aquam_». Ma, secondo che si legge nel
- salmo: «_Amara erit potio bibentibus illam_»; e come Seneca a Lucillo
- scrive nella ventiquattresima epistola: «_Ipsae voluptates in
- tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum
- torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum
- omnium depravationes_» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori,
- ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori,
- abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti,
- brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e
- noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze
- sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli,
- gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie
- temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ
- sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi
- guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono
- tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione
- son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel
- terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto
- debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú
- chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare
- brievemente.
- Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra
- marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco
- giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso
- «grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione
- di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani:
- e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza
- parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro
- in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre
- teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio
- gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani
- unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri
- dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere
- sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la
- divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come
- essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero
- in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare convenirsi che,
- contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi
- giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando
- i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse
- torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari
- vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di
- piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli
- percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere
- essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri
- lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non
- solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ
- quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe,
- per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo
- versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale
- non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per
- lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle
- dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso
- escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane
- spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi
- sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in
- luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive.
- E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti,
- cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto
- che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti,
- non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro
- angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a
- disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di
- quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo
- della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il
- terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli
- faccia disiderare dʼesser sordi.
- Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la
- qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta
- è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno, e guardiano della
- porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi
- voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore
- discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento
- assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che
- piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «_creon vorans_», cioè
- «divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di
- sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo
- dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane»,
- percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá
- da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien
- venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.
- Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie
- deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio
- caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni
- deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú
- in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente
- si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole,
- per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi
- sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa
- umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser
- battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai;
- il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che
- impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che
- essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E,
- oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda
- sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo
- divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che
- mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a
- quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di
- mangee e divisatori di quelle.
- E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda
- un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali, per soperchio bere,
- i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li
- quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e
- lagrimosi.
- Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto
- mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non
- potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto;
- e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio
- sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i
- canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che,
- conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale,
- quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel
- vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente
- adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni
- di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore
- sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta
- malvagia.
- Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il
- molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo,
- per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla
- natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta
- dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo
- sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a
- gittar fuori.
- E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che
- sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande;
- e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú
- che alcuna altra gli piaccia.
- Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun
- membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi
- si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che
- alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente
- senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare
- glʼincomposti movimenti dellʼebbro.
- Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide,
- aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro
- costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o
- intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la
- forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual
- consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por
- non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o
- bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per
- non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente,
- volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come
- è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio
- uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in
- questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.
- CANTO SETTIMO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Nota: Lez. XXVI]
- —«_Papé Satan, papé Satan aleppe_»,—ecc. Nel presente canto
- lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose
- precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello
- ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra
- come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun
- cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due
- parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari
- eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli
- accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior
- pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi
- alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio
- fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena
- avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza
- dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda
- comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi:—«Maestro,—dissʼio
- lui».
- Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra,
- trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide,
- _admirative_ cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni,
- dicendo:—«_Papé_».
- Questo vocabolo è _adverbium admirandi_, e perciò, quando dʼalcuna cosa
- ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «_papé_!». E da questo
- vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá
- del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e
- non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina,
- e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora
- chiamavano i lor preti «_papas_», quasi «ammirabili»: e ammirabili
- sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl
- sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di
- sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor
- colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del
- quale siede il vicario di san Pietro.
- «Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe
- deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario»
- o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico
- delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere
- stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella
- quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.
- «_Papé Satán_». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare
- lʼammirazione esser maggiore.
- E seguita: «_aleppe_». «_Alep_» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ
- giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra
- lettera, cioè «a»; ed è «_alep_» appo gli ebrei _adverbium dolentis_;
- e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima
- voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che
- egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.
- Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta,
- cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non
- sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e,
- accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam
- dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che
- Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina
- di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e
- del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer
- deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però _admirative_, e
- dolendosi, chiama il prencipe suo.
- «Cominciò Pluto», (_supple_) a dire o a gridare, «con la voce
- chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i
- quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò
- Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori
- si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché
- per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto
- alla sua buona intenzione.
- [Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che
- i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano _Dispiter_, fu
- figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con
- Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e,
- secondo dice Eusebio _in libro Temporum_, il nome suo fu Aidoneo. Fu
- costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero
- essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon
- Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di
- Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni
- descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui
- questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si
- debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e
- diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]
- «E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual
- veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe:
- percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e
- naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro
- uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era
- in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi:—Non ti noccia La sua
- paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di
- sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò
- esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale
- si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia
- della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura
- di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter
- chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia»,—cioè questo
- balzo.
- «Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto,
- «E disse:—Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché
- sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual
- vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto
- fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia»,
- la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti
- sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al
- cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli
- vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ
- la vendetta del superbo strupo»,—cioè del Lucifero, il quale, come
- nellʼ_Apocalissi_ si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso,
- insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col
- suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era
- stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua
- superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli
- strupatori.
- «Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di
- Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le
- gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio,
- «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè
- lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde
- a terra la fiera crudele», cioè Plutone.
- «Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo
- canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori,
- li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e
- dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella
- quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare
- alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente
- ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo;
- e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le
- colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca»,
- cioè in sé insaccato riceve.
- Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove
- travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere _interrogative_ e con
- questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante
- nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io
- viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa»,
- cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne
- confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena,
- o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole
- mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.
- Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo
- i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa
- lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina.
- Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e
- una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di
- Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio,
- è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo
- oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da
- «_pharos_», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò
- è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di
- Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse
- il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è
- in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono
- deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e
- la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente,
- in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre
- nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a
- quelle che sono in Peloro, ed _e converso_. E, come di sopra è detto,
- questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto:
- e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano
- [come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi
- sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare
- verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso
- Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni
- dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso
- la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare
- Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta
- forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le
- rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad
- essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora
- sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il
- mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il
- flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo
- è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda..., Che si frange con
- quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose,
- delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si
- chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e
- questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero,
- questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra
- dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo
- percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non
- veggiono la cagione della elevazione.]
- Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato,
- le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere
- di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende
- in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto
- cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori,
- in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde
- predette.
- «Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e
- di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli
- che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a
- qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte
- e dʼaltra con grandʼurli», cioè a destra e a sinistra, miseramente
- per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si
- dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del
- petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro»,
- cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza
- voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello
- medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel
- medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando»,
- quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra:—«Perché tieni?»;—e incontro
- a questa gridava lʼaltra:—«E perché burli?»—cioè getti via. «Cosi
- tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio
- tetro».
- Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e
- che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita,
- scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che
- essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro
- le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e
- veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora
- con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e
- quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza
- riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio
- tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
- «Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano
- «allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano,
- «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole,
- «metro», cioè:—«Perché tieni?—E perché burli?».—Il quale lʼautore
- chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il
- piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non
- misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «_metros_», _graece_,
- che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi
- poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna
- misura, secondo la qualitá del verso.
- «Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quandʼera
- giunto», al punto del mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo
- suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era
- dalla divina giustizia stabilito, «allʼaltra giostra», cioè percossa: e
- chiamala «giostra», percioché a similitudine deʼ giostratori sʼandavano
- a ferire e a percuotere insieme.
- «Ed io, chʼavea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale
- portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale
- nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione
- per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di
- questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra
- nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla
- lupa, cioè dallʼavarizia. E in questo è da comprendere invano esser da
- noi conosciuti i vizi eʼ peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli
- o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire:
- come avea lʼautore compunzione dellʼessere avaro, che ancora, come
- nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché
- qui usa lʼautore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi:—Maestro
- mio». Qui domanda lʼautore Virgilio che gente questa sia, e per qual
- colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale
- è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro
- dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato tʼho, mi diʼ «e se
- tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra».—«Chercuti»
- gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora
- comprendeva loro per quello dovere esser cherici.
- «Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli,
- che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e
- poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dallʼautore, e
- dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente
- dicendo:—«Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra,
- «fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li
- quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini
- poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora
- per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte
- delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno
- avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra
- a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte
- fanno, stando loro sopra capo, glʼinducono a guatarsi indietro, e i
- fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte
- dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono
- le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce,
- o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon
- guerci. Questa spezie dʼuomini, quantunque non sia del tutto reputata
- giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali
- guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati
- uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti
- avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]
- E però dice:—«Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e
- malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali,
- «in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio
- fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani,
- lá dove esse eran da allargare, o essi lʼallargaron troppo, lá dove
- eran da strignere; e cosí né nellʼuna parte né nellʼaltra servarono
- alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in
- cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro lʼabbaia», cioè il
- manifesta quando dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»,—usando
- questo vocabolo «abbaia» nellʼanime deʼ miseri in detestazion di
- loro, il quale è proprio deʼ cani; «Quando vengono aʼ due punti del
- cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono:—«Perché tieni?—E perché
- burli?»—), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide,
- facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon
- contrari. Le quali colpe vuole lʼautore che sien queste, avarizia e
- prodigalitá, delle quali lʼuna appresso egli apre, e lʼaltra per lʼaver
- detto «contraria» vuol che sʼintenda, e dice:
- «Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la
- cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono
- alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza
- di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata
- fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non
- intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo
- ferventemente predicare dinanzi aʼ prencipi e aʼ popoli, li quali
- quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo
- che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in
- segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano,
- sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona»,
- percioché, rasa tutta lʼaltra parte del capo, un sol cerchio di capelli
- vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda,
- come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio
- portano, «clerici» da «_cleros_», _graece_, che in latino suona quanto
- «uomini la sorte deʼ quali sia Iddio».]
- «E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal
- quale, mediante san Piero, hanno lʼautoritá grandissima, la quale
- santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in _Purgatorio_ e in
- _Paradiso_, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la
- materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo
- nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime
- nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la
- chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali
- si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né
- in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi
- per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella
- chiesa di Dio il sacro collegio deʼ settantadue discepoli, li quali
- per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il
- cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al
- papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro sʼappartiene, insieme
- col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale deʼ
- cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che
- sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette,
- son chiamati cardinali da questo nome «_cardo, cardinis_», il quale
- ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si
- volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e
- cosí da «_cardo_» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono,
- da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto lʼuscio.]
- «In cui», cioè neʼ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia,
- secondo Aristotile nel quarto della sua _Etica_, la inferiore estremitá
- di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si
- disidera lʼaltrui, o si tiene quello che lʼuom possiede: della quale
- piú distesamente diremo, dove discriveremo lʼallegorico senso della
- parte presente di questo canto. Questo vizio dice lʼautore usare «il
- suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove
- non si dee tenere, neʼ cherici, neʼ quali tutti intende per queste due
- maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí
- negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia
- molte parole.
- E, avendo qui lʼautore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in
- questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che sʼintenda
- per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»),
- con questo vizio insieme punircisi lʼopposito dellʼavarizia, cioè la
- prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come
- lʼavarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si
- dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando
- e come non si conviene; benché poco appresso lʼautore alquanto piú
- apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.
- «Ed io:—Maestro, tra questi cotali», che tu mi diʼ che furon cherici,
- e ancora tra gli altri, «Dovreʼio ben riconoscere alcuni», percioché
- furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo
- che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due
- peccati peccano (o vogliam dire: percioché lʼautor peccò in avarizia,
- e lʼun vizioso conosce lʼaltro); «Che fûro», vivendo «immondi»,
- cioè brutti e macolati, «di cotesti mali»,—cioè dʼavarizia e di
- prodigalitá.
- «Ed egli a me:—Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli
- altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo:
- «La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i feʼ
- sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad
- ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non
- degni dʼalcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè aʼ due
- punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si
- percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dallʼun
- dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale,
- «Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè
- la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso sʼintende; «e questi», cioè
- i prodighi, «coʼ crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente
- testificheranno la loro prodigalitá.]
- [E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa:
- intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane,
- e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore,
- né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono
- solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla
- natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per
- sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dellʼanime
- nostre, ma prestano alcuno ornamento aʼ corpi; e perciò dirittamente
- sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze.
- Risurgeranno adunque i prodighi coʼ crin mozzi,] a dimostrare come
- essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro
- temporali ricchezze.
- «Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno
- gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza,
- «Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e»
- hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi
- insieme coʼ pesi i quali volgono, e col rimproverarsi lʼuna parte
- allʼaltra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole
- non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi
- voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.
- «Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le
- parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali
- tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e
- apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in
- costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «Deʼ ben», cioè delle
- ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo
- il volgar parlare delle genti, e ancora secondo lʼopinion di molti;
- «Per che», cioè per i quali beni, «lʼumana gente si rabbuffa». Il
- significato di questo vocabolo «rabbuffa» par chʼimporti sempre alcuna
- cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è lʼessersi lʼuno
- uomo accapigliato con lʼaltro, per la qual capiglia, i capelli son
- rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però
- ne vuole lʼautore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati,
- le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini
- hanno insieme per li crediti, per lʼereditá, per le occupazioni e per
- li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le
- fatiche vane, che intorno allʼacquisto delle ricchezze si mettono. E
- dice: «Ché tutto lʼoro, chʼè sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu
- giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di
- sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una»,—non che trarla
- di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e
- laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta
- tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro
- sollecitudine sʼè acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma
- solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le
- quali parole udite da Virgilio muovono lʼautore a fargli una domanda,
- dicendo:—«Maestro—dissi lui,—or mi diʼ anche».
- [Nota: Lez. XXVII]
- Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto,
- nella quale lʼautore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa
- sia fortuna, e però dice:—«Maestro, or mi diʼ anche»; quasi dica: tu
- mʼhai detto che tutto lʼoro del mondo non potrebbe fare riposare una di
- queste anime, e per questo mʼhai mostrato quanto sia vana la fatica di
- coloro li quali, posta la speranza loro in questi beni commessi alla
- fortuna, intorno allʼacquistarne e allʼadunarne si faticano; ma dimmi
- ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo deʼ beni che le
- son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra
- branche?»,—cioè tra le mani e in sua podestá.
- «E quegli a me», rispose dicendo:—«O creature sciocche. Quanta
- ignoranza è quella che vʼoffende!», credendo come voi non dovete
- credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna
- come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non
- donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or voʼ che
- tu mia sentenza ne ʼmbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento
- io: e dice «ne ʼmbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale,
- la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello
- ʼntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li
- sensi esteriori e poi per glʼinteriori concepe, quel sugo fruttuoso ne
- trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.
- E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della
- fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio,
- il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza è
- stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e dieʼ lor chi
- conduce». E in questo sente lʼautore con Aristotile, il quale tiene che
- ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo
- e perpetuo: e che lʼautore questo senta, non solamente qui, ma in una
- delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, ʼntendendo, il
- terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli
- loro commessi da Dio, «Sí chʼogni parte», della lor potenzia, «ad ogni
- parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde,
- «Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá,
- ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve;
- [«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono
- nelle creature la potenzia loro.]
- E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere
- i cieli e a distribuire i loro effetti neʼ corpi inferiori, cosí:
- «Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati
- e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che
- permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè
- le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani»,
- percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá;
- e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni
- vani «Di gente in gente», cioè dʼuna nazione in unʼaltra, sí come noi
- leggiamo essere infinite volte avvenuto neʼ tempi passati nelle gran
- cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e lʼimperio degli
- assiri esser trapassato neʼ medi, e deʼ medi neʼ persi, e deʼ persi
- neʼ greci, e deʼ greci neʼ romani; e, lasciando stare gli antichi, deʼ
- quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante,
- noi abbiamo veduto neʼ nostri dí la gloria e lʼonore dellʼarmi e
- della magnificenza, e della Magna e deʼ franceschi, esser trapassata
- neglʼinghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma,
- ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si
- trasmuterá in altrui.
- E segue: «e dʼuno in altro sangue». La sentenza delle quali parole,
- quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno,
- volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam
- dire «dʼuna famiglia in unʼaltra», in quanto dʼun medesimo sangue si
- tengono quegli che dʼuna medesima famiglia sono; sí come, accioché le
- cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá
- nostra piena di queste trasmutazioni. Furon deʼ nostri dí i Cerchi,
- i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che
- essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il
- piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia
- trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E
- cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá
- in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension
- deʼ senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono
- inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai
- può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a
- potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in
- parole..
- E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera»,
- signoreggiando, «e lʼaltra langue», servendo; e ciò avviene,
- «Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa
- ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», aʼ sensi umani, «come
- in erba lʼangue». _Anguis_ è una spezie di serpenti, la quale ha la
- pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita neʼ prati fra
- lʼerbe; e percioché egli è con lʼerbe dʼun medesimo colore, rade volte
- fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice lʼautore,
- il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto aʼ sensi
- umani, chʼegli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a
- questo, roborando ancora lʼautore la predetta cagione, séguita:
- «Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole
- pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara
- dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di
- questa ministra sʼinchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno,
- possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e
- questo essere vero, sʼè giá per molte manifeste cose veduto. [Creso,
- re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da
- Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re deʼ medi, in due sogni, che il
- figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola,
- il dovea privare dello ʼmperio dʼAsia: né gli giovò il maritarla ad
- uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il
- figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio
- di questa ministra fermato. Non poterono lʼavere cacciato del regno
- dʼAlba in villa Numitore, dʼavere ucciso Lauso, suo figliuolo, dʼaver
- fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non
- fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono
- gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci
- tirare allʼattitudine dataci daʼ cieli: ma, se noi vorremo esser
- prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero
- arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice
- Giovenale: «_Nullum numen_», ecc., percioché il seguir noi il desiderio
- concupiscibile, ne fa rimaner vinti daʼ movimenti di questa ministra,
- ecc.]
- E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica
- e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono
- quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono,
- sí come son queste terrene da ordinato movimento deʼ cieli produtte,
- secondo la potenzia deʼ quali esse si permutano, non altramente che se
- da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare
- ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè
- le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè
- lʼintelligenze, delle quali di sopra è detto.
- [E, in questa parte, lʼautore, quanto piú può, secondo il costume
- poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate,
- non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose
- spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion
- nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e
- corporea fossero; il che qui lʼautore usa, mostrando la fortuna aver
- sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi
- accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui lʼautore
- nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non sʼattribuiscono. Dalle
- quali fizioni è venuto che alcuni in forma dʼuna donna dipingono questo
- nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota,
- sí come per Boezio, _De consolatione_, appare. Ma chi le fascia gli
- occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá,
- ogni permutazion dì costei va a diterminato e veduto fine; e, se
- lʼeffetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della
- permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il
- quale avvedutamente quella ischifa.]
- «Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali,
- «non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che
- guerreggiano hanno neʼ tempi delle triegue; e, percioché nelle sue
- permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa
- esser veloce». E in queste parole vuole intendere lʼautore i movimenti
- di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non
- bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio
- si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra
- pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí
- spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce,
- «che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare
- vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo
- uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte
- nella vita sua.
- «Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle
- bestemmie e daʼ rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí
- come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce»,
- cioè neʼ loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove
- sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella sʼè
- beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie eʼ rammarichii:
- «Con lʼaltre prime creature», cioè coʼ cieli e con le intelligenzie
- separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si
- discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e
- beata si gode», non curando di queste cose.
- [Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa
- fortuna, della qual qui lʼautore domanda Virgilio; quantunque molte
- cose in dimostrarlo nʼabbia dette lʼautore, e, conchiudendo, mostri
- di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo
- delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion
- di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi
- presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano,
- io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non
- lʼuniversale effetto deʼ vari movimenti deʼ cieli, li quali movimenti
- si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di
- quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará
- lʼuniversale effetto deʼ movimenti deʼ cieli causato dalla divina mente
- e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore deʼ beni
- temporali, deʼ quali essi movimenti deʼ cieli sono causatori. E dicesi
- dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo
- nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun
- ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion deʼ cieli. E
- percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia
- opinion deʼ filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile
- al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo
- al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che lʼuniversale
- loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali,
- similmente debba essere in continuo movimento: e se lʼuniversale
- effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in
- continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere
- convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e
- per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data
- dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che glʼingegni
- umani comprendano le particularitá infinite di questo universale
- effetto deʼ cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue
- fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque
- lʼarte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non
- paiono glʼingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan
- comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né
- ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti
- deʼ corpi deʼ pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il
- cielo dimostra dover producere, né quello che a dò seguire o fuggire,
- per avere o per fuggire quello che sʼapparecchia, sia sofficiente né
- bastevole: e però ottimamente dice lʼautore i consigli umani non poter
- comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni
- di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni
- delle cose prodotte daʼ cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro
- dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita;
- e se i movimenti deʼ cieli son veloci, e le cose causate da loro
- seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro
- effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e
- seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo,
- cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e
- delle minori.]
- [Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere
- alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí
- come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono:
- intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni deʼ cieli
- adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni
- deʼ cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però
- non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini
- ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano
- i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno,
- quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le
- cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si
- muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la
- natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]
- [Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a
- beneplacito, come quasi a tutte lʼaltre è stato posto; e, secondo che
- le cose secondo i nostri piaceri o contrarie nʼavvengono, le chiamiamo
- «buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi
- sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la
- stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male,
- secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e
- ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la
- veritá, la sentenza di questi versi:
- _Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
- si volet haec eadem, fies de consule rhetor,_ ecc.
- E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero,
- i romani piú che gli altri vi peccarono. Nondimeno, quantunque di
- necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni
- esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti
- delle cose causate daʼ cieli, delle quali lʼanime nostre non sono,
- percioché sopra i cieli son create da Dio e infuse neʼ corpi nostri,
- dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna
- necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non
- potenti contro a nostro piacere. Il che in assai sʼè potuto vedere, in
- Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il
- che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:
- _Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te,
- nos facimus, Fortuna, deam, coeloque locamus._
- E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con
- lʼappetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio,
- per lo quale nʼè conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni
- sua potenza.]
- [Adunque questo effetto universale deʼ movimenti deʼ cieli e delle
- loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa
- dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual
- noi vogliamo esser ministra e duce deʼ beni temporali. E in questa
- opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero queʼ poeti, li quali
- sentirono che lʼuna delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che
- vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione
- e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte
- attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono
- che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne
- riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte.
- E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli
- uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché,
- come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni eʼ mutamenti di
- ciascuno, assai appare ciò non essere altro che lʼuniversale effetto di
- tutti i cieli, daʼ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati
- in noi.]
- [E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e
- secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual
- vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí
- come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti,
- li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore sentire per
- questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam
- credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli
- effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto
- intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa,
- sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
- [Nota: Lez. XXVIII]
- «Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda
- parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima
- dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice
- trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto
- cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi;
- nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La
- seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí
- girammo».
- Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo
- ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a
- maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo
- scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi
- mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte,
- e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la
- quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire
- in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il
- dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al
- cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano,
- secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte
- occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per
- quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la
- seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl
- troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del
- quale io vengo teco.
- «Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone
- «allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero
- «Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí
- bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dellʼacqua
- che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era
- buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore
- assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che
- il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano
- lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della
- terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore;
- «altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio
- petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da
- Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde
- bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno
- lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera
- «bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma,
- largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste
- onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè
- malvagia.
- Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»;
- e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè
- rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del
- luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige».
- E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è
- disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in
- quel cerchio sono.
- [Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti,
- la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata
- figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che
- dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice
- degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono,
- quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:
- _...Stigiamque paludem,_
- _dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc._
- E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di
- spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio,
- avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo
- tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare»
- cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle
- stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu
- favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e
- vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]
- [Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna
- al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile,
- la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò
- è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene
- a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è
- senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par
- di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza
- allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par
- che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque
- procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le
- parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della
- terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo
- della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in
- questa palude.]
- [Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti
- senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere
- di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi
- dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli
- ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di
- tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro
- nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la
- seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono
- iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men
- che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per
- la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie
- ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati,
- nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani.
- Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente
- sentito nel sesto del suo _Eneida_, lá dove egli manda i perfidi e
- ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama
- Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali
- hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi,
- cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati.
- O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono,
- glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle,
- le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di
- verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del
- zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico».
- Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti,
- esso fa quello che gli astrologhi chiamano «_zenit capitis_»; e in
- questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige,
- secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi
- superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero;
- e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e
- albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto
- la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli
- scrisse _Delle cose sacre dʼEgitto_, dicendo che la palude di Stige è
- appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che
- non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí,
- essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «_phile_», il quale è
- tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima
- padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole
- e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali
- essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di
- tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]
- [Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion
- questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi
- temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma
- allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che
- temere; e questi cotali sono glʼiddii, i quali i gentili dicevano
- esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che
- giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la
- tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio,
- credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato
- son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che
- bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin
- beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]
- [Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre
- non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare,
- né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e
- faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in
- ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in
- prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad
- affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
- «Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte
- della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser
- tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice
- adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso»,
- cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella
- padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte
- nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa
- e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e
- perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e
- con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí
- ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean,
- non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi,
- «Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun
- contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi
- deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano
- a brano», cioè a pezzo a pezzo.
- «Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno
- che cosí si troncano, e dice:—«Figlio, or vedi Lʼanime di color
- cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che
- tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente
- che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular
- questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle
- gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere
- che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra
- vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e
- cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori,
- e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua
- sospirava o si doleva.
- «Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole
- lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene
- scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa
- maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in
- questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali
- «dicon:—Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè
- si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso
- fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí
- intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli
- si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce,
- qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta
- negra»,—in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di
- sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera
- altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la
- quale ella sta e che la mena.
- «Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi,
- e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario,
- il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ
- suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non
- lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude
- propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi,
- dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si
- gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la
- qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e
- abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa,
- non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le
- nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello,
- che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola
- piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si
- gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi
- posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.
- «Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte
- principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare,
- e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori
- che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda
- pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun
- arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze
- dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti
- (cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ
- versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono,
- «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e
- ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza»,
- cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna
- torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- [Nota: Lez. XXIX]
- [«_Papé Satan, papé Satan aleppe_», ecc. Dimostrò lʼautore nel
- precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa
- della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ
- gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose
- precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei
- dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello
- della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che
- in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti
- fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti
- questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate
- altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il
- loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise,
- quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio;
- e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che
- cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la
- pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al
- peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello
- dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli
- iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]
- [Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere
- stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai
- attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che
- lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno,
- il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e
- con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale
- avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
- nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ
- tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe
- nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá
- stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella
- comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il
- diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i
- campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale
- per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne
- mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato
- era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e
- di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa,
- ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno
- stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò
- Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone
- Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare
- coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá;
- e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone
- intendere.]
- [Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo
- altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato
- _Dispiter_, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu
- _Opis_, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto
- con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu
- nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello
- ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale
- assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ quivi:
- _Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
- moenia lata videt, ecc._
- E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel
- suo _Thebaidos_, dicendo:
- _Forte sedens media regni infelicis in arce
- dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
- nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
- stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
- saevaque multisonas exercet poena catenas:
- fata ferunt animas,_ ecc.
- E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma,
- dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e
- chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi
- deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò,
- accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in
- cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze
- ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto,
- parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter
- trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a
- procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando
- dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne
- veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre
- vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme
- di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta
- lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato
- il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di
- ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per
- moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale
- aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia
- del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia
- dʼ_Ercole furente_:
- _Post haec avari Ditis apparet domus.
- Hic saevus umbras territat Stygius canis,
- qui terna vasto capita concutiens sono
- regnum tuetur: sordidum tabo caput
- lambunt colubrae: viperis horrent iubae
- longusque torta sibilat cauda draco.
- Par ira formae,_ ecc.]
- [Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone
- voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire
- quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona
- tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «_Dispiter_»,
- quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano
- in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «_Opis_»
- è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non
- solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché
- le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in
- parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale
- primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente
- chiamato padre di Plutone.]
- [Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data
- una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone;
- accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le
- ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro
- intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice
- Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:
- _Nulli fas casto sceleratum insistere limen;_
- accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza
- ingiustizia non potersi fare.]
- [Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono
- intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e
- ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le
- ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati
- coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per
- lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo
- mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro
- li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e
- lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo
- significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose
- future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e
- cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne
- di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per
- arricchire par che sieno.]
- [Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato
- «oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione
- dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza
- riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato
- Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per
- questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali
- spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e
- in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto
- vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che
- per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la
- speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e
- cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]
- [Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa
- «abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui
- che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo
- ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché
- esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo
- i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in
- contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame
- e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si
- genera che laudevole o degna di memoria sia.]
- [Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e
- perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá,
- le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora,
- ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli
- prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane,
- sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto
- «guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano
- intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú
- dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e
- cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre
- teste discritte, a dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni
- sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente
- in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché
- quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin
- via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano,
- nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di
- coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni
- parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino,
- e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La
- terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o
- ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e
- di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi,
- non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano,
- né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire
- tristissimi e miseri guardiani di Dite.]
- [I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da
- intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali
- intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]
- [Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come
- appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «_Ut alter Orcus venisse
- Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur_»,
- ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è
- ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che
- che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che
- qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che
- per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo,
- sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí
- significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il
- quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]
- [Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché
- lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale,
- cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella
- esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui
- significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare
- tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda
- ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili
- cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e
- quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova,
- richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate,
- mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella
- mostrarvelo.]
- [Leggesi nel _Genesi_ che il serpente venne ad Eva, e confortolla
- che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella
- non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico
- della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa
- sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼ_Apocalissi_ che
- fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu
- detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per
- questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro
- antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente
- intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che,
- essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte
- del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano
- e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano
- dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual
- cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di
- rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso,
- e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che
- trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal
- serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli
- sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo
- serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico
- elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe
- delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti,
- cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le
- mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione
- e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati
- e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu
- questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame,
- il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua
- passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le
- punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del
- ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ
- quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu
- aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la
- sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e
- ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una
- medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio:
- Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]
- [Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere
- significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il
- salmista: «_Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est
- in caput anguli_»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi
- Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ
- maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre
- che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a
- porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente,
- provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del
- tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e
- nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi
- due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose
- il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu
- deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una
- chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e
- ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in
- quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon
- quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati
- da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse
- con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e
- cosí potete veder qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a
- questo, si legge nellʼApocalissi: «_Substulit angelus lapidem quasi
- molarem et misit in mare_», per la qual pietra vogliono i dottori,
- sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «_Auferam
- eis cor lapideum_», per la quale intendono i dottori la durezza della
- infedelitá. E il salmista dice: «_Descenderunt in profundum, quasi
- lapides_», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del
- peccato.]
- [E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una
- medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che,
- come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente
- addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa
- e quando unʼaltra.]
- [Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li
- laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i
- dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in
- altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il
- naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi
- si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la
- quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo:
- ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e
- lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son
- fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par
- loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi
- è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre,
- la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad
- una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni
- maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola,
- e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]
- [Nota: Lez. XXX]
- Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che,
- secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá
- tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano,
- graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto,
- lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto
- umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del
- tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
- predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero,
- essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato
- alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio
- facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo
- alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno
- armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di
- niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata
- da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra
- cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito
- di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per
- questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta
- lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare
- nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura
- delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ
- primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno
- [che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i
- vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale,
- non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta
- simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
- [essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi
- due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò,
- che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in
- paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano
- ad accrescere il loro numero in inferno.
- Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler
- ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini,
- si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle
- proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a
- prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo,
- entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le
- servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con
- onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente
- desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la
- vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E,
- non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi
- nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove
- ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati
- i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli
- altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle
- profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre
- preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati,
- col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della
- lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual
- potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che
- Boezio nel secondo libro _Della consolazione_, fortemente dolendosi,
- dice:
- _Heu! primus qui fuit ille
- auri qui pondera tecti
- gemmasque latere volentes
- pretiosa pericula fodit?_
- Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e
- la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad
- averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque
- sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo
- inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di
- secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i
- temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito
- acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune
- fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del
- tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni
- astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio
- di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare,
- onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i campi e lʼumane sustanze
- in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo
- non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione
- spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi
- ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare;
- e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla
- divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra,
- mandati siamo.
- E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello
- che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora
- si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare:
- piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
- brievemente, consista questo vizio.
- È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «_auri cupiditas_»,
- cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (_Ad Ephæsios_, v): «_Avaritia
- est idolorum servitus_». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel
- quarto dellʼ_Etica_, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene,
- e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia
- cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá
- appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza
- dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a
- Rustico monaco, dove dice: «_Æstimato malo pondere peccatorum, levius
- alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat.
- Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare
- Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat:
- ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana
- thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur
- idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre,
- offert creaturæ_». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene,
- e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente
- trattato.
- Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto
- disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le
- montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati
- dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa;
- avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche
- scrive a Lucillo, dove dice: «_Magnae divitiae sunt, lege naturae,
- composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis
- statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque
- depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium
- grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria
- tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et
- appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae
- nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad
- manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est_».
- E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine
- pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con
- onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale
- appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma,
- percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio
- trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il
- vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile,
- quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.
- Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá,
- ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via
- ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú
- che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si
- dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e
- occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente
- acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama
- curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali
- dice Tullio nel libro terzo _Degli offici_: «_Detrahere igitur alteri
- aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est
- contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera,
- quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis_», ecc.
- Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che _prima facie_ vogliano
- e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede, li quali sono a
- distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie
- dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione
- dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato
- il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi
- loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta
- operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú
- in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare.
- Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro
- arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna
- avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano
- di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno
- prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque
- sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono
- alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo
- o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede
- lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole
- che sia reputata avarizia.
- È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste
- in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta
- lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro
- opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci,
- che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna
- piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se
- medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi
- né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui
- prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali
- né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad
- onorare.
- Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ
- cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse
- neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente,
- come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non
- ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria
- col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro, accioché alcuno
- bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che
- piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali
- sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo
- spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
- avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se
- per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al
- vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir
- quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno
- hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e
- ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere
- piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E
- di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo
- peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime
- entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto
- pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché
- i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della
- misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione,
- digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri
- in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le
- vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere
- esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio
- il vede.
- È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra,
- percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa
- alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come
- quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è
- piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le
- par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di
- nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali
- il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel
- tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali;
- e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati,
- e similmente sʼaccorgono che, essendo essi delle dette sustanze
- abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari,
- da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare
- verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se
- essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma
- dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati
- e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia,
- non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi
- dʼavanzare, se il come vedessero.
- Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi
- eʼ poeti. Leggesi nellʼ_Evangelio_ di Luca, capitolo quinto: «_Vae
- vobis, divitibus_!»; e nella _Canonica_ di san Iacopo, capitolo quinto:
- «_Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient
- vobis_»; e nello _Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in
- inferno_». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «_Vae qui congregat
- non sua_!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «_Vae qui congregat
- avaritiam malam domui suae_!»; e lʼ_Ecclesiastico_, decimo: «_Avaro
- nihil est scelestius_». E santo Agostino dice: «_Vae illis, qui
- vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt_!»; ed esso
- medesimo: «_Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus_». E
- Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «_Multis parasse
- divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio_». E Tullio _in primo
- Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias;
- nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non
- habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre_». E
- Virgilio, nel terzo dellʼ_Eneida_:
- _...quid non mortalia pectora cogis,
- auri sacra fames?_
- E Persio scrive:
- _Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
- quis modus argento, quid fas optare, quid asper
- utile nummus habet?_ ecc.
- E Giovenale ancora dice:
- _Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
- Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
- ut locuples moriaris, egenti vivere fato,_ ecc.
- Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in
- quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto
- brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi.
- È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼ_Etica_,
- lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e,
- cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si
- conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene,
- e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in
- donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo
- nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la
- quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli
- ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare
- la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle
- sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza
- considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella
- spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che
- se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge
- faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre
- ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli,
- i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno
- carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non
- gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi
- convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato
- il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose
- assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale,
- ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno
- venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i
- servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e
- scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re
- o imperadori; useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico
- nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le
- mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi
- luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli
- dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i
- doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le
- piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a
- femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni
- magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli;
- apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi
- i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero
- pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case
- di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese
- malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste
- il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.
- [Nota: Lez. XXXI]
- È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso
- disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta
- giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si
- venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni
- e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per
- aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni
- misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi
- il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso,
- o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano
- gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici
- di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni
- scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non
- solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá
- di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo
- esempio.
- Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della
- prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia,
- percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro
- abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene alcuni,
- quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere
- né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce
- le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad
- esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire
- il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro
- continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia
- dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera
- curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la
- prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare
- la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque
- per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due
- altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni
- è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto
- lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole
- a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i
- vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze
- naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire
- aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i
- difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le
- quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è,
- percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si
- perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza
- misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può
- donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che
- dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.
- Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio
- che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí
- fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra
- qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari,
- conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa
- cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che
- lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito,
- pare che la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di
- bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca
- lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il
- supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli
- non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí
- per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia
- la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel
- prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo
- di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle
- nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma
- ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote
- che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del
- vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente
- segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché
- questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente
- insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non
- solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati
- i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri
- fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto
- il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi,
- falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade,
- commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere
- divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro
- verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser
- divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.
- La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia
- conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è
- in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene;
- e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male
- spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che
- dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi
- pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi
- e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come
- in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini
- faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo
- dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion
- di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi
- che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini,
- vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro
- allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore
- la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel
- tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete
- non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che
- il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.
- Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la
- giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione.
- [Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre
- delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti,
- il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere:
- le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se
- sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo
- dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion
- son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato
- (oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre
- con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori,
- tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura
- guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor
- pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente
- essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione.
- Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi
- che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale
- animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita
- eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua
- perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone
- si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro
- tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese,
- donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano
- acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo
- contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale
- assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e
- incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di
- nuovo accende le coscienze loro.
- «Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda
- parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella
- esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel
- quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio
- dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano
- i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa
- dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si
- comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore,
- è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi
- verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.
- Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem
- vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto
- stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo,
- dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti
- intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle
- i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi
- porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le
- fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti,
- le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella
- sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è
- rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa
- daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è
- oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da
- ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ
- fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle
- selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta;
- questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali
- percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata; questa è dai diluvi
- dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe
- assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza
- alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate
- ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta
- rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e
- paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto
- piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto
- che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa,
- della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia
- fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.
- Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come
- se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per
- eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di
- scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi
- per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti
- siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa
- ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi,
- non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere
- salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial
- furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle
- tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in
- miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la
- divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli
- splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e
- noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati
- in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e
- continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando,
- adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla
- dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima
- mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad
- altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per
- conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre
- a ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni
- dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.
- Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto
- dellʼ_Etica_, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è
- un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata
- da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé
- o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che
- quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto
- questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di
- bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e
- quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e
- piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.
- E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo
- dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni,
- che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori,
- solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano
- e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi
- lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente
- vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si
- sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa
- in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la
- colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno
- fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica,
- dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa
- subitezza.
- La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente
- per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto
- aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma,
- che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente
- adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella
- risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna
- vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima
- noia, percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú
- cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato
- appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed
- è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né
- altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa
- ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá
- o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa
- diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son
- questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor
- famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla
- turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E
- da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che
- son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza
- dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]
- La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati,
- in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né
- per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa
- vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono
- pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi
- hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son
- maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali
- per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare;
- e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il
- giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo
- male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo,
- rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera
- ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci
- al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il
- quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi
- servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare
- cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse
- messo in prigione, infino a tanto che egli avesse interamente pagato:
- ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione
- del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere
- un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in
- prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui,
- il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre
- esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non
- volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle
- quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere
- Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno
- uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo
- in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò
- da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci
- possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente
- ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno
- allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di
- Dio gittati in casa il diavolo.]
- Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere
- dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver
- saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la
- ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il
- comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «_Mihi vindictam et
- ego retribuam_». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti,
- quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam
- mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.
- È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro
- supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente.
- Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due
- suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di
- Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia
- contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti
- mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan
- potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise;
- Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta
- moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne
- misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese,
- chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani
- deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi,
- preso volontariamente veleno, sí morí. Che bisogna raccontarne molti?
- conciosiacosaché manifesto sia, lʼira, poi che il consiglio della
- ragione ha tolto dellʼuomo, col furor suo molti nʼabbia giá in miseria
- e detestabile ruina condotti; li quali come che in questa vita e seco
- medesimi e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra lʼautor
- nellʼaltra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro
- essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per
- lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente
- esala, tuffati e pieni dʼabominevole fastidio; e in quella non
- solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno
- altro membro fieramente percuotersi, e coʼ denti mordersi e troncarsi
- le persone e stracciarsi tutti.
- Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso,
- spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale aʼ
- dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi
- in questa vita, e la gravosa pena deʼ dannati nellʼaltra. Il
- percuotersi con la testa, col petto e coʼ piedi niuna altra cosa è
- che un disegnare glʼimpeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso
- accendimento dellʼira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per
- la testa dellʼiracundo i pensieri, glʼintendimenti, le diliberazioni
- dellʼiracundo, tutti posti e dirizzati dietro al disiderio della
- vendetta: e questo, percioché nella testa consistono tutte le virtú
- sensitive interiori e ancora le ʼntellettive, dalle quali sono formate
- le predette cose. E percioché nel petto consistono le virtú vitali
- e le nutritive, dobbiam sentire coʼ petti offendersi glʼiracundi,
- non lʼun lʼaltro, ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon
- lʼanimo intorno allʼeffetto dʼalcun disiderio, non si prende da
- colui, che cosí è occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora
- con lʼordine consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia
- intorno al suo uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento
- séguita la debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí,
- mentre che lʼiracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi
- dellʼingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ʼl
- nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di
- qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo, cosí
- lʼaffezioni menano lʼanimo e son guida di quello: e percioché tutte
- le affezioni dellʼiracundo sono pronte e inchinevoli a dover nuocere
- a colui o a coloro contro aʼ quali è adirato, dice qui lʼautore
- glʼiracundi coʼ piedi offendersi.
- Il troncarsi coi denti le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo
- è efficacissima dimostrazione di quanta potenzia sia lʼimpeto di
- questo vizio, poiché non solamente offusca lʼintelletto e la ragione
- nellʼadirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non
- fosse, basterebbe allʼadirato lʼaversi morso una sol volta; percioché
- il dolore ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi;
- dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta
- e sí furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che
- disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, coʼ denti troncarsi le
- proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo
- medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno
- adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive
- Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale,
- sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con
- furia domandò dʼaverlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte di
- molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e menato
- dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente
- coʼ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, piú che
- umano, morí egli e uccise il nemico.
- Lʼessere in quella padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa
- e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser
- causativa dellʼira; percioché, se quelle cose che avvengono, delle
- quali lʼuomo sʼadira, se esse non ci contristassono, senza dubbio
- noi non ci adireremmo, e cosí per lʼesser contristati ci adiriamo:
- e perciò, accioché i miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo
- puniti e afflitti, e per quello senza pro riconoscano sé dovere avere
- con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in
- questa padule di Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi
- bollono, e in continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è,
- sʼaccendono.
- Lʼessere la padule calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare
- le tre qualitá deglʼiracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo
- per la caldezza del pantano la qualitá deglʼiracundi, la qual dissi
- subitamente accendersi, e ciò procedere dallʼomor collerico, il quale
- è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere lʼaltra
- qualitá deglʼiracundi, la qual dissi lungamente servare lʼira accolta,
- ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, sí come
- veggiamo che le nebule deʼ pantani, state quasi salde e intere per
- buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La
- terza qualitá deglʼiracundi, li quali dissi non solamente non lasciar
- mai lʼira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza
- aver presa vendetta dellʼoffesa, la quale gli parve aver ricevuto, e
- ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender
- per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera,
- e la interpetrazion del nome della malinconia si dice da «_melan_»,
- _graece_, il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici
- son sempre nellʼaspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion
- conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre proprietá,
- le quali lʼautor discrive esser di questa padule, dover significare tre
- proprietá deglʼiracundi, cioè: per la nerezza, la tristizia; per la
- nebula, la caligine dellʼignoranza, la quale lʼira para dinanzi agli
- occhi dello ʼntelletto, e cosí non può, offuscato, vedere quello che
- sia da fare; e per lo caldo, il furor dellʼiracundo nel qual sʼaccende.
- Per lo loto, nel qual sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo
- intendere la sozza e fetida macula, la quale lʼira mette nelle menti
- di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di
- quella, li quali macolano e bruttano ogni onesta fama.
- [Nota: Lez. XXXII]
- Resta a vedere del vizio opposito allʼiracundia, il quale in questa
- medesima padule di Stige si punisce con glʼiracundi, cioè lʼaccidia.
- Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura
- delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e
- dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del
- nostro intelletto e deʼ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe
- avere, al sospignerci ad esser neʼ tempi debiti in continuo esercizio,
- il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolissimi animali,
- nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza
- aver né astrolago o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito,
- senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son
- le biade neʼ campi, o altra qualitá di tempo, come talvolta fanno
- i naviganti; dentro dalla sua cava standosi, cognoscono quando la
- state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade
- si ricolgano; e allora, purgata la via e aperta lʼuscita della sua
- cava, la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali
- aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida
- alcuna, tutte si dirizzano allʼaie, dove i lavoratori le biade segate
- ragunano e battono e mondano, e aʼ granai neʼ quali quelle ripongono,
- e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette.
- E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla
- paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi loro,
- sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che se
- medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e quello
- salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta
- sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente dʼun
- sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna mattina col
- sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene, in
- quello, essere a loro manifesto quello nel verno non potere operarsi,
- sí per le piove continue, e sí perché quello che la state truovano in
- molte parti e presto è aperto loro, quello il verno troverebbono in
- poche e serrato; avvedendosi ancora che, se cosí nellʼabbondanza della
- state fatto non avessono o non facessono, convenirle di verno perir di
- fame.
- La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non
- prestasse utile dimostrazione contro allʼoziositá, e contro al porre
- indugio alle cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí
- adoperare nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi,
- vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna
- e senza stento aspettar lʼultimo giorno, quando a Dio piacesse
- mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato nʼè
- nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte,
- noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intraʼ beati, e non esser
- gittati nella morte perpetua dello ʼnferno, dove sará pianto e stridor
- di denti. Ma, percioché lʼaddormentato intelletto di molti, né per
- disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non si può
- destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia,
- il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma pur
- riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita vengono in
- estrema miseria, e nellʼaltra tuffati bollono nella palude di Stige,
- come nel presente canto ne discrive lʼautore.
- E accioché piú chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per
- conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú
- leggermente vedere quello che voglia lʼautor sentire per la pena loro
- attribuita dalla divina giustizia; dico [che lʼaccidia], secondo
- che nel quarto dellʼ_Etica_ mostra ad Aristotile di piacere, colui
- essere accidioso, il quale dove bisogna non sʼadira, dicendo essere
- atto di stolto il non adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna;
- percioché pare che questo cotale non abbia sentimento dʼuomo, e però
- di nulla cosa sʼattristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne
- che sostenere lo ʼngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia
- atto servile. Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo
- nʼapparirá ogni altra cosa che allʼaccidioso sʼattribuisce dover
- nascere e venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession
- dʼanimo dellʼaccidioso, se non quella procedere da un torpore, da
- una viltá, da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi
- sostiene le ʼngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere
- obbediente aʼ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá
- fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion dʼanimo essere
- avvenuto; percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è
- comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini
- essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il santo e
- savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o operare
- quello, che né dire né operare si convenga; ma prima chʼegli lasci
- tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di peccato potesse
- pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la turbazione, e di
- questa vittoria merita. Ma lʼaccidioso non è cosí; percioché non per
- virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto dimessosi per la viltá
- dellʼanimo suo allʼozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue
- meditazioni sʼattrista, ognora divenendo piú vile, intanto che la sua
- vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa
- alcuna, quantunque menoma, la quale esso sʼattenti di cominciare; e,
- se pur tanto lo ʼnfesta la necessitá che egli alcuna ne cominci, nel
- cominciamento medesimo invilisce, sí che, le piú volte intralasciatala,
- non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il
- dissolve, il giorno gli è noioso e la notte grave; ciascheduna ora,
- e in qualunque stagione, ha in sé, al giudicio del pigro, alcuno
- impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí il tempo
- nuvolo e ʼl sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani;
- non visita, non sollecita le possession sue, non i lavorator di quelle,
- non i servi, e lʼessergli di quelle i frutti diminuiti non se ne cura
- per tracutanza. Alle publiche cose non ardirebbe di salire, alle quali
- se pur sospinto fosse per li meriti dʼalcun suo, come uno addormentato
- si starebbe in quelle; il letto, le notti lunghissime e i sonni, non
- piú corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene;
- la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole
- compagnia.
- [Ma, posponendo gli atti morali e alquanto parlando degli spirituali,
- non visita glʼinfermi, non visita glʼincarcerati, non sovviene di
- consiglio aʼ bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di
- Cristo per non trarsi il cappuccio, allʼusanza di Fiandra, non si
- confessa aʼ tempi, non prende i sacramenti, non dispone né i fatti
- dellʼanima né quegli del corpo.]
- Ma a che molte parole? Lʼuomo si potrebbe stendere assai, volendo
- pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma, percioché
- disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico che
- la vita dellʼaccidioso è, quanto piú può, simigliante alla morte.
- È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui
- nasce non solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale
- rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce
- ancor da costui afflizion dʼanimo, odio di se medesimo e rincrescimento
- di vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di
- fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito, prolungazion
- dʼopere e fastidio general dʼogni bene; e ultimamente, dopo la trista
- vita, eterna perdizion dellʼanima.
- E percioché tutti gli atti di coloro, li quali sono da questo vizio
- occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e, in quanto possono,
- nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente lʼautore stare nascosi
- e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera
- palude bogliente, nera e nebolosa; e in quella gorgogliare con la
- gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro dolersi
- della vita trista e nigligente, la qual menarono. Volendo per questo
- sʼintenda primieramente, per lo calor della padule, il calor della
- divina ira, il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato,
- gli tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per
- lʼessere la palude nera, vuol sʼintenda la tenebrosa lor vita, e la
- oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve. E
- per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto
- lʼonde, accioché si comprenda loro nella presente vita non essere per
- alcuna loro operazione stati conosciuti. Lʼessere la padule nebulosa,
- o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza,
- della quale furono offuscati gli occhi dello ʼntelletto loro, li
- quali mai riguardar non vollono sé essere uomini nati ad esercizio
- laudevole e non a detestabile ozio. Lʼavere la strozza piena di fango,
- e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il
- quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri e in
- meditazion malinconiche, le quali son di natura terree, e, sí come
- grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del
- suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.
- CANTO OTTAVO
- I
- SENSO LETTERALE
- [Nota: Lez. XXXIII]
- «Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Continuasi lʼautore in
- questo canto alle cose precedenti in questa forma che, avendo nella
- fine del precedente canto mostrato come, alquanto aggirata della padule
- di Stige, pervenissero a piè dʼuna torre; nel principio di questo
- dimostra quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero,
- discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende
- lʼautore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio
- per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il
- presente canto in quattro parti: nella prima dimostra lʼautore come,
- vedute certe fiamme sopra due torri, distanti lʼuna allʼaltra, un
- demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella
- Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive lʼautore ciò
- che, navicando per la palude, udisse e vedesse dʼuno spirito chiamato
- Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della cittá
- di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella quarta pone
- la raccolta fatta loro daʼ demòni, che sopra la porta o allʼentrata
- della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse
- da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se ne tornasse, e
- quel che dicesse. La seconda comincia quivi: «Mentre noi correvam»; la
- terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta quivi: «Non senza prima
- far».
- Dice adunque nella prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole
- si può alcuna ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni
- uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí
- ancora che, per insino a qui, non ha alcunʼaltra volta usato questo
- modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa
- ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella,
- la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il
- quale di lei ebbe piú figliuoli, traʼ quali ne fu uno di piú tempo
- che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente
- nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della
- persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea,
- e fu uomo idioto, ma dʼassai buon sentimento naturale e neʼ suoi
- ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo io suo
- dimestico divenuto, io udiʼ piú volte deʼ costumi e deʼ modi di Dante,
- ma, tra lʼaltre cose che piú mi piacque di riservare nella memoria, fu
- ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in
- parole.]
- [Diceva adunque che, essendo Dante della setta di messer Vieri deʼ
- Cerchi, e in quella quasi uno deʼ maggiori caporali, avvenne che,
- partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci,
- esso medesimo si partí e andossene a Verona. Appresso la qual partita,
- per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro
- che partito sʼera, e massimamente deʼ principali della setta, furono
- condennati, sí come ribelli, nellʼavere e nella persona, e tra questi
- fu Dante: per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a
- romor di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che,
- temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma,
- per consiglio dʼalcuni amici e parenti, aveva fatti trarre dalla casa
- alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture di Dante, e
- fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non essendo bastato
- lʼaver le case rubate, similmente i parziali piú possenti occuparono
- chi una possesione chi unʼaltra di questi condennati: e cosí furono
- occupate quelle di Dante. Ma poi, passati ben cinque anni o piú,
- essendo la cittá venuta a piú convenevole reggimento che quello non era
- quando Dante fu condennato, dice le persone cominciarono a domandar
- loro ragioni, chi con un titolo chi con un altro, sopra i beni stati
- deʼ ribelli, ed erano uditi: per che fu consigliata la donna che
- ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse deʼ beni di Dante
- raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno
- certi stromenti e scritture, le quali erano in alcuno deʼ forzieri, li
- quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire,
- né poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva.
- Per la qual cosa diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui,
- sí come nepote di Dante, e, fidategli le chiavi deʼ forzieri, lʼaveva
- mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune.
- Delle quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú
- scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili cose;
- ma, tra lʼaltre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel
- quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però
- presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo, quantunque poco
- ne ʼntendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa. E però diliberò
- di dovergli portare, per saper quel che fossero, ad un valente uomo
- della nostra cittá, il quale in queʼ tempi era famosissimo dicitore in
- rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual
- Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a piú suoi
- amici fatta copia, conoscendo lʼopera piú tosto iniziata che compiuta,
- pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che,
- seguitando il suo proponimento, vi desse fine. E, avendo investigato e
- trovato che Dante era in quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo deʼ
- Malispini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente
- e in singularitá suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al
- marchese, che gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto
- potesse, désse opera che Dante continuasse la ʼmpresa, e, se potesse,
- la finisse.]
- [Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed
- essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo
- avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare
- la ʼmpresa. Al qual dicono che Dante rispuose:—Io estimava veramente
- che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo
- che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto nʼavea lʼanimo e ʼl
- pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sien, ed
- hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare
- la bisogna, secondo la mia disposizion prima.—E quinci rientrato nel
- pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo
- principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente
- intralasciate.]
- [Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa
- mutarne, mi raccontò giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e
- intendente uomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si
- potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso
- diceva non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale
- la donna avea mandato aʼ forzieri per le scritture, e che avea trovati
- questi sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so
- a quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si
- dica il vero o no, mʼoccorre nelle parole loro un dubbio, il quale io
- non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio
- è questo. Introduce nel sesto canto lʼautore Ciacco, e fagli predire
- come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca, convien
- che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante. Il che
- cosí avvenne, percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta
- Bianca e il partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se lʼautore si
- partí allʼora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e
- non solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea
- spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e a
- me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi che
- fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con quello che
- mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire lʼautore, dopo la
- partita deʼ Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e
- poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non
- si confá bene con la risposta fatta dallʼautore al marchese, nella qual
- dice sé avere creduto questi canti con lʼaltre sue cose essere stati
- perduti, quando rubata gli fu la casa. E il dire lʼautore aver potuto
- aggiungere al sesto canto, poi che gli riebbe, le parole le quali fa
- dire a Ciacco, non si può sostenere, se quello è vero che per i due
- superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio nʼavesse data
- copia a piú suoi amici; percioché pur nʼapparirebbe alcuna delle copie
- senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole,
- alcuna memoria ne sarebbe. Ora, come che questa cosa si sia avvenuta
- o potuta avvenire lascerò nel giudicio deʼ lettori; ciascun ne creda
- quello che piú vero o piú verisimile gli pare.]
- [Tornando adunque al testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose
- predette, «chʼassai prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al
- piè de lʼalta torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive
- che pervennero, «Gli occhi nostri nʼandâr», riguardando, «suso alla
- cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra la
- cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per due
- fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su quella
- sommitá della torre, «E unʼaltra», fiamma, «di lungi» da questa torre,
- «render cenno», sí come far si suole per le contrade nelle quali è
- guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il castello o il luogo,
- vicino al quale la novitá avviene, incontanente per un fuoco o per due,
- secondo che insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e
- ville del paese. E dice che questo cenno dʼuna fiamma fu renduto di
- lontano, «Tanto, chʼappena il potea lʼocchio tôrre», cioè discernere
- [altro]. Ma pure, poi che tolto lʼebbe, dice:
- «Ed io mi volsi al mar», cioè allʼabbondanza, «di tutto il senno»,
- cioè a Virgilio (del quale nel principio del canto precedente dice:
- «E quel savio gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi:—Questo
- che dice?», cioè che significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi
- fatto in questa torre? «e che risponde Quellʼaltro fuoco?», il quale io
- veggio fare sopra la torre, la quale nʼè lontana; «e chi son queʼ che
- ʼl fenno»?—questo chʼè sopra noi, e quello ancora che nʼè piú rimoto.
- «Ed egli a me:—Su per le sucide onde», di Stige, le quali chiama
- «sucide», perché nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di
- lontan vedere, «quello che sʼaspetta» di dovere avvenire per questo
- fuoco e per quello, «Se ʼl fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti
- nasconde»,—percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la vista
- delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e lʼocchio del
- riguardante.
- E, questo avendo Virgilio risposto, séguita lʼautore, e dimostra quello
- che seguí deʼ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda»,
- dʼalcuno arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè
- volasse, «via per lʼaere snella», cioè leggiere, «Comʼio vidi una nave
- piccioletta Venir per lʼacqua», della padule, «verso noi in quella» che
- Virgilio diceva:—«Giá puoi scorgere», ecc.—«Sotto il governo dʼun sol
- galeoto». «Galeotti» son chiamati queʼ marinari li quali servono alle
- galee; ma qui, _licentia poëtica_, nomina «galeotto» il governatore
- dʼuna piccola barchetta; e dice «che», questo galeotto, «gridava:—Or
- seʼ giunta, anima, fella!»,—cioè malvagia.
- E, come assai appare, lʼautore in questo quinto cerchio non ha ancor
- mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento deʼ
- dannati in esso, né che con alcun atto lo spaventi, come suol fare
- neʼ cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo. E questo è
- artificiosamente fatto, percioché non sempre dʼuna medesima cosa si dee
- in un medesimo modo parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il
- modo del dimostrare, qui infra ʼl cerchio, percioché tutto è del quinto
- cerchio ciò che si contiene infino allʼentrata della cittá di Dite.
- E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare,
- par che sieno dirizzate dal dimonio pure allʼun di lor due, cioè a
- Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere
- questo demonio avere da occulta virtú sentito lʼautore non venir come
- dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestá; ma esso gridar
- contro a Virgilio, accioché lʼautore spaventasse, e, spaventandolo,
- il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere
- le colpe deʼ peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo
- conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena
- prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa
- caduto fosse.
- Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio:—«Flegias, Flegias»; era
- questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio
- quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto»,
- cioè per niente,—«Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione
- per la quale Flegias grida a voto, dicendo:—«A questa volta», che qui
- seʼ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il
- loto»,—cioè il padule pieno di loto.
- E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole
- udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta,
- Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli
- amici e con altrui; «Tal si feʼ Flegias nellʼira accolta», parendogli
- essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e
- che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli
- era.
- [E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive
- Lattanzio _in libro Divinarum institutionum_, questo Flegias fu
- figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro
- aglʼiddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli,
- Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima,
- piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline
- giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il
- quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi
- forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos,
- e quivi mise fuoco nel tempio dʼApolline, il quale a queʼ tempi
- dallʼerror deʼ gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di
- tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne
- sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias, secondo che scrive
- Eusebio _in libro Temporum_, lʼanno 23 di Danao, re degli argivi, il
- quale fu lʼanno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo,
- scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché
- vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la
- creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran
- tratti deʼ ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto
- per beneficio della sua deitá, cioè dellʼarte della medicina, erano
- in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo
- turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e
- mandonne lʼanima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli
- stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora
- gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui
- scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_:
- _Phlegyasque miserrimus omnes_
- _admonet, et magna testatur voce per umbras:
- discite iustitiam moniti, et non contemnere divos_, ecc.]
- «Lo duca mio». Poi che lʼautore ha dimostrato Flegias essersi turbato
- del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive
- come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender
- si può che altra via non vʼera da poter piú avanti procedere, senza
- valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece
- entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fuʼ dentro parve
- carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non è dʼalcun
- peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da
- Virgilio, dove dice, nel sesto dellʼ_Eneida_, come Enea trapassò per
- nave Acheronte, dicendo cosí:
- _simul accipit alveo_
- _ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba
- subtilis, et multam accepit rimosa paludem,_ ecc.
- Poi segue lʼautore: «Tosto che ʼl duca ed io nel legno fui», cioè
- nella barca; e usa qui lʼautore il general nome delle navi per lo
- speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare è chiamato
- «legno», quantunque non sʼusi se non nelle gran navi. «Segando se ne
- va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due
- parti, cosí la nave, andando per lʼacqua sospinta daʼ remi o dal vento,
- pare che seghi, cioè divida, lʼacqua. «Lʼantica prora»: «antica» la
- chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora»
- la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre
- parti principali, delle quali lʼuna si chiama «prora», quantunque per
- volgare sia chiamata «proda» daʼ navicanti; e questa è stretta e aguta,
- percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender lʼacqua:
- lʼaltra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di
- dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo deʼ
- timoni, li quali in quella parte, lʼuno dal lato destro e lʼaltro dal
- sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va
- verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama
- «carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la
- poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato
- carico, sega «Dellʼacqua» del padule, «piú che non suol con altrui»,
- cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da
- Flegias.
- «Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
- nella quale lʼautor fa quattro cose: primieramente dimostra come un
- pien di fango fuori dellʼacqua del padule gli si dimostra; appresso
- scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in
- dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel
- fangoso fosse lacerato dallʼaltre anime deʼ dannati che quivi erano;
- ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite.
- La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed
- io:—Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».
- Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente
- navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte dʼacqua tratta per
- forza del vero corso dʼalcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro
- servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta:
- per lo qual nome lʼautore nomina qui, _licentia poëtica_, il padule per
- lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento che di quello
- dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno
- corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dallʼacqua
- del padule, «un pien di fango», unʼanima dʼun peccatore, «E disse:—Chi
- seʼ tu, che vieni anzi ora?»,—cioè anzi che tu sia morto.
- «Ed io a lui» risposi:—«Sʼio vengo, non rimango», percioché io non son
- dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi seʼ,
- che sí seʼ fatto brutto?»—dal fango il quale hai addosso.
- «Rispose», quellʼanima:—«Vedi che son un che piango».—Risposta
- veramente dʼuomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non
- rispondere se non per rintronico.
- «Ed io a lui:—Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere
- diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto:
- dicon primieramente che «_flere_», il quale per volgare noi diciam
- «piagnere», fa lʼuomo quando piagne versando abbondantissimamente
- lagrime; «_plorare_», il quale similmente per volgare viene a dir
- «piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «_lugere_», il
- quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con
- miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «_lugere,
- quasi luce egere_», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia
- quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico,
- percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto,
- quasi allʼoscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per
- cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della
- ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá,
- per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando
- questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere
- che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «_lugere_»
- viene «lutto», il vocabolo che qui usa lʼautore. «_Eiulare_», che
- per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace aʼ gramatici,
- «piagnere con alte boci»: e dicesi _ab «hei», quod est interiectio
- dolentis_; «_gemere_», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e
- quel pianto che si fa singhiozzando; «_ululare_» in volgare vuol dir
- «piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella
- che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo lʼautore
- a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna
- inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie
- del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.
- Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento,
- «Chʼio ti conosco, ancor sii lordo tutto».—Questo gli dice lʼautore,
- percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non lʼavea voluto dire.
- «Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee
- credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza
- di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse,
- lʼautore, percioché ingiurioso si reputava lʼautore aver detto di
- conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ʼl maestro
- accorto», della intenzione di questʼanima adirata, «lo sospinse», cioè
- il rimosse della barca, «Dicendo:—Via costá con gli altri cani!»,—deʼ
- quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli coʼ denti,
- come quivi dice si stracciavano glʼiracundi.
- [Nota: Lez. XXXIV]
- «Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte
- principale, nella quale Virgilio fa festa allʼautore, percioché ha
- avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella
- lʼautore una spezie dʼira, la quale non solamente non è peccato ad
- averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere
- usare questa spezie dʼira, Aristotile nel quarto dellʼ_Etica_ chiama
- «mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che
- sʼadirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali
- è convenevole dʼadirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e
- quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili.
- E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e
- non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare
- che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali sʼadira, tanto
- tempo essere adirato, quanto la ragione richiederá. Questa cotale
- spezie dʼira nʼè conceduta daʼ santi. Dice il salmista: «_Irascimini,
- et nolite peccare_»; volendo per queste parole che ne sia licito il
- commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre
- quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al
- discepolo, o lʼuno amico allʼaltro, accioché per quella commozione egli
- lʼammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non
- come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare
- dʼalcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú
- lʼira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non
- si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi,
- come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega
- che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di
- lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato
- commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un
- mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori eʼ compratori, dicendo:
- «_Domus mea, domus orationis_», ecc. Questa spezie dʼira chiamano molti
- «sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere lʼautore): il qual non
- voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti
- e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in
- cui egli cade; percioché quanto piú è savio lʼuomo, tanto piú cognosce
- le qualitá eʼ motivi deʼ difetti che si commettono, e per conseguente
- piú si commuove. E però dice Salomone: «_Ubi multum sapientiae, ibi
- multum indignationis_». E vuole lʼautore in questa particella mostrare
- questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si
- mostra per lo supplicio deʼ dannati in questo cerchio esser commosso,
- come neʼ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta
- festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo,
- in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa
- congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in
- dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia lʼessere isdegnoso.
- È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo,
- cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte si pone: il che,
- quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è daʼ discreti
- da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non
- debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie dʼira, le quali
- di sopra son mostrate esser dannose.]
- Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata
- quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi;
- «Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché
- noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice
- «il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo
- primieramente lʼonestá del costume, percioché il baciar nel volto è
- segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo
- sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò,
- il volto nostro è detto «volto» da «_volo vis_», percioché per quello
- neʼ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il
- voler del cuore dellʼautore era buono e onesto, Virgilio, approvando
- quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del
- corpo dellʼautore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.
- «E disse:—Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in
- quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando lʼira,
- mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in
- te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre
- nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui lʼautor «benedetta», a
- dimostrazion che, come lʼalbero, il qual porta buon frutto, si dice
- «benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon
- figliuolo. E in questa parte non si commenda poco lʼautore; ma egli è
- in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar
- sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di
- necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni
- ira esser peccato.
- «Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita,
- «persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che
- sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí
- il nome e la memoria dellʼuomo, nel quale state sono, come il fregio
- adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «sʼè
- lʼombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.
- «Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e
- sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio
- a biasimare, sotto i nomi deʼ piú eminenti prencipi, i fastidi e le
- stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma
- eziandio di molti plebei, li quali, per apparere dʼesser quel che non
- sono, si sforzano dʼesser ponderosi neʼ passi, gravi nel parlare,
- e nellʼadoperare di sentimento sublime, dove nellʼeffetto di niuno
- valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il
- quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il
- «re» è dinominato da «_rego regis_», il quale sta per «reggere» e per
- «governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste
- ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e
- però dice lʼautore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi
- non sono.
- A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo
- in quella tragedia la quale è nominata _Tieste_, dove dice: «Non fanno
- le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona
- della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate deʼ lor
- palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male
- del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente
- ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la
- buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di
- cavalli né dʼarmi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non
- temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi
- quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re
- questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.
- E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché
- posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in
- brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano
- i mali usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú
- vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili
- dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare,
- state operate per loro.
- «Ed io:—Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda
- parte principale di questo canto, nella quale lʼautor discrive come,
- secondo il suo desiderio, vide straziare allʼanime dannate quello pien
- di fango che davanti gli sʼera parato. E primieramente apre il suo
- desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, molto sarei vago Di
- vederlo attuffare», costui, il qual tu mi diʼ che fu persona orgogliosa
- (e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo,
- di vedere glʼincorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio
- significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo
- della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma
- qui lʼusa lʼautore largamente, prendendolo per lʼacqua di quella padule
- mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché
- cosí son grasse e unte come la broda.
- «Anzi che noi uscissimo del lago»,—cioè di questa padule. È il «lago»
- una ragunanza dʼacque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa,
- per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto
- il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento;
- per le quai cose lʼacqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove
- la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui
- lʼautore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando
- la licenza poetica, e largamente parlando.
- «Ed egli a me:—Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa
- padule. La quale lʼuomo, come deʼ fiumi, chiama «riva»; ma pone
- lʼautore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di
- quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili,
- accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual
- portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla
- riva. «Ti si lasci veder, tu saráʼ sazio», di quel che disideri. E poi
- ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu diʼ che hai,
- «converrá che tu goda»,—cioè ti rallegri.
- «Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello
- strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti»,
- cioè aglʼiracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne
- lodo e ne ringrazio».
- «Tutti gridavano», queʼ dannati, animando lʼun lʼaltro ad offender
- questʼanima. E che gridavano?—«A Filippo Argenti!»—quasi voglian
- dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.
- Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese
- Domenichi) deʼ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna
- volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare dʼariento,
- e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e
- nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo,
- eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che
- queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo
- molto essere iracundo scrive lʼautore lui essere a questa pena dannato.
- «E ʼl fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo
- vocabolo «bizzarro» sia solo deʼ fiorentini, e suona sempre in mala
- parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per
- ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna
- dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire
- o assalire dagli altri, «si volvea coʼ denti», per ira mordendosi.
- «Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di
- lui dopo questo si seguisse.
- «Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello,
- che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si
- percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli
- percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata.
- E segue: «Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse,
- «avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi
- sbarro», cioè, quanto posso apro.
- «Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda
- parte principale del presente canto, nella quale lʼautore dimostra
- come venissero neʼ fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon
- maestro disse:—Omai, figliuolo, Sʼappressa la cittá che ha nome Dite,
- Coʼ gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati,
- «col grande stuolo»,—cioè con la gran quantitá.
- «Ed io:—Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini
- i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi
- chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché
- questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che
- gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori
- della cittá venga, che lʼaltre case; e perciò non fa lʼautor menzione
- dellʼaltre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole
- «meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.
- «Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché
- la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea
- «Vermiglie, come se di foco uscite Fossero».—E questo dice a rimuovere
- una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha
- alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del
- padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se
- non fosse che esse medesime si facevan vedere per lʼessere affocate,
- cioè rosse.
- «E quei mi disse:—Il fuoco eterno, Chʼentro lʼaffuoca, le dimostra
- rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno».—
- Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual
- fu necessaria dʼaprire, accioché egli non estimasse quelle essere
- dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro allʼalte fosse,
- Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio
- significato, è quello palancato, il quale aʼ tempi di guerre si fa
- dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente
- chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual
- fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.
- «Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle
- essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di
- questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ cosí:
- _Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
- vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
- caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
- Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
- vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
- Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
- verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae,_ ecc.
- «Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale
- del presente canto, nella quale lʼautor discrive la raccolta fatta
- loro daʼ demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a
- Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose:
- primieramente discrive cui trovassero allʼentrare della porta di Dite,
- e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra
- come si sconfortasse per lʼandar Virgilio a loro. E comincia questa
- particella quivi: «Pensa, lettor».
- Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»;
- nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi
- di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta
- di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove ʼl nocchier», cioè
- Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al
- quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di
- comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogpo;
- e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte—Uscite!—ci gridò».
- Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il
- costume deglʼiracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan
- fare se non impetuosamente e con romore.—«Qui è lʼentrata»,—della
- cittá di Dite.
- «Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá
- di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di
- paradiso, in guisa di piova caddero nello ʼnferno, «che stizzosamente»,
- cioè iracundamente, «Dicean», con seco medesimi:—«Chi è costui, che
- senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta
- gente?»,—cioè per lo ʼnferno, il qual veramente si può dir «regno
- della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della
- morte temporale, e morti nella morte eternale.
- «E ʼl savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor
- parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il
- gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non
- parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende
- in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è,
- alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser:—Vienʼ tu solo», qua a noi,
- «e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò
- per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è
- venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle,
- percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia,
- ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per
- essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa»,
- tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai
- scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada»,—cioè sí oscura.
- E vuole in queste parole lʼautore quello dimostrare, che negli altri
- cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun deʼ ministri
- infernali sempre allʼentrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui,
- dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della
- cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché
- del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover
- conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in
- inferno discendere.
- «Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte
- principale, nella quale lʼautore mostra come si sconfortasse. «Pensa,
- lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle
- parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne
- la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Chʼio non credetti
- ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin
- quivi guidato mʼavea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un
- passo.
- E però, da questa paura sbigottito, dice:-«O caro duca mio, che piú
- di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo ʼnfinito, «Volte
- mʼhai sicurtá renduta, e tratto Dʼaltro periglio che incontro mi
- stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali
- impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti lʼira di Carone,
- di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi
- lasciar—dissʼio—cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza
- te; «E, se lʼandar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam
- lʼorme nostre insieme ratto»,—per la via tornandoci, per la quale
- venuti siamo.
- «E quel signor», Virgilio, «che lí mʼavea menato, Mi disse:—Non temer,
- ché ʼl nostro passo», cioè lʼentrare nella cittá di Dite, «Non ci può
- tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi
- e dican parole assai, essi non posson però impedire lʼandar nostro; e
- pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal nʼè dato», cioè da
- Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma
- qui mʼattendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta,
- e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la
- speranza buona, dicendo: «Chʼio non ti lascerò nel mondo basso»,—cioè
- nello ʼnferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.
- «Cosí sen va», verso queʼ demòni, «e quivi mʼabbandona Lo dolce padre»,
- cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E ʼl sí e ʼl no», che
- egli debba a me ritornare come promesso mʼha, o rimaner con coloro (sí
- come essi il minacciavano, dicendo:—Tu qui rimarrai—), «nel capo mi
- tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.
- E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a queʼ demòni, «si
- porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun
- dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei
- nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che
- fuor rimase».
- Puossi per questo atto, fatto daʼ demòni, comprendere che Virgilio
- dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo ʼnferno a colui
- il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché
- egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.
- «E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste
- parole lʼautore lʼatto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano
- e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come
- glʼiracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò
- che alcuno ha men che bene adoperato.
- Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta
- la turbazione del mansueto, dove in contrario lʼiracundo leva la
- testa e fa romore; «e le ciglia avea rase Dʼogni baldanza»; in quanto
- il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú lʼimpeto,
- il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito,
- cioè senza alcuno ardire, dove glʼiracundi col capo levato paiono
- baldanzosi e arditi; «e dicea neʼ sospiri», cioè sospirando dicea
- (nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del
- mansueto):—«Chi mʼha negate le dolenti case?»—quasi dica: questi
- demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono,
- hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual
- cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di
- sospirare e di rammaricarsi.
- «E a me disse», non ostante la sua perturbazione:—«Tu, perchʼio
- mʼadiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non
- te nʼentri alcuna paura, per ciò «chʼio vincerò la pruova», dellʼentrar
- dentro alla cittá, «Qual, chʼalla difension», che io non vʼentri,
- «dentro sʼaggiri», cioè si dea da fare perché io non vʼentri. «Questa
- lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non mʼè nuova,
- Ché giá lʼusâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro
- al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men
- segreta», in quanto quella è allʼentrata dellʼinferno, e questa è quasi
- al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta e piú riposta
- che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo
- giá risuscitato scese allo ʼnferno a trarne lʼanime deʼ santi padri, li
- quali per molte migliaia dʼanni lʼavevano aspettato; intorno al quale
- il prencipe deʼ demòni coʼ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che
- egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse
- coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo
- metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello ʼnferno, e
- rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della
- quale fa qui menzione lʼautore, cioè la men segreta, alla qual poi
- non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual
- senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere dʼalcuna altra,
- percioché, secondo la discrizione dellʼautore, nello ʼnferno non ha che
- due porte: delle quali è lʼuna quella di che di sopra è detto, e della
- quale esso dice qui: «Sovrʼessa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per
- me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta»,
- percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna
- morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale
- Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello
- ʼnferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.
- E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la
- qual senza serrame ancor si trova, «discende lʼerta». «Erta» è a chi
- volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla
- prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come
- spesse volte fa lʼautore, usa un vocabolo per un altro. «Passando
- per li cerchi», dello ʼnferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí
- come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza,
- alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra
- aperta»;—di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice
- lʼautore che, toccata la porta di quella solamente con una verga,
- lʼaperse.
- II
- SENSO ALLEGORICO
- «Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Nel presente canto
- non è alcuna ordinaria allegoria come neʼ passati, percioché non
- ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata
- allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole
- si spedirá.
- Dicono adunque alcuni le due torri, le quali lʼautore scrive essere in
- questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il
- trascendimento della furia deglʼiracundi, il quale trasvá sopra ogni
- debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte soprʼesse avere a
- dimostrare le tre spezie deglʼiracundi discritte nel canto precedente.
- Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme
- semplicemente essere state discritte dallʼautore a continuazione del
- suo poema; peroché qui parevʼessere di necessitá porre alcuna cosa, per
- la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a
- dovere li due venuti a riva passare allʼaltra riva, si come subitamente
- venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.
- Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben
- si può comprendere lʼautore intendere il vizio dellʼiracundia, li
- cui effetti, quanto piú possono, son conformi aʼ costumi del detto
- Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non
- sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo
- detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio,
- dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua
- operazion rispetto, e non a quella per la quale lʼautore vuol qui che
- egli significhi lʼiracundia; e, se contro a Virgilio sʼosasse dire, io
- direi che in questa parte lʼautore avesse avuta assai piú conveniente
- considerazione di lui.
- Il navicar lʼautore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo
- senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole
- nel peccato dellʼira divenire, quanto piú leggiermente può, passare
- superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite,
- sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle
- oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato
- della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare
- a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a
- perdizione.
- Della cittá di Dite, la qual dice lʼautore che avea le mura di ferro, e
- deʼ demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono,
- e, oltre a ciò, lʼavergli serrata la porta della detta cittá nel petto:
- tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente
- canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto
- mi fia, ne scriverò.
- FINE DEL SECONDO VOLUME.
- INDICE
- Canto quarto:
- I. Senso letterale p. 3
- II. Senso allegorico » 89
- Canto quinto:
- I. Senso letterale » 105
- II. Senso allegorico » 147
- Canto sesto:
- I. Senso letterale » 165
- II. Senso allegorico » 184
- Canto settimo:
- I. Senso letterale » 199
- II. Senso allegorico » 227
- Canto ottavo:
- I. Senso letterale » 261
- II. Senso allegorico » 283
- INDICE DEI NOMI VOLUME II
- Abacuc, profeta, 262 (_Hab_., II. 6, 9).
- Abele, 15.
- Abramo, 17.
- Achille, 130 sg.
- Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, 173 sg.
- Adamo, 12;
- Adimari, vedi Aldobrandi.
- Agostino (sant’),
- 10 (_Sermone della nativitá di Cristo_),
- 61 (_Civ. Dei_, VIII 14),
- 66 (_Civ. Dei_, IV),
- 72 (_Civ. Dei_, VIII 2),
- 113 (_Civ. Dei_, V 8 9),
- 242; III, 19 (_Civ. Dei_, V 8 9),
- 23 (_De haeresibus_).
- Alberigo (_Poètria_), 221.
- Alberto magno, 21.
- Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 179 sg.;
- Alí, commentatore di Tolomeo (_Comento del Quadripartito_), 140.
- Alighieri, padre di Dante, 69, 72.
- --Dante, 262.
- --Gemma, moglie di Dante, 262.
- Anassagora, 71.
- Anassalide, uditore di Platone, 66.
- Anselmo, arcivescovo di Canterbury (_De imagine mundi_), 41.
- _Apocalissi_, 202, 233, 235 (XVIII, 21);
- Apollodoro, grammatico, 29.
- Apuleio di Madaura, 62 (_De Deo Socratis liber_);
- Archiloco di Paro, 29.
- Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 276;
- Aristarco di Samotracia, grammatico, 28.
- Aristotile, 59 sg. (vita e opere), 66, 86, 186, 212, 241, 244;
- _Ethica_, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
- _Meteora_, 4, 114;
- _Politica_, 108;
- _De anima_, 141;
- Asclepiade, filosofo, 68.
- _Aspidopia_, vedi Esiodo.
- Astiage, 177, 214.
- Atalante, edificatore di Fiesole, 40·
- --re di Mauritania, 40.
- Aulo Gellio, 62 (_Noctes Atticae_, II. 1), 63 (N. A., I. 17),
- 70 (N. A., II. 18).
- Averrois, 61, 86.
- Avicenna, 85.
- Bianchi (setta dei), 171.
- Boezio, 148 (_Cons_., I, pr. 1);
- 72 (_De musica_),
- 84 (_De geometria_),
- 113 (_Cons_., IV, _pr_. 6),
- 144,
- 215 (_Cons_., _pr._ 1),
- 237 (_Cons_., _met._ 5).
- Bruto Caio Giunio, 54.
- Bruto Marco Giunio, 7.
- Caina, 143.
- Caino, 15.
- Calano d’India, 178.
- Ca1cidio, 62 (_Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone_).
- Callimaco, biografo d’Omero, 24, 25, 27.
- Cancellieri di Pistoia, 171.
- Cariddi, 203 sg.
- Carlo di Valois, 173 sg.
- Cassio, 7.
- Cavalcanti Guido, 174.
- Cerbero, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
- Cerchi (dei) famiglia, 170, 213.
- --Vieri, 171 sg., 262.
- --Ricovero, 172.
- Cesare, 46 sg., 87.
- Ciacco, 170, 264 sg.
- Cicerone, vedi Tullio.
- Clearco, uditore di Platone, 66.
- Cleopatra, 124 sg.
- Coppo di Borghese Domenichi, 276.
- Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, 41.
- Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
- Corniglia (Cornelia), 58.
- Creso, 214.
- Curzio Quinto, 26.
- David, 18 e vedi Salmista.
- Democrito, 67.
- Diogene, 69 sg.
- Dioscoride, 74.
- Donati, famiglia de’, 170, 213.
- --Corso, 171.
- Eaco, 242 (_Ecclesiasticus_, X 9).
- Elena, 127 sg.
- Elettra, 40.
- Empedocles, 72.
- Enea, 44, 87.
- Eraclito, 73.
- Eratostene, 28.
- Ercole, 97.
- Ermolao, tiranno di Atene, 27.
- Ettore, 43.
- Euclide, 83.
- Eusebio (_Liber temporum_), 9, 29, 30, 32, 33, 43, 54, 71, 72, 77,
- 95, 109, 123, 201, 268.
- Falacro, filosofo, 25.
- Faro di Messina, 203.
- Federico II, imperatore, I, 7, 8,
- Fiandra, 259.
- Filocoro, 29.
- _Filosofia_ (_Della_), opera di Clearco e Anassalide, 66.
- Firenze, 172 e _passim_.
- Flegias, 267 sg., 283.
- Francesca da Rimini, 137 sg.;
- Galeotto, 145.
- _Genesi_, 12 (I. 27), 15 (IV. 2-8), 19 (XXXII. 1-32), 176 (I. 26),
- 190 (III), 233 (III. 1, 14).
- Geremia, profeta, 92 (VIII. 7), 192.
- Giandonati Arrigo, 179.
- Giovenale, 34, 67 (_Sat_., X. 33-35), 215 (_Sat_., X. 365-6),
- 219 (_Sat_., X. 365-6), 243 (_Sat_., XIV. 135-7).
- Giulia, figliuola di Giulio Cesare, 58.
- Giustiniano, 28.
- Giustino (_Historia_), 51 (II. 4), 52 (XLIII. 1), 63 (II. 10).
- Iacopo (san), 242 (_Epist_., V. 1); III, 254 (barone di Galizia).
- Iob, 192 (VI. 6; XV. 16).
- Isaac, 19, 172, 175 (XI. 2-3); II, 96 (XL. 13), 192 (XXIV. 9).
- Isopo, 243.
- Israel (Iacob), 18.
- Lamberti (de’) Mosca, 179.
- Lancellotto, 144.
- Latino, re dei laurenti, 52.
- Lattanzio, 74, 76 (_Divinarum institutionum_, I. 23), 201
- (_Div. inst._, I. 11), 267.
- Leon tessalo, vedi Pilato.
- Lavina, figlia di Latino, 54.
- Leontonio, ateniese, protettore di Omero, 27.
- Lino, 78.
- Livio Tito, 45 (_Hist_., XL. 4).
- Lucano, 25, 33, 57 (_Pharsalia_, II. 326 sg.),
- Lucrezia, 55, 87.
- Macrobio, 124 (_Saturn_., V. 17).
- Malatesti Gianciotto, 137 sg.
- Malespina Morruello, 263.
- Maometto, 277.
- Marzia, moglie di Catone, 57.
- Mela Pomponio, 71 (I, 17, § 86.
- Moisé, 16.
- Museo, 77.
- Nepote Cornelio, 29.
- Neri (setta dei), 171.
- Nerone (_Troica_), 133.
- Nino, 117 sg.
- Noé, 15.
- _Numeri_, 233 (XXI. 6-9).
- Oderisi da Gobbio, 29 sg., 34, 53 (_Carm_., III. 17, vv. 7-8).
- Orfeo, 74 sg.
- Ovidio, 4 (_Metam_., XI. 623-5),
- 30 (_Tristia_, X. 3-4, 26, 21-22),
- 31 (opere),
- 32 (_Tristia_, II. 207, 103, 108),
- 40 (_Fasti_, IV. 169-78),
- 75 (_Metam_., X. 78-85),
- 86, 108 (_Metam._,VIII. 166-75),
- 134, 229 (_Metam._, V. 346 sg.).
- Pantasilea, 50.
- Paolo (san), II _Tim_., IV. 4; I _Cor_., XIV. 38),
- 192 (_Ephes_., V. 18),
- 238 (_Ephes_., V. 5).
- _Paradiso_ (cantica), 208.
- Parche, 219.
- Pasife, 107.
- Perini Dino, 264.
- Persio, 34, 242 (_Sat._, III. 66, 69-70).
- Petrarca Francesco, 61.
- Pilato Leone (Leonzio Pilato), 24, 77, 232, 201, 227.
- Plauto, 34.
- Pleiadi, 40 sg.
- Plinio, 48 (_Hist. nat_., VII. 25),
- 85 (_Hist. nat_., XXIX. 2).
- Po, 139.
- Poggi Leone, 262.
- --Andrea, 262 sg.
- Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
- _Proverbi_, vedi Salomone.
- _Purgatorio_ (cantica), 169, 200, 208;
- Rabano Mauro, 74 (_Liber originum_, XVIII. 4),
- 76 (_Orig_., XVIII. 4),
- 84 (_Orig_., XVIII. 5),
- 85 (_Orig_., XVIII. 5),
- 232.
- Rachele, 19.
- Rusticucci Iacopo, 179.
- Saladino, 59.
- Salmista, 92 (_Ps._ XXXV. 4),
- 97 (_Ps._, XVIII. 4-5),
- 99 (_Ps._, LVII. 5-6),
- 184 (_Ps._, VIII. 8-9),
- 234 (_Ps._. CXVII, 22),
- 272 (_Ps._, IV. 5).
- Santa Lucia di Napoli, 221.
- _Sapienza_ (_Liber sapientiae_), 192.
- Semiramis, 117 sg. (III. 813-14),
- 4 (_Herc. fur_., IV. 1065-77),
- 33-34, 64 (_Epist. ad Lucilium_, VI),
- 67 (_Epist. ad Luc_., LXI),
- 69 (_De beneficiis_, I1 4),
- 70 (_De ira_, III. 38),
- 78 sg., 87, 140 (_Hippolytus_, I. 294-301),
- 192, (_Epist. ad Luc_., XXIV),
- 223 (_De sacris Aegyptiorum_),
- 229 (_Herc. fur_., III. 782-8),
- 239 (_Epist. ad Luc_., IV),
- 242 (_Epist. ad Luc_., XVII),
- 274 (_Thyestes_, II. 344 sg.).
- Simonide poeta, 177.
- Solino, 76 (_De mirabilibus mundi_, X. 8)
- 126-27 (_De mir. mundi_, XXVII. 31, 41, non citato nel testo).
- Speusippo, nipote di Platone, 66.
- Spurima, giovane romano, 153.
- Stazio, 76 (_Theb._, V. 344, 435),
- 228 (_Theb._, VIII. 21-6),
- 254 (_Theb._, VIII. 739 sg.).
- Stige, 211,
- 207 (_Vit_., §§ 1-4),
- 46 (_Vit_., I, § 13),
- 48-9 (_Vit_., I, §§ 56, 51, 49, 51, non citato nel testo).
- Tacito, Cornelio, 34 (_Annales_, XV. 56, 57; XV. 69, 70),
- 80 sg. (_Ann_., XII, I. 8; XIII. 2; XII. 67, 68; XIII. 16; XIV. 8,
- 63, 64, 60, 51; XIII. 2; XIV. 53-56, 65; XV. 60-65).
- Tale (Talete), 71.
- Teodonzio, 76, 31, 35, 37, 98.
- Terenzio, 34, 163;
- Tertullio, 65.
- Tolomeo astronomo, 84.
- Tosinghi, 213.
- Tristano, 134 sg.
- Trogo Pompeo, 51.
- Tullio Cicerone, 28 (_Tusculanae quaestiones_, I. 39),
- 48 (_Brutus_, § 72),
- 62, (_Tusc._, II),
- 64 (_De senectute_, § 5),
- 68 (_Tusc._, V. 39),
- 71 (_Tusc._, I. 43),
- 77 sg., 128 (_De inventione_, II. 1),
- 132 (_De divinatione_, I. 21),
- 140 (_De natura deorum_, III. 23), 177 sg. (_Div_., I. 27, 30),
- 232 (_In Verrem_, IV. 50),
- 239 (_De officiis_, III. 5),
- 242 (Off., I. 20).
- Valerio Massimo, 58 (IV, 6. § 4, non citato nel testo),
- 61 (III. 4 _ext._ 1),
- 62 (VII. 2 _ext._ 1),
- 69 (IV. 3 _ext._ 4),
- 73 (III. 3 _ext._ 2, non cit.),
- 74 (III. 3 _ext._ 3),
- 83 (VIII. 12 _ext._ 1),
- 117 (IX. 3 _ext._ 4, non cit.),
- 153 (IV. 5 _ext._ 1, non cit.),
- 177 (I. 7 _ext._ 3; I. 5, non cit.).
- Verona, 262.
- Villani Giovanni, 173 (_Cron._, VIII. 39 sg.).
- Virgilio, 37 (I, 378),
- 39 (VI. 753-5),
- 46 (IV. 615-21; X. 606 sg.),
- 52 (VII. 45-8),
- 53 (XII. 164), 109 (VI. 422-3),
- 134 (X. 92),
- 142 (VI. 472-4),
- 168 (VI. 417-23),
- 169,
- 221 (VI. 323-4),
- 223,
- 228 (V. 548-9),
- 230 (VI. 563),
- 242 (III. 56-7),
- 268 (VI. 218-20, 412-14),
- 278 (VI. 552-8).
- _Vitis_ (_de_) _philosophorum_ (_Libellus de vita et moribus
- philosophorum_), 61.
- Zenobia, regina di Palmira, 153.
- Zenone, 73 sg.
- Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, 68.
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- altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio
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