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  Directory : Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2
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  • The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
  • altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio
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  • Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)
  • Author: Giovanni Boccaccio
  • Editor: Domenico Guerri
  • Release Date: December 7, 2014 [EBook #47565]
  • Language: Italian
  • Character set encoding: UTF-8
  • *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA ***
  • Produced by Giovanni Fini, Claudio Paganelli and the Online
  • Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images
  • generously made available by Editore Laterza and the
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  • http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
  • NOTE DEL TRASCRITTORE:
  • —Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
  • —Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
  • riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
  • mantenuto nel terzo volume.
  • SCRITTORI DʼITALIA
  • G. BOCCACCIO
  • OPERE VOLGARI
  • XIII
  • GIOVANNI BOCCACCIO
  • IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
  • E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
  • A CURA DI
  • DOMENICO GUERRI
  • VOLUME SECONDO
  • BARI
  • GIUS. LATERZA & FIGLI
  • TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
  • 1918
  • PROPRIETÁ LETTERARIA
  • GIUGNO MCMXVIII—49327
  • III
  • CONTINUAZIONE
  • DEL
  • COMENTO ALLA "DIVINA COMMEDIA"
  • CANTO QUARTO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Nota: Lez. XI]
  • «Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente
  • canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del
  • precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un
  • vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento,
  • il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel
  • principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto.
  • E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto
  • gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda,
  • procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti,
  • pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E
  • questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».
  • Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona
  • violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si
  • fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione,
  • la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ
  • comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ
  • ministri della giustizia punito nellʼaltra.
  • «Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un
  • costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri
  • indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle
  • virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual,
  • volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:
  • _Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
  • pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
  • fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc._
  • E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, _in
  • tragedia Herculis furentis_, dove dice:
  • _.....tuque o domitor,_
  • _somne, malorum, requies animi,
  • pars humanae melior vitae,
  • volucer, matris genus Astreae,
  • frater durae languidae Mortis,
  • veris miscens falsa, futuri
  • certus et idem pessimus auctor:
  • pater o rerum, portus vitae,
  • lucis requies noctisque comes,
  • qui par regi famuloque venis,
  • placidus, fessum lenisque fovens:
  • pavidum Leti genus humanum
  • cogis longam discere mortem, ecc._
  • Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la
  • camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun
  • disiderasse.
  • «Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso,
  • la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo;
  • e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora
  • il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per
  • lʼarterie al cerebro.
  • «Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli,
  • quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni
  • della terra fredde e umide e da esalazioni calde e secche, sí come
  • Aristotile mostra nel terzo libro della sua _Meteora_; percioché,
  • essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate,
  • sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che,
  • per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per
  • quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá,
  • chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo.
  • Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della
  • esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual
  • cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che
  • era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano
  • tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo
  • «tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è
  • stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.
  • «Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste
  • parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti.
  • «E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si
  • faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non
  • fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché
  • non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé
  • divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore
  • il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le
  • parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè
  • «Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva
  • dove il sonno lʼavea preso.
  • «Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era,
  • e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai»,
  • cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come
  • esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente
  • canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore
  • tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza,
  • «profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre
  • allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè
  • agutamente mandare, «il viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè
  • verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna
  • cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza
  • delle tenebre e della nebbia.
  • —«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte
  • del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per
  • non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e
  • questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere
  • deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda
  • quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa
  • due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti
  • di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati
  • infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e
  • femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio
  • gli solve. E comincia questa seconda quivi:—«Dimmi maestro mio», ecc.
  • Dice adunque cosí:—«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre
  • infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo»,—cioè in
  • inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural
  • luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto»,
  • cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna
  • delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono
  • le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali
  • vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E
  • qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí
  • per compassione.—«Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai
  • secondo»,—cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare,
  • renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni
  • ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è
  • buono e valoroso duca.
  • «Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto»,
  • riguardandolo nel viso, «Dissi:—Come verrò», io appresso, «se tu», che
  • vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi»,
  • cioè hai paura, «Che suogli al mio dubbiare esser conforto»? sí come
  • nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel
  • secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi.—
  • «Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse:—«Lʼangoscia delle genti»,
  • onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio
  • dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè
  • compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi
  • che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia
  • questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore
  • che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per
  • compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.
  • «Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché
  • la via lunga ne sospigne»—a dover andare. «Cosí si mise», procedendo,
  • «e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel
  • limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.
  • «Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea
  • comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È
  • il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato,
  • il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se
  • cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi
  • e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí
  • lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá
  • dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i
  • sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual
  • cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura
  • eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura»
  • un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il
  • testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni
  • moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»),
  • «facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento
  • non maggiore che il tremare.
  • «E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non
  • eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca
  • stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava
  • dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza
  • di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere
  • avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè
  • moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali
  • «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che
  • perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di
  • genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di
  • femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto
  • dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto
  • è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali
  • una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula,
  • la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non
  • mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe
  • questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella
  • presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno,
  • al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento;
  • anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che
  • è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione
  • del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in
  • alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo,
  • è conceduto.]
  • «Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per
  • ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da
  • doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare;
  • percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto
  • pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non
  • grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa
  • domandato non lʼavea) «a me» disse:—«Tu non dimandi, Che spiriti
  • son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso
  • fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che
  • meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col
  • farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ
  • che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che
  • tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun
  • bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo
  • bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione
  • è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo
  • Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «_Amen, amen, dico
  • tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest
  • intrare in regnum Dei_». È adunque il battesimo una regenerazion nuova,
  • per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti,
  • nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio,
  • dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento
  • valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza
  • esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte
  • della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che
  • è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ
  • quali dodici è il battesimo uno.
  • Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso
  • medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi
  • parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le
  • sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e
  • mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna;
  • perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto
  • non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di
  • Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a
  • prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti
  • dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di
  • coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e
  • fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto
  • deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E
  • di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io
  • medesmo»: percioché Virgilio, si come in _libro Temporum_ dʼEusebio
  • si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui
  • introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta
  • di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí
  • alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone _Della nativitá
  • di Cristo_, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi
  • scritti nella quarta egloga della sua _Buccolica_, dove dice:
  • _Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
  • magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
  • Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
  • iam nova progenies caelo delabitur alto._
  • Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere
  • santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per
  • avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso
  • quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al
  • popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che
  • uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non
  • adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti
  • al cristianesmo salvarsi.]
  • «Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o
  • vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente
  • adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali
  • o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere
  • in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme
  • vivemo in disio»:—il quale disio non è altro che di vedere Iddio,
  • nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa
  • cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e
  • noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere
  • speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e
  • perciò, quantunque _prima facie_ paia non molto gravosa pena essere il
  • disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora
  • piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna
  • intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per
  • Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno
  • agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando
  • coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte
  • mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino
  • alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello
  • astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono
  • segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale
  • per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi
  • immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran
  • sospesi», dallʼardore del lor desiderio.
  • —«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella
  • della prima parte della seconda division principale, nella quale
  • lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice
  • adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore».—Assai lʼonora lʼautore
  • per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che
  • fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la
  • quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed
  • intende, in questa domanda, non di voler sapere deʼ santi padri che da
  • Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la
  • domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta
  • fu per la venuta di Cristo, alcun altro nʼuscí mai: quasi per questo
  • voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che,
  • se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli
  • sʼingegnerebbe dʼadoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a
  • salute.] «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che
  • vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la
  • nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene
  • i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio
  • ciò che nella divina Scrittura nʼè scritto, son nondimeno di quegli
  • che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non
  • credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla
  • fede debita alle Scritture; e però cosí le cose passate, come quelle
  • che venir debbono, senza cercarne testimonianza dʼalcuno, si vogliono
  • fermamente credere e semplicemente confessare].—«Uscicci mai», di
  • questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera
  • pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella
  • mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse
  • salute: «O per lʼaltrui», opera, [o fatta o che far si possa per
  • lʼavvenire,] «che poi fosse beato?»—uscendo di qui e sagliendo in vita
  • eterna.
  • «Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè
  • intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva
  • la domanda generale, «Rispose:—Io era nuovo in questo stato». Dice
  • «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati,
  • dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni
  • erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo,
  • nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi
  • venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio
  • non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente»,
  • percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun
  • altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la
  • potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era,
  • questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda
  • dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al
  • limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto,
  • che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce:
  • donde si scrive che «_habitantibus in umbra mortis lux orta est eis_».
  • «Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo. [Adamo fu, sí come
  • noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto
  • di creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte
  • del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo
  • damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò
  • nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo lʼanima dotata di
  • libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era
  • immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e
  • secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale
  • tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni.
  • E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé
  • intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro,
  • dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né deʼ piedi,
  • ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di
  • perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:—Questa è osso
  • dellʼossa mie, e per costei lascerá lʼuomo il padre e la madre, ed
  • accosterassi alla moglie.—La qualʼè tratta dal suo costato, per darne
  • ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dellʼuomo,
  • lʼavea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e
  • guerra senza pace e senza triegua, come lʼodierne mogli odo che sono,
  • ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte
  • le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al
  • lor piacere, ma del frutto dʼuno albero solo, il qual vʼera, cioè di
  • quello «della scienza del bene e del male», sʼastenessero, percioché,
  • se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí
  • dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma lʼantico nostro
  • nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere
  • quelle sedie, le quali per la ruina sua e deʼ suoi compagni evacuate
  • erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, sʼella mangiasse
  • del frutto proibito, ella non morrebbe, ma sʼaprirebbero gli occhi
  • suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la
  • qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo,
  • incontanente sʼapersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano
  • ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si
  • nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di
  • paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú
  • figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, dʼetá di
  • novecentotrenta anni si morí.]
  • [Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno:—Tu hai detto
  • davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo, è perpetuo; Adam
  • fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale?—A
  • questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che
  • Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle
  • creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono
  • semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li
  • quali tutti sono di semplice materia creati: ma lʼuomo non fu cosí;
  • anzi fu creato di materia composta, sí come è dʼanima e di corpo,
  • e perciò non è perpetuo come sono le predette creature.—Ma quinci
  • può sorgere unʼaltra obiezione, e dirsi: egli è vero che lʼuomo è
  • composto dʼanima e di corpo, e queste due cose amendue furon create
  • da Dio; perchʼè dunque lʼanima perpetua, e ʼl corpo mortale? Dirò
  • allora lʼanima essere stata da Dio composta di materia semplice, come
  • furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del
  • semplice elemento della terra, senza alcuna mistura dʼaltro elemento,
  • sí come dʼacqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta
  • fare la statura dellʼuomo, fu adunque fatta del limo della terra,
  • avente alcuna mistura dʼacqua. Non che io non creda che a Dio fosse
  • stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa
  • fece tutte le cose, ma la commistione deʼ corpi ne mostra quegli essere
  • stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva
  • lʼanima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di
  • quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa
  • corruzione e morte deʼ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo
  • Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire
  • alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che
  • peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai
  • risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson
  • morire, se non come lʼanima nostra, la quale, quantunque peccasse col
  • corpo dʼAdamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo,
  • al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata
  • minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno
  • che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio,
  • si vuole ricorrere, aʼ teologi ed aʼ sufficientissimi litterati, la
  • scienza deʼ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si
  • distende.]
  • «DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il
  • primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia.
  • Leggesi nel _Genesi_ Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam,
  • essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che
  • appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due
  • cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche
  • sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per
  • far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le
  • spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle
  • sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a
  • Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel
  • fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel
  • viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre
  • eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello
  • sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto
  • a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La
  • qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al
  • fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non
  • prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone
  • ed ucciselo.
  • «E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini
  • sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio,
  • conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre
  • suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse
  • unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali
  • vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale
  • sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel
  • torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra
  • lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque
  • che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò
  • fuori il corvo: il qual non tornando, mandò la colomba, e quella tornò
  • con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il
  • diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio.
  • E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto
  • del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo
  • figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ
  • fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero
  • il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed
  • essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di
  • questa vita.
  • «Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo
  • stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei
  • maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché
  • bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo
  • tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto
  • un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che
  • passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua
  • menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che
  • divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le
  • sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e,
  • fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi
  • dentro il picciol fanciullo che piangea, disse:—Questi dee essere
  • deʼ figliuoli delle ebree.—Allora la fanciulla, che il vasello
  • seguiva, disse:—Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che
  • il balisca?—A cui la donna disse:—Vaʼ.—Ed ella andò e menò la
  • madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna,
  • la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che
  • figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli
  • batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e
  • quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una
  • fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di
  • Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo
  • dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non
  • volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli
  • mostrò: ed ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che
  • accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché
  • egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con
  • loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la
  • sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in
  • tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono
  • salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle
  • vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il
  • mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto,
  • e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero
  • loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra,
  • subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo
  • sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo,
  • esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio;
  • ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e
  • gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro
  • quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato
  • in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali
  • erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del
  • monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista».
  • Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá
  • di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab
  • di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua
  • sepoltura.
  • «Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá
  • deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria.
  • Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne
  • in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima
  • dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come
  • annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre,
  • un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che
  • gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando
  • esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in
  • mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il
  • figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso
  • il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni
  • era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la
  • sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui
  • fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote,
  • primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re
  • e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ
  • suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale,
  • essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli
  • seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione
  • di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara,
  • sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da
  • «_pater_», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a
  • dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».
  • «E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e
  • levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato
  • era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso
  • col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta
  • gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo,
  • il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale
  • ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli
  • meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per
  • moglie. Racquistò lʼarca _foederis_, la quale al popolo dʼIsrael era
  • stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga
  • persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio;
  • ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in
  • Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re.
  • E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli,
  • e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo
  • figliuolo.
  • «E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo
  • prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi
  • a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la
  • quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare. E tornandosi esso
  • di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito
  • sʼera, sí come nel _Genesi_ si legge, tutta una notte fece con un uomo
  • da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser
  • vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo:—Lasciami.—Al qual Giacob
  • rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui
  • domandò come era il nome suo, a cui esso rispose:—Io son chiamato
  • Iacob.—E quellʼuomo disse:—Non fia cosí: il tuo nome sará Israel,
  • percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai
  • contro agli altri uomini.—E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele
  • indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa
  • cagione i giudei non mangiano di nervo.
  • «Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi
  • nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro
  • femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e
  • ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal
  • quale aveva origine tratta.
  • «E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li
  • consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac,
  • suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute
  • gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí
  • come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban,
  • fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole,
  • Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo
  • sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli
  • dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed
  • essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data,
  • la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte
  • preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di
  • che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada
  • non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú
  • etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo,
  • similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri
  • sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel.
  • E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui
  • tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.
  • Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu
  • costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea
  • e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso
  • per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto,
  • era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto,
  • giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo
  • con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la
  • morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e
  • nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne
  • portassero.
  • «E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia,
  • Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a
  • questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è
  • vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi»,
  • cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran
  • salvati;»—e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora
  • non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo,
  • furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del
  • diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene
  • adoperare, la porta del paradiso.
  • [Nota: Lez. XII]
  • «Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della
  • seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo
  • avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel
  • cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella
  • prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice
  • come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice
  • come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide
  • i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli
  • quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»;
  • la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta
  • compagnia».
  • Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei
  • dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»;
  • e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire,
  • dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad
  • intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono
  • dʼalberi.
  • «Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati,
  • «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli
  • fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee
  • intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il
  • destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra
  • dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per
  • alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io
  • vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte
  • dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun
  • lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía».
  • Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume,
  • vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo
  • ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due
  • maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon
  • tali, che per gran cose conosciuti fossero.
  • «Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí»,
  • nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel
  • lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè
  • onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel
  • quale eravamo.
  • —«O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li
  • quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che
  • onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni
  • scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro,
  • commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove
  • è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼ_Etica_
  • dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono
  • in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine,
  • le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle
  • cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da
  • noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per
  • avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è
  • detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe
  • infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate
  • da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono
  • consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni
  • che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle
  • adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che
  • egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí
  • come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra
  • ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che
  • aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere
  • adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di
  • quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale
  • arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene
  • allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste
  • lode dallʼautore attribuite gli sono.]
  • «Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual
  • vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per
  • «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino
  • a qui abbiam veduti, «gli diparte?»—in quanto hanno alcuna luce, dove
  • quegli, che passati sono, non hanno.
  • «E quegli», cioè Virgilio, disse «a me:—Lʼonrata», cioè lʼonorata,
  • «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor
  • suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture
  • degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati
  • sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli
  • avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo.—[Intorno
  • alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina
  • giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né
  • alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda,
  • sono genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica
  • umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero
  • Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non
  • meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro
  • che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene
  • adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque
  • il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò
  • alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che
  • la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano
  • nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro
  • onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia
  • nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]
  • «Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda
  • principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti
  • onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi
  • rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A
  • differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto
  • esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa
  • per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra
  • cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi,
  • secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè
  • da me, «udita», cosí fatta:—«Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa,
  • per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la
  • dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed
  • assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale
  • adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga
  • trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da
  • lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua»,
  • cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita»,—quando andò al soccorso
  • dellʼautore, come di sopra è dimostrato.
  • «Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro
  • grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá, «a noi venire»,
  • come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna:
  • «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della
  • sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza
  • di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi
  • e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera
  • o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá
  • sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser
  • di leggiere animo e di volubile.
  • «Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire:—Mira colui con quella
  • spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella
  • vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava,
  • cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in
  • mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di
  • guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto
  • nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl
  • seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.
  • «Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi
  • dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo
  • greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle
  • scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché
  • in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in
  • publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice
  • dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come
  • che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si
  • sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per
  • la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia
  • insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando
  • ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato
  • suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon,
  • Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono
  • onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò
  • fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove
  • stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo
  • cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero
  • un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro
  • iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per
  • molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse
  • ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi
  • il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú
  • chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di
  • credere Lucano dove dice:
  • _Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,_
  • dicendo dʼOmero.
  • Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo
  • vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura
  • intervenne, nascendo egli, il quale disse:—Colui che al presente
  • nasce morrá cieco;—e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale
  • nome è composto _ab_ «_o_», che in latino viene a dire «io», e «_mi_»,
  • che in latino viene a dire «non», ed «_ero_», che in latino viene a
  • dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e,
  • come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi
  • dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli
  • studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo
  • udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in
  • quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i
  • famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí
  • poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo
  • chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto
  • perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e
  • quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere.
  • E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi
  • variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano
  • ancora alquanti, e massimamente la _Iliade_, distinta in ventiquattro
  • libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani
  • infino alla morte dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose
  • similmente lʼ_Odissea_, in ventiquattro libri partita, nella quale
  • tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo
  • il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude
  • deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora
  • un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero
  • guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa
  • e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion
  • deglʼiddii, e composene uno chiamato _Egam_, la materia del quale non
  • trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ
  • quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza
  • degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle
  • materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini.
  • E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua
  • _Iliade_ appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro
  • macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò
  • in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello
  • molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima
  • per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi
  • baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole
  • stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile
  • riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse
  • loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non
  • vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento
  • dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono,
  • cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea
  • che la _Iliada_ dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.
  • [Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu
  • di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o
  • povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un
  • pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri
  • panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non
  • aveva di che potesse dare le spese ad un fanticello che il guidasse
  • per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era
  • volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu
  • di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto
  • animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna
  • volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in
  • Atene ed avendo parte della sua _Iliade_ recitata, il vollero gli
  • ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva
  • scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo
  • gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che
  • per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo,
  • credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse
  • un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale
  • dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono
  • ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza
  • vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro
  • il cui titolo fu _De verbositate Atheniensium_, nel quale egli morse
  • fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla
  • altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da
  • Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che,
  • per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma
  • sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior
  • regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa,
  • turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo
  • in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo
  • vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il
  • fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]
  • [Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente
  • cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo
  • lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano,
  • forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se
  • preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero
  • che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non
  • aveano, se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però, non avendo
  • i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole,
  • e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in
  • essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli
  • aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti
  • rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed
  • essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per
  • caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel
  • cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí.
  • Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ
  • pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della
  • quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito;
  • onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella
  • onorevolmente il seppellirono].
  • Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia,
  • né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in
  • tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato
  • maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue
  • _Quistioni tusculane_ scrive Tullio cosí di lui: «_Traditum est etiam
  • Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae
  • regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna
  • quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita
  • expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?_»,
  • ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le
  • sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui
  • il nostro autore il chiama «poeta sovrano».
  • [Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare
  • padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto
  • regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che
  • egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere
  • stato dopo lʼemigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di
  • Lacedemonia e Latino Silvio re dʼAlba. Altri voglion che fosse dopo
  • questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio
  • re dʼAlba. Filocoro dice che egli fu aʼ tempi di Archippo, il quale
  • era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni
  • dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la
  • ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento
  • di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano
  • Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni:
  • e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni,
  • regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del
  • quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta,
  • perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero,
  • quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non
  • per la sua preeminenza singulare].
  • [Nota: Lez. XIII]
  • «Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai
  • umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e
  • «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun
  • servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e
  • chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia,
  • e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore
  • perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi
  • ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente
  • in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si
  • possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia
  • dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre,
  • il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò,
  • fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate,
  • nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò
  • similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e
  • fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il
  • quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti
  • da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei;
  • percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio _libri Temporum_
  • dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in
  • versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò
  • Orazio in un suo libro, il quale è nominato _Ode_. Compose, oltre a
  • ciò, un libro chiamato _Poetria_, nel quale egli ammaestra coloro,
  • li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir
  • debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente
  • comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle _Pistole_ e nei
  • _Sermoni_, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò
  • dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro
  • predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette
  • anni, secondo Eusebio dice _in libro Temporum_, lʼanno trentasei dello
  • ʼmperio dʼOttaviano Augusto.
  • «Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di
  • Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si
  • chiama _De tristibus_, testimonia, dicendo:
  • _Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
  • milia qui decies distat ab Urbe novem._
  • E, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ dice, egli nacque nella
  • patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu
  • di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza
  • maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della
  • scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro,
  • il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva
  • un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua
  • natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse
  • studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in
  • soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per
  • la qual cosa esso dice nel detto libro:
  • _Quidquid conabar scribere, versus erat._
  • Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
  • _Saepe pater dixit:—Studium quid inutile temptas?
  • Maeonides nullas ipse reliquit opes.—_
  • Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto
  • alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria,
  • se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente
  • meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu
  • ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa
  • comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e,
  • oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.
  • Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello
  • che chiamiamo lʼ_Epistole_. Appresso ne compose uno, partito in tre, il
  • quale alcuno chiama _Liber amorum_, altri il chiamano _Sine titulo_: e
  • può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla
  • che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata
  • da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine
  • titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa
  • intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra,
  • e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un
  • libro, il quale egli intitolò _De fastis et nefastis_, cioè deʼ dí neʼ
  • quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era,
  • narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in
  • che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari;
  • e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi:
  • e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o
  • che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale
  • è partito in tre, e chiamasi _De arte amandi_, dove egli insegna e
  • aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un
  • altro, il quale intitolò _De remedio_, dove egli sʼingegna dʼinsegnare
  • disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in
  • versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta.
  • Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo
  • distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel
  • libro _De tristibus_, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe
  • spazio dʼemendarlo.
  • Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione
  • dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa
  • lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata
  • Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla
  • morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore
  • nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama _Phasis_. E in
  • questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello _De
  • tristibus_, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli
  • intitolò _In Ibin_. Composevi quello che egli intitola _De Ponto_, e
  • tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
  • La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come
  • egli scrive nel libro _De tristibus_, mostra fosse lʼuna delle due o
  • amendue; e questo mostra scrivendo:
  • _Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error._
  • La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian
  • Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta
  • avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:
  • _Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?_
  • Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo
  • convenirgliele tacere, quivi:
  • _Alterius facti culpa silenda mihi est._
  • La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro _De arte
  • amandi_, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi
  • deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol
  • molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver
  • meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono
  • lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella
  • la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in
  • Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli.
  • Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di
  • Tiberio Cesare, secondo che Eusebio _in libro Temporum_ scrive, nella
  • predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
  • Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato
  • rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo
  • mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta
  • la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far
  • motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il
  • costrinse a morire.
  • «E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio _in libro
  • Temporum_ scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba,
  • donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di
  • Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel
  • carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di
  • laudevole ingegno molto, sí come nel libro _Delle guerre cittadine_
  • tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso
  • in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché
  • si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito,
  • leggendo, del suo libro, dovette una volta dire:—Che dite? mancaci
  • cosa alcuna ad essere equale al Culice?—Culice fu un libretto metrico,
  • il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia
  • laudevole e bello, non è però da comparare allʼ_Eneida_: e quantunque
  • Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí
  • fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa
  • pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼ_Eneida_;
  • della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu
  • costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in
  • tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun
  • letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano
  • costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli
  • stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e
  • la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu
  • determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma
  • piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce
  • esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il
  • tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il
  • satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello
  • di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse,
  • maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane
  • uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta
  • contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti
  • altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che
  • Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere
  • tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ
  • congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non
  • accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti
  • né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era
  • colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere
  • accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual
  • cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio
  • commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le
  • vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori
  • divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi
  • di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per
  • perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò,
  • ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.
  • «Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene»,
  • cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè
  • quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce
  • «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome
  • dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi
  • quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si
  • convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò,
  • non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto
  • Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse,
  • Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano
  • le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la
  • venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re
  • deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è
  • onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima
  • professione, come costoro erano con Virgilio.
  • «Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi
  • Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene
  • a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati
  • coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il
  • qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che
  • lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma
  • i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender
  • per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e
  • maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale
  • senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole
  • seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila
  • vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il
  • canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni
  • altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in
  • fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si
  • verificasse.
  • «E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per
  • lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno»,
  • che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi
  • fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando
  • lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano
  • coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini
  • infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con
  • salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi,
  • come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata
  • fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso
  • commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice,
  • «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma
  • quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da
  • credere, percioché lʼautore non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il
  • dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno
  • deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza
  • alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente,
  • e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie
  • conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere
  • la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora
  • per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale
  • prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il
  • vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che
  • fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte
  • un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar
  • gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti
  • interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma
  • i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa
  • che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una
  • letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non
  • è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver
  • detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu.
  • Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa
  • scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir
  • «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia
  • dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare
  • che ci piaccia quello che ci dispiace.
  • «E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo
  • contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu
  • questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra
  • loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali
  • conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella
  • sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui
  • sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti,
  • io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice,
  • percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno
  • redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno
  • non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual
  • cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta
  • sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun
  • suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per
  • Virgilio pel primo dellʼ_Eneida_, laddove esso discrive Enea essere
  • stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo
  • in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in
  • un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:
  • _Sum pius Aeneas, fama super aethera notus._
  • Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a
  • dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo
  • uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né
  • è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo?
  • Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá,
  • rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse
  • taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non
  • sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago,
  • della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che,
  • avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non
  • di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama
  • conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse
  • taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli,
  • mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo,
  • cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in
  • terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette
  • loro in ammaestramento, disse queste parole:—«Voi mi chiamate Maestro
  • e Signore, e fate bene, percioché io sono».—Direm noi in questo Cristo
  • aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo
  • no, percioché né in questo né in altra cosa peccò giammai colui che
  • era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò
  • le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti
  • ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato
  • lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi
  • aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro
  • maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le
  • parole seguenti dove dice:—«E se io, il quale voi chiamate Maestro e
  • Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete
  • voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho
  • fatto a voi, e cosí similmente fate voi»,—ecc. Adunque è talvolta di
  • necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto
  • peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.
  • [Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente
  • opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore
  • dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose
  • dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui
  • lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello
  • stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia
  • fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]
  • «Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della
  • seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti
  • entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di
  • quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque
  • poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di
  • sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio
  • di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello»,
  • cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose,
  • «colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano
  • dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il
  • che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse,
  • poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello»,
  • cioè nobilmente edificato, «Sette volte cerchiato dʼalte mura, Difeso
  • intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello,
  • «passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura
  • stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette
  • cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate
  • le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da
  • intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè,
  • né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere
  • puote intrare.
  • «Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor
  • primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender
  • si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina
  • una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi
  • tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá
  • dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio
  • soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli
  • cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non
  • corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti»,
  • in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso
  • riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan
  • rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora
  • nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci
  • soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta
  • piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo.
  • «Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel
  • luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto
  • dellʼ_Eneida_, ove dice:
  • _Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
  • et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
  • adversos legere, et venientum discere vultus, ecc._
  • «In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»;
  • percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si
  • potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.
  • «Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento.
  • Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di
  • fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa,
  • come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può
  • comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura;
  • il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati»,
  • da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro
  • li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle
  • loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti,
  • «in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser
  • maggiore.
  • [Nota: Lez. XIV]
  • «Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere
  • che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di
  • quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ
  • quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di
  • contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la
  • quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera
  • molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo.
  • Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere
  • stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in
  • autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono
  • lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se
  • non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá,
  • ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie,
  • chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come
  • detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ
  • poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in
  • cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato
  • Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo _De fastis_ cosí:
  • _Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
  • quae septem dici, sex tamen esse solent,_
  • _Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
  • nam Steropen Marti concubuisse ferunt,_
  • _Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
  • Maian et Electron Taygetenque lovi:_
  • _septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
  • Poenitet: et facti sola pudore latet._
  • _Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
  • non tulit, ante oculos opposuitque manum._
  • Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e
  • però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini
  • «virgiliane». Anselmo, _in libro De imagine mundi_, dice che queste
  • stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla
  • quantitá, percioché «_plion_» in greco viene a dire «moltitudine» in
  • latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i
  • virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata
  • di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione
  • alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette
  • stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle
  • stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome,
  • furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo.
  • Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole
  • è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con
  • la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí
  • sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano
  • nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende
  • per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non
  • fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse,
  • lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata:
  • adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa
  • sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di
  • Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui
  • denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere
  • quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione
  • forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n»
  • al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni
  • e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si
  • truovano.
  • Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí
  • tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver
  • letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno
  • di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non
  • solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata:
  • della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io
  • estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie
  • (e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii,
  • le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata
  • splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in
  • piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai
  • manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per
  • cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano,
  • figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse
  • diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo,
  • edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio,
  • che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia,
  • parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in
  • Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere,
  • essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il
  • disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in
  • Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor
  • discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e
  • pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli;
  • e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di
  • quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato
  • Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver
  • data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí
  • infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.
  • Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di
  • cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito
  • il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché,
  • conciosiacosaché di questa origine fosse Dardano, figliuolo dʼElettra,
  • cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano
  • fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo
  • questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di
  • cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano
  • fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto
  • Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e
  • Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi
  • turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi,
  • dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore
  • Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del
  • reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi
  • cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno
  • uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato
  • figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni
  • erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi
  • chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio
  • _in libro Temporum_, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in
  • Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí
  • adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di
  • Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come
  • detto è, puose in questo luogo primiera.
  • «Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ
  • quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini.
  • Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:
  • «Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di
  • Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza
  • corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare
  • nella _Iliada_ dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie
  • avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi
  • di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo,
  • suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e
  • Patrocolo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da
  • Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual
  • cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise,
  • e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò
  • con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta
  • amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese
  • fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad
  • Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto
  • poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo,
  • che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro
  • suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e
  • quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura,
  • infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua
  • tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e,
  • portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di
  • tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.
  • «Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise
  • troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente,
  • non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia,
  • splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie,
  • e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso
  • uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando
  • egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non
  • pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la
  • salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con
  • Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore
  • degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai
  • greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella
  • quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e
  • andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti
  • navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in
  • quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e
  • similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni
  • piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò
  • in Trazia, e quivi fece una cittá, la quale del suo nome nominò Enea,
  • nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come
  • Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi,
  • sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia
  • aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la
  • sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si
  • partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani.
  • Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le
  • navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui
  • fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol
  • poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in
  • Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato,
  • per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá
  • sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari
  • lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago
  • dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far
  • dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di
  • Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa
  • fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto
  • nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto
  • meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò
  • dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e
  • su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da
  • Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino
  • re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina,
  • la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re
  • deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte
  • battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno.
  • Ma alcuni altri sentono altrimenti.
  • Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio
  • che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro
  • Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso
  • Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che,
  • avendo Enea avuta vittoria deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume
  • chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né
  • mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca
  • Virgilio nel quarto dellʼ_Eneida_, dove pone le bestemmie mandategli da
  • Didone, dicendo:
  • _At bello audacis populi vexatus, et armis,
  • finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
  • auxilium imploret, videatque indigna suorum
  • funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
  • tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
  • sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
  • Hoc precor,_ ecc.
  • E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel
  • libro decimo dellʼ_Eneida_ finge che Giunone, sollecita di Turno, nel
  • mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da
  • Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata
  • seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene
  • che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso
  • cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della
  • contrada deificato e chiamato Giove indigete.
  • «Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare,
  • disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa
  • della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice,
  • denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse
  • tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio
  • _in libro Duodecim Caesarum_ dice, quando egli uscí candidato di casa
  • sua, egli lasciò la madre, e dissele:—Io non tornerò a te se non
  • pontefice massimo;—e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice
  • massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi
  • passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e
  • da quel cotale cognominato Cesare _ab caesura_, cioè dalla tagliatura
  • stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero,
  • tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e per madre
  • nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte
  • della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con
  • poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella
  • disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma
  • tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso
  • quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia
  • venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel
  • tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco
  • si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era,
  • avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da
  • pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si
  • crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò:
  • e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad
  • alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed
  • essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia,
  • ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ
  • popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con
  • loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo
  • piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando
  • il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu
  • negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne
  • venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito
  • sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue
  • in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli
  • fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie,
  • e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette
  • il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò
  • in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove
  • Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in
  • Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto
  • stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ
  • pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto,
  • di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava. Respirò la sua
  • fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò
  • deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse
  • Plinio, in libro _De naturali historia_, che egli personalmente fu in
  • cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne
  • dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto
  • dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in
  • Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente:
  • e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza
  • che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano
  • credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo
  • poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in
  • diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua
  • gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini:
  • né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né
  • nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci
  • furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».
  • Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque
  • suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e
  • leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri
  • metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu
  • grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente
  • a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza
  • addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu
  • delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto;
  • percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia
  • trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio,
  • Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo;
  • ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la
  • figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse.
  • Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella
  • della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di
  • Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon
  • questi suoi adultèri taciuti in parte daʼ suoi militi, triunfando
  • egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato:—Cesare si
  • sottomise Gallia, e Nicomede Cesare;—ed altri dicevano:—Ecco Cesare,
  • che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si
  • sottomise Cesare.—Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu
  • detto da molti:—Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il
  • calvo adultero.—E nella persona di lui proprio furon gittate queste
  • parole:—Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso
  • in prestanza.—
  • Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la
  • republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo,
  • dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere
  • lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il
  • conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare
  • continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale
  • lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro
  • dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ
  • senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a
  • lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser
  • re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato
  • con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò
  • Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il
  • procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta
  • poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter
  • esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare
  • si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire.
  • E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno
  • questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra
  • sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo,
  • Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia,
  • sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere,
  • né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi
  • seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte
  • di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga
  • dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi
  • della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di
  • ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la
  • morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi,
  • accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o
  • di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a
  • casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante,
  • disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede
  • fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i
  • congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della
  • corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo
  • lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo
  • arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel
  • vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra
  • quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero
  • in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome
  • sia «Giulia».
  • [Nota: Lez. XV]
  • «Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli
  • occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da
  • «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia
  • aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a
  • significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli
  • ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore,
  • o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti
  • veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.
  • «Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo
  • canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla
  • nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante
  • perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo
  • quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.
  • «E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle
  • donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per
  • se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo
  • tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle
  • quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo,
  • scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia,
  • quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani
  • di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di
  • Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata
  • insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia,
  • allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati
  • i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e
  • per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno:
  • avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi
  • furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto
  • al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero
  • animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e
  • quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando
  • la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero.
  • Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero
  • giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé
  • ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano,
  • non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per
  • la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita:
  • e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa
  • rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli
  • uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo
  • cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta
  • pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero
  • questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini,
  • e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli
  • maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano
  • e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o
  • a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare
  • cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano.
  • E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro
  • nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose,
  • lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo
  • era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella
  • con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte
  • legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi,
  • venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa
  • privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi
  • chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto
  • «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina
  • e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro
  • imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale
  • fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa
  • donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore,
  • figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e,
  • per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle
  • sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté
  • quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse,
  • Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la
  • salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che
  • alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella,
  • che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.
  • «Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino».
  • Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di
  • Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio
  • nellʼ_Eneida_ dice:
  • _...Rex arva Latinus et urbes
  • iam senior longa placidas in pace regebat.
  • Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
  • accepimus._
  • Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno,
  • cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando
  • Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada
  • di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento
  • nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato
  • figliuolo. Ma Servio _Sopra Virgilio_ dice che, secondo Esiodo, in
  • quello libro il quale egli compose chiamato _Aspidopia_, che Latino
  • fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e
  • però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino,
  • «_Solis avi specimen_», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice
  • il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché
  • Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe)
  • essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú
  • Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni
  • varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della
  • madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi,
  • allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:
  • _...et innantem Maricae_
  • _littoribus tenuisse Lirim;_
  • e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non
  • procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli
  • antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser
  • Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era
  • scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di
  • sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che
  • egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia
  • fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea
  • e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro
  • il quale egli scrive _De origine linguae latinae_, dice che Pallanzia,
  • figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono
  • alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da
  • quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile
  • succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá
  • promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella
  • quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima
  • battaglia.
  • «Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola
  • di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e
  • temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso
  • vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un
  • pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente:
  • e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio
  • Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma
  • poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta
  • la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle
  • cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che
  • senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli
  • fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio _in libro Temporum_
  • dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe
  • nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato
  • Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.
  • «Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile
  • uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il
  • suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino
  • Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire
  • contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo:
  • e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi
  • di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché
  • facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi
  • il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco
  • nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di
  • lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora
  • avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e
  • i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in
  • ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e
  • in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi
  • la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case
  • con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole
  • esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra;
  • e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma,
  • trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non
  • ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di
  • quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane
  • chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia,
  • e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro
  • insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva
  • di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna
  • dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri.
  • Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il
  • quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli
  • nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di
  • voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire
  • alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da
  • lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione
  • della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che
  • tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente
  • nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto,
  • disse:—Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai
  • motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente.—Ma per questo non
  • tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir
  • non voleva, le disse:—Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò,
  • e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che
  • io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia
  • trovata.—Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in
  • tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere
  • stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però,
  • quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo
  • pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.
  • Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena
  • di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare
  • Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto:
  • li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la
  • domandò Collatino:—Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le
  • cose nostre?—A cui Lucrezia rispose:—Che salvezza può esser nella
  • donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo
  • che di te.—E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino
  • era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli
  • altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno
  • la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser
  • contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia,
  • ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello,
  • disse:—Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá
  • impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi
  • impudica.—E detto questo, e posto il petto sopra la punta del
  • coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata,
  • entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e
  • Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del
  • fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá
  • di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli.
  • Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando
  • che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello
  • del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi
  • nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo
  • a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli
  • andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione
  • dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono
  • incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e
  • il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel
  • campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto
  • Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e
  • ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al
  • re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il
  • ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli,
  • appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che
  • piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu
  • lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo,
  • Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere
  • il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un
  • palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi
  • in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque
  • mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino
  • invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una
  • parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al
  • quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ
  • due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ
  • figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata
  • la battaglia degli altri, gridò:—Questi è colui che mʼha del regno
  • cacciato;—e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli
  • sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui.
  • Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il
  • colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne
  • che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni
  • morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ
  • nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto,
  • lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore
  • della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia,
  • fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi,
  • onorevolmente fu seppellito.
  • «Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.
  • «Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune
  • storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di
  • lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e
  • venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia,
  • lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone
  • uticense. Il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in
  • lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro
  • servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo
  • che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non
  • dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò
  • di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la
  • qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú
  • ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto
  • Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare
  • e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone,
  • e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per
  • moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro
  • che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di
  • questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di
  • Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione
  • ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse
  • servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per
  • suo marito.
  • «Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia
  • figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata
  • Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei
  • moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che,
  • essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo,
  • suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono,
  • era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che
  • sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo
  • sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna
  • violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave
  • dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che
  • nel ventre avea, e quindi morirsi.
  • «E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato
  • lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate,
  • la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia
  • deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello
  • Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di
  • Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente
  • moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro
  • fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie
  • di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non
  • solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le
  • guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere
  • essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli
  • affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano
  • manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto,
  • dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il
  • vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede
  • e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.
  • «E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di
  • Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú
  • addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in
  • fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di
  • vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor
  • costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini,
  • ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente
  • cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa
  • da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci
  • di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le
  • sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico,
  • e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore
  • e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli
  • non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si
  • nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.
  • «Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere
  • piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno,
  • Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo
  • appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica
  • famiglia».
  • Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re
  • di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la
  • madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide
  • vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti
  • dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu,
  • dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono
  • alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io
  • ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma
  • in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per
  • che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto
  • errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui
  • primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ
  • libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto,
  • fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero,
  • e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro
  • ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire
  • filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo
  • filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di
  • Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí
  • per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio
  • con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando
  • alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce
  • alcuna volta disse:—Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio.—Visse
  • appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali
  • parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di
  • quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non
  • conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione
  • di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né
  • meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico,
  • quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti
  • morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi:
  • _Etica, Politica_ ed _Iconomica_; né delle cose naturali alcuna ne
  • lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a
  • ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo
  • intendimento, sí come nella sua _Metafisica_ appare. E, brevemente,
  • egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i
  • quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si
  • sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone:
  • la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio
  • e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri.
  • Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte,
  • o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un
  • grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco
  • Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo
  • lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette
  • nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini
  • la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse
  • Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque,
  • se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta
  • la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che,
  • oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita.
  • Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré
  • anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di
  • stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel
  • luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri
  • dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e
  • maggior di tutti.
  • «Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».
  • Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima
  • condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio
  • Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica _De patientia_, il padre
  • suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe
  • nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e
  • quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia,
  • alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte
  • paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che
  • si legge nel libro _De vitis philosophorum_; ma santo Agostino, nel
  • libro ottavo _De civitate Dei_, scrive che egli fu uditore dʼArchelao,
  • il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto
  • tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto
  • deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli
  • ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio
  • nel libro secondo delle _Quistioni tusculane_: e in tanta sublimitá di
  • scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato
  • quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di
  • tenere Apulegio, e similmente Calcidio _Sopra il primo libro del Timeo
  • di Platone_, e come Agostino nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
  • egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio
  • predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il
  • quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò.
  • Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente
  • dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro
  • errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo.
  • Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli
  • fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni
  • perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo _Noctium
  • Atticarum_, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino
  • al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col
  • corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel
  • principio della meditazione gli poneva.
  • Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque
  • in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo
  • parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua
  • trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia,
  • nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «_hoc
  • scio, quod nescio_». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile
  • filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò.
  • Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la
  • colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non
  • solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo
  • giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito,
  • e non andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di
  • Socrate e disse:—Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare
  • per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che
  • io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non
  • ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli
  • sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa.—Al quale
  • Socrate umilmente rispose:—Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che
  • alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa:
  • io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro
  • che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del
  • dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do;
  • e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu
  • abbi me per tuo.—Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo
  • portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non
  • essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente
  • mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due
  • mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il
  • dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei
  • stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui
  • piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da
  • Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio
  • _in libro undecimo Noctium Atticarum_, perché egli non la mandava via,
  • conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per
  • la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli
  • aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le
  • quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe
  • ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della
  • casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il
  • quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa
  • disse:—Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere.—
  • Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane
  • uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico;
  • il che detto a Socrate, disse:—Questi può esser savio uomo dʼaver
  • lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi
  • degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre.—Era,
  • oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli
  • per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e
  • massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il
  • naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá
  • dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli
  • volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse;
  • di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il
  • batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione
  • sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che
  • solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori
  • suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone
  • e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi
  • di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo
  • e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo
  • una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai
  • infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo
  • animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per
  • bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli
  • ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti
  • musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse:—Maestro, che
  • è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere
  • alle menome cose musicali?—Al quale egli dimostrò sé estimare esser
  • meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla
  • saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché,
  • secondo scrive Tullio nel libro _De senectute_, egli era giá dʼetá
  • di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli
  • appellò _Panaletico_.
  • Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu
  • grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere
  • indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi
  • adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro piú vile
  • animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli
  • ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali
  • erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle
  • mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti
  • trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e
  • servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta
  • cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse
  • li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia
  • servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di
  • novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da
  • un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi
  • a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio
  • avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da
  • Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire
  • la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale
  • sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo
  • Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la
  • riprese dicendo:—Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi
  • morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o
  • avvenga che io giustamente condannato sia.—E, bevuto la venenata
  • composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò
  • dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per
  • la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi
  • discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo
  • si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri,
  • disse:—Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone.—E poi disse:—Se,
  • poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia
  • ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che,
  • partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire.—Né guari stette che
  • egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi
  • gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro,
  • e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle
  • Istorie _scolastiche_ si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e
  • morí regnante il re Assuero.
  • [Nota: Lez. XVI]
  • «E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu
  • figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie;
  • e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro
  • legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di
  • Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la
  • sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide,
  • stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo
  • libro della _Filosofia_ scrivono, finsero Perissione, madre di lui,
  • essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per
  • questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi
  • estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza,
  • la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni
  • altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta
  • soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che
  • umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che
  • a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo
  • egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono
  • trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti
  • che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa
  • offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che
  • Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina
  • lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere
  • un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da
  • esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí
  • seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea.
  • E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale
  • soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si
  • può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura
  • eloquenza.
  • Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla
  • ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate,
  • secondo che Agostino racconta nel quarto della _Cittá di Dio_, navicò
  • in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare.
  • E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in
  • Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai
  • agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu
  • fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ
  • tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi
  • uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte
  • cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a
  • ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla
  • concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto
  • domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai
  • eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta,
  • chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano
  • consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni
  • altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a
  • domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi,
  • visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a
  • Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e
  • scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ
  • suoi uditori solennissimi filosofi.
  • «Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli
  • stanno».
  • «Democrito» (_supple_) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo
  • sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al
  • re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito,
  • che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte
  • del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di
  • sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al
  • popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso,
  • secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere
  • di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta
  • della cagione, rispose:—Io rido della sciocchezza di tutti quegli li
  • quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo
  • tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare,
  • né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora.—Costui, percioché estimò
  • il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento
  • degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli
  • occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere
  • le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile
  • al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse
  • dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era
  • dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl
  • guidava: benché Tullio, nel quinto delle _Quistioni tusculane_, dice
  • questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro
  • filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio
  • e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse
  • unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso
  • estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio
  • o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di
  • tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto
  • suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non
  • secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta,
  • ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in
  • quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico,
  • si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte
  • si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava
  • «tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi
  • formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo,
  • costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore
  • di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per
  • le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser
  • creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel
  • quinto libro delle _Quistioni tusculane_ dice: «_Democritus, luminibus
  • amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona,
  • mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva
  • poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione
  • rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu
  • oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non
  • viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate
  • consisteret_».
  • «Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda
  • aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di
  • Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di
  • ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò
  • a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza
  • altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e
  • una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò
  • via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni
  • cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle
  • case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e
  • diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva
  • una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel
  • tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco
  • senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva
  • tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi
  • continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione
  • istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare
  • in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano
  • onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di
  • cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.
  • Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli;
  • per che non sará altro che utile lʼaverne alcuna raccontata. Dice
  • Seneca, nel libro quinto deʼ _Benefici_, che Alessandro, re di
  • Macedonia, sʼingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con
  • grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le
  • quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior
  • signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che
  • egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto
  • donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto
  • alla casa di Diogene, e per avventura postosegli davanti al sole,
  • e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello,
  • che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli
  • togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio,
  • tiranno di Siragusa, molto cercato dʼaverlo, né mai venir fatto gli
  • era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare
  • lʼincendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad
  • una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato
  • Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli
  • disse:—Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe
  • al presente lavare coteste lattughe;—quasi volesse dire:—Tu averesti
  • deʼ fanti e deʼ servidori, che te le laverebbono.—A cui Diogene
  • subitamente rispose:—Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe
  • come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.—Altra volta,
  • essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il
  • viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima
  • di dipinture e dʼoro e dʼaltre care cose, e non che le mura eʼ palchi,
  • ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, sʼaccostò
  • a colui che menato lʼaveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che
  • presenti erano, dissero:—Perché hai tu fatto cosí, Diogene?—Aʼ quali
  • Diogene prestamente rispose:—Percioché io non vedeva in questa casa
  • parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.—Oltre a
  • ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dellʼ_Ira_, avvenne
  • che, leggendo Diogene del vizio dellʼira, un giovane gli sputò nel
  • viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando lʼingiuria,
  • niunʼaltra cosa disse, se non:—Io non mʼadiro, ma io dubito se sará
  • bisogno o no dʼadirarsi.—Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno
  • sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale
  • sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: —Per certo coloro, che
  • dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati.—Fu, secondo
  • che Aulo Gellio scrive _in primo libro Noctium Atticarum_, Diogene
  • una volta preso: e, volendolo colui, che preso lʼaveva, vendere,
  • venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al
  • quale Diogene rispose:—Io so comandare agli uomini liberi.—E,
  • accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della
  • vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle _Quistioni
  • tusculane_, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale
  • si morí, fu domandato da alcuno deʼ discepoli suoi, quello che voleva
  • si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente
  • rispose:—Gittatelo al fosso.—Alla qual risposta colui, che domandato
  • avea, seguí:—Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche
  • e gli uccelli ti manuchino?—Al quale Diogene rispose:—Pommi allato
  • il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli.—A cui questo
  • addimandante disse:—O come gli caccerai, che non gli sentirai?—Disse
  • allora Diogene:—Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché
  • eʼ mi mangino?—E cosí si morí: il dove non so.
  • «Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore
  • di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i
  • costumi e le maniere deʼ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si
  • fuggí dʼAtene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la
  • signoria deʼ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue
  • possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate daʼ pruni e da
  • malvage piante, disse:—Se io avessi voluto guardar queste, io avrei
  • perduto me.—Questi nella morte dʼun suo figliuolo, assai della sua
  • fortezza dʼanimo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli
  • nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:—Niuna
  • cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva
  • che colui, che di me era nato, era mortale.—Ed essendo infermo di
  • quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla
  • cittá, fu domandato se gli piacesse dʼessere portato a morire nella
  • cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che
  • altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla
  • cittá in inferno.
  • «E Tale». Tale fu asiano, figliuolo dʼuno che si chiamò Essamite,
  • sí come Eusebio scrive _in libro Temporum_; e, secondo che Pomponio
  • Mela dice nel primo libro della _Cosmografia_, egli fu dʼuna cittá
  • chiamata Mileto, la quale fu in una provincia dʼAsia, chiamata Ionia:
  • e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della _Cittá di Dio_,
  • egli fu prencipe deʼ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in
  • quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche,
  • non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli
  • predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe
  • la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi
  • chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò lʼordine, il quale
  • ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua
  • opinione che lʼacqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti
  • gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano
  • procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra.
  • E, percioché esso fu deʼ primi filosofi di Grecia e, avanti che il
  • nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei
  • altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo
  • daʼ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola dʼoro, ed
  • essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente
  • mandata a lui; fu di tanta e sì discreta umiltá, che ricevere non la
  • volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni
  • scrivono, dʼaver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare
  • i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e
  • forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri
  • lasciando, essendo giá dʼetá di settantotto anni, morí. Ma, secondo
  • che scrive Eusebio _in libro Temporum_, pare che egli vivesse anni
  • novantadue. Fiorí neʼ tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia
  • lʼimperio deʼ medi.
  • «Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo
  • piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine
  • degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli
  • solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova
  • che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano
  • lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta
  • di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo
  • nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale
  • per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane
  • seguiva il suo nemico, dimenticato lʼodio, si ritenne ad ascoltarlo.
  • Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna
  • di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco,
  • e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante
  • Artaserse.
  • «Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di
  • lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli
  • compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti
  • da lui, che pochi eran coloro li quali potessero deʼ suoi testi trar
  • frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o
  • quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai
  • mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di
  • Democrito.
  • E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu
  • nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale
  • lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque
  • lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace
  • e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá
  • vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti
  • in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa,
  • soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza
  • prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi
  • accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per
  • salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni
  • i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La
  • qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender
  • Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali
  • fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone
  • alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú
  • col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal
  • guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò
  • a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani
  • circustanti: e quantunque dʼetá vecchio fosse, riscaldò sí con le sue
  • parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore,
  • uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E
  • questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.
  • Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una
  • medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare.
  • Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel
  • terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il
  • quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli
  • che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone
  • tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati,
  • disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava,
  • ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che,
  • cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti,
  • né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ
  • circustanti amici del tiranno ucciso fosse.
  • «E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e
  • che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il
  • quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride
  • dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse,
  • non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che
  • esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di
  • ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser
  • fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i
  • frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.
  • «E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, _in libro Divinarum
  • institutionum in gentiles_ scrive, fu figliuolo dʼApolline e di
  • Calliope musa, e a costui scrive Rabano, _in libro Originum_, che
  • Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea
  • composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti
  • scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva
  • fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli
  • diventar mansuete. Di costui, nel quarto della _Georgica_, racconta
  • Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata
  • Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore
  • tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo,
  • cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con
  • certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la
  • volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo,
  • pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per
  • che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso
  • morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo
  • discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a
  • cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E
  • conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in
  • compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare
  • la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli
  • rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro
  • rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto
  • sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe,
  • senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto
  • disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire
  • sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla.
  • Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé;
  • laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei
  • perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita
  • celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo
  • il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a
  • confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le
  • femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in
  • tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco,
  • che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e
  • coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e
  • isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino
  • nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente
  • divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua
  • cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre
  • imagini celestiali.
  • Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere
  • stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che
  • Solino, _De mirabilibus mundi_, afferma, questi cotali ciconi infino
  • nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di
  • loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti
  • che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia
  • a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle
  • quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza
  • grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di
  • volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo
  • Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati
  • argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi
  • sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di
  • Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo
  • Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero
  • padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte
  • di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato
  • Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello
  • faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ
  • quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice
  • Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco,
  • e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ
  • cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto
  • patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite:
  • e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni
  • degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora
  • dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando
  • questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine
  • loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si
  • prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro.
  • Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani Laomedonte,
  • e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva
  • esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo
  • grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito
  • di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio _in libro
  • Temporum_ scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato
  • discepolo dʼOrfeo.
  • «Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine
  • fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ
  • popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché
  • si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi,
  • giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo
  • lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I
  • suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque
  • in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò
  • ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si
  • possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri.
  • Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼ_Arte vecchia_ e la
  • _Nuova_. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro
  • chiamato _De oratore_, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò
  • che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici
  • libri, sì come quello _De officiis, Delle quistion tusculane, De
  • natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus,
  • De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De
  • amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis_ ed altri più: e
  • lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna
  • memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari
  • e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in
  • tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu
  • fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato
  • pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da
  • certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione
  • ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella
  • tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo
  • pericolo liberò la cittá. Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ
  • romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto.
  • E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed
  • essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato
  • in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di
  • quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove
  • Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi
  • di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da
  • Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta.
  • Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la
  • sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio
  • che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel
  • campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e
  • la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella
  • testa che la sua avea liberata da morte.
  • «Lino» (_supple_) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in
  • musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e
  • nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti
  • teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu
  • aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e
  • Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste
  • regnarono in Micena ed Egeo in Atene.
  • «E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza
  • dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo
  • appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio
  • Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo;
  • percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che
  • Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della
  • cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali
  • lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre
  • di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni
  • dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e
  • massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagione si fosse,
  • venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica,
  • nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta
  • uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e
  • presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di
  • Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone
  • Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito
  • neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai
  • giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente
  • di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi,
  • chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte
  • facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la
  • setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in
  • quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi
  • alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose
  • molti e laudevoli libri, sí come il libro _De beneficiis_, quello
  • _De ira_, quello _De clementia_ a Nerone, quello _De tranquillitate
  • animi_, quello _De remediis fortuitorum_, quello _De quæstionibus
  • naturalibus_, quello _De quatuor virtutibus_, quello _De consolatione
  • ad Elviam_ e altri piú. Ma sopra tutti fu quello _Delle pistole a
  • Lucillo_, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a
  • persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello
  • ancora che si chiama _Le declamazioni_. Compose, oltre a questi, un
  • altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che
  • morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello
  • discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da
  • Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non
  • paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe
  • fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da
  • lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e
  • della sua poca laudevol vita.
  • Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto
  • dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei
  • posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone,
  • figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina e discepolo di
  • questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun
  • dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale
  • men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire
  • Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina,
  • sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie,
  • rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente
  • apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una
  • gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva
  • per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto
  • dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo
  • di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed
  • avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli,
  • lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono
  • sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo
  • Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte
  • le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e
  • in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli
  • il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando
  • che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece.
  • Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò
  • del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a
  • fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo
  • ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.
  • Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone
  • da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ
  • centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile
  • giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo
  • morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria
  • malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la
  • sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che
  • scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue _Storie_,
  • tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro
  • miglia vicino a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte
  • pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò
  • dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina
  • sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli,
  • gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno,
  • chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed
  • esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare
  • fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato,
  • che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di
  • riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute
  • del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno
  • non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo
  • non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente
  • avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole,
  • presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale
  • Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose:
  • niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta
  • nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che
  • tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il
  • quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno
  • deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca
  • senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole
  • del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò
  • Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato
  • gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé
  • lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò
  • era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono,
  • essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e
  • della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora
  • con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in
  • fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove
  • per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno
  • alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di
  • Nerone; e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl
  • fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato
  • lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con
  • forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno
  • passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il
  • sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene
  • delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita
  • sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire
  • scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che
  • dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi
  • troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido
  • amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva
  • apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li
  • membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse
  • al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua
  • molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú
  • prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita
  • questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore.
  • E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna
  • pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico,
  • arso il corpo suo.
  • Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio
  • Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca
  • aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone
  • ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse
  • dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú
  • fosse stato eletto allʼaltezza del principato.
  • Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non
  • sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no:
  • conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo
  • e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata
  • singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno
  • nellʼultima di quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali,
  • bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per
  • cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita,
  • perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a
  • confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte
  • di lui da san Girolamo _in libro Virorum illustrium_, nel quale scrive
  • cosí: «_Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus,
  • et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem
  • in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae
  • leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus,
  • cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se
  • dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic
  • ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone
  • interfectus est_».
  • [E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua
  • salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú
  • caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore;
  • parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che
  • esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale
  • i nostri santi chiamano «_flaminis_», non essendo rigenerato secondo
  • il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito
  • santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore,
  • cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana
  • generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di
  • Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi
  • a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in
  • questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile,
  • come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello
  • crederne che gli pare.]
  • [Nota: Lez. XVII]
  • «Euclide geometra» (_supple_) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né
  • di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo,
  • nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo
  • di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama
  • sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro
  • filosofo trapassato. Esso adunque compose il libro delle _Teoremate_
  • in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio
  • ottimamente scritto.
  • «E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che
  • opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato
  • di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri
  • credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché
  • alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la
  • incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore,
  • sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ
  • tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso
  • in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse,
  • o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo
  • astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che
  • venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼ_Almagesto_,
  • il _Quadripartito_, e ʼl _Centiloquio_, e molte tavole a dovere con
  • le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor
  • movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi
  • che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.
  • «Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano _in libro XVIII Originum_
  • scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia,
  • nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo
  • e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un
  • fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura
  • lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa
  • egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e
  • lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli
  • ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò
  • la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che
  • Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui,
  • investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò;
  • appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato
  • dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella
  • ampliò molto; ed essendo avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di
  • Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo
  • carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li
  • quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi
  • petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera
  • concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di
  • questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che
  • Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò
  • lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che
  • alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la
  • quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte
  • della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo _De
  • historia naturali_, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte
  • stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo
  • Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano,
  • nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento
  • anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può
  • dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo
  • nelle _Questioni del Genesi_ che, avendo una femmina partorito un bel
  • figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita
  • sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare,
  • non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la
  • qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta
  • di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo,
  • fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione
  • e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse
  • novantacinque anni, e poi si morí.
  • [«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione
  • nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo
  • prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro
  • non ne so.]
  • «E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove
  • primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte
  • da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove
  • primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu
  • scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad
  • Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene
  • a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano,
  • al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e
  • dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che
  • appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni
  • ottantasette, finío la vita sua.
  • «Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna;
  • altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno,
  • intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e
  • metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che
  • quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non
  • seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni
  • altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ
  • Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera
  • dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per
  • divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento
  • prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e
  • dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.
  • Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa
  • quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa
  • raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore
  • a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio
  • quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali
  • che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne
  • nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle
  • raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare
  • loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai
  • cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il
  • quale è intitolato _Sine titulo_, assai chiaro può vedere lui essere
  • stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a
  • questo, nel libro il quale egli compuose _De arte amandi_, dá egli
  • pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi
  • Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana
  • incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom
  • fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle
  • sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno,
  • nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi
  • del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che
  • Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse,
  • e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il
  • tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è
  • gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è,
  • fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá;
  • rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente
  • occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata.
  • Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna
  • fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato
  • non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale,
  • come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo,
  • adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello.
  • E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra
  • lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere
  • appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore
  • a se medesimo contradire.
  • Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere:
  • essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle
  • convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e
  • queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama
  • che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti
  • e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese
  • sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra
  • gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere
  • conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo
  • non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse, né
  • in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere
  • in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o
  • vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e
  • gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende
  • esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per
  • virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe,
  • quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque
  • fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato,
  • e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose
  • peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.
  • «Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti
  • uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché
  • molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può,
  • dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti,
  • «il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti
  • dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non
  • solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che
  • vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien
  • meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le
  • particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia,
  • si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.
  • «La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della
  • seconda parte principale della suddivisione del presente canto,
  • dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti,
  • e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio
  • e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si
  • scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale
  • venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta»,
  • aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun
  • tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí
  • come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori.
  • «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che
  • luca», cioè faccia lume.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso
  • allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del
  • precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come
  • talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi
  • e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo
  • dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e
  • di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in
  • lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal
  • mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto,
  • cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle
  • quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga
  • con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede,
  • dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio
  • è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è
  • manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per
  • lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena
  • ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel
  • mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per
  • questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá
  • il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo
  • peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo
  • nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]
  • [Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale
  • sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo
  • cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno,
  • e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è
  • qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle
  • quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé
  • furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo
  • dice san Paolo: «_Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare
  • transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare_». La
  • seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente
  • neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice
  • nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «_Euntes ergo, docete omnes gentes,
  • et baptizate eos_», ecc. La terza maniera si chiama «_flaminis_», cioè
  • di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «_Super quem
  • videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat_». E
  • di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni
  • ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa
  • usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come
  • cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere
  • che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «_sanguinis_»,
  • e di questa dice lʼEvangelio: «_Baptismo habeo baptizari, et quomodo
  • coarcor, usque dum perficiatur_?» E in questo credo esser battezzati
  • coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di
  • pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare,
  • e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli
  • uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire.
  • Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: _Esodo_: «_Divisa
  • est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris_». Nel
  • secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali
  • dice lʼEvangelio: «_Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit_».
  • Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono,
  • e di questi dice lʼ Evangelio: «_Nisi quis renatus fuerit ex aqua et
  • Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum_». Nel quarto sono
  • battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «_Calicem
  • quidem meum bibetis_», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio
  • dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá
  • Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi
  • battesimi battezzato fosse.]
  • Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per
  • difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia
  • al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto
  • commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori
  • si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che
  • con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come
  • i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire,
  • cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati
  • dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli
  • sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta
  • nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione
  • recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu
  • commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti;
  • punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per
  • alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della
  • giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola
  • gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza
  • dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è
  • gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono
  • intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai
  • ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente
  • disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ
  • quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno
  • esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto
  • dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena
  • la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente,
  • trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se
  • morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema
  • miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che
  • alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre
  • maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e
  • come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.] [Intorno
  • alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare
  • che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra
  • opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli
  • li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a
  • quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove,
  • par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla
  • ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio,
  • e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol
  • fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali
  • anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in
  • ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore
  • abbia tanto bene opinato.]
  • [Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente
  • neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non
  • scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata
  • redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia:
  • «_Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël
  • autem me non cognovit_». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello
  • che san Paolo dice: «_Ignorans, ignorabitur_», e massimamente a quegli
  • deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «_Noluit intelligere,
  • ut bonum ageret_». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a
  • questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né
  • lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará
  • nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «_Non novi vos, discedite a me,
  • operarii iniquitatis_». La qual cosa accioché avvenir non possa, con
  • ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio,
  • e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna
  • maniera scusarsi.]
  • [Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia
  • riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori
  • giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra
  • ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza _facti_» ed
  • alcunʼaltra «ignoranza _iuris_». E vogliono che ignoranza _facti_
  • sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser
  • pervenuta alla notizia degli uomini: _verbi gratia_, il papa col
  • collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge
  • fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna
  • cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante
  • questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o
  • vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza
  • _facti_, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe
  • manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno
  • indovinare.]
  • [Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam
  • sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo
  • secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi
  • che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala,
  • e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare
  • e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il
  • debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando
  • non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi
  • dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per
  • dire e per giurare:—Io non fui mai in parte dove questa proibizion
  • si facesse;—percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento
  • dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli
  • con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta,
  • cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza
  • iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per
  • la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di
  • seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si
  • possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza _facti_, e
  • per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ
  • nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza _facti_, si può in
  • questa maniera comprendere.]
  • [Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura
  • cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale,
  • che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della
  • gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in
  • diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non
  • solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e
  • ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui
  • il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava
  • ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono.
  • Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni,
  • che piú di sentimento cominciarono a prendere «_a naturali_», una
  • brieve legge aggiunsero, cioè:—Non far quello ad altrui, che tu non
  • volessi che fosse fatto a te.—E da questa nacque un modo di vivere
  • piú universale, il quale essi chiamarono «_ius gentium_»: per lo quale
  • assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ
  • popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo
  • quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano
  • alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano
  • e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte
  • nazioni.]
  • [Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad
  • alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare
  • le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender
  • regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della
  • sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che
  • fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi
  • diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli
  • altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò
  • e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa
  • medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam.
  • Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in
  • grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il
  • rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli
  • re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi
  • delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e
  • menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se
  • non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava;
  • Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due
  • tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il
  • popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge,
  • che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo
  • Eusebio _in libro Temporum_, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno
  • del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno
  • quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo
  • tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in
  • Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi,
  • morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza
  • cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto,
  • e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo
  • la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue
  • guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime
  • avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome
  • acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si
  • dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati,
  • tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]
  • [Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali
  • sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si
  • dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le
  • leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge
  • data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di
  • vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che
  • Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o
  • con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo?
  • Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne
  • alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé
  • per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si
  • dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi
  • della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto
  • queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della
  • futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo
  • io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice
  • Isaia: «_Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius
  • fuit_?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il
  • dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici
  • dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo,
  • come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non
  • fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la
  • loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza
  • facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso,
  • presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere
  • questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe
  • ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto
  • che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo
  • gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean
  • veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui
  • essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate
  • le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti
  • guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva,
  • e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan
  • però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non
  • facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della
  • quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro
  • dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e
  • magnificarono per loro Iddio?]
  • [Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro
  • annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita
  • che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non
  • chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire
  • i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire:—Iona
  • fu mandato da Dio a Ninive;—ma esso non andò ad ammaestrargli della
  • legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe.
  • E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono
  • reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser
  • sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in
  • quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si
  • debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non
  • fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí,
  • quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella
  • celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che
  • viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo
  • esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per
  • lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita
  • eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini
  • arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il
  • salmista; «_Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces
  • eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae
  • verba eorum_». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni,
  • e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni
  • e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le
  • nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede
  • alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per
  • quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia
  • intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma
  • speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto,
  • se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non
  • furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano
  • indovinare.]
  • [Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli
  • e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro
  • sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare,
  • eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello
  • che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio,
  • furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente
  • vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze,
  • lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni
  • altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno
  • di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben
  • fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo
  • con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si
  • dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di
  • Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di
  • ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne
  • dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]
  • [Se forse volessero alcuni dire:—Cosí come per forza dʼingegno essi
  • adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e
  • la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei,
  • gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per
  • conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli
  • che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli
  • ammaestrassero—potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto
  • gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan
  • tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo
  • ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli
  • affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo
  • pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí
  • essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in
  • cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá
  • rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e
  • desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla
  • loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione,
  • non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli
  • ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei
  • e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non
  • potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di
  • fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]
  • [Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che
  • Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data
  • manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la
  • loro ignoranza, sí come ignoranza _facti_, si debba potere scusare?
  • E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che
  • quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li
  • quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che
  • par che san Paolo voglia, quando scrive: «_Servus nesciens vel ignorans
  • voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis_»; e in altra
  • parte: «_Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci_».]
  • [_De ignorantia iuris_ non dico cosí; percioché, come di sopra
  • dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata
  • e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la
  • ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e
  • supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non
  • lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata
  • per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro
  • virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la
  • sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma
  • a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è
  • Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali
  • io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente
  • nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo:
  • «_A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur_», ecc. E
  • il salmista: «_Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non
  • exaudirent voces_», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola,
  • che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «_ignorans
  • ignorabitur_», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno,
  • che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto
  • alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]
  • [Nota: Lez. XVIII]
  • Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso
  • da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura
  • che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E,
  • secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono
  • della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo,
  • cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due
  • spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie
  • deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i
  • naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la
  • cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini
  • e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí
  • eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino
  • il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale
  • circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose,
  • dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non
  • si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo
  • bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze,
  • i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima
  • apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose
  • si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che
  • non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come
  • lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono
  • aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili
  • come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno;
  • oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in
  • quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor
  • questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad
  • intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a
  • rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò,
  • chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien
  • passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non
  • con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni
  • e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente
  • scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua,
  • cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella,
  • e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria
  • Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per
  • la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili:
  • li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e
  • disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche
  • degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello,
  • cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè
  • con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar
  • quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si
  • perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò
  • con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le
  • quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano
  • gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava,
  • al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ
  • liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle
  • rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse
  • intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i
  • predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ
  • quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la
  • dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano
  • le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si
  • solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno
  • da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol
  • divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne
  • alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la
  • grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la
  • rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a
  • ciascuno.
  • Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi
  • cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il
  • qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato
  • della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè
  • daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro
  • che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è
  • verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte
  • dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui
  • il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini,
  • e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ
  • quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere
  • deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque
  • facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito,
  • con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti
  • i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante
  • dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di
  • coloro che son degni di laude.
  • Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini
  • dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al
  • quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole,
  • che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa
  • è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare
  • ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare
  • le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose
  • opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o
  • dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla
  • battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere
  • ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare
  • è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia,
  • li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi,
  • nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno
  • tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si
  • riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina
  • militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in
  • quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne,
  • le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici
  • discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non
  • gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre
  • nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi
  • filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e
  • delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo
  • stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre
  • ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito,
  • nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare;
  • trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di
  • servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori,
  • acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli,
  • dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune
  • dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei
  • nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella
  • iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno
  • adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ
  • filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece
  • lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose
  • donne in compagnia deʼ solenni filosafi.
  • CANTO QUINTO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • «Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come
  • negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose:
  • e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli,
  • partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori
  • di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci
  • nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra
  • come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in
  • questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua
  • alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda
  • parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ
  • peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e
  • in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella
  • pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi
  • puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar
  • gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza
  • quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la
  • quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che
  • lʼuno spirto».
  • Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da
  • queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio
  • primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno;
  • e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio,
  • «che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion
  • perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e,
  • quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che
  • ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor»,
  • in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in
  • sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè
  • a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non
  • avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il
  • superiore, egli è molto maggior di pena.
  • «Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor
  • mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori;
  • e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di
  • trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare
  • del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui
  • trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i
  • peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte
  • quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando:—«Guai
  • a voi, anime prave», ecc.;—nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli
  • spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e
  • ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque:
  • «Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo
  • Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e
  • ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola
  • dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e
  • fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con
  • operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto,
  • fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle
  • pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli
  • avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e
  • bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si
  • mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine
  • piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo
  • per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal
  • disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente
  • portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare,
  • e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine,
  • paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto
  • piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando,
  • il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi,
  • ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di
  • tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos,
  • divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata
  • Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole,
  • intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale,
  • neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza
  • oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per
  • invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos,
  • avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per
  • andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al
  • padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a
  • essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual
  • fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro
  • bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come
  • Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello
  • per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti,
  • per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio
  • dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i
  • megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re
  • deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli
  • ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise
  • e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose
  • imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette
  • liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui
  • che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali in anniversario
  • dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli
  • ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro
  • a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del
  • Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che
  • Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza
  • averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed
  • ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta
  • ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e
  • di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e
  • mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria
  • della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo
  • ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del
  • laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non
  • fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di
  • mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva
  • nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza
  • dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro
  • cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna
  • di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno
  • ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti
  • andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire,
  • se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto
  • per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che
  • per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che
  • Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di
  • Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio
  • liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò
  • Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte
  • alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia,
  • e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano
  • incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che
  • Aristotile scrive nella _Politica_, fu dalle figliuole di Crocalo
  • ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ
  • cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti,
  • fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí
  • Virgilio:
  • _Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum conciliumque vocat,
  • vitasque et crimina discit,_ ecc.
  • Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá
  • dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di
  • quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú
  • della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime
  • nʼè parte mescolata.
  • Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire
  • gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente
  • persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della
  • eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina,
  • dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su
  • una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea
  • per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti,
  • li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun
  • segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti
  • figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella
  • in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza
  • avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi
  • re di Creti, secondo che scrive Eusebio _in libro Temporum_, la prese
  • per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto.
  • E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser
  • figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o
  • perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale
  • noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa,
  • che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente
  • giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute
  • non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo
  • se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò
  • che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori,
  • mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto
  • da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che
  • esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono
  • avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio
  • non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli
  • apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in
  • Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la
  • guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in
  • Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta.
  • Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno,
  • percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam
  • dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose
  • le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò
  • uficio di giudice.
  • Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore
  • delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi
  • «orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia».
  • Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo
  • albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú
  • caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo
  • Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo
  • esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare
  • delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il
  • luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare,
  • senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita
  • qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene
  • che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la
  • esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e,
  • dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato.
  • E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia
  • mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere
  • una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che
  • ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè
  • secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda
  • sua.
  • Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto
  • lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice:
  • «Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator
  • dannato («_quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille_»),
  • «Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta
  • sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa,
  • cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non
  • potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli
  • occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò
  • che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè
  • Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni
  • opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno,
  • cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá
  • di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede
  • qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia
  • conveniente alla sua colpa.
  • «Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia
  • messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace,
  • esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il
  • centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti
  • e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande
  • intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna
  • anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di
  • doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi,
  • esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e,
  • mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole
  • attende alla esaminazione.
  • «Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è,
  • la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di Dio è molta: e queste
  • cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra,
  • come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e
  • quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e
  • poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di
  • questo giudice.
  • —«O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie
  • di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che
  • vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno,—«Disse Minos a me, quando mi
  • vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto
  • offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime
  • deʼ dannati:—«Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra
  • in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»:
  • volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione
  • il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia
  • saputo salvare. Quasi voglia dire:—Virgilio non ha saputo salvar sé,
  • dunque come credi tu che egli salvi te?—Sentiva giá questo dimonio
  • per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso
  • fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor
  • non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso
  • dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza
  • dellʼentrare»,—la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro
  • entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo
  • dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole
  • esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna
  • volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non
  • sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a
  • salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede
  • loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma
  • cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto
  • miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed
  • inganno.
  • Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui:—Perché pur gride?» Non poté
  • sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione, conoscendo che
  • egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse
  • per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con
  • parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di
  • spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale
  • andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.
  • E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si
  • dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova
  • nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa
  • dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio _in libro De
  • consolatione_ ditermina, fato non è altro che disposizione della
  • divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo
  • par sentire santo Agostino nel quinto _De civitate Dei_; il quale, poi
  • che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «_Sententiam
  • tene, linguam comprime_»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma
  • schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione.
  • E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché
  • allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor
  • tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto
  • si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero
  • avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto
  • fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li
  • quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni
  • e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e
  • sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si
  • può traʼ savi ogni vocabolo usare.
  • «Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria
  • di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si
  • puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote
  • ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»;—quasi dica:—A te non
  • sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo.—
  • «Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
  • qual dissi si conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si
  • punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo
  • Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino
  • a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza
  • udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le
  • dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali
  • si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto
  • mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere
  • percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si
  • muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova,
  • delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.
  • «Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè
  • risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti,
  • il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che
  • noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice:
  • «come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto»,
  • cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá
  • deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del
  • mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»:
  • e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a
  • discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo
  • è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono
  • confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor
  • del mare.
  • «La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato
  • parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e
  • rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo
  • bene, chiama Aristotile nella _Meteora_ «_enephias_», il quale è
  • causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti
  • in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna
  • nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con
  • impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido
  • e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli
  • abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide
  • uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto;
  • anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e
  • quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a
  • tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che
  • lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá
  • della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo
  • luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato
  • perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa
  • quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua
  • rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»:
  • per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento
  • che detto è, cioè _enephias_; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in
  • questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio
  • dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon
  • pena.
  • Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso
  • e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla
  • ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida»,
  • comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri;
  • «Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra
  • la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che
  • questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi
  • bestemmiano Iddio.
  • «Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la
  • qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo
  • tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che
  • a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator
  • carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E,
  • come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun
  • peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá;
  • vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda
  • singularmente per li lussuriosi.
  • Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una
  • comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i
  • peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e
  • dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo
  • tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli
  • e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di
  • passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in
  • quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme:
  • «Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali»,
  • cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di
  • lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno
  • contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a
  • questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai»,
  • questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna
  • volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor
  • pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.
  • «E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una
  • brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella
  • parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento
  • menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor
  • lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per
  • parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma
  • di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé»,
  • medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale
  • essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno
  • lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li
  • quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo
  • guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera.
  • «Per chʼio dissi:—Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí
  • gastiga?»-cioè tormenta, impetuosamente portandole.
  • —«La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
  • nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a
  • questa pena. Dice adunque:—«La prima di color», che cosí son portati,
  • e «di cui novelle Tu vuoʼ saper»—, cioè la condizione e la cagione
  • perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta—Fu
  • imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle
  • quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí
  • rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno
  • a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che
  • lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece
  • «in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché
  • questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via
  • «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste
  • operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il
  • vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge»,
  • appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito,
  • dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino
  • visse.
  • Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali
  • fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua
  • istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione,
  • non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere
  • stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli
  • assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette
  • costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron
  • Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta
  • Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne
  • che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la
  • donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí
  • grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato,
  • pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere
  • i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi
  • e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in
  • alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso
  • ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e
  • similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del
  • figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E, per poter meglio
  • celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale
  • essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi
  • velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare
  • alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a
  • tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo
  • sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo
  • acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare,
  • e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato
  • da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo
  • debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí
  • India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era
  • stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in
  • molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi
  • esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle
  • predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot
  • edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella
  • tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile
  • grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e
  • posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia
  • carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere.
  • E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le
  • trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato
  • che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo
  • figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato
  • stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi
  • gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti,
  • con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai
  • dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto
  • la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta
  • non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí
  • animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua
  • grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati
  • avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia, la quale
  • nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile
  • operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e
  • disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá
  • testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli
  • giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che
  • quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere.
  • Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri,
  • i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che
  • affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo:
  • e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo
  • servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento,
  • il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e
  • di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo.
  • Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto
  • il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni,
  • lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse,
  • ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o
  • perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera
  • di lei il privasse del regno.
  • Appresso, pur di lei seguendo, dice lʼautore: «Tenne la terra, che ʼl
  • soldan corregge», la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia,
  • non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da
  • una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale dʼEgitto,
  • la quale edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella
  • assalí Egitto. Se ella lʼoccupò o no, non so.
  • «Lʼaltra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che
  • sʼancise amorosa», cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con
  • altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.
  • Vuole lʼautore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei
  • essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della
  • quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente
  • Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive, figliuola di Belo, re deʼ
  • fenici. Il quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e
  • lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani deʼ suoi sudditi, li quali
  • in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era,
  • diêro per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba,
  • il quale era sacerdote dʼErcule, il quale sacerdozio era, dopo il
  • reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente
  • sʼamarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa
  • Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo lʼavarizia del cognato, ogni
  • suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto allʼorecchie
  • di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare,
  • e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo
  • Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo
  • di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni
  • feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata
  • Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini deʼ
  • fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi
  • navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del
  • luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli
  • fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi,
  • quegli che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle
  • navi sacchi pieni di rena e guardarli bene. Ed essendo con coloro, li
  • quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto
  • mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero
  • gittati in mare. E, come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i
  • marinai e gli altri, lagrimando disse:—Io, facendo gittare in mare
  • tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale
  • io ho lungamente disiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi
  • amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito punto, che,
  • come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli
  • fará crudelmente me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco
  • insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di
  • non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno.—La qual cosa udendo i
  • miseri marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria,
  • nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone, agevolmente
  • sʼaccordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse
  • di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi
  • a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina
  • trovarono, persolventi secondo il costume loro li primi gustamenti di
  • Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli deʼ giovani che con
  • lei erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito
  • nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta
  • la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover
  • seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi
  • partitasi, e pervenuta nel lito affricano, costeggiando la marina deʼ
  • massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco
  • appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo
  • esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo aʼ marinai faticati,
  • prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale per disiderio di
  • vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate,
  • cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro
  • essere a grado aʼ paesani, ed essendone ancora confortati da quegli
  • dʼUtica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque
  • Didone udisse per alcuni, che seguita lʼavevano, Pigmaleone fieramente
  • minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E,
  • accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler fare, non
  • piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da
  • quegli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta
  • dividere, assai piú che alcuno estimato non avrebbe, occupò di terreno.
  • E, quivi fatti eʼ fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò
  • Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i
  • compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi
  • credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura
  • della cittá, le torri eʼ templi, il porto e gli edifici cittadini
  • saliron su, e apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora
  • potente e a difendersi e a far guerra. Ed essa, date le leggi e il
  • modo del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata
  • reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e
  • della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re deʼ
  • mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio dʼaverla
  • per moglie; e, fatti alcuno deʼ principi di Cartagine chiamare, la
  • dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse, esso
  • disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo
  • il fermo proposito di lei di sempre servar castitá, temetton forte
  • le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone, domandantene, ciò
  • che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare
  • la vita e i costumi barbari e dʼapprendere quegli deʼ fenici. Perciò
  • voleva alquanti di loro che in ciò lʼammaestrassero; e, dove questi
  • non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E
  • però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con
  • lui andar si volesse, temevan forte non quello avvenisse che il re
  • minacciava. Non sʼaccorse la reina dellʼastuzia, la quale usavano
  • coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse:—O nobili
  • cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi
  • nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino
  • colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il
  • richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute
  • della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi
  • rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá.—Come i nobili
  • uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve
  • loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle
  • la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina
  • ebbe udita, cosí sʼaccorse se medesima avere contro a sé data la
  • sentenzia e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí
  • dʼopporsi allo ʼnganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente
  • seco prese quel consiglio che allʼonestá della sua pudicizia le parve
  • di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella andrebbe
  • volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a dovere
  • andare al marito, e quello appressandosi, nella piú alta parte della
  • cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella
  • facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola lʼanimo di
  • Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di
  • vestimento bruno, e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro
  • consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e, aspettante tutta
  • la moltitudine deʼ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse
  • di sotto aʼ vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato
  • Sicheo, disse:—O ottimi cittadini, cosí come voi volete, io vado al
  • mio marito.—E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con
  • grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata,
  • versando il castissimo sangue, passò di questa vita.
  • Virgilio non dice cosí, ma scrive nello _Eneida_ che, avendo Pigmaleone
  • occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone,
  • Sicheo lʼapparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmaleone
  • avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la
  • confortò che ella si partisse di quel paese. Per la qual cosa ella
  • prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far Cartagine,
  • Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a
  • Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta
  • dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta, si partí per
  • venire in Italia: di che ella per dolore sʼuccise. La quale opinione
  • per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse.
  • Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno dopo il disfacimento
  • di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu
  • distrutta lʼanno del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il
  • detto Eusebio scrive essere opinione dʼalcuni, Cartagine essere stata
  • fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola,
  • dopo Troia disfatta, centoquarantatrè anni, che fu lʼanno del mondo
  • quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata
  • fatta da Didone lʼanno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora
  • appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine
  • essere stata fatta lʼanno del mondo quattromilatrecentoquarantasette.
  • Deʼ quali tempi, alcuno non è conveniente coʼ tempi dʼEnea: e perciò
  • non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio _in libro Saturnaliorum_
  • del tutto il contradice, mostrando la forza dellʼeloquenza esser tanta,
  • che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa
  • di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu
  • adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo,
  • sʼuccise. Ma lʼautore séguita qui, come in assai cose fa, lʼopinion di
  • Virgilio, e per questo si convien sostenere.
  • «Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo lʼautore aver posto questo
  • aggettivo a costei, a differenza di piú altre Cleopatre che furono,
  • delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di
  • questo vizio, come costei, della qual qui intende.
  • Cleopatras fu reina dʼEgitto e, per molti re medianti, trasse origine
  • da Tolomeo, figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei
  • essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re dʼEgitto. Altri dicono
  • il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re dʼEgitto,
  • il quale, essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro
  • figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al
  • tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il
  • maggior deʼ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie
  • Cleopatra, sua sirocchia, e di piú di che lʼaltra, insieme dopo la
  • morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione.
  • Ma, ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e
  • fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá
  • Pompeo magno quasi tutta lʼAsia costretta ad ubbidire aʼ romani,
  • venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor
  • fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra,
  • come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa, avvenne
  • che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto
  • uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria,
  • e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece
  • davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti
  • al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran
  • fidanza, percioché bella femmina fu, ornata di reali vestimenti
  • comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli
  • occhi e con gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che,
  • avendo Cesare piú notti comuni avute con lei, ed essendo giá il
  • giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno,
  • che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il
  • reame dʼEgitto, menatane Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché
  • per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque
  • Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si
  • diede che dar si possa disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar
  • tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne
  • amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi dʼEgitto e le sagre
  • case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo,
  • essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e
  • da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in
  • forma dʼonorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese
  • e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa,
  • accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere
  • Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita
  • fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato nella sua
  • dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e dʼArabia,
  • li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande
  • ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla alquanto, le diede
  • di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato Antonio,
  • il quale andava in Partia, infino al fiume dʼEufrate, e tornandosene,
  • ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco
  • davanti per opera dʼAntonio stato coronato di quel reame: lá dove ella
  • non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua
  • dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli
  • sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare
  • da dosso ad Antonio lʼignominia di costei, diliberò dʼucciderla; ma,
  • dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò
  • tornare in Egitto. Dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in
  • fuga daʼ parti sʼera tornato, essendo in lei lʼardor cresciuto del
  • signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio
  • di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che egli gliele promise. Ed
  • essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per
  • lʼavere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia dʼOttaviano,
  • e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale,
  • ornata con vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e,
  • sú montátivi, nʼandarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo
  • combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere
  • provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover
  • vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva
  • la vela dʼoro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale
  • incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti
  • pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a
  • dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo
  • molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace,
  • le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano
  • usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi
  • presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter
  • pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi avea,
  • e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era da
  • Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá dʼanimo sofferendo di
  • dover divenire spettaculo deʼ romani, vestendosi i reali ornamenti,
  • lá se nʼentrò dove il suo Antonio giaceva morto, e, postasi a giacere
  • allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose
  • una spezie di serpenti, chiamati «ypnali», il veleno deʼ quali ha ad
  • inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto: e cosí addormentata
  • si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di
  • ritenerla in vita, fatti venir alcuni di queʼ popoli che si chiamano
  • «psilli», e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e
  • tirar fuori lʼavvelenato sangue daʼ serpenti; ma ciò fu fatica perduta,
  • percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.
  • Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta,
  • e dʼaltra spezie di morte; dicendo che, avendo Antonio temuto non,
  • nellʼapparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con
  • la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato
  • di bere né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad
  • altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della
  • sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il
  • dí davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e
  • in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa,
  • che ella lo ʼnvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di
  • quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea:
  • e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e
  • disse:—Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con
  • queste tue disusate pregustazioni tu mostri dʼaver sospetta: e però, se
  • io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo
  • nʼho, e tu me nʼhai data cagione;—e quindi mostratogli lo ʼnganno, il
  • quale adoperato avea neʼ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e
  • guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a
  • lui vietato che non bevesse; e cosí lei vogliono esser morta. La prima
  • opinione è piú vulgata: senza che, a quella sʼaggiugne che, avendo
  • Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano
  • comandò che compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.
  • «Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto
  • reo Tempo si volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale
  • per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga
  • dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena
  • fu rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette
  • Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nellʼultimo libro della
  • sua _Iliade_ dimostra, là dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di
  • Ettore, fa dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni
  • appo Priamo eʼ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa
  • parola. È il vero che di questi venti anni non fu lʼassedio continuato
  • intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere
  • li dieci primi essersi consumati e nel raddomandare Elena, il che piú
  • volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa
  • contro aʼ troiani, e nel dar ordine e nel fare lʼapparecchio delle cose
  • opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto
  • peggiori che i primi, percioché in essi furono dintorno ad Ilione fatte
  • molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo
  • assai.
  • Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda,
  • moglie di Tindaro, re dʼOebalia, e lui dicono in forma di cigno,
  • con lei bellissima donna e madre dʼElena, esser giaciuto, narrando
  • in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei
  • essere stata figliuola di Tindaro, re dʼOebalia, e di Leda, e sirocchia
  • di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad
  • ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la
  • penna faticò il divino ingegno dʼOmero, ma ella ancora molti solenni
  • dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra
  • gli altri, sí come Tullio nel secondo dellʼ_Arte vecchia_ scrive,
  • fu Zeusis eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi
  • contemporanei e molti deʼ predecessori trapassò. Questi, condotto
  • con grandissimo prezzo daʼ croteniesi a dover la sua effigie col
  • pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica
  • dʼanimo tutte le forze dello ʼngegno suo; e, non avendo alcun altro
  • esemplo, a tanta operazione, che i versi dʼOmero e la fama universale
  • che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esempio
  • assai discreto: percioché primieramente si fece mostrare tutti i beʼ
  • fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi
  • elesse cinque, e delle bellezze deʼ visi loro e della statura e
  • abitudine deʼ corpi, aiutato daʼ versi dʼOmero, formò nella mente sua
  • una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto lʼarte potè seguire
  • lʼingegno, dipinse, lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla
  • posteritá per vera effigie dʼElena. Nel quale artificio, forse si poté
  • abbattere lʼindustrioso maestro alle lineature del viso, al colore e
  • alla statura del corpo: ma come possiam noi credere che il pennello e
  • lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza
  • di tutto il viso, e lʼaffabilitá, e il celeste riso, e i movimenti
  • vari della faccia, e la decenza delle parole, e la qualitá degli atti?
  • Il che adoperare è solamente oficio della natura. E, percioché queste
  • cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare
  • la penna loro, la finsero figliuola di Giove, accioché per questa
  • divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore
  • degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale
  • la volantile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi
  • cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá
  • della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia
  • e della splendida fronte e della gola dʼavorio, e le delizie del
  • virginal petto, con le altre parti nascose daʼ vestimenti. Da questa
  • tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo dʼEgeo, re dʼAtene,
  • tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare,
  • secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua
  • etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la
  • troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure
  • alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un dubbio,
  • conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo sʼaccordino, che
  • Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser
  • stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra, madre di Teseo, non
  • essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi fratelli,
  • raddomandantila. Altri dicono che Teseo lʼavea raccomandata a Proteo,
  • re dʼEgitto, e che esso in assenza di Teseo lʼaveva renduta aʼ
  • fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura, fu maritata a
  • Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato
  • in Creti, fu da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in
  • Troia, e, secondo che alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri
  • dicono che ella fu dal detto Paris rapita dʼunʼisola chiamata Citerea,
  • dove ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume
  • antico, vegghiava la notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio
  • faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che affermano
  • senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del
  • vegghiare, e come di qua il recarono i marsiliesi, e donde vennero le
  • vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo
  • stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello:
  • e, per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo lʼordine del
  • trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante
  • dʼandarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando
  • vide il tempo atto al disiderio deʼ greci, con un torchio acceso diede
  • lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e
  • ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri
  • la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua
  • volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e diede il cenno
  • aʼ greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia, da
  • noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo
  • re onorevolmente ricevuti; e, oltre a questo, essendo da diversi casi
  • ritenuti, lʼottavo anno dopo la distruzione dʼIlione, tornarono in
  • Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua _Odissea_, che Telemaco,
  • figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa
  • dir gli sapesse dʼUlisse, gli trovò far festa e nozze grandissime,
  • avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato
  • Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi
  • ricorda aver trovato.
  • «E vidi ʼl grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine»,
  • della sua vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio
  • dʼApollo timbreo lʼassalirono e uccisono; nel quale Ecuba lʼaveva
  • occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli
  • per moglie Polissena.
  • [Nota: Lez. XIX]
  • Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze,
  • ecc. non fu invitata la dea della discordia, ecc.; e fu dʼuna cittá
  • di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella _Iliada_, chiamata Ptia:
  • il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu
  • portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte e paziente delle
  • fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero
  • nellʼonde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il
  • quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che
  • lo allevasse. Il quale il nutricò, non in quella forma che gli altri
  • tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo
  • solamente di medolla dʼossa di bestie prese da lui; e questo faceva,
  • accioché egli, per continuo esercizio, si facesse forte e destro a
  • sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere
  • stato nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e
  • «_chilos_», che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato
  • senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare
  • certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata
  • rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne
  • seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, sʼingegnò di
  • schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente,
  • e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone
  • il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un
  • re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato
  • che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse
  • una vergine, gliele diede che il guardasse tra le figliuole. Ma questo
  • non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di Licomede,
  • cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò,
  • si giacque; e per la comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad
  • alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto.
  • E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un
  • figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero
  • tutti fatta congiurazione contro aʼ troiani, avendo per risponso avuto
  • non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare
  • di lui, con la sagacitá dʼUlisse fu trovato e menato a Troia: dove
  • andando, prese piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola
  • del sacerdote dʼApolline, la qual donò ad Agamennone, e unʼaltra, che
  • presa nʼavea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto,
  • per risponsi deglʼiddii, che Agamennone avesse la sua restituita al
  • padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille,
  • non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse
  • combattere contro aʼ troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente
  • malmenati daʼ troiani, avendo egli concedute le sue armi e il carro
  • a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato
  • sʼarmò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo
  • senza sepoltura dodici dí, e ultimamente rendutolo a Priamo, e poi
  • perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore,
  • suspicò Ecuba costui non doverle alcuno deʼ figliuoli lasciare, per
  • che con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua
  • figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú non prendere arme
  • contro aʼ troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché
  • neʼ tempi delle tregue veduta lʼavea, ed eragli oltre ad ogni altra
  • femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba,
  • secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel
  • tempio dʼApollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura dʼIlione,
  • credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso,
  • gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente
  • ammaestrato nellʼarte del saettare, aperto lʼarco, il ferí dʼuna saetta
  • nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser
  • ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde e fu
  • ucciso, e poi seppellito sopra lʼuno deʼ promontori di Troia, chiamato
  • Sigeo.
  • «Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro,
  • fu figliuolo di Priamo e di Ecuba, del quale Tullio _in libro De
  • divinatione_ scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della
  • quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una
  • facellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a
  • Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo,
  • il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea
  • di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo
  • comandò che il figliuolo che nascesse, ella il facesse gittar via.
  • Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un
  • bel fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento
  • di Priamo, gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori
  • del re, che lʼallevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella
  • selva chiamata Ida, non guari dilungi da Troia. Ed essendo divenuto
  • grande, quivi primieramente usò la dimestichezza dʼuna ninfa del luogo
  • chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, deʼ quali chiamò lʼuno
  • Dafne e lʼaltro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva,
  • addivenne un grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque
  • persona con maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto
  • quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris,
  • quasi «eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che
  • Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e
  • Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non vʼera
  • stata chiamata, preso un pomo dʼoro, vi scrisse sú che fosse dato alla
  • piú degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di
  • che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come
  • a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione
  • grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle
  • dare, ma disse loro:—Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo
  • chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna.—Per
  • la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una
  • parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a lui la
  • lor quistione, dicendo Giunone:—Io sono dea deʼ regni: se tu dirai
  • me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di
  • molti.—Dʼaltra parte diceva Pallade:—Io sono dea della sapienza: se
  • tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere.—Venere
  • similemente diceva:—Io sono dea dʼamore: se tu dai, come a piú degna,
  • il pomo a me, io ti farò avere lʼamore e la grazia della piú bella
  • donna del mondo.—Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione,
  • egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa,
  • come appresso si dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio
  • dice essere stato da Nerone raccontato nella sua _Troica_, fortissimo,
  • intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a
  • Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi
  • dʼessere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo
  • mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto; se non che
  • Paris, che giá daʼ suoi nutritori saputo lʼavea, gridò forte:—Io son
  • tuo fratello;—che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le
  • quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella
  • casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò,
  • che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto
  • spezie dʼambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove
  • alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue _Pistole_, che esso
  • fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in
  • Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della
  • bellezza dʼElena essere andato in Isparten, e quella avere combattuta
  • il primo anno del regno dʼAgamennone, non essendovi Castore né Polluce,
  • fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano
  • menata Ermione, figliuola di Menelao e dʼElena. E cosí, avendo presa la
  • cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i
  • tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual
  • cosa assai elegantemente tôcca Virgilio, quando dice:
  • _Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter?_ ecc.
  • E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver
  • meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú
  • bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia
  • menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in
  • lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa
  • rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel
  • quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo
  • Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.
  • Séguita poi: «Tristano».
  • Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re
  • Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti
  • romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men
  • che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per
  • la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde
  • vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò,
  • e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò
  • il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti
  • insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli
  • ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.
  • «E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille»,
  • quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»;
  • «Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente
  • chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte;
  • percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.
  • «Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
  • nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena
  • parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne
  • antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui
  • quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che
  • noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ
  • dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle
  • medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla
  • giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover
  • temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci
  • ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose
  • adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via
  • di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione,
  • quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun
  • peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E,
  • avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai:—Poeta,
  • volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella
  • bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri»,—cioè con
  • minor fatica volanti. «Ed egli a me:—Vedrai quando saranno», menati
  • dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor,
  • che i mena», qual che quello amor si sia, «ed eʼ verranno», qui, da
  • quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl
  • vento a noi gli piega, Muovi la voce»—cioè priega come detto tʼho.
  • Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a
  • dire in questa guisa:—«O anime affannate», dal tormento e dalla noia
  • di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega»,—cioè se voi
  • potete.
  • «Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con
  • quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali
  • colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate,
  • «Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce
  • nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura
  • per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal
  • voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra
  • guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi
  • due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano
  • per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer
  • maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè
  • sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere
  • che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí:—«O animal grazioso e
  • benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente
  • pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri
  • della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per
  • lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno»,
  • quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque
  • toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è
  • nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la
  • tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro
  • mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e
  • che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a
  • vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl
  • vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non
  • cʼinfesta.
  • [Nota: Lez. XX]
  • «Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza
  • essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri.
  • Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse,
  • e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa
  • nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei
  • fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e
  • di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori
  • Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e
  • composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse,
  • piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado;
  • e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per
  • moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca,
  • a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad
  • alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a
  • messer Guido:—Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete
  • modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire
  • scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè
  • dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio
  • sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per
  • marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener
  • questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci
  • un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome
  • di Gianciotto.—Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi
  • dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa,
  • quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer
  • Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo
  • quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò
  • segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato.
  • Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto,
  • con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e
  • piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini
  • per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di
  • lá entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio dʼuna finestra a
  • madonna Francesca, dicendole:—Madonna, quegli è colui che dee esser
  • vostro marito;—e cosí si credea la buona femmina; di che madonna
  • Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi
  • artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna
  • a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina
  • seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che
  • si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò
  • rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale
  • come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che
  • lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo
  • quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile
  • ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí
  • fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza,
  • ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá,
  • quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual
  • cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui,
  • e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando
  • volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente
  • turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto
  • Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato
  • allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata
  • era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per
  • che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per
  • fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si
  • scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo
  • suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse
  • ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi
  • giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad
  • un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo
  • giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi
  • trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente
  • sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno
  • stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene,
  • accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo
  • tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo
  • stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che
  • egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della
  • donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato
  • Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna,
  • ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni
  • lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo.
  • Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente,
  • seppelliti e in una medesima sepoltura.
  • Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine
  • cominciando:—«Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di
  • Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini,
  • quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ
  • nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al
  • quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che
  • essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle
  • montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso
  • il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi
  • discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si
  • divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra
  • ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara,
  • similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso
  • Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro,
  • mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che,
  • mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette
  • in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.
  • «Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni
  • il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte;
  • e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice
  • essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga
  • pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo
  • volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola
  • dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò.
  • Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore
  • dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione,
  • è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che
  • questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu
  • figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro _De natura
  • deorum_ testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze,
  • sí come per Seneca appare nella tragedia dʼ_Ipolito_, nella quale dice:
  • _Et iubet caelo superos relicto
  • vultibus falsis habitare terras.
  • Thessali Phoebus pecoris magister
  • egit armentum, positoque plectro
  • impari tauros calamo vocavit.
  • Induit formas quotiens minores,
  • ipse, qui caelum nebulasque ducit?
  • Candidas ales modo movit alas,_ ecc.
  • E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare
  • sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra
  • materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam
  • dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi
  • corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche,
  • prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché,
  • secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile
  • precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno,
  • Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e
  • trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora
  • nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere
  • essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del
  • _Quadripartito_ che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere
  • insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a
  • concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e
  • alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto
  • come questo cotal vede alcuna femmina, la quale daʼ sensi esteriori
  • sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è
  • portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene
  • alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella
  • alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella
  • spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè
  • allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle
  • spezie, sí come Aristotile scrive _in libro De anima_. Quivi, cioè in
  • questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
  • sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui,
  • nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá
  • di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa
  • cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria
  • la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore
  • ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza
  • ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien
  • sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e
  • a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna
  • volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente
  • si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere
  • generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra
  • è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione
  • secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse,
  • questa passione non si genererebbe.
  • Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come
  • vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò,
  • e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato
  • e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè
  • flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella
  • passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e
  • ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in
  • compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale
  • io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel
  • quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.
  • [Nota: Lez. XXI]
  • «Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza
  • dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene
  • dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel
  • canto ventiduesimo, dicendo:
  • amore
  • acceso da virtú, sempre altro accese,
  • pur che la fiamma sua paresse fuore.
  • Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade
  • volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè
  • a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene,
  • può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente
  • ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá
  • i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si
  • dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non
  • perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato
  • ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di
  • costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun
  • che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza,
  • «Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu
  • fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io
  • lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di
  • Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼ_Eneida_, Sicheo perseverare
  • nellʼamor di Didone, dove dice:
  • _Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
  • in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
  • respondet curis aequatque Sichaeus amorem_, ecc.
  • [Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché
  • la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato
  • abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli
  • porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente
  • sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole,
  • a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.]
  • «Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in
  • un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del
  • presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale
  • peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli
  • sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal
  • peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si
  • puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò
  • dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise
  • lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci
  • spense»,—cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il
  • qual si può dire «spegner di vita».
  • «Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna
  • Francesca, parlante per sé e per Polo.
  • «Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí
  • dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha
  • udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta
  • mi disse:—Che pense?»—quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad
  • altro.—
  • «Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire:—«O
  • lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da
  • speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto
  • disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al
  • doloroso passo!»—della morte.
  • «Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai:—Francesca, i tuoi
  • martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio»,
  • cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè
  • quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come»,
  • cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli
  • amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire
  • il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te,
  • «i dubbiosi disiri?»—Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti,
  • percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno ami lʼaltro e
  • lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino
  • a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.
  • «Ed ella a me:—Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»:
  • chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per
  • rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama
  • «miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è:
  • e questo assai chiaro testimonia Boezio, _in libro De consolatione_,
  • dicendo: «_Summum infortunii genus est, fuisse felicem_»; «e ciò
  • sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della
  • narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore
  • di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma,
  • se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro
  • amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor
  • gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore,
  • madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella
  • radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui
  • lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor
  • tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei
  • che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per
  • diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose
  • raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú
  • composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor
  • lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere
  • stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del
  • re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre
  • cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente
  • adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere
  • gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno
  • impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun
  • lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal
  • volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che,
  • da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono
  • e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo
  • un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio
  • mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata
  • letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto
  • amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior
  • cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia
  • diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto
  • di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che,
  • quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si
  • comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la
  • prima volta il prendono.
  • «Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi
  • che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante,
  • sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore
  • di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti
  • proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale
  • egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento
  • seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire
  • questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando
  • con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro
  • della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí
  • vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed
  • ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra
  • Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui
  • che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe
  • esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo
  • avante»:—assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa,
  • i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo
  • seguitasse.
  • «Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del
  • presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel
  • ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè
  • madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro
  • piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che di pietade»,
  • per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio
  • morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta
  • forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il
  • cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze
  • sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche
  • parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal
  • suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta
  • di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto
  • per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in
  • quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal colpa ha
  • commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale
  • egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • «Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha
  • il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati
  • per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo
  • piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá
  • delle colpe piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la
  • divina giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono.
  • E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos
  • gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra
  • in questo cerchio secondo esser dannati queʼ peccatori, li quali,
  • oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il
  • concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi
  • cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua intenzione.
  • Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona
  • di Minos, la severitá della divina giustizia. Intorno alla qual
  • dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché piú in
  • questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia
  • dimostrata; la seconda, perché piú in persona di Minos che dʼun altro.
  • Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra
  • parte dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú,
  • la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, quantunque
  • questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli
  • uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle
  • quali ella del tutto è schifa dʼintramettersi, estimando ottimamente
  • fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non
  • le pare quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno,
  • essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di
  • malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere
  • degli animali, neʼ quali non è alcuna ragione. E queste cotali
  • operazioni son quelle deʼ furiosi e deʼ mentacatti e deʼ fanciulli
  • e deglʼignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali
  • fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e,
  • dove elezione e volontá esser non può intorno allʼadoperare, non pare
  • che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a
  • questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni altri, se
  • non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o ignoranti,
  • come è dimostrato; intorno aʼ quali se la giustizia non sʼinterpone,
  • era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di sopra a
  • loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe stata
  • oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo
  • luogo dimostrata, eʼ ne seguivano altri inconvenienti. Primieramente
  • pare che avessero potuto deʼ peccatori, che alle piú profonde parti
  • dello ʼnferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi
  • nelle parti dellʼinferno che state fossero superiori al luogo dove
  • stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono stati secondo le
  • colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima
  • giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera dʼAcheronte,
  • similmente gli farebbe pronti a discendere infino lá dove ella fosse,
  • ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto giú
  • quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e
  • cosí sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate: il che è
  • contro agli effetti della giustizia. E però ottimamente in questa parte
  • la discrive lʼautore, nella quale niuna cosa deʼ superiori sʼimpaccia;
  • né hanno, quelli che neʼ cerchi piú alti esser debbono, a discender
  • giuso; né può alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in
  • su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che
  • non gli convenga venire alla sua esaminazione.
  • È nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e
  • per tutto distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle
  • fare alcuna esaminazione o inquisizione deʼ nostri meriti o delle
  • nostre colpe, come alla giustizia deʼ mortali bisogna; percioché, nel
  • cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere
  • sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e
  • discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si
  • possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi aʼ
  • nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali
  • effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.
  • Resta a vedere perché piú in persona di Minos che dʼalcun altro
  • ministro infernale ne sia dimostrata questa giustizia; [e con questo
  • è da vedere quello che lʼautore abbia voluto sentire in ciò che egli
  • fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi
  • giudíci. E avanti allʼaltre cose, pare,] richeggionsi neʼ ministri
  • della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma
  • singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere
  • prudente al ministro della giustizia, accioché egli per la prudenza
  • cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a vedere quello che
  • di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di
  • minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che
  • abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la
  • qualitá deʼ tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che muova o
  • susciti un romore neʼ tempi della guerra, quando gli stati delle cittá
  • stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono
  • in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli conosca la qualitá deʼ
  • luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio o
  • in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota
  • e non molto frequentata dallʼusanza degli uomini. Conviensi, per la
  • prudenza, che egli sappia discernere i movimenti di quegli che peccano,
  • di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili
  • cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a
  • ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia.
  • Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da quello, che
  • conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non
  • priego, non amore, non odio, non prezzo, non lusinga o cose simili a
  • queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse, mai
  • giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto
  • ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser
  • severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla gratificazione.
  • Puossi infraʼ processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri
  • della giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú allʼuna parte
  • che allʼaltra esser grazioso; la qual cosa nelle cose e neʼ tempi
  • debiti non è vizio, ma è segno dʼequitá dʼanimo nel giudicante; fuori
  • deʼ tempi debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in
  • servare strettamente lʼordine della ragione, e di quello per cagione
  • alcuna non uscire; e massimamente neʼ giudici di Dio, il quale insino
  • allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua
  • misericordia nʼaspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se
  • prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere,
  • e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire,
  • essendo la sua sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá
  • dee qui il ministro della sua giustizia quella mandare ad esecuzione.
  • Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere
  • neʼ processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di
  • lui da coloro li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli
  • fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi
  • aʼ popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente,
  • ridusse per sua industria a vivere sotto il giogo della giustizia. Che
  • egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da quello
  • che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del
  • Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò
  • che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá
  • della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua
  • severitá in Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megarensi, la quale, da
  • disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí il
  • padre, e fecel signor di Megara e a lui se nʼandò; per la qual cosa,
  • quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo
  • fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei, sí come
  • ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si
  • gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo
  • in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta severitá servò,
  • che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli
  • riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa,
  • dopo la sua morte, estimarono gli uomini, neʼ loro errori, lui essere
  • appo lʼanime dʼinferno eletto a quel medesimo ufficio esercitare tra
  • loro che in questa vita traʼ suoi esercitava, sí come nella esposizione
  • letterale si dimostrò.
  • Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos
  • in questo luogo figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina
  • giustizia dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno
  • allʼesecuzione deʼ suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda
  • essere lʼultimo membro e lʼultima parte del corpo di qualunque animale,
  • al quale la natura lʼha conceduta; e, quantunque ella serva a piú cose
  • gli animali che lʼhanno, alla presente materia non intende lʼautore
  • altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della
  • vita nostra, secondo la qualitá della quale si forma il giudicio della
  • divina giustizia: percioché, quantunque lʼuomo sia scelleratamente
  • vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle
  • malfatte cose, e con buona compunzione e con puro cuore, si rivolge
  • alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa e
  • giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli nʼè dimostrato
  • per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale
  • col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il quale avendo tutti i
  • dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti allʼora
  • della sua morte, con contrito cuore, non dicendo altro che:—«_Miserere
  • mei, Domine, cum veneris in regnum tuum_»,—il fece la misericordia
  • di Dio degno dʼudire dalla bocca di Cristo:—«Amen _dico tibi, hodie
  • mecum eris in Paradiso_»:—né è dubbio alcuno che a queste parole non
  • seguisse lʼeffetto; e cosí solamente allʼultima parte della vita,
  • cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí in
  • contrario, essendo Giuda Scariotto stato deʼ discepoli di Cristo, e
  • usato con lui, e avendo la sua dottrina udita, quantunque male poi
  • adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia
  • di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se
  • medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al
  • profondo dello ʼnferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con
  • le colpe piú gravi, con le quali eʼ muore, del luogo il quale eʼ dee in
  • inferno avere, è dimostratore.]
  • [Nota: Lez. XXII]
  • Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá deʼ dannati
  • in questo secondo cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia
  • conforme il supplicio, il quale lʼautore ne dimostra essere lor dato
  • dalla divina giustizia.
  • Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato
  • leggendo la lettera, i lussuriosi. Intorno al vizio deʼ quali è da
  • sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita
  • ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la
  • natura avvedutamente, accioché, per lʼatto del coito, ciascuno animale
  • generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di quello; e, se
  • questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto
  • verrebber meno i generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra
  • e ʼl mare di possessori. È vero che ellʼha in ciascun altro animale,
  • che nellʼuomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non
  • perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né
  • raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti
  • deʼ maschi loro se non alcuna volta lʼanno, e questa non si prolunga
  • in molti dí, infraʼ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli
  • alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o
  • come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non vogliono.
  • Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli conobbe
  • animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando
  • e quanto sʼappartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi
  • ricorda dʼaver letto che appo coloro, li quali mondanamente vivono,
  • alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una
  • femmina: e questa fu una donna dʼArabia, reina deʼ palmireni, chiamata
  • Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato, suo marito, essersi
  • voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in
  • ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei,
  • piú accostare nol si lasciava infino a tanto che ella non conosceva se
  • conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva
  • unʼaltra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo
  • ʼl parto, piú non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di
  • questa reina, o come gli uomini in questo usino il giudicio della
  • ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove
  • essi, la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il
  • quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che
  • possono o sanno in contrario si sforzano.
  • Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale,
  • quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro
  • mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che
  • di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a
  • disiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli,
  • per non esser cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse
  • con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si
  • guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto
  • lʼavessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa fu
  • questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i moderni
  • giovani fanno tutto il contrario: i costumi deʼ quali avere alquanto
  • morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser piacevole
  • ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare
  • stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo
  • appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina,
  • in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger quellʼaltro altrove,
  • in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e
  • azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica
  • lasciandogli crescere, attrecciandogli, avvolgendosegli alla testa, e
  • talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto
  • chericile raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare
  • epa del petto, non in suʼ lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come
  • gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e aʼ calzamenti portare le
  • punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono
  • le donne, e trarle neʼ lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e
  • di quelle non mani, ma branche piú tosto dʼorso cacciare. Né voʼ dire
  • deʼ cappuccini, coʼ quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti
  • si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, coʼ quali quasi
  • sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato.
  • E lascerò stare gli atti, gli andamenti, eʼ portamenti, il cantare,
  • il carolare, e cosí le promesse eʼ doni, deʼ quali si può però piú
  • tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e a un solo
  • lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia,
  • percioché con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano,
  • mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che
  • non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale
  • è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo
  • è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle
  • donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse,
  • guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che
  • egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da
  • dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco
  • di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non
  • sará da queʼ cotali differenza alcuna daʼ bruti animali. Ingegnossi la
  • natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti
  • del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, queʼ membri dei quali
  • mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a ciò, lʼuso, della
  • vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla natura, secondo che
  • ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli coʼ vestimenti,
  • e quantunque o necessitá o usanza lʼaltre parti del corpo scoperte
  • patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani,
  • che scoperte le sofferí. Glʼindiani, gli etiopi, i garamanti e gli
  • altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano, quantunque
  • da soperchio caldo sforzati sieno dʼandare ignudi, quelle parti in
  • alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dichʼio
  • glʼindiani e gli etiopi, li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume?
  • Quegli popoli, li quali abitano lʼisole ritrovate (gente, si può dire,
  • [fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte,
  • né costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente
  • vivono), di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica
  • tessute o annodate piu tosto, fanno ostaculi, coʼ quali quelle parti
  • nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati neʼ
  • liti, quantunque faticati e percossi dallʼonde sieno, nondimeno, non
  • curandosi di tutto lʼaltro corpo perché ignudo sia, quella parte, se
  • con altro non hanno, sʼingegnano di ricoprire con le mani. I poveri
  • uomini, aʼ quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono
  • che rimanga scoperta. I mentacatti eʼ furiosi e gli ebbri, mentre
  • che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che queʼ membri in
  • aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza,
  • ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito
  • e aʼ conforti del nemico dellʼumana generazione sospignere, che non
  • altramenti col viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione
  • avesser fatta o facessono.
  • Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume,
  • ragioni vie piú vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo
  • primieramente:—Noi seguiamo lʼusanze dellʼaltre nazioni: cosí fanno
  • glʼinghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi eʼ provenzali.—Non
  • sʼavveggono i miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion
  • confessino. Solevano glʼitaliani, mentre che le troppe delicatezze
  • non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge eʼ costumi eʼ modi del
  • vivere a tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá,
  • la nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dovʼeʼ segue, se
  • dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi,
  • da quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi,
  • dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava,
  • né sapeva, né saprebbe, se non quanto daglʼitaliani fu lor dimostrata
  • (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo,
  • confessiamo dʼesser noi i servi, dʼesser coloro che viver non sappiamo
  • se da loro non apprendiamo; e cosí dʼaver loro per maggiori e per piú
  • nobili e per piú costumati. O miseri! non sʼaccorgono questi cotali da
  • quanta gran viltá dʼanimo proceda che un italiano séguiti i costumi di
  • cosí fatte genti.
  • E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto
  • costume tôrre i giovani, neʼ quali è il fervor del sangue e le forze,
  • eʼ dovrebbe esser la grandezza dellʼanimo, se non un giusto sdegno;
  • non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi dʼaver mai
  • seguitato o seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa
  • adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono
  • dʼesser nelle lor brutte invenzioni deglʼitaliani imitate.
  • Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono
  • che i vestimenti lunghi glʼimpedivano e non gli lasciavano nelle
  • cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano e dʼogni
  • ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro,
  • li quali piú lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante
  • sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che troppo sarebbe
  • lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure
  • alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto coʼ panni
  • lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con lʼarme in dosso
  • ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor
  • facesser noia i panni lunghi, neʼ quali erano in continovi e grandi
  • esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser di necessitá agli
  • uomini, gli quali sono in fatti dʼarme, lʼavere i panni corti, come a
  • coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che
  • vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi e chʼegli hanno
  • le natiche tonde e grosse le cosce. O dissensati! Solevansi i giovani
  • vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e
  • oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse
  • avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun
  • altro che i romani similmente gli portavano corti come essi fanno. E
  • nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova
  • per scrittura che io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di
  • marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano
  • il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali
  • fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste
  • io credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne
  • vidi, che, o daʼ vestimenti o dallʼarmadure, non fosse almeno infino
  • al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai
  • manifestamente, si vede che assai mal procede lʼargomento che i panni
  • lunghi impediscano.
  • E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io
  • unʼaltra delle lor savie ragioni non discriva, percioché estimano
  • quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli dʼogni loro
  • disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne
  • mostran loro con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza
  • di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi
  • vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito
  • medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata,
  • dove ella è abominevole traʼ sensati. Ma non pensano i miseri quanto
  • scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé
  • ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli
  • occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti deʼ figliuoli
  • esser mosse, come lʼaltre femmine si muovono; conciosiacosaché la
  • natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo allʼonestá
  • della parentela. Nel vero io non lʼardirei affermare, quantunque
  • giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire che, se ciò
  • non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è
  • cagione il vituperevole costume deʼ figliuoli; né discrederò che, quel
  • che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta
  • terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non sʼaccorgono i
  • dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine
  • disiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate
  • e nellʼaltre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte
  • caggiano neʼ lacciuoli scioccamente tesi da loro, rade volte avviene
  • che, da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti dʼuomini
  • non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le
  • sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle
  • tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente
  • sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che loro ancora non saria
  • di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che,
  • lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo,
  • le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre deʼ pensieri, ma le parole
  • men che oneste deʼ non cauti padri aver loro prima strupatore che
  • marito trovato.
  • Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque
  • biasimevole sia molto alle donne mostrare con le poppe il petto, non
  • sono perciò le poppe deʼ membri osceni e che nascondere del tutto si
  • deano; percioché, se di quegli fossono, non lʼavrebbe la natura poste
  • in cosí aperta e patente parte del corpo come è il petto, anzi si
  • sarebbe ingegnata dʼoccultarle, come gli altri fece. Oltre a questo,
  • le poppe sono aʼ sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle
  • sieno quelle, onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando
  • i nostri primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non
  • nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come
  • Adam, fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono
  • quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di
  • mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di
  • Dio, che creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio
  • si vergognano, né degli uomini. [Similmente, quando i predetti di
  • paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon lor
  • fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle
  • fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali,
  • partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di se
  • medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro
  • scostumaggine dir le donne:—Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella
  • nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove
  • quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre.—]
  • È vero che, quantunque il costume deʼ giovani nella parte mostrata
  • biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle
  • donne, le quali dʼaltra parte, non potendo nascondere il fervore
  • inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte
  • sʼingegnano, in ciò chʼelle possono, di quello adoperare che possa
  • provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro
  • congiugnimenti. Elle si dipingono, elle sʼadornano, elle si azzimano,
  • e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano; ballano,
  • cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove
  • dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare
  • i costumi.
  • Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio
  • solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne
  • il destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non
  • contenti solamente aʼ portamenti, ma con gli odori arabici, con le
  • cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con
  • vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre
  • cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna
  • assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E
  • cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la
  • quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e
  • contro allʼamor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora
  • di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine, sí come
  • colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua lʼossa, guasta
  • lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa lʼingegno, debilita il vedere
  • e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte deʼ giovani
  • e amica delle femmine, madre di bugie, nemica dʼonestá, guastamento
  • di fede, conforto deʼ vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e
  • abominazione e vituperio deʼ vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere
  • Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando
  • piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di
  • volere che uno fosse contento dʼuna e una dʼuno; il che poi nella legge
  • data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento
  • vietando. E, non bastando questo, per onestare il matrimonio e
  • ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé lʼonestá
  • publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole,
  • e similemente i padri eʼ figliuoli, e gli adultèri essendo stati
  • proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli
  • e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai,
  • cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai
  • propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con
  • queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le
  • femmine le quali aʼ divini servigi avessero sagrate le nostre leggi.
  • Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque
  • in questa colpa caggendo per incontenenza molto sʼoffenda Iddio,
  • secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave.
  • E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra
  • le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle
  • quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle
  • distintamente mostrare.]
  • [Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa
  • spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»;
  • il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente
  • commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata,
  • quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle deʼ
  • templi e deʼ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente
  • quelle le quali eran fatte a sostentamento deʼ gradi deʼ teatri; i
  • quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si
  • ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano,
  • prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare
  • opera al loro disonesto servigio con quegli aʼ quali piaceva: e cosí
  • da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè
  • «fornicazione».]
  • [Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e
  • questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da
  • «stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si
  • commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono
  • sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente
  • appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta
  • presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è
  • questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo
  • medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte
  • si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con
  • questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata
  • la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo
  • peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può,
  • di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore,
  • tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]
  • [Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra
  • obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa
  • spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè
  • «_adulterium, alterius ventrem terens_»: cioè lʼadulterio è il priemere
  • lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale
  • non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è
  • premuto, ma del marito di lei.]
  • [Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o
  • tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra:
  • e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha
  • sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi
  • questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura
  • di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con
  • piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti,
  • che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata
  • «_ceston_», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «_Et a
  • pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia
  • ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia,
  • blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium_», ecc.
  • E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere
  • ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste
  • nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa
  • sua cintura detta «_ceston_», a dimostrazione che quegli, li quali
  • per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno
  • allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente
  • alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non
  • legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va
  • a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura,
  • chiamata «_ceston_»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono
  • «incesto», cioè fatta senza questo _ceston_: ma questa generalitá è
  • stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque
  • lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente
  • sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí
  • vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il
  • commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato
  • «stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché
  • questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio
  • risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non
  • si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove
  • nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]
  • [Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro
  • alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da
  • una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò
  • dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha
  • molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non
  • dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce
  • troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente
  • libro.]
  • [È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio,
  • e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel
  • supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente
  • che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno
  • le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente
  • priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]
  • Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che
  • piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è
  • naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti
  • mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta
  • se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti
  • offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale
  • è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a
  • Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.
  • Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
  • nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne
  • dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la
  • quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a
  • ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli
  • piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli
  • a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno,
  • se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero,
  • e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle
  • cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la
  • concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che
  • la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «_Sine Cerere et
  • Baccho friget Venus_».
  • Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito,
  • dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del
  • vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che
  • in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá
  • contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito.
  • E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò
  • che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa
  • la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e
  • perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e
  • le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la
  • qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da
  • lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore
  • impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per
  • molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e
  • per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna
  • volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta
  • né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata,
  • dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla,
  • se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne,
  • accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere
  • tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente
  • consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto
  • di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali,
  • ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la
  • divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna
  • allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e
  • molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser,
  • fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata
  • impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore
  • e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello
  • eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in
  • quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò
  • aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli
  • affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi,
  • che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta,
  • percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di
  • giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro
  • riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi
  • insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno
  • nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi
  • disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non
  • iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si
  • vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.
  • CANTO SESTO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Nota: Lez. XXIII]
  • «Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti
  • ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli,
  • nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di
  • madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento,
  • nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo
  • cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella
  • prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che
  • Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse;
  • nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse
  • qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso
  • autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a
  • Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove
  • pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza
  • quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta
  • quivi: «Noi aggirammo».
  • Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la
  • qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale
  • per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è
  • mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca
  • e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta
  • della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel
  • secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto
  • a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri
  • che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi
  • muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in
  • quella, «e come che io mi guati».
  • «Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non
  • vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia
  • per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e
  • per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere
  • coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova»,
  • sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa
  • piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che
  • queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo,
  • nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia
  • in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in
  • questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso
  • si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè
  • queste tre cose.
  • «Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero
  • essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio
  • dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello
  • ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore
  • qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio
  • sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole»,
  • percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra
  • lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che
  • quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha
  • vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl
  • ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate
  • le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con
  • quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.
  • «Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino
  • spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso,
  • «come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti
  • dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli
  • offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato
  • ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun
  • mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia,
  • «i miseri profani».
  • «Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu
  • sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo,
  • nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu
  • sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in
  • altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può
  • dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre
  • seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era
  • con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la
  • via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali
  • dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono
  • rimasi profani.
  • «Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto,
  • nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore
  • dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ
  • cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo
  • voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion
  • fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi
  • ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero
  • verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci
  • scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore
  • questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra,
  • percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono
  • chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre
  • bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e
  • mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo».
  • Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.
  • «E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue
  • spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa
  • con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le
  • pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»;
  • «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre,
  • come di sopra è mostrato.
  • E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al
  • comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual
  • è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è
  • propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno
  • altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom
  • vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li
  • quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza
  • piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è
  • da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer»,
  • cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran
  • tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel
  • cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol
  • potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel
  • sesto dellʼ_Eneida_ scrive:
  • _Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
  • personat, adverso recubans immanis in antro.
  • Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
  • melle soporatam et medicalis frugibus offam
  • obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
  • corripit obiectam, atque immania terga resolvit
  • fusus humi, totoque ingens extenditur antro,_ ecc.
  • «Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella
  • quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato
  • in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose
  • addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio
  • ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave
  • pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e
  • ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».
  • Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli
  • occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore
  • essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼ_Eneida_
  • fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso
  • sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro
  • supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse,
  • se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in
  • apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá,
  • che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá
  • nel canto venticinquesimo del _Purgatorio_, dove questa materia si
  • tratta.
  • «Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna,
  • chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come
  • lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».
  • E disse cosí:—«O tu, che seʼ per questo inferno tratto»,—cioè menato,
  • «Mi disse,—riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire:—Guatami, e
  • vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere;—e la
  • ragione è questa, che—«Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato,
  • «chʼio disfatto»,—cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa
  • composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento
  • dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú
  • uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse,
  • e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.
  • «Ed io a lei», cioè a quella anima:—«Lʼangoscia, che tu hai», dal
  • tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor
  • della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non
  • par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi
  • chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí
  • fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia»,
  • cioè maggiore, «nulla è sí spiacente».—
  • «Ed egli a me», rispuose cosí:—«La tua cittá», cioè Firenze, della
  • qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá
  • trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella
  • non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si
  • versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia
  • procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in
  • Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e
  • massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la
  • ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ
  • Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi
  • disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come
  • vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei
  • tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi,
  • e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi,
  • avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta
  • che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con
  • dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino,
  • «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama
  • «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato
  • dimorava.
  • [Nota: Lez. XXIV]
  • «Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non
  • del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come
  • egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore
  • di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e
  • massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e
  • beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente
  • se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo
  • vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo,
  • egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e
  • affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri
  • da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola,
  • Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi
  • rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale,
  • agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia
  • «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual
  • vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per
  • infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa
  • colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí
  • come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.
  • «Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta
  • perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu
  • credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte
  • queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena
  • stanno», che fo io, e «Per simil colpa»—cioè per lo vizio della gola:
  • «e», detto questo, «piú non feʼ parola».
  • «Io gli risposi», cioè gli dissi:—«Ciacco, il tuo affanno», il quale
  • tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto,
  • «chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di
  • lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò
  • che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar
  • mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo,
  • mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure
  • alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non
  • pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne
  • dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno
  • i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in
  • queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna
  • si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ
  • Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso
  • Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era
  • in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè
  • giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non
  • alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta
  • discordia assalita».—Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle
  • quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.
  • «Ed egli a me» (_supple_) rispose alla prima:—«Dopo lunga tencione»,
  • cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè
  • fedirannosi e ucciderannosi insieme.
  • Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni
  • delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e
  • cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi
  • in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani
  • dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero
  • a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a
  • sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente,
  • cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani
  • venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito
  • Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso,
  • di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il
  • malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili
  • riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.
  • «E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia»,
  • percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo
  • della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati
  • uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli
  • erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non
  • erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per
  • avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá
  • lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la
  • parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in
  • esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali
  • del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la
  • parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento
  • dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta
  • offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute
  • daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú
  • gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché
  • poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.
  • «Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte
  • selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá,
  • «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole
  • circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto,
  • li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo
  • alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E
  • dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del
  • sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare,
  • il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla
  • parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa
  • Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli
  • piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a
  • Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta
  • cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo
  • i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non
  • avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per
  • la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo,
  • il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di
  • Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a
  • Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti
  • i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato
  • il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono,
  • anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono
  • da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella
  • parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia
  • infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi
  • questa istoria vuole pienamente sapere, legga la _Cronica_ di Giovanni
  • Villani, percioché in essa distesamente si pone.]
  • Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale
  • sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé
  • piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra
  • di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che
  • avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi
  • e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata
  • igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace,
  • avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois:
  • ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla
  • parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose
  • da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per
  • questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer
  • Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra
  • appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed
  • elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel
  • 1300, piaggiava.
  • «Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti»,
  • il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra»,
  • parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua
  • in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti»,
  • cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della
  • parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi
  • ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come
  • coloro fanno alli quali pare ricever torto.
  • «Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta
  • dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra
  • tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno,
  • sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde
  • che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor
  • medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima
  • setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio
  • creduto.
  • «Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori
  • accesi».—Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dallʼautore
  • di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia
  • assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè
  • superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per
  • le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male
  • accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò
  • la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere
  • stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di
  • messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere,
  • ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri
  • ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose,
  • le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò,
  • vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro,
  • che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia,
  • stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni
  • e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia
  • sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice
  • essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si
  • conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna
  • altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra,
  • cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano
  • caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura
  • corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon
  • nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati
  • fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata
  • invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere
  • per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá;
  • il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro
  • avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi
  • i cuori a discordia e a male adoperare.
  • «Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento;
  • e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e
  • cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor
  • medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo
  • esilio. [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí,
  • che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose
  • future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare
  • che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a
  • dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione
  • del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna
  • cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual
  • veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio
  • ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le
  • quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui
  • buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente
  • conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia
  • furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati
  • fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro
  • creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata
  • in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto
  • piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto
  • perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí
  • similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a
  • sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter
  • salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella
  • lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro
  • siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio,
  • sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero
  • arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste
  • cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo,
  • in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá,
  • la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente
  • delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere:
  • per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro
  • addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute,
  • pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi
  • nel principio del Genesi: «Dixit Deus:—Faciamus _hominem ad imaginem
  • et similitudinem nostram_».—E se fece egli questo, che il fece, dunque
  • abbiam noi le cose predette.]
  • [È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo,
  • percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio:
  • percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi
  • né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi
  • membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma
  • possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura
  • intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò
  • chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre
  • ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come
  • che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni
  • nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne
  • sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare
  • vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo,
  • rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina
  • mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e
  • ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra
  • _in libro De divinatione_, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne
  • dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna
  • viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra
  • navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel
  • sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il
  • quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli
  • parve, dormendo, vedere, e udire da lui:—Simonide, non salire sopra
  • la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con
  • quegli che su vi fieno in questo viaggio.—Per la qual cosa Simonide
  • sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato
  • quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due,
  • dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane,
  • sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia?
  • parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta
  • Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva
  • una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E
  • di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per
  • certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe
  • mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato
  • libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente
  • infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole,
  • piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per
  • lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar
  • lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá
  • vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo,
  • ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio,
  • famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver
  • nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé
  • morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli
  • altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato
  • Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di
  • Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea
  • fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa
  • facesse, gli rispose:—Io ti vedrò di qui a pochi dí;—e quindi, fatto
  • accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in
  • Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non
  • era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero
  • del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
  • peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro
  • amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—vienne, tale e
  • tale,—deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto
  • dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per
  • la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e
  • quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno,
  • come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo
  • avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che
  • esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare,
  • quando del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú
  • la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore
  • aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle
  • cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio
  • moveano, volevan mostrare.]
  • [È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua
  • divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá;
  • ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede
  • alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua
  • miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia
  • gli debbono aggiugnere.]
  • «Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi:—«Ancor», oltre a ciò che detto
  • mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi
  • facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio»,
  • Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ
  • volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori
  • giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino;
  • «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.
  • Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini
  • di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in
  • singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.
  • «E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e
  • onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè
  • ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove
  • sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli
  • conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se
  • non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale
  • seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere
  • Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli
  • attosca»,—cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.
  • «E quegli» (_supple_) rispose:—«Ei son», coloro deʼ quali tu domandi,
  • «tra lʼanime piú nere».
  • Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra
  • creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso;
  • e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non
  • pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che
  • noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá,
  • che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore
  • oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore
  • domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne
  • la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice
  • «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia
  • Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá
  • di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel
  • decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo.
  • I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá,
  • che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo
  • dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai
  • vedere».
  • «Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole
  • comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando
  • questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna,
  • altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla
  • mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste
  • parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la
  • quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno
  • non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio
  • lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di
  • qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti
  • dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo»,—alle cose
  • delle quali domandato mʼhai.
  • «Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea
  • lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e
  • dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di
  • coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di
  • vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con
  • essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima
  • pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto
  • hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di
  • Dio.
  • «E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto:—«Piú non si
  • desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che
  • i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna
  • cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa
  • levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di
  • qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con
  • altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá:—«_Surgite, mortui, et
  • venite ad iudicium_»;—«Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati,
  • «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni
  • podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il
  • vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di
  • loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto
  • giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il
  • quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli
  • animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro
  • che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si
  • turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui
  • che meritamente gli riprende.]
  • E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la
  • trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba»,
  • cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di
  • ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua
  • carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza,
  • [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma
  • accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le
  • colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e,
  • ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè
  • risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza
  • di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati:—«_Ite maledicti in ignem
  • aeternum_»,—ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente
  • loro.
  • «Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
  • nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion
  • di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo»,
  • lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la
  • quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza
  • ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a
  • passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che
  • molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco
  • la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra
  • fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e
  • sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.
  • «Perchʼio dissi:—Maestro», continuandomi a quello che della futura
  • vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste
  • anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio
  • nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente
  • sieno, «o saran sí cocenti»,—come sono al presente?
  • «Ed egli a me» (_supple_) rispose:—«Ritorna a tua scienza», alla
  • filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene,
  • e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché
  • noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose
  • piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno
  • perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente
  • un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura,
  • dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi
  • molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita,
  • dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno
  • riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.
  • «Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati,
  • «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in
  • bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta:
  • e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo
  • per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti,
  • dice lʼautore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque
  • non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto
  • riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli
  • riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento
  • di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá»,
  • cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia,
  • «essere aspetta»,—in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti,
  • molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i
  • corpi riprenderanno.
  • «Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale
  • lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella
  • strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come
  • molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure
  • intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si
  • disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi
  • trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.
  • Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno
  • il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto,
  • come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali
  • in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono
  • il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo
  • Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare
  • in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le
  • quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo
  • che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in
  • Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza
  • scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato
  • vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè
  • allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze
  • male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono
  • in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse
  • impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si
  • possono grandissime nostre nemiche, ecc.]
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Nota: Lez. XXV]
  • «Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo
  • canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua
  • alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come
  • i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina
  • giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il
  • peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e
  • non _e converso_, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come
  • il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.
  • A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello
  • che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano
  • cominceremo.
  • Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e,
  • separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi
  • su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e
  • gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto
  • fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al
  • suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di
  • paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise
  • alli lor piedi, sí come dice il salmista: «_Omnia subiecisti sub
  • pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres
  • caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris_»; e, come
  • queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di
  • sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier
  • fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e
  • visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi
  • della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi
  • popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque
  • piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e
  • mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano
  • gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a
  • ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli
  • non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore,
  • delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne,
  • vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto
  • o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna
  • ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la
  • loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti,
  • i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime
  • genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri
  • arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan
  • via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi;
  • le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti
  • impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e
  • i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero
  • di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava;
  • ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata
  • lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra
  • loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano
  • intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali
  • alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine
  • salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e,
  • senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani
  • robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e
  • riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non
  • malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti
  • di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá
  • discrivono, «aurea» si potea chiamare.
  • Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò
  • tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e quinci il
  • disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale
  • appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il
  • ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare
  • il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con
  • appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le
  • cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e
  • quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali,
  • e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in
  • dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti
  • ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del
  • mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli
  • uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la
  • terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar
  • daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi
  • princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí
  • come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli
  • assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come
  • lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí
  • la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori,
  • ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni
  • cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto
  • questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di
  • quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né
  • Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano;
  • e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno,
  • re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il
  • cuocere divenne, di mestiere, arte.
  • È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno
  • esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda,
  • sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non
  • fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere
  • aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e
  • quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi,
  • faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a
  • poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale
  • non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria
  • dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a
  • doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí
  • come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi
  • si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia
  • saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore
  • noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo
  • forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di
  • fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.
  • Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in
  • Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le
  • ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del
  • romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che
  • alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si
  • sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non
  • che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero
  • in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari
  • irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le
  • cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto
  • di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri
  • lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle
  • cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre
  • misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro
  • deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il
  • naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie
  • deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al
  • disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma
  • dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti
  • modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie
  • di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá
  • deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie
  • gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché
  • piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno
  • introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi
  • i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò,
  • mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non
  • cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come
  • Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo
  • della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si
  • trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ
  • vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore
  • deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta
  • di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto
  • questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e
  • discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ
  • passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella
  • molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella
  • con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa
  • appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel
  • tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente
  • Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio,
  • nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume
  • mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa
  • colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti
  • delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco
  • insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la
  • quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma
  • pure alcuna cosa ne dirò.
  • È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a
  • me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa,
  • né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere
  • non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici
  • trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ
  • debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ
  • poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni
  • arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici,
  • ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si
  • fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni
  • convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense
  • pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a
  • dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile,
  • quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni
  • convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le
  • confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini
  • non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna,
  • dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso
  • artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande,
  • [i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ
  • taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante
  • e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra
  • le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca
  • non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe,
  • le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or
  • volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente
  • avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta,
  • che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori,
  • queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da
  • ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste
  • e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri
  • sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come
  • i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole
  • riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono
  • intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua,
  • millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non
  • potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia
  • il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato;
  • e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato
  • della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá
  • cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio
  • deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta,
  • o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali
  • i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o
  • avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.
  • Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli
  • da esso molto offeso sia.
  • Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è
  • assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente.
  • Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano,
  • essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo,
  • e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze
  • dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato
  • vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto,
  • convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi,
  • tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e
  • contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali,
  • per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan
  • le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli
  • occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore,
  • le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il
  • fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo,
  • tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano.
  • Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano,
  • urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica
  • simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane,
  • gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie,
  • ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam
  • comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della
  • gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ
  • publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata
  • cagione.
  • I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi,
  • gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo
  • furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò,
  • per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna,
  • se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le
  • quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua
  • primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la
  • sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di
  • mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi
  • sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il
  • dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello
  • Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in
  • inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in
  • far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio
  • sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino
  • dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle,
  • furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta
  • gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi,
  • né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino
  • deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi.
  • Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo
  • da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito.
  • Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole
  • recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel
  • e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie,
  • ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí,
  • spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito
  • di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto
  • bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole
  • di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta
  • bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.
  • Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola
  • stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò
  • riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si
  • puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali
  • lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi
  • senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza
  • intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di
  • questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono
  • per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di
  • gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro
  • che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del
  • bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i
  • dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano,
  • non avendo riguardo a quello che contro a questo nel _Libro della
  • Sapienza_ ammaestrati siamo, nel quale si legge: «_Ne intuearis vinum,
  • cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo
  • mordebit, ut coluber_». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie
  • di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid _potest quis gustare,
  • quod gustatum affert mortem_?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere
  • stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato.
  • È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente
  • testifica Ieremia, dicendo: «_Venter mero aestuans, facile despumat in
  • libidinem_»; e Salomon dice: «_Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa
  • ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens_»; e san
  • Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente
  • ammaestrandoci, dice: «_Nolite inebriari vino, in quo est luxuria_». È
  • ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi
  • che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta
  • e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana:
  • di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono
  • tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui,
  • sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La
  • terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette
  • cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano
  • il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob:
  • «_Bibunt indignationem, quasi aquam_». Ma, secondo che si legge nel
  • salmo: «_Amara erit potio bibentibus illam_»; e come Seneca a Lucillo
  • scrive nella ventiquattresima epistola: «_Ipsae voluptates in
  • tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum
  • torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum
  • omnium depravationes_» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori,
  • ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori,
  • abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti,
  • brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e
  • noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze
  • sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli,
  • gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie
  • temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ
  • sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi
  • guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono
  • tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione
  • son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel
  • terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto
  • debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú
  • chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare
  • brievemente.
  • Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra
  • marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco
  • giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso
  • «grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione
  • di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani:
  • e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza
  • parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro
  • in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre
  • teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio
  • gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani
  • unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri
  • dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere
  • sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la
  • divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come
  • essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero
  • in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare convenirsi che,
  • contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi
  • giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando
  • i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse
  • torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari
  • vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di
  • piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli
  • percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere
  • essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri
  • lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non
  • solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ
  • quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe,
  • per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo
  • versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale
  • non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per
  • lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle
  • dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso
  • escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane
  • spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi
  • sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in
  • luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive.
  • E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti,
  • cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto
  • che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti,
  • non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro
  • angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a
  • disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di
  • quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo
  • della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il
  • terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli
  • faccia disiderare dʼesser sordi.
  • Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la
  • qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta
  • è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno, e guardiano della
  • porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi
  • voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore
  • discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento
  • assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che
  • piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «_creon vorans_», cioè
  • «divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di
  • sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo
  • dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane»,
  • percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá
  • da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien
  • venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.
  • Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie
  • deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio
  • caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni
  • deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú
  • in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente
  • si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole,
  • per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi
  • sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa
  • umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser
  • battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai;
  • il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che
  • impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che
  • essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E,
  • oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda
  • sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo
  • divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che
  • mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a
  • quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di
  • mangee e divisatori di quelle.
  • E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda
  • un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali, per soperchio bere,
  • i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li
  • quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e
  • lagrimosi.
  • Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto
  • mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non
  • potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto;
  • e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio
  • sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i
  • canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che,
  • conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale,
  • quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel
  • vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente
  • adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni
  • di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore
  • sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta
  • malvagia.
  • Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il
  • molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo,
  • per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla
  • natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta
  • dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo
  • sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a
  • gittar fuori.
  • E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che
  • sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande;
  • e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú
  • che alcuna altra gli piaccia.
  • Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun
  • membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi
  • si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che
  • alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente
  • senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare
  • glʼincomposti movimenti dellʼebbro.
  • Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide,
  • aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro
  • costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o
  • intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la
  • forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual
  • consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por
  • non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o
  • bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per
  • non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente,
  • volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come
  • è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio
  • uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in
  • questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.
  • CANTO SETTIMO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Nota: Lez. XXVI]
  • —«_Papé Satan, papé Satan aleppe_»,—ecc. Nel presente canto
  • lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose
  • precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello
  • ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra
  • come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun
  • cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due
  • parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari
  • eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli
  • accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior
  • pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi
  • alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio
  • fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena
  • avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza
  • dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda
  • comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi:—«Maestro,—dissʼio
  • lui».
  • Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra,
  • trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide,
  • _admirative_ cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni,
  • dicendo:—«_Papé_».
  • Questo vocabolo è _adverbium admirandi_, e perciò, quando dʼalcuna cosa
  • ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «_papé_!». E da questo
  • vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá
  • del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e
  • non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina,
  • e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora
  • chiamavano i lor preti «_papas_», quasi «ammirabili»: e ammirabili
  • sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl
  • sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di
  • sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor
  • colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del
  • quale siede il vicario di san Pietro.
  • «Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe
  • deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario»
  • o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico
  • delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere
  • stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella
  • quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.
  • «_Papé Satán_». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare
  • lʼammirazione esser maggiore.
  • E seguita: «_aleppe_». «_Alep_» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ
  • giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra
  • lettera, cioè «a»; ed è «_alep_» appo gli ebrei _adverbium dolentis_;
  • e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima
  • voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che
  • egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.
  • Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta,
  • cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non
  • sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e,
  • accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam
  • dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che
  • Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina
  • di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e
  • del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer
  • deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però _admirative_, e
  • dolendosi, chiama il prencipe suo.
  • «Cominciò Pluto», (_supple_) a dire o a gridare, «con la voce
  • chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i
  • quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò
  • Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori
  • si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché
  • per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto
  • alla sua buona intenzione.
  • [Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che
  • i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano _Dispiter_, fu
  • figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con
  • Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e,
  • secondo dice Eusebio _in libro Temporum_, il nome suo fu Aidoneo. Fu
  • costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero
  • essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon
  • Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di
  • Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni
  • descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui
  • questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si
  • debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e
  • diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]
  • «E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual
  • veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe:
  • percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e
  • naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro
  • uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era
  • in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi:—Non ti noccia La sua
  • paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di
  • sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò
  • esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale
  • si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia
  • della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura
  • di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter
  • chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia»,—cioè questo
  • balzo.
  • «Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto,
  • «E disse:—Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché
  • sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual
  • vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto
  • fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia»,
  • la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti
  • sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al
  • cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli
  • vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ
  • la vendetta del superbo strupo»,—cioè del Lucifero, il quale, come
  • nellʼ_Apocalissi_ si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso,
  • insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col
  • suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era
  • stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua
  • superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli
  • strupatori.
  • «Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di
  • Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le
  • gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio,
  • «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè
  • lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde
  • a terra la fiera crudele», cioè Plutone.
  • «Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo
  • canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori,
  • li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e
  • dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella
  • quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare
  • alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente
  • ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo;
  • e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le
  • colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca»,
  • cioè in sé insaccato riceve.
  • Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove
  • travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere _interrogative_ e con
  • questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante
  • nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io
  • viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa»,
  • cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne
  • confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena,
  • o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole
  • mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.
  • Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo
  • i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa
  • lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina.
  • Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e
  • una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di
  • Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio,
  • è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo
  • oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da
  • «_pharos_», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò
  • è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di
  • Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse
  • il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è
  • in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono
  • deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e
  • la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente,
  • in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre
  • nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a
  • quelle che sono in Peloro, ed _e converso_. E, come di sopra è detto,
  • questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto:
  • e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano
  • [come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi
  • sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare
  • verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso
  • Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni
  • dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso
  • la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare
  • Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta
  • forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le
  • rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad
  • essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora
  • sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il
  • mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il
  • flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo
  • è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda..., Che si frange con
  • quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose,
  • delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si
  • chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e
  • questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero,
  • questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra
  • dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo
  • percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non
  • veggiono la cagione della elevazione.]
  • Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato,
  • le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere
  • di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende
  • in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto
  • cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori,
  • in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde
  • predette.
  • «Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e
  • di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli
  • che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a
  • qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte
  • e dʼaltra con grandʼurli», cioè a destra e a sinistra, miseramente
  • per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si
  • dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del
  • petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro»,
  • cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza
  • voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello
  • medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel
  • medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando»,
  • quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra:—«Perché tieni?»;—e incontro
  • a questa gridava lʼaltra:—«E perché burli?»—cioè getti via. «Cosi
  • tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio
  • tetro».
  • Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e
  • che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita,
  • scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che
  • essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro
  • le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e
  • veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora
  • con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e
  • quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza
  • riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio
  • tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
  • «Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano
  • «allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano,
  • «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole,
  • «metro», cioè:—«Perché tieni?—E perché burli?».—Il quale lʼautore
  • chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il
  • piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non
  • misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «_metros_», _graece_,
  • che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi
  • poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna
  • misura, secondo la qualitá del verso.
  • «Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quandʼera
  • giunto», al punto del mezzo cerchio, come di sopra è detto, «Per lo
  • suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era
  • dalla divina giustizia stabilito, «allʼaltra giostra», cioè percossa: e
  • chiamala «giostra», percioché a similitudine deʼ giostratori sʼandavano
  • a ferire e a percuotere insieme.
  • «Ed io, chʼavea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale
  • portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale
  • nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione
  • per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di
  • questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra
  • nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla
  • lupa, cioè dallʼavarizia. E in questo è da comprendere invano esser da
  • noi conosciuti i vizi eʼ peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli
  • o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire:
  • come avea lʼautore compunzione dellʼessere avaro, che ancora, come
  • nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché
  • qui usa lʼautore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi:—Maestro
  • mio». Qui domanda lʼautore Virgilio che gente questa sia, e per qual
  • colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale
  • è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro
  • dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato tʼho, mi diʼ «e se
  • tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra».—«Chercuti»
  • gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora
  • comprendeva loro per quello dovere esser cherici.
  • «Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli,
  • che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e
  • poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dallʼautore, e
  • dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente
  • dicendo:—«Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra,
  • «fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li
  • quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini
  • poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora
  • per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte
  • delle balie, le quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno
  • avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra
  • a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte
  • fanno, stando loro sopra capo, glʼinducono a guatarsi indietro, e i
  • fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte
  • dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono
  • le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce,
  • o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon
  • guerci. Questa spezie dʼuomini, quantunque non sia del tutto reputata
  • giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali
  • guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati
  • uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti
  • avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]
  • E però dice:—«Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e
  • malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali,
  • «in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio
  • fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani,
  • lá dove esse eran da allargare, o essi lʼallargaron troppo, lá dove
  • eran da strignere; e cosí né nellʼuna parte né nellʼaltra servarono
  • alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in
  • cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro lʼabbaia», cioè il
  • manifesta quando dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»,—usando
  • questo vocabolo «abbaia» nellʼanime deʼ miseri in detestazion di
  • loro, il quale è proprio deʼ cani; «Quando vengono aʼ due punti del
  • cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono:—«Perché tieni?—E perché
  • burli?»—), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide,
  • facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon
  • contrari. Le quali colpe vuole lʼautore che sien queste, avarizia e
  • prodigalitá, delle quali lʼuna appresso egli apre, e lʼaltra per lʼaver
  • detto «contraria» vuol che sʼintenda, e dice:
  • «Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la
  • cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del capo. [E vogliono
  • alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza
  • di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata
  • fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non
  • intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo
  • ferventemente predicare dinanzi aʼ prencipi e aʼ popoli, li quali
  • quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo
  • che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in
  • segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano,
  • sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona»,
  • percioché, rasa tutta lʼaltra parte del capo, un sol cerchio di capelli
  • vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda,
  • come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio
  • portano, «clerici» da «_cleros_», _graece_, che in latino suona quanto
  • «uomini la sorte deʼ quali sia Iddio».]
  • «E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal
  • quale, mediante san Piero, hanno lʼautoritá grandissima, la quale
  • santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in _Purgatorio_ e in
  • _Paradiso_, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la
  • materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo
  • nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime
  • nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la
  • chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali
  • si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né
  • in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi
  • per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella
  • chiesa di Dio il sacro collegio deʼ settantadue discepoli, li quali
  • per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il
  • cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al
  • papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro sʼappartiene, insieme
  • col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale deʼ
  • cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che
  • sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette,
  • son chiamati cardinali da questo nome «_cardo, cardinis_», il quale
  • ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si
  • volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e
  • cosí da «_cardo_» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono,
  • da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto lʼuscio.]
  • «In cui», cioè neʼ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia,
  • secondo Aristotile nel quarto della sua _Etica_, la inferiore estremitá
  • di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si
  • disidera lʼaltrui, o si tiene quello che lʼuom possiede: della quale
  • piú distesamente diremo, dove discriveremo lʼallegorico senso della
  • parte presente di questo canto. Questo vizio dice lʼautore usare «il
  • suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove
  • non si dee tenere, neʼ cherici, neʼ quali tutti intende per queste due
  • maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí
  • negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia
  • molte parole.
  • E, avendo qui lʼautore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in
  • questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che sʼintenda
  • per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»),
  • con questo vizio insieme punircisi lʼopposito dellʼavarizia, cioè la
  • prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come
  • lʼavarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si
  • dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando
  • e come non si conviene; benché poco appresso lʼautore alquanto piú
  • apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.
  • «Ed io:—Maestro, tra questi cotali», che tu mi diʼ che furon cherici,
  • e ancora tra gli altri, «Dovreʼio ben riconoscere alcuni», percioché
  • furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo
  • che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due
  • peccati peccano (o vogliam dire: percioché lʼautor peccò in avarizia,
  • e lʼun vizioso conosce lʼaltro); «Che fûro», vivendo «immondi»,
  • cioè brutti e macolati, «di cotesti mali»,—cioè dʼavarizia e di
  • prodigalitá.
  • «Ed egli a me:—Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli
  • altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo:
  • «La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i feʼ
  • sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad
  • ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non
  • degni dʼalcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè aʼ due
  • punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si
  • percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dallʼun
  • dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale,
  • «Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè
  • la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso sʼintende; «e questi», cioè
  • i prodighi, «coʼ crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente
  • testificheranno la loro prodigalitá.]
  • [E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa:
  • intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane,
  • e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore,
  • né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono
  • solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla
  • natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per
  • sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dellʼanime
  • nostre, ma prestano alcuno ornamento aʼ corpi; e perciò dirittamente
  • sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze.
  • Risurgeranno adunque i prodighi coʼ crin mozzi,] a dimostrare come
  • essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro
  • temporali ricchezze.
  • «Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno
  • gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza,
  • «Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e»
  • hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi
  • insieme coʼ pesi i quali volgono, e col rimproverarsi lʼuna parte
  • allʼaltra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole
  • non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi
  • voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.
  • «Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le
  • parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali
  • tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e
  • apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in
  • costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «Deʼ ben», cioè delle
  • ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo
  • il volgar parlare delle genti, e ancora secondo lʼopinion di molti;
  • «Per che», cioè per i quali beni, «lʼumana gente si rabbuffa». Il
  • significato di questo vocabolo «rabbuffa» par chʼimporti sempre alcuna
  • cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è lʼessersi lʼuno
  • uomo accapigliato con lʼaltro, per la qual capiglia, i capelli son
  • rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però
  • ne vuole lʼautore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati,
  • le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini
  • hanno insieme per li crediti, per lʼereditá, per le occupazioni e per
  • li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le
  • fatiche vane, che intorno allʼacquisto delle ricchezze si mettono. E
  • dice: «Ché tutto lʼoro, chʼè sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu
  • giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di
  • sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una»,—non che trarla
  • di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e
  • laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta
  • tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro
  • sollecitudine sʼè acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma
  • solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le
  • quali parole udite da Virgilio muovono lʼautore a fargli una domanda,
  • dicendo:—«Maestro—dissi lui,—or mi diʼ anche».
  • [Nota: Lez. XXVII]
  • Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto,
  • nella quale lʼautore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa
  • sia fortuna, e però dice:—«Maestro, or mi diʼ anche»; quasi dica: tu
  • mʼhai detto che tutto lʼoro del mondo non potrebbe fare riposare una di
  • queste anime, e per questo mʼhai mostrato quanto sia vana la fatica di
  • coloro li quali, posta la speranza loro in questi beni commessi alla
  • fortuna, intorno allʼacquistarne e allʼadunarne si faticano; ma dimmi
  • ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo deʼ beni che le
  • son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra
  • branche?»,—cioè tra le mani e in sua podestá.
  • «E quegli a me», rispose dicendo:—«O creature sciocche. Quanta
  • ignoranza è quella che vʼoffende!», credendo come voi non dovete
  • credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna
  • come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non
  • donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or voʼ che
  • tu mia sentenza ne ʼmbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento
  • io: e dice «ne ʼmbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale,
  • la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello
  • ʼntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li
  • sensi esteriori e poi per glʼinteriori concepe, quel sugo fruttuoso ne
  • trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.
  • E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della
  • fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio,
  • il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza è
  • stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e dieʼ lor chi
  • conduce». E in questo sente lʼautore con Aristotile, il quale tiene che
  • ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo
  • e perpetuo: e che lʼautore questo senta, non solamente qui, ma in una
  • delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, ʼntendendo, il
  • terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli
  • loro commessi da Dio, «Sí chʼogni parte», della lor potenzia, «ad ogni
  • parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde,
  • «Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá,
  • ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve;
  • [«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono
  • nelle creature la potenzia loro.]
  • E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere
  • i cieli e a distribuire i loro effetti neʼ corpi inferiori, cosí:
  • «Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati
  • e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che
  • permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè
  • le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani»,
  • percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá;
  • e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni
  • vani «Di gente in gente», cioè dʼuna nazione in unʼaltra, sí come noi
  • leggiamo essere infinite volte avvenuto neʼ tempi passati nelle gran
  • cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e lʼimperio degli
  • assiri esser trapassato neʼ medi, e deʼ medi neʼ persi, e deʼ persi
  • neʼ greci, e deʼ greci neʼ romani; e, lasciando stare gli antichi, deʼ
  • quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante,
  • noi abbiamo veduto neʼ nostri dí la gloria e lʼonore dellʼarmi e
  • della magnificenza, e della Magna e deʼ franceschi, esser trapassata
  • neglʼinghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma,
  • ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si
  • trasmuterá in altrui.
  • E segue: «e dʼuno in altro sangue». La sentenza delle quali parole,
  • quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno,
  • volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam
  • dire «dʼuna famiglia in unʼaltra», in quanto dʼun medesimo sangue si
  • tengono quegli che dʼuna medesima famiglia sono; sí come, accioché le
  • cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá
  • nostra piena di queste trasmutazioni. Furon deʼ nostri dí i Cerchi,
  • i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che
  • essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il
  • piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia
  • trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E
  • cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá
  • in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension
  • deʼ senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono
  • inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai
  • può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a
  • potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in
  • parole..
  • E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera»,
  • signoreggiando, «e lʼaltra langue», servendo; e ciò avviene,
  • «Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa
  • ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», aʼ sensi umani, «come
  • in erba lʼangue». _Anguis_ è una spezie di serpenti, la quale ha la
  • pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita neʼ prati fra
  • lʼerbe; e percioché egli è con lʼerbe dʼun medesimo colore, rade volte
  • fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice lʼautore,
  • il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto aʼ sensi
  • umani, chʼegli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a
  • questo, roborando ancora lʼautore la predetta cagione, séguita:
  • «Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole
  • pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara
  • dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di
  • questa ministra sʼinchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno,
  • possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e
  • questo essere vero, sʼè giá per molte manifeste cose veduto. [Creso,
  • re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da
  • Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re deʼ medi, in due sogni, che il
  • figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola,
  • il dovea privare dello ʼmperio dʼAsia: né gli giovò il maritarla ad
  • uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il
  • figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio
  • di questa ministra fermato. Non poterono lʼavere cacciato del regno
  • dʼAlba in villa Numitore, dʼavere ucciso Lauso, suo figliuolo, dʼaver
  • fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non
  • fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono
  • gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci
  • tirare allʼattitudine dataci daʼ cieli: ma, se noi vorremo esser
  • prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero
  • arbitrio che noi abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice
  • Giovenale: «_Nullum numen_», ecc., percioché il seguir noi il desiderio
  • concupiscibile, ne fa rimaner vinti daʼ movimenti di questa ministra,
  • ecc.]
  • E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica
  • e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono
  • quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono,
  • sí come son queste terrene da ordinato movimento deʼ cieli produtte,
  • secondo la potenzia deʼ quali esse si permutano, non altramente che se
  • da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare
  • ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè
  • le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè
  • lʼintelligenze, delle quali di sopra è detto.
  • [E, in questa parte, lʼautore, quanto piú può, secondo il costume
  • poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate,
  • non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose
  • spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion
  • nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e
  • corporea fossero; il che qui lʼautore usa, mostrando la fortuna aver
  • sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi
  • accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui lʼautore
  • nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non sʼattribuiscono. Dalle
  • quali fizioni è venuto che alcuni in forma dʼuna donna dipingono questo
  • nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota,
  • sí come per Boezio, _De consolatione_, appare. Ma chi le fascia gli
  • occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá,
  • ogni permutazion dì costei va a diterminato e veduto fine; e, se
  • lʼeffetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della
  • permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il
  • quale avvedutamente quella ischifa.]
  • «Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali,
  • «non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che
  • guerreggiano hanno neʼ tempi delle triegue; e, percioché nelle sue
  • permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa
  • esser veloce». E in queste parole vuole intendere lʼautore i movimenti
  • di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non
  • bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio
  • si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra
  • pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí
  • spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce,
  • «che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare
  • vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo
  • uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte
  • nella vita sua.
  • «Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle
  • bestemmie e daʼ rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí
  • come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce»,
  • cioè neʼ loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove
  • sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella sʼè
  • beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie eʼ rammarichii:
  • «Con lʼaltre prime creature», cioè coʼ cieli e con le intelligenzie
  • separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si
  • discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e
  • beata si gode», non curando di queste cose.
  • [Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa
  • fortuna, della qual qui lʼautore domanda Virgilio; quantunque molte
  • cose in dimostrarlo nʼabbia dette lʼautore, e, conchiudendo, mostri
  • di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo
  • delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion
  • di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi
  • presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano,
  • io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non
  • lʼuniversale effetto deʼ vari movimenti deʼ cieli, li quali movimenti
  • si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di
  • quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará
  • lʼuniversale effetto deʼ movimenti deʼ cieli causato dalla divina mente
  • e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore deʼ beni
  • temporali, deʼ quali essi movimenti deʼ cieli sono causatori. E dicesi
  • dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo
  • nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun
  • ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion deʼ cieli. E
  • percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia
  • opinion deʼ filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile
  • al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo
  • al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che lʼuniversale
  • loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali,
  • similmente debba essere in continuo movimento: e se lʼuniversale
  • effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in
  • continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere
  • convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e
  • per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data
  • dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che glʼingegni
  • umani comprendano le particularitá infinite di questo universale
  • effetto deʼ cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue
  • fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque
  • lʼarte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non
  • paiono glʼingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan
  • comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né
  • ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti
  • deʼ corpi deʼ pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il
  • cielo dimostra dover producere, né quello che a dò seguire o fuggire,
  • per avere o per fuggire quello che sʼapparecchia, sia sofficiente né
  • bastevole: e però ottimamente dice lʼautore i consigli umani non poter
  • comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni
  • di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni
  • delle cose prodotte daʼ cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro
  • dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita;
  • e se i movimenti deʼ cieli son veloci, e le cose causate da loro
  • seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro
  • effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e
  • seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali veggiamo,
  • cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e
  • delle minori.]
  • [Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere
  • alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí
  • come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono:
  • intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni deʼ cieli
  • adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni
  • deʼ cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però
  • non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini
  • ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano
  • i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno,
  • quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le
  • cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si
  • muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la
  • natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]
  • [Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a
  • beneplacito, come quasi a tutte lʼaltre è stato posto; e, secondo che
  • le cose secondo i nostri piaceri o contrarie nʼavvengono, le chiamiamo
  • «buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi
  • sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la
  • stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male,
  • secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e
  • ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la
  • veritá, la sentenza di questi versi:
  • _Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
  • si volet haec eadem, fies de consule rhetor,_ ecc.
  • E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero,
  • i romani piú che gli altri vi peccarono. Nondimeno, quantunque di
  • necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni
  • esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti
  • delle cose causate daʼ cieli, delle quali lʼanime nostre non sono,
  • percioché sopra i cieli son create da Dio e infuse neʼ corpi nostri,
  • dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna
  • necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non
  • potenti contro a nostro piacere. Il che in assai sʼè potuto vedere, in
  • Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il
  • che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:
  • _Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te,
  • nos facimus, Fortuna, deam, coeloque locamus._
  • E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con
  • lʼappetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio,
  • per lo quale nʼè conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni
  • sua potenza.]
  • [Adunque questo effetto universale deʼ movimenti deʼ cieli e delle
  • loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa
  • dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual
  • noi vogliamo esser ministra e duce deʼ beni temporali. E in questa
  • opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero queʼ poeti, li quali
  • sentirono che lʼuna delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che
  • vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione
  • e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte
  • attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono
  • che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne
  • riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte.
  • E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli
  • uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché,
  • come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni eʼ mutamenti di
  • ciascuno, assai appare ciò non essere altro che lʼuniversale effetto di
  • tutti i cieli, daʼ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati
  • in noi.]
  • [E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e
  • secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual
  • vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí
  • come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti,
  • li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore sentire per
  • questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam
  • credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli
  • effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto
  • intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa,
  • sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
  • [Nota: Lez. XXVIII]
  • «Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda
  • parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima
  • dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice
  • trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto
  • cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi;
  • nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La
  • seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí
  • girammo».
  • Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo
  • ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a
  • maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo
  • scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi
  • mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte,
  • e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la
  • quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire
  • in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il
  • dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al
  • cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano,
  • secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte
  • occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per
  • quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la
  • seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl
  • troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del
  • quale io vengo teco.
  • «Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone
  • «allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero
  • «Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí
  • bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dellʼacqua
  • che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era
  • buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore
  • assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che
  • il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano
  • lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della
  • terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore;
  • «altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio
  • petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da
  • Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde
  • bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno
  • lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera
  • «bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma,
  • largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste
  • onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè
  • malvagia.
  • Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»;
  • e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè
  • rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del
  • luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige».
  • E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è
  • disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in
  • quel cerchio sono.
  • [Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti,
  • la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata
  • figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che
  • dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice
  • degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono,
  • quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:
  • _...Stigiamque paludem,_
  • _dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc._
  • E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di
  • spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio,
  • avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo
  • tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare»
  • cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle
  • stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu
  • favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e
  • vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]
  • [Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna
  • al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile,
  • la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò
  • è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene
  • a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è
  • senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par
  • di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza
  • allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par
  • che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque
  • procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le
  • parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della
  • terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo
  • della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in
  • questa palude.]
  • [Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti
  • senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere
  • di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi
  • dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli
  • ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di
  • tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro
  • nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la
  • seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono
  • iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men
  • che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per
  • la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie
  • ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati,
  • nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani.
  • Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente
  • sentito nel sesto del suo _Eneida_, lá dove egli manda i perfidi e
  • ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama
  • Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali
  • hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi,
  • cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati.
  • O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono,
  • glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle,
  • le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di
  • verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del
  • zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico».
  • Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti,
  • esso fa quello che gli astrologhi chiamano «_zenit capitis_»; e in
  • questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige,
  • secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi
  • superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero;
  • e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e
  • albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto
  • la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli
  • scrisse _Delle cose sacre dʼEgitto_, dicendo che la palude di Stige è
  • appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che
  • non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí,
  • essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «_phile_», il quale è
  • tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima
  • padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole
  • e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali
  • essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di
  • tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]
  • [Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion
  • questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi
  • temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma
  • allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che
  • temere; e questi cotali sono glʼiddii, i quali i gentili dicevano
  • esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che
  • giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la
  • tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio,
  • credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato
  • son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che
  • bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin
  • beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]
  • [Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre
  • non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare,
  • né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e
  • faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in
  • ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in
  • prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad
  • affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
  • «Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte
  • della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser
  • tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice
  • adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso»,
  • cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella
  • padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte
  • nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa
  • e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e
  • perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e
  • con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí
  • ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean,
  • non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi,
  • «Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun
  • contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi
  • deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano
  • a brano», cioè a pezzo a pezzo.
  • «Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno
  • che cosí si troncano, e dice:—«Figlio, or vedi Lʼanime di color
  • cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che
  • tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente
  • che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular
  • questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle
  • gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere
  • che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra
  • vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e
  • cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori,
  • e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua
  • sospirava o si doleva.
  • «Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole
  • lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene
  • scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa
  • maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in
  • questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali
  • «dicon:—Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè
  • si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso
  • fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí
  • intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli
  • si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce,
  • qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta
  • negra»,—in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di
  • sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera
  • altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la
  • quale ella sta e che la mena.
  • «Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi,
  • e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario,
  • il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ
  • suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non
  • lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude
  • propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi,
  • dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si
  • gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la
  • qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e
  • abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa,
  • non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le
  • nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello,
  • che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola
  • piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si
  • gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi
  • posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.
  • «Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte
  • principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare,
  • e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori
  • che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda
  • pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun
  • arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze
  • dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti
  • (cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ
  • versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono,
  • «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e
  • ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza»,
  • cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna
  • torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • [Nota: Lez. XXIX]
  • [«_Papé Satan, papé Satan aleppe_», ecc. Dimostrò lʼautore nel
  • precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa
  • della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ
  • gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose
  • precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei
  • dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello
  • della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che
  • in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti
  • fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti
  • questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate
  • altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il
  • loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise,
  • quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio;
  • e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che
  • cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la
  • pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al
  • peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello
  • dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli
  • iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]
  • [Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere
  • stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai
  • attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che
  • lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno,
  • il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e
  • con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale
  • avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria
  • nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ
  • tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe
  • nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá
  • stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella
  • comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il
  • diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i
  • campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale
  • per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne
  • mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato
  • era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e
  • di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa,
  • ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno
  • stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò
  • Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone
  • Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare
  • coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá;
  • e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone
  • intendere.]
  • [Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo
  • altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato
  • _Dispiter_, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu
  • _Opis_, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto
  • con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu
  • nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello
  • ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale
  • assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ quivi:
  • _Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
  • moenia lata videt, ecc._
  • E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel
  • suo _Thebaidos_, dicendo:
  • _Forte sedens media regni infelicis in arce
  • dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
  • nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
  • stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
  • saevaque multisonas exercet poena catenas:
  • fata ferunt animas,_ ecc.
  • E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma,
  • dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e
  • chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi
  • deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò,
  • accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in
  • cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze
  • ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto,
  • parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter
  • trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a
  • procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando
  • dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne
  • veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre
  • vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme
  • di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta
  • lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato
  • il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di
  • ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per
  • moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale
  • aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia
  • del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia
  • dʼ_Ercole furente_:
  • _Post haec avari Ditis apparet domus.
  • Hic saevus umbras territat Stygius canis,
  • qui terna vasto capita concutiens sono
  • regnum tuetur: sordidum tabo caput
  • lambunt colubrae: viperis horrent iubae
  • longusque torta sibilat cauda draco.
  • Par ira formae,_ ecc.]
  • [Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone
  • voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire
  • quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona
  • tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «_Dispiter_»,
  • quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano
  • in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «_Opis_»
  • è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non
  • solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché
  • le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in
  • parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale
  • primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente
  • chiamato padre di Plutone.]
  • [Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data
  • una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone;
  • accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le
  • ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro
  • intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice
  • Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:
  • _Nulli fas casto sceleratum insistere limen;_
  • accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza
  • ingiustizia non potersi fare.]
  • [Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono
  • intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e
  • ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le
  • ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati
  • coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per
  • lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo
  • mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro
  • li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e
  • lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo
  • significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose
  • future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e
  • cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne
  • di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per
  • arricchire par che sieno.]
  • [Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato
  • «oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione
  • dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza
  • riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato
  • Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per
  • questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali
  • spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e
  • in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto
  • vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che
  • per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la
  • speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e
  • cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]
  • [Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa
  • «abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui
  • che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo
  • ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché
  • esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo
  • i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in
  • contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame
  • e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si
  • genera che laudevole o degna di memoria sia.]
  • [Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e
  • perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá,
  • le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora,
  • ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli
  • prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane,
  • sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto
  • «guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano
  • intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú
  • dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e
  • cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre
  • teste discritte, a dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni
  • sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente
  • in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché
  • quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin
  • via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano,
  • nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di
  • coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni
  • parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino,
  • e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La
  • terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o
  • ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e
  • di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi,
  • non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano,
  • né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire
  • tristissimi e miseri guardiani di Dite.]
  • [I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da
  • intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali
  • intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]
  • [Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come
  • appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «_Ut alter Orcus venisse
  • Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur_»,
  • ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è
  • ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che
  • che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che
  • qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che
  • per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo,
  • sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí
  • significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il
  • quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]
  • [Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché
  • lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale,
  • cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella
  • esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui
  • significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare
  • tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda
  • ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili
  • cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e
  • quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova,
  • richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate,
  • mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella
  • mostrarvelo.]
  • [Leggesi nel _Genesi_ che il serpente venne ad Eva, e confortolla
  • che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella
  • non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico
  • della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa
  • sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼ_Apocalissi_ che
  • fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu
  • detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per
  • questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro
  • antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente
  • intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che,
  • essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte
  • del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano
  • e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano
  • dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual
  • cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di
  • rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso,
  • e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che
  • trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal
  • serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli
  • sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo
  • serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico
  • elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe
  • delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti,
  • cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le
  • mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione
  • e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati
  • e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu
  • questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame,
  • il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua
  • passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le
  • punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del
  • ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ
  • quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu
  • aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la
  • sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e
  • ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una
  • medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio:
  • Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]
  • [Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere
  • significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il
  • salmista: «_Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est
  • in caput anguli_»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi
  • Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ
  • maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre
  • che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a
  • porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente,
  • provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del
  • tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e
  • nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi
  • due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose
  • il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu
  • deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una
  • chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e
  • ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in
  • quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon
  • quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati
  • da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse
  • con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e
  • cosí potete veder qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a
  • questo, si legge nellʼApocalissi: «_Substulit angelus lapidem quasi
  • molarem et misit in mare_», per la qual pietra vogliono i dottori,
  • sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «_Auferam
  • eis cor lapideum_», per la quale intendono i dottori la durezza della
  • infedelitá. E il salmista dice: «_Descenderunt in profundum, quasi
  • lapides_», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del
  • peccato.]
  • [E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una
  • medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che,
  • come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente
  • addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa
  • e quando unʼaltra.]
  • [Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li
  • laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i
  • dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in
  • altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il
  • naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi
  • si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la
  • quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo:
  • ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e
  • lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son
  • fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par
  • loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi
  • è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre,
  • la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad
  • una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni
  • maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola,
  • e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]
  • [Nota: Lez. XXX]
  • Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che,
  • secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá
  • tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano,
  • graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto,
  • lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto
  • umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del
  • tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno
  • predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero,
  • essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato
  • alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio
  • facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo
  • alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno
  • armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di
  • niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata
  • da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra
  • cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito
  • di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per
  • questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta
  • lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare
  • nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura
  • delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ
  • primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno
  • [che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i
  • vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale,
  • non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta
  • simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá,
  • [essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi
  • due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò,
  • che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in
  • paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano
  • ad accrescere il loro numero in inferno.
  • Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler
  • ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini,
  • si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle
  • proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a
  • prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo,
  • entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le
  • servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con
  • onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente
  • desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la
  • vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E,
  • non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi
  • nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove
  • ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati
  • i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli
  • altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle
  • profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre
  • preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati,
  • col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della
  • lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual
  • potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che
  • Boezio nel secondo libro _Della consolazione_, fortemente dolendosi,
  • dice:
  • _Heu! primus qui fuit ille
  • auri qui pondera tecti
  • gemmasque latere volentes
  • pretiosa pericula fodit?_
  • Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e
  • la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad
  • averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque
  • sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo
  • inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di
  • secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i
  • temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito
  • acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune
  • fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del
  • tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni
  • astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio
  • di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare,
  • onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i campi e lʼumane sustanze
  • in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo
  • non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione
  • spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi
  • ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare;
  • e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla
  • divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra,
  • mandati siamo.
  • E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello
  • che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora
  • si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare:
  • piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che,
  • brievemente, consista questo vizio.
  • È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «_auri cupiditas_»,
  • cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (_Ad Ephæsios_, v): «_Avaritia
  • est idolorum servitus_». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel
  • quarto dellʼ_Etica_, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene,
  • e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia
  • cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá
  • appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza
  • dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a
  • Rustico monaco, dove dice: «_Æstimato malo pondere peccatorum, levius
  • alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat.
  • Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare
  • Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat:
  • ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana
  • thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur
  • idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre,
  • offert creaturæ_». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene,
  • e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente
  • trattato.
  • Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto
  • disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le
  • montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati
  • dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa;
  • avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche
  • scrive a Lucillo, dove dice: «_Magnae divitiae sunt, lege naturae,
  • composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis
  • statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque
  • depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium
  • grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria
  • tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et
  • appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae
  • nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad
  • manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est_».
  • E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine
  • pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con
  • onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale
  • appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma,
  • percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio
  • trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il
  • vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile,
  • quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.
  • Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá,
  • ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via
  • ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú
  • che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si
  • dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e
  • occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente
  • acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama
  • curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali
  • dice Tullio nel libro terzo _Degli offici_: «_Detrahere igitur alteri
  • aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est
  • contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera,
  • quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis_», ecc.
  • Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che _prima facie_ vogliano
  • e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede, li quali sono a
  • distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie
  • dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione
  • dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato
  • il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi
  • loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta
  • operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú
  • in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare.
  • Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro
  • arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna
  • avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano
  • di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno
  • prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque
  • sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono
  • alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo
  • o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede
  • lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole
  • che sia reputata avarizia.
  • È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste
  • in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta
  • lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro
  • opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci,
  • che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna
  • piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se
  • medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi
  • né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui
  • prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali
  • né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad
  • onorare.
  • Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ
  • cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse
  • neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente,
  • come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non
  • ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria
  • col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro, accioché alcuno
  • bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che
  • piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali
  • sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo
  • spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza
  • avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se
  • per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al
  • vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir
  • quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno
  • hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e
  • ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere
  • piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E
  • di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo
  • peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime
  • entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto
  • pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché
  • i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della
  • misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione,
  • digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri
  • in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le
  • vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere
  • esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio
  • il vede.
  • È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra,
  • percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa
  • alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come
  • quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è
  • piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le
  • par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di
  • nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali
  • il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel
  • tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali;
  • e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati,
  • e similmente sʼaccorgono che, essendo essi delle dette sustanze
  • abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari,
  • da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare
  • verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se
  • essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma
  • dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati
  • e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia,
  • non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi
  • dʼavanzare, se il come vedessero.
  • Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi
  • eʼ poeti. Leggesi nellʼ_Evangelio_ di Luca, capitolo quinto: «_Vae
  • vobis, divitibus_!»; e nella _Canonica_ di san Iacopo, capitolo quinto:
  • «_Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient
  • vobis_»; e nello _Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in
  • inferno_». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «_Vae qui congregat
  • non sua_!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «_Vae qui congregat
  • avaritiam malam domui suae_!»; e lʼ_Ecclesiastico_, decimo: «_Avaro
  • nihil est scelestius_». E santo Agostino dice: «_Vae illis, qui
  • vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt_!»; ed esso
  • medesimo: «_Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus_». E
  • Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «_Multis parasse
  • divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio_». E Tullio _in primo
  • Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias;
  • nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non
  • habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre_». E
  • Virgilio, nel terzo dellʼ_Eneida_:
  • _...quid non mortalia pectora cogis,
  • auri sacra fames?_
  • E Persio scrive:
  • _Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
  • quis modus argento, quid fas optare, quid asper
  • utile nummus habet?_ ecc.
  • E Giovenale ancora dice:
  • _Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
  • Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
  • ut locuples moriaris, egenti vivere fato,_ ecc.
  • Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in
  • quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto
  • brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi.
  • È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼ_Etica_,
  • lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e,
  • cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si
  • conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene,
  • e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in
  • donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo
  • nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la
  • quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli
  • ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare
  • la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle
  • sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza
  • considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella
  • spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che
  • se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge
  • faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre
  • ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli,
  • i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno
  • carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non
  • gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi
  • convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato
  • il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose
  • assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale,
  • ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno
  • venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i
  • servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e
  • scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re
  • o imperadori; useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico
  • nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le
  • mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi
  • luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli
  • dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i
  • doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le
  • piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a
  • femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni
  • magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli;
  • apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi
  • i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero
  • pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case
  • di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese
  • malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste
  • il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.
  • [Nota: Lez. XXXI]
  • È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso
  • disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta
  • giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si
  • venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni
  • e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per
  • aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni
  • misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi
  • il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso,
  • o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano
  • gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici
  • di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni
  • scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non
  • solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá
  • di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo
  • esempio.
  • Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della
  • prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia,
  • percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro
  • abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene alcuni,
  • quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere
  • né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce
  • le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad
  • esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire
  • il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro
  • continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia
  • dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera
  • curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la
  • prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare
  • la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque
  • per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due
  • altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni
  • è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto
  • lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole
  • a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i
  • vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze
  • naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire
  • aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i
  • difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le
  • quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è,
  • percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si
  • perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza
  • misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può
  • donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che
  • dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.
  • Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio
  • che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí
  • fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra
  • qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari,
  • conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa
  • cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che
  • lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito,
  • pare che la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di
  • bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca
  • lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il
  • supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli
  • non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí
  • per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia
  • la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel
  • prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo
  • di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle
  • nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma
  • ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote
  • che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del
  • vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente
  • segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché
  • questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente
  • insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non
  • solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati
  • i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri
  • fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto
  • il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi,
  • falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade,
  • commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere
  • divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro
  • verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser
  • divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.
  • La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia
  • conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è
  • in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene;
  • e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male
  • spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che
  • dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi
  • pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi
  • e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come
  • in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini
  • faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo
  • dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion
  • di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi
  • che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini,
  • vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro
  • allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore
  • la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel
  • tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete
  • non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che
  • il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.
  • Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la
  • giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione.
  • [Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre
  • delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti,
  • il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere:
  • le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se
  • sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo
  • dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion
  • son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato
  • (oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre
  • con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori,
  • tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura
  • guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor
  • pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente
  • essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione.
  • Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi
  • che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale
  • animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita
  • eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua
  • perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone
  • si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro
  • tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese,
  • donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano
  • acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo
  • contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale
  • assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e
  • incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di
  • nuovo accende le coscienze loro.
  • «Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda
  • parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella
  • esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel
  • quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio
  • dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano
  • i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa
  • dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si
  • comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore,
  • è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi
  • verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.
  • Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem
  • vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto
  • stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo,
  • dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti
  • intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle
  • i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi
  • porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le
  • fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti,
  • le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella
  • sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è
  • rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa
  • daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è
  • oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da
  • ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ
  • fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle
  • selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta;
  • questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali
  • percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata; questa è dai diluvi
  • dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe
  • assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza
  • alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate
  • ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta
  • rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e
  • paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto
  • piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto
  • che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa,
  • della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia
  • fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.
  • Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come
  • se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per
  • eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di
  • scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi
  • per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti
  • siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa
  • ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi,
  • non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere
  • salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial
  • furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle
  • tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in
  • miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la
  • divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli
  • splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e
  • noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati
  • in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e
  • continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando,
  • adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla
  • dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima
  • mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad
  • altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per
  • conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre
  • a ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni
  • dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.
  • Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto
  • dellʼ_Etica_, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è
  • un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata
  • da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé
  • o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che
  • quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto
  • questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di
  • bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e
  • quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e
  • piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.
  • E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo
  • dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni,
  • che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori,
  • solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano
  • e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi
  • lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente
  • vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si
  • sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa
  • in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la
  • colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno
  • fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica,
  • dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa
  • subitezza.
  • La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente
  • per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto
  • aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma,
  • che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente
  • adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella
  • risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna
  • vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima
  • noia, percioché, quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú
  • cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato
  • appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed
  • è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né
  • altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa
  • ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá
  • o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa
  • diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son
  • questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor
  • famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla
  • turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E
  • da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che
  • son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza
  • dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]
  • La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati,
  • in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né
  • per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa
  • vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono
  • pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi
  • hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son
  • maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali
  • per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare;
  • e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il
  • giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo
  • male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo,
  • rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera
  • ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci
  • al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il
  • quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi
  • servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare
  • cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse
  • messo in prigione, infino a tanto che egli avesse interamente pagato:
  • ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione
  • del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere
  • un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in
  • prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui,
  • il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre
  • esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non
  • volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle
  • quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere
  • Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno
  • uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo
  • in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò
  • da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci
  • possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente
  • ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno
  • allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di
  • Dio gittati in casa il diavolo.]
  • Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere
  • dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver
  • saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la
  • ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il
  • comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «_Mihi vindictam et
  • ego retribuam_». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti,
  • quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam
  • mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.
  • È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro
  • supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente.
  • Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due
  • suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di
  • Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia
  • contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti
  • mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan
  • potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise;
  • Amata, moglie del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta
  • moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne
  • misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese,
  • chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani
  • deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi,
  • preso volontariamente veleno, sí morí. Che bisogna raccontarne molti?
  • conciosiacosaché manifesto sia, lʼira, poi che il consiglio della
  • ragione ha tolto dellʼuomo, col furor suo molti nʼabbia giá in miseria
  • e detestabile ruina condotti; li quali come che in questa vita e seco
  • medesimi e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra lʼautor
  • nellʼaltra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro
  • essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per
  • lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente
  • esala, tuffati e pieni dʼabominevole fastidio; e in quella non
  • solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno
  • altro membro fieramente percuotersi, e coʼ denti mordersi e troncarsi
  • le persone e stracciarsi tutti.
  • Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso,
  • spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale aʼ
  • dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi
  • in questa vita, e la gravosa pena deʼ dannati nellʼaltra. Il
  • percuotersi con la testa, col petto e coʼ piedi niuna altra cosa è
  • che un disegnare glʼimpeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso
  • accendimento dellʼira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per
  • la testa dellʼiracundo i pensieri, glʼintendimenti, le diliberazioni
  • dellʼiracundo, tutti posti e dirizzati dietro al disiderio della
  • vendetta: e questo, percioché nella testa consistono tutte le virtú
  • sensitive interiori e ancora le ʼntellettive, dalle quali sono formate
  • le predette cose. E percioché nel petto consistono le virtú vitali
  • e le nutritive, dobbiam sentire coʼ petti offendersi glʼiracundi,
  • non lʼun lʼaltro, ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon
  • lʼanimo intorno allʼeffetto dʼalcun disiderio, non si prende da
  • colui, che cosí è occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora
  • con lʼordine consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia
  • intorno al suo uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento
  • séguita la debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí,
  • mentre che lʼiracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi
  • dellʼingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ʼl
  • nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di
  • qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo, cosí
  • lʼaffezioni menano lʼanimo e son guida di quello: e percioché tutte
  • le affezioni dellʼiracundo sono pronte e inchinevoli a dover nuocere
  • a colui o a coloro contro aʼ quali è adirato, dice qui lʼautore
  • glʼiracundi coʼ piedi offendersi.
  • Il troncarsi coi denti le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo
  • è efficacissima dimostrazione di quanta potenzia sia lʼimpeto di
  • questo vizio, poiché non solamente offusca lʼintelletto e la ragione
  • nellʼadirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non
  • fosse, basterebbe allʼadirato lʼaversi morso una sol volta; percioché
  • il dolore ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi;
  • dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta
  • e sí furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che
  • disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, coʼ denti troncarsi le
  • proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo
  • medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno
  • adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive
  • Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale,
  • sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con
  • furia domandò dʼaverlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte di
  • molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e menato
  • dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente
  • coʼ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, piú che
  • umano, morí egli e uccise il nemico.
  • Lʼessere in quella padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa
  • e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser
  • causativa dellʼira; percioché, se quelle cose che avvengono, delle
  • quali lʼuomo sʼadira, se esse non ci contristassono, senza dubbio
  • noi non ci adireremmo, e cosí per lʼesser contristati ci adiriamo:
  • e perciò, accioché i miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo
  • puniti e afflitti, e per quello senza pro riconoscano sé dovere avere
  • con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in
  • questa padule di Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi
  • bollono, e in continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è,
  • sʼaccendono.
  • Lʼessere la padule calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare
  • le tre qualitá deglʼiracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo
  • per la caldezza del pantano la qualitá deglʼiracundi, la qual dissi
  • subitamente accendersi, e ciò procedere dallʼomor collerico, il quale
  • è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere lʼaltra
  • qualitá deglʼiracundi, la qual dissi lungamente servare lʼira accolta,
  • ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, sí come
  • veggiamo che le nebule deʼ pantani, state quasi salde e intere per
  • buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La
  • terza qualitá deglʼiracundi, li quali dissi non solamente non lasciar
  • mai lʼira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza
  • aver presa vendetta dellʼoffesa, la quale gli parve aver ricevuto, e
  • ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender
  • per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera,
  • e la interpetrazion del nome della malinconia si dice da «_melan_»,
  • _graece_, il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici
  • son sempre nellʼaspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion
  • conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre proprietá,
  • le quali lʼautor discrive esser di questa padule, dover significare tre
  • proprietá deglʼiracundi, cioè: per la nerezza, la tristizia; per la
  • nebula, la caligine dellʼignoranza, la quale lʼira para dinanzi agli
  • occhi dello ʼntelletto, e cosí non può, offuscato, vedere quello che
  • sia da fare; e per lo caldo, il furor dellʼiracundo nel qual sʼaccende.
  • Per lo loto, nel qual sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo
  • intendere la sozza e fetida macula, la quale lʼira mette nelle menti
  • di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di
  • quella, li quali macolano e bruttano ogni onesta fama.
  • [Nota: Lez. XXXII]
  • Resta a vedere del vizio opposito allʼiracundia, il quale in questa
  • medesima padule di Stige si punisce con glʼiracundi, cioè lʼaccidia.
  • Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura
  • delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e
  • dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del
  • nostro intelletto e deʼ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe
  • avere, al sospignerci ad esser neʼ tempi debiti in continuo esercizio,
  • il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolissimi animali,
  • nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza
  • aver né astrolago o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito,
  • senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son
  • le biade neʼ campi, o altra qualitá di tempo, come talvolta fanno
  • i naviganti; dentro dalla sua cava standosi, cognoscono quando la
  • state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade
  • si ricolgano; e allora, purgata la via e aperta lʼuscita della sua
  • cava, la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali
  • aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida
  • alcuna, tutte si dirizzano allʼaie, dove i lavoratori le biade segate
  • ragunano e battono e mondano, e aʼ granai neʼ quali quelle ripongono,
  • e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette.
  • E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla
  • paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi loro,
  • sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che se
  • medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e quello
  • salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta
  • sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente dʼun
  • sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna mattina col
  • sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene, in
  • quello, essere a loro manifesto quello nel verno non potere operarsi,
  • sí per le piove continue, e sí perché quello che la state truovano in
  • molte parti e presto è aperto loro, quello il verno troverebbono in
  • poche e serrato; avvedendosi ancora che, se cosí nellʼabbondanza della
  • state fatto non avessono o non facessono, convenirle di verno perir di
  • fame.
  • La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non
  • prestasse utile dimostrazione contro allʼoziositá, e contro al porre
  • indugio alle cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí
  • adoperare nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi,
  • vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna
  • e senza stento aspettar lʼultimo giorno, quando a Dio piacesse
  • mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato nʼè
  • nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte,
  • noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intraʼ beati, e non esser
  • gittati nella morte perpetua dello ʼnferno, dove sará pianto e stridor
  • di denti. Ma, percioché lʼaddormentato intelletto di molti, né per
  • disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non si può
  • destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia,
  • il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma pur
  • riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita vengono in
  • estrema miseria, e nellʼaltra tuffati bollono nella palude di Stige,
  • come nel presente canto ne discrive lʼautore.
  • E accioché piú chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per
  • conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú
  • leggermente vedere quello che voglia lʼautor sentire per la pena loro
  • attribuita dalla divina giustizia; dico [che lʼaccidia], secondo
  • che nel quarto dellʼ_Etica_ mostra ad Aristotile di piacere, colui
  • essere accidioso, il quale dove bisogna non sʼadira, dicendo essere
  • atto di stolto il non adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna;
  • percioché pare che questo cotale non abbia sentimento dʼuomo, e però
  • di nulla cosa sʼattristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne
  • che sostenere lo ʼngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia
  • atto servile. Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo
  • nʼapparirá ogni altra cosa che allʼaccidioso sʼattribuisce dover
  • nascere e venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession
  • dʼanimo dellʼaccidioso, se non quella procedere da un torpore, da
  • una viltá, da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi
  • sostiene le ʼngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere
  • obbediente aʼ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá
  • fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion dʼanimo essere
  • avvenuto; percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è
  • comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini
  • essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il santo e
  • savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o operare
  • quello, che né dire né operare si convenga; ma prima chʼegli lasci
  • tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di peccato potesse
  • pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la turbazione, e di
  • questa vittoria merita. Ma lʼaccidioso non è cosí; percioché non per
  • virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto dimessosi per la viltá
  • dellʼanimo suo allʼozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue
  • meditazioni sʼattrista, ognora divenendo piú vile, intanto che la sua
  • vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa
  • alcuna, quantunque menoma, la quale esso sʼattenti di cominciare; e,
  • se pur tanto lo ʼnfesta la necessitá che egli alcuna ne cominci, nel
  • cominciamento medesimo invilisce, sí che, le piú volte intralasciatala,
  • non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il
  • dissolve, il giorno gli è noioso e la notte grave; ciascheduna ora,
  • e in qualunque stagione, ha in sé, al giudicio del pigro, alcuno
  • impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí il tempo
  • nuvolo e ʼl sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani;
  • non visita, non sollecita le possession sue, non i lavorator di quelle,
  • non i servi, e lʼessergli di quelle i frutti diminuiti non se ne cura
  • per tracutanza. Alle publiche cose non ardirebbe di salire, alle quali
  • se pur sospinto fosse per li meriti dʼalcun suo, come uno addormentato
  • si starebbe in quelle; il letto, le notti lunghissime e i sonni, non
  • piú corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene;
  • la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole
  • compagnia.
  • [Ma, posponendo gli atti morali e alquanto parlando degli spirituali,
  • non visita glʼinfermi, non visita glʼincarcerati, non sovviene di
  • consiglio aʼ bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di
  • Cristo per non trarsi il cappuccio, allʼusanza di Fiandra, non si
  • confessa aʼ tempi, non prende i sacramenti, non dispone né i fatti
  • dellʼanima né quegli del corpo.]
  • Ma a che molte parole? Lʼuomo si potrebbe stendere assai, volendo
  • pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma, percioché
  • disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico che
  • la vita dellʼaccidioso è, quanto piú può, simigliante alla morte.
  • È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui
  • nasce non solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale
  • rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce
  • ancor da costui afflizion dʼanimo, odio di se medesimo e rincrescimento
  • di vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di
  • fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito, prolungazion
  • dʼopere e fastidio general dʼogni bene; e ultimamente, dopo la trista
  • vita, eterna perdizion dellʼanima.
  • E percioché tutti gli atti di coloro, li quali sono da questo vizio
  • occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e, in quanto possono,
  • nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente lʼautore stare nascosi
  • e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera
  • palude bogliente, nera e nebolosa; e in quella gorgogliare con la
  • gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro dolersi
  • della vita trista e nigligente, la qual menarono. Volendo per questo
  • sʼintenda primieramente, per lo calor della padule, il calor della
  • divina ira, il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato,
  • gli tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per
  • lʼessere la palude nera, vuol sʼintenda la tenebrosa lor vita, e la
  • oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve. E
  • per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto
  • lʼonde, accioché si comprenda loro nella presente vita non essere per
  • alcuna loro operazione stati conosciuti. Lʼessere la padule nebulosa,
  • o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza,
  • della quale furono offuscati gli occhi dello ʼntelletto loro, li
  • quali mai riguardar non vollono sé essere uomini nati ad esercizio
  • laudevole e non a detestabile ozio. Lʼavere la strozza piena di fango,
  • e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il
  • quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri e in
  • meditazion malinconiche, le quali son di natura terree, e, sí come
  • grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del
  • suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.
  • CANTO OTTAVO
  • I
  • SENSO LETTERALE
  • [Nota: Lez. XXXIII]
  • «Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Continuasi lʼautore in
  • questo canto alle cose precedenti in questa forma che, avendo nella
  • fine del precedente canto mostrato come, alquanto aggirata della padule
  • di Stige, pervenissero a piè dʼuna torre; nel principio di questo
  • dimostra quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero,
  • discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende
  • lʼautore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio
  • per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il
  • presente canto in quattro parti: nella prima dimostra lʼautore come,
  • vedute certe fiamme sopra due torri, distanti lʼuna allʼaltra, un
  • demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella
  • Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive lʼautore ciò
  • che, navicando per la palude, udisse e vedesse dʼuno spirito chiamato
  • Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della cittá
  • di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella quarta pone
  • la raccolta fatta loro daʼ demòni, che sopra la porta o allʼentrata
  • della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse
  • da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se ne tornasse, e
  • quel che dicesse. La seconda comincia quivi: «Mentre noi correvam»; la
  • terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta quivi: «Non senza prima
  • far».
  • Dice adunque nella prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole
  • si può alcuna ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni
  • uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí
  • ancora che, per insino a qui, non ha alcunʼaltra volta usato questo
  • modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa
  • ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella,
  • la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il
  • quale di lei ebbe piú figliuoli, traʼ quali ne fu uno di piú tempo
  • che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente
  • nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della
  • persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea,
  • e fu uomo idioto, ma dʼassai buon sentimento naturale e neʼ suoi
  • ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo io suo
  • dimestico divenuto, io udiʼ piú volte deʼ costumi e deʼ modi di Dante,
  • ma, tra lʼaltre cose che piú mi piacque di riservare nella memoria, fu
  • ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in
  • parole.]
  • [Diceva adunque che, essendo Dante della setta di messer Vieri deʼ
  • Cerchi, e in quella quasi uno deʼ maggiori caporali, avvenne che,
  • partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci,
  • esso medesimo si partí e andossene a Verona. Appresso la qual partita,
  • per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro
  • che partito sʼera, e massimamente deʼ principali della setta, furono
  • condennati, sí come ribelli, nellʼavere e nella persona, e tra questi
  • fu Dante: per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a
  • romor di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che,
  • temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma,
  • per consiglio dʼalcuni amici e parenti, aveva fatti trarre dalla casa
  • alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture di Dante, e
  • fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non essendo bastato
  • lʼaver le case rubate, similmente i parziali piú possenti occuparono
  • chi una possesione chi unʼaltra di questi condennati: e cosí furono
  • occupate quelle di Dante. Ma poi, passati ben cinque anni o piú,
  • essendo la cittá venuta a piú convenevole reggimento che quello non era
  • quando Dante fu condennato, dice le persone cominciarono a domandar
  • loro ragioni, chi con un titolo chi con un altro, sopra i beni stati
  • deʼ ribelli, ed erano uditi: per che fu consigliata la donna che
  • ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse deʼ beni di Dante
  • raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno
  • certi stromenti e scritture, le quali erano in alcuno deʼ forzieri, li
  • quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire,
  • né poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva.
  • Per la qual cosa diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui,
  • sí come nepote di Dante, e, fidategli le chiavi deʼ forzieri, lʼaveva
  • mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune.
  • Delle quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú
  • scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili cose;
  • ma, tra lʼaltre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel
  • quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però
  • presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo, quantunque poco
  • ne ʼntendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa. E però diliberò
  • di dovergli portare, per saper quel che fossero, ad un valente uomo
  • della nostra cittá, il quale in queʼ tempi era famosissimo dicitore in
  • rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual
  • Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a piú suoi
  • amici fatta copia, conoscendo lʼopera piú tosto iniziata che compiuta,
  • pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che,
  • seguitando il suo proponimento, vi desse fine. E, avendo investigato e
  • trovato che Dante era in quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo deʼ
  • Malispini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente
  • e in singularitá suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al
  • marchese, che gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto
  • potesse, désse opera che Dante continuasse la ʼmpresa, e, se potesse,
  • la finisse.]
  • [Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed
  • essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo
  • avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare
  • la ʼmpresa. Al qual dicono che Dante rispuose:—Io estimava veramente
  • che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo
  • che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto nʼavea lʼanimo e ʼl
  • pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sien, ed
  • hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare
  • la bisogna, secondo la mia disposizion prima.—E quinci rientrato nel
  • pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo
  • principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente
  • intralasciate.]
  • [Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa
  • mutarne, mi raccontò giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e
  • intendente uomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si
  • potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso
  • diceva non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale
  • la donna avea mandato aʼ forzieri per le scritture, e che avea trovati
  • questi sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so
  • a quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si
  • dica il vero o no, mʼoccorre nelle parole loro un dubbio, il quale io
  • non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio
  • è questo. Introduce nel sesto canto lʼautore Ciacco, e fagli predire
  • come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca, convien
  • che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante. Il che
  • cosí avvenne, percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta
  • Bianca e il partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se lʼautore si
  • partí allʼora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e
  • non solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea
  • spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e a
  • me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi che
  • fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con quello che
  • mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire lʼautore, dopo la
  • partita deʼ Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e
  • poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non
  • si confá bene con la risposta fatta dallʼautore al marchese, nella qual
  • dice sé avere creduto questi canti con lʼaltre sue cose essere stati
  • perduti, quando rubata gli fu la casa. E il dire lʼautore aver potuto
  • aggiungere al sesto canto, poi che gli riebbe, le parole le quali fa
  • dire a Ciacco, non si può sostenere, se quello è vero che per i due
  • superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio nʼavesse data
  • copia a piú suoi amici; percioché pur nʼapparirebbe alcuna delle copie
  • senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole,
  • alcuna memoria ne sarebbe. Ora, come che questa cosa si sia avvenuta
  • o potuta avvenire lascerò nel giudicio deʼ lettori; ciascun ne creda
  • quello che piú vero o piú verisimile gli pare.]
  • [Tornando adunque al testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose
  • predette, «chʼassai prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al
  • piè de lʼalta torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive
  • che pervennero, «Gli occhi nostri nʼandâr», riguardando, «suso alla
  • cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra la
  • cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per due
  • fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su quella
  • sommitá della torre, «E unʼaltra», fiamma, «di lungi» da questa torre,
  • «render cenno», sí come far si suole per le contrade nelle quali è
  • guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il castello o il luogo,
  • vicino al quale la novitá avviene, incontanente per un fuoco o per due,
  • secondo che insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e
  • ville del paese. E dice che questo cenno dʼuna fiamma fu renduto di
  • lontano, «Tanto, chʼappena il potea lʼocchio tôrre», cioè discernere
  • [altro]. Ma pure, poi che tolto lʼebbe, dice:
  • «Ed io mi volsi al mar», cioè allʼabbondanza, «di tutto il senno»,
  • cioè a Virgilio (del quale nel principio del canto precedente dice:
  • «E quel savio gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi:—Questo
  • che dice?», cioè che significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi
  • fatto in questa torre? «e che risponde Quellʼaltro fuoco?», il quale io
  • veggio fare sopra la torre, la quale nʼè lontana; «e chi son queʼ che
  • ʼl fenno»?—questo chʼè sopra noi, e quello ancora che nʼè piú rimoto.
  • «Ed egli a me:—Su per le sucide onde», di Stige, le quali chiama
  • «sucide», perché nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di
  • lontan vedere, «quello che sʼaspetta» di dovere avvenire per questo
  • fuoco e per quello, «Se ʼl fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti
  • nasconde»,—percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la vista
  • delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e lʼocchio del
  • riguardante.
  • E, questo avendo Virgilio risposto, séguita lʼautore, e dimostra quello
  • che seguí deʼ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda»,
  • dʼalcuno arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè
  • volasse, «via per lʼaere snella», cioè leggiere, «Comʼio vidi una nave
  • piccioletta Venir per lʼacqua», della padule, «verso noi in quella» che
  • Virgilio diceva:—«Giá puoi scorgere», ecc.—«Sotto il governo dʼun sol
  • galeoto». «Galeotti» son chiamati queʼ marinari li quali servono alle
  • galee; ma qui, _licentia poëtica_, nomina «galeotto» il governatore
  • dʼuna piccola barchetta; e dice «che», questo galeotto, «gridava:—Or
  • seʼ giunta, anima, fella!»,—cioè malvagia.
  • E, come assai appare, lʼautore in questo quinto cerchio non ha ancor
  • mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento deʼ
  • dannati in esso, né che con alcun atto lo spaventi, come suol fare
  • neʼ cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo. E questo è
  • artificiosamente fatto, percioché non sempre dʼuna medesima cosa si dee
  • in un medesimo modo parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il
  • modo del dimostrare, qui infra ʼl cerchio, percioché tutto è del quinto
  • cerchio ciò che si contiene infino allʼentrata della cittá di Dite.
  • E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare,
  • par che sieno dirizzate dal dimonio pure allʼun di lor due, cioè a
  • Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere
  • questo demonio avere da occulta virtú sentito lʼautore non venir come
  • dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestá; ma esso gridar
  • contro a Virgilio, accioché lʼautore spaventasse, e, spaventandolo,
  • il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere
  • le colpe deʼ peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo
  • conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena
  • prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa
  • caduto fosse.
  • Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio:—«Flegias, Flegias»; era
  • questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio
  • quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto»,
  • cioè per niente,—«Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione
  • per la quale Flegias grida a voto, dicendo:—«A questa volta», che qui
  • seʼ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il
  • loto»,—cioè il padule pieno di loto.
  • E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole
  • udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta,
  • Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli
  • amici e con altrui; «Tal si feʼ Flegias nellʼira accolta», parendogli
  • essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e
  • che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli
  • era.
  • [E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive
  • Lattanzio _in libro Divinarum institutionum_, questo Flegias fu
  • figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro
  • aglʼiddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli,
  • Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima,
  • piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline
  • giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il
  • quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi
  • forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos,
  • e quivi mise fuoco nel tempio dʼApolline, il quale a queʼ tempi
  • dallʼerror deʼ gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di
  • tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne
  • sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias, secondo che scrive
  • Eusebio _in libro Temporum_, lʼanno 23 di Danao, re degli argivi, il
  • quale fu lʼanno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo,
  • scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché
  • vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la
  • creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran
  • tratti deʼ ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto
  • per beneficio della sua deitá, cioè dellʼarte della medicina, erano
  • in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo
  • turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e
  • mandonne lʼanima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli
  • stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora
  • gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui
  • scrive Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_:
  • _Phlegyasque miserrimus omnes_
  • _admonet, et magna testatur voce per umbras:
  • discite iustitiam moniti, et non contemnere divos_, ecc.]
  • «Lo duca mio». Poi che lʼautore ha dimostrato Flegias essersi turbato
  • del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive
  • come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender
  • si può che altra via non vʼera da poter piú avanti procedere, senza
  • valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece
  • entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fuʼ dentro parve
  • carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non è dʼalcun
  • peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da
  • Virgilio, dove dice, nel sesto dellʼ_Eneida_, come Enea trapassò per
  • nave Acheronte, dicendo cosí:
  • _simul accipit alveo_
  • _ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba
  • subtilis, et multam accepit rimosa paludem,_ ecc.
  • Poi segue lʼautore: «Tosto che ʼl duca ed io nel legno fui», cioè
  • nella barca; e usa qui lʼautore il general nome delle navi per lo
  • speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare è chiamato
  • «legno», quantunque non sʼusi se non nelle gran navi. «Segando se ne
  • va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due
  • parti, cosí la nave, andando per lʼacqua sospinta daʼ remi o dal vento,
  • pare che seghi, cioè divida, lʼacqua. «Lʼantica prora»: «antica» la
  • chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora»
  • la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre
  • parti principali, delle quali lʼuna si chiama «prora», quantunque per
  • volgare sia chiamata «proda» daʼ navicanti; e questa è stretta e aguta,
  • percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender lʼacqua:
  • lʼaltra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di
  • dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo deʼ
  • timoni, li quali in quella parte, lʼuno dal lato destro e lʼaltro dal
  • sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va
  • verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama
  • «carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la
  • poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato
  • carico, sega «Dellʼacqua» del padule, «piú che non suol con altrui»,
  • cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da
  • Flegias.
  • «Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
  • nella quale lʼautor fa quattro cose: primieramente dimostra come un
  • pien di fango fuori dellʼacqua del padule gli si dimostra; appresso
  • scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in
  • dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel
  • fangoso fosse lacerato dallʼaltre anime deʼ dannati che quivi erano;
  • ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite.
  • La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed
  • io:—Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».
  • Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente
  • navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte dʼacqua tratta per
  • forza del vero corso dʼalcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro
  • servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta:
  • per lo qual nome lʼautore nomina qui, _licentia poëtica_, il padule per
  • lo quale navicava; e, per dar piú certo intendimento che di quello
  • dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno
  • corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dallʼacqua
  • del padule, «un pien di fango», unʼanima dʼun peccatore, «E disse:—Chi
  • seʼ tu, che vieni anzi ora?»,—cioè anzi che tu sia morto.
  • «Ed io a lui» risposi:—«Sʼio vengo, non rimango», percioché io non son
  • dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi seʼ,
  • che sí seʼ fatto brutto?»—dal fango il quale hai addosso.
  • «Rispose», quellʼanima:—«Vedi che son un che piango».—Risposta
  • veramente dʼuomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non
  • rispondere se non per rintronico.
  • «Ed io a lui:—Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere
  • diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto:
  • dicon primieramente che «_flere_», il quale per volgare noi diciam
  • «piagnere», fa lʼuomo quando piagne versando abbondantissimamente
  • lagrime; «_plorare_», il quale similmente per volgare viene a dir
  • «piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «_lugere_», il
  • quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con
  • miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «_lugere,
  • quasi luce egere_», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia
  • quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico,
  • percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto,
  • quasi allʼoscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per
  • cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della
  • ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá,
  • per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando
  • questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere
  • che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «_lugere_»
  • viene «lutto», il vocabolo che qui usa lʼautore. «_Eiulare_», che
  • per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace aʼ gramatici,
  • «piagnere con alte boci»: e dicesi _ab «hei», quod est interiectio
  • dolentis_; «_gemere_», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e
  • quel pianto che si fa singhiozzando; «_ululare_» in volgare vuol dir
  • «piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella
  • che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo lʼautore
  • a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna
  • inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie
  • del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.
  • Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento,
  • «Chʼio ti conosco, ancor sii lordo tutto».—Questo gli dice lʼautore,
  • percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non lʼavea voluto dire.
  • «Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee
  • credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza
  • di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse,
  • lʼautore, percioché ingiurioso si reputava lʼautore aver detto di
  • conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ʼl maestro
  • accorto», della intenzione di questʼanima adirata, «lo sospinse», cioè
  • il rimosse della barca, «Dicendo:—Via costá con gli altri cani!»,—deʼ
  • quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli coʼ denti,
  • come quivi dice si stracciavano glʼiracundi.
  • [Nota: Lez. XXXIV]
  • «Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte
  • principale, nella quale Virgilio fa festa allʼautore, percioché ha
  • avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella
  • lʼautore una spezie dʼira, la quale non solamente non è peccato ad
  • averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere
  • usare questa spezie dʼira, Aristotile nel quarto dellʼ_Etica_ chiama
  • «mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che
  • sʼadirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali
  • è convenevole dʼadirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e
  • quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili.
  • E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e
  • non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare
  • che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali sʼadira, tanto
  • tempo essere adirato, quanto la ragione richiederá. Questa cotale
  • spezie dʼira nʼè conceduta daʼ santi. Dice il salmista: «_Irascimini,
  • et nolite peccare_»; volendo per queste parole che ne sia licito il
  • commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre
  • quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al
  • discepolo, o lʼuno amico allʼaltro, accioché per quella commozione egli
  • lʼammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non
  • come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare
  • dʼalcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú
  • lʼira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non
  • si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi,
  • come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega
  • che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di
  • lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato
  • commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un
  • mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori eʼ compratori, dicendo:
  • «_Domus mea, domus orationis_», ecc. Questa spezie dʼira chiamano molti
  • «sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere lʼautore): il qual non
  • voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti
  • e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in
  • cui egli cade; percioché quanto piú è savio lʼuomo, tanto piú cognosce
  • le qualitá eʼ motivi deʼ difetti che si commettono, e per conseguente
  • piú si commuove. E però dice Salomone: «_Ubi multum sapientiae, ibi
  • multum indignationis_». E vuole lʼautore in questa particella mostrare
  • questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si
  • mostra per lo supplicio deʼ dannati in questo cerchio esser commosso,
  • come neʼ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta
  • festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo,
  • in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa
  • congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in
  • dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia lʼessere isdegnoso.
  • È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo,
  • cioè «sdegnoso», spessissimamente in mala parte si pone: il che,
  • quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è daʼ discreti
  • da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non
  • debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie dʼira, le quali
  • di sopra son mostrate esser dannose.]
  • Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata
  • quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi;
  • «Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché
  • noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice
  • «il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo
  • primieramente lʼonestá del costume, percioché il baciar nel volto è
  • segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo
  • sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò,
  • il volto nostro è detto «volto» da «_volo vis_», percioché per quello
  • neʼ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il
  • voler del cuore dellʼautore era buono e onesto, Virgilio, approvando
  • quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del
  • corpo dellʼautore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.
  • «E disse:—Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in
  • quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando lʼira,
  • mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in
  • te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre
  • nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui lʼautor «benedetta», a
  • dimostrazion che, come lʼalbero, il qual porta buon frutto, si dice
  • «benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon
  • figliuolo. E in questa parte non si commenda poco lʼautore; ma egli è
  • in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar
  • sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di
  • necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni
  • ira esser peccato.
  • «Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita,
  • «persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che
  • sua memoria fregi», cioè adorni; percioché le virtú adornano cosí
  • il nome e la memoria dellʼuomo, nel quale state sono, come il fregio
  • adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «sʼè
  • lʼombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.
  • «Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e
  • sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio
  • a biasimare, sotto i nomi deʼ piú eminenti prencipi, i fastidi e le
  • stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma
  • eziandio di molti plebei, li quali, per apparere dʼesser quel che non
  • sono, si sforzano dʼesser ponderosi neʼ passi, gravi nel parlare,
  • e nellʼadoperare di sentimento sublime, dove nellʼeffetto di niuno
  • valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il
  • quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il
  • «re» è dinominato da «_rego regis_», il quale sta per «reggere» e per
  • «governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste
  • ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e
  • però dice lʼautore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi
  • non sono.
  • A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo
  • in quella tragedia la quale è nominata _Tieste_, dove dice: «Non fanno
  • le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona
  • della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate deʼ lor
  • palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male
  • del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente
  • ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la
  • buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di
  • cavalli né dʼarmi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non
  • temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi
  • quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re
  • questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.
  • E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché
  • posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in
  • brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano
  • i mali usati splendori nella vita presente; e, che ancora piú
  • vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili
  • dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare,
  • state operate per loro.
  • «Ed io:—Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda
  • parte principale di questo canto, nella quale lʼautor discrive come,
  • secondo il suo desiderio, vide straziare allʼanime dannate quello pien
  • di fango che davanti gli sʼera parato. E primieramente apre il suo
  • desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, molto sarei vago Di
  • vederlo attuffare», costui, il qual tu mi diʼ che fu persona orgogliosa
  • (e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo,
  • di vedere glʼincorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio
  • significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo
  • della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma
  • qui lʼusa lʼautore largamente, prendendolo per lʼacqua di quella padule
  • mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché
  • cosí son grasse e unte come la broda.
  • «Anzi che noi uscissimo del lago»,—cioè di questa padule. È il «lago»
  • una ragunanza dʼacque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa,
  • per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto
  • il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento;
  • per le quai cose lʼacqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove
  • la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui
  • lʼautore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando
  • la licenza poetica, e largamente parlando.
  • «Ed egli a me:—Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa
  • padule. La quale lʼuomo, come deʼ fiumi, chiama «riva»; ma pone
  • lʼautore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di
  • quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili,
  • accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual
  • portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla
  • riva. «Ti si lasci veder, tu saráʼ sazio», di quel che disideri. E poi
  • ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu diʼ che hai,
  • «converrá che tu goda»,—cioè ti rallegri.
  • «Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello
  • strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti»,
  • cioè aglʼiracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne
  • lodo e ne ringrazio».
  • «Tutti gridavano», queʼ dannati, animando lʼun lʼaltro ad offender
  • questʼanima. E che gridavano?—«A Filippo Argenti!»—quasi voglian
  • dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.
  • Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese
  • Domenichi) deʼ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna
  • volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare dʼariento,
  • e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e
  • nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo,
  • eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che
  • queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo
  • molto essere iracundo scrive lʼautore lui essere a questa pena dannato.
  • «E ʼl fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo
  • vocabolo «bizzarro» sia solo deʼ fiorentini, e suona sempre in mala
  • parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per
  • ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna
  • dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire
  • o assalire dagli altri, «si volvea coʼ denti», per ira mordendosi.
  • «Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di
  • lui dopo questo si seguisse.
  • «Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello,
  • che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si
  • percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli
  • percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata.
  • E segue: «Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse,
  • «avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi
  • sbarro», cioè, quanto posso apro.
  • «Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda
  • parte principale del presente canto, nella quale lʼautore dimostra
  • come venissero neʼ fossi della cittá di Dite. Dice adunque: «Lo buon
  • maestro disse:—Omai, figliuolo, Sʼappressa la cittá che ha nome Dite,
  • Coʼ gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati,
  • «col grande stuolo»,—cioè con la gran quantitá.
  • «Ed io:—Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini
  • i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi
  • chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché
  • questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che
  • gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori
  • della cittá venga, che lʼaltre case; e perciò non fa lʼautor menzione
  • dellʼaltre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole
  • «meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.
  • «Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché
  • la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea
  • «Vermiglie, come se di foco uscite Fossero».—E questo dice a rimuovere
  • una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha
  • alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del
  • padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se
  • non fosse che esse medesime si facevan vedere per lʼessere affocate,
  • cioè rosse.
  • «E quei mi disse:—Il fuoco eterno, Chʼentro lʼaffuoca, le dimostra
  • rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno».—
  • Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual
  • fu necessaria dʼaprire, accioché egli non estimasse quelle essere
  • dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro allʼalte fosse,
  • Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio
  • significato, è quello palancato, il quale aʼ tempi di guerre si fa
  • dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente
  • chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual
  • fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.
  • «Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle
  • essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della fortezza di
  • questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dellʼ_Eneida_ cosí:
  • _Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
  • vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
  • caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
  • Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
  • vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
  • Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
  • verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae,_ ecc.
  • «Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale
  • del presente canto, nella quale lʼautor discrive la raccolta fatta
  • loro daʼ demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a
  • Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose:
  • primieramente discrive cui trovassero allʼentrare della porta di Dite,
  • e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra
  • come si sconfortasse per lʼandar Virgilio a loro. E comincia questa
  • particella quivi: «Pensa, lettor».
  • Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»;
  • nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi
  • di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta
  • di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove ʼl nocchier», cioè
  • Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al
  • quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di
  • comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogpo;
  • e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte—Uscite!—ci gridò».
  • Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il
  • costume deglʼiracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan
  • fare se non impetuosamente e con romore.—«Qui è lʼentrata»,—della
  • cittá di Dite.
  • «Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá
  • di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di
  • paradiso, in guisa di piova caddero nello ʼnferno, «che stizzosamente»,
  • cioè iracundamente, «Dicean», con seco medesimi:—«Chi è costui, che
  • senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta
  • gente?»,—cioè per lo ʼnferno, il qual veramente si può dir «regno
  • della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della
  • morte temporale, e morti nella morte eternale.
  • «E ʼl savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor
  • parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il
  • gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non
  • parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende
  • in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è,
  • alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser:—Vienʼ tu solo», qua a noi,
  • «e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò
  • per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è
  • venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle,
  • percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia,
  • ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per
  • essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa»,
  • tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai
  • scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada»,—cioè sí oscura.
  • E vuole in queste parole lʼautore quello dimostrare, che negli altri
  • cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun deʼ ministri
  • infernali sempre allʼentrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui,
  • dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della
  • cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché
  • del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover
  • conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in
  • inferno discendere.
  • «Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte
  • principale, nella quale lʼautore mostra come si sconfortasse. «Pensa,
  • lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle
  • parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne
  • la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Chʼio non credetti
  • ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin
  • quivi guidato mʼavea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un
  • passo.
  • E però, da questa paura sbigottito, dice:-«O caro duca mio, che piú
  • di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo ʼnfinito, «Volte
  • mʼhai sicurtá renduta, e tratto Dʼaltro periglio che incontro mi
  • stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali
  • impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti lʼira di Carone,
  • di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi
  • lasciar—dissʼio—cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza
  • te; «E, se lʼandar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam
  • lʼorme nostre insieme ratto»,—per la via tornandoci, per la quale
  • venuti siamo.
  • «E quel signor», Virgilio, «che lí mʼavea menato, Mi disse:—Non temer,
  • ché ʼl nostro passo», cioè lʼentrare nella cittá di Dite, «Non ci può
  • tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi
  • e dican parole assai, essi non posson però impedire lʼandar nostro; e
  • pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal nʼè dato», cioè da
  • Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma
  • qui mʼattendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta,
  • e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la
  • speranza buona, dicendo: «Chʼio non ti lascerò nel mondo basso»,—cioè
  • nello ʼnferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.
  • «Cosí sen va», verso queʼ demòni, «e quivi mʼabbandona Lo dolce padre»,
  • cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E ʼl sí e ʼl no», che
  • egli debba a me ritornare come promesso mʼha, o rimaner con coloro (sí
  • come essi il minacciavano, dicendo:—Tu qui rimarrai—), «nel capo mi
  • tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.
  • E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a queʼ demòni, «si
  • porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun
  • dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei
  • nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che
  • fuor rimase».
  • Puossi per questo atto, fatto daʼ demòni, comprendere che Virgilio
  • dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo ʼnferno a colui
  • il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché
  • egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.
  • «E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste
  • parole lʼautore lʼatto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano
  • e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come
  • glʼiracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò
  • che alcuno ha men che bene adoperato.
  • Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta
  • la turbazione del mansueto, dove in contrario lʼiracundo leva la
  • testa e fa romore; «e le ciglia avea rase Dʼogni baldanza»; in quanto
  • il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú lʼimpeto,
  • il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito,
  • cioè senza alcuno ardire, dove glʼiracundi col capo levato paiono
  • baldanzosi e arditi; «e dicea neʼ sospiri», cioè sospirando dicea
  • (nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del
  • mansueto):—«Chi mʼha negate le dolenti case?»—quasi dica: questi
  • demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono,
  • hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual
  • cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di
  • sospirare e di rammaricarsi.
  • «E a me disse», non ostante la sua perturbazione:—«Tu, perchʼio
  • mʼadiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non
  • te nʼentri alcuna paura, per ciò «chʼio vincerò la pruova», dellʼentrar
  • dentro alla cittá, «Qual, chʼalla difension», che io non vʼentri,
  • «dentro sʼaggiri», cioè si dea da fare perché io non vʼentri. «Questa
  • lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non mʼè nuova,
  • Ché giá lʼusâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro
  • al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men
  • segreta», in quanto quella è allʼentrata dellʼinferno, e questa è quasi
  • al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta e piú riposta
  • che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo
  • giá risuscitato scese allo ʼnferno a trarne lʼanime deʼ santi padri, li
  • quali per molte migliaia dʼanni lʼavevano aspettato; intorno al quale
  • il prencipe deʼ demòni coʼ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che
  • egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse
  • coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo
  • metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello ʼnferno, e
  • rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della
  • quale fa qui menzione lʼautore, cioè la men segreta, alla qual poi
  • non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual
  • senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere dʼalcuna altra,
  • percioché, secondo la discrizione dellʼautore, nello ʼnferno non ha che
  • due porte: delle quali è lʼuna quella di che di sopra è detto, e della
  • quale esso dice qui: «Sovrʼessa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per
  • me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta»,
  • percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna
  • morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale
  • Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello
  • ʼnferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.
  • E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la
  • qual senza serrame ancor si trova, «discende lʼerta». «Erta» è a chi
  • volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla
  • prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come
  • spesse volte fa lʼautore, usa un vocabolo per un altro. «Passando
  • per li cerchi», dello ʼnferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí
  • come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza,
  • alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra
  • aperta»;—di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice
  • lʼautore che, toccata la porta di quella solamente con una verga,
  • lʼaperse.
  • II
  • SENSO ALLEGORICO
  • «Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Nel presente canto
  • non è alcuna ordinaria allegoria come neʼ passati, percioché non
  • ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata
  • allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole
  • si spedirá.
  • Dicono adunque alcuni le due torri, le quali lʼautore scrive essere in
  • questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il
  • trascendimento della furia deglʼiracundi, il quale trasvá sopra ogni
  • debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte soprʼesse avere a
  • dimostrare le tre spezie deglʼiracundi discritte nel canto precedente.
  • Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme
  • semplicemente essere state discritte dallʼautore a continuazione del
  • suo poema; peroché qui parevʼessere di necessitá porre alcuna cosa, per
  • la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a
  • dovere li due venuti a riva passare allʼaltra riva, si come subitamente
  • venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.
  • Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben
  • si può comprendere lʼautore intendere il vizio dellʼiracundia, li
  • cui effetti, quanto piú possono, son conformi aʼ costumi del detto
  • Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non
  • sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo
  • detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio,
  • dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua
  • operazion rispetto, e non a quella per la quale lʼautore vuol qui che
  • egli significhi lʼiracundia; e, se contro a Virgilio sʼosasse dire, io
  • direi che in questa parte lʼautore avesse avuta assai piú conveniente
  • considerazione di lui.
  • Il navicar lʼautore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo
  • senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole
  • nel peccato dellʼira divenire, quanto piú leggiermente può, passare
  • superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite,
  • sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle
  • oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato
  • della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare
  • a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a
  • perdizione.
  • Della cittá di Dite, la qual dice lʼautore che avea le mura di ferro, e
  • deʼ demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono,
  • e, oltre a ciò, lʼavergli serrata la porta della detta cittá nel petto:
  • tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente
  • canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto
  • mi fia, ne scriverò.
  • FINE DEL SECONDO VOLUME.
  • INDICE
  • Canto quarto:
  • I. Senso letterale p. 3
  • II. Senso allegorico » 89
  • Canto quinto:
  • I. Senso letterale » 105
  • II. Senso allegorico » 147
  • Canto sesto:
  • I. Senso letterale » 165
  • II. Senso allegorico » 184
  • Canto settimo:
  • I. Senso letterale » 199
  • II. Senso allegorico » 227
  • Canto ottavo:
  • I. Senso letterale » 261
  • II. Senso allegorico » 283
  • INDICE DEI NOMI VOLUME II
  • Abacuc, profeta, 262 (_Hab_., II. 6, 9).
  • Abele, 15.
  • Abramo, 17.
  • Achille, 130 sg.
  • Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, 173 sg.
  • Adamo, 12;
  • Adimari, vedi Aldobrandi.
  • Agostino (sant’),
  • 10 (_Sermone della nativitá di Cristo_),
  • 61 (_Civ. Dei_, VIII 14),
  • 66 (_Civ. Dei_, IV),
  • 72 (_Civ. Dei_, VIII 2),
  • 113 (_Civ. Dei_, V 8 9),
  • 242; III, 19 (_Civ. Dei_, V 8 9),
  • 23 (_De haeresibus_).
  • Alberigo (_Poètria_), 221.
  • Alberto magno, 21.
  • Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 179 sg.;
  • Alí, commentatore di Tolomeo (_Comento del Quadripartito_), 140.
  • Alighieri, padre di Dante, 69, 72.
  • --Dante, 262.
  • --Gemma, moglie di Dante, 262.
  • Anassagora, 71.
  • Anassalide, uditore di Platone, 66.
  • Anselmo, arcivescovo di Canterbury (_De imagine mundi_), 41.
  • _Apocalissi_, 202, 233, 235 (XVIII, 21);
  • Apollodoro, grammatico, 29.
  • Apuleio di Madaura, 62 (_De Deo Socratis liber_);
  • Archiloco di Paro, 29.
  • Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 276;
  • Aristarco di Samotracia, grammatico, 28.
  • Aristotile, 59 sg. (vita e opere), 66, 86, 186, 212, 241, 244;
  • _Ethica_, 21, 209, 243, 250, 257, 271;
  • _Meteora_, 4, 114;
  • _Politica_, 108;
  • _De anima_, 141;
  • Asclepiade, filosofo, 68.
  • _Aspidopia_, vedi Esiodo.
  • Astiage, 177, 214.
  • Atalante, edificatore di Fiesole, 40·
  • --re di Mauritania, 40.
  • Aulo Gellio, 62 (_Noctes Atticae_, II. 1), 63 (N. A., I. 17),
  • 70 (N. A., II. 18).
  • Averrois, 61, 86.
  • Avicenna, 85.
  • Bianchi (setta dei), 171.
  • Boezio, 148 (_Cons_., I, pr. 1);
  • 72 (_De musica_),
  • 84 (_De geometria_),
  • 113 (_Cons_., IV, _pr_. 6),
  • 144,
  • 215 (_Cons_., _pr._ 1),
  • 237 (_Cons_., _met._ 5).
  • Bruto Caio Giunio, 54.
  • Bruto Marco Giunio, 7.
  • Caina, 143.
  • Caino, 15.
  • Calano d’India, 178.
  • Ca1cidio, 62 (_Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone_).
  • Callimaco, biografo d’Omero, 24, 25, 27.
  • Cancellieri di Pistoia, 171.
  • Cariddi, 203 sg.
  • Carlo di Valois, 173 sg.
  • Cassio, 7.
  • Cavalcanti Guido, 174.
  • Cerbero, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.
  • Cerchi (dei) famiglia, 170, 213.
  • --Vieri, 171 sg., 262.
  • --Ricovero, 172.
  • Cesare, 46 sg., 87.
  • Ciacco, 170, 264 sg.
  • Cicerone, vedi Tullio.
  • Clearco, uditore di Platone, 66.
  • Cleopatra, 124 sg.
  • Coppo di Borghese Domenichi, 276.
  • Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, 41.
  • Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.
  • Corniglia (Cornelia), 58.
  • Creso, 214.
  • Curzio Quinto, 26.
  • David, 18 e vedi Salmista.
  • Democrito, 67.
  • Diogene, 69 sg.
  • Dioscoride, 74.
  • Donati, famiglia de’, 170, 213.
  • --Corso, 171.
  • Eaco, 242 (_Ecclesiasticus_, X 9).
  • Elena, 127 sg.
  • Elettra, 40.
  • Empedocles, 72.
  • Enea, 44, 87.
  • Eraclito, 73.
  • Eratostene, 28.
  • Ercole, 97.
  • Ermolao, tiranno di Atene, 27.
  • Ettore, 43.
  • Euclide, 83.
  • Eusebio (_Liber temporum_), 9, 29, 30, 32, 33, 43, 54, 71, 72, 77,
  • 95, 109, 123, 201, 268.
  • Falacro, filosofo, 25.
  • Faro di Messina, 203.
  • Federico II, imperatore, I, 7, 8,
  • Fiandra, 259.
  • Filocoro, 29.
  • _Filosofia_ (_Della_), opera di Clearco e Anassalide, 66.
  • Firenze, 172 e _passim_.
  • Flegias, 267 sg., 283.
  • Francesca da Rimini, 137 sg.;
  • Galeotto, 145.
  • _Genesi_, 12 (I. 27), 15 (IV. 2-8), 19 (XXXII. 1-32), 176 (I. 26),
  • 190 (III), 233 (III. 1, 14).
  • Geremia, profeta, 92 (VIII. 7), 192.
  • Giandonati Arrigo, 179.
  • Giovenale, 34, 67 (_Sat_., X. 33-35), 215 (_Sat_., X. 365-6),
  • 219 (_Sat_., X. 365-6), 243 (_Sat_., XIV. 135-7).
  • Giulia, figliuola di Giulio Cesare, 58.
  • Giustiniano, 28.
  • Giustino (_Historia_), 51 (II. 4), 52 (XLIII. 1), 63 (II. 10).
  • Iacopo (san), 242 (_Epist_., V. 1); III, 254 (barone di Galizia).
  • Iob, 192 (VI. 6; XV. 16).
  • Isaac, 19, 172, 175 (XI. 2-3); II, 96 (XL. 13), 192 (XXIV. 9).
  • Isopo, 243.
  • Israel (Iacob), 18.
  • Lamberti (de’) Mosca, 179.
  • Lancellotto, 144.
  • Latino, re dei laurenti, 52.
  • Lattanzio, 74, 76 (_Divinarum institutionum_, I. 23), 201
  • (_Div. inst._, I. 11), 267.
  • Leon tessalo, vedi Pilato.
  • Lavina, figlia di Latino, 54.
  • Leontonio, ateniese, protettore di Omero, 27.
  • Lino, 78.
  • Livio Tito, 45 (_Hist_., XL. 4).
  • Lucano, 25, 33, 57 (_Pharsalia_, II. 326 sg.),
  • Lucrezia, 55, 87.
  • Macrobio, 124 (_Saturn_., V. 17).
  • Malatesti Gianciotto, 137 sg.
  • Malespina Morruello, 263.
  • Maometto, 277.
  • Marzia, moglie di Catone, 57.
  • Mela Pomponio, 71 (I, 17, § 86.
  • Moisé, 16.
  • Museo, 77.
  • Nepote Cornelio, 29.
  • Neri (setta dei), 171.
  • Nerone (_Troica_), 133.
  • Nino, 117 sg.
  • Noé, 15.
  • _Numeri_, 233 (XXI. 6-9).
  • Oderisi da Gobbio, 29 sg., 34, 53 (_Carm_., III. 17, vv. 7-8).
  • Orfeo, 74 sg.
  • Ovidio, 4 (_Metam_., XI. 623-5),
  • 30 (_Tristia_, X. 3-4, 26, 21-22),
  • 31 (opere),
  • 32 (_Tristia_, II. 207, 103, 108),
  • 40 (_Fasti_, IV. 169-78),
  • 75 (_Metam_., X. 78-85),
  • 86, 108 (_Metam._,VIII. 166-75),
  • 134, 229 (_Metam._, V. 346 sg.).
  • Pantasilea, 50.
  • Paolo (san), II _Tim_., IV. 4; I _Cor_., XIV. 38),
  • 192 (_Ephes_., V. 18),
  • 238 (_Ephes_., V. 5).
  • _Paradiso_ (cantica), 208.
  • Parche, 219.
  • Pasife, 107.
  • Perini Dino, 264.
  • Persio, 34, 242 (_Sat._, III. 66, 69-70).
  • Petrarca Francesco, 61.
  • Pilato Leone (Leonzio Pilato), 24, 77, 232, 201, 227.
  • Plauto, 34.
  • Pleiadi, 40 sg.
  • Plinio, 48 (_Hist. nat_., VII. 25),
  • 85 (_Hist. nat_., XXIX. 2).
  • Po, 139.
  • Poggi Leone, 262.
  • --Andrea, 262 sg.
  • Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.
  • _Proverbi_, vedi Salomone.
  • _Purgatorio_ (cantica), 169, 200, 208;
  • Rabano Mauro, 74 (_Liber originum_, XVIII. 4),
  • 76 (_Orig_., XVIII. 4),
  • 84 (_Orig_., XVIII. 5),
  • 85 (_Orig_., XVIII. 5),
  • 232.
  • Rachele, 19.
  • Rusticucci Iacopo, 179.
  • Saladino, 59.
  • Salmista, 92 (_Ps._ XXXV. 4),
  • 97 (_Ps._, XVIII. 4-5),
  • 99 (_Ps._, LVII. 5-6),
  • 184 (_Ps._, VIII. 8-9),
  • 234 (_Ps._. CXVII, 22),
  • 272 (_Ps._, IV. 5).
  • Santa Lucia di Napoli, 221.
  • _Sapienza_ (_Liber sapientiae_), 192.
  • Semiramis, 117 sg. (III. 813-14),
  • 4 (_Herc. fur_., IV. 1065-77),
  • 33-34, 64 (_Epist. ad Lucilium_, VI),
  • 67 (_Epist. ad Luc_., LXI),
  • 69 (_De beneficiis_, I1 4),
  • 70 (_De ira_, III. 38),
  • 78 sg., 87, 140 (_Hippolytus_, I. 294-301),
  • 192, (_Epist. ad Luc_., XXIV),
  • 223 (_De sacris Aegyptiorum_),
  • 229 (_Herc. fur_., III. 782-8),
  • 239 (_Epist. ad Luc_., IV),
  • 242 (_Epist. ad Luc_., XVII),
  • 274 (_Thyestes_, II. 344 sg.).
  • Simonide poeta, 177.
  • Solino, 76 (_De mirabilibus mundi_, X. 8)
  • 126-27 (_De mir. mundi_, XXVII. 31, 41, non citato nel testo).
  • Speusippo, nipote di Platone, 66.
  • Spurima, giovane romano, 153.
  • Stazio, 76 (_Theb._, V. 344, 435),
  • 228 (_Theb._, VIII. 21-6),
  • 254 (_Theb._, VIII. 739 sg.).
  • Stige, 211,
  • 207 (_Vit_., §§ 1-4),
  • 46 (_Vit_., I, § 13),
  • 48-9 (_Vit_., I, §§ 56, 51, 49, 51, non citato nel testo).
  • Tacito, Cornelio, 34 (_Annales_, XV. 56, 57; XV. 69, 70),
  • 80 sg. (_Ann_., XII, I. 8; XIII. 2; XII. 67, 68; XIII. 16; XIV. 8,
  • 63, 64, 60, 51; XIII. 2; XIV. 53-56, 65; XV. 60-65).
  • Tale (Talete), 71.
  • Teodonzio, 76, 31, 35, 37, 98.
  • Terenzio, 34, 163;
  • Tertullio, 65.
  • Tolomeo astronomo, 84.
  • Tosinghi, 213.
  • Tristano, 134 sg.
  • Trogo Pompeo, 51.
  • Tullio Cicerone, 28 (_Tusculanae quaestiones_, I. 39),
  • 48 (_Brutus_, § 72),
  • 62, (_Tusc._, II),
  • 64 (_De senectute_, § 5),
  • 68 (_Tusc._, V. 39),
  • 71 (_Tusc._, I. 43),
  • 77 sg., 128 (_De inventione_, II. 1),
  • 132 (_De divinatione_, I. 21),
  • 140 (_De natura deorum_, III. 23), 177 sg. (_Div_., I. 27, 30),
  • 232 (_In Verrem_, IV. 50),
  • 239 (_De officiis_, III. 5),
  • 242 (Off., I. 20).
  • Valerio Massimo, 58 (IV, 6. § 4, non citato nel testo),
  • 61 (III. 4 _ext._ 1),
  • 62 (VII. 2 _ext._ 1),
  • 69 (IV. 3 _ext._ 4),
  • 73 (III. 3 _ext._ 2, non cit.),
  • 74 (III. 3 _ext._ 3),
  • 83 (VIII. 12 _ext._ 1),
  • 117 (IX. 3 _ext._ 4, non cit.),
  • 153 (IV. 5 _ext._ 1, non cit.),
  • 177 (I. 7 _ext._ 3; I. 5, non cit.).
  • Verona, 262.
  • Villani Giovanni, 173 (_Cron._, VIII. 39 sg.).
  • Virgilio, 37 (I, 378),
  • 39 (VI. 753-5),
  • 46 (IV. 615-21; X. 606 sg.),
  • 52 (VII. 45-8),
  • 53 (XII. 164), 109 (VI. 422-3),
  • 134 (X. 92),
  • 142 (VI. 472-4),
  • 168 (VI. 417-23),
  • 169,
  • 221 (VI. 323-4),
  • 223,
  • 228 (V. 548-9),
  • 230 (VI. 563),
  • 242 (III. 56-7),
  • 268 (VI. 218-20, 412-14),
  • 278 (VI. 552-8).
  • _Vitis_ (_de_) _philosophorum_ (_Libellus de vita et moribus
  • philosophorum_), 61.
  • Zenobia, regina di Palmira, 153.
  • Zenone, 73 sg.
  • Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, 68.
  • End of the Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
  • altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio
  • *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL COMENTO ALLA DIVINA ***
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